LIBER 23 DICEMBRE 2015.pub

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LIBER 23 DICEMBRE 2015.pub
Liber n. 23
Anno V
Dicembre 2015
Gentilissimo lettore,
ecco il ventitreesimo numero di Liber con il quale sottoponiamo alla Sua attenzione 137 pagine
dedicate alle nuove acquisizioni della Cineteca “Ugo Riccarelli”, con 140 nuovi DVD che costituiscono il primo aggiornamento in seguito all’inaugurazione del nuovo servizio effettuata il 24
ottobre
Con l’approssimarsi delle festività natalizie, ci sia consentito esprimere l’augurio, a tutti i nostri
utenti, di un sereno Natale e di un felice Anno Nuovo.
Il personale della Biblioteca Civica “Alvaro”Corghi”
21 GRAMMI
Un film di Alejandro González Iñárritu. Con Sean
Penn, Benicio Del Toro, Naomi Watts, Clea Duvall,
Danny Huston.
Titolo originale 21 Grams.
Drammatico, durata 125 min. - USA 2003.
Middle America.
Un ex malavitoso Jack Jordan (Benicio Del Toro) torna a casa in
macchina per la festa del suo compleanno. Affrontando una curva in modo sconsiderato investe e uccide un padre con le sue 2
bambine. Nonostante la sua sofferenza, Cristina (Naomi Watts)
concede il dono del cuore di suo marito. Il felice beneficiario di
questo dono, Paul (il bravissimo Sean Penn) rinasce una seconda
volta e si allontana da sua moglie (Charlotte Gainsbourg) per andare alla ricerca della donna che il suo nuovo cuore aveva amato
fino all'incidente.
Ecco presentato in lineare la trama di un film denso che ruota, come fa il montaggio, intorno alle vicende devastanti dei tre protagonisti che provano a ritrovare il senso della loro vita.
Scavando profondamente nel dramma, il film tratta di molti (forse troppi) argomenti: fanatismo religioso, inseminazione artificiale, dono di organi, aborto, vendetta, ingiustizia della sorte, moralità, paura della morte e peso della propria vita: 21 grammi (dicono che sia il peso che perdiamo al momento della
morte!) nella bilancia con il peso della vita dei propri cari.
Interpretato magistralmente dai 3 protagonisti, questo film ricco di emozioni drammatiche sconcerta di
sicuro ma non lascia indifferenti.
PAGINA 2
Liber n. 23
LA 25a ORA
Un film di Spike Lee. Con Edward Norton, Philip Seymour Hoffman, Anna Paquin, Rosario Dawson, Brian Cox.
Titolo originale 25th Hour.
Drammatico, durata 134 min. - USA 2002.
Montgomery Brogan è un pusher che conduce una vita agiata sulle
rive dell'Hudson. Monty, per gli amici, ha deciso di ritirarsi dal narcotraffico e di vivere di rendita con la sua bellissima portoricana. Ma
una soffiata lo condanna a scontare sette anni di carcere. Gli restano
ventiquattro ore per riconciliarsi col padre, congedarsi dagli amici, un
broker di Wall Street e un'insegnante di letteratura inglese, e decidere
della sua 25a ora: la prigione, il suicidio, la fuga. Le ventiquattro ore
di Monty, prima della galera, dei denti rotti e degli stupri, della violenza e del sadismo, della miseria e della paura, sono un'elegia che
Spike Lee dedica al suo personaggio e alla sua personale New York.
Liberamente interpretata come una metafora delle vicende newyorkesi, la storia di Monty in verità è del
tutto autonoma, nel senso che per ogni cittadino di New York la storia personale è anche quella della
città e delle sue atmosfere. Non è un caso che il romanzo di David Benioff, da cui il film è tratto, sia stato scritto prima dell'undici settembre, mentre Lee decide di proiettare sul racconto il fascio oscuro della
luce liberata dalla tragedia. Nessun altro film riesce ad essere viscerale come La 25a ora, dove la rappresentazione del dolore è scoperta e ammirevolmente impudica. Spike Lee costruisce un tempo che si ripete uguale a se stesso per dilatare all'infinito le ore di Monty, le ore di New York prima dell'impatto fatale,
prima di un'ora dopo la quale niente sarà più lo stesso e prima della quale tutto poteva essere ancora. In
quella zona liminare in cui non sai dire se poi sia giorno o sia notte, in quella sospensione in cui Lee sorprende Monty e i suoi amici, in quella luce che è aurora dentro un crepuscolo, il regista inserisce due sequenze strazianti: la rovina del volto, che Monty chiede di eseguire all'amico pur di non essere stuprato in
carcere, e il lungo viaggio col padre, che assume il ruolo tradizionale dello storyteller irlandese, con il
compito di tramandare le storie folkloriche della sua terra e rassicurare per il futuro.
Ribaltando l'assunto, il padre di Monty gli prospetta un futuro da fuggiasco e una vita ricominciata altrove, con un'altra identità, mentre lo spettatore assiste al concretizzarsi di questo universo narrativo.
Si tratta di quella che Lynch chiamerebbe "fuga psicogena", tanto intensa da materializzarsi. Ma Monty è
ancora lì e sta andando in prigione. E allora il film si rivolge a tutti coloro che hanno avuto una 24a ora una forma di addio, di lutto, di separazione - e soprattutto a chi ha osato immaginarne una venticinquesima: l'espressione più bella di una vita mancata.
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Liber n. 23
ABBASSO LA RICCHEZZA!
Un film di Gennaro Righelli. Con Anna Magnani, Virgilio Riento, Lauro Gazzolo, Vittorio De Sica, Galeazzo Benti.
Commedia, b/n durata 93 min. - Italia 1946.
Gioconda Perfetti, una fruttivendola romana che si è arricchita
nell'immediato dopoguerra con la borsa nera, riesce a farsi assegnare una splendida villa disabitata di proprietà del conte
Ghirani, che ha dovuto allontanarsi per lo sfollamento causato
dalla guerra, e vi si trasferisce dalla natìa Trastevere con la sorella ed un amministratore.
Non sapendo dove abitare il Conte le chiede di poter abitare
negli scantinati della villa e la donna, conquistata dai modi raffinati dell'uomo, glielo concede. L'ex fruttivendola, nonostante gli avvertimenti del Conte sull'ebbrezza
che può dare l'improvvisa ricchezza, si dà alla bella vita ed entra in contatto con personaggi che, apparentemente nobili ed altolocati, sono in realtà dei truffatori che la raggirano con il gioco d'azzardo e vendendole un anello falso. Per questo rischierà anche di essere perseguita dalla Giustizia e solo l'intervento del
Conte, che l'ha presa a benvolere pur essendosi appropriata della sua casa, la tirerà fuori dai guai.
Nel frattempo, seguendo le illusorie indicazioni di altro profittatore, investe tutta la sua ricchezza in un
affare connesso al recupero delle navi affondate...
Seguito ideale del più fortunato Abbasso la povertà del 1944, Abbasso la ricchezza! mette al centro della
scena ancora la Magnani, più verace che mai, quasi caricaturale nei suoi gesti, nella voce troppo grossa
e negli abiti borghesi portati con una certa goffaggine. Ma l'attrice non veste soltanto i panni di una
popolana fiera e disposta a tutto pur di sopravvivere; più in generale, rappresenta la situazione umana del particolare momento storico, dove niente è più importante del cibo portato in tavola e
della possibilità, anche poco onesta, di guadagno.
Righelli non rinuncia ad inserire un elemento di novità nella rappresentazione di un membro
dell'aristocrazia (il conte Ghirani) completamente estraneo alla vecchia ideologia del regime
(rappresentata invece dai ladri di professione).
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Liber n. 23
ACHTUNG! BANDITI!
Un film di Carlo Lizzani. Con Gina Lollobrigida, Andrea
Checchi, Lamberto Maggiorani, Vittorio Duse, Pietro
Tordi.
Guerra, b/n durata 95 min. - Italia 1951.
La guerra sta per finire e a Genova un gruppo di partigiani è incaricato di una pericolosa missione: impedire che i nazisti portino con
loro in Germania i macchinari di una fabbrica d'armi. L'azione è
difficile, ma essi ottengono la solidarietà degli operai che difendono
così anche il proprio posto di lavoro. Quando tutto sembra perduto, l'intervento decisivo di un battaglione di alpini porta il gruppo
alla vittoria.
Sebbene dal 1951 si cominciasse a parlare di primo boom economico, in Italia molti cineasti continuavano a rivolgere il proprio sguardo al passato. Il neorealismo, al
tramonto, forniva ancora stimoli importanti. Il primo film di Lizzani narra, una volta di più, l'epica
partigiana, ambientando la storia a Genova e sulle cime dell'Appenino ligure.
Si tratta di un film dal forte impianto corale, che – ed è qui che sta la sua originalità – insiste sul destino
di alcuni repubblichini convinti ad arruolarsi tra le forze partigiane. In assenza di un robusto apporto
produttivo, Lizzani ebbe l'idea di una sottoscrizione: Achtung! Banditi! fu dunque prodotto dagli operai
liguri insieme al cast tecnico. La nascita di questa cooperativa fu resa possibile dalla straordinaria coesione intellettuale e solidaristica tra i protagonisti del neorealismo e del post-neorealismo.
Molto criticato all'epoca per lo schematismo della trama, il film di Lizzani offre invece uno spaccato originale dell'organizzazione partigiana nelle fabbriche e una rappresentazione efficace del tessuto urbano di
Genova, in particolare della periferia industriale. La Resistenza, secondo la visione degli sceneggiatori, deve
essere ricordata come una sollevazione collettiva guidata dalla classe operaia: le restanti componenti sociali
(ciascuna rappresentata da qualche personaggio), dalla borghesia intellettuale agli studenti, dai contadini
alle donne, si sono aggregate solo in seguito.
Gina Lollobrigida, bellezza in ascesa, fu scritturata nella speranza di rendere il film più appetibile dal punto
di vista commerciale.
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Liber n. 23
ALCUNI GIORNI DELLA VITA DI
I.I.OBLOMOV
Un film di Nikita Mikhalkov. Con Oleg Tabakov, Elena Solovej, Andrei Popov, Yuri Bogatryev, Avangard Leontyev.
Titolo originale Neskol'ko dnej iz Zizni I.I. Oblomova.
Commedia, durata 143 min. - URSS 1979.
Oblomov è un proprietario terriero che vive a Pietroburgo
grazie alla rendita di una sua remota e trascurata tenuta di
campagna. I suoi giorni trascorrono nella più totale inattività.
Oblomov vive sdraiato su un emblematico divano, passando
il tempo a dormire e sognare. Egli ha rinunciato alla carriera
nella burocrazia, ritenuta inutile ed umiliante per l'uomo, ed è disgustato dalla vita di società, la quale gli
appare come falsa, gretta e superba, nonché priva di scopi spirituali.
Nemmeno i ripetuti tentativi dell'amico d'infanzia Andrej Ivanovič Stolz, energico e laborioso figlio di un
tedesco, e, soprattutto l'amore di Ol'ga Sergeevna, riescono a condurre Oblomov ad un cambio di vita…
Tra commedia, dramma e reverie, Nikita Michalkov rilegge il capolavoro di Goncarov, con raffinate scelte
stilistiche e narrative, illuminando il personaggio di Oblòmov con uno sguardo sensibile e indulgente,che
traduce il suo malinconico rimpianto per il passato in un anelito di poesia e di un fragile equilibrio con
quel mondo a cui gli si chiede, invano, di appartenere.
Michalkov condensa il nono capitolo della prima parte, Il sogno di Oblòmov, dedicato allo struggente ricordo di Oblòmovka, la sua Itaca perduta,in alcuni onirici flashback, impreziositi dalla splendida e pittorica
fotografia di Pavel Lebesov, e contrappuntati dalla bellissima, malinconica musica di Eduard Artemiev.
Con una mirabile fluidità narrativa, Michalkov fa vivere il fragile amore di Olga e Oblòmov nello spazio
di una luminosa estate campestre, dove il protagonista, uno straordinario Oleg Tabakov, coltiva per un
breve, incantevole attimo, l'illusione di appartenere a quella vita affollata di progetti che, in realtà, la sua
anima sognatrice non è mai riuscita a concretizzare.
Splendida dunque la sequenza nel bosco, dove Il'ja Il'ic quasi soccombe, sgomento, all'ardore pudico della sua innamorata, a quel bacio sulla guancia che resterà per lui indimenticabile.
Michalkov coglie con penetrante sensibilità il fascino luminoso del carattere di Olga, ne schizza un ritratto appassionato e vibrante,senza voler contrapporre,come avviene invece nel romanzo, la sua incapacità
di condividere pienamente "la fantasia di eterno adolescente" di Oblòmov alla devota e instancabile dedizione
di Agàfja Matveevna, che gli resterà al fianco, con toccante abnegazione, fino alla morte.
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Liber n. 23
ALL THAT JAZZ
Un film di Bob Fosse. Con Roy Scheider, Jessica Lange,
Leland Palmer, Ann Reinking, Cliff Gorman.
Titolo originale All that Jazz.
Drammatico, durata 126 min. - USA 1979.
"Si va in scena!".
All That Jazz è un musical affascinante, inventivo e intimamente
autobiografico che ancora oggi divide il pubblico.
Evidente omaggio a 8½ (1963) di Fellini e disarmante testamento del grande coreografo americano Bob Fosse – che progettò,
scrisse e realizzò il film subito dopo un intervento a cuore aperto – il
film vede come alter ego del regista Joe Gideon (Roy Scheider), un
coreografo e regista fumatore, impasticcato e donnaiolo. Mentre ha
in preparazione un nuovo spettacolo intensamente erotico, Joe è
troppo impegnato a seguire i ballerini di fila e a corteggiare le ragazze per occuparsi dei suoi gravi
dolori al petto. Morirà gradatamente (cercando di sedurre Jessica Lange che impersona un angelo – o
la morte stessa – e che lo accompagna per tutto il film) mentre nella sua mente ricorda i fallimenti, i
successi professionali e i momenti toccanti di tutta una vita.
Geniale o pretenzioso, il film descrive con un'ironia feroce la vita dietro le quinte, rappresentando in modo convincente l'esaltazione ossessiva di chi si dedica al grande teatro.
Tra sensazionali balletti su brani jazz (ma non solo: Bob Fosse utilizzava anche musica rock e canzoni d'autore) e scene memorabili (il casting iniziale sulle note di "On Broadway" nella versione di
George Benson, il monologo del carismatico "presentatore" Ben Vereen), assistiamo alle confessioni
e ai ricordi di una vita: su tutto domina il vago rimorso nei confronti delle donne che Gideon ha
amato, usato e lasciato (una delle quali è un evidente riferi­mento alla terza moglie di Fosse, la star di
Broadway Gwen Vernon).
Il film, dal ritmo avvincente e con un montaggio mozzafiato, vinse quat­tro meritati Oscar e, insieme a Cabaret (1972), è tra i migliori musical degli ultimi trent'anni. Un epitaffio per il regista che se
ne sarebbe andato quasi dieci anni più tardi: Fosse morì per un attacco cardiaco nel 1987, durante il
debutto di un revival di di Sweet Charity - Una ragazza che voleva essere amata (1969), il suo primo successo di Broadway, poi trasposto nel suo film d'esordio.
L'eredità di Fosse si è fatta sentire in Chicago (2002) di Rob Marshall, un film tratto da un vecchio
musical del duo Kander-Webb riela­barato nella cupa danse macabre dallo stesso Fosse negli anni Settanta.
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Liber n. 23
ALLEGRO NON TROPPO
Un film di Bruno Bozzetto. Con Maurizio Nichetti,
Maurizio Micheli, Maria Luisa Giovannini, Néstor
Garay
Comico, durata 85 min. - Italia 1977.
Un Regista vuole fare un film d'animazione su brani musicali: un Direttore d'orchestra suggerisce al Disegnatore la musica, ma questi preferisce ispirarsi alla ragazzina delle pulizie
o a una sgualdrina...
Il Preludio al pomeriggio di un fauno di Debussy (un vecchio fauno è rifiutato dalle belle ninfe), una Danza slava di Dvorák
(un omino si scopre suo malgrado un leader), il Bolero di Ravel (l'evoluzione dal brodo primordiale a oggi), il Valzer triste
di Sibelius (le malinconiche memorie di un gatto), un Concerto grosso di Vivaldi (il difficile pic-nic di un'ape attempata) L'uccello di fuoco di Stravinskij (dalla creazione del
mondo alla civiltà dei consumi).
Bozzetto avverte subito (tramite il presentatore, Maurizio Micheli): questo film segue la scia di Fantasia di
Walt Disney, anche se non ha alcuna intenzione di scimmiottarlo o plagiarlo. Ed è vero: perchè la componente ironica/comica della storia - sia nella parte animata che nella parte 'in carne e ossa' - scritta dal
regista, da Maurizio Nichetti e da Guido Manuli è quasi del tutto sconosciuta al capolavoro americano e
anche perchè lo stile fumettistico dell'italiano è piuttosto differente da quello del pluripremiato collega
d'oltreoceano. E se gli sketch a cartoni animati sono divertenti, commoventi, bizzarri, la parte 'dal vero'
non è assolutamente da meno: oltre ai due attori citati - entrambi al primo ruolo di un certo rilievo al cinema, entrambi con un ottimo futuro davanti - c'è anche una simpatica orchestra di vecchiette dirette da
Nestor Garay. E le musiche sono selezionate fra Sibelius, Stravinsky, Vivaldi, Debussy, Ravel e altri compositori di prim'ordine: c'è il ritmo, c'è l'emozione, c'è la colonna sonora, ci sono gli interpreti. Per tutti
questi motivi, pur essendo 'solo un film a episodi', Allegro non troppo può dirsi opera sincera e sinceramente riuscita; Bozzetto d'altronde era noto ormai da molto tempo e aveva già realizzato una lunga serie
di cortometraggi (e qualche lungometraggio), soprattutto con protagonista l'indimenticabile signor Rossi.
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Liber n. 23
L’ALTRA FACCIA DELL’AMORE
Un film di Ken Russell. Con Glenda Jackson, Richard Chamberlain,
Christopher Gable, Max Adrian
Titolo originale The Music Lovers.
Biografico, durata 125 min. - Gran Bretagna 1971.
Piotr Ilic Ciaikovski, giovane insegnante presso il Conservatorio di musica di
Mosca, esegue per la prima volta un suo concerto per pianoforte e orchestra in
una sala gremita di studenti, di membri della "Società di musica" e di persone
che abitualmente lo attorniano. Mentre il pubblico reagisce con entusiasmo,
Rubinstein, direttore della Scuola e nume tutelare del giovane, si esprime viceversa con molta severità. Il compositore, reagisce in malo modo rifiutando i
consigli del maestro, rischia di perdere il posto; ma in suo soccorso interviene
una ricca vedova ammiratrice del suo geniale talento, Nedeshda Von Meck,
ricchissima vedova del costruttore della transiberiana, la quale gli assicura un
vitalizio a condizione che si dedichi esclusivamente alla composizione, però
senza mai vedersi o incontrarsi. Piotr, invia numerose musiche alla mecenate e intrattiene con lei una fitta
corrispondenza, poiché la signora ha scelto di non incontrarlo mai, ma di essere sempre la prima a conoscere ogni sua composizione. Nel frattempo, Piotr conduce una vita privata sempre più ambigua, nella
quale fanno spicco la sorella Sasha e il conte Anton Chiluvski, un personaggio amorale e assai portato a
fare baldoria e approfittarsi di Piotr. Piotr da piccolo assisté inconsapevolmente alla morte della madre
affetta di colera, l'unico rimedio possibile all'epoca era di immergere in una vasca di acqua bollente l'ammalato che il più delle volte moriva atrocemente ustionato, questo turbò irrimediabilmente, enormemente il piccolo Piotr per tutto il resto della sua vita. Nella disperata ricerca di un equilibrio spirituale, Peter
accetta l'offerta appassionata di un'avventuriera, Nina Ivanovna Milukova, che sposa contro il parere di
tutti, ma che abbandona dopo poche settimane di vita in comune, poiché, nonostante ogni tentativo possibile l'amore non viene consumato per il complesso di Edipo che lo affligge, portando alla più disarmante disperazione entrambi i coniugi. Ancora una volta la Von Meck lo soccorre, ospitandolo in una sua
villa di campagna, dove il compositore ha modo di lavorare fino a raggiungere la celebrità…
Il visionario ed esteta Russell racconta, con stile delirante (si vedano le scene del treno e del manicomio),
una storia d'amore ambigua e "impossibile". Il ritratto di Ciaikovskij che ne esce, pur negli eccessi, resta
difficile da dimenticare. Quando uscì, il film colpì molto la critica e il pubblico. Oggi, potrebbe lasciare
perplessi o persino indifferenti.
PAGINA 9
Liber n. 23
LE AMICHE
Un film di Michelangelo Antonioni. Con Gabriele Ferzetti, Yvonne Furneaux, Ettore Manni, Valentina Cortese, Eleonora Rossi Drago.
Drammatico, b/n durata 106 min. - Italia 1955.
Da Roma, Clelia arriva a Torino per gestire un atelier. Appena
giunta in albergo entrerà in contatto con Momina, una ragazza
oziosa e di agiata condizione sociale, la cui amica Rosetta, la
notte prima, ha tentato il suicidio per via di un amore non corrisposto. In breve, entrerà nel giro delle due donne, conoscendo
anche Nene, ceramista di successo, e il suo uomo, Lorenzo, un
pittore fallito che mal sopporta i successi della compagna. La
vita di Clelia sarà presto assorbita dalle abitudini e dal modo di
pensare di quest'annoiata borghesia.
Da Tra donne sole di Cesare Pavese, contenuto all'interno del trittico La bella estate, Michelangelo Antonioni
estrae un'opera di forte indagine psicologica, servita da dialoghi secchi, lineari e per questo ancora più
idonei a sviscerare l'indolenza in cui tutto è immerso. Con attento sguardo antropologico su una Torino
borghese, vista dagli occhi di chi vi è appena ritornata da un'altra città, Le amiche fornisce un campionario
umano di scorata tristezza, fatto di sotterfugi e piccole ignobiltà, fallimenti e diffusa mancanza d'amore. I
rapporti tra i personaggi, infatti, sembrano fare capo soltanto ad una congenita assenza di fiducia nell'altro, all'opportunità e alla convenzione, ad una dipendenza affettiva che è gabbia e croce per entrambi i
sessi. Ci sono pagine bellissime nel quarto lungometraggio dell'autore ferrarese, sequenze che racchiudono molto della sua futura poetica: la gita al mare, in cui nuovi equilibri si stabiliscono senza sottolineature
o toni forti, è quasi un film nel film, la prova generale per quel cinema dell'incomunicabilità e del disagio
che dal successivo Il grido renderà grande Antonioni.
In certo modo, Clelia, le amiche e gli uomini orbitanti intorno a loro hanno più da dividere con i personaggi di L'avventura e dei successivi titoli che con la fonte letteraria dichiarata nei titoli di testa: «nella conversione dalla pagina allo schermo si perdono le mitologie pavesiane e si privilegia l'attenzione nei confronti dei riti delle nevrosi, del vuoto ideale e affettivo della borghesia torinese» (Gian Piero Brunetta,
Storia del cinema mondiale, Einaudi).
Fotografato stupendamente da Gianni Di Venanzo, Le amiche è pregno di un informe senso di mistero, di
una noia soffusa eppure asfissiante tipica del grande cineasta.
La sceneggiatura è opera di Antonioni e di due donne: Suso Cecchi D'Amico e Alba de Céspedes.
Premiato con il Leone d'argento al Festival di Venezia.
PAGINA 10
Liber n. 23
L’ANNO SCORSO A MARIENBAD
Un film di Alain Resnais. Con Giorgio Albertazzi, Delphine
Seyrig, Sacha Pitoëff, Françoise Spira, Pierre Bardaid
Titolo originale L'année dernière à Marienbad.
Drammatico, b/n durata 93 min. - Francia 1961.
L'anno scorso a Marienbad rappresenta una pietra miliare del cinema
moderno in generale, e in particolare della produzione postbellica
francese.
Fu subito chiaro che il secondo film di Alain Resnais – come il
primo, Hiroshima, Mon Amour, realizzato nel 1959 – segnava un
distacco radicale dal predominio consolidato della "tradizione di
qualità", un'espressione coniata dai colleghi appena più giovani
di Resnais. Non era semplice anticonformismo, né eccentricità:
si trattava di un energico assalto agli assunti di base della narrazione cinematografica per esaminare e sovvertire ogni aspetto
della cinematografia "corretta": struttura temporale, composizione fotografica, sviluppo dei personaggi.
Marienbad non è una creatura solo di Resnais. La sua grandezza è anche merito della sceneggiatura poetica e sognante, squisitamente confezionata da Alain Robbe-Grillet – arguta ed eccentrica anche più di quanto non si pensi – e della maestosa fotografia (pensata per lo schermo panoramico) di Sacha Vierney, un capolavoro a sé.
Il film attinge inoltre agli approfondimenti dei critici dei Cahiers du Cinéma, agli sviluppi della
pittura moderna, alle frange esistenzialiste e bergsoniane della filosofia europea, oltre ad altre
influenti innovazioni teoriche, culturali e sociopolitiche di un periodo estremamente fertile per la
cultura francese.
E poi c'è lo straordinario cast, con una leggendaria Delphine Seyrig, la donna chiamata A, un
inimitabile Giorgio Albertazzi, l'imperscrutabile straniero X, e un sottile ed espressivo Sacha
Pitoéff, il perplesso marito del racconto. Gli attori interpretano gli enigmatici personaggi di
questo intreccio indecifrabile con un senso di passione pacatamente trattenuta, in perfetto
accordo con le atmosfere eleganti del racconto.
In un albergo (o si tratta di una clinica di lusso?) dove passato, presente e futuro si mescolano e
si confondono, X corteggia A insistendo sul fatto di averla già conosciuta in precedenza. Ma la
verità non è di facile individuazione, in un turbinio di ricordi sempre in bilico tra realtà e immaginazione.
Tuttavia, considerare Marienbad principalmente come un film di Resnais significa riconoscerne
sia la relazione con altri capolavori del regista – Muriel, il tempo di un ritorno (1963), Providence (1977)
e Mon Oncle d'Amérique (1980), tra gli altri – sia la sua importanza per il nuovo cinema. Con la modestia che lo contraddistingue, Resnais ha definito Marienbad un "tentativo rozzo e primitivo"
di catturare "la complessità del pensiero e i suoi meccanismi".
PAGINA 11
Liber n. 23
L’ARTE DI ARRANGIARSI
Un film di Luigi Zampa. Con Alberto Sordi, Franco
Coop, Elli Parvo, Armenia Balducci, Nando Bruno.
Commedia, b/n durata 100 min. - Italia 1954.
Rosario Scimoni, un opportunista senza scrupoli, nipote del
sindaco di Catania, è sempre pronto a schierarsi con chiunque
possa aiutarlo. Passa dal socialismo al fascismo con apparente
cinismo; cambia fede politica con la stessa facilità con cui cambia le donne. Dopo essere stato braccio destro di un onorevole
e amministratore di molini, nel dopoguerra arriva a Roma e
tenta di girare un film, dapprima cercando l'appoggio dei comunisti, e con la vittoria dei democristiani è costretto a cambiare la sceneggiatura. Il film religioso, con protagonista l'ennesima fidanzata, è finanziato con i capitali di un duca il quale,
convinto di finanziare le missioni estere, non appena scopre la verità lo fa arrestare e condannare a cinque anni di carcere. Una volta uscito, Rosario tenta di fondare un partito proprio, ma alle elezioni prende
pochissimi voti e si ridurrà a vendere lamette da barba con la sua nuova compagna.
"Un uomo per tutte le stagioni", potrebbe essere il sottotitolo del film.
L'arte di arrangiarsi è uno di quei film che sembra essere sempre attuale. L'opportunismo politico e ideologico rappresentano probabilmente il vizio italiano per eccellenza, e dunque la parte del voltagabbana non poteva che spettare ad Alberto Sordi, la figura più canagliesca della commedia nostrana. A lui toccano i molti "assolo" del film, come quando si finge pazzo allo scopo di non partire per la Prima guerra mondiale – pur essendo stato interventista fino al giorno prima. Come
per Anni difficili (1948) e Anni facili (1953), anche in questo caso buona parte della satira graffiante
del testo la si deve a Vitaliano Brancati, che con Zampa aveva creato un lungo sodalizio.
PAGINA 12
Liber n. 23
AURORA
Un film di Friedrich Wilhelm Murnau. Con George
O'Brien, Janet Gaynor, Margaret Livingston, Bodil
Rosing, J. Farrell MacDonald.
Titolo originale Sunrise.
Muto, b/n durata 15' min. - USA 1927.
I cinefili sapranno che nonostante molti libri citino Ali come
il primo titolo a ricevere un Oscar come miglior film, l'onore andò in realtà a due titoli: lo stesso Ali di William Wellman (per la "miglior produzione"), e Aurora di F. W. Murnau
("qualità artistica della produzione", "miglior attrice" e
"fotografia").
In ogni caso Aurora, e non Ali, resta uno dei film più apprezzati di tutti i tempi. Inizialmente, William Fox portò
Murnau in America con la promessa di un grande budget e di totale libertà creativa, e questo sconvolgente capolavoro confermò la sua impareggiabile reputazione di genio del cinema.
Aurora è in sé assolutamente semplice.
Sottotitolato in modo enigmatico A Song of Two Humans ("canzone per due esseri umani"), il film è
incentrato su una coppia di provinciali la cui vita viene sconvolta dall'arrivo di una donna proveniente dalla città. Da quello che sarebbe potuto essere un melodramma di routine, Murnau provoca
grandi emozioni, enfatizzate da tecniche di ripresa rivoluzionarie. Di rilievo l'utilizzo degli effetti
sonori, che spinge il cinema muto a un passo dall'era del parlato – un risultato oscurato da Il cantante
di jazz, il primo film sonoro, uscito successivamente, ma sempre nel 1927. Murnau manipolò creativamente anche l'utilizzo e l'effetto dei sottotitoli (tre anni prima, aveva diretto il film privo di testi
L'ultima risata).
L'aspetto che più colpisce di Aurora è l'utilizzo della macchina da presa. Lavorando con un paio di operatori, Charles Rosher e Karl Struss, Murnau attinse alla sua esperienza nel movimento espressionista tedesco e si ispirò ai ritratti dei maestri fiamminghi, in particolare a Vermeer. Collegata con eleganti ed originali movimenti di ripresa accentuati da effetti ottici (come le esposizioni multiple), la
fotografia di Aurora appare magistrale.
La magia e la semplicità della storia donano ad Aurora uno straordinario peso drammatico. Il protagonista Ansass (George O'Brien), che progetta di uccidere la moglie Indre (Janet Gaynor), è assalito
dai sensi di colpa, mentre la malcapitata reagisce con appropriato terrore quando si palesano le sue intenzioni. Il viaggio in barca che dovrebbe portarla alla morte intenzionale è carico di tensione e di un forte senso di tristezza, mentre Ansass si dibatte per dare consistenza ai suoi pensieri mostruosi. Margaret
Livingston, nel ruolo della seduttrice di città, pare in molti aspetti un equivalente femminile del vampiro
di Nosferatu (1922), il Conte Orlok.
Il film fu un insuccesso, e Murnau morì in un incidente auto­mobilistico pochi anni dopo. Aurora
rimane però un punto di riferimento in base al quale molti film – sonori e non – dovrebbero essere
valutati
PAGINA 13
Liber n. 23
BACI RUBATI
Un film di François Truffaut. Con Jean-Pierre Léaud,
Delphine Seyrig, Claude Jade, Michael Lonsdale,
Harry Max.
Titolo originale Baisers volés.
Commedia, durata 92 min. - Francia 1968.
Congedato dall'esercito, il ventenne Antoine Doinel cerca di
ricostruire il rapporto con la vecchia fidanzata, Christine, senza riuscirci. Dopo una breve esperienza come portiere d'albergo, trova lavoro come investigatore privato, attività per cui
non è assolutamente portato. Tuttavia, tra un pedinamento e
l'altro, tra un'indagine e l'altra, riuscirà a dare un senso alla sua
ricerca di stabilità interiore, ritrovando l'amore della vecchia
fiamma e una più matura consapevolezza di sé.
Diretto nei giorni della contestazione studentesca del '68, nei giorni della destituzione di Henry Langlois,
direttore della Cinémathèque Française a cui il film è dedicato, Baci rubati lascia in secondo piano il contesto politico per concentrarsi sulle avventure di un giovane imbranato in cerca di un lavoro, di un amore,
di una strada da percorrere nella vita.
Alla sua terza apparizione dopo I quattrocento colpi e l'episodio Antoine e Colette diretto nel film a episodi
L'amore a vent'anni, Truffaut riprende il personaggio di Antoine Doinel interpretato dal suo attore feticcio
Jean-Pierre Leaud, per raccontarci una storia intrisa di malinconica dolcezza, in cui il protagonista, alla
disperata ricerca di un posto nel mondo, affronta un percorso di crescita e di maturazione interiore.
Un percorso di crescita che si configura come progressiva consapevolezza di sé, determinata da ogni azione che Antoine compie: dal lavoro che sceglie, investigatore privato, metafora di una ricerca non dei
fatti altrui ma della sua interiorità, fino al rapporto con le donne e con l'amore: dalla prostituta che lo rifiuta, alla fidanzata restia a lasciarsi andare, fino a Fabienne Tabard, donna dell'alta borghesia, essere celestiale, avventura di una notte, elemento cardine nel percorso di ricerca di Antoine. Dall'amore a caro
prezzo con la prostituta all'amore che non a prezzo con Fabienne, Antoine approderà finalmente in un
porto sicuro, il dolce abbraccio di Christine, forse transitorio, forse assoluto e definitivo.
E alla fine del tenero peregrinare di Antoine Doinel rimane nella mente dello spettatore il quesito intorno
a cui ruota tutto il film, accompagnato dalle parole di Charles Trenet: "Que reste-t'il de nos amours?".
PAGINA 14
Liber n. 23
BACIAMI STUPIDO
Un film di Billy Wilder. Con Dean Martin, Kim Novak,
Ray Walston, Felicia Farr, Cliff Osmond.
Titolo originale Kiss Me, Stupid.
Commedia, b/n durata 124 min. - USA 1964.
Orville J. Spooner, pianista di professione, campa in una piccola cittadina del Nevada, dando in casa lezioni di pianoforte, suonando a
matrimoni e funerali e facendo l'organista per la parrocchia locale.
Inoltre compone canzoni insieme al "paroliere" Barney, unico benzinaio e meccanico per auto del paese, che manda regolarmente le canzoni composte con Orville a tutte le case editrici musicali più importanti degli Stati Uniti d'America, senza tuttavia averne risposta.
Orville è sposato da cinque anni, senza figli, con una bella donna,
Zelda, che contribuisce al mantenimento della famiglia facendo la
sarta per signore e della quale è gelosissimo fino alla paranoia.
Un giorno, proprio quello del quinto anniversario di matrimonio di Orville e Zelda, capita in paese il famoso cantante italo-americano (e noto tombeur de femme) Dino, il quale, diretto a Las Vegas con la sua potente cabriolet, è stato costretto ad una deviazione a causa di un incidente che ha bloccato la strada statale.
È la commedia che segna un punto di rottura nel rapporto fra Billy Wilder e il pubblico americano: tanto
perfetta nel meccanismo quanto feroce nella sostanza, fu immancabilmente incompre­sa dagli spettatori
e oggetto di lamentele da parte della National Legion of Decency. Non è difficile capire perché; del resto
perfino oggi è raro trovare nel cinema main­stream film che trattano gli stessi temi con la spregiudicatezza dimostrata da Wilder nel 1964.
Convinto dissacratore di costumi e convenzioni, come può esserlo soltanto un austriaco fuggito negli
Stati Uniti per le persecuzioni hitleriane, finora il regista non aveva risparmiato nessuna delle istituzioni
americane, che si trattasse di Hollywood (Viale del tramonto), del giornalismo (L’asso nella manica), del capitalismo (L’appartamento), della morale e dell’identità sessuale (Quando la moglie è in vacanza, A qualcuno piace
caldo): ma la ferocia dell’irrisione era sempre state accortamente racchiusa, e in qualche modo occultata,
entro la limpida classicità dell’impianto narrativo, che a partire dagli anni '50 era soprattutto quello della
commedia sofisticata sulle orme dei maestri (non solo metaforici) Hawks e Lubitsch.
E proprio con questa sofisticata commedia degli equivoci che demolisce con spietata amarezza l'istituzione della fedeltà coniugale (tutti tradiscono tutti, ma alla fine nessuno viene condannato, anzi ognuno ottiene un vantaggio dal suo «tradimento») e mette alla berlina l'altrettanto intoccabile mito americano del
successo: il film scosse talmente il pubblico da diventare un flop. Indimenticabile Kim Novak nel ruolo
della prostituta con il diamante nell'ombelico, che vive con un pappagallino nella roulotte e continua ad
asciugarsi il naso che cola.
PAGINA 15
Liber n. 23
LE BEAU SERGE
Un film di Claude Chabrol. Con Jean-Claude Brialy,
Bernadette Lafont, Gérard Blain
Drammatico, b/n durata 99 min. - Francia 1958.
Da Parigi, François torna nel villaggio della sua infanzia per
curare i postumi della tubercolosi. Appena arrivato, incontra
un vecchio amico diventato panettiere e intravede Serge,
minato dall'alcolismo forse per via dell'infelice matrimonio
con Yvonne, che gli ha dato un figlio nato morto, ed è di
nuovo incinta. Mentre stringe una relazione con la diciassettenne Marie, François cercherà di prendersi cura di Serge,
mettendolo davanti alle sue responsabilità.
Considerato il primo film della Nouvelle Vague, La beau
Serge coniuga una sceneggiatura improntata al dramma sociale con i ricordi personali di Claude Chabrol che, dopo la militanza critica nei Cahiers du cinéma, poté
esordire grazie ad un'eredità inaspettata avuta dalla moglie. È lo stesso regista a tornare, così come vediamo fare al protagonista, nel paese di Sardent (Creuse) in cui aveva trascorso l'infanzia durante i quattro
anni dell'Occupazione, imparando a conoscere una realtà fatta di giovani amori e alcolismo sociale. L'attaccamento squisitamente affettivo, eppure svegliato dalla distanza critica di chi ha conosciuto anche la
vita in città, è uno dei motivi di maggior interesse di un lavoro capace di dare veridicità ai luoghi mostrati,
licenziando una topografia filmica del tutto affidabile in cui lo spettatore è, da subito, immerso.
Nulla sembra essere cambiato nel villaggio, non il dottore incapace, non l'affittacamere impicciona, non i
giochi in piazza dei bambini, eppure la mancanza di realizzazione ha segnato la vita dell'amico Serge, uno
che "soffre più di tutti gli altri", e una diffusa assenza di speranza non porta più fedeli a partecipare alle
messe di un sacerdote comprensivo e disilluso: François, interno ed esterno al luogo, tenta nel miglior
modo di rendersi utile, di attivarsi in favore del bene anche a rischio di minare la propria integrità emotiva e fisica, si pensi soltanto a quella sequenza finale che riecheggia Bresson. Vagamente ispirato all'amico
Paul Gégauff, il personaggio di Serge rappresenta per Chabrol il simbolo del tempo perduto, in un'impressionante continuità tra diario personale e riscrittura drammatica che è cuore pulsante di un'opera imperfetta, ma sempre coinvolgente, illuminata da momenti magici, la nevicata, e argute notazioni antropologiche, la festa da ballo.
Con un budget iniziale irrisorio, poi rimpolpato da un salvifico premio di qualità, La beau Serge venne presentato al Festival di Cannes fuori concorso, riscuotendo consenso di pubblico anche nella successiva
distribuzione in sala: il successo inaspettato, spinse Chabrol a lanciarsi in fretta nella produzione di I cugini con la stessa troupe. Interpreti di entrambe le pellicole, Jean-Claude Brialy e Gérard Blain diventano, in
breve, il volto del nuovo movimento, prima di Jean-Pierre Léaud e Jean-Paul Belmondo.
Un esordio dolente e sincero.
PAGINA 16
Liber n. 23
BERSAGLI
Un film di Peter Bogdanovich. Con Boris Karloff, Randy
Quaid, Tim O'Kelly,
Titolo originale Targets.
Horror, durata 90 min. - USA 1968.
Si dice che Peter Bogdanovich abbia avuto la sua prima occasione
come regista quando il produttore Roger Corman si rese conto
che l'attore Boris Karloff gli doveva due giorni di riprese. Il produttore le offrì a Bodganovich insieme a venti minuti di materiale
girato per La vergine di cera (1963) e mai utilizzato: partendo da
questi elementi, Bogdanovich ideò una splendida sceneggiatura
originale.
Karloff interpreta se stesso (un anziano interprete di horror chiamato Byron Orlok), mentre Bogdanovich è il giovane regista che tenta di convincerlo a recitare la
sua ultima parte importante.
Parallelamente, seguiamo la storia di Bobby Thompson (Tim O'Reilly), perfetto "ragazzo della porta
accanto" che uccide la moglie e la madre per poi sparare sulla folla, prima da una torre dell'acquedotto quindi dal retro dello schermo di un drive-in. Ed è proprio su questo schermo che viene proiettato il film che ha per protagonista Karloff (sono gli spezzoni regalati da Corman, in cui compare anche un giovane Jack Nicholson).
Bersagli è la risposta americana alla Nouvelle Vague e alle opere di Francois Truffaut e Claude Chabrol. Come loro, anche Bogdanovich era un amante del cinema d'autore: nel film si trovano riferimenti più o
meno espliciti a Codice penale (1933) di Howard Hawks, con Boris Karloff, L'infernale Quinlan (1958) di
Orson Welles e Psycho (1960) di Alfred Hitchcock.
L'estetica postmodernista del film si riflette direttamente sulla trama: "Sono un anacronismo", dice
Orlok. "Il mio tipo di orrore non è più orrore". Il suo punto di vista è sottolineato dall'agghiacciante gratuità dei crimini di Thompson. II personaggio, modellato sul serial killer texano Charles
Whitman (l'ex-marine che uccise la madre e quattordici sconosciuti da una torre, il primo agosto del
1966), è un ragazzo "normale e sano", ma fortemente affascinato dalle armi, al punto di tenere in
auto un piccolo arsenale. Il film gioca sulle fissazioni di Thompson, infilando l'obiettivo nel suo mirino, chiedendoci, come Harry Lime (Orson Welles) ne Il terzo uomo (1949), quanto ci importi veramente di quei piccoli punti distanti.
Con il suo montaggio sapientemente dissociativo, Bersagli è la nitida fotografia di un'America che entra in una nuova era caratterizzata dalla violenza.
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Liber n. 23
IL BIDONE
Un film di Federico Fellini. Con Franco Fabrizi,
Giulietta Masina, Richard Basehart, Broderick Crawford, Giacomo Gabrielli.
Drammatico, b/n durata 135 min. - Italia 1955.
Augusto, Roberto e Picasso sono tre 'bidonisti' di professione. Si impegnano quasi quotidianamente nella costante
ricerca di persone da truffare fingendosi inviati del Vaticano oppure spacciandosi per funzionari pubblici pronti ad
assegnare appartamenti a baraccati solo, però, dopo aver
ricevuto la prima rata del pagamento. Picasso, un pittore
fallito, ha moglie e figlia a cui tiene nascosta la propria attività. Roberto pensa solo ad apparire il ricco che non è
mentre Augusto, il meno giovane, ha una figlia ormai adolescente che non vede mai. Un giorno la incontra casualmente in strada e sente rinascere il senso della paternità e il desiderio di aiutarla a realizzare le
proprie aspettative.
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia dopo La strada, che aveva ottenuto il Leone d'Argento e
aveva diviso la critica tra sostenitori e detrattori, Il bidone mette tutti (o quasi) d'accordo. Al Lido lo accoglie un gelo assoluto (alcune cronache parlano addirittura di numerosi spettatori che abbandonano la sala
durante la proiezione) e la critica non è da meno contribuendo a decretarne l'insuccesso commerciale. Il
motivo è semplice quanto banale. Allo spettatore non viene offerto nessun personaggio con cui potersi
identificare appieno. Se il duro Zampanò era capace di scoppiare in un pianto che ne rivelava la residua
umanità, se il vitellone Alberto era un vigliacco con sentimenti filiali in questo film nessuno si salva. Fellini mostra la fragilità di ognuno dei suoi personaggi ma non consente loro (assieme ad Ennio Flaiano e
Tullio Pinelli co-sceneggiatori) l'opportunità della redenzione. Ognuno si è privato di un orizzonte che
vada al di là della truffa occasionale (ma ben architettata) a danno di persone tanto ingenue da cadere nei
tranelli. Non c'è nessun senso morale nel loro agire e Fellini ci mostra, con la freddezza di un anatomopatologo, la necrosi delle coscienze di ognuno. La vicenda procede per accumulo e i veri snodi narrativi
sono riservati solo a due momenti del film. Il primo riguarda il rapporto sociale. La festa di Capodanno si
rivela come la cartina al tornasole che evidenzia le differenze. Chi traffica illegalmente ad alti livelli può
permettersi un tenore di vita e una 'rispettabilità' che ai bidonisti è negata. Sul piano invece dello sviluppo
dei personaggi è ad Augusto che viene offerta, nella parte finale, il maggiore dispiegamento di chiaroscuri
psicologici. L'ultima bidonata (che ripropone la prima ma con comprimari diversi) evidenzia una personalità ormai incapace di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è e ne porta all'estremo le conseguenze. Le voci di Broderick Crawford e di Richard Basehart sono, rispettivamente, di Arnoldo Foà ed
Enrico Maria Salerno.
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Liber n. 23
BIRDMAN
Un film di Alejandro González Iñárritu. Con Michael
Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton, Andrea Riseborough, Amy Ryan.
Commedia, durata 119 min. - USA 2014.
Riggan Thompson è una star che ha raggiunto il successo planetario
nel ruolo di Birdman, supereroe alato e mascherato. Ma la celebrità
non gli basta, Riggan vuole dimostrare di essere anche un bravo attore.
Decide allora di lanciarsi in una folle impresa: scrivere l'adattamento
del racconto di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d'amore, e dirigerlo e interpretarlo in uno storico teatro di Broadway.
Nell'impresa vengono coinvolti la figlia ribelle Sam, appena uscita
dal centro di disintossicazione, l'amante Laura, l'amico produttore
Jake, un'attrice il cui sogno di bambina era calcare il palcoscenico a
Broadway, un attore di grande talento ma di pessimo carattere.
Riuscirà Riggan a portare a termine la sua donchisciottesca avventura?
Dopo il tuffo negli abissi della disperazione di Biutiful, capolavoro poco apprezzato dal grande pubblico,
il regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu si cimenta con la commedia, benché agrodolce e in alcuni tratti quasi nera.
Temi principali sono l'ego, in particolare quello maschile, e l'incapacità di distinguere l'amore degli altri
dalla loro approvazione. Chi meglio di un attore molto amato ma poco apprezzato per rappresentarlo?
Inarritu scandaglia l'animo di Riggan usando la cinepresa come mai aveva fatto prima, ovvero cimentandosi in una serie praticamente infinita di piani sequenza all'interno dei quali gli attori recitano senza inerruzioni come su un palcoscenico teatrale, entrando e uscendo continuamente dal teatro in cui si svolge
prevalentemente l'azione alla strada, e dentro e fuori i camerrini, i corridoi, il backstage del teatro stesso.
In un gioco continuo di immagini rifratte attraverso specchi e spiragli.
Il paragone con Robert Altman è inevitabile: i piani sequenza (come quello iniziale de I protagonisti), l'adattamento da Carver (come in America Oggi), la messa in ridicolo corale del mondo dello spettacolo
(Nashville, I protagonisti, Radio America). Come è altmaniana la visione da insider della Hollywood contemporanea, in particolare quella dei franchise dedicati ai supereroi, "pornografia apocalittica" responsabile
dell'infantilizzazione irreversibile del pubblico.
Birdman è anche un capolavoro di metacinema: il protagonista è quel Michael Keaton che deve la sua celebrità all'interpretazione di Batman (ma che è anche un grande attore, come dimostra appieno nel film di
Inarritu); è più volte citato The Avengers, il film cui Edward Norton, che in Birdman ha il ruolo del prim'attore, ha rifiutato di partecipare nei panni di Hulk, dopo aver litigato con la produzione del film sul gigante verde. E c'è una scena in cui Inarritu fa ciò che Hollywood vorrebbe da ogni regista, dopo aver fatto
per tutto il resto del film ciò che Hollywood detesta (tranne la notte degli Oscar): infiniti virtuosismi registici, dialoghi interminabili, mancanza di un eroe immediatamente identificabile.
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Liber n. 23
BIUTIFUL
Un film di Alejandro González Iñárritu. Con Javier
Bardem, Maricel Álvarez, Eduard Fernández, Diaryatou Daff, Cheng Tai Shen.
Drammatico, durata 138 min. - USA 2010.
Uxbal ha due figli, Ana e Mateo che ama profondamente e
una moglie, Marambra, con la quale c'è un rapporto conflittuale che li spinge a separazioni e a tentativi di riappacificamento. Uxbal vive di manodopera clandestina che sopravvive ammassata in tuguri (i cinesi) o cerca di far crescere il proprio
figlio in condizioni comunque estremamente precarie come
l'africana Ige. Uxbal si trova a confronto con la morte anche
di minorenni. Uxbal attende la morte, la sua. Uxbal ha un cancro che gli lascia poco da vivere.
Per Alejandro Gonzales Inarritu è finalmente arrivato il film
della maturità. Liberatosi dell'autoimposta necessità di far prevalere gli incastri di montaggio sulla qualità
della sceneggiatura si autorizza in Biutiful a portare sullo schermo una storia tanto lineare quanto complessa e profonda. È come se quell'anello che Uxbal dona all'inizio del film (si scoprirà molto più tardi a
chi) affermandone l'autenticità a dispetto di quello che ne ha detto la moglie, fosse un patto con lo spettatore. Non si cercherà più di mescolare le carte, di lavorare sulla dimensione degli scarti temporali per
occultare eventuali vuoti di scrittura. Grazie al corpo/cinema di Xavier Bardem Inarritu si mette a nudo e
ci costringe a 'guardare' il dolore, a sentirlo penetrare in noi, a condividerlo. Scegliendo però sin dall'inizio una delle città 'da cartolina' per eccellenza: Barcellona.
Se Woody Allen, spinto da esigenze di budget e con una punta di autoironia, ci aveva portato a spasso
per i luoghi cari al turismo di massa Innaritu fa l'opposto. La Barcellona di Gaudì sta racchiusa in un lontano panorama. La città di cui percorriamo strade e vicoli è un organismo divorato, come quello del protagonista, da un cancro sociale che ha prodotto metastasi ovunque. Non c'è nulla di 'biutiful' se non forse, la speranza che cova nello sguardo di Mateo e in quella sua attesa di un viaggio premio sui Pirenei.
Pochi film hanno saputo far 'sentire' in modo così partecipe e lucido il magma ribollente di un animo in
cui ai molteplici sensi di colpa sociale si mescola inestricabilmente la mancanza di una figura paterna (che
si spera di ritrovare nell'aldilà) e, al contempo, il sentirsi padre fino all'estremo, fino all'ultimo. Fino a oltre la morte.
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Liber n. 23
BOCCACCIO 70
Un film di Federico Fellini, Mario Monicelli, Luchino Visconti, Vittorio De Sica. Con Peppino De Filippo, Sophia
Loren, Tomas Milian, Romy Schneider, Germano Giglioli.
Commedia, durata 150 min. - Italia 1962.
Boccaccio '70 inaugura una delle stagioni più prolifiche del film a
episodi nel cinema italiano, quella in cui la formula diviene una
scelta soprattutto produttiva, volta ad ammortizzare i rischi finanziari riunendo nella stessa pellicola più registi e attori conosciuti e amati dal pubblico.
Per Boccaccio '70, il produttore Carlo Ponti chiamò a raccolta
alcuni dei nomi più in auge al momento: le celebri coppie regista-attrice composte da Federico Fellini e Anita Ekberg e da
Vittorio De Sica e Sophia Loren, reduci rispettivamente dai successi de La dolce vita e La ciociara, entrambi del 1960, e i registi
Mario Monicelli, campione d'incassi nel 1959 con La Grande Guerra, e Luchino Visconti, secondo
posto negli incassi del 1960 con Rocco e i suoi fratelli.
Realizzato a partire da un'idea di Cesare Zavattini, Boccaccio '70 è costituito da quattro episodi, definiti "atti", strutturalmente slegati ma accomunati dal tentativo di tracciare un ironico ritratto
del moralismo e dei tabù ancora imperanti all'epoca del boom economico. Ogni autore svolge
il tema seguendo le proprie inclinazioni e il proprio stile.
Nell'episodio La riffa, di De Sica, Zoe (Loren), per compensare gli scarsi introiti del chiosco per il
tiro a segno in cui lavora, organizza una lotteria di cui è lei stessa, per una notte, la posta in palio. Il
numero vincitore lo ha il timido sagrestano del paese e Zoe, per non essere costretta a concedersi, offre tutto il guadagno della riffa all'uomo dandogli il permesso di raccontare ciò che vuole e
divenire dunque la star del paese.
Nel breve capolavoro firmato da Fellini, il dottor Antonio (De Filippo), strenuo difensore della
moralità pubblica e della decenza dei costumi, ingaggia una battaglia contro il manifesto pubblicitario che viene installato abitazione e che ritiene osceno, ma la procace donna del manifesto (che ha
le forme provocanti di Anita Ekberg) e lo slogan ammiccante "bevete più latte!" si trasformano in ossessione. Alla fine non otterrà nulla, e sarà invece circondato dalla derisione generale.
Visconti, con la collaborazione di Suso Cecchi d'Amico alla sceneggiatura, trae il suo episodio, Il
lavoro, da un racconto di Guy de Maupassant: una donna della ricca borghesia, Pupe (Schneider),
si concede a pagamento al marito dopo che uno scandalo giornalistico ha svelato il coinvolgimento di lui in un giro di prostituzione.
Vi è infine il segmento diretto da Monicelli, Renzo e Luciana, che si concentra sulle molte avversità
affrontate da una coppia di giovani sposi: dalle inaccettabili invadenze di un principale donnaiolo alla mancanza d'intimità nella casa dei genitori di lei. Quando final­mente trovano un nuovo
lavoro e una casa tutta per loro, potendo infine ambire alla serenità agognata, i due non si vedono che per pochi istanti al giorno a causa dei turni inconciliabili.
PAGINA 21
Liber n. 23
BRONX
Un film di Robert De Niro. Con Robert De Niro,
Chazz Palminteri, Lillo Brancato, Francis Capra, Joe Pesci.
Titolo originale A Bronx Tale.
Drammatico, durata 122 min. - USA 1993.
Bronx, anni Cinquanta. Lorenzo Aniello (De Niro) è un conducente d'autobus, è soddisfatto e si fa i fatti suoi. Ha un bambino
di nove anni, Calogero, che passa le giornate seduto sulla scaletta
del palazzo a guardare Sonny (Palmintieri), il boss del quartiere.
Un giorno il bimbo vede Sonny uccidere un uomo. La polizia lo
interroga ma lui comincia a frequentare Calogero, lo coinvolge
nel suo locale, gli fa guadagnare qualche dollaro, gli vuol bene.
Naturalmente il padre è furibondo. Non vuole che il figlio frequenti quel genere di persone. Dieci anni dopo la situazione non
è cambiata. Calogero si innamora di una ragazza di colore e deve vedersela con gli amici, tutti italiani,
teppisti che odiano i neri. Sonny lo consiglia e lo guida per il meglio. E gli salva anche la vita quando Calogero sta per essere trascinato in una bravata dai suoi amici. Alla fine Sonny viene ucciso e Calogero lo
piange davanti alla bara. All'ultimo momento arriva anche Lorenzo.
È indubbio che la parentela cinematografica italiana (vicina e lontana) di De Niro pesi molto nella sua
cultura. Il Padrino, Coppola, La Motta, Capone, Leone, Bertolucci, Quei bravi ragazzi, gli hanno lasciato un
segno importante. E per la sua prima avventura registica il più grande attore del cinema contemporaneo
ha voluto andare sul sicuro, raffigurare qualcosa che conosce bene, con un linguaggio che aveva già usato
come attore. La sua regia non è entusiasmante, è corretta e un po' dilatata. Rispetto agli esordi dei suoi
grandi colleghi (Eastwood, Redford, Beatty, Nicholson, Costner, Gibson) la sua partenza va definita in
sordina. Apprezzabile l'intenzione di De Niro di rimanere sotto tono, lasciando lo spazio maggiore a
Chazz Palmintieri, autore della sceneggiatura. Certo, quando c'è in scena Robert è come se si accendesse
la luce.
PAGINA 22
Liber n. 23
BRUTTI SPORCHI E CATTIVI
Un film di Ettore Scola. Con Nino Manfredi, Marcella Michelangeli, Marcella Battisti, Claudio Botosso, Silvia Ferluga.
Commedia, durata 115 min. - Italia 1976.
Periferia di Roma, primi anni settanta: la vita quotidiana di una famiglia
(circa venticinque persone tra genitori, figli, consorti, amanti, nipoti e
nonna) si svolge nella povertà di una baraccopoli. A capo di tutti c'è il
vecchio Giacinto Mazzatella: di origine pugliese (di cui conserva il dialetto), guercio, dispotico e fedifrago, tratta familiari e vicini al pari delle
bestie.
Il film inizia con la più piccola della famiglia che, ogni mattina all'alba,
si alza e va a riempire i secchi d'acqua per gli altri e mentre attende gioca a saltellare su un piede solo.
Lentamente si sveglia anche il resto della famiglia per andare, come
ogni giorno, a guadagnare qualche soldo, ma solo pochi di loro in attività oneste.
Festa grande per tutta la famiglia è il giorno della pensione della nonna. Come una caotica tribù si recano
tutti insieme a ritirarla facendo spingere ai più piccoli la carrozzella dell'anziana. Una volta che però il
denaro è nelle loro mani viene diviso e ognuno si avvia per la propria strada, lasciando l'anziana (ormai
inutile fino alla prossima pensione) sola con i bambini che hanno il compito di riportarla a casa.
Brutti, sporchi e cattivi è una terrificante farsa tragicomica e antipopulista sulle baracche alla periferia
di Roma negli anni Settanta, raccontate impietosamente con tutte le loro miserie, morali e materiali. Pellicola semplice solo all'apparenza, spazza via quel buonismo diffuso in certe produzioni
attente alle realtà più disagiate, retaggio della tradizione neorealista dalla quale Scola, invece, si allontana per colpire anziché commuovere. Anche se non è certo il primo a parlare degli aspetti più
turpi legati alla povertà, il film è tanto eccessivo da rap­presentare una rarità nella cinematografia italiana del periodo, ancora intrisa di retorica.
PAGINA 23
Liber n. 23
BUFFALO ’66
Un film di Vincent Gallo. Con Ben Gazzara, Christina Ricci, Vincent Gallo, Anjelica Huston, Rosanna Arquette
Drammatico, durata 112 min. - USA 1998.
Lo split-screen come la memoria che gocciola inesorabile su
di noi; un fermo-immagine imprevisto e fulminante più di un
momento d'azione; un montaggio ad orologeria che fa quasi
sembrare la vestizione/preparazione in una sala da bowling
una scena di sesso.
Sono solo alcune istantanee di Buffalo 66, tuttavia sarebbe
impresa ardua descrivere a parole un tale film, che sta dentro
- ma soprattutto sta come - il suo protagonista, che si sente
come lui. Il linguaggio di questa anomala, anormale tragicommedia si traduce in un gioco di scardinamento prospettico delle inquadrature, e di uno straniamento quasi (e comunque volutamente) sgradevole. Trattasi infatti
di un'opera prima estremamente libera, destabilizzante, composta da riprese sfacciatamente schizzate e
paranoiche, e da uno stile sbilenco ma già maturo nel manipolare e imbrattare di verità la materia in questione: dopotutto, soltanto uno come Vincent Gallo avrebbe potuto incentrare i primi 15 minuti di un
film su un personaggio che cerca disperatamente un bagno. Billy Brown è appena uscito di prigione, è
incasinato e nervoso anche se proprio non ci pare un ex galeotto; per proseguire una farsa messa in atto
verso i suoi genitori prende 'in ostaggio' una ragazzina, senza però sapere davvero come comportarsi né
con lei né con loro - una madre tragicamente ridicola e ridicolmente tragica, che guarda in loop la registrazione della partita di football che è stata la rovina di Billy 5 anni prima, e un padre un tempo cantante
(ora ripiega sul playback) meschino e grottesco -, né tantomeno con una tormentata vendetta in cui il suo
unico complice è un ragazzo ritardato che lui chiama tonto ma anche miglior amico.
Su una trama che poteva degenerare in un dramma cupo e disperato, il
regista/attore/sceneggiatore/musicista/prestigiatore (che spingerà all'estremo questa tecnica nel recente
Promises written in water) disegna su di sé e sull'ambiente circostante il vissuto di un personaggio sconnesso,
il cui animo e soprattutto stato d'animo barcollante, instabile, percorso da scatti di rabbia, frustrazione e
attimi di tenera follia, s'imprimono nei movimenti di macchina da presa: li attira su se stessa, quasi li culla.
E diventano per l'appunto inquadrature e riprese sbagliate, ma del tutto congruenti alle sensazioni, come
fossero la traduzione in immagini dell'elettroencefalogramma di Billy, la sintassi interiore e visiva delle
sue emozioni.
PAGINA 24
Liber n. 23
CASCO D’ORO
Un film di Jacques Becker. Con Simone Signoret, Serge
Reggiani, Jean-Claude Dauphin, Gaston Modot
Titolo originale Casque d'or.
Drammatico, b/n durata 96 min. - Francia 1952.
A Parigi, nei primi del Novecento, la malavita è organizzata in bande dalle ferree leggi.
"Casco d'oro" (Signoret), una splendida prostituta, è l'amante di un
piccolo delinquente.
Quando questi scopre che la ragazza si sta innamorando di George
Manda (Reggiani), un giovane ed onesto falegname, provoca una lite
furiosa. Nello scontro, Manda uccide il capobanda e poi tenta la fuga. Ma avendo saputo che un amico è stato arrestato al suo posto, si
costituisce. Il falegname finisce alla ghigliottina, mentre i suoi ex amici si contendono i posti in prima fila per assistere al macabro
spettacolo.
È innanzitutto il ritratto dell'ambiente e della vita quotidiana dei giovani delinquenti (chiamati "apaches")
che trascorrono il loro tempo tra le taverne, le piccole rapine e la prigione, ma è anche un canto all'amore, all'amicizia ed alla lealtà.
Il film trova gran parte dei suoi meriti nell'ingegnosa sceneggiatura e nella sua dimensione figurativa, che
si richiama alla pittura di Renoir, dei divisionisti ed alle copertine del Petit Journal. Su questo sfondo vengono disegnate le figure dei due protagonisti, un Reggiani tutto nervi e una Signoret nel fulgore della sua
bellezza e nel suo primo ruolo di rilievo.
Ma il film è anche un grande classico di Becker, purtroppo poco amato quando uscì nelle sale sia dal
pubblico che dalla critica (perfino Bazin lo stroncò, salvo poi tornare sui suoi passi qualche anno dopo),
ma ampiamente rivalutato in seguito.
La rievocazione della Belle Epoque è accuratissima, con le sequenze iniziali dove si respira un'atmosfera
impressionista, soprattutto nei dettagli delle barche che attraccano sull'argine e nella lunga scena del ballo
all'aperto nella "Guinguette", dove la macchina da presa segue i personaggi con fluide carrellate e una
notevole precisione nella composizione visiva, dovuta alla fotografia di Robert Lefevre. Per quanto la
trama sia basata su fatti realmente accaduti e sulle testimonianze raccolte dalla polizia, l'andamento del
film è volutamente romanzesco e melodrammatico: a questo proposito, però, va detto che il regista è stato molto intelligente nell'evitare concessioni agli stereotipi più abusati da romanzo da appendice e ha
conservato uno stile di grande raffinatezza e splendida purezza, soprattutto nelle bellissime sequenze
dell'amore di Manda e Marie nella pensione di campagna a Jonville.
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Liber n. 23
LE CATENE DELLA COLPA
Un film di Jacques Tourneur. Con Robert Mitchum,
Kirk Douglas, Jane Greer, Rhonda Fleming, Virginia
Huston.
Titolo originale Out of the Past.
Drammatico, b/n durata 88 min. - USA 1947.
Su una spiaggia di Acapulco, con il mare che risplende tra
le reti dei pescatori, il detective Jeff Markham (Robert
Mitchum) bacia Kathy Moffat (Jane Greer), la donna da
ritovare per cui era stato assunto dal gangster Whit Sterling (Kirk Douglas), suo precendente fidanzato.
Kathy siede di fianco a Jeff e gli rivela di essere al corrente dell'incarico commissionatogli dal malvagio Whit. Gli
confessa di aver sparato a Whit ma nega di aver preso i
suoi quarantamila dollari e chiede a Jeff di crederle.
Avvicinandosi a lei per baciarla, Jeff le sussurra che non gliene importa nulla.
Le catene della colpa, conosciuto anche come La banda degli implacabili, è forse il capolavoro del cinema noir. Il film ne comprende tutti gli elementi: la donna che mente, ma così bella che le si potrebbe perdonare tutto; il passato oscuro che ritorna e distrugge il personaggio principale; il detective privato, acuto e garbato che fa l'errore di cedere, più di una volta, alla passione.
Mitchum – nel suo primo ruolo da protagonista – incarna perfettamente questa figura. Come Humphrey Bogart, possiede una serenità interiore che comunica un senso di indipendenza
e sicurezza. Ma, a differenza del cauto Bogart, Mitchum si crogiola nel ruolo di Jeff, rendendo
la sua solitaria vulnerabilità non solo credibile ma tragica.
La passione di Kathy per Jeff è reale? A dispetto della sua incapacità di superare le difficoltà da
sola e del suo atteggiamento fatalista nei riguardi dell'amore, lo ama veramente? E il desiderio
di Jeff nei suoi confronti è sincero? Nonostante telefoni alla polizia per trasformare la loro
fuga finale in un'imboscata, è ancora conquistato dal suo fascino? Le catene della colpa, come il
noir in generale, lascia lo spettatore con gli enigmi irrisolti del desiderio fatale, giocando con le
ambiguità dell'amore intriso di paura.
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Liber n. 23
CLERKS
Un film di Kevin Smith. Con Brian O'Halloran, Jeff Anderson,
Marilyn Ghigliotti, Lisa Spoonauer, Kevin Smith.
Titolo originale Clerks.
Commedia, durata 90 min. - USA 1994.
Con questa sua strabiliante opera prima nel 1994 lo sceneggiatore e
regista Kevin Smith si è rivelato il debuttante più talentuoso della
"generazione X".
Ambientato in un negozio di generi alimentari del New Jersey, il
film di Smith è la storia della giornata-tipo di due commessi,
Dante (Brian O'Halloran) e il suo amico menefreghista Randal (Jeff
Anderson), che lavora nel videonoleggio a fianco. Nel negozio entrano diversi tipi stravaganti e mentre Dante prova a catalogare i
loro problemi, Randall si annoia per gran parte del tempo, insulta i
clienti, guarda film porno e divaga su cose essenziali come il vero significato della distruzione
della Morte Nera ne Il ritorno dello Jedi (1988).
Girato in bianco e nero, le riprese di questo film, costato appena 27.500 dollari, sono durate ventuno giorni e sono state effettuate nel negozio dove Smith aveva lavorato quando aveva diciannove anni, così come il montaggio, che il regista curava personalmente ogni sera.
Sostenuto da qualche scena memorabile e corroborato da dialoghi arguti, il film vede all'opera
per la prima volta Stoner Jay (Jason Mewes) e il suo compagno Silent Bob (interpretato dallo stesso Smith), due personaggi esilaranti che Smith userà nei successivi Generazione X (1996), In cerca di
Amy (1997), Dogma (1999) e Jay & Silent Bob - fermate Hollywood (2001).
Tutti i film sono ambientati almeno in parte nel New Jersey, dove il regista è nato nel 1970.
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Liber n. 23
COME VINSI LA GUERRA
Un film di Buster Keaton, Clyde Bruckman. Con Buster
Keaton, Marion Mack, Glen Cavender, Jim Farley
Titolo originale The General.
Muto, durata 79’ min. - USA 1926.
Verso la fine della sua vita Buster Keaton disse che era più orgoglioso di The General (edito in Italia con il titolo di Come vinsi la
guerra) “che di qualunque altro film io abbia mai fatto, perché ho
portato sullo schermo, pescato dritto dal libro di storia, un fatto
vero della Guerra Civile.”
La narrazione si basa su eventi realmente accaduti, rievocati con
dovizia nel libro di William Pittenger Daring and Suffering: A History
of the Great Railway Adventure, uscito nel 1863 e ristampato nel 1893
con il titolo The Great Locomotive Chase, con cui è tuttora in catalogo.
Pittenger (1840-1904), un caporale dell’esercito nordista, si era unito ad un gruppo di 24 uomini guidati
da una spia professionista, James J. Andrews, che riuscirono a viaggiare, camuffati da civili sudisti, dal
Tennessee fino ad Atlanta, dove si impadronirono di un treno, trainato dalla locomotiva The General,
mentre i passeggeri stavano facendo colazione.
Il loro piano era di portare il treno al Nord, verso Chattanooga, dove si sarebbero aggregati alle truppe
dell’Unione, bruciando i ponti e tagliando ogni via di comunicazione lungo il cammino.Il capotreno, William A. Fuller, insieme con il passeggero Anthony Murphy, si mise all’inseguimento, prima a piedi, poi su
un carrello di servizio ed infine su tre locomotive in successione. I cospiratori erano a pochi minuti dalla
loro destinazione quando Fuller, su The Texas, li raggiunse e costrinse a desistere. Gran parte di essi fu
arrestata, ed alcuni furono in seguito giustiziati. (La storia fu ripresa dalla Disney nel 1956 con il titolo di
The Great Locomotive Chase).
Il principale cambiamento che Keaton ed il suo co-regista, Clyde Bruckman, apportarono alla storia consisté nel presentarla dal punto di vista degli inseguitori sudisti: “Si può sempre fare dei nordisti i cattivi,”
aveva detto Keaton, “ma non si può fare del Sud un cattivo.” Inoltre, i sudisti finiscono per vincere, cosa
essenziale per un finale comico. I nomi dei personaggi furono cambiati: il capotreno William Fuller diventa il macchinista Johnnie Gray (Keaton), che ha due amori nella vita, la locomotiva e la fidanzata Annabelle Lee (interpretata splendidamente da Marion Mack). La ragazza, catturata dai nordisti insieme con
la locomotiva, sostituisce Mr. Murphy come compagna d’avventura di Johnnie. Il film, girato senza sceneggiatura, presenta nondimeno un’esemplare struttura narrativa simmetrica, incentrata sulla sequenza
del salvataggio di Annabelle e di The General dal quartier generale nemico.
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Liber n. 23
UN CONDANNATO A MORTE E’
FUGGITO
Un film di Robert Bresson. Con François Leterrier, Charles Lelaclanche, Maurice Beerblock, Roland Monod, Jacques Ertaud, Jean
Paul Delhumeau, Roger Treherne, Jean Philippe Delamarre, César
Gattegno, Jacques Oerlemans, Klaus Detlef Grevenhorst, Leonhard
Schmidt
Titolo originale Un condamné à mort s'est échappé.
Drammatico, b/n durata 95 min. - Francia 1956.
È la storia vera (il tenente André Devigny la pubblicò nel 1954 sul "Figaro Litéraire") della fuga di un partigiano dalle prigioni naziste.
Devigny scappa una prima volta, lo riprendono e lo rinchiudono nel forte di
Montluc. Qui apprende la sua condanna a morte. Con pazienza certosina prepara una nuova evasione
che stavolta gli farà guadagnare la libertà.
Una trama avventurosa diviene per Robert Bresson (nel suo momento più creativo) meditazione sulla
vita, i rapporti umani, le aspirazioni dell'uomo. Nella descrizione minuta dei preparativi di fuga (una spilla
serve come grimaldello per aprire le manette, il materasso intrecciato con il fil di ferro diventa una fune)
c'è più tensione che in un giallo di Hitchcock (oltretutto ottenuta con un linguaggio che più spoglio, meno melodrammatico e "spettacolare" non potrebbe essere).
È uno degli indiscussi capolavori di tutto il cinema.
Sei anni dopo Diario di un curato di campagna, Bresson prosegue la sua ricerca in direzione di un cinema
essenziale, depurato dalle pastoie teatrali, pittoriche e letterarie. Tre anni più tardi, avrebbe raccolto i frutti con Pickpocket, che inventa non tanto il cinema moderno, quanto quello contemporaneo (tanto era
"avanti" nel concetto e nella messinscena, anche rispetto alla coeva nouvelle vague). Un condannato a morte
è fuggito è ammirevole per come prosciuga la materia carceraria da ogni enfasi melodrammatica, da ogni
retorica morale o politica, da ogni psicologismo spicciolo, dal gusto fine a se stesso della narrazione e,
ovviamente, da ogni tentazione spettacolare o catartica. Particolarmente riuscito, a differenza di Diario di
un curato di campagna, è l'intarsio fra parola ed immagine. La voce fuori campo, con cui il protagonista espone i suoi pensieri, è presente, ma molto più calibrata che nel film precedente. E soprattutto è perfettamente integrata, "giustapposta" (per utilizzare una terminologia cara allo stesso Bresson), al flusso di immagini, sapientemente levigato da discreti movimenti di macchina e scolpito da un montaggio estraneo ai
canoni estetici classici. Bisogna infatti chiarire un equivoco. Non è che il "cinematografo", per essere
"puro" (come voleva Bresson), debba escludere o mortificare la parola!
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Liber n. 23
LA CORAZZATA POTEMKIN
Un film di Sergej M. Ejzenstejn. Con Alexander Antonov, Vladimir Barski, Grigorij Alexsandrov, Michail Gomarov, Ivan Bobrov.
Titolo originale Bronenosec Potëmkin.
Drammatico, b/n durata 50 min. - Russia 1925.
Col tempo, l'opera seconda di Sergej Ejzenstejn è diventata
non solo un punto di conflitto ideologico tra est ed ovest,
tra sinistra e destra, ma un must per ogni amante del cinema
sulla faccia della terra. Decenni di censura e di supporto
militante, infinite parole per analizzare la sua struttura, il
suo simbolismo, le sue fonti, i suoi effetti e migliaia di
citazioni visive fanno sì che sia difficile cogliere la storia che
sta dietro al film.
La ricostruzione storica de La corazzata Potémkin potrebbe non essere del tutto corretta, ma la sua
leggendaria visione dell'oppressione e della ribellione, dell'azione individuale e collettiva, e la sua ambizione artistica di lavorare contemporaneamente con corpi, luce, oggetti comuni, simboli, volti,
movimenti e forme geometriche danno forma a un vocabolario unico.
Da vero artista del cinema, Ejzenstejn elabora un mito magnifico e commovente.
Questa sensibilità estetica era caratterizzata anche da un valore politico: il "cambiamento del mondo
attraverso la coscienza degli uomini", ovvero la Rivoluzione. Senza la precisa consapevolezza di
ciò che tali mutamenti sarebbero diventati alla fine, qui soffia ancora il vento di un'avventura epica.
In qualsiasi modo si scelga di chiamarla, quest'avventura è l'unico impulso che guida la gente di Odessa verso la libertà, i marinai della Potémkin a combattere contro la fame e l'umiliazione, e lo stesso Ejzenstejn a inventare nuove forme cinematografiche.
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Liber n. 23
IL CORSARO DELL’ISOLA VERDE
Un film di Robert Siodmak. Con Christopher Lee, Burt Lancaster, Torin Thatcher, Nick Cravat, Eva Bartok.
Titolo originale The Crimson Pirate.
Avventura, durata 104 min. - USA 1952.
Capitan Vallo è alla guida di un'imbarcazione pirata accompagnato dal
fedele (e muto) braccio destro Ojo.
Vallo, passando da una scena d'azione all'altra, riesce a far innamorare
di sé la figlia del governatore ma non rinuncia ad affiancarsi a un capo
ribelle per combattere la dittatura. Fatto prigioniero riuscirà a fuggire
ma le situazioni complicate per lui sembrano non finire mai.
Burt Lancaster nell'immaginario di molti spettatori è il protagonista
serio e problematico di film altrettanto seri e problematici. Non tutti sanno che in film come questo si è
divertito sin dall'inizio a 'giocare' sul set e con il pubblico. Al punto da aprire il film con un'acrobazia che
lo vede anche guardare dritto in macchina e ammiccare allo spettatore (adulto o bambino non fa differenza) dicendo: "Credete solo a ciò che vedrete... anzi, a metà di ciò che vedrete".
Sta qui la logica di divertimento che presiede al film e a cui molto deve la serie dei Pirati dei Caraibi. Anche in modo molto esplicito. Ricordate Sparrow e Turner che si salvano camminando sul fondale marino
e respirando grazie a una barca rovesciata sopra di loro? Guardate questo film e vedrete a chi rende omaggio la scena. Il film è un susseguirsi di situazioni brillanti e acrobatiche al contempo.
Lancaster, prima di diventare attore era un atleta professionista. Scritturato per questo film volle accanto
a sé il compagno di attività ginniche Nick Cravat allo scopo di realizzare le scene di azione insieme e senza controfigure. Il quale però aveva un pessimo accento. Si decise così di rendere muto il suo personaggio facendogli così acquisire un ruolo molto più divertente del previsto (osservate la scena in cui Ojo
spiega a gesti che il suo capitano si è innamorato).
Un gioiello del cinema di azione che merita di essere visto ancora oggi.
Non ha perso nulla del suo smalto.
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Liber n. 23
LA COSA
Un film di John Carpenter. Con Kurt Russell, Wilford
Brimley, T.K. Carter, David Clennon, Keith David.
Titolo originale The Thing.
Fantascienza, durata 109 min. - USA 1982.
Un husky siberiano in fuga sulle nevi dell'Antartide viene ripetutamente fatto bersaglio dei colpi di fucile sparati da un elicottero
norvegese che lo insegue. Gli uomini di una base scientifica americana verso la quale l'animale si avvicina assistono sgomenti alla
scena che si conclude con l'esplosione dell'elicottero colpito per
sbaglio da una granata che il cacciatore intendeva lanciare contro
la preda. Il pilota Mac Ready ed il dottor Copper si recano al
campo norvegese per avere spiegazioni sull'accaduto, ma scoprono che l'accampamento è stato devastato da una furia sovrumana
e che tutti i suoi occupanti sono morti. La causa è una creatura aliena precipitata sulla Terra che possiede
la facoltà di assumere le sembianze degli esseri con i quali viene a contatto, mutando continuamente aspetto. Per gli uomini della base il problema è scoprire di quale corpo adesso l'alieno si è impadronito.
Più che un remake della Cosa da un altro mondo, il film di Carpenter è una rilettura (più fedele) del racconto
di Campbell dal quale anche il primo aveva tratto ispirazione. A 30 anni di distanza l'una dall'altra, le due
pellicole riflettono non soltanto - come è naturale - linguaggi cinematografici diversi, ma rimandano a
due concezioni della vita diametralmente opposte. Il film del 1951, con il gruppo di uomini che esposti
ad un pericolo comune scoprono una ritrovata unità, offriva una soluzione rassicurante dicendo che il
buon senso, sfrondato da ogni intellettualismo, è l'arma vincente dell'uomo americano, saldo, integro e
vigile di fronte ai pericoli che provengono dall'esterno. Carpenter, al contrario, frantuma ogni ottimismo
portando nella sua fantascienza la personale convinzione di una società disgregata da fughe centrifughe,
nella quale ciascun individuo è il nemico indecifrabile. La cosa di Carpenter al contrario dell'identificabile
"uomo-carota" di Nyby ed Hawks, è di per sé l'indescrivibile, l'irrazionale, qualcosa di simile ad una montante follia contagiosa, e i suoi protagonisti nella loro intercambiabilità sono cose essi stessi, strumenti di
un meccanismo che sfugge a qualsiasi definizione. Il film fu un clamoroso insuccesso commerciale, tanto
da indurre la Universal a revocare a Carpenter il progetto per la realizzazione di Fenomeni paranormali
incontrollabili, diretto poi da Mark Lester. Gli ottimi effetti speciali, il trucco di Rob Bottin ed un largo
impiego di risorse finanziarie, risultarono perdenti di fronte ad E.T. l'extraterrestre, il cui messaggio pacifista e consolatorio rispondeva in maniera più accessibile alle ansie di sentimento e domestica sicurezza del
pubblico.
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Liber n. 23
CRONACA DI UN AMORE
Un film di Michelangelo Antonioni. Con Massimo Girotti, Lucia Bosè, Massimo Rossi, Anita Farra, Rubi D'Alma.
Drammatico, b/n durata 110 min. - Italia 1950.
Michelangelo Antonioni debuttò dietro la macchina da presa a quasi quarant'anni, con Cronaca di un amore.
Se negli anni Quaranta il soggetto privilegiato della cinematografia italiana erano le classi popolari, nel 1950 il primo lungometraggio del regista ferrarese mette al centro della narrazione
l'alta borghesia industriale lombarda e analizza i sentimenti e
la crisi di un'umanità rimasta a lungo esclusa dall'interesse degli
intellettuali italiani.
I protagonisti di Cronaca di un amore sono gli amanti maledetti
di molta letteratura romantica: Paola (Bosè), moglie di un ricco
industriale, rincontra il suo vecchio amante Guido (Girotti) e insieme decidono di uccidere il
marito di lei, Enrico (Sarmi). Nello stesso tempo, Enrico, spinto dalla gelosia, aveva assoldato un
investigatore privato (Rossi) per indagare sul passato della moglie. Legati dai rimorsi per un'antica
colpa (la responsabilità di entrambi nella morte accidentale della fidanzata di Guido), Paola e
Guido si muovono negli spazi desolati di una Milano ostile, dove una borghesia arricchita dalla
ricostruzione – vuota, futile, ipocrita ed egoista – imposta i rapporti umani nel segno di una sottile violenza di classe.
Impostato sul modello dell'indagine poliziesca e simile nell'intreccio a Ossessione (1943) di Visconti,
Cronaca di un amore impone nuovi modelli narrativi e un tipo di sguardo eccentrico rispetto alla tradizione.
Antonioni dilata la durata media delle inquadrature e amplia la lunghezza delle sequenze. A questo proposito è d'obbligo citare come esempio il colloquio degli amanti che progettano l'omicidio
sul ponte del Naviglio: una scena girata in un unico piano sequenza della durata di oltre tre minuti,
dove la macchina da presa disegna un movimento a spirale, elegante, freddo e ipnotico, che sottolinea l'assenza di una catarsi drammatica e nello stesso tempo enuncia il fallimento esistenziale dei
due protagonisti. Si tratta di un nuovo modo di concepire la messa in scena: per Antonioni, il
linguaggio cinematografico è chiamato, assecondando i fermenti del cinema moderno, a rivestire
un ruolo essenziale nella definizione delle psicologie, dei simboli e dei significati del film.
Figlia di povera gente, la Bosè (attrice che unisce la semplicità della ragazza comune con la
grazia aristocratica dei tratti) fu scoperta da Antonioni nella pasticceria in cui lavorava come commessa. Lo spunto narrativo, probabilmente, assommava diversi spunti di cronaca in cui Antonioni
si imbatté all'epoca della sua collaborazione con il "Corriere padano" come critico.
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Liber n. 23
IL DESERTO DEI TARTARI
Un film di Valerio Zurlini. Con Vittorio Gassman,
Helmut Griem, Francisco Rabal, Jean-Louis Trintignant, Giuliano Gemma.
Drammatico, durata 150 min. - Italia, Francia, Germania 1976.
Il tenente Giovan Battista Drogo, di fresca nomina, viene assegnato alla fortezza Bastiani, un avamposto ai confini dell'impero che si trova dinanzi al deserto anticamente abitato dai
Tartari. Giunto a destinazione Drogo avverte come ogni militare, dal soldato ai più alti gradi, sia in attesa dell'arrivo del
nemico proprio dal da quella direzione e quanto la vita dell'intera guarnigione dipenda da quell'attesa. Drogo cerca di farsi
trasferire ma l'atmosfera che regna nella fortezza finisce con l'affascinarlo e a impedirgli di andarsene.
Il romanzo omonimo di Dino Buzzati (edito nel 1940) aveva attratto da subito più di uno sceneggiatore e
regista ma tutti avevano finito con l'arrendersi dinanzi alla difficoltà di ambientazione storica. Perché lo
scrittore situa la vicenda in una dimensione atemporale e la stessa Fortezza Bastiani può essere considerata un luogo non identificabile (Buzzati si spinse a dire che avrebbe potuto anche essere la redazione del
Corriere della sera per cui scriveva). Ecco allora che l'idea viene accantonata fino al 1963 quando il libro
esce in Francia in edizione tascabile. Sarà Jacques Perrin (già attore per Zurlini in Cronaca familiare) a rilanciare l'idea. La collocazione storica viene fissata alla fine dell'Ottocento con una forte connotazione di
eleganza e rigidità austro-ungarica che la famiglia Buzzati-Traverso aveva ben conosciuto. Il luogo
(fondamentale) è la fortezza di Barn nel sud dell'Iran (ora distrutta dal terremoto del 2003).
Il film è fedele al libro (tranne che nel finale per problemi produttivi) perché fondamentalmente sia Buzzati che Zurlini condividevano una visione della vita dominata da un senso profondo di attesa, da una
sensazione di inutilità, da una profonda malinconia. "Vivere la vita non ha altro fine che lasciarla passare
e la morte è l'unica giustificazione" così si esprimeva il regista individuando questo tema come il fil rouge
di tutta la sua filmografia. Grazie a un cast di altissimo livello Zurlini rilegge non solo il mondo di Buzzati
ma ci propone anche una personale visione del pascaliano 'silenzio dinanzi agli infiniti spazi' con questo
che sarà il suo ultimo film.
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Liber n. 23
DETECTIVE DEE E IL MISTERO
DELLA FIAMMA FANTASMA
Un film di Tsui Hark. Con Andy Lau, Carina Lau, Bingbing Li, Tony Leung Ka Fai, Chao Deng.
Titolo originale Di renjie.
Azione, durata 122 min. - Cina, Hong Kong 2010.
Cina, 690 d.C.
La reggente Wu si appresta ad essere incoronata imperatrice (prima
donna nella storia cinese), ma i molti nemici e cospiratori giocano le
loro ultime carte per impedirlo. Nel frattempo la costruzione di un
gigantesco Buddha in onore della reggente viene rallentata da alcune
morti misteriose per autocombustione; sul caso viene chiamato a
indagare il detective ribelle Dee, già esiliato dalla stessa reggente.
C'era un tempo (gli anni '80-'90) in cui al nome di Tsui Hark era stata giustapposta l'etichetta - semplicistica ma indicativa - di "Steven Spielberg di Hong Kong". Dopo un decennio trascorso seguendo progetti eterogenei ma spesso deludenti, è come se il regista si fosse ricordato di quella che è la sua specificità,
nonché il suo maggior talento. Avvalendosi di capitali della Cina continentale e sfruttandone in pieno i
mezzi, Hark confeziona infatti un romanzo d'avventura che potrebbe tranquillamente essere tratto da un
fumetto dell'era d'oro della nona arte per come sa unire ingredienti semplici ma paradossalmente divenuti
irraggiungibili per i più: divertimento, azione, qualche risata, suspense e ancora divertimento. Proprio
come ai bei tempi in cui Indiana Jones faceva andare la frusta.
L'idea di ambientare nella più classica delle ambientazioni fantasy-wuxia un vero e proprio whodunit permette a Tsui di allestire un curioso pantheon di personaggi degno dei fasti di Zu, Warriors of the Magic
Mountain, insistendo sull'elemento del trasformismo, topos tradizionalmente caro all'autore (Peking Opera
Blues, Swordsman 2). Oltre a un Andy Lau che pare aver sorseggiato l'elisir di eterna giovinezza e a un cast
di alto profilo (dopo Gallants, altro cameo suggestivo di Teddy Robin Kwan), la notizia è che Tsui Hark è
tornato e sembra puntare decisamente a quel trono che fu suo e che a Hong Kong da troppo tempo resta vacante.
PAGINA 35
Liber n. 23
DETOUR
Un film di Edgard George Ulmer. Con Tom Neal,
Ann Savage, Claudia Drake
Drammatico, durata 69 min. - USA 1945.
Al Roberts (Tom Neal), pianista in un night di New York,
cerca di raggiungere in autostop la sua ragazza, Sue (Claudia
Drake), a Los Angeles. Viene raccolto da Haskell (Edmund
MacDonald), un uomo pieno di soldi, che gli racconta che
l'autostoppista precedente, una ragazza, gli ha graffiato la
faccia dopo aver tentato un'avance. Dopo aver sostituito
alla guida Haskell in crisi di sonno, Al, quando tenta di svegliarlo, si accorge che l'uomo è morto. Nascosto il cadavere,
Al incontra una ragazza, Vera (Ann Savage), in un motel,
senza sapere che il giorno prima, lo stesso conducente aveva dato un passaggio anche a lei. La giovane, al contrario, conosce la storia e tenta di ricattarlo, ma muore anche lei accidentalmente, mentre Al continuerà a fuggire...
Agghiacciante film dalle atmosfere kafkiane, narrato in flash-back dalla voce fuori campo del protagonista, uno dei capolavori assoluti del B-movie, "allucinato apologo sull'assurdo e sul caso". Film oggetto di
studio e di culto da parte dei più grandi cineasti, tra i quali Martin Scorsese, girato in 6 giorni e in due soli
ambienti, Detour è considerato il capolavoro di Edgar G. Ulmer, già assistente di Friedrich Murnau, che,
ispirandosi all'espressionismo tedesco, realizza una lenta, inesorabile, discesa all'inferno, con un film a
metà strada tra il noir europeo e il poliziesco americano, perdipiù utilizzando attori sconosciuti. Da incorniciare la sequenza finale filmata in un unico piano sequenza di 5 minuti.
PAGINA 36
Liber n. 23
I DOLCI INGANNI
Un film di Alberto Lattuada. Con Catherine Spaak, Christian Marquand, Jean Sorel, Giacomo Furia, Patrizia Bini.
Commedia, b/n durata 95 min. - Italia 1960.
Francesca è una liceale diciassettenne di buona famiglia. Assistiamo a
una sua giornata in cui non entra in orario a scuola per andare a far
visita a Enrico, un architetto che ha vent'anni più di lei e l'ha conosciuta bambina. Rientrata in classe assisterà a un conflitto sull'amore
tra studentesse e poi trascorrerà il resto del tempo in parte con l'amico Renato nel lussuoso palazzo di una affascinante quanto algida
principessa e poi in un antico edificio alla cui ristrutturazione sta lavorando Enrico.
Le cronache di un tempo avrebbero iniziato così: "Correva l'anno...".
È un incipit appropriato per questo film perché 'correva l'anno 1960' e Alberto Lattuada si mostrava nettamente in anticipo sui tempi dell'evoluzione della morale sessuale senza per questo rinunciare a una lettura problematica di quanto stava per verificarsi nel tessuto sociale. Lo sguardo in macchina finale di
Francesca rimanda a un altro 'storico' sguardo in macchina: quello dell'Antoine Doinel de I quattrocento
colpi di Truffaut che lo precede di un anno sugli schermi. Certo il contesto socio-culturale dei due film si
colloca a distanze siderali ma in entrambi gli sguardi c'è il bisogno di risposte che gli adulti non hanno
saputo dare, c'è l'incertezza di un futuro pieno di incognite. È questo che i censori dell'epoca non compresero fermandosi solo alla superficie di una scena iniziale (il risveglio dopo un sogno erotico) brutalmente mutilata nonché sull'epilogo. Ricorda Lattuada: "La censura fece un massacro perché la ragazza
non si pentiva di aver perduto la verginità e non piangeva, non andava dal prete, non andava dalla madre
e neanche da un'amica. Si guardava in uno specchio e nasceva sul suo volto un sorriso leggerissimo, pieno d'innocenza, con la coscienza che da quel momento cominciava per lei l'altra problematica, quella
dell'amore: ora la partita diventava molto più grossa, era quella dei sentimenti." La debuttante Catherine
Spaak offriva il suo giovane corpo, nascosto da un babydoll e con un solo nudo a mezzo busto di schiena, a una riflessione che, strutturandosi narrativamente nell'arco di un giorno, mostrava un microcosmo
vuoto come la casa in cui Francesca abita con la famiglia. Se le figure femminili brillano per la loro vuota
apparenza (protagonista esclusa) sono i maschi a risultare psicologicamente irrisolti.
Enrico passa dal sottile piacere della seduzione di una vergine all'innamoramento che non sarà corrisposto mentre Renato ha la bellezza del Jean Sorel giovane e una sfrontatezza dietro cui resta ben poco da
scoprire. Rimane il fratello Eddy, testimone frastornato della fondamentale fase di passaggio attraversata
dalla sorella. Entrambi sono cresciuti in un mondo apparentemente protetto da sommovimenti che però
stanno cominciando a presentarsi e Francesca mostra la consapevolezza necessaria per affrontarli da
donna libera.
PAGINA 37
Liber n. 23
LA DONNA DEL RITRATTO
Un film di Fritz Lang. Con Edward G. Robinson, Dan
Duryea, Joan Bennett
Titolo originale The Woman in the Window.
Giallo, b/n durata 99 min. - USA 1944.
L'attempato criminologo Richard Wanley (Edward G. Robinson), rimasto solo in città mentre la famiglia è in vacanza, viene colpito dal
ritratto di una donna, che finirà poi per incontrare casualmente. Suo
malgrado verrà coinvolto dalla donna (Joan Bennett) nell'omicidio del
suo amante, tanto da subire il ricatto di un uomo che minaccia di denunciarlo alla polizia. Disperato, l'involontario omicida sta per togliersi
la vita con del veleno, quando si risveglia nella sua poltrona: la contorta
vicenda di delitti e misteri era solo un incubo.
Uno dei più celebri noir del periodo americano di Fritz Lang, tratto da un romanzo di J.H. Wallis, che il
regista tedesco utilizza per riprendere i temi a lui cari dello sdoppiamento tra realtà e apparenza, del confine spesso labile tra innocenza e colpevolezza.
Thriller inesorabile con Edward G. Robinson superlativo nel rendere la paura di un maturo borghese
coinvolto in una passione che si rivelerà rovinosa, il film venne criticato per il finale apparentemente
sbrigativo, in realtà fulminante, perché concentrato su di un'unica inquadratura.
PAGINA 38
Liber n. 23
LA DONNA SCIMMIA
Un film di Marco Ferreri. Con Ugo Tognazzi, Annie Girardot, Achille Majeroni, Filippo Pompa Marcelli
Commedia, b/n durata 92 min. - Italia 1964.
L'incontro tra Marco Ferreri e Ugo Tognazzi diede vita a una
collaborazione decisamente felice, che permise a Tognazzi di interpretare alcuni dei ruoli più impegnativi e memorabili della sua
carriera, come quello del protagonista di questo film. Antonio
Focaccia è un trafficone che vive di espedienti e che, casualmente, incontra la gallina dalle uova d'oro, Maria (Annie Girardot),
una donna dal corpo interamente ricoperto di peli che vive in un
convento, lontana da occhi indiscreti. Intuito l'affare, Antonio
convince le suore a lasciare andare Maria con lui e la esibisce come
fenomeno da baraccone nelle fiere di paese. Tra i due sembra però
nascere l'amore e Antonio sposa e mette incinta la donna, che tuttavia muore di parto insieme al
bambino. Antonio non esiterà a continuare a esibire in giro per le fiere i corpi imbalsamati di moglie
e figlio. La trama si ispira alla storia vera di una donna ipertricotica vissuta nell'Ottocento, Mia Pastrana, che venne sfruttata come fenomeno da baraccone da un certo Theodore Lent.
Sgradevole, grottesco, geniale, La donna scimmia non è un film per tutti i palati e all'epoca della sua
uscita suscitò un enorme scalpore, come si può intuire facilmente dalla trama e dal disperato finale.
Lo stesso Tognazzi dichiarò, anni dopo, che il film non era stato capito e che in realtà la storia andava considerata molto poetica. La donna scimmia continua il discorso sul declino e sulle bizzarrie
delle istituzioni familiari che il regista aveva già intrapreso l'anno precedente con L'ape regina, sempre
interpretato da Ugo Tognazzi. Le inquietudini della contemporaneità e l'orrore della quotidianità sono lo spunto dal quale si muove il regista per tratteggiare i suoi grotteschi personaggi.
Sceneggiato dal fedele Rafael Azcona con la partecipazione dello stesso Ferreri, il film scatenò violente
reazioni censorie e il produttore Carlo Ponti impose un finale diverso e più conciliante, eliminando la
parte in cui Antonio continua a girare per le fiere con i corpi imbalsamati della moglie e del figlio. Il
cinema di Marco Ferreri, partendo da alcuni spunti nati in coabita­zione con la coeva commedia all'italiana, spingeva l'osservazione crudele e la trasformazione grottesca a limiti inesplorati, toccando spesso
argomenti tabù, non solo per quel tempo. Secondo alcuni grandi critici, come Tullio Kezich e Ugo Casiraghi, il film assomiglia molto a La strada (1954) di Fellini e il rapporto tra Antonio e Maria
ricorderebbe quello tra Zampanò e Gelsomina.
Più di recente, il film è stato ricordato come modello per l'altrettanto forte La venere nera (2010) di
Abdel­latif Kechiche, che scarta però il sarcasmo e punta maggiormente sulla denuncia e l'indignazione.
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Liber n. 23
I DUE ORFANELLI
Un film di Mario Mattoli. Con Isa Barzizza, Carlo Campanini, Totò, Ada Dondini, Galeazzo Benti.
Comico, b/n durata 85 min. - Italia 1947.
Parigi, epoca del secondo impero napoleonico: in un collegio di
orfanelle Matilde, una delle ragazze, è innamorata di Giorgio, un
ufficiale che la vede clandestinamente, senza che la direttrice lo
sappia. Il loro matrimonio è però ostacolato dalla famiglia di
Giorgio per via delle origini sconosciute della povera Matilde.
Intenzionata a scoprire la verità, Matilde incarica gli inservienti
Gasparre e Battista (anche loro orfani dei genitori) di recarsi da
una chiromante con una ciocca dei suoi capelli per scoprire le sue
origini. Gasparre perde però questa ciocca, rimpiazzandola con
una propria. Egli viene così a scoprire le proprie origini nobiliari.
Recatosi alla casa del Duca suo zio per reclamare la propria eredità, viene accolto con apparente benevolenza, mentre nel buio i familiari ordiscono la trama per eliminare il nuovo pretendente.
Dopo una ripetuta serie di fallimenti, Gasparre cade nella trappola, sedotto da Susanne de la Pleine ed è
costretto a battersi in duello; la fortuna lo accompagna ancora una volta e riesce a salvarsi per una provvidenziale battaglia. Attirati poi con l'inganno in un noto night club parigino, vengono coinvolti in un
attentato ai loro danni e riescono miracolosamente a fuggire nelle fogne di Parigi dove incontrano l'abate
Faria, anch'egli evaso e con lui tentano di risalire in superficie: sfortuna vuole che i tre si trovino ad emergere in una stanza del palazzo reale dove Napoleone III sta posando per un quadro...
I due orfanelli è una piccola farsa che propone una parodia maliziosa e onirica vagamente ispirata
al dramma, già portato sugli schermi, Le due orfanelle. Si tratta di un film "di recupero", girato sfruttando scene, costumi e attori utilizzati dallo stesso regista per la realizzazione de Il fiacre n. 13
(1947). La vicenda si svolge in una Parigi di metà Ottocento.
Il racconto è frammentario, interrotto da intermezzi tratti dallo spettacolo di rivista, ma la vena
umoristica degli sceneggiatori riesce ad andare oltre: vero motivo di interesse della pellicola sono,
infatti, le salaci tirate di argomento contemporaneo di Totò che, coadiuvato da un brillante
Campanini, mostra di sapersi cimentare nella più attuale satira politica. Mattoli conferma così la
sua posizione di cauto centrismo in anni politicamente delicati, offrendo un quadro amaro
dell'Italia postbellica e trasformando quello che altrimenti sarebbe stato un semplice lavoro di routine in un documento a suo modo significativo.
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Liber n. 23
E.T. L’EXTRATERRESTRE
Un film di Steven Spielberg. Con Henry Thomas, Drew
Barrymore, Robert MacNaughton, Peter Coyote, Dee
Wallace Stone.
Titolo originale E.T. The Extra-Terrestrial.
Fantastico, durata 115 min. - USA 1982.
Un alieno dal corpo basso e tozzo, dagli enormi piedi e dalla testa
schiacciata viene lasciato sulla Terra dai suoi compagni di esplorazioni. Vagando per un bosco giunge a una casa abitata da una
donna con i suoi 3 figli: Michael, Elliott e Gertie. Elliott ne scoprirà la presenza e lo nasconderà in casa. Quando i fratelli ne verranno a loro volta a conoscenza si coalizzeranno per difenderlo dagli
adulti che lo cercano. Ben presto però l'extraterrestre avrà bisogno
di cure mediche.
Scritto da Melissa Mathison, non ancora signora Ford, il film di Spielberg si colloca tra i capolavori che
non perdono la presa sul pubblico neppure col trascorrere degli anni e si configura come una di quelle
opere che hanno mancato gli Oscar principali per insipienza dei membri dell'Academy, non certo per
mancanza di meriti.
È facile vedere nell'alieno senza età e venuto da non si sa dove sottotesti cristologici (anche se un po' improbabili per l'ebreo Spielberg).
Ma non sta in questo il valore del film.
Il regista aveva già affrontato la fantascienza con una sua visione personale in Incontri ravvicinati del terzo
tipo ma qui intende andare oltre. È la diversità che lo interessa ma nello sviluppare il tema affronta la possibilità che il diverso possa non essere del tutto 'solo'. L'incontro tra Elliott ed E.T. è notturno ed entrambi provano paura nello scoprire il diverso da sé e sconosciuto. Progressivamente quella paura si trasformerà in osmosi e la loro stessa sopravvivenza sarà legata a una dipendenza reciproca.
La sceneggiatura di un film il cui pressoché unico personaggio femminile adulto è quello della madre
(peraltro neppure troppo presente) è consapevole di non dover assumere toni predicatori.
Ecco allora che, in una delle sequenze di maggior presa sul pubblico, E.T. (pupazzo meccanico realizzato
da Carlo Rambaldi) si nasconde nell'armadio in cui si tengono i peluche giocando astutamente sull'autoironia spielberghiana. In questo film poi i 'luoghi' del cinema del regista si vanno sempre più definendo.
La luce di taglio che entra dalle finestre offrendo una nuova dimensione agli spazi diventa sempre più un
marchio di factory. Così come l'incombere delle torce elettriche nella notte alla ricerca dell'alieno, dietro
cui stanno ombre e non volti, non può non far tornare alla mente il camion di Duel. C'è poi quella mano
dal lungo dito che sa come indicare il cielo per cercare la 'casa' a cui telefonare ma che sa anche illuminarsi per guarire o toccare qualcuno nel profondo.
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Liber n. 23
ERASERHEAD
Un film di David Lynch. Con Jack Nance, Charlotte Stewart, Jean Lange, Judith Roberts, Jeanne Bates.
Titolo originale Eraserhead.
Horror, b/n durata 90 min. - USA 1977.
Straordinario risultato di oltre cinque anni di riprese e montaggio ininterrotti, Eraserhead - La mente che cancella fu il primo vero film
di David Lynch, dopo diversi cortometraggi promettenti ma poco
visibili.
Famoso "film di mezzannotte" e fenomeno di culto, questo
"sogno di oscurità e inquietudini", come lo descrisse lo stesso
Lynch, assicurò un notevole seguito di fan a un autore emergente
e anticipò le bellissime immagini di The Elephant Man (1980), Dune
(1988) e Cuore selvaggio (1990) ma anche le narrazioni sconvolte e
sconvolgenti di Twin Peaks: Fuoco cammina con me! (1992), Strade perdute (1997) e Mulholland Drive (2001).
Con la sua trama insolita, i desolati spazi post-industriali e un immaginario in bianco e nero che
sembra provenire dall'inconscio di un timido nevrotico, Eraserhead richiama paragoni con la messa
in scena espressionista de Il gabinetto del Dottor Caligari (1919), con la futuristica decadenza urbana di
Metropolis (1926) e con l'onirismo surrealista di Un Chien Andalou (1928), nonostante Lynch abbia sempre negato l'influenza diretta di questi registi, rispettivamente Robert Weine, Fritz Lang e Luis Bunuel. Nonostante sia fuori luogo domandarsi l'argomento di quest'opera, a dispetto delle sue molte
idiosincrasie, Eraserhead risulta un film narrativo con dei dialoghi, un protagonista e una vicenda più o
meno lineare.
Dalla bocca del protagonista Henry Spencer (Jack Nance) compare una creatura simile a un verme, che
forse rappresenta il concepimento e la nascita. Giungendo al suo squallido condominio, tra la foschia di un desolato paesaggio urbano, un vicino lo informa che la sua ragazza, Mary (Charlotte
Stewart) vuole che vada a cena a casa dei suoi genitori. Durante il pasto che consiste, tra le altre cose, in
un pollo in miniatura che perde sangue e muove le zampe quando lo si infilza con la forchetta, Henry
apprende di essere il padre di un bambino nato prematuramente, che si trova ancora in ospedale.
Mary va a vivere con lui ma lo lascia poco dopo, quando il neonato malforme continua a tenerla sveglia
tutte le notti con il suo pianto.
Il bambino è incredibilmente repellente e tormentato da malattie, ma Henry proverà ad allevarlo.
Dopo aver fantasticato su una donna bionda dagli zigomi pronunciati (Laurel Near) che canta su un
palcoscenico mentre calpesta dei vermi a ritmo di musica, e aver avuto una relazione di una notte con
la sua seducente vicina (Judith Anna Roberts), Henry immagina che la testa gli si stacchi - rimpiazzata da quella del suo bambino - e che, portata in una fabbrica, venga trasformata in gomma da cancellare.
Nessun riassunto della trama di Erasehead, per quanto accurato possa essere, può riuscire a trasmettere
il tono di questo film unico e provocatorio. Il senso di disagio e persino di orrore che si prova guardandolo, e che continua a crescere ad ogni ulteriore visione, sono semplicemente unici.
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Liber n. 23
IL FANTASMA DELL’OPERA
Un film di Rupert Julian. Con Lon Chaney, Mary Philbin,
Norman Kerry, Arthur Edmund Carewe.
Titolo originale The Phantom of the Opera.
Horror, b/n durata 73 min. - USA 1925.
Il primo e più fedele adattamento cinematografico del romanzo scritto
nel 1910 da Gaston Leroux, venne proiettato la prima volta a New York
City, il 6 settembre 1925. Gotico ed inquietante, la maggior parte del
successo che il film ottenne nel tempo, va attribuito all'istrionismo di
Chaney nonché alla sfarzosità dei set; il resto può risultare non memorabile a partire dall'esperienza sfiancante di sorbirsi un'ora e quarantacinque di film muto! Inseriti in un plot che fa acqua da più parti, protagonisti i più diversi (dal carismatico Chaney al noioso Kerry) si stagliano
contro un set sfarzosissimo esaltato in scene come quelle a colori (2-strip Technicolor) del ballo in maschera, momento in cui il Fantasma si presenta con come la Maschera della Morte Rossa (proprio quella
di Edgar Allan Poe). In effetti Il Fantasma dell'Opera più che essere un bel film complessivamente è una
somma di momenti incisivi: la scena sopra indicata, il crollo del lampadario operato da Eric per mettere i
bastoni in mezzo alle ruote della "vecchia" diva, le riprese nei sotterranei dell'Opera, e, ovviamente, il
momento in cui al cattivo Eric viene tolta la maschera. In quel momento al pubblico, prima che alla protagonista, è dato di vedere il mostruoso volto del Fantasma, tanto mostruoso che anche la macchina da
presa per un breve momento va fuori fuoco. Non male poi il finale con la ressa di gente che vuole linciare il malefico Eric, per il quale però lo spettatore prova una certa simpatia, certo maggiore di quella che si
può provare per l'impomatato visconte. Non manca neppure qualche momento comico, vedi il momento
della vendita dello stabile quando i due proprietari furboni tacciono o minimizzano sulla presenza di un
eventuale fantasma. Ciò che rimane di più apprezzabile è comunque la costruzione del pathos dal momento che per un buon terzo del film l'identità del Fantasma viene tenuta segreta, e se ci è data possibilità di vederlo, si tratta di un volto coperto da una maschera rigida forse ancor più inquietante del volto
che nasconde. Il film al tempo fece grande paura e si dice che quando il pubblico vide il volto "sfigurato"
di Chaney, alcune delle donne in sala svennero. Credibile. L'attore trasformista rimane la "Prima Donna"
di questo film pilastro del cinema horror, ma oggi c'è solo ammirazione e non più la paura.
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Liber n. 23
LE FATICHE D’ERCOLE
Un film di Pietro Francisci. Con Ivo Garrani, Sylva
Koscina, Steve Reeves, Gianna Maria Canale, Gabriele Antonini.
Avventura, durata 102 min. - Italia 1958.
Ercole è chiamato alla corte di Pelia, re di Iolco, per fare da
tutore a Iphìto, inetto e borioso figlio del re. Lì ha modo di
conoscere anche Jole, figlia del sovrano: tra i due nasce una
forte attrazione. Pelia nasconde un terribile segreto: per conquistare il trono ha fatto uccidere il fratello, all'epoca re, e ha
consentito che il vello d'oro, che era esposto nella reggia come
segno di benedizione, venisse rubato.
Ercole inizia l'addestramento del riottoso Iphito. Ma poco
dopo, venuto a sapere che un feroce leone si aggira nei dintorni, uccidendo chiunque lo incontri, decide di entrare in azione
per eliminarlo. L'orgoglioso Iphito lo segue, contro il parere dell'eroe, e viene ucciso dalla fiera, il famigerato Leone di Nemea, che poi Ercole ucciderà a sua volta.
Sconvolto dal dolore per la morte del figlio e desideroso di vendicarsi, Pelia bandisce Ercole da Iolco e lo
impegna, con la sua maledizione, a pagare il fio della sua colpa compiendo delle imprese straordinarie...
Le fatiche di Ercole è il prototipo di un genere – il "peplum" – attraverso il quale il cinema italiano
realizzò una lunga serie di prodotti mitologici e storici a basso costo, sfruttando l'indotto del periodo d'oro della cosiddetta Hollywood sul Tevere (gli accordi economici tra case di produzione USA
e Cinecittà).
Il film narra le celebri imprese di Ercole per aiutare Giasone nella riconquista del regno e nella caccia al vello d'oro. Il regista Francisci ebbe il merito di valorizzare set posticci e poveri, per dare invece l'impressione di uno spettacolo opulento e avventuroso. L'arte del risparmio verrà poi imitata da
altri generi autoctoni quali lo spaghetti western e l'horror all'italiana. Le scene di massa e le scene d'azione, ottenute con pochi figuranti e inquadrature astute, fecero presto scuola. Il protagonista, Steve
Reeves, originario del Montana, era un culturista e giunse in Italia dopo aver conquistato quasi tutti i titoli possibili nel suo campo (tra cui Mister Mondo e Mister Universo). Il cinema dell'antichità
classica gli diede notorietà, visto che il suo fisico statuario richiamava la fissità scultorea degli dei e sopperiva alle evidenti carenze recitative. Il successo straordinario della pellicola, primo incasso della stagione, convinse i produttori a mettere in cantiere decine di film dedicati a personaggi come Sansone, Ursus, Maciste e così via.
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Liber n. 23
FIFA E ARENA
Un film di Mario Mattoli. Con Totò, Isa Barzizza, Mario Castellani, Luigi Pavese, Ada Dondini.
Comico, b/n durata 85 min. - Italia 1948.
Napoli. Nicolino Capece lavora nella farmacia di famiglia gestita dalla zia
Adele. La vicenda ha inizio quando, per un errore di stampa, la Gazzetta
di Napoli pubblica una foto di Nicolino in un articolo dove egli è indicato e descritto come un serial killer specializzato nell'uccisione di donne (in
realtà la sua foto era destinata a un'inserzione pubblicitaria). A questo
punto Nicolino è costretto a fuggire inseguito dai concittadini infuriati e
dalle forze dell'ordine e, travestitosi da hostess, riesce a salire su un aereo
diretto in Spagna. Sbarcato a Siviglia, viene riconosciuto da Cast, un altro
assassino italiano (che ha visto la stessa foto sul giornale), il quale progetta di fargli sedurre e sposare Patricia Cotten, una miliardaria americana
pluridivorziata, per poi ucciderla e accedere al suo patrimonio. Nicolino, invaghitosi della bella americana, finge di essere un torero e rivaleggia con un autentico matador, Paquito, anche lui innamorato della
stessa donna. Tra esilaranti colpi di scena, Nicolino (che George, l'amico di Patricia, ribattezza
"Nicolete", per assonanza con Manolete) finisce addirittura per scendere nell'arena a toreare nonostante
il suo terrore e la sua inesperienza. Con un astuto espediente e molta fortuna, riuscirà a cacciarsi fuori dai
guai e a sposare la bella miliardaria, dimostrando la propria vera identità e la propria innocenza.
Fifa e arena, parodia dell'hollywoodiano Sangue e arena (1941), che lanciò la carriera di Rita Hayworth al fianco delle due stelle Anthony Quinn e Tyrone Power.
Fifa e arena è un film realizzato con mezzi esigui, ma raggiunse incassi strepitosi: si narra addirittura di
scazzottate durante le code alle biglietterie. Ha il merito di avere un soggetto accattivante arricchito
da battute esilaranti, dietro alle quali si nasconde la penna di Steno, e dalla mimica insuperabile di Totò.
Alcune sequenze di Fifa e arena fanno ormai parte dell'immaginario collettivo, come la scena in cui
Totò cerca di sbirciare le nudità della protagonista femminile (Barzizza) attraverso un acquario.
Quando, nel momento più piccante, un pesce gli si ferma davanti ostacolando la vista del corpo della
donna, lui esclama, facendo riferimento all'azione censoria del momento, "è un pesce democristiano".
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Liber n. 23
I FIGLI DI NESSUNO
Un film di Raffaello Matarazzo. Con Yvonne Sanson, Françoise Rosay, Amedeo Nazzari, Enrico
Glori, Nino Marchesini.
Drammatico, b/n durata 105 min. - Italia 1951.
Il Conte Guido Carani è l'unico figlio di una ricca famiglia
proprietaria di una cava di marmo a Carrara. Il padre è morto da molti anni, pertanto è la madre che si occupa di gestire
l'impresa insieme ad Anselmo, un amministratore senza
scrupoli che si arricchisce sfruttando i lavoratori.
Guido è innamorato, ricambiato, di Luisa Fanti, la figlia di
Bernardo, l'anziano e malato guardiano della cava, suo dipendente, che muore poco dopo. La contessa madre, però, si
oppone a questa relazione, preferendo per il figlio una donna
di più alto rango. Con la scusa di fargli acquistare nuovi macchinari per rendere più efficiente l'attività lo
convince a recarsi a Londra. Inoltre fa in modo che l'amministratore blocchi ogni comunicazione tra i
due. Nel tentativo di allontanarla definitivamente dalla vita di Guido, chiede ad Anselmo di mandar via
Luisa dalla casa del guardiano della cava, in cui ancora la donna abita. Anselmo ricatta Luisa chiedendole
favori sessuali per non mandarla via e la donna, durante una notte di bufera, fugge sconvolta e cade in un
torrente. Nella fuga Luisa perde il suo scialle. Guido, nel frattempo tornato da Londra per capire il motivo delle mancate risposte, apprende della fuga e, come tutti, si convince che la donna, di cui i soccorritori
hanno ritrovato soltanto lo scialle, è morta nel ruscello…
Raffaello Matarazzo viene identificato con il cosiddetto "neorealismo popolare". In verità, di neorealista c'è assai poco nei suoi film, se non alcune ambientazioni proletarie e certi scorci di vita vissuta. Conta assai di più, invece, il termine "popolare", segnale di interessamento verso grandi congegni narrativi per grandi platee, conditi con colpi di stile e invenzioni di regia.
I figli di nessuno spinge all'estremo i modelli melodrammatici del regista, quasi sadico nei confronti delle
sofferenze dei propri personaggi e proprio per questo molto amato dal pubblico con la lacrima facile. Non siamo però di fronte a semplice cinema d'appendice: questo feuilleton su grande schermo
è caratterizzato da una messa in scena magistrale e da grande capacità di coinvolgimento emotivo.
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Liber n. 23
FRA DIAVOLO
Un film di Charles Rogers, Hal Roach. Con Stan Laurel,
Oliver Hardy, Dennis King, Thelma Todd, James Finlayson.
Titolo originale The Devil's Brother.
Comico, b/n durata 88 min. - USA 1933.
Se, nel giudicare un film, si parte dal concetto della "vedibilità", allora i
massimi eroi del cinema del mondo sono Laurel e Hardy. Nel corso dei
decenni grandi personaggi acclamati nella loro stagione hanno perso, del
tutto o parzialmente, vedibilità. Niente più della risata è legata al proprio
tempo. La comicità appassisce letteralmente e cade come foglie secche
quando cambia la stagione.
Non c'è comico che mantenga la sua energia nel corso del tempo. Basta
citare a caso: Keaton, parzialmente lo stesso Chaplin, i Marx e, salendo,
Gianni e Pinotto, Bob Hope e Bing Crosby, Donald O'Connor del mulo parlante, Jerry Lewis, tutta gente che faceva record di incassi.
Attendiamo all'esame del tempo Mel Brooks, Gene Wilder e lo stesso Woody Allen (e già ci accorgiamo
che i suoi primi film stanno cedendo). Forse solo il nostro Totò rimane lo stesso di sempre, anzi, migliora col tempo. Laurel e Hardy fanno ridere secondo tutti i registri. Nelle situazioni, nel dialogo, nei gesti,
nella mimica. Sono talenti perfetti, non sostituibili, incontrastati legislatori di immagine. Il loro marchio è
leader senza discussione a rappresentare la risata, così come la Gioconda rappresenta le arti figurative, il
Partenone l'architettura, Shakespeare il teatro, Pelé il pallone, Clay i pugni, Marilyn Monroe la donna,
Elisabetta la monarchia.
Laurel è stupido, Hardy è un finto intelligente. Sono pronti a tutte le esperienze: andare in guerra, costruire una casa, adottare un bambino, mendicare, fare tutti i lavori. Sono pignoli e pedanti, trasportano un
pianoforte su un ponte di assi e un armadio lungo una scalinata infinita. Ogni tanto Oliver, esasperato,
guarda l'obiettivo, guarda lo spettatore, in cerca di solidarietà. E si ride sempre. Commoventi e indimenticabili le sequenze in cui cantano e ballano, con Oliver, così corpulento, capace di muoversi con agilità e
leggerezza e Stan, che era inglese, capace di far intravvedere, mascherata e giocata, un'autentica classe
"spettacolare". Uno grasso, l'altro magro, fecero del contrasto fisico anche contrasto morale e dialettico.
Detto in sintesi e semplicità, la chiave del loro successo è là. Non si può non citare Hal Roach, il loro
produttore e, in sostanza, inventore.
Fra Diavolo è forse il titolo più noto interpretato dai due, ma tutti i loro film si equivalgono, bastava pescare nel mucchio. I due vagabondi vengono aggrediti e derubati dai banditi, diventano banditi a loro
volta, ma incappano proprio nel terribile fra Diavolo, che non li uccide solo per usarli. Alla fine la situazione disperata viene salvata dal provvidenziale intervento di un toro.
A Stan e Oliver, tutti dobbiamo molto, da quasi settant'anni a questa parte.
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Liber n. 23
FRANCESCO D’ASSISI
Un film di Liliana Cavani. Con Riccardo Cucciolla,
Lou Castel, Mino Bellei, Giancarlo Sbragia.
Biografico, b/n durata 134 min. - Italia 1966.
Dei numerosi racconti della vita di san Francesco presenti nel cinema italiano – compresa la versione maiuscola diretta da Roberto Rossellini nel 1950, Francesco,
giullare di Dio – il film di Liliana Cavani rappresenta senza
dubbio il più irriverente. Nell'idea della regista, infatti,
Francesco va considerato un rivoluzionario ante litteram e
non è un caso che l'attore prescelto per interpretare il
protagonista sia Lou Castel, il giovane contestatore e omicida de I pugni in tasca (1965), il cui regista, Marco Bellocchio, è qui presente come attore in una piccola parte.
La storia è nota. Francesco, figlio inquieto di Pietro Bernardone (Sbragia), dopo aver cercato di vivere secondo le varie possibilità garantitegli dalla ricca
famiglia, abbandona ogni bene materiale e decide di vivere in povertà, seguendo alla lettera i dettami del Vangelo. L'intransigenza del suo credo gli guadagna molti fedeli seguaci. Papa Innocenzo III
(Belton) fa infine approvare la sua Regola, ma la creazione dell'ordine significa anche il lento sgretolarsi degli ideali da cui Francesco era partito.
Castel, dunque, inietta nella figura di Francesco un'inquietudine nuova, tanto da essere considerato una sorta di giovane in lotta con il sistema dominante. La Rai, che distribuì il film, fu travolta dalla polemica creatasi intorno all'opera, anche se spesso la discussione veniva confinata nel
mondo cattolico, tra gruppi del dissenso e rappresentanti della dottrina ufficiale. Dal punto di
vista stilistico, la regista – qui all'esordio – privilegia uno stile realista e concreto, che sottrae spazio
alla miracolistica per concentrarsi meglio sull'autenticità e sull'umanità del personaggio. Si è parlato,
infatti, di messa in scena "semi­documentaristica".
Più di vent'anni dopo, la Cavani è tornata sul personaggio con Francesco (1989), questa volta interpretato
come solitario, introverso, mistico "cane sciolto" alle prese col vuoto ideologico di un mondo
che allude evidentemente al nostro. Come protagonista, a sorpresa, fu chiamato il controverso divo
americano Mickey Rourke, un volto capace di esprimere forza e fragilità insieme. Nel 2011, infine,
la regista ha cominciato a preparare una terza versione della storia del poverello di Assisi.
Del film del '66 Liliana Cavani ricorda: "Mi ero basata soprattutto sulla biografia di San Francesco
scritta da Paul Sabatier alla fine del XIX secolo; non era un testo agiografico ma un vero e proprio romanzo di formazione, imperniato in fondo su una rivoluzione generazionale".
PAGINA 48
Liber n. 23
FREAKS
Un film di Tod Browning. Con Wallace Ford, Roscoe Ates,
Olga Baclanova
Horror, b/n durata 64 min. - USA 1932.
Un nano di un circo si innamora di una trapezista. Accortasi che l'ammiratore è diventato l'erede di una cospicua fortuna, la donna architetta un
piano diabolico per ucciderlo. Questo scatenerà però la vendetta da parte degli altri "mostri" della compagnia.
Browning, maestro dell'orrore, gira invece questo film con estremo realismo, che solo in alcuni punti, quasi naturalmente, sbanda in impennate
visionarie (il finale). Un capolavoro memorabile e maledetto, girato con
veri freaks circensi e, vuole la leggenda, film-freak esso stesso, mutilato
dal produttore Thalberg a poco più di un'ora.
Questo è probabilmente uno dei film più inquietanti della storia del Cinema, una pellicola che, a dispetto della tecnologia di cui disponiamo, sarebbe impossibile da realizzare ai
giorni nostri.
I produttori della MGM desideravano realizzare un film dell’orrore che potesse competere con l'enorme
successo di Frankenstein e del Dracula interpretato da Bela Lugosi, diretto da Tod
Browning (pseudonimo di Charles Albert Browning Jr.) e lanciato dalla Universal, casa produttrice rivale,
nel 1931. La scelta riguardante la regia cadde proprio su Browning, anche in virtù della storia personale
del regista che si adattava benissimo alla trama (trasposizione di un racconto del 1923, Spurs, a opera
di Tod Robbins).
Browning non era nuovo a questo genere di tema: non solo conosceva il racconto di Robbins, ma a sedici anni era scappato di casa ed era andato a lavorare in un circo dove aveva vissuto a stretto contatto con
vari freaks, sviluppando un profondo rispetto per queste persone. Un'esperienza che gli permise di instaurare un rapporto confidenziale e diretto con gli attori e di lavorarci proficuamente, quando invece gli
altri “normali” sarebbero stati spaventati o, quantomeno, si sarebbero sentiti a disagio.
Se la trama del film è, in sé, abbastanza banale, lo stesso non si può dire del messaggio che comunica, un
messaggio, purtroppo, ancora oggi attualissimo, senza inoltre dimenticare che, proprio in quel periodo, il
mondo stava per finire tra le grinfie di mostri con la parvenza di persone "normali" come Hitler, Stalin e Mussolini.
Secondo Paolo Mereghetti: "Il film è interpretato da autentici freaks che trasportano lo spettatore in un
mondo di incubi e paure. Browning filma la vita quotidiana di quei "mostri" senza morbosità, ma con
l'intenzione di rivelarne la genuina umanità, così da decuplicare la mostruosità morale di certi esseri
"normali" come Cleopatra, salvo poi, dopo aver rinsaldato il legame che unisce il normale al diverso,
compiere un ulteriore spiazzamento psicologico, perché la solidarietà che i freaks dimostrano per il nano
Hans si trasforma in una vendetta altrettanto atroce se non peggiore dell'offesa che stava per subire."Quest'ultima affermazione non mi trova affatto d'accordo: la vendetta, a mio parere, è direttamente
proporzionale alla "offesa" nonché del tutto meritata.
PAGINA 49
Liber n. 23
FUORI DAL MONDO
Un film di Giuseppe Piccioni. Con Silvio Orlando,
Margherita Buy, Marina Massironi, Giuliana Lojodice.
Drammatico, durata 101 min. - Italia 1999.
Caterina (Buy) è una suora in attesa di prendere i voti perpetui. Ernesto (Orlando) ha ereditato una lavanderia che gestisce senza passione. Teresa (Freschi) ha abbandonato il suo
bambino, appena partorito, al parco Sempione, nel cuore
di Milano. Personaggi anonimi, che si muovono in una metropoli irriconoscibile, s'incontrano, condividono un'esperienza drammatica per fare poi ritorno alle loro vite senza tonalità. Al centro della vicenda c'è il ritrovamento del
neonato.
Il piccolo, infatti, scatena un inaspettato istinto materno
nella suora, messa in difficoltà davanti alla scelta religiosa, e risveglia il piccolo imprenditore dal
torpore esistenziale e sentimentale, quasi sperasse di essere lui il padre.
Giuseppe Piccioni, al suo quinto lungometraggio, scrive e dirige un film che fa leva sulla discrezione dei due protagonisti. Margherita Buy (sua musa fin da Chiedi la luna del 1991) e Silvio Orlando non manifestano i loro stati d'animo in maniera violenta o istintiva, lavorando piuttosto sui
primi piani, sul corpo e sulla dizione. Pur nell'evidente sofferenza personale si sforzano di mostrare autocontrollo – lei aiutata dalla fede, lui da flaconi e boccette di calmanti e sonniferi. Si sforzano, con determinazione, di fare la cosa giusta. Ma è la ricerca del senso profondo della vita che
pare non trovare riscontro. I personaggi del film (poliziotti, commesse, suore, impiegate di lavanderia, infermiere, dottori...), vestiti con divise che dovrebbero avvolgerli e proteggerli nell'anonimato, sono incorniciati, nei loro sorrisi forzati, in quadretti solo apparentemente rassicuranti. L'espediente stilistico usato da Piccioni suscita invece emozioni opposte: la spersonalizzazione
dell'individuo diventa la palese rappresentazione di una profonda e definitiva mancanza di senso.
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Liber n. 23
IL GIARDINO DEI FINZI-CONTINI
Un film di Vittorio De Sica. Con Fabio Testi, Helmut Berger, Dominique Sanda, Lino Capolicchio, Romolo Valli.
Drammatico, durata 93 min. - Italia 1970.
Ferrara 1938-1943. Le Leggi in difesa della razza sono operative e gli
ebrei debbono condurre una vita separata rispetto agli altri italiani.
Giorgio è sin dalla preadolescenza amico della bella Micòl Finzi
Contini. Li separa la classe sociale ma li unisce l'immenso parco della villa in cui spesso ci si ritrova tra amici a giocare a tennis. È lì che
Giorgio comincia a provare un sentimento diverso dall'amicizia per
la ragazza che però non lo corrisponde. Intanto scoppia la guerra e
la situazione degli israeliti si fa di giorno in giorno più precaria.
Non era certo il primo libro a cui Vittorio De Sica si ispirava per
una propria opera cinematografica (si pensi, solo per citarne due tra i più famosi a Ladri di biciclette di Luigi Bartolini o a La ciociara di Moravia) ma è stato di certo quello che gli ha causato più problemi. Bassani
si identificava totalmente con il protagonista a cui aveva dato anche il suo nome e non voleva che si mutasse nulla della sua sorte per quanto riguardava soprattutto il finale. Ma ciò che più aveva preoccupato
De Sica (che per la prima volta si staccava dall'amico ma anche maestro sceneggiatore Zavattini) era ciò
che il nuovo entrato Ugo Pirro ricorda nel suo interessantissimo libro "Soltanto un nome nei titoli di testa". Il fatto cioè che lo scrittore, a cui era stato consentito di proporre una prima stesura della sceneggiatura avesse in primis tradito il proprio romanzo volendo aprire il film con i rastrellamenti compiuti dai
tedeschi in divisa e costruendo la vicenda sui flash back. Quella degli ordini gridati, delle camionette, degli stivali che risuonavano sul selciato era ormai divenuta una sequenza comune e stereotipa di moltissimi
film sulla seconda guerra mondiale e Bassani sembrava in questo modo voler negare l'atmosfera stessa
della propria opera che invece De Sica sa cogliere con estrema sensibilità.
Il regista trova qui il punto più alto (conquistando il suo quarto Oscar) della fase finale della sua filmografia lavorando proprio sui mezzi toni di una vita sospesa in cui la ricchezza materiale (ai Finzi Contini non
mancano i mezzi economici) può solo cercare di proteggere dal progressivo isolamento sociale. La vicenda di Giorgio e Micòl diventa così una lettura, che può apparire fredda ma non lo è, di una separazione
all'interno di una separazione in cui l'ingenuità del primo (che a uno sguardo contemporaneo può sembrare eccessiva) è costretta a confrontarsi con una maturità più consapevole del dolore che talvolta è necessario causare agli altri per evitarne uno maggiore sul piano dei sentimenti. E' costruendo intorno a
questo nucleo tematico un susseguirsi di segnali (ad esempio le telefonate anonime, l'inibizione della frequentazione della biblioteca) che De Sica e Pirro con Vittorio Bonicelli rendono ancor più tragico il finale. Senza svastiche e blindati ma con la consapevolezza profonda dello sterminio in atto.
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Liber n. 23
GIU’ AL NORD
Un film di Dany Boon. Con Kad Mérad, Dany
Boon, Zoé Félix, Philippe Duquesne, Line Renaud.
Titolo originale Bienvenue chez les Ch'tis.
Commedia, durata 106 min. - Francia 2007.
Philippe è direttore di un ufficio postale in Provenza.
Obbligato al trasferimento tenta di farsi mandare in Costa Azzurra e, per ottenere l'assegnazione, inscena un trucco che viene scoperto. A questo punto potrebbe temere il licenziamento. Invece gli accade...di peggio. Viene destinato all'ufficio postale di Bergues nel Nord-Pas de Calais. Non c'è nessuno che
non lo compatisca, perfino un agente della polizia stradale lo
commisera quando viene a conoscenza della sua meta.
La moglie, caduta praticamente in depressione alla notizia,
non lo segue. Giunto a destinazione tutto sembra così come
era stato narrato. I locali parlano un dialetto pressoché incomprensibile, il cibo non è allettante e l'appartamento dove dovrebbe andare a vivere è privo di mobilio. Ma ben presto le cose cambiano. Philippe,
grazie all'umanità del postino Antoine e dei colleghi dell'ufficio scoprirà che si può vivere (e vivere bene)
anche al Nord ma come farlo capire a sua moglie?
Successo travolgente al box office francese questo film di Daniel Boom (che il pubblico italiano ha imparato a conoscere grazie a Il mio migliore amico di Patrice Leconte). Un successo quasi inatteso perché il tema non era dei più semplici: il pregiudizio e, soprattutto, un pregiudizio legato a una regione della Francia. Il Nord sopra Parigi (l'area di Lille) è considerato dai francesi un luogo buio, dove fa freddo e piove
sempre abitato da gente rude, poco socievole e dai gusti strani.
Per di più parlano un dialetto-lingua detto Ch'timi perché in quell'idioma la 's' francese suona 'ch' e il 'toi'
e 'moi' diventano 'ti' e 'mi'.
Kad Merad nel ruolo di Philippe riesce a rendere perfettamente il disagio di chi parte con addosso il fardello del pregiudizio verso una destinazione in cui dovrà permanere per un non breve periodo. I primi
incontri non faranno che rafforzare la prima impressione ma non si tratta che della facciata. La comprensione è possibile e si sviluppa grazie alle piccole situazioni quotidiane e ad un pizzico di commedia con
qualche tratto di surreale (vedi la consegna a domicilio della posta con progressiva ubriacatura dovuta agli
utenti ospitali).
Quello che alla commedia italiana riesce sempre più difficile fare sembra invece ancora possibile in Francia: coniugare il divertimento con l'umanità e con un messaggio non declamato e non didascalico. È ancora possibile conoscersi e comprendersi nonostante la sedimentazione di stereotipi. È sufficiente provare ad andare oltre, provare a capirsi. Magari anche arredando, con mobili presi qua e là, un appartamento
e mangiando in piazza le frites.
Boom, che è del Nord, da tempo attendeva il momento di poter lavorare su questi temi. C'è riuscito e il
pubblico francese gliene ha dato calorosamente atto.
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Liber n. 23
GRAZIE ZIA
Un film di Salvatore Samperi. Con Gabriele Ferzetti, Lisa
Gastoni, Lou Castel, Nicoletta Rizzi, Massimo Sarchielli
Drammatico, durata 94 min. - Italia 1968.
Esordio alla regia del ventiquattrenne Salvatore Samperi, Grazie,
zia si colloca sulla scia di un altro esordio di pochi anni precedente, I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio. Anche in questo caso il protagonista è Lou Castel, in un ruolo analogo di ribelle, nevrotico, che qui si carica ulteriormente degli umori della
contestazione sessantottesca.
La trama evidenzia chiaramente il clima del periodo. Si racconta infatti di Alvise, figlio di un ricco industriale, che si finge paraplegico e rifiuta totalmente e apertamente la classe borghese a
cui appartiene, esprimendosi in modo aggressivo e antisociale.
Durante un viaggio dei genitori, Alvise è ospitato nella villa della
zia Lea (Gastoni), di professione medico, l'unica a nutrire un po' di comprensione nei confronti del ragazzo. Tra i due nasce una relazione esclusiva e morbosa, nella quale la donna accetta di subire continue umiliazioni.
Intorno a loro si crea il vuoto — Lea abbandona il fidanzato Stefano (Ferzetti) e anche le domestiche
lasciano la casa — ma il rapporto è votato all'annientamento, e in un crescendo di pratiche sadomasochistiche Alvise si fa infine uccidere dalla zia, la quale accetta di iniettargli del veleno.
Se la seconda parte della pellicola è dedicata allo sviluppo di questa relazione incestuosa e patologica
tra nipote e zia, che non poco scandalo suscitò all'epoca, tutta la prima parte si concentra sulla definizione del personaggio del giovane: rabbioso ma impotente, Alvise è animato da una carica nichilista
e distruttiva; è fanatico di Diabolik, rimette in scena le battaglie del Vietnam con i soldatini, tenta il
suicidio, forse per gioco, e odia i discorsi della borghesia progressista incarnata da Stefano. Nel suo
personaggio si esprime tutta la carica vitale, indefinita e al tempo stesso distruttiva, della protesta giovanile. Il film ebbe un tale riscontro da meritare una distribuzione internazionale. Lisa Gastoni, interprete della sensuale zia, divenne un'icona del cinema erotico d'autore. In America, dove fu guardato con attenzione proprio in virtù della descrizione dei fermenti generazionali, il film divenne un piccolo culto.
Lo stile nouvelle vague di Samperi, fatto di zoom, ripetizioni, stacchi marcati, soggettive, vuole esprimere il senso di rottura anche a livello visivo, gettando un ponte verso i linguaggi autoriali e modernisti più in voga di quegli anni.
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Liber n. 23
GREASE
Un film di Randal Kleiser. Con John Travolta, Olivia
Newton-John, Jeff Conaway, Barry Pearl, Michael
Tucci.
Titolo originale Grease.
Musicale, durata 110 min. - USA 1978.
Danny ha trascorso una vacanza estiva romantica con la bionda e dolce Sandy. La ragazza però è ripartita per l'Australia o,
almeno, così avrebbe dovuto essere. Invece Danny la ritrova
nella sua scuola media superiore. Sandy è rimasta negli States
ma Danny ha una fama da sciupa femmine da difendere e
quindi quando la incontra deve fingere disinteresse. Ha inizio
così un tira e molla tra i due attorno al quale si sviluppano altre vicende amorose. Prima fra tutte quella di Betty Rizzo,
leader incontrastata delle Pink che, a sua volta si è costruita un'immagine spregiudicata ma che, come tutte, sogna l'amore che duri.
Correva l'anno 1978 e John Travolta usciva dal successo planetario di La febbre del sabato sera. Grease costituì la conferma di una nuova star proveniente dal pianeta Hollywood. Il musical non era una novità assoluta in quanto derivazione (con gli opportuni cambiamenti) dello show che già aveva ottenuto un buon
successo sul palcoscenico. Per il pubblico non anglofono però restava comunque uno spettacolo solo
parzialmente fruibile. Come le nonne prima di loro (con Ginger Rogers e Fred Astaire) i teenager della
fine Anni Settanta, con frequenza quasi cronometrica, vedevano Olivia Newton-John, Travolta e compagni smettere di parlare in italiano e continuare ad esprimere i loro sentimenti in una lingua incomprensibile. Si è ora finalmente posto rimedio a questo gap (grazie forse anche al successo di Glee) sottotitolando
le canzoni. Così finalmente tutti potranno seguire le spacconate di Danny contrapposte ai romantici ricordi di Sandy ("Summer Nights") e verificare, al di là della melodia, quanto si sbagliasse il regista Randal
Kleiser quando detestava "You Are The One That I Want". Perché la forza di Grease non sta tanto
nell'essere un grande musical (situazioni come la festa scolastica e, in particolare, la corsa in auto avevano
avuto predecessori di ben altra qualità) quanto nella chimica che lo attraversa e lo rende unico. A partire
dal rendere credibili come adolescenti degli attori decisamente più vecchi. Travolta aveva 23 anni al tempo delle riprese, la Newton-John 28 e Stockard Channing 33. Ma tutto questo non importa perché
nell'impianto da fiaba con notazioni realistiche (il preservativo bucato, la possibile gravidanza di Betty, il
tentativo del maturo Frankie Avalon con una poco più che maggiorenne) il lieto fine è assicurato e i
'favolosi Fifties' vengono rappresentati come un tempo in cui i pensieri 'seri' all'American Graffiti erano
ancora di là da venire. Ci sono film destinati a rimanere nell'immaginario collettivo fissandosi come icone
che resistono al di là dello scorrere del tempo. Non è necessario che siano capolavori. Basta (come afferma Woody Allen) che funzionino. Grease è uno di questi.
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Liber n. 23
GUARDIE E LADRI
Un film di Steno, Mario Monicelli. Con Totò, Rossana
Podestà, Aldo Fabrizi, Ave Ninchi, Carlo Delle Piane.
Commedia, b/n durata 106 min. - Italia 1951.
Ferdinando Esposito è un piccolo truffatore che cerca di mantenere la famiglia con i suoi espedienti. Travestito da guida turistica, e con il suo socio d'affari Amilcare, finge di aver trovato una
moneta antica nel Foro Romano e la vende per 50 dollari a un
turista americano, il quale si accorge troppo tardi della truffa.
Quella stessa mattina i due organizzano una seconda truffa al
Teatro Quirino, dove sta avvenendo la distribuzione di alcuni
pacchi-dono, destinati alle famiglie. L'idea è di ingaggiare un
gruppo di bambini, che dovranno recitare la parte dei loro figli,
ma Esposito è senza biglietto. All'entrata del teatro si imbatte
con un grasso agente di polizia, il brigadiere Lorenzo Bottoni,
così comincia una discussione tra i due e, per non avere problemi e per non bloccare la fila, la guardia gli
permette di entrare. La truffa non finisce bene, il presidente del comitato di beneficenza è Mr. Locuzzo,
il turista americano truffato, e durante la distribuzione dei pacchi lo riconosce e lo denuncia seduta stante.
Comincia così un lungo inseguimento da parte dell'agente di polizia Bottoni. Esposito riesce a prendere
un taxi mentre il brigadiere sale nella macchina dell'americano, con lui al volante. Il taxi di Esposito finisce in una strada bloccata in aperta campagna e l'uomo è costretto a scendere. L'inseguimento si trasforma in una vera a propria caccia all'uomo, il ladruncolo non è inseguito solo dalla guardia e dal turista americano, ma anche dal tassista. Dopo una lunghissima ed estenuante corsa attraverso il fango e la campagna, Esposito è costretto a fermarsi - poiché sofferente di fegato - seguito immediatamente dal brigadiere, anch'egli stremato.
Quello di Guardie e ladri è uno dei copioni più equilibrati mai scritti per Totò, che ha così potuto
condurre la propria recitazione dentro canoni drammaturgici solidi e non di pura improvvisazione.
Gli storici individuano in Guardie e ladri il film di svolta per la carriera del celebre attore napoletano,
che abbandona il cinema ispirato al varietà e agli sketch per avvicinarsi ai temi del neorealismo e
dei problemi sociali già abbozzati in Totò cerca casa, del 1949. Entrambi i film furono diretti da Monicelli, che sapeva integrare la vena anarchica di Totò in congegni da grande commedia popolare. Vincente fu la scelta di ingaggiare Fabrizi, che con la sua fisicità dirompente e la cadenza romana si rivelò
perfetto per fronteggiare Totò.
Le commissioni censorie tagliarono alcune sequenze perché trovavano immorale che un tutore
della legge fraternizzasse con un trasgressore.
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Liber n. 23
HARRY TI PRESENTO SALLY
Un film di Rob Reiner. Con Meg Ryan, Carrie Fisher,
Billy Crystal, Bruno Kirby, Lisa Jane Persky.
Titolo originale When Harry Met Sally....
Commedia, durata 96 min. - USA 1989.
È un film-carrellata generazionale.
Come in America sono stati per esempio Come eravamo
(Sydney Pollack, 1973) (dagli anni trenta ai sessanta passando
per i cinquanta del maccartismo) o Il grande freddo (Lawrence
Kasdan, 1983) (dai sogni libertari degli anni sessanta alle delusioni dei primi ottanta). E in Italia soprattutto grandi commedie: da Una vita difficile (Dino Risi, 1961) a C'eravamo tanto
amati (Ettore Scola, 1974).
Il film scritto da Nora Ephron si muove nello stesso solco
umoristico seguendo i due protagonisti dal 1977 al 1989.
Tutto inizia a Chicago, i due ragazzi hanno appena finito l'università e, diretti entrambi a New York,
vengono messi in contatto da una comune conoscenza per fare insieme il viaggio in auto. Si stabilisce subito il tono di un rapporto conflittuale e reciprocamente provocatorio.
Harry (Billy Crystal) sostiene che l'amicizia uomo-donna non esiste poiché l'obiettivo di ogni uomo è
sempre quello di portarsi a letto la donna.
Sally (Meg Ryan), femministicamente scandalizzata, si forma una pessima opinione di lui.
Infatti, una volta giunti a destinazione, si salutano nella tacita e condivisa convinzione di non rivedersi
mai più. Invece gli incontri si ripeteranno, casuali e tra lunghi intervalli durante i quali sono accadute
a entrambi molte cose nella vita di lavoro e in quella sentimentale. Fino a che ormai maturi, dopo
aver consolidato un'amicizia che li ha resi confidenti l'uno per l'altra, scopriranno di essere anche innamorati. Tutto molto. leggero ma non superficiale.
È rimasta giustamente celebre la scena in cui, seduti uno di fronte all'altra in una tavola calda, Sally dimostra allo scettico Harry che ogni donna può fingere l'orgasmo in modo molto persuasivo. Lo fa, rumorosamente, davanti a tutti gli avventori allibiti. Ma anche ammirati, tanto che una signora del tavolo accanto, terminata l'esibizione, ordina "quello che ha preso la signorina".
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Liber n. 23
HARRY A PEZZI
Un film di Woody Allen. Con Woody Allen, Judy Davis,
Mariel Hemingway, Billy Crystal, Kirstie Alley.
Titolo originale Deconstructing Harry.
Commedia, durata 95 min. - USA 1997.
Harry ha scritto un libro autobiografico e ha messo in crisi tutti. Il
mondo viene a sapere che seduce le pazienti della moglie, ha rapporti
con la cognata, odia la sorella eccetera.
Tutti lo odiano.
Fortuna che la sua vecchia università ha deciso di onorarlo. È una
bella compensazione al blocco creativo che è sopraggiunto. E poi c'è
la ragazzina che lo abbandona, gli analisti che lo vessano, e alla fine
persino una visita all'inferno, perché Harry ritiene di meritarlo, essendo il peggiore di tutti gli esseri umani dopo Hitler, Goerings e Goebbels.
Il regista ha dichiarato "è un momento felice della mia vita, non vado nemmeno dall'analista", in realtà
questo film ha sostituito l'analista. La sua ossessione per il sesso è rappresentata dalla parola più pronunciata nel film: "pompino", mai amore, o altro. E ossessione è la cadenza nevrotica del racconto con gli
episodi che si inseriscono l'uno nell'altro come scatole cinesi e con un montaggio che mutila la sequenza
nel bel mezzo. Woody ha sessantatre anni e naturalmente qualcosa è successo. È quasi normale, lo fu per
Bergman e per Fellini. Credevano di aver finito, lo dichiararono coi film, ma non era vero. I riferimenti
di Allen ai due maestri sono molto precisi, c'è la rassegna finale di tutti i personaggi, come la giostra di
Otto e mezzo. E Harry "onorato" all'università è semplicemente il vecchio professore del Posto delle fragole,
che si recava al suo giubileo rivivendo gli episodi salienti della propria vita, proprio come fa Woody
quando assiste, testimone invisibile, ai discorsi di sua sorella.
Complessivamente questo film non vale il precedente Tutti dicono I love you, di impianto semplice, fresco e
geniale.
Qui c'è troppo artificio.
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Liber n. 23
HEAT - LA SFIDA
Un film di Michael Mann. Con Jon Voight, Robert De
Niro, Al Pacino, Val Kilmer, Amy Brenneman.
Titolo originale Heat.
Poliziesco, durata 165 min. - USA 1995.
Un professionista del crimine, Neil McCauley (De Niro), riesce a
cavarsela da ogni situazione in meno di trenta secondi. La sua banda, fatta di tre rapinatori deboli e violenti. Un poliziotto-segugio,
Vincent Hanna (Pacino), fallito nei sentimenti e implacabile nella
professione. Quando McCauley e compagni assaltano e rapinano
un furgone blindato uccidendo tre agenti, il poliziotto si lancia sulle
loro tracce e riesce a identificarli. Ormai sa tutto di loro; si tratta
solo di incastrarli. Comincia un lungo e teso gioco tra gatto e topo,
nella preparazione del drammatico scontro finale. Pacino e De Niro per la prima volta faccia a faccia: cacciatore e preda in un gioco a rimpiattino durante il quale tra i due
cresce uno strano legame istintivo. Centosettanta minuti di tensione profonda e dettagliata, occhi e storie
che si raccontano una comune disperata precarietà. Fino a trasformare una classica sfida cinematografica
in un affresco umano tristissimo, esausto, disilluso.
Signori siamo dinanzi ad un film di Michael Mann.......
Poeta dell'urbano,visivamente eccelso,dall'arte malinconica.
Un ex regista televisivo,piombato nel cinema,maestro di tecnica in passaggi colmi d'adrenalina e realismo
criminoso.
La "sfida" di Mann è quella d'un mondo prigioniero di se stesso.Di falsi "eroi" e miti,dove la verita' la
portano i solitari come Neil o i disillusi come Vincent.
Un universo triste,ripiegato su se stesso,rappresentato egregiamente da un maestro della telecamera.
Una telecamera vorticosa,che avvolge e assale i personaggi,gli piomba addosso,senza lasciarli respiro.
Vincent e Neil coi loro corollari di sbirritudine e gangsterismo,riempiono crisi e solitudini interiori,pregni
di forti radici "noir".Sono emblemi d'un cinema sfacciatamente americano dove incorronno echi di rigore
alla Howard Hawks e antieroi alla Jean Pierre Melville.
Un "climax" di violenza da strada,dove la differenza non è nella superficie al piombo,men che meno
nell'ambientazione poco ortodossa.
Nella "sfida" vincera' il sangue di vite predestinate,colme di pessimismo.Un sentimento amaro,molto
marcato,denotabile nel respiro della pellicola.
Mann con "Heat" dimostra di aver assorbito l'aria criminale dei film americani anni 30-40,nutrendosi di
antieroi e case vuote alla stregua d' un maestro come Melville.
Porta con se queste componenti esiziali,mettendole al proprio servizio con lucidita' narrativa e tensione
imprevedibile.
Le minuzie tecniche e registiche equivalgono all'assistere ad una lezione di cinema,nel quale si viene ipnotizzati da ogni centimetro di fotogramma.
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Liber n. 23
ICHI THE KILLER
Un film di Takashi Miike. Con Tadanobu Asano, Nao Omori, Alien Sun, Shinya Tsukamoto, Susumu Terajima
Thriller, durata 129 min. - Giappone, Hong Kong, Corea
del sud 2001.
Il boss Anjo viene ammazzato da un misterioso killer in maniera estremamente truculenta, ma nessuna traccia viene lasciata.
Per ritrovare Anjo, convinto che sia ancora vivo, il folle e sadico Kakihara, suo vice, accetta il consiglio dell'enigmatico informatore Jijii e
per questo rapisce e tortura Suzuki, capo di un banda rivale, che si
dimostra però estraneo all'accaduto.
Per punizione Kakihara e il suo clan vengono estradati dal sindacato
della yakuza di Shinjuku.
La caccia non finisce, ed è sempre più complessa per Kakihara che
non può immaginare che il killer sia Ichi ("uno"), un ragazzetto timido e complessato che, sotto il condizionamento mentale di un misterioso manovratore, si trasforma in una brutale macchina di morte.
Ossessionato dall'idea di confrontarsi con Ichi, Kakihara tortura chiunque dimostri di saper qualcosa sul
suo conto mentre il suo rivale continua di nascosto a seminare morte.
Il Tadanobu Asano sfregiato che campeggia sulla locandina del film che ha consacrato Miike a mostro
del cinema (in ogni senso) non deve trarre in inganno: non è lui Ichi, il killer del titolo, ma nonostante ciò
Asano-Kakihara merita ampiamente di assurgere a simbolo iconico di una pellicola che segna un'emblematica apertura per il nuovo millennio.
Ichi the killer è infatti una summa artistica ed estetica della sottocultura nipponica del decadentismo postatomico: disgustoso, degenere, forse meglio "mutante". Basti citare il titolo di testa, che prende forma in
un laghetto di sperma: un'immagine sufficiente a segnare l'umore di chi guarda da lì a due ore. Ed è solo
la prima di una serie di trovate estetiche e di contenuto sì difficilmente digeribili, ma pure altrettanto difficilmente smaltibili una volta digerite.
Inutile una rassegna di tali invenzioni, fondamenta di un film ultraviolento e demoniaco, ma pervaso da
alta ispirazione artistica, che ne fanno una sorta di quadro di Bosch in movimento.
PAGINA 59
Liber n. 23
L’IMBALSAMATORE
Un film di Matteo Garrone. Con Ernesto Mahieux, Valerio Foglia Manzillo, Elisabetta Rocchetti, Lina Bernardi, Pietro Biondi.
Drammatico, durata 101 min. - Italia 2002.
Valerio, un ragazzo alto e bello, conosce allo zoo Peppino
Profeta, nano imbalsamatore, e diventa prima suo amico e
poi suo assistente. Guadagna bene e con lui si concede notti di lussuria in compagnia di "amiche" disinvolte e disponibili, che Peppino può permettersi grazie a una filiazione alla
camorra di non chiara natura. Proprio durante uno dei
"servizi" di Peppino alla malavita, in trasferta a Cremona,
Valerio conosce Debora, se ne innamora e la porta con sé a
vivere per qualche giorno da Peppino dove anche lui si appoggia temporaneamente. Peppino diventa geloso della ragazza che mina il legame tra lui e Valerio, legame che è ormai andato oltre la semplice amicizia.
Dall'area partenopea arrivano in questo inizio di millennio le più promettenti nuove voci del cinema italiano. Garrone è dello stesso bacino culturale di Sorrentino, col quale condivide un approccio mediterraneo alla tradizione noir del cinema di genere. Visione che si traduce in una fotografia densa e contrastata,
in musiche vibranti d'atmosfera, in personaggi ammantati di grande fascino eppure possibili. Come è il
Peppino Profeta interpretato da uno straordinario Ernesto Mahieux, demonietto di surreale cattiveria e
follia. Un esordio non perfetto e pieno di punti oscuri, ma senz'altro importante e meritorio.
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Liber n. 23
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Un film di Dino Risi. Con Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Yvonne Furneaux, Renato Baldini, Ely Galleani.
Commedia, durata 103 min. - Italia 1971.
L'integerrimo magistrato Bonifazi sospetta lo speculatore edilizio Santenocito di essere colpevole della morte di una studentessa. Fra i due
si scatena un duello serrato, e quando Bonifazi avrà la prova dell'innocenza del suo "nemico", la distruggerà. Santenocito, che l'aveva sempre fatta franca per le sue malefatte, per una volta pagherà con gli interessi.
Un film sanamente "cattivo", con divagazioni nel grottesco e un notevole coraggio politico. Sceneggiatura serrata, regia di polso e due protagonisti impegnati in un duello memorabile. Sceneggiatura di Age e
Scarpelli.
Dino Risi da quel genio che era, aveva capito tutto; aveva capito come
sono davvero gli italiani, un popolo stolto che non merita nulla, come afferma con toni molto più volgari
il medico che pratica le autopsie, e soprattutto aveva capito che il nostro paese ha paura di cambiare, e
certe leggi imperfette e discutibili sono fatte a tutela di certi personaggi interessati più al proprio tornaconto personale che al bene della comunità.
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Liber n. 23
INGENUI E PERVERSI
Un film di Andrzej Wajda. Con Tadeusz Lomnicki,
Krystyne Stypulkowska, Jerzy Skolimowski
Titolo originale Niewinni czarodzieje.
Sociologico, b/n durata 90 min. - Polonia 1960.
Varsavia, 1960.
Bazyli è un giovane medico e un batterista jazz. Vive in uno
studio spartano, sognando tempi migliori. L'uomo, giovane ed
individualista, si tinge i capelli di biondo ed è popolare con le
ragazze, ma incapace di un legame serio. Le giovani donne si
annoiano rapidamente di lui e il suo lavoro come medico sportivo lo annoia. La sera si esibisce con la sua band jazz e poi va
in giro per i bar. Il suo amico Edmund gli chiede consiglio su
come avere successo con le donne. In un jazz bar Edmund
vede una ragazza giovane e convince Bazyli ad aiutarlo. Edmund guidando il suo taxi si ferma di fronte a un pub ma la giovane donna, però, non vuole fermarsi e
Bazyli l'accompagna alla stazione. Vive fuori di Varsavia, e avendo perduto l'ultimo treno passa la notte
insieme a Bazyli…
Scritto da Jerzy Skolimowski, Ingenui e perversi è un interessante quadro generazionale attento a descrivere i
giovani che ciondolano nella capitale polacca dopo la seconda guerra mondiale.
Disillusi e romantici, i personaggi di questa strana (triste e cinica) commedia sono giovani solitari cui
mancano aspirazioni concrete e che fantasticano su un modello di vita non troppo differente da quello
che hanno. A metà strada fra l’essere dandy e pseudo avanguardisti, il loro carattere assolutamente solitario li rende comunque fascinosi ed a volte eccessivamente ermetici. A tratti surreale (i dialoghi della coppia, che quasi mai s’incontra se non in un rapido bacio, appartengono ad “…un canovaccio che rispecchia il
nostro tempo…”), intenso ma leggero, il film di Wajda non ha la carica politica esercitata dalle plastiche inquadrature di Cenere e diamanti (1958) ma gode comunque di un pesante bagaglio di riflessioni religiose
(La magnanimità del creatore) ed amarezze sentimentali ed esistenziali (“La vita è come una roulette, si può puntare su tanti numeri diversi o sempre sugli stessi…”). Amore incomunicabile (il cartellone pubblicitario sul quale
scorrono i titoli di testa, un uomo ed una donna che non si parlano) per difetto di coraggio (lo strip che
non si conclude). Grande il carrello all’indietro quando Andrzej scende in strada chiamato dai musicisti e
davanti al quale tutti gli attori si alternano proponendo ognuno le proprie riflessioni. Una pellicola
“estremamente verbale sull’inquietudine giovanile di quegli anni e che spronerà altri registi alla trattazione
del problema” (Giorgio Gattei su Alfonzo Canziani - Cinema di tutto il mondo – Mondadori).
Ottima la colonna sonora jazzata di Krzysztof T. Komeda, cui spetta un cammeo (se stesso) così come
anche allo sceneggiatore Jerzy Skolimowski (pugile) ed a Roman Polanski (contrabbassista del gruppo).
Meravigliosa Krystyna Stypulkowska, tenera e provocante (la scena nella quale si disfa del peplo illude
qualsiasi spettatore).
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Liber n. 23
INSEPARABILI
Un film di David Cronenberg. Con Geneviève Bujold, Jeremy Irons, Jill Hennessy, Heidi von Palleske, Barbara
Gordon.
Titolo originale Dead Ringers.
Drammatico, durata 92 min. - USA, Canada 1988.
I gemelli Elliot e Beverley Mantle (Irons) sono due affermati ginecologi. Uno è più spregiudicato, l'altro più timido, uno ci sa fare con le
donne, l'altro meno. A parte questo è ben difficile distinguerli. Non
ci riesce neppure Claire Niveau (Bujold), dapprima paziente, poi amante di Elliot, quindi anche di Beverley, ma senza accorgersi del
cambio. Il delirante triangolo sarà l'inizio di una profonda discesa
verso il baratro.
È probabilmente il miglior film di Cronenberg e uno dei migliori degli anni Ottanta. Restano in mente gli
attrezzi ginecologici trasformati in strumenti di tortura, l'ultima telefonata silenziosa e poi i due straordinari protagonisti: Jeremy Irons e Jeremy Irons.
Ennesimo capolavoro del regista. Angoscia riflessiva e repulsione istintiva si fondono, come si fonde la
mente e lo spirito dei due protagonisti, così da diventare un'unica e vibrante entità. L'amore, di per se
deforme (vagina triforcuta), porta verso il baratro il rapporto intangibile e complementare dei gemelli. Da
lì in poi lo sfacelo totale. Cronenberg è, probabilmente, il maestro del mutamento cinematografico, di
conseguenza della trasfigurazione e trasformazione carnale dello spettatore. Un genio che affronta fedelmente dei temi irrazionali che appartengono al nostro subconscio e alle nostre paure più recondite.
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Liber n. 23
IO LA CONOSCEVO BENE
Un film di Antonio Pietrangeli. Con Nino Manfredi, Mario Adorf, Enrico Maria Salerno, Ugo
Tognazzi, Stefania Sandrelli.
Drammatico, b/n durata 122 min. - Italia 1965.
Adriana arriva a Roma dalla provincia di Pistoia per tentare di entrare nel mondo del cinema. Nell'attesa si adatta
a lavori diversi e ha relazioni con uomini che sfruttano la
sua ingenuità ai propri fini. La ragazza però non si lascia
abbattere e dopo aver ottenuto una piccola parte in un
film in costume viene intervistata per un cinegiornale. Lo
scopo dichiarato è quello di farla conoscere al grande
pubblico. Quello occulto è purtroppo molto diverso.
Pietrangeli utilizza per questo film, al vertice della sua importante seppur breve filmografia, una struttura
narrativa audace. La vicenda si dipana infatti cogliendo brevi momenti della vita di Adriana collegandoli
grazie ad elementi visivi che rimandano ad altri episodi. Ne deriva così un ritratto di donna che si aggiunge a quelli, ad esempio, di Adua e le compagne e La parmigiana. Il regista riesce, grazie anche a una straordinaria Stefania Sandrelli, a entrare nelle pieghe della psicologia di una donna la cui descrizione emerge dalla pagina di uno scrittore che, per descrivere un personaggio femminile, utilizza le sue caratteristiche:
"Morale nessuna; neppure quella dei soldi perché non è una puttana. Per lei, ieri e domani non esistono.
Non vive mai giorno per giorno, perché questo la costringerebbe a programmi complicati. Perciò vive
minuto per minuto. Prendere il sole, sentire i dischi, ballare sono le sue uniche attività. Per il resto è volubile, incostante, ha sempre bisogno di incontri nuovi e brevi; non importa con chi: con se stessa mai."
Pietrangeli però non si limita a questa lettura per immagini di una condizione femminile (che sarebbe già
molto) ma la contestualizza nell'Italia degli anni Sessanta in cui i nuovi modelli culturali, indotti da una
migliore situazione economica, si stanno sovrapponendo in maniera distorta alle radici di una cultura che
è stata fino a pochi anni prima fondamentalmente contadina. E' quanto Pasolini va dicendo da tempo
quando si riferisce ai processi di omologazione che stanno minando alla base la cultura popolare. Con il
personaggio di Adriana, Pietrangeli (che scrive soggetto e sceneggiatura con Ruggero Maccari ed Ettore
Scola) anticipa anche, non è dato sapere quanto consapevolmente, alcuni temi che saranno fatti propri
dal femminismo oltre a rivolgere un preciso atto di accusa a un mondo che 'conosce bene': quello del
cinema italiano con le sue poche luci e le sue innumerevoli ombre.
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Liber n. 23
IO NON HO PAURA
Un film di Gabriele Salvatores. Con Diego Abatantuono,
Dino Abbrescia, Aitana Sánchez-Gijón, Giuseppe Cristiano, Mattia Di Pierro
Drammatico, durata 95 min. - Italia 2003.
Dal romanzo di Niccolò Ammaniti.
Michele, dieci anni, vive in un paesino, anzi, proprio quattro case,
della Basilicata. Con la sorella più piccola e altri amici scorrazza in
bicicletta nelle stradine in mezzo al grano. A casa c'è la mamma e il
papà fa il camionista, ed è uomo "tutto core". Incuriosito da una
porta di lamiera vicino a una casa diroccata, Michele la apre e vede
un buco, e in fondo un piede che esce da una coperta. Dopo lo spavento iniziale torna sul luogo e scopre che quel piede appartiene a
un bambino come lui, biondo e delicato, quasi cieco per il buio, ridotto a una larva. Non riesce a immaginare un rapimento. Nelle successive visite gli porta da mangiare,
gli parla, gli ridà una speranza. La televisione racconta di questo Filippo rapito a Milano. Così Michele
capisce. Arriva a casa tale Sergio (Abatantuono), il "milanese" che tira le fila. Tutta la famiglia è implicata.
Ma il cerchio si stringe, gli elicotteri girano. Il panico sopraggiunge. Occorre sopprimere l'ostaggio. Michele corre per salvarlo. Riesce a spingerlo fra i campi, sopraggiunge il padre "tutto core" che non esita a
sparare al bambino, che però è Michele. Gli elicotteri dei carabinieri illuminano il milanese con le braccia
alzate, il padre col figlio in braccio e il piccolo Filippo che si è salvato.
Dopo un'apnea di molti anni, dopo aver davvero smarrito la strada maestra con una serie di film superflui e senza destino, ecco che Salvatores torna a "raccontare" e lo fa davvero bene. Le lunghe scene di
preparazione e connessione al fatto centrale, suggestive e soleggiate, non debordano. Il grano e il cielo,
gli animali e le colline, tutto concorre alla storia. È un meridione che non è quasi Italia, ma è mondo. Per
salvare il suo amico, Michele corre nella notte, mormora a se stesso una favola e un sortilegio, intorno la
civetta cattura un topo, un piccolo serpente assiste dal suo sasso. Cinema finalmente.
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Liber n. 23
IO SONO UN AUTARCHICO
Un film di Nanni Moretti. Con Nanni Moretti, Simona Frosi, Fabio Traversa, Beniamino Placido, Paolo Zaccagnini.
Commedia, durata 95 min. - Italia 1976.
Michele Apicella ha una moglie, Silvia, e un figlio, Andrea. Il
rapporto tra i due è ormai logoro e Silvia decide di andarsene
da casa. Andrea resta con Michele il quale non ha un lavoro
ma riceve mensilmente dai suoi un assegno di 200.000 lire.
All'amico Fabio torna vivo il desiderio di una regia teatrale e
pensa bene di coinvolgere Michele ed altri nella realizzazione
di uno spettacolo sperimentale. Hanno così inizio lunghe e
noiose riunioni di approfondimento del testo, escursioni in
campagna e tentativi, da parte di Fabio, di avere un famoso
critico teatrale alla prima dello spettacolo.
Esordio di Nanni Moretti nel lungometraggio Io sono un autarchico conferma ancora una volta (anche se
non ce n'è bisogno) come nelle opere prime di coloro che si riveleranno poi come autori di peso si ritrovino in nuce numerosissimi elementi che verranno in seguito sviluppati e tematizzati più ampiamente.
Innanzitutto assistiamo al battesimo di Michele Apicella, il personaggio che accompagnerà il
regista/attore sino alla inattesa pausa di La messa è finita per poi tornare per l'addio in Palombella rossa. Michele è al contempo osservatore lucido e portatore sano di tutti i sommovimenti, privati e pubblici, della
generazione dei sessantottini che stanno in quel 1976 cominciando ad intravedere i segni di un riflusso
inarrestabile.
Moretti non risparmia niente e nessuno e, innanzitutto, se stesso. Pavido e timoroso sul piano del rapporto di coppia, padre distaccato pronto però a farsi coinvolgere da un figlio che finalmente sente come
'suo' (anticipando Aprile) diventa tagliente e incapace di mediazioni ogniqualvolta si trova dinanzi al conformismo da qualunque parte provenga. Non esita così a espellere un liquido bluastro dalla bocca quando apprende che a Lina Wertmuller, regista del tanto detestato Pasqualino Settebellezze, è stata assegnata
un'importante cattedra di insegnamento del cinema così come inizia a mettere alla berlina (con la compiaciuta collaborazione di Beniamino Placido) la critica quale fabbricatrice di fumisterie finalizzate a un
autocompiacimento totalmente solipsistico. Se Moravia viene imitato in due riprese in modo goliardico a
fare le spese in maniera determinata della sua affilata ironia è la pretesa di un teatro fatto in casa prelevando i cascami da un'avanguardia incapace di comunicare alcunché al pubblico di riferimento individuandolo come complice di una sorta di corso di autocoscienza ruspante. Rimarrà 'storico' il grido:"No!
Il dibattito no!" lanciato da uno spettatore al termine dell'ultima replica.
Certo alcuni 'attori' risentono della mancanza di professionalità ma nel complesso si tratta di un film capace di sgombrare il campo da qualsiasi forma di assuefazione alle 'mode' libero da qualsiasi tipo di servilismo. Una notazione a margine: Augusto Minzolini è citato nei titoli di coda tra gli interpreti. Sarà presente anche in Ecce Bombo.
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Liber n. 23
JURASSIC PARK
Un film di Steven Spielberg. Con Sam Neill, Jeff Goldblum, Laura Dern, Richard Attenborough, Joseph
Mazzello.
Fantastico, durata 127 min. - USA 1993.
Nubla, isola desertica del Costa Rica, il miliardario americano John
Hammond prepara l'inaugurazione di "Jurassic Park", riserva naturale unica al mondo, popolata da varie specie di dinosauri, creati manipolando il codice genetico di rettili contemporanei, sulla scorta
dell'originale Dna degli animali preistorici, recuperato nel sangue di
insetti preservati nell'ambra. Desideroso di ottenere l'approvazione
del mondo scientifico e di rassicurare gli azionisti che hanno partecipato con ingenti finanziamenti alla realizzazione del progetto, Hammond invita sull'isola un gruppo di esperti - il paleontologo Alan
Grant, la paleobotanica Ellie Sattler, l'avvocato Donald Gennaro, il
matematico Ian Malcolm - e, convinto della bontà dei sistemi di sicurezza, due suoi nipoti, i piccoli Alexis e Tim. Agli occhi stupiti dell'equipe tecnica si presenta un mondo meraviglioso popolato da tirannosauri, velociraptor ed altre specie animali erbivore e carnivore estinte da secoli, allevati in piena libertà e,
apparentemente, senza alcuna costrizione. Quando però un tecnico, nel tentativo di rubare alcuni esemplari da cedere alla concorrenza disattiva il sistema di sicurezza, la straordinaria escursione si trasforma in
una pericolosissima avventura.
Michael Crichton scrive il romanzo nel 1990 puntando al best seller e alla trasposizione cinematografica;
tre anni dopo Steven Spielberg si incarica di portarlo sullo schermo - avvalendosi di una sceneggiatura
scritta da Koepp e dallo stesso Crichton - ed il successo è assicurato. Premiato dal pubblico (un incasso
che si aggira sui cinquecento milioni di dollari) e da tre Oscar (accompagnati dal British Academy Award,
dal People Choice Award e da tre designazioni agli MTV Movie Award), preceduto e seguito da una lunga campagna di merchandising, il film conferma l'abilità del regista nel confezionare storie adatte a spettatori di ogni età, combinando con sapienza gli elementi avventurosi del racconto con le risorse tecnologiche degli effetti speciali, e la sua capacità di intuire e soddisfare gli umori del pubblico: Jurassic Park
scuote lo spettatore offrendogli un ricco, spettacolare, lungo spavento, coinvolgendolo e immedesimandolo con gli attori che si muovono sulla scena, essi stessi spettatori della finzione proposta. La scelta di
un tipo di recitazione che privilegia con forza la gestualità e l'espressione (lo stupore, la paura, il terrore)
sembra pensata, appunto, per anticipare e canalizzare le emozioni che si vogliono sollecitare nella platea.
Nonostante la ricchezza dell'insieme, il lavoro risulta un po' freddo e certamente meno personale rispetto
ai precedenti Incontri ravvicinati o E.T. - L'extraterrestre.
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Liber n. 23
LE LACRIME AMARE DI PETRA
VON KANT
Un film di Rainer Werner Fassbinder. Con Hanna
Schygulla, Margit Carstensen, Katrin Schaake
Titolo originale Die bitteren Tränen der Petra Von
Kant.
Drammatico, durata 124 min. - Germania 1972.
Per molti celebri artisti omosessuali, Donne (1939) di George Cukor costituisce un modello irresistibile di stile
narrativo cinematografico: un gruppo di donne,
chiuse in una casa, i cui destini vengono plasmati e
dominati da uomini fuori scena, vivono con melodrammatica intensità il loro rapporto di amicizia tra esponenti dello stesso sesso.
Con Le lacrime amare di Petra von Kant, Rainer Werner Fassbinder offre una variazione sul tema. Rispettando, e perfino esagerando la drammaturgia claustrofobica del testo d'origine, il regista ci
mostra una sfilata di donne eleganti che rendono visita alla stilista Petra (Margit Carstensen),
sempre in compagnia della silenziosa e obbediente Marlene (Irm Hermann), sua inserviente. Esperta nella dominazione psicologica e nei giochi di ruolo, Petra conduce le danze dal proprio
letto – mentre Marlene, in preda a una gelosia furiosa, resta in secondo piano, battendo testi a
macchina e facendo schizzi di modelli.
Marlene invidia infatti Katrin (Nanna Scygulla), un'affascinante proletaria che sembra vivere una
relazione impossibile con Petra.
Gli spunti umoristici di gusto camp, ovvero un modo di godere delle cose, di apprezzarle, non di giudicarle, sarebbero tanti, ma Fassbinder preferisce mantenere un'atmosfera sobria.
La morale è semplice e fondamentale per chi si trova a vivere una relazione emotivamente sadomasochistica (ossia tutti noi, secondo l'autore) – in qualunque circostanza, al più debole rimane
sempre un'ultima possibilità: quella di andarsene.
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Liber n. 23
IL LADRO DI BAGDAD
Un film di Tim Whelan, Ludwig Berger, Michael Powell. Con
Conrad Veidt, Sabù, June Duprez
Titolo originale The Thief of Bagdad.
Fantastico, durata 106 min. - Gran Bretagna 1940.
La più affascinante e colorata "fantasia araba" mai vista sullo
schermo.
Questa seconda versione della nota leggenda, presente nella raccolta
di Le mille e una notte, supera in poesia e meraviglia la precedente
(girata nel 1924 da Raoul Walsh con Douglas Fairbanks e già per la
sua epoca straordinaria) e resta un esempio da manuale di come il
cinema possa trasportarci in scenari esotoci al seguito di personaggi
che incarnano gli archetipi mitici universali muovendosi sempre in
un magico equilibrio tra la realtà e la fantasia che rende credibili anche
le più sfrenate invenzioni dell'immaginazione.
Nella prigione in cui è stato fatto rinchiudere con l'inganno dal perfido visir Jaffar (Conrad Veidt), il
giovane legittimo sultano di Bagdad Ahmed (John Justin) conosce l'abile ladruncolo Abu (Sabu) e con il
suo aiuto riesce a evadere. A Bassora, dove si sono recati entrambi, Ahmed si innamora, ricambiato,
della bella figlia del locale sultano (June Duprez), ma deve fare i conti con Jaffar che aspira anche lui
alla ragazza. Durante un tentativo di fuga con la sua amata, a causa di un sortilegio messo in atto dal
rivale, Ahmed diventa cieco e Abu viene trasformato in un cane, fatto di cui approfitta Jaffar per
rapire la principessa e tornare a Bassora dove con un trucco diabolico uccide il vecchio sultano. Intanto
Abu, finito su una spiaggia deserta e imbattutosi nel gigantesco Genio della lampada Djnni (Rex Ingram) che gli consente di esaudire tre desideri, dopo aver affrontato un enorme ragno sulla sua tela, riesce a recu perare dalla testa di una colossale statua una gemma magica che gli
consente di vedere ogni cosa e in tal modo può riunirsi al suo padrone Ahmed permettendogli, con
l'ultimo desiderio, di tornare a Bagdad. Purtroppo, qui giunto, il giovane è fatto prigioniero da Jaffar e
condannato a morte assieme alla fanciulla che ama. Ma a salvare la situazione sarà ancora una volta
Abu, che accorre in aiuto della coppia sul suo tappeto volante.
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Liber n. 23
LAMERICA
Un film di Gianni Amelio. Con Michele Placido, Enrico Lo
Verso, Piro Milkani, Elida Janushi.
Drammatico, durata 125 min. - Italia 1994.
Filmati d’epoca scorrono sui titoli di apertura, 1939, Mussolini entra trionfante, l’Albania è italiana.
Cinquant’anni dopo. Finito anche il regime comunista, Hoxha eliminato,
caduti finalmente tutti i muri, cosa rimane da fare ad un popolo lungo la
meravigliosa strada verso la felicità? Indossare un buon paio di scarpe che
produrrà la ditta XY, capitali esteri ma con manodopera albanese, mediatori finanziari albanesi, e, soprattutto, presidente albanese.
E dove vanno a cercarlo Placido/Fiore e Lo Verso/Gino, azzimati e carognoni quanto basta (soprattutto il primo) per sembrare perfettamente
credibili? ?In un ospizio, che però non somiglia alle comode e tranquillizzanti case per i nostri dolci e cari vecchietti, immerse nel verde delle nostre città.
No, questo è poco meno che un girone infernale, quasi quasi Gino ci lascia la pelle, stretto com’è da una
morsa umana di miserabili che gli si stringono addosso (una citazione da Improvvisamente l’estate scorsa era
d’obbligo).
Trovato il presidente, Fiore scappa in patria a tessere le giuste tele e fare i giusti incontri, Gino deve proseguire in loco e, soprattutto, compiere la missione a cui è preposto: riportare un po’ in qua, rendendolo
presentabile, quel pezzo di fuliggine semiautistico preso all’ospizio, che dovrà metter firme sulle pratiche
di questa nascente joint venture calzaturiera Italia/Albania.
Purtroppo le cose qui da noi si complicano…
Italiani cinici corruttori in un paese allo sfascio, un'odissea nell'inferno della miseria e nell'utopia di un
vicino paese di bengodi. Amelio descrive con secca incisività e realizza un intenso messaggio di portata
civile. Squarci di grande cinema.
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Liber n. 23
MADDALENA ZERO IN CONDOTTA
Un film di Vittorio De Sica. Con Vittorio De Sica, Pina
Renzi, Carla Del Poggio, Arturo Bragaglia, Vera Bergman.
Commedia, b/n durata 76 min. - Italia 1941.
.
In una scuola per segretarie d'azienda, l'insegnante di tedesco propone alle allieve un'esercitazione: scrivere una lettera commerciale
destinata a un certo signor Hartman, capitano d'industria viennese.
Contrariamente alle altre compagne un'allieva decide di spedire davvero la lettera sperando nel principe azzurro della fiabe. L'immaginario destinatario peraltro esiste davvero e di lì a poco, alla scuola,
compare il signor Hartman in persona, interessato alla mittente dello scritto.
Una commedia molto ben costruita, diretta, e recitata. È evidente
che il modello è la screwball comedy americana, ovvero una commedia leggera e stravagante. Ma quaeto solo quanto a trama e situazioni, poiché la regia, la recitazione, e
un certo tono generale, sono completamente italiani (com'è giusto). Gli attori sono tutti ottimi e simpatici, compresa la ragazza che intrallazza per far conoscere De Sica e la giovane insegnante, e compreso il
compare del primo. Buone sono le caratterizzazioni degli insegnanti, tra i quali si può scorgere una prudentissima satira della retorica fascista quanto all'educazione fisica e a certi metodi di insegnamento. Trovo indovinata la stessa idea di partenza, cioè quella del personaggio, inventato, del libro di testo, che però
a forza di essere nominato finisce per assumere un'aura di realtà e ognuno se lo dipinge in un certo modo
con la propria immaginazione. Comunque il gioco di equivoci e di scambi di persona che si genera dalla
lettera di partenza è davvero gustoso e divertente. Grandi risate allorché il padre della ragazza e De Sica
fingono la passione per la caccia al bisonte pensando che l'altro ne sia un praticante, quando ciascuno dei
due non sa neanche cosa sia. Bella la rappresentazione della solidarietà tra studentesse e professori e l'umanità della direttrice, che appartengono purtroppo al tempo che fu. Insomma, proprio una bella commedia. Poi venne la guerra col suo carico di dolore e di morte, e De Sica passò ai ben diversi toni del neorealismo.
PAGINA 71
Liber n. 23
UN MALEDETTO IMBROGLIO
Un film di Pietro Germi. Con Claudio Gora, Franco
Fabrizi, Eleonora Rossi Drago, Cristina Gaioni.
Drammatico, b/n durata 110 min. - Italia 1959.
.
Un maledetto imbroglio di Pietro Germi è una rivisitazione in
chiave cinematografica di Quer pasticciaccio brutto di via merulana
di Carlo Emilio Gadda, ormai considerato uno dei grandi romanzi del novecento europeo. Il film ne accentua la connotazione poliziesca (prevedendo peraltro un finale risolutivo
quando nel libro questo è tenuto volutamente in sospeso per
sottolineare ulteriormente il carattere transitorio di ogni indagine particolare) ma ne depura, per esigenze evidentemente
cinematografiche, sia la matrice filosofica che sostanzia lo
spirito del romanzo, che la complessità linguistica derivante
dall'uso di diverse inflessioni dialettali e dalle licenze idiomatiche in puro stile gaddiano. Ne esce fuori un opera di una solidità invidiabile, tale che rimane a tutt'oggi
uno dei migliori risultati di genere prodotti dal cinema italiano, oltre a rappresentare una sorta di apripista
ideale per la stagione prossima a venire della "commedia all'italiana" per l'attegiamento oscillante tra il
serio e il faceto con cui si indaga nel suo insieme composito la società italiana.
A mio avviso, l'intuizione più felice avuta da Pietro Germi, quella che più di ogni altra fa aderire il film
allo spirito del romanzo, è l'aver mantenuto la fondamentale connotazione antropologica dell'opera scritta, che se nel romanzo si esprime innanzitutto attraverso l'intreccio continuo di diversi idiomi
(soprattutto dell'Italia centromeridionale a cominciare col molisano Ciccio Ingravallo) e nel passaggio
repentino da un dialetto impuro a un italiano aulico e forbito, qui si evidenzia nella varia umanità che di
volta in volta passa in rassegna davanti allo sguardo indagatore del commissario. Ognuno di loro fornisce
delle notizie e fa mostra della propria personalità, cose che possono aiutare o intralciare le indagini, portarle per percorsi lontani o accorciare la strada affidandosi alle umane sensazioni di partenza. Tutto dipente dal dove si vuole puntare maggiormente l'attenzione e sul come si intende proseguire la ricerca.
Perchè a ogni nuovo incontro escono fuori altri elementi che rendono plausibile la commissione di un
delitto, perchè "è come in campagna quando muovi un sasso e sotto ci trovi i vermi" e non si sa mai di preciso
qual'è il bandolo della matassa che bisogna esattamente seguire per venire a capo di quel più importante
garbuglio che è diventata la vita. Ecco, la cosa migliore del film risiede nell'azzeccatissima caratterizzazione di ogni personaggio, dalle cui gesta si evince la furbizia, la pavidità, il doppiogiochismo, l'opportunismo, la volgarità, la fede fascista, l'infedeltà, il vittimismo, l'indolenza, la superstizione, ovvero, i vizi e i
vezzi che percorrono una nazione intera, che vengono analizzati senza che l'adeguata componente psicologica prevalga su quell'ironia popolare da commedia dell'arte ( appunto di Gadda stiamo parlando). Incantevole la Cardinale nei panni dell'ingenua "servetta" dei ricchi, perfidamente ambigui Franco Fabrizi e
Claudio Gora in ruoli per loro assai congeniali, letteralmente straordinario Salvo Urzì (secondo me uno
dei migliori caratteristi di sempre che, per inciso, significa fare e dire molto in poco spazio) e perfetto
Pietro Germi nelle vesti del sagace "commissario del popolo" Ciccio Ingravallo.
PAGINA 72
Liber n. 23
MAMMA ROMA
Un film di Pierpaolo Pasolini. Con Anna Magnani, Franco
Citti, Ettore Garofalo, Lamberto Maggiorani, Silvana Corsini.
Drammatico, b/n durata 114 min. - Italia 1962.
Mamma Roma è una prostituta che decide di cambiare vita. Si riprende il figlio, affidato a una famiglia che abita in provincia, e va ad
abitare con lui in una borgata della capitale. Ma il ragazzo si mette
nei guai e finisce in prigione.
Il film si potrebbe definire con una parola: capolavoro. Parabola sugli umili schiacciati dal peso dei sogni piccoloborghesi (il benessere...), sacralità proletaria riflessa nel rimando iconografico (Masaccio,
Mantegna...), architettura dell'urbe violentata dalla periferia
(casermoni, archeologia romana). Eterno lo sguardo finale di Anna Magnani dalla finestra, il suo urlo è
opposto e gemello di quello di Roma città aperta.
Mamma Roma segna uno dei punti più alti dell'analisi pasoliniana sul mondo dimenticato del sottoproletariato urbano, sulla diffusa e anche razzistica convinzione che la loro miseria non conosce soluzioni e sulla
forza omologatrice della società borghese che tende a percepirli come i figli illegittimi di un benessere
generalizzato. È il secondo film di Pier Paolo Pasolini e rispetto ad Accattone si avverte un uso più sapiente degli strumenti cinematografici (l'uso continuo dei campi e dei controcampi ad esempio) che servono a
conferirgli, pur nell'utilizzo di quella "sgarbata" asciuttezza di linguaggio che gli consente di aderire con
sufficiente realismo alla realtà sociale rappresentata, una migliore fluidità narrativa. Come Accattone, Mamma Roma è interamente ambientato nelle borgate romane, in quei nuovi centri di distribuzione della miseria cittadina che furono (e sono ancora in moltissimi casi) le periferie urbane nate dalle menti di urbanisti
illuminati a partire dai primi anni sessanta. Ma mentre il primo è caratterizzato da un sostanziale immobilismo dei protagonisti, che di fatto li rende degli schiavi inconsapevoli del destino che gli è capitato in
sorte, Mamma Roma coltiva l'ambizione piccolo borghese di migliorare la sua condizione sociale, di far
emergere il figlio dalla miseria in cui è sempre vissuta. Non c'è nulla di male a rincorrere il desiderio di
una raggiunta e piena integrazione sociale, ma questa strenua rincorsa rischia di diventare un ulteriore
passaggio agl'inferi se non è accompagnata da una consapevole conoscenza della propria condizione esistenziale, se non è tesa al miglioramento principalmente etico di essa, se non si dà più importanza all'essere che all'apparire, all'essenza di un'identità umana finalmente libera dai ricatti della carne che alle forme indistinte di un ambizione desiderata. Ma, alla realtà di un emancipazione intellettuale, Mamma Roma
antepone una falsa omologazione morale, l'adesione acritica a un modello sociale di cui conosce solo la
patina esteriore di un perbenismo ostentato. È accecata dall'amore per il figlio e dall'odio per la vita e
questo la porta con istintiva naturalezza a seguire un'altra strada, più semplice e più veloce, a maturare in
se un malsano spirito di emulazione, quello che la porta a ritenere che basta un individuale spirito volontaristico per spostarsi dal mondo che si è imparati a disprezzare e indossare la maschera di una rispettabilità borghese meccanicamente percepita.
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Liber n. 23
LE MANI SULLA CITTA’
Un film di Francesco Rosi. Con Rod Steiger, Guido Alberti, Marcello Cannavale, Alberto Canocchia, Salvo Randone.
Drammatico, b/n durata 110 min. - Italia 1963.
Napoli, primi Anni Sessanta. Crolla un palazzo a causa di un cantiere limitrofo di proprietà di un certo Nottola, speculatore edilizio
appoggiato dalla maggioranza che guida l'amministrazione della città. Viene aperta una commissione d'inchiesta dalla quale emerge
che le pratiche per la concessione sono state corrette dal punto di
vista formale. Nottola è però diventato 'scomodo' e non è possibile
garantirgli il posto da assessore che egli pretende in seguito alle ormai imminenti elezioni.
Ci sono film, anche di valore, che con il passare degli anni perdono
la presa che ebbero al momento della loro uscita e restano lì a farsi
ammirare come un prezioso utensile del passato di cui riconosciamo la perfezione ma che può solo restare chiuso in una teca. Altri invece (e il film di Rosi è fra questi) che invece conservano una loro inattaccabile attualità. Verrebbe da dire: purtroppo. Purtroppo perché quei problemi, quel malcostume, quel modo di intendere l'amministrazione della cosa pubblica perdurano. È sicuramente anche questo uno dei
motivi della tenuta di Le mani sulla città ma quello che lo distacca dalla cronaca politica è lo stile narrativo.
Rosi non fa un 'film di denuncia', va oltre. Sceglie un taglio da "cinema verité" quando riprende le sedute
del Consiglio comunale offrendoci dei totali di un'aula in cui ci si prepara a una lotta di tutti contro tutti.
Da questo magma fa emergere delle figure che sono rappresentative di posizioni e di interessi diversi che
finiscono con il ruotare attorno a Nottola (interpretato da un Rod Steiger che domina l'inquadratura).
Sarebbe facile definire 'profetico' un film in cui si agitano 'mani pulite' o in cui il conflitto di interessi diviene tanto palese quanto socialmente metabolizzato. Le mani sulla città è qualcosa di più e di diverso. È
un film che va alle radici di uno dei cancri che hanno corroso e continuano a corrodere la nostra società
e ne mette spietatamente in luce le metastasi. Divenendo un paradigma (anche se non del tutto compreso, al di là delle polemiche sul suo contenuto, al momento dell'uscita). Tanto che anche il cinema successivo gli ha reso omaggio in più occasioni. Due esempi per tutti. La voga da fermo di Nanni Moretti, protagonista de La seconda volta di Mimmo Calopresti, che richiama l'entrata in scena di Maglione e il politico
non vedente in Baarìa che, dinanzi a un plastico di un nuovo complesso edilizio, mette, letteralmente, 'le
mani sulla città'.
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Liber n. 23
MERY PER SEMPRE
Un film di Marco Risi. Con Michele Placido, Claudio Amendola, Francesco Benigno, Alessandro Di Sanzo, Roberto Mariano.
Drammatico, durata 100 min. - Italia 1989.
Un professore di lettere in attesa di sistemazione definitiva accetta
un incarico annuale nel carcere minorile di Palermo. Il film racconta
la vita quotidiana, le lezioni, i rapporti tutt'altro che sereni con l'autorità del carcere dell'insegnante che riesce comunque a costruire un
rapporto positivo con i suoi allievi.
Non mancano comunque delusioni, incomprensioni e sconfitte.
Dopo Soldati, con cui aveva imposto una sterzata alla sua carriera,
Marco Risi raccoglie successo di critica e di pubblico con questo film
capace di abbinare l'impegno civile a una messa in scena e a un'interpretazione collettiva efficaci.
Da un libro-inchiesta di Aurelio Grimaldi.
Se paragoniamo i film del neorealismo a Mery per sempre, notiamo che hanno molti punti in comune. Prima di tutto l'utilizzo di attori non professionisti (Placido e qualcun altro a parte), poi la descrizione della
povertà. Se nel neorealismo si descriveva l'Italia che usciva dalla seconda guerra mondiale, qui invece i
ragazzi della fascia povera palermitana in mano alla mafia. In quel periodo a Palermo si combatteva una
guerra in tutti i sensi: erano gli anni delle stragi mafiose e dei maxi-processi, Falcone e Borsellino erano
ancora nel pieno della loro attività e la gente sognava una nuova Sicilia. Ma molti ragazzi si trovano nel
riformatorio vivendo della loro arroganza e sottocultura, maltrattati dalle guardie ma aiutati dall'unica
figura con cui legano: il professor Mario Terzi che prenderà il suo temporaneo insegnamento nel riformatorio come una missione.
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Liber n. 23
MIGNON E’ PARTITA
Un film di Francesca Archibugi. Con Stefania Sandrelli, Micheline Presle, Leonardo Ruta, Massimo
Dapporto, Daniela Morelli.
Commedia, durata 95 min. - Italia 1988.
La famiglia Forbicioni (genitori e 5 figli, dai 17 anni di Tomaso ai 18 mesi di Giacomino) ospita a Roma la parigina Mignon, figlia di un fratello del capofamiglia con qualche guaio
con la giustizia francese. La ragazzina (15 anni) è parecchio
altezzosa e lega solo col timido tredicenne Giorgio, mentre
con Chiara. Sarà un impossibile amore adolescenziale, non
corrisposto.
Promettente esordio registico di Francesca Archibugi, leggero
ma non di rado felice. Pur nella scelta di una ridotta spettacolarità (l'insistenza per i modesti interni piccolo-borghesi), la vicenda ha un suo nucleo corposo e gli interpreti, ragazzi e adulti, danno il giusto rilievo ai rispettivi personaggi. In evidenza Cèline Beauvallet
(Mignon) e Leonardo Ruta (Giorgio), oltre alla Sandrelli.
Sulla dorsale della vicenda sentimentale del protagonista, narrata con sensibilità e profondità psicologica,
si innestano le piccole storie degli altri personaggi. Dico piccole nel senso dello spazio che occupano, ma
non nel senso della povertà di ciò che ne sappiamo. A questo proposito, una delle principali abilità della
regista e degli sceneggiatori sta secondo me nel costruire ritratti di persone o situazioni attraverso pochi o
pochissimi cenni. In questo senso ogni personaggio ha una sua identità umana e sentimentale. L'episodio
più interessante a questo riguardo è quello della domenica in spiaggia di tutta la famiglia, quando chiama
l'amante del padre, e lui pianta baracca e burattini e corre da lei. Quante cose con pochi cenni: la relazione adulterina, le penose bugie di cui tutti sono al corrente, l'amante che non vuole accettare che lui abbia
anche la sua famiglia e quando è con loro sta male, il suo guastare la festa quasi apposta, la solitudine e
precarietà anche di questa donna. A questo proposito si può dire che tutti i personaggi hanno i loro pregi
(maggiori o minori), ma tutti anche le loro miserie e le loro colpe. Nessuno è completamente assolvibile
o condannabile. Ma questo film mi ha colpito soprattutto per il protagonista, che ha più di qualcosa di
me a quell'età. La scena più bella e lirica del film e quando lui e Mignon son seduti in riva al Tevere. Molto indovinato anche l'elemento del cancello che un bel giorno diviene troppo stretto…
Lo sguardo della regista sulla realtà è amaro e piuttosto sconsolato, ma sicuramente non cinico o caustico. L'esordiente Archibugi sembra prendere atto della precarietà umana della vita moderna, con particolare riguardo al suo lato sentimentale.
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Liber n. 23
MIMI’ METALLURGICO FERITO
NELL’ONORE
Un film di Lina Wertmüller. Con Giancarlo Giannini, Mariangela
Melato, Luigi Diberti, Turi Ferro, Agostina Belli.
Commedia, durata 121 min. - Italia 1972.
Mimì Mardocheo, emigra a Torino da Catania. Qui deve sottostare al "racket
delle braccia" per poter lavorare. Si accorge così che le famiglie mafiose controllano ogni livello produttivo anche al Nord. Rispedito in Sicilia, resta coinvolto
in un delitto d'onore.
Mariangela Melato era un’attrice totale e non trovo altri aggettivi per definire la
sua presenza sul grande schermo e sul palcoscenico nell’arco degli ultimi
quarant’anni. Naturalmente la sua scomparsa ci addolora.
C’è però qualcosa che ci consola quando se ne va un attore o un’attrice di razza:
la fortuna del cinema (a differenza, purtroppo, di molto teatro) sta nel lasciare
una traccia indelebile, una serie di fotogrammi in successione, un film. Mariangela Melato ha illuminato
col suo talento elegante e stratificato alcune delle opere più importanti degli anni settanta ed ottanta e
nella memoria collettiva restano sicuramente le collaborazioni con Giancarlo Giannini e Lina Wertmuller.
Ricordare un artista attraverso le proprie imprese è quanto di meglio si possa fare per rendere omaggio al
suo lavoro, al di là della pur inevitabile retorica della celebrazione. Prendiamo Mimì metallurgico ferito
nell’onore: un titolo divenuto proverbiale, un grande successo di pubblico, la consacrazione di una regista
la cui fama è superiore all’effettivo valore dei suoi film. È una storia tra la contestazione e il folklore,
l’evocazione del comunismo di lotta e la stereotipizzazione dell’influenza del potere mafioso nel Sud,
l’amore improvviso e carnale e la vendetta dell’onore perduto, caratterizzata dal tipico stile registico della
Lina, scatenato e greve (ancora su discreti livelli, fino al capolavoro Pasqualino Settebellezze: altri dieci anni
e sarebbe andata sfortunatamente in caduta libera), con zoom ed effettacci abbastanza adeguati alla brutalità romantica e tempestosa della narrazione.
Puntellato dalla potenza musicale di Giuseppe Verdi (in alternanza col brio sarcastico di Piero Piccioni),
la Cavalleria Rusticana (echeggiata da uno dei personaggi) in stile Wertmuller vale, forse, più come somma di elementi che come totale organico, perché certamente ci sono sofferenze nell’amalgamare le componenti e nell’asciugare certi passaggi probabilmente verbosi. È entrato nella storia del cinema italiano
per il suo tono grottesco (all’epoca inusuale) e per le mastodontiche prove degli attori, capitanati da un
Giancarlo Giannini a dir poco strepitoso nei panni del povero Mimì (memorabile l’intermezzo con
l’enorme Elena Fiore, sequenza quasi felliniana, buffa e tragica).
E Mariangela? È Fiore, la volitiva compagna milanese, che si vota all’amore senza dimenticare la propria
identità di genere e la propria coscienza civile: in un film dominato dalla grandezza di Giannini, non di
rado riesce a rubargli la scena. O meglio, a condividerla con estro, elasticità e talento. Nel giorno in cui la
piangiamo, sarebbe bello ricordarla semplicemente così, un’attrice che ha lasciato una testimonianza fondamentale.
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Liber n. 23
MOLOCH
Un film di Aleksandr Sokurov. Con Elena Rufanova,
Leonid Mosgovoi, Leonid Sokol, Elena Spiridonova,
Vladimir Bogdanov
Storico, durata 103 min. - Russia 1999.
Berchtesgaden, 1942: Eva Braun fa ginnastica nel castello del
Berghof, attendendo che sopraggiungano Hitler e i suoi ospiti. Arriva l'auto del Führer, scendono Adolf Hitler, i coniugi
Goebbels, Joseph e Magda, e Martin Bormann. Hitler saluta
la servitù. Tra i due gerarchi serpeggia la rivalità, ma, prima di
ritirarsi ciascuno nelle proprie stanze, Eva e gli altri concordano di non parlare di politica a tavola.
In camera da letto, prima di pranzo, Hitler si lamenta del suo
stato di salute con Eva. La donna non gli crede, ribatte che i
medici dicono al Führer solo ciò che egli vuol sentirsi dire,
solo lei ha il coraggio di contraddirlo. A tavola, per tutto il tempo Hitler espone le sue teorie sugli argomenti più diversi, la dieta vegetariana, la guerra sul fronte orientale, i rapporti con l'alleato italiano, l'influenza del clima sulle caratteristiche razziali, quindi si addormenta. Poi, al suo risveglio, ordina che si faccia
una passeggiata.
Hitler, Eva, i Goebbels e Bormann escono per una passeggiata nei sentieri di montagna, seguiti dalle
guardie, e ballano al suono della musica. Tornati al castello, tutti si ritirano, tranne Hitler, che riceve la
visita di un prete. Questi è venuto a chiedere clemenza per un disertore, internato in un lager. Hitler rifiuta. Il prete si pente di essere venuto a pregarlo come se fosse Cristo in persona; ma "non si dovrebbe
pregare Cristo", ribatte Hitler, poiché "è morto e non si può ottenere nulla da lui"…
Lo sguardo invisibile di Sokurov scende fino al fondo grottesco e devastato dell’uomo di potere, mette in
scena il suo “crepuscolo della volontà” (( Il Crepuscolo degli Dei di Friedrich Nietzsche e Il trionfo della volontà di Leni
Riefenstahl … e avremo la formula del mondo contemporaneo che si trova in Alexander Sokurov: il crepuscolo della volontà. (Alexandra Tuchinskaya, sito web The Island of Sokurov) , mescola musiche di Wagner e Mozart a marcette
militari e costruisce scenari in cui l’orrore proviene da un dialogare insensato sul cocuzzolo di una montagna avvolta da nebbie sempre più fitte, l’”unexpected combinations” di elementi reali produce un effetto
onirico ai confini con l’incubo, le parole sembrano dettate dalle illogiche distorsioni del sogno, come i
contrasti cromatici e i bruschi cambi di scena, allorchè all’opulenza di lucido bronzo specchiante
dell’ascensore, che evoca l’iconografia del Moloch in attesa di sacrifici umani, segue l’aspetto sobrio, quasi monacale, degli interni pieni di ombre che hanno la freddezza del marmo e del granito. Avvolte
nell’ombra, le figure emergono a tratti in un fascio di luce con la stessa drammatica tensione dei ritratti di
Rembrandt, icone “… il cui “tempo” può essere intuitivamente sentito … In questo senso le immagini di
Sokurov sono come i sogni, appaiono imporre il loro concetto di tempo su di noi e arricchire, come icone, la nostra coscienza.” (Thorsten Botz-Bornstein, Films and Dreams, Tarkovsky, Bergman, Sokurov, Kubrick,
and Wong Kar-wai , Lexington Books, 2007, p. 34 ).
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Liber n. 23
MONA LISA SMILE
Un film di Mike Newell. Con Julia Roberts, Kirsten Dunst,
Julia Stiles, Maggie Gyllenhaal, Ginnifer Goodwin.
Commedia, durata 110 min. - USA 2003.
In pieno maccartismo, la giovane professoressa Katherine Watson
giunge dalla California al prestigioso college di Wellesley, nel Massachussetts, per insegnare storia dell'arte ad una classe di future appartenenti all'elite dominante. Lo scanzonato anticonformismo di miss Watson, però, non attecchisce facilmente negli animi delle allieve, più interessate ad un futuro già programmato di mogli benestanti che a decifrare il mistero del sorriso della Gioconda. Così, alla giovane professoressa non resta che tornarsene in Cailfornia credendo di non avere
ricavato nulla dal suo semestre di insegnamento. Ma qualcosa, invece,
sarà mutato per sempre.
Mike Newell, dopo i fasti ormai datati di Quattro matrimoni e un funerale, pensa di tornare alla grande con
un rifacimento al femminile de L'attimo fuggente; ma le lezioni di vita e di filosofia del mitico professor Keating del film di Weir diventano qui solo scipiti consigli di bon ton, ed il sorriso smagliante di Julia Roberts (unito ad una legione di future star di Hollywood) non basta a nascondere la preoccupante mancanza di idee che sottintende al progetto.
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Liber n. 23
MOONRISE KINGDOM
Un film di Wes Anderson. Con Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand,
Tilda Swinton.
Titolo originale Moonrise Kingdom.
Drammatico, durata 94 min.
Estate 1965. Su un'isola del New England vive la dodicenne Suzy, preadolescente incompresa dai genitori. Sulla stessa isola si trova in campeggio scout il coetaneo Sam, orfano affidato a una famiglia che lo considera troppo 'difficile'
per continuare ad occuparsene. I due si sono conosciuti
casualmente, si sono innamorati e hanno deciso di fuggire
insieme seguendo un antico sentiero tracciato dai nativi nei
boschi. Gli adulti, ivi compreso lo sceriffo Sharp, si mettono alla loro ricerca anche perché è in arrivo una devastante
tempesta.
È indispensabile prestare attenzione all'ouverture di Moonrise Kingdom e non abbandonare la sala prima
della fine dei titoli di coda per comprendere il senso profondo del film di Anderson che, altrimenti, rischia di essere letto superficialmente come un'ulteriore esibizione di genialità narrativa infarcita di gag e
di trovate visive senza però che si vada oltre. Non è così. Chi era bambino nella prima metà degli Anni
Sessanta ha molto probabilmente nella propria raccolta di vinili la suite didattica Young Person's Guide to the
Orchestra di Benjamin Britten in cui si presentavano i diversi strumenti che compongono l'orchestra basandosi su un tema di Purcell in cui l'ensemble si riuniva per eseguire una fuga.
Una fuga è esattamente ciò che mettono in atto Suzy e Sam. Una fuga che serve apparentemente a scomporre ma in realtà ha come meta la ricomposizione dei frammenti di due vite che rischiano la dissoluzione. Alla fine del film Anderson gioca con questo fil rouge sonoro di nuovo 'scomponendo': questa volta
tocca alla musica di Desplat, autore del soundtrack originale del film. Ci ricorda così, al contempo, che
fare cinema (stanno scorrendo i titoli di coda non dimentichiamolo) è 'orchestrare' varie e quasi innumerevoli professionalità ma riesce anche a fare di più. Sottolinea che il suo cinema più recente è orientato a
cercare le radici del comportamento adulto in accadimenti che hanno marcato gli anni giovanili.
Così era per i fratelli de Il treno per il Darjeeling, così è stato per Fantastic Mr.Fox (un ritorno alle proprie
origini con il portare sullo schermo il primo libro che Anderson ricorda di aver letto), così accade ora.
Suzy e Sam sono non dei disadattati ma dei 'disadatti' a un mondo adulto che si sta spegnendo nell'indifferenza (la famiglia della ragazzina) o sopravvive grazie a regole applicate puntigliosamente che pretendono di imbrigliare l'avventura (il campo scout per Sam). Nel prologo, dalla casa di bambola in cui vive con
i genitori e i fratelli, Suzy osserva il mondo grazie alla distanza del suo binocolo ma, per un istante, guarda in macchina interrogandoci.
Siamo ancora capaci di emozionarci per un bacio? Sappiamo capire fino a che punto un essere umano in
formazione abbia bisogno del nostro aiuto per togliersi il costume nero da corvo (e viene in mente
"Blackbird", masterpiece dei Beatles) e quanto invece possa e debba affrontare il piacere dell'avventura
della vita con quel tanto di libertà che gli permetta di dipingere un mondo nuovo? Sono quesiti che ogni
tanto gli adulti dovrebbero porsi. Anderson fa bene a riproporceli.
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Liber n. 23
NEL NOME DEL PADRE
Un film di Marco Bellocchio. Con Laura Betti, Lou Castel,
Yves Beneyton, Piero Vida, Vittorio Fanfoni.
Commedia, durata 109 min. - Italia, Francia 1972.
Spedito in collegio da un padre che non sopporta la sua insubordinazione, il giovane Angelo Transeunti si ritrova in un freddo ambiente popolato di studenti indisciplinati ma timorati di Dio, sacerdoti rigorosi e convittori trattati come schiavi. La sua innata indisposizione a regole e istituzioni inizia a diffondersi come un male all'interno delle mura ecclesiastiche: i ragazzi cominciano a deridere le
lezioni e a ribellarsi alla disciplina imposta del vicerettore Padre Corazza, mentre i convittori decidono di non soccombere a un'oppressione mascherata da carità cristiana e organizzano uno sciopero. Per
infondere nuovi dubbi e timori anche nelle più giovani coscienze,
Transeunti e altri ragazzi mettono in scena una versione
"brechtiana" del Faust, in cui fra irrisione e anticlericalismo, sconvolgono definitivamente le coscienze di tutti gli abitanti del collegio.
Sulle ceneri del Sessantotto, Marco Bellocchio eleva il tumulto culturale e politico giovanile di quegli anni
in un impeto immaginifico e sanguigno. Nel nome del padre è l'opera che più di ogni altra è riuscita a portare quello spirito ribelle e acerbo al suo apice visionario e, contemporaneamente, al suo scacco definitivo,
all'impossibilità di farsi azione politica efficace.
Dopo aver sviscerato il nero malessere della famiglia borghese (I pugni in tasca) e l'ottuso trasformismo
della politica (La Cina è vicina), al terzo lungometraggio Bellocchio sfoga la propria insofferenza nei confronti delle istituzioni "quiete e repressive" verso l'educazione cattolica. Ambienta il suo racconto nel '58
non solo per ragioni autobiografiche, ma anche perché è l'anno simbolico in cui muore Pio XII, il papa
accusato di indulgenza durante la Shoah. Morte simbolica che risveglia nel regista piacentino tutto lo spirito ribelle di una gioventù intrisa di valori inculcati, capace di fuoriuscire in un grido estraniante e allucinato, potente e visionario.
Nel nome del padre è una parabola ancor prima di una storia, un apologo che ha inizio fin dalla prima sequenza (un sonoro scambio di schiaffi fra padre e figlio) e che deflagra immagine dopo immagine in una
sfida all'acquiescenza morale e al cinema istituzionale, uno schiaffo e uno sputo al "cinéma du papa". Ogni inquadratura sembra fuoriuscire da un quadro della pittura rinascimentale tedesca e configurarsi come
un'Allegoria di Dürer: un collegio che sembra un manicomio diviso per classi sociali; figure grottesche
dal nome emblematico (Corazza, Diotaiuti, Salvatore); un giovane borghese che cammina a testa alta e
coi pugni in tasca e che istiga alla rivoluzione. Bellocchio trasfigura figure e icone della cultura cattolica
attraverso l'impeto della cultura tedesca moderna, presente a più riprese sotto varie figurazioni (da Goethe a Nietzsche, da Brecht all'iconografia nazista), e dall'accostamento costruisce un progetto politico
aggressivo (ogni istituzione - cattolica, scolastica, familiare - è un fascismo, una superstizione basata sulla
paura), ma fallimentare, destinato a fare della "lezione" di Transeunti una rivoluzione per folli.
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Liber n. 23
NEW YORK NEW YORK
Un film di Martin Scorsese. Con Liza Minnelli, Lionel
Stander, Robert De Niro, Barry Primus, Mary Kay Place.
Commedia, durata 153 min. - USA 1977.
2 settembre 1945. Mentre l'America festeggia la resa del Giappone a Times Square, il sassofonista Jimmy Doyle (Robert De Niro) e la cantante Francine Evans (Liza Minnelli) si incontrano
per la prima volta. Di lì a poco i due inizieranno una relazione
sentimentale tumultuosa e piena di incomprensioni.
Quasi ognuno dei grandi registi che si sono imposti nella storia
del cinema a partire dagli anni 70- tra cui Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, William Friedkin, Michael Cimino- agli occhi
della critica hanno almeno una Waterloo personale. Nel caso di
Scorsese il primo grande (ingiusto) flop di pubblico e critica è il sontuoso New York, New York. Nel 1976
il regista reduce dal successo ottenuto per i suoi precedenti tre film (Mean Streets, Alice non abita più qui e
Taxi driver), riprendendo un soggetto rimasto incompiuto di Earl Mac Rauch, era in procinto di realizzare
il suo progetto successivo, tributo e decostruzione del periodo d'oro del musical targato MGM e Warner
Bros. Ispirato ai classici del genere (di registi del calibro di Busby Berkeley e Vincente Minnelli) ne rovescia allo stesso tempo le convenzioni. L'approccio stilistico è infatti rappresentato dallo scontro tra realtà
cinematografiche incompatibili, abbracciando l'artificialità dei teatri di posa ma facendovi muovere e vivere dei personaggi intensi e ambigui, lasciando spazio a un nuovo modo di concepire la vita, di guardare
e analizzare emozioni. Ad aiutarlo nella linea di demarcazione tra vecchia e nuova Hollywood è Liza
Minnelli. La sua presenza ha reso omaggio ai musical diretti da suo padre e interpretati da sua madre,
Judy Garland (specialmente È nata una stella, dalle non poche somiglianze con New York, New York) e allo
stesso tempo rappresentò il moderno musical hollywoodiano (vincitrice nel 1972 dell'Oscar come miglior
attrice per Cabaret).
Le riprese si rivelarono lunghe e faticose. L'ampia facoltà d'improvvisazione lasciata agli attori finì per
prolungare il calendario delle riprese e il budget ne risentì inevitabilmente. Si trattava inoltre di un momento delicato per la vita del regista, segnato dalla dipendenza da cocaina e dalla fine del suo secondo
matrimonio con la sceneggiatrice Julia Cameron. Quante parole possono pensare di descrivere questa
pellicola? Troppe. Forse: ambiziosa, audace, affascinante, fraintesa.
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Liber n. 23
NIENTE DA DICHIARARE?
Un film di Dany Boon. Con Benoît Poelvoorde, Dany
Boon, Julie Bernard, Karin Viard, François Damiens.
continua»
Titolo originale Rien à déclarer.
Commedia, durata 108 min. - Francia 2010.
Nella primavera del 1986, Ruben Vandevoorde, un doganiere belga
severo e sciovinista animato da un fervido odio anti-francese, vive
con disperazione l'annuncio della chiusura delle frontiere europee.
Sette anni dopo, alla vigilia della definitiva cancellazione delle dogane sul confine fra Francia e Belgio, Ruben trascorre le ultime ore di
vita della frontiera dando sfogo a tutto il suo spirito nazionalista e
tormentando i frontalieri francesi. Dall'altra parte del confine, tutti i
vigilanti francesi odiano e temono a loro volta il razzista Vandevoorde e la sua pericolosa indisponenza. In modo particolare, lo teme il mite poliziotto Mathias Ducatel,
innamorato di sua sorella e determinato a sposarla. Nel momento in cui viene deciso di creare una pattuglia di dogana mobile franco-belga per debellare un ingente traffico di droga, Mathias decide di far squadra con Vandevoorde per conquistare un posto nel cuore dell'arcigno francofobo e ottenere il suo beneplacito a entrare a far parte della famiglia.
Per chi ha trovato uno straordinario successo "scendendo" a Nord e giocando con calembour e i dialetti,
è normale continuare a muoversi lungo i sicuri confini degli stereotipi culturali. Quegli stessi stereotipi
tanto facili da prendere in giro quanto da ricreare, linguaggio universale che ha il vantaggio di guardare al
folklore ma saper colpire le umane debolezze. Dany Boon è un maestro di questo tipo di comicità "di
confine", cercando ogni volta quelle barriere più spesse e dure con le quali divertirsi a giocare come un
mimo di strada con un muro invisibile. Come il precedente Giù al nord, anche Niente da dichiarare parte da
un contesto minuscolo e provinciale come quello della sottile linea che separa il Nord-Pas de Calais dalla
Vallonia ma guardato da una prospettiva talmente larga e popolare da potersi declinare in tanti diversi
contesti (un remake italo-svizzero ambientato a Lugano? Un conflitto fra americani e canadesi alle Cascate del Niagara?). Certo è che la semplicità delle favole dello stralunato comico francese dalle eccezionali
doti mimiche, oltre alla sua formula universale, mostra qua anche i suoi limiti più evidenti, la frontiera
con cui discriminare fra la leggerezza pantomimica e graziosa di Giù al nord e la pigra sciocchezza di questo terzo film da regista.
Nel tornare indietro ai primi anni Novanta, Boon si diverte a raccontare l'abolizione delle dogane all'interno dell'Unione Europea come un periodo così vicino eppure così lontano mentalmente e tecnologicamente. Sembra un secolo fa che l'informatica e le nuova telefonia abbattevano le distanze e creavano
nuovi villaggi globali allora impensabili. Da cui il messaggio evidente: ogni innovazione ed evoluzione è
tanto apparentemente complessa quanto semplice e indolore, e così come in meno di vent'anni si è rivoluzionato il nostro approccio a computer e telefonini, così si possono abbattere con la stessa semplicità
anche i pregiudizi più atavici
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Liber n. 23
NOI CREDEVAMO
Un film di Mario Martone. Con Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Francesca Inaudi, Andrea Bosca, Edoardo Natoli.
Drammatico, durata 170 min. - Italia, Francia 2010.
Tre ragazzi del sud (Domenico, Angelo e Salvatore) reagiscono alla pesante repressione borbonica dei moti del 1828 che
ha coinvolto le loro famiglie affiliandosi alla Giovane Italia.
Attraverso quattro episodi che li vedono a vario titolo coinvolti vengono ripercorse alcune vicende del processo che ha
portato all'Unità d'Italia. A partire dall'arrivo nel circolo di
Cristina Belgioioso a Parigi e al fallimento del tentativo di
uccidere Carlo Alberto nonché all'insuccesso dei moti savoiardi del 1834. Questi eventi porteranno i tre a dividersi.
Angelo e Domenico, di origine nobiliare, sceglieranno un
percorso diverso da quello di Salvatore, popolano che verrà addirittura accusato da Angelo (ormai votato
all'azione violenta ed esemplare) di essere un traditore della causa. Sarà con lo sguardo di Domenico che
osserveremo gli esiti di quel processo storico che chiamiamo Risorgimento.
Assistendo al lungo film di Martone che ha l'andamento classico di quelli che un tempo si chiamavano
sceneggiati televisivi (senza che in questa annotazione ci sia alcunché di riduttivo) si ha la sensazione di
un deja vu. Perché il cinema italiano non scopre certo con Noi credevamo i lati oscuri e le contraddizioni
del Risorgimento. Chi ricorda opere come Allonsanfan, Quanto è bello lu murire acciso o Bronte sa che in materia ci si è già espressi con opere di assoluto vigore. E' però vero che l'occasione del centocinquantenario
dell'Unità d'Italia e il revisionismo storico dominante (che vede il Risorgimento come una sciagura per il
Nord) quasi impongono una rivisitazione del tema che Martone mette in scena con accuratezza filologica
(anche se restano misteriose alcune strutture in cemento armato) e con un'attenzione iconografica da sussidiario degli anni Sessanta (con un Mazzini già vecchio nel 1830 quando aveva venticinque anni). L'idea
di seguire le vicende (in parte storiche e in parte frutto di immaginazione) dei tre protagonisti che accompagnano lo spettatore nella non semplice articolazione delle posizioni che vedevano contrapposti i fautori dell'unità può senz'altro essere efficace se distribuita televisivamente in due serate.
Lo è meno se si pensa a un'opera della durata di tre ore e mezza circa. Perché si finisce con il disperdersi
nella pur acuta e documentata ricostruzione. Resta comunque viva, oltre alla consapevolezza di trovarsi
dinanzi a un'opera non di occasione e sicuramente non celebrativa, la sensazione di una coazione a ripetere della politica italiana.
Oltre alla divisione in due fronti (all'epoca repubblicani e monarchici con tanto di trasmigrazioni da un
fronte all'altro) emerge con assoluta chiarezza la quasi genetica incapacità a fare fronte comune, la spinta
inarrestabile a dividersi a diffidare gli uni degli altri all'interno dello stesso schieramento. La lettura con
uno sguardo che ha origine al sud ribalta poi le tesi leghiste senza essere nostalgica della dominazione
borbonica ma non nascondendosi le problematiche lasciate irrisolte da una fase storica di cui il popolo,
come spesso accade, ha finito con l'essere più spettatore o oggetto che non protagonista in grado di decidere del proprio futuro. Il Parlamento vuoto in cui un determinato e non conciliante Crispi pronuncia il
suo discorso marca simbolicamente la morte di un'utopia.
PAGINA 84
Liber n. 23
NOSFERATU IL VAMPIRO
Un film di Friedrich Wilhelm Murnau. Con Max Schreck,
Gustav von Wangenheim, Greta Schroeder, Alexander
Granach, Georg H. Schnell.
Titolo originale Nosferatu, Eine Symphonie des Grauens.
Horror, b/n durata 75 min. - Germania 1922.
Nosferatu il vampiro (uno dei capisaldi indiscussi del cinema espressionista tedesco) è stato per decenni il solo film vampirico ammesso
nelle discussioni colte dei critici, ma - come tutti i film sul tema viene spesso stroncato, nonostante abbia ispirato nel 1979 una personalità quale quella di Werner Herzog. Fortunatamente la sorte volle salvarne una copia, perché la pellicola fu condannata al rogo non
per il suo contenuto erotico ma per una più semplice bega legale.
Murnau infatti pensò bene di non pagare nessun diritto a Bram Stoker pur essendo Nosferatu apertamente tratto dal romanzo del giornalista irlandese.
E così il nostro vampiro si trovò presto al centro di una causa intentata dalla vedova Stoker contro la
casa produttrice. Nonostante Murnau avesse cambiato tutti i nomi dei personaggi la causa fu vinta e il
tribunale decretò la distruzione di tutte le copie del film ma qualche "anima diabolica" provvide a salvarne i negativi.
Girato nel primo dopoguerra, l'obiettivo del regista sembra la rappresentazione dei tiranni e non quello
di inoculare le masse dell'epoca con simboli eticamente malsani di ottimale preservazione dal dissolvimento della carne. Questa prima versione del conte Dracula sullo schermo è indimenticabile, con la sua
figura rigidamente contorta e scheletrica, le lunghe unghie artigliate, le occhiaie incavate. La collocazione
sociale nel mondo dei vivi è molto precisa: è la borghesia commerciale tedesca del secolo scorso.
Per Murnau il Nosferatu, il non morto, era il simbolo dell'irruzione violenta di un elemento irrazionale
nel tessuto della realtà borghese ottocentesca, un qualcosa da opporre alla buona educazione e alla facciata ipocrita del mondo circostante, una forza eversiva e incontenibile.
Come uno specchio diabolico e metafisico il vampiro, nel capolavoro del muto tedesco, rifletteva l'immagine impietosa della crisi in cui versava tutta la middle-class europea consapevole ormai del fatto che la
propria funzione storica si stava esaurendo. Contrariamente alle posteriori pellicole aventi per protagonista la figura del vampiro, quella di Nosferatu, lontana dal premere sull'eros, predilige la cieca forza maligna del non morto. Difatti il suo non è lo sguardo languido e accattivante del Dracula dell'indimenticabile Tod Browning interpretato da Bela Lugosi, né lo sguardo pieno di lascivia del vampiro Lestat in Intervista col vampiro.
Il conte Orlok (interpretato nell'opera di Murnau da Max Schreck) non ha alcuna parvenza elegante, ma
sembra solo strisciare in una condizione di automa semi-incosciente. Nessuna sensualità dunque ma solo
le rigide movenze di un non-essere che in una sorta di altalenante regressione organica sembra richiamare
un ibrido tra un pipistrello e un insetto. Nella sua staticità quasi ossessiva, questa icona non possiede nulla di romantico, quasi a sottolineare il carattere disumanizzato del male e l'impotenza umana di fronte a
quest'ultimo.
Pellicola pedagogica quindi con finale lieto solo a metà.
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Liber n. 23
NOSTRA SIGNORA DEI
TURCHI
Un film di Carmelo Bene. Con Carmelo Bene,
Lydia Mancinelli, Ornella Ferrari, Salvatore Siniscalchi, Anita Masini
Drammatico, durata 125 min. - Italia 1968.
Alla base di tutto c'è il ricordo di una strage compiuta dai
turchi ad Otranto. Un ricordo ovviamente non personale,
ma quasi genetico, visto che il protagonista è un intellettuale dei nostri giorni. Tra le sue visioni prendono posto ricordi infantili, colloqui immaginari e la presenza di una donna
di nome Margherita (Lydia Mancinelli), ma che si annuncia
sotto le spoglie di Santa Maria d'Otranto.
È passato del tempo e intanto Bene ha smesso da un po' di
fare cinema. È molto facile odiarlo e considerarlo addirittura sorpassato, ma i suoi cinque film sono
quanto di più vitale, originale e interessante il cinema italiano sia mai riuscito a produrre.
Il cinema di Carmelo Bene in generale, e Nostra Signora dei Turchi (sua folgorante opera d’esordio nel lungometraggio) in particolare, non ammette mezze misure: o l’adesione dello spettatore è totale, una condizione indispensabile per accedere pienamente – e indiscriminatamente - al “godimento” anche sensoriale
che può derivare dalla visione di un’opera vitale e “fuori schema” come questa e che si determina credo
solo se l’approccio avviene senza preconcetti fuorvianti o vecchi pregiudizi, e soprattutto senza alcuna
titubanza anche “ideologica” verso le avanguardie più ardite del novecento (meglio se si conosce anche
chi è stato e cosa ha rappresentato complessivamente l’Artista nel panorama culturale italiano della seconda metà del secolo scorso), oppure scatta l’insofferenza ed il “rifiuto”, elementi questi che purtroppo
impediscono una valutazione obiettiva del risultato che è poi anche il punto di partenza per poter formulare una competente analisi critica che può essere benissimo espressa persino in negativo, si badi bene,
ma che “deve” poggiarsi necessariamente su argomentazioni “oggettivamente” circostanziate e non tendenziose per risultare davvero e “credibilmente” attendibile (e come tale, di qualche utilità anche per aprire un dibattito, una discussione o addirittura un “civile” scontro dialettico fra le parti).
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Liber n. 23
UNA NOTTE ALL’OPERA
Un film di Sam Wood. Con Margaret Dumont, Groucho
Marx, Chico Marx, Harpo Marx.
Titolo originale A Night at the Opera.
Comico, b/n durata 92 min. - USA 1935.
Un giovane tenore dalle belle speranze (Allan Jones) viene aiutato
da tre eccentrici personaggi (Groucho, Chico e Harpo Marx) a
sfondare nel mondo della lirica.
Naturalmente, il contrasto tra i tre fratelli e il serioso universo
dell'opera genera esilaranti effetti comici, raggiungendo il culmine
quando fanno irruzione in uno spettacolo a teatro.
Film dall'incredibile forza inventiva e dall'irrefrenabile trasgressione, Una notte all'Opera è unanimamente considerato uno dei migliori lavori dei fratelli Marx, ed è stato anche oggetto di un tributo
nel 1993 con il film Gli sgangherati, diretto da Dennis Dugan.
Più che per le scene principali, come la folla stipata nella cabina della nave, Una notte all'Opera resta
una splendida e affermata commedia grazie ai suoi momenti più semplici: una sola parola o un gesto
resi con un incredibile senso del ritmo. Ci sarebbe molto da dire sul modo in cui le armi trasgressive
dei tre fratelli mandano in crisi una rappresentazione d'opera.
Il quarto fratello, il compito Zeppo, non prende parte a questo film.
Il fiume di parole e la distorsione del corpo di Groucho, il silenzio innaturale e l'infantile potere distruttivo di Harpo, il virtuosismo e l'"ethos straniero" di Chico, contribuiscono a disturbare un mondo dell'opera che si basa sull'avversione per l'arte, sull'avidità e sulla corruzione.
Queste componenti esistono e sono assolutamente interessanti, ma vengono dopo una caratteristica
più scontata: Una notte all'Opera era, e rimane, un film estremamente divertente.
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Liber n. 23
ORIZZONTE PERDUTO
Un film di Frank Capra. Con Thomas Mitchell, Edward Everett Horton, Jane Wyatt, Sam Jaffe, Ronald
Colman.
Titolo originale Lost Horizon.
Fantastico, b/n durata 143 min. - USA 1937.
In volo verso Shangai per sfuggire ad una rivoluzione, un aereo
inverte la rotta e mentre sorvola il Tibet precipita tra le nevi
dell'Himalaya. A bordo, insieme a Robert Conway (Ronald
Colman), affermato scrittore e diplomatico inglese, e a suo fratello George, ci sono un truffatore ricercato dalla polizia, un
timido paleontologo e una ragazza disillusa, minata dalla tubercolosi. Il gruppo viene soccorso dal monaco tibetano Chang e
condotto attraverso una lunga marcia per il più impervio dei
sentieri, nella misteriosa valle di Shangri-la, resa fertile e rigogliosa da un clima straordinariamente mite. In questo incredibile paradiso terrestre, la gente vive a lungo,
serena nel lavoro e nelle gioie della famiglia, senza conoscere rimpianto, odio o gelosia e senza bisogno di
leggi. Conway intuisce di esservi stato portato deliberatamente ma ne ignora i motivi, finché il Grande
Lama - lo stesso uomo che più di 200 anni prima scoprì la valle e ne educò gli indigeni -, ormai morente,
non gli rivela di averlo prescelto come suo successore. Conway è conquistato dalla forza dell'ideale, ma
quando il fratello, con l'aiuto della "giovane" Maria, organizza la fuga, decide di seguirlo. Il tentativo, però, si risolve in tragedia: i tre sono abbandonati dai mercanti che dovrebbero scortarli oltre le montagne;
Maria, esposta ai rigori del freddo, muore rivelando la sua vera età ultracentenaria; George, impazzito,
precipita in un crepaccio; Robert vaga fino ad essere casualmente scoperto e ricondotto in patria. Egli
sembra aver perduto la memoria: in realtà attende il momento opportuno per abbandonare il paese e far
ritorno a Shangri-la e a Sondra, la fanciulla della quale si è innamorato.
Orizzonte perduto è spesso considerato un film enfatico, lento (non dimentichiamo, tuttavia, le concitate
scene iniziali della fuga all'aeroporto, l'arrivo dell'aereo in un villaggio di guerriglieri, e il frenetico montaggio che riassume lo sconcerto del mondo per la scomparsa del diplomatico) e talora lezioso, estraneo
alla vena poetica di Frank Capra. Gran parte delle riserve avanzate sul film poggiano sul paragone con le
più spontanee e drammaticamente articolate commedie "rooseveltiane" incentrate sul dualismo tra umili
e potenti (E' arrivata la felicità, Mr. Smith va a Washington, Arriva John Doe, La vita è meravigliosa) alle quali è
soprattutto legata la fama del grande regista. Privo di un vero protagonista nel quale lo spettatore medio
possa riconoscersi ed identificarsi, il racconto si risolverebbe in un pregevole spettacolo per gli occhi ma
non regalerebbe emozioni capaci di far volare la fantasia. Nata alla vigilia della seconda guerra mondiale,
l'opera trova il vero significato nella sincera ispirazione - qualità che la fa durare e apprezzare nel tempo che riversa nella descrizione della società utopistica, dove l'innocenza e la pace sono riconquistate, un
monito contro ogni rigurgito nazionalistico ed ogni tentazione all'irrazionale.
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Liber n. 23
L’ORRIBILE VERITA’
Un film di Leo McCarey. Con Alexander D'Arcy, Irene Dunne, Ralph Bellamy, Cary Grant.
Titolo originale The Awful Truth.
Commedia, b/n durata 92 min. - USA 1937.
La leggenda riguardante L'orribile verità di Leo McCarey vuole che il
film sia stato improvvisato di giorno in giorno.
L'idea è perfettamente in tono con l'ethos del film stesso, nel
quale la spontaneità, la giocosità, e la capacità di ridere per i propri stessi "atti" sono fondamentali per il suo caldo e trionfante
senso dell'umorismo così come per il successo della sua incursione
entro i meccanismi che regolano il matrimonio.
La sceneggiatura, comunque sia stata realizzata, è in ogni caso
soddisfacente.
Il film inizia con una crisi di coppia: Jerry (Cary Grant) e Lucy
(Irene Dunne), credendo di essersi traditi a vicenda, decidono di divorziare. Servirà quasi la metà del film – e una divagazione sentimentale – perché Lucy si accorga di amare ancora Jerry. Ma
a quel punto sarà lui ad aver preso all'amo qualcuno, nella fattispecie un'ereditiera un po' svitata di nome Barbara (Molly Lamont). Una volta che tutti i giochi sono esauriti, la storia diviene
un road-movie che conduce a una casetta nel bosco, solo trenta minuti prima che l'istanza di divorzio diventi definitiva.
La pellicola nasce successivamente alla delusione del regista per l'insuccesso di Cupo Tramonto, dello stesso anno, sul quale aveva puntato molto. Il film è tipicamente nello stile di McCarey, che vi include tutti gli ingredienti della commedia romantica, dalla contrapposizione tra
newyorkesi e americani del sud, al ruolo dei giochi, delle canzoni e dei balli per far emergere i
sentimenti dei personaggi.
Pieno di splendidi ruoli minori e risvolti comici, L'orribile verità comprende anche un momento
serio quando Jerry e Lucy ricordano la loro promessa di matrimonio: "dal profondo del cuore,
ti adorerò per sempre".
L'orribile verità è uno di quei film che resistono maggiormente al tentativo di descriverli a parole
a causa dei sottili giochi verbali che li caratterizzano, grandi esempi di tempismo, ritmo e tono cinematografici: come nel difensivo e ripetuto "avrei fatto meglio ad andarmene" di Lucy.
Il film è soprattutto un monumento alla brillante e magica amabilità delle sue star.
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Liber n. 23
LA PALLA N. 13
Un film di Buster Keaton, Roscoe Fatty Arbuckle. Con
Buster Keaton, Kathryn McGuire, Ward Crane
Titolo originale Sherlock Junior.
Commedia, b/n durata 95 min. - USA 1924.
La palla numero 13, il più breve dei film di Buster Keaton, è
un'opera comunque notevole, con una trama fortemente coesa, un atletismo sbalorditivo (Keaton non usò controfigure,
ferendosi involontariamente al collo), un grande virtuosismo
artistico e un'esplorazione avanguardistica dell'eterna dicotomia tra realtà e illusione.
Keaton interpreta qui un proiezionista e aspirante detective
ingiustamente accusato di furto dal padre della sua fidanzata.
Incastrato dal suo rivale (Ward Crane), il giovane viene bandito dalla casa della ragazza. Distrutto, si addormenta durante il
lavoro. In sogno, egli passa nello schermo cinematografico (in una splendida sequenza di effetti
ottici), dove diviene l'azzimato protagonista Sherlock Holmes Jr., il secondo più grande detective
del mondo.
Acrobazie incredibili e gag complicate portano questo film di quaranta­quattro minuti a un picco
febbrile. All'inizio, la realtà cinematografica si rifiuta di accettare questo nuovo protagonista e la
tensione tra i due mondi è magnificamente presentata in un montaggio di paesaggi diversi che fanno finire il confuso eroe nella tana di un leone, tra onde ruggenti e sulla neve. Gradualmente, egli entra
completamente nel mondo del cinema. Nella mise­en-abyme della vicenda il malvagio (interpretato
da Ward Crane) cerca invano di uccidere l'eroe, prima che Sherlock Holmes Jr. risolva un mistero
di perle rubate.
La palla numero 13 comprende non solo le incredibili acrobazie per cui Keaton è famoso, ma pone
anche diversi problemi. Da una prospettiva sociale, il film si può considerare una critica alle idee
di avanzamento nella società americana. Sul piano psicologico, introduce il motivo del doppio che
lotta per colmare spazi immaginari, mentre il protagonista è incapace di ottenere una realtà ordinaria e tangibile. Il film è soprattutto una riflessione sulla natura dell'arte, un tema che riaffiorerà
ancora ne Il Cameraman (1928), quando l'attenzione di Keaton si sposterà dal mezzo allo spettatore.
I film di Keaton sono interessanti anche oggi, in parte per via dello stoicismo che sembra caratterizzare
il regista-protagonista (diverso dal pathos di Chaplin), e poi per la loro natura occasionalmente surreale
(ammirata da Luis Bunuel e da Federico Garda Lorca) e per il tentativo di approfondire la realtà del
cinema e della stessa esistenza. Chuck Jones, Woody Allen, Wes Craven, Jackie Chan e Steven Spielberg sono tra i cineasti che rendono omaggio agli irresistibili guai di Keaton, un autore i cui film
restano forse i più accessibili di tutta l'epoca del muto.
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Liber n. 23
PANE E CIOCCOLATA
Un film di Franco Brusati. Con Nino Manfredi, Paolo Turco, Gianfranco Barra, Tano Cimarosa, Ugo D'Alessio.
Commedia, durata 115 min. - Italia 1973.
Nino, emigrato in Svizzera, riesce ad ottenere un contratto trimestrale come cameriere in un ristorante, ma viene licenziato e privato del
permesso di soggiorno. Nino invece di tornare in Italia si rifugia in
casa di Elena un esule greca. Espatriato come lui ma per ragioni fiscali, un industriale italiano lo assume al suo servizio. Costui, abbbandonato dalla moglie e in piena crisi finanziaria si uccide dopo
aver sottratto a Nino tutti i suoi risparmi. A questo punto l'ex cameriere si unisce a un gruppo di napoletani che per mestiere sgozzano
galline e vivono in un pollaio.
Pane e cioccolata (Orso d'argento a Berlino) di Franco Brusati è un film
che dietro la patina da commedia tratteggia con adeguata puntualità analitica l'amara esperienza dell'emigrazione dei lavoratori italiani verso l'estero, un fenomeno che, soprattutto dopo il secondo conflitto
mondiale, ha conosciuto un flusso considerevole verso diversi paesi (e non solo europei coma la Svizzera
o la Germania). Insieme allo stato d'animo e psicologico di un emigrante tipo, è dunque delineato un fenomeno sociale che di fatto rende il film ancora attuale. A prescindere dal fatto che i flussi migratori non
sono mai cessati d'esistere, basti considerare che la precarizzazione del lavoro scaturita dall'incipiente (e
globale) "crisi economica" rende quanto mai urgente la possibilità per tante persone di doversi spostare
all'estero per cercare più adeguate offerte di lavoro.
L'inizio del film è fantastico, una sequenza breve dalla quale già si capisce che i comportamenti del tutto
naturali di Nino contrastano con il senso di ordine e linearità estrema che gli regna tutt'intorno, una cosa
questa che gli mette uno strano disagio addosso, facendolo sentire sempre inadeguato, inopportuno. Da
questa breve sequenza si capisce subito che Giovanni Garofoli ha dovuto imparare in fretta "l'arte"
dell'adattarsi, a comportarsi come di dovere per non finire nelle fauci moralizzatrici degli "ospitanti", perchè gli immigrati come lui, italiani, turchi, spagnoli o quant'altro, coltivano qualche speranza di far furtuna anche attraverso le disgrazie che possono capitare agli altri. É una guerra tra poveri che si combatte
sulla resistenza dei nervi. É così per tutto il film, sensazioni che si rincorrono per mostrarci tutta la difficoltà ad integrarsi in terra straniera senza sentirsi degli ospiti più sopportati che accettati. Con tocco leggero, ammorbidendo la malinconia nella risata agro dolce, mostrandoci la verosimiglianza di una storia
tipo senza far ricorso allo stereotipo dell'emigrante tutto nostalgia, canzoni e santini. Giovanni Garofoli
incarna il tipo d'immigrato che, se da un lato sente tutta la disumanità di un mondo che lo mantiene perennemente sotto esame solo per garantirgli quanto basta per poter appena sopravvivere, dall'altro lato
riconosce anche la necessità di doversi migliorare se in esso si vuole nutrire qualche legittima ambizione.
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Liber n. 23
PASSAGGIO A NORD OVEST
Un film di King Vidor. Con Robert Young, Walter
Brennan, Nat Pendleton, Ruth Hussey, Spencer Tracy.
Titolo originale Northwest Passage - Book I, Rogers' Rangers.
Avventura, durata 125 min. - USA 1940.
Dal romanzo di Kenneth Roberts, pressoché sconosciuto in Italia.
Nel 1754 una spedizione di Rangers comandati dal maggiore Rogers si spinse su fino al Canada per combattere una tribù di indiani alleata dei francesi. La spedizione riuscì. Dopo sette mesi, i
Rangers, decimati, tornarono alla base di Portsmouth.
È il primo grande western a colori, e che colori. È un film girato
quasi completamente in esterni.
Oltre a Rogers, interpretato da Tracy, la storia ruota intorno a un pittore che si aggiunge alla missione per
la sua capacità di disegnare le carte. La spedizione esplora zone vergini, le barche risalgono i fiumi e vengono spinte lungo le colline. L'attacco al campo indiano è di inaudita violenza e di grande realismo, non
ha nulla da invidiare alle sequenze di Soldato blu e Piccolo grande uomo, realizzate trenta anni dopo. Il ritorno
è drammatico, i superstiti si raccolgono in un forte dove vengono salvati all'ultimo momento, sul punto
di morire di fame. Un film in cui nulla è banale e scontato, con una tensione narrativa che non cade mai,
e senza alcun compiacimento. Naturalmente non manca il mito, ma non è enfatizzato o annunciato, emerge dalle pure azioni. La figura di Rogers ha grande forza, così come l'interpretazione di Tracy, bravo
come poche altre volte, e attendibile come eroe dell'Ovest, lui tozzo e piccoletto. Il Passaggio a nord-ovest è
appunto il sogno di Rogers. I Rangers, ancora comandati dal maggiore, partono per l'ennesima avventura, ancora più a nord. Quando gli chiedono se davvero esista il leggendario passaggio che dovrebbe unire
l'Asia all'America, Rogers risponde: "Prima di morire voglio portare una canoa piena di prodotti del
Giappone fino a New York lungo l'Hudson". A quasi sessant'anni di distanza il Passaggio rimane uno dei
più puri western mai prodotti. L'ottica di Vidor è quella tradizionale, degli indiani cattivi, anzi, in questo
caso esageratamente cattivi, tanto da giustificarne i massacri. Ma è risaputo che il grande cinema ha preso
spesso grandi abbagli di ideologia e di contenuto. In questo caso il piacere puramente cinematografico
dell'"arrivano i nostri" si impone rispetto alla filologia e alla storia. Il regista massimo Griffith in Nascita
di una nazione proponeva una vera apologia del Ku Klux Klan. Rimane il piacere della visione e l'equilibrio
perfetto di tutto, che è di pochi capolavori del cinema.
PAGINA 92
Liber n. 23
IL PASTO NUDO
Un film di David Cronenberg. Con Julian Sands, Peter
Weller, Ian Holm, Judy Davis, Monique Mercure.
Titolo originale Naked Lunch.
Fantasy, durata 115 min. - USA, Canada, Giappone 1991.
1953, New York.
Bill Lee, sterminatore di scarafaggi e aspirante scrittore, uccide Joan, la
moglie tossicodipendente, mentre praticano un gioco ispirato al Guglielmo Tell. Al fine di sfuggire alla polizia, un essere mostruoso gli ordina di recarsi a Interzone dove dovrà redigere alcuni rapporti per una
misteriosa Organizzazione: se la sua macchina da scrivere si rivelerà,
presto, uno scarafaggio parlante, la conoscenza di un altro scrittore esiliato, la cui moglie è la copia esatta di Joan, non farà che accrescere il
suo delirio.
Tra le opere più radicali di David Cronenberg, Il pasto nudo lavora sulla violenza e sulla devianza dell'immaginazione, sul rischio congenito al pensiero stesso: «Ho smesso di scrivere a dieci anni, é troppo pericoloso», dirà Bill. Prima di ogni cosa, si tratta di un film sullo scrivere e sulle sue implicazioni nefaste,
incistate nelle ossessioni da sempre presenti nell'opera del cineasta canadese. Il potere allucinatorio della
mente, la natura virale dell'atto sessuale, lo scambio tra macchine e corpi si mescolano perfettamente
all'universo, non solo letterario, di William S. Burroughs; oltre al romanzo omonimo, del resto, si attinge
ad altre opere così come alla sua biografia, è il caso dell'omicidio della moglie, realmente avvenuto nelle
modalità mostrate nel film.
Scritto nel destino, parimenti avverrà pochi anni dopo con il James Graham Ballard di Crash, l'incontro
con il lisergico scrittore scopre, nella maniera più smaccata, il funzionamento stesso del cinema di Cronenberg, mai così lontano dal bisogno di rifugiarsi in un genere specifico o in una storia credibile. Appiccicoso, paranoico, acido, maleodorante, Il pasto nudo finisce con lo svelare tutto quello che può annidarsi
dietro al processo di creazione, costruendo un delirio in cui è lecito, se non doveroso, trovarsi spiazzati,
respinti e ugualmente attratti: «il labirinto burroughs-cronenberghiano di "Interzone" è un luogo in cui
non si deve aver paura di perdersi, perché il disorientamento e la perdita vi sono previsti, quasi necessari»
(Gianni Canova, David Cronenberg, Il Castoro).
Peter Weller, impassibile, quasi immobile, azzecca il ruolo più importante della sua carriera, altrettanto
adatti risultano Judy Davis e Ian Holm. Il personaggio di Tom Frost rimanda a Paul Bowles così come
quelli di Martin e Hank a Allen Ginsberg e Jack Kerouac.
Sontuoso, davvero sorprendente a livello visivo (fotografia del fidato Peter Suschitzky), è anche un grande film sulla dipendenza.
PAGINA 93
Liber n. 23
LA PAURA MANGIA L’ANIMA
Un film di Rainer Werner Fassbinder. Con Barbara
Valentin, Brigitte Mira, Ben Salem El Hedi
Titolo originale Angst essen Seele auf.
Drammatico, durata 93 min. - Germania 1973.
Rainer Werner Fassbinder aveva partorito l'idea per questo
film – una storia d'amore tra una donna delle pulizie tedesca di circa sessant'anni e un operaio marocchino di
vent'anni più giovane – già all'epoca de Il soldato americano
(1970), dove la cameriera (Margarethe von Trotta) racconta la storia di Emmi e di suo marito Alì.
La paura mangia l'anima (uscito anche come Tutti gli altri si
chiamano Alì) è un toccante melò con punte di pesante satira sociale. Lo stile è quello imposto dalle meticolose riprese di Fassbinder, che indugia su volti monolitici o si allontana discretamente dalla scena. La struttura
narrativa si basa su dettagli della vita della classe operaia, comprese le canzoni del jukebox. Al centro del film, la recitazione di Brigitte Mira e EI Hedi ben Salem, che interpretano i personaggi principali.
Tutto comincia per gioco. Nel bar che frequenta abitualmente, Alì viene sfidato da una ragazza a
invitare a ballare una signora seduta da sola. La donna è gentile e lo invita a bere un caffè, dimostrandosi libera da pregiudizi razzisti. Entrambi sono privi di compagnia: Alì divide una stanza
con altri cinque immigrati, passando il tempo libero al bar; Emmi è vedova e i suoi figli, ormai
adulti, la trascurano. La relazione che nasce tra i due si scontra con il sarcasmo e l'ostilità di vicini e
parenti.
A poco a poco, però, le pressioni diminuiscono; certo non perché la situazione sia stata accettata, ma
piuttosto perché tutti vogliono ingraziarsi Emmi. Quando la tensione si riversa sulla coppia, Fassbinder assegna ai personaggi dei comportamenti inaspettati: Emmi che disprezza il couscous perché straniero, o che mostra i muscoli di Alì alle proprie colleghe di lavoro. Vagamente disturbanti anche
le figure del bottegaio razzista e delle clienti pettegole (omaggio a L'ultima risata, il classico del muto di
F.W. Murnau del 1924). Ma il rapporto che si crea tra i due protagonisti rimane coraggioso e commovente – Emmi e Alì riusciranno a superare ogni difficoltà, felici di poter contare l'uno sull'altra.
PAGINA 94
Liber n. 23
PICCOLO MONDO ANTICO
Un film di Mario Soldati. Con Massimo Serato, Alida Valli, Ada Dondini, Mariù Pascoli, Anna Carena.
Drammatico, b/n durata 107 min. - Italia 1941.
La vicenda copre un arco di nove anni, dal 1850 al 1859.
Franco e Luisa si sposano contro il volere della nonna di Franco,
una marchesa che vive in una ricca villa sulle rive del lago di Lugano, nella Valsolda. La nobile signora si era occupata di Franco sin
da quando questi era rimasto orfano. Dopo il suo matrimonio segreto, Franco viene diseredato dalla nonna, benché esistesse un testamento del nonno, che lo nominava erede universale. La nonna,
per perseguire il suo scopo, ha distrutto a suo tempo il testamento
ma, a sua insaputa, una copia è rimasta in casa di un amico di Franco, il professor Gilardoni.
Dopo il matrimonio, Franco e Luisa vanno a vivere nella casa dello
zio di lei (fratello della mamma di Luisa, morta poco dopo il matrimonio), un piccolo funzionario
dell'impero asburgico. I due sposi, a cui nel 1852 nasce una bambina (Maria, soprannominata Ombretta
dallo zio, perché questo era il nome del personaggio di una filastrocca, che lui canta spesso alla bimba); la
famigliola vive felicemente ma un po' nelle ristrettezze, grazie allo stipendio dello zio, oltre che di una
piccola rendita di Franco. Però, sempre per intervento della nonna di Franco, lo zio subisce dei guai con
il governo austriaco per il quale lavora: durante una perquisizione in casa sua vengono infatti fatti trovare
dei volantini che incitano i lombardi a rivoltarsi contro l'Austria. I volantini in realtà erano stati portati da
alcuni amici di Franco, patrioti e "cospiratori", ma Franco eviterà l'arresto (sempre per l'intervento della
nonna), ma purtroppo alla fine lo zio verrà licenziato.
Venuto a mancare il sostegno dello zio, Franco è costretto a lasciare la moglie ed andare a Torino in cerca di lavoro…
Cinema letterario che si avvale della regia di uno dei letterati più importanti del Novecento italiano – quel
Mario Soldati che solo recentemente sta godendo di una vera considerazione – Piccolo mondo antico è uno
dei rari classici di cui possiamo fregiarci, uno di quei film che non subirà mai l’invecchiamento tanto ha
qualcosa da dire ancor’oggi (e anche in futuro). Dal romanzo più celebre di Antonio Fogazzaro, questo
esempio di postromanticismo lagunare in senso lombardo è un melodramma appassionante (e non di
rado appassionato) in cui quasi tutto è architettato con classe e misura, dalla sceneggiatura di Soldati, Emilio Cecchi, Mario Bofantini ed Alberto Lattuada alla finezza del reparto tecnico (scenografie e costumi
pertinenti ed attendibili) fino all’ottimo cast, in cui accanto ad una stupenda Alida Valli sofferta e fiera
(Coppa Volpi a Venezia ed amore incondizionato da parte del regista) non si possono non segnalare lo
zio Piero dell’amabile Annibale Betrone e una Ada Dondini da urlo nell’ingrata parte della spietata nonna.
PAGINA 95
Liber n. 23
PICNIC A HANGING ROCK
Un film di Peter Weir. Con Rachel Roberts, Dominic
Guard, Helen Morse, Jacki Weaver, Vivean Gray, Kirsty Child
Titolo originale Picnic at Hanging Rock.
Drammatico, durata 115 min. - Australia 1975.
Il giorno di San Valentino dell'anno 1900 un gruppo di ragazze dell'aristocratico e vittoriano collegio Appleyard, a una cinquantina di chilometri da Melbourne in Australia, compiono
un picnic ai piedi del gruppo roccioso dell'Hanging Rock.
Nel pomeriggio quattro di loro (Miranda, Marion, Irma, Edith) si allontanano dal gruppo per esaminare più da vicino le
rocce. Quando è ormai il tramonto, Edith torna indietro in
evidente stato di shock gettando grida isteriche, priva di memoria dell'accaduto. Nello stesso momento il gruppo si accorge che l'insegnante di matematica, Greta
McCraw, è scomparsa.
La polizia compie intense ricerche sulla roccia senza trovare alcun indizio delle tre scomparse. Nel frattempo un giovane gentiluomo inglese in vacanza in Australia, Michael Fitzhubert, che aveva scorto le
ragazze durante il picnic, ossessionato dal ricordo della bellezza di Miranda, parte alla loro ricerca insieme
al suo domestico Albert.
Michael resta la notte da solo sulla Hanging Rock in preda a visioni e presentimenti. Il mattino dopo Albert, preoccupato dell'assenza del ragazzo, torna alla collina e lo trova ferito e in preda a uno stato di
shock, anche lui incapace di ricordare alcunché, tranne il fatto che qualcuno è ancora sulla roccia. È Albert a tornare immediatamente sulla collina, dove trova Irma, svenuta, ferita, con le unghie spezzate e i
piedi misteriosamente puliti, nonostante siano passati ben otto giorni dalla sua scomparsa. Anche la ragazza, però, non ricorda nulla dell'accaduto.
La tragedia di Hanging Rock si ripercuote sulla vita di tutti coloro che in qualche modo erano entrati in
relazione con le ragazze, dalla piccola Sarah (che si uccide gettandosi da una torre del collegio) all'arcigna
direttrice Ms. Appleyard (che muore cadendo dalla Hanging Rock, forse suicida o forse per incidente),
alle insegnanti del collegio, agli stessi Michael ed Albert.
Il film è sicuramente un capolavoro, inquietante e con un non so ché di ignoto e impenetrabile, la storia
viaggia sempre tra un’atmosfera irreale ed onirica che si bacia perfettamente con il mistero volutamente
rimasto irrisolto. Ma la razionalità dello spettatore e del lettore reclama un finale, una spiegazione dei fatti, un “punto” scritto in fondo all’ultima frase, un qualcosa per cui Picnic at Hanging Rock non rimanga
nell’immaginario delle persone solo come dubbio, incertezza ed inquitudine.
PAGINA 96
Liber n. 23
IL PISTOLERO
Un film di Don Siegel. Con John Wayne, Lauren Bacall,
John Carradine, James Stewart, Ron Howard.
Titolo originale The Shootist.
Western, durata 99 min. - USA 1976.
Nel 1901, John Bernard Books (John Wayne) è un famoso, vecchio
pistolero malato. Sentendo avvicinarsi la fine decide di tornare a
Carson City, per farsi visitare dal vecchio amico e medico Hostetler
(James Stewart) e per vendicarsi di tre vecchi nemici prima di morire, Mike Sweeney, Jack Pulford e Jay Cobb. Il medico gli diagnostica un cancro allo stomaco incurabile e gli consiglia di affittare una
camera presso la casa della vedova Rogers (Lauren Bacall), che vive
sola con il figlio Gillom (Ron Howard), grande ammiratore delle
gesta passate di Books. J.B. Books decide di affrontate i nemici in
duello in un saloon il giorno del suo cinquantottesimo compleanno.
Nella sparatoria che ne segue egli uccide i tre ma, quando sta per andarsene, il barista lo colpisce con una
fucilata a tradimento nella schiena. Il giovane Gillom assiste alla scena della fucilata alle spalle e lo vendica uccidendo il barista con la stessa pistola di Books. Gillom subito dopo butta la pistola, rifiutandosi
così di continuare sulla strada della violenza. J.B. Books approva il gesto e poi muore sotto gli occhi di
Gillom.
Decisamente un film ispirato e importante: è l'ultimo di John Wayne ed è una rivisitazione alla Siegel dei
vecchi miti del West. Il medico che visita John Wayne è James Stewart e lo sceriffo della città è John Carradine. Il film si basa su un gioco di finzione e realtà molto amato dal cinema americano: Wayne, che sarebbe morto di cancro, sta morendo di cancro anche nel film. Il suo andare all'ultimo duello in tram è la
triste e geniale traduzione del suo tramonto, e di quello del western.
PAGINA 97
Liber n. 23
PROFESSIONE REPORTER
Un film di Michelangelo Antonioni. Con Jack Nicholson, Maria Schneider, Ian Hendry, Jenny Runacre, Angel Del Pozo.
Drammatico, durata 126 min. - Italia 1975.
David Locke, reporter affermato, durante un viaggio nel Sahara si imbatte nel cadavere del trafficante d'armi David Robertson, quasi un suo sosia, e, disgustato della sua vita, ne
assume l'identità. Rientrato in Europa e precisamente in Spagna verrà aiutato da una misteriosa ragazza a sfuggire alla moglie di Robertson che sta cercando il marito.
Potremmo azzardare che la carriera cinematografica di Michelangelo Antonioni ha il suo picco proprio nel 1974, anno
dell’uscita di questo splendido Professione Reporter che vede in
Jack Nicholson e Maria Schneider i protagonisti principali. Dopo usciranno Il Mistero di Oberwald (una
sperimentazione un poco autoreferenziale che sembra lo Zabrinskie Point del suo cinema), Identificazione di
una donna (film sicuramente sopra la media ma non al livello dei capolavori degli anni 60-70) e i due film
irrisolti e stanchi Al di Là delle Nuvole e l’episodio in Eros in cui il maestro, debilitato dalla malattia fa apparire solo a sprazzi il mitico bagliore di un tempo che fu.
Professione:Reporter è la vetta della narrazione per sottrazione e della indecifrabilità della realtà che caratterizza tutta la produzione del regista ferrarese. La Tabula Rasa di sentimenti e ragionamenti è ben rappresentata dalla progressiva desertificazione e dalla rarefazione del suono e dell’immagine Bunuel) che annuncia un matrimonio (ma con accanto un cimitero).
PAGINA 98
Liber n. 23
I PROMESSI SPOSI
Un film di Mario Camerini. Con Enrico Glori, Gino Cervi, Armando Falconi, Dina Sassoli, Luis Hurtado.
Drammatico, b/n durata 115 min. - Italia 1941.
Il film ripercorre fedelmente le pagine del grande romanzo di Alessandro Manzoni, cominciando con l'intimazione dei bravi a don
Abbondio di non celebrare il fatidico matrimonio. Continuando
poi con la fuga dal paese, la conversione dell'Innominato, la rivolta, la peste e, quindi, le nozze.
Film sostanzialmente fedele al romanzo, anche da un punto di vista iconografico (spesso si ispira alle illustrazioni dell'edizione del
1827), un po' freddo ma di alto professionismo: prodotto con larghezza di mezzi dalla Lux, fu scritto da Gabriele Baldoini e Ivo
Perilli con la collaborazione di Emilio Cecchi e Riccardo Bacchelli
e musicato da Ildebrando Pizzetti.
Girato dunque in un’Italia già in guerra, da Mario Camerini, vale a dire il maestro assoluto del nostro cinema degli anni Trenta e primi Quaranta, troppo spesso liquidato come regista dei telefoni bianchi o di
un cinema calligrafico-illustrativo. Avercene, oggi, di cineasti che sappiamno mettere in scena un totem
della nostra cultura nazionale come i manzoniani I promessi sposi con tanta aderenza e fedeltà al testo, con
tanto nitore e rigore visivo. Anche, con tanto rispetto e partecipazione. In un bellissimo bianco e nero, in
panorami che spesso son proprio quelli del romanzo (Lecco, il lago, l’Adda), si snoda la storia più famosa
della nostra letteratura, con Lucia rapita e il promesso sposo Renzo che cerca di risolvere come può
l’ingarbugliata faccenda. Con infinite trame e sottotrame. In una Lombardia secentesca e spagnola con
tanto di peste e monatti (scena d’horror primaria e fondativa di ogni nostro successivo incubo narrativo,
che sia libresco o filmico).
Con Gino Cervi quale Renzo e Dina Sassoli come Lucia. Squisitissimo, fragrante. Profusione di talenti
recitativi. Ruggero Ruggeri (il cardinale Federigo), Evi Maltagliati (la monaca di Monza), Carlo Ninchi
(l’Innominato), Armando Falconi (Don Abbondio).
PAGINA 99
Liber n. 23
LA RAGAZZA CON LA VALIGIA
Un film di Valerio Zurlini. Con Gian Maria Volonté,
Claudia Cardinale, Renato Baldini, Corrado Pani, Romolo Valli.
Drammatico, b/n durata 103 min. - Italia, Francia
1961.
Aida Zepponi è una cantante da orchestrina che è stata raggirata dal playboy Marcello che poi è sparito dandole un cognome falso. La ragazza riesce a mettersi sulle sue tracce e arriva
alla lussuosa villa in cui costui vive con il fratello sedicenne
Lorenzo che viene mandato in avanscoperta per allontanarla
dicendole che ha sbagliato indirizzo. Il giovane però se ne innamora e viene a conoscenza della sua non facile vita.
Zurlini dopo Un'estate violenta, ambientato nel 1943, affronta il
presente prendendo le mosse però da un episodio accadutogli a fine anni Quaranta quando aveva incontrato una giovane donna, divenuta poi famosa, che all'epoca era indossatrice e che gli aveva raccontato
episodi della sua vita che ora finiscono con il divenire il tessuto esperienziale di Aida. Dei due protagonisti Zurlini affermava. "Erano due personaggi stranamente assortiti, appartenenti a mondi differenti, due
solitari che esprimono nel loro incontro la volontà di aiutarsi reciprocamente. Questo cocktail, non mescolato a freddo con ingredienti conosciuti, rivela subito tutta la sua potenza esplosiva." Ciò che affiora
progressivamente da questo incontro è un fondo di disperazione che accompagnerà tutto il cinema di
Zurlini e a cui Jacques Perrin offrirà la fisicità giusta. L'attore francese metterà a disposizione il suo mix
di stupore, innocenza e dolore al Dino di Cronaca familiare e al tenente Drogo de Il deserto dei Tartari. Qui,
messo a confronto con una stupenda e complessa figura femminile interpretata da una Claudia Cardinale
(doppiata da Adriana Asti) al meglio delle sue potenzialità espressive, trova l'occasione per ritagliarsi un
ruolo da comprimario di grande qualità. Perché Aida (nome impegnativo) è una donna a cui basta corrucciare lo sguardo o sorridere per passare dalla tristezza più profonda alla (apparente) allegria più sfrenata e la Cardinale sa metterne in rilievo con grande naturalezza tutte le contraddizioni ma anche tutti gli
slanci. Il suo personaggio anticipa in qualche misura quello dell'Adriana di Io la conoscevo bene perché non si
limita a raccontare la storia d'amore 'impossibile' tra un minorenne e una giovane donna ma traccia un
ritratto di una società in cui il possedere o meno (denaro, donne, posizione sociale) è ridiventato, dopo i
patimenti della guerra, il segno di distinzione.
Fina dalla prima inquadratura con il treno e l'auto sportiva che si muovono in direzioni opposte sono
due mondi a confrontarsi ma a non incontrarsi in modo definitivo. Il cinico Marcello cederà il posto all'idealista e generoso Lorenzo ma non è detto che la vita di Aida veda realizzarsi i sogni che conserva nella
valigia.
PAGINA 100
Liber n. 23
RAPINA A MANO ARMATA
Un film di Stanley Kubrick. Con Sterling Hayden, Coleen
Gray, Vince Edwards, Marie Windsor, Jay C. Flippen.
Titolo originale The Killing.
Poliziesco, b/n durata 83 min. - USA 1956.
Johnny Clay ha scontato cinque anni di prigione. Appena uscito è
pronto per un colpo all'ippodromo di Long Island, New York, che
ha avuto tempo di organizzare nei minimi particolari. Uno dei punti
di forza del colpo è l'eterogeneità della banda, composta da tutti incensurati e insospettabili, nessuno dei quali è a conoscenza della dinamica completa dell'azione criminosa. Tutto è in mano a Clay,
mente e autore materiale di quella che dovrà essere una memorabile
rapina a mano armata.
Film straordinario, Kubrick usa gli attori come pedine per mostrare la sua genialità, geniale nell'uso delle
luci e degli attori, attori all'epoca misconosciuti che non recitavano ma disegnavano i loro pensieri con le
loro facce i loro gesti, assolutamente perfetti nelle loro parti. Geniale uso di disporre le fonti di luci in
ogni angolo aiutato da Lucien Ballard, disposizione che ripeterà in tutti i suoi film successivi, vedi Shining,
Arancia meccanica etc. geniale anche la luce dal basso come quanto la banda è riunita a un tavolino e vola il
fumo delle sigarette nel chiaroscuro secco della fotografia, Geniale il modo di far rivedere la stessa scena
come aveva gia fatto Kurosawa con Rashomon, ma qui lo fa in modo a dir poco perfetto, con pause da
alcune parti e accelerazioni da altre, cui Tarantino mostrerà di aver capito la lezione in Le iene, geniale la
voce atona del tempo che commenta in modo banale e per questo coinvolgente il susseguirsi degli avvenimenti, geniale le carrelate laterali e a retrocedere cui non si discosterà mai nei film a seguire, geniale la
batteria che commenta a mò di marcia militare le fasi del colpo (anche se alcuni critici dell'epoca dissero
che fu usata perche non si potevano permettere un direttore e un orchestra... se è cosi meglio, necessità
virtù... lo ricorderà in full metal jacket) geniale il volo dei soldi, (anche se penso fu scopiazzato da Huston
nel Tesoro della sierra madre quando vola l'oro attaccandosi ai visi dei due protagonisti seguito dalle loro
risate omeriche, Huston fu peraltro da lui amato assieme ad Antonioni e Fellini... Huston a sua volta fu
adorato anche da Jean-Pierre Melville regista cui io lo venero insieme Samuel Fuller...è tutto un rincorrersi) geniale il finale, due sbirri ai lati dell'inquadratura il the end al centro, la dissolvenza in nero mentre i
sbirri avanzano come se il tempo si congelasse, come farà tanti anni dopo nel finale di Barry Lyndon
mentre Ryan O'Neal salirà su una carrozza, o il congelamento vero e proprio di Nicholson sia nella neve
che nella foto nell'overlook hotel.
Uno dei capolavori assoluti della storia del cinema.
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Liber n. 23
RE PER UNA NOTTE
Un film di Martin Scorsese. Con Robert De Niro, Tony Randall, Jerry Lewis, Shelley Hack, Diahnne Abbott.
Titolo originale The King of Comedy.
Commedia, durata 109 min. - USA 1983.
Rupert Pupkin è un genio comico incompreso. Dopo aver a lungo ossessionato lo showman Jerry Langford per ottenere un passaggio nel
suo spettacolo televisivo, arriva a sequestrarlo. Langford del resto non
ha mai usato il guanto di velluto con Pupkin, pur riconoscendone il
talento. Langford verrà liberato solo dopo che Pupkin ne ha preso il
posto in trasmissione ottenendo un grande successo.
Film tra i più acidi e crudeli di Scorsese, si gioca sull'arrivismo e sulla
ferocia che regolano i rapporti nel mondo dello spettacolo televisivo.
Robert De Niro è un Rupert Pupkin straordinario e finisce per eclissare
perfino il cupo e arrogante Langford di Jerry Lewis.
Mutilato dai produttori, fu un flop colossale e Scorsese si poté riprendere solo con Fuori orario, girato a
bassissimo costo.
Partendo dal finale, si può dire che il risultato sia decisamente brillantissimo, la classica ciliegina sulla torta che spesso manca a tanti film e che invece in questo è il perfetto punto di arrivo per completare uno
spaccato del mondo della televisione e del fanatismo incontrollato che vi è alle spalle.
Ma tutto il film pare una macchina quasi perfetta, fin dall’inizio per poi passare a tutte le fasi del percorso
del protagonista (descritto in maniera impeccabile con i suoi sogni e le sue follie di cui è talmente convinto da farcela sul serio), fatto da porte chiuse in faccia, idee invadenti, fanatismo esagerato.
E poi Martin Scorsese, oltre a riuscire a conferire una notevole fluidità a tutto il racconto, impreziosisce
l’insieme con idee geniali (ci sono tantissimi esempi, vedi Rupert che prova di fronte ad un pubblico di
cartone mentre l’audio si abbassa) che rimangono scolpite nella memoria così vale anche per una miriade
di battute (“Meglio una notte da re che una vita da buffone”).
Direi quindi che qui si parla di grandissimo cinema, fatto d’idee e di tanti spunti vincenti, dove lo humour è intavolato in modo lontano dalla classica commedia, avvalendosi di coordinate pungenti e sarcastiche che mettono talvolta quasi in soggezione.
Capolavoro che nel corso degli anni ha mantenuto un sapore stranamente attuale e proprio per questo la
sua luce continua meritatamente a splendere.
PAGINA 102
Liber n. 23
LA REGINA CRISTINA
Un film di Rouben Mamoulian. Con Elizabeth Young, C.
Aubrey Smith, Lewis Stone, Greta Garbo.
Titolo originale Queen Christina.
Storico, b/n durata 97 min. - USA 1933.
La regina Cristina di Svezia da tempo ha abbandonato relazioni e incontri amorosi di qualsiasi genere per concentrarsi di più sulla politica
e sul suo regno affinché prosperi felice e senza problemi. Tuttavia, essendo ancora molto giovane, Cristina un giorno decide di abbandonare
momentaneamente il suo protocollo di regole e di divertirsi per i borghi della Svezia. In un'osteria, la regina incontra l'ambasciatore Antonio, un delegato della Spagna che doveva svolgere funzioni diplomatiche nei posti di quella zona e che, vedendola, se ne innamora perdutamente. Così Cristina, avendo questa occasione, abbandona le sue regole e trasgredisce alle norme di comportamento e di contegno che una nobile della Svezia dovrebbe avere,
per passare una nottata idilliaca e molte altre con Antonio. Purtroppo il popolo e i consiglieri di Cristina
vengono a sapere di ciò e rendono impossibile l'amore fra Antonio e la Regina. Antonio morrà in un duello, mentre Cristina, dopo aver abdicato, partirà per sempre.
Nel 1933 Greta Garbo parte per uno dei suoi viaggi in Svezia dove vivono ancora la madre e il fratello.
Ha con sé in valigia una biografia della Regina Cristina, gliel'ha prestata l'amica polacca Salka Viertel, che
è una colta ed esperta sceneggiatrice e che firmerà molti copioni dei film di Greta a partire proprio da
Queen Cristina (La regina Cristina, Il velo dipinto, Anna Karenina, Maria Walewska, Non tradirmi con me).
Greta Garbo sente di avere molte affinità con l'eccentrica , anticonformista sovrana svedese del 1600 che
detestava il matrimonio, non amava gli abiti eleganti e sontuosi a cui preferiva, appena possibile, i più
comodi abiti maschili, era bisessuale. Ad un ballo ufficiale presentò Ebba Sparte, la sua dama di compagnia, all'ambasciatore d'Inghilterra dicendo "Ecco la mia compagna di letto".
In Svezia Greta raccoglie documenti e notizie su Cristina, visita il castello di Upsala, si entusiasma dell'idea di fare un film su di lei: scrive alla Metro dicendo che è disposta a firmare un nuovo contratto (il vecchio era appena scaduto) a patto che si faccia un film sulla regina Cristina e che lei ne sia l'interprete principale; impone inoltre un massimo di due film all'anno a 250mila dollari alla volta! Mayer è livido, ma la
Garbo è un gran richiamo per il box-office e soprattutto per le vendite in Europa, quindi accetta e Greta
torna ad Hollywood.
A dirigere il film è chiamato Rouben Mamoulian, nato nel Caucaso, educato a Mosca ed a Parigi, ex regista teatrale, trentacinque anni, otto più della Garbo. Volitivi entrambi e reciprocamente rispettosi, si accordano sul loro lavoro in comune.
PAGINA 103
Liber n. 23
RISO AMARO
Un film di Martin Scorsese. Con Robert De Niro,
Tony Randall, Jerry Lewis, Shelley Hack, Diahnne
Abbott.
Titolo originale The King of Comedy.
Commedia, durata 109 min. - USA 1983.
Rupert Pupkin è un genio comico incompreso. Dopo aver a
lungo ossessionato lo showman Jerry Langford per ottenere
un passaggio nel suo spettacolo televisivo, arriva a sequestrarlo. Langford del resto non ha mai usato il guanto di velluto
con Pupkin, pur riconoscendone il talento. Langford verrà
liberato solo dopo che Pupkin ne ha preso il posto in trasmissione ottenendo un grande successo.
Film tra i più acidi e crudeli di Scorsese, si gioca sull'arrivismo
e sulla ferocia che regolano i rapporti nel mondo dello spettacolo televisivo. Robert De Niro è un Rupert
Pupkin straordinario e finisce per eclissare perfino il cupo e arrogante Langford di Jerry Lewis.
Mutilato dai produttori, fu un flop colossale e Scorsese si poté riprendere solo con Fuori orario, girato a
bassissimo costo.
Partendo dal finale, si può dire che il risultato sia decisamente brillantissimo, la classica ciliegina sulla torta che spesso manca a tanti film e che invece in questo è il perfetto punto di arrivo per completare uno
spaccato del mondo della televisione e del fanatismo incontrollato che vi è alle spalle.
Ma tutto il film pare una macchina quasi perfetta, fin dall’inizio per poi passare a tutte le fasi del percorso
del protagonista (descritto in maniera impeccabile con i suoi sogni e le sue follie di cui è talmente convinto da farcela sul serio), fatto da porte chiuse in faccia, idee invadenti, fanatismo esagerato.
E poi Martin Scorsese, oltre a riuscire a conferire una notevole fluidità a tutto il racconto, impreziosisce
l’insieme con idee geniali (ci sono tantissimi esempi, vedi Rupert che prova di fronte ad un pubblico di
cartone mentre l’audio si abbassa) che rimangono scolpite nella memoria così vale anche per una miriade
di battute (“Meglio una notte da re che una vita da buffone”).
Direi quindi che qui si parla di grandissimo cinema, fatto d’idee e di tanti spunti vincenti, dove lo humour è intavolato in modo lontano dalla classica commedia, avvalendosi di coordinate pungenti e sarcastiche che mettono talvolta quasi in soggezione.
Capolavoro che nel corso degli anni ha mantenuto un sapore stranamente attuale e proprio per questo la
sua luce continua meritatamente a splendere.
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Liber n. 23
RO.GO.PA.G
Un film di Jean-Luc Godard, Roberto Rossellini, Ugo Gregoretti, Pier Paolo Pasolini. Con Ugo Tognazzi, Rosanna Schiaffino, Laura Betti, Jean-Marc Bory, Lisa Gastoni.
Film a episodi, b/n durata 110 min. - Italia, Francia 1963.
Il pollo ruspante (Gregoretti): un tipico piccolo-borghese consumista e obbediente alle mode cerca di comprare un terreno ma muore in un incidente.
Illibatezza (Rossellini): una hostess per dissuadere un pretendente affascinato dai suoi modi materni si mostra spregiudicata.
Il mondo nuovo (Godard): la bomba atomica cade su un città e poche radiazioni cambiano radicalmente gli abitanti.
La ricotta (Pasolini): una comparsa muore per indigestione di ricotta, dopo
aver rinunciato al pranzo a vantaggio dei familiari.
Roberto Rossellini, Pier Paolo Pasolini e Jean-Luc Godard uniti per l'unica volta sono all'altezza della
loro fama; il quarto regista è Gregoretti, la g finale del titolo costruito con le iniziali dei cognomi. Sperimentali e curiosi gli episodi di Rossellini e Godard, caustico quello di Gregoretti, un capolavoro assoluto
quello di Pasolini, che riflette sul cinema (quello del neorealismo, quello di Hollywood e il proprio), l'Italia, il boom. L'episodio subì una condanna per vilpendio della religione cattolica.
Film composito, che s'illumina per l'episodio di Pasolini, La ricotta, uno dei suoi indiscussi capolavori.
Figurativamente e contenutisticamente geniale, il film, come dice lo stesso Pasolini per bocca di Orson
Welles, esprime «il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo». E lo fa con la figura di un Cristo sottoproletario, di un ladrone che è martire (pur «senza santità», come è stato scritto), legato da quella sua fame
atavica alle vittime della miseria - che paradossalmente crepano quando si possono abbuffare - di ogni
epoca.
PAGINA 105
Liber n. 23
ROMA, ORE 11
Un film di Giuseppe De Santis. Con Maria Grazia Francia, Delia Scala, Massimo Girotti, Raf Vallone.
Drammatico, b/n durata 105 min. - Italia 1952.
Alcune centinaia di ragazze rispondono a un annuncio di lavoro:
una ditta sta cercando una dattilografa. Così da tutta Roma le giovani affluiscono davanti alla sede della ditta in attesa di essere
ammesse al colloquio. La pressione della folla e il tentativo di
un'aspirante dattilografa di passare davanti alle altre provoca un
tragico crollo.
Da un fatto di cronaca, lo spunto per descrivere la situazione
femminile dei primi anni del "boom".
Uno dei migliori film di De Santis, un affresco ispirato e tesissimo che armonizza l'inchiesta paradocumentaria con momenti di
intensa partecipazione emotiva. Collaborò con De Santis anche Elio Petri, allora giornalista, che aveva
seguito il caso per "L'Unità". Dallo stesso caso venne anche tratto Tre storie proibite di Genina.
Roma ore 11 è stato girato sessant'anni fà o ieri? Rimango sempre di sasso quando mi accorgo di quanto
possa essere grande il nostro cinema italiano, quello dei maestri che hanno saputo cogliere non solo il
semplice attimo, come improvvisati impressionisti dell'epoca, ma che hanno saputo cogliere il carattere, il
disagio, lo spirito che è proprio del nostro essere, del modo tutto italiano di affrontare i problemi. Proprio come oggi, nel 1951, quando l'Italia stava cercando di ritornare ad una parvenza di normalità dopo
una guerra che l'aveva messa a terra, il lavoro era il bene più ambito, il posto fisso, la sicurezza o la speranza di una vita migliore.
200 donne rispondono ad un annuncio sul giornale per un posto da dattilografa presso un ragioniere, il
colloquio (o esame come viene chiamato dalle donne) ha luogo nell'ufficio che si trova in un vecchio palazzo del centro di Roma. Le donne assiepate sulle scale cominciano a litigare per una prepotenza di una
di loro, che con un “trucco” riesce a passare avanti a tutte, la scala cede e fa crollare tutta la rampa con le
donne. Tragedia, feriti, una grave che morirà in seguito. L'ospedale dove le donne erano state ricoverate
dopo il crollo chiede il conto di 2.300 lire al giorno per le cure, ovviamente tutte andranno via indignate,
tranne quella che muore.
Il film si ispira ad un fatto di cronaca realmente accaduto a Roma l'anno precedente, di cui si era occupato per una inchiesta giornalistica su l'Unità Elio Petri, allora giornalista, che si prestò come aiuto regista
per il film, iniziando così accanto a De Santis la sua carriera impegnata di cineasta.
PAGINA 106
Liber n. 23
UN SACCO BELLO
Un film di Carlo Verdone. Con Carlo Verdone, Mario
Brega, Renato Scarpa, Veronica Miriel, Isabella Bernardi.
Commedia, durata 99 min. - Italia 1980.
Tre episodi.
Enzo, un bulletto romano, si mette in viaggio con un amico per
la Polonia. Scopo: fare strage di cuori.
Ruggero, che ha fondato una comunità hippy, ritrova dopo anni
il padre e rientra, per poco, in famiglia.
Leo, succube di una madre castratrice, incontra una ragazza in
crisi. Quando potrebbe scoccare la scintilla ricompare il fidanzato
di lei.
È l'esordio nella regia di Verdone, fino ad allora noto soprattutto come personaggio televisivo. La sceneggiatura, di Benvenuti, De Bernardi e dello stesso Verdone, dà ad alcuni personaggi una certa carica di
umanità; gli altri sono pure macchiette. Ma la bravura di Verdone attore è innegabile, e il film restituisce
una certa atmosfera smarrita di quegli anni.
L'apice "Verdoniano" è racchiuso tutto qui in questo scoppiettante esordio a cui seguirà Bianco, rosso e
Verdone.
Guardando questo film verrebbe da dire "Un sacco Verdone" perche' c'e' davvero tutto il virtuosismo e il
talento "fregoliano" di un autore che sa mostrare tic, vizi e nevrosi italiche con gustosa ironia,
"partorendo" personaggi che pur essendo iperbolici nascevano da un acuta osservazione della realtà italica, il meccanico, il calzolaio, il bulletto di borgata erano per Verdone ispirazione e terreno di coltura di
un populismo ormai estinto, considerando l'appiattimento odierno che ha praticamente "tagliato" l'inventiva di un regista (e dell'intero cinema italiano) che era forse il degno erede dei vari Risi, Monicelli e Scola,
arguti narratori di bassezze italiche raccontate con dovuto cinismo e ironia, anche se "L'homo Verdonianus" mantiene un fondo di innata malinconia rispetto agli smargiassi e cinici italiani interpretati da Gassman e Sordi.
Per capire la genesi del film bisogna tornare al 1978,all'esordio televisivo di Verdone nella trasmissione
Non stop di Enzo Trapani nella quale venivano presentati una esilarante galleria di "caratteri" dal bullo al
frichettone e che avavano attirato l'attenzione del mostro sacro Sergio Leone, che convocò il romano per
costruire un film con tali personaggi, il tutto ovviamente sotto "l'ala protettiva" del maestro dello
"spaghetti western". Trovandosi in una botte di ferro Verdone da il via ad un film con Leone produttore,
De Bernardi e Benvenuti sceneggiatori, Ennio Morricone alla colonna sonora e un contorno di ottimi
caratteristi,t ra cui l'immenso e verace Mario Brega e l'ottimo Renato Scarpa. La storia è quella di tre personaggi, tre solitudini: il bullo Enzo,i l mammone Leo, e l'hippy Ruggero,le storie dei tre s'intrecciano in
un assolata Roma trasteverina in piene ferie d'agosto,in un susseguirsi di episodi picareschi e tragicomici,
di dialoghi frizzanti e virtuosismi rapaci, si ride, si palpita e si riflette su tre personaggi che aldilà della facciata boriosa ed esistenzialista nascondono un maschio italiano in piena crisi d'identita' dovuta senz'altro
al post-femminismo.
PAGINA 107
Liber n. 23
LA SANGUINARIA
Un film di Joseph H. Lewis. Con John Dall, Berry
Kroeger, Peggy Cummings
Titolo originale Gun Crazy.
Drammatico, b/n durata 86 min. - USA 1949.
Gioiello di culto di Joseph H. Lewis, La sanguinaria è un
banco di prova per il dibattito contemporaneo della critica sul controverso significato del termine noir.
Ispirato alla storia dei famosi banditi degli anni Trenta
Bonnie Parker e Clyde Barrow (la sceneggiatura fu sviluppata da MacKinlay Kantor e dallo scrittore Dalton
Trumbo, che compare nei titoli come Millard Kaufman,
per nascondere il fatto di essere uno degli "Hollywood
Ten" condannati dal maccartismo al tempo della caccia
alle presunte "spie comuniste"), questo racconto d'amore provinciale sembra non avere molto
in comune con il cinico mondo del crimine urbano che definisce di solito la tradizione noir. La
sanguinaria svolge invece il tema dell'emarginato senza radici (prevalente durante la grande
crisi degli anni Trenta e continua fonte di ansia negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale), che caratterizza anche noir canonici come Il postino suona sempre due volte (1946) e Detour (1945),
entrambi racconti di vagabondaggio e disperazione.
Sin dalla sua infanzia, Bart Tare (John Dall) è ossessionato dalle armi da fuoco. Dopo aver lasciato l'esercito, incontra e si innamora della bellissima Annie Laurie Starr (Peggy Cummins), che
ha in comune con lui il feticismo per le pistole, essendo stata tiratrice di precisione e principale
attrazione in uno spettacolo itinerante. I due si cimentano in una serie di rapine che culminano
nella loro uccisione nell'ufficio paghe di una fabbrica di carne in scatola.
L'eccezionalità de La sanguinaria tra la pletora di B-Movies è dovuta alle sue innovazioni estetiche
e formali, realizzate nonostante le ristrettezze della produzione — il lungo piano sequenza
della rapina alla banca, l'inseguimento nel mattatoio — e alla spietata caratterizzazione della
Cummins della psicotica donna fatale.
Il tema qui centrale dell'amour fou ebbe grande influenza sul classico di Godard Fino all'ultimo respiro
(1960).
PAGINA 108
Liber n. 23
LO SCEICCO BIANCO
Un film di Federico Fellini. Con Leopoldo Trieste, Alberto
Sordi, Giulietta Masina, Brunella Bovo, Gina Mascetti.
Commedia, b/n durata 86 min. - Italia 1952.
Wanda (Brunella Bovo) e Ivan (Leopoldo Trieste) sono una giovane
coppia di sposi in viaggio di nozze a Roma: appena giunti in albergo, però, Wanda scompare. Mentre il marito, infatti, aveva già pianificato con snervante pignoleria i programmi della vacanza (con tanto di visita al papa) e la attende per incontrare i parenti, Wanda, appassionata divoratrice di fotoromanzi, fugge di nascosto dall'albergo
e si precipita ad incontrare il suo idolo, lo "Sceicco bianco" (Alberto
Sordi), il protagonista del suo fotoromanzo preferito. Giunta nella
redazione del giornale, incontra Marilena Alba Vellardi (Fanny Marchiò), una delle autrici, a cui confida candidamente la sua ammirazione: "Tutta la settimana aspetto soltanto il sabato che mi porti il
mio giornaletto, vado a prenderlo alla stazione, poi corro a casa, mi chiudo nella mia stanzetta e lì incomincia la mia vera vita: leggo tutta la notte". "La vera vita è quella del sogno", le risponde la donna, che
subito dopo la invita ad unirsi alla troupe del fotoromanzo in partenza per Fregene, dove verrà allestito il
set per un nuovo episodio. E mentre Ivan vaga disperato per la città alla sua ricerca, preoccupandosi, tra
l'altro, di nascondere ai parenti l'incresciosa scomparsa della moglie, Wanda conosce finalmente il suo
"eroe": sulla spiaggia di Fregene, dove si affolla la baraonda di attori, registi, tecnici, assistenti, truccatrici
e semplici curiosi coinvolti nel set del fotoromanzo, scoprirà, però, con amarezza, che quell'universo idolatrato nei suoi sogni non era affatto così luccicante come credeva. Esordio in solitaria per il riminese Federico Fellini (dopo il precedente Luci del varietà, condiviso con Alberto Lattuada) in cui, tra dolceamara
commedia di costume e affilati graffi satirici, è possibile scorgere, in nuce, gran parte del cinema futuro del
suo autore, dagli elementi autobiografici (i suoi esordi come vignettista) alla riflessione sul mondo dello
spettacolo (e dell'avanspettacolo), dalla sospensione della narrazione in quella "terra di mezzo" tra realtà
e sogno (l'entrata in scena di Alberto Sordi, penzolante da un'altissima altalena, o la sequenza della seduzione di Brunella Bovo in barca con Sordi, che la fotografia di Arturo Gallea illumina con effetti stranianti), esplorata dalla sua macchina da presa con dirompente visionarietà, alle schegge umoristiche o grottesche con cui stempera la tensione del dramma (si osservino, ad esempio, il dolore e l'intima sofferenza di Leopoldo Trieste, disperato per la scomparsa della moglie, che vaga sconsolato nei pressi del Quirinale e finisce "travolto" dal caotico e festante passaggio dei bersaglieri in marcia), dallo sguardo bonario e
nostalgico con cui scruta le miserie e le debolezze umane alla caustica vena polemica della denuncia sociale.
PAGINA 109
Liber n. 23
SCIALLA! (STAI SERENO)
Un film di Francesco Bruni. Con Fabrizio Bentivoglio, Barbora Bobulova, Filippo Scicchitano, Vinicio
Marchioni.
Commedia, durata 95 min. - Italia 2011.
Bruno Beltrame ha tirato i remi in barca, e da un bel po'. Del
suo antico talento di scrittore è rimasto quel poco che gli basta per scrivere su commissione "i libri degli altri", le biografie
di calciatori e personaggi della televisione (attualmente sta
scrivendo quella di Tina, famosa pornostar slovacca divenuta
produttrice di film hard); la sua passione per l'insegnamento
ha lasciato il posto a uno svogliato tran-tran di ripetizioni a
domicilio a studenti altrettanto svogliati, fra i quali spicca il
quindicenne Luca, ignorante come gli altri, ma vitale ed irriverente. Un bel giorno la madre del ragazzo si fa viva, come un fantasma dal passato, con una rivelazione
che butta all'aria la vita di Bruno: Luca è suo figlio, un figlio di cui ignorava l'esistenza. Non solo: la donna è in procinto di partire per un lavoro di sei mesi da cooperante in Africa, e il ragazzo non può e non
vuole certo seguirla laggiù. La donna chiede a Bruno di ospitare a casa sua il ragazzo, e di prendersi cura
di lui, ma senza rivelargli la sua vera identità.
Inizia così la vicenda del film di un ottimo sceneggiatore che un produttore illuminato come Beppe Baschetto ha finalmente fatto alzare dalla sedia collocata davanti al computer per metterlo al comando di
quella ciurma (che immaginiamo divertente e divertita) che ha realizzato un film che trova una sua collocazione originale nel panorama del cinema italiano contemporaneo. Perché Francesco Bruni non vuole
proporci l'ennesima commedia generazionale, non vuole spacciarci volgarità a buon mercato ma nemmeno propinarci un'opera prima 'autoriale'. Vuole qualcosa di più e di diverso. Ci vuole innanzitutto ricordare che una sceneggiatura che funzioni ha bisogno di un costante ancoramento alla realtà. Bruni racconta un adolescente 'vero' non un ragazzo immaginato al chiuso di una stanza e poi riversato sulla tastiera
di un iPad. Così come nell'inedia di Beltrame ritrae una parte di questa nostra società italiana che si è ormai ritratta, per perdita di fiducia anche nelle proprie capacità, dall'interazione.
L'incontro tra Bruno e Luca cambia tutti e due ma senza che sia necessario spingere sull'acceleratore della commozione che la relazione padre non conosciuto/figlio avrebbe potuto suggerire. Molto più semplicemente ed efficacemente Scialla! ci dimostra e dimostra che anche l'adolescente più recalcitrante e apparentemente impermeabile a ogni stimolo che vada al di là dei bisogni primari è alla ricerca (molto spesso
inconsapevole) di una guida. Nel film non c'è mai un momento in cui si possa individuare il benché minimo sentore di un atteggiamento predicatorio. Eppure riesce a ricordarci quanto famiglia e scuola debbano trovare una convergenza d'intenti che abbia al centro i ragazzi. Sempre più difficili da comprendere
ma forse proprio per questo più bisognosi di sostegno. Lo fa con il romanesco brillante di Luca e con il
veneto (meglio ancora:il padovano) sornione di Bruno. Facendoci ridere e sorridere ma con i neuroni in
attività.
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Liber n. 23
LA SIGNORA DELLA PORTA
ACCANTO
Un film di François Truffaut. Con Henri Garcin, Fanny
Ardant, Gérard Depardieu, Roger Van Hool, Veronique
Silver.
Titolo originale La femme d'à côté.
Drammatico, durata 106 min. - Francia 1981.
In un paese vicino a Grenoble la signora Odile Jouve, che gestisce
il circolo del tennis, introduce la vicenda di Mathilde e Bernard.
Philippe, controllore di volo, e sua moglie Mathilde vanno a vivere
in una casa che si trova di fronte a quella di Bernard Coudray, di
sua moglie Arlette e il figlio Thomas.
Mathilde e Bernard si sono amati di un amore passionale otto anni
prima e ora fingono di non conoscersi. Era stata lei a voler troncare la loro relazione ma adesso entrambi
si trovano di fronte a un sentimento che riesplode dando origine a una catena di eventi che coinvolgono
anche le reciproche famiglie.
Il progetto risale a diversi anni prima della sua realizzazione e a cui si pensava dovessero partecipare come protagonisti Jeanne Moreau e Charles Denner. La collaborazione con Gérard Depardieu per L'ultimo
metrò si unisce a questa riflessione: "Quando ebbi l'occasione di vedere, fianco a fianco, Fanny Ardant e
Gérard Depardieu (alla serata dei Cèsars), ebbi la sensazione che cinematograficamente quella fosse una
bella coppia, due figure alte, il biondo e la bruna, un uomo apparentemente semplice ma complicato, una
donna apparentemente complicata ma in realtà semplice come un arrivederci."
Truffaut ha spesso amato il numero dispari nelle vicende amorose identificandolo con il numero 3, In
Jules e Jim, in La calda amante così come in Le due inglesi, le opere più rappresentative in materia mutavano
le appartenenze sessuali ma il cosiddetto triangolo dominava. Ora il rischio è quello della 'banalità' delle
due coppie ma viene evitato grazie al personaggio di madame Odile. È colei che ha vissuto il fuoco della
passione che ha lasciato un segno indelebile sul suo corpo così è accaduto a Mathilde. È alla sua
'saggezza' che viene chiesto di introdurre e chiudere la vicenda ma anche di indicare una possibile via d'uscita grazie a una scelta che compie con grande consapevolezza. Truffaut rilegge l'amour fou senza farsi
affascinare dalle derive del feuilleton ma osservando i suoi protagonisti con l'oggettività, ma anche con la
comprensione, di chi, in fasi diverse della vita, ha vissuto le loro angosce, le loro ansie, i loro abbandoni.
Lo fa, senza preoccuparsi delle possibili critiche degli intellettuali, recuperando anche la cultura erroneamente ritenuta 'bassa': "Ciascun film, ciascun romanzo, sempre che siamo ancora in grado di vedere e di
leggere, sembra parafrasare la nostra pietosa avventura, ogni canzone sentita alla radio parla di noi, denuncia i nostri errori e conferma il nostro annientamento : 'senza amore non si è niente'".
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Liber n. 23
LA SIGNORA MINIVER
Un film di William Wyler. Con Walter Pidgeon, Greer
Garson, Teresa Wright, Dame May Whitty, Helmut
Dantine.
Titolo originale Mrs Miniver.
Drammatico, b/n durata 134 min. - USA 1942.
La famiglia Miniver, la casalinga Kay, l'architetto Clem e i loro
due figli più piccoli Judy e Toby, vivono in un tranquillo villaggio
inglese sulle rive del Tamigi poco distante da Londra, mentre il
figlio maggiore Vin è studente a Oxford. Il villaggio è "dominato"
dall'aristocratica Lady Beldon che mal sopporta la modernità e
soprattutto il miscuglio tra classi sociali. Non vede infatti di buon
occhio la nascente simpatia tra la nipote Carol e il giovane Vin.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale porta numerosi cambiamenti nella vita della famiglia, come in quella del paese. Vin si arruola nella RAF mentre Clem entra a
far parte del servizio di sorveglianza.
Nell'estate del 1941, mentre Clem assieme a molte altre imbarcazioni partecipa all'evacuazione delle forze
militari inglesi bloccate a Dunkerque, un aereo tedesco cade nelle vicinanze del villaggio. Il pilota sopravvive ed entra in casa Miniver, ma Kay mantiene il sangue freddo e riesce a consegnare il pilota alla polizia
poco prima del rientro del marito.
Lady Beldon rivela a Kay di opporsi al matrimonio di Vin e Carol non per ragioni di classe, ma solo per
evitare alla nipote il dolore della perdita come era successo a lei in gioventù: Lady Beldon era rimasta infatti vedova a 16 anni, pochi mesi dopo il matrimonio. Kay riesce però a convincerla che i giovani hanno
diritto alla felicità, fosse anche di breve durata.
Le incursioni aeree tedesche continuano senza sosta e la famiglia si vede costretta a passare quasi tutte le
notti nei rifugi, ma nonostante ciò il villaggio organizza l'annuale concorso floreale e, per la prima volta,
Lady Beldon ha un avversario: il signor Ballard, capostazione, ha infatti creato una nuova rosa, battezzata
"signora Miniver", che risulta essere la vincitrice...
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Liber n. 23
SIGNORE E SIGNORI BUONANOTTE
Un film di Luigi Comencini, Mario Monicelli, Nanni Loy, Ettore Scola, Luigi Magni. Con Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Adolfo Celi.
Commedia, durata 119 min. - Italia 1976.
Mastroianni è il conduttore di una serie di servizi televisivi: Gianni Agnelli, sequestrato: paghino gli operai; una lezione d'inglese di agenti segreti; una bomba
fasulla che diventa vera; il suicidio di un bambino napoletano che mantiene otto
fratelli; un sociologo propone di mangiare i bambini poveri; quattro politici partenopei "divorano" la città; un generale si spara in bagno; lo sfruttamento del lavoro minorile, un programma "educativo" per i ragazzi; il "personaggio del giorno" è un pensionato alla fame; una puntata del gioco del "Disgraziometro" (basta
la parola).
Opera collettiva ad episodi firmata da un gruppo di registi e sceneggiatori, riuniti
nella Cooperativa 15 maggio, per descrivere, tra graffi satirici, sberleffi irriverenti e critica di costume, la
giornata tipo di una fantomatica tv nazionale. Le firme sono imponenti: cinque registi (in rigoroso ordine
alfabetico: Luigi Comencini, Nanni Loy, Luigi Magni, Mario Monicelli ed Ettore Scola) e dieci sceneggiatori (Age & Scarpelli, Benvenuti & De Bernardi, Ugo Pirro, Ruggero Maccari più gli stessi Comencini,
Scola, Magni e Loy), oltre, naturalmente, allo strepitoso ed eterogeneo cast d'interpreti, a cui si aggiungono, per efficacia e ricchezza di suggestioni, la fotografia di Claudio Ragona (fratello dell'Ubaldo Ragona
di L'ultimo uomo della Terra) e le musiche curate da Lucio Dalla ed Antonello Venditti insieme a Giuseppe
Mazzucca e Nicola Samale.
Tra comicità greve e sgangherata, scarti drammaturgici nella tragedia e parentesi grottesche, Signore e signori, buonanotte è un film cattivissimo e provocatorio, che gode palesemente della libertà creativa derivata
dall'assenza di ingerenze produttive, ma irrisolto nell'altalenante qualità (ed incisività) dell'approccio parodistico alle istanze di denuncia sociale.
Marcello Mastroianni è Paolo T. Fiume, anchorman di punta del telegiornale (TG3, per la precisione, ma
il terzo canale Rai all'epoca ancora non esisteva): legge le notizie fumandosi una sigaretta ("tanto mica la
aspiro"), coadiuvato in redazione da una solerte e un po' imbranata assistente (una radiosa e giovanissima
Monica Guerritore). Dopo alcune notizie sui generis (tra cui l'intervista ad un ministro corrotto e l'annuncio del sequestro di Gianni Agnelli, per la cui liberazione dovranno pagare gli operai con una trattenuta in busta paga...) prende il via il corso di inglese "Una lingua per tutti", con Vittorio Gassman agente
segreto che affitta un appartamento per assassinare un funzionario straniero (il balcone della camera, infatti, si affaccia sull'ingresso di un'ambasciata): ma non ha fatto i conti con la sua padrona di casa
(Lucretia Love). Segue, subito dopo, il telefilm "La bomba" (con, tra gli altri, Eros Pagni e Carlo Croccolo, regia di Mario Monicelli sbuccia e se la magna", televisioni e giornalisti, mentre il questore Carlo Croccolo, intervistato, si scaglia contro i sovversivi e le Brigate Rosse...
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Liber n. 23
SPARTACUS
Un film di Stanley Kubrick. Con Kirk Douglas, Laurence Olivier, Jean Simmons, Charles Laughton, Peter
Ustinov.
Storico, durata 169 min. - USA 1960.
Il gladiatore Spartacus capeggia una rivolta di schiavi a cui Roma
fa fronte inviando un contingente militare. I ribelli però sconfiggono i legionari e poi si dirigono verso il Sud. Non essendo riuscito a ottenere le navi necessarie alla fuga da alcuni pirati arabi,
Spartacus decide di assediare Roma. Ma la guerra contro Crasso
sarà una disfatta. Spartacus, dopo aver dovuto uccidere in combattimento l'amico Antonino, viene crocifisso con altre migliaia
di schiavi.
Kubrick rimpiazzò Anthony Mann per volere del protagonistaproduttore Kirk Douglas. Sceneggiatura di Dalton Trumbo. Uno dei più alti risultati del film storico di
ambiente romano, anche se uno dei meno personali di Kubrick. 4 Oscar: a Ustinov attore non protagonista, alla fotografia, alla scenografia e ai costumi. Recentemente è uscita una verisone restaurata con alcune
scene mancanti.
Superbo. Film che denuncia l'orrore della violenza intesa come disumanità, a tutti livelli, rispetto a cui
non si può che stare dalla parte della vittima.
Il godimento, volgare, di chi si compiace nel poter vedere gli altri ai propri piedi: questa oscenità, tipica
della violenza aristocratica (o di chi ha fatto di tutto, per avvicinarsi ai privilegi dell'aristocrazia, come nel
case degli equites) è messa alla berlina ("non saremo diventati come i romani !?! Ma non abbiamo proprio
imparato niente", dice correttamente Spartaco, in questo film anche con evidente riferimento all'imperialismo Usa), paragonata alla dignità di chi riconosce l'orrore del dolore ingiustamente subìto, e ritiene un
guadagno il liberarsene in quasi tutti i modi: Quasi. Non va bene, per Spartaco, liberarsi del violento con
gli stessi metodi del violento (dimostrato nella scena del duello a morte tra i nobili, da Spartaco liberati): è
meglio impegnarsi per un futuro tra fra fratelli, liberi e uguali, dove nessuno possa più offendere i diritti
degli altri.
Progetto da ingenuo? Sì, come conferma la storia degli schiavi ribelli crocefissi e anche la maggioranza
della storia fino ai giorni nostri, e quindi anche il film. Ma il film suggerisce anche, e soprattutto, che è
più confacente alla felicità impegnarsi per quell'altra strada, quella della libertà nell'uguaglianza dei diritti,
che non a caso è stata impugnata dagli illuministi ed ha portato nell'800, quantomeno, all'abolizione della
schiavitù ovunque, danneggiando così l'interesse dei propugnatori, espliciti o no, dello schiavismo, che da
sempre fino a lì avevano ogni potere.
"Se anche sconfiggeremo un'armata, ce ne opporranno sempre un'altra, e poi un'altra, e poi un'altra ancora", dice Spartaco sapendo di andare incontro alla morte, sua e di migliaia di persone. Descrizione impietosa della violenza che diventa legge perpetrata da una classe dirigente che, in ogni era, spesso si è formata attraverso la semina della violenza e dell'infelicità, e in nessun altro modo. La denuncia e la lotta, se
condotte in nome di diritti umani, portano comunque poi a vantaggi per tutti, anche se attraverso il sangue dei martiri.
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Liber n. 23
LA SPOSA IN NERO
Un film di François Truffaut. Con Michael Lonsdale, JeanClaude Brialy, Michel Bouquet, Jeanne Moreau, Alexandra
Stewart.
Titolo originale La mariée était en noir.
Drammatico, durata 107 min. - Francia 1968.
Un gesto idiota provoca la morte di uno sposo sui gradini di una
chiesa all'uscita della cerimonia nuziale. Vedova prima ancora di essere stata sposa, rimasto impunito il delitto di cui furono corresponsabili cinque uomini, la donna (J. Moreau) trova un sollievo nel pensiero della vendetta. Li ricerca e, con pazienza monomaniaca, nel
giro degli anni li uccide a uno a uno in una serie di delitti perfetti.
Dal romanzo The Bride Wore Black (1948) di William Irish (Cornell
Woolrich), sceneggiato con Jean-Louis Richard, F. Truffaut trascura il meccanismo dell'intrigo e costruisce il film sui modi della vendetta. Perciò dedica tutte le cure ai suoi personaggi. Ammirevole è il modo
con cui trasforma Julie, donna di volontà e di testa, in un'efficiente macchina di morte che ogni volta muta le sue apparenze esteriori per adeguarsi a ciascuno dei suoi 5 bersagli. Sono il gaudente Bliss (C. Rich),
il bancario Coral (M. Bouquet), il politico Morane (M. Lonsdale), il trafficante Holmes (D. Boulanger), il
pittore Fergus (C. Denner) che è il privilegiato forse perché artista: con lui il rapporto diventa più personale.
Il regista è stato all'altezza del suo modello, il vecchio Hitchcock, senza imitarlo. Si dice che amasse poco
questo film, forse per l'inverosimiglianza di fondo del suo meccanismo, ma nel suo itinerario occupa un
posto di prima fila almeno nel settore dell'efficacia e della cura dei particolari.
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Liber n. 23
LO SQUADRONE BIANCO
Un film di Augusto Genina. Con Fosco Giachetti,
Antonio Centa, Fulvia Lanzi, Cesare Polacco, Nino
Marchetti.
Guerra, b/n durata 100 min. - Italia 1936.
Il tenente di cavalleria Ludovici, in seguito a una delusione
amorosa, si arruola nel corpo militare dei meharisti e si fa assegnare in Tripolitania italiana. Giunge al forte in sostituzione
del Ten. Binetti, caduto valorosamente in battaglia. Qui deve
vedersela con il capitano Sant'Elia, ufficiale dai modi duri, ma
di grande esperienza.
Il comando decide di inviare una colonna di meharisti nel deserto all'inseguimento di una banda di ribelli. La colonna di
cento cammelli, guidata dai due ufficiali, affronta una spedizione di molti giorni nel deserto profondo. Dopo il primo
giorno di marcia il tenente Ludovici appare smarrito nei suoi malinconici pensieri e subisce una severa
reprimenda dal capitano, convinto che Ludovici sia solo un ragazzo viziato e non abbia una vera vocazione militare. Individuati e raggiunti i ribelli dopo una dura marcia a tappe forzate nel deserto, viene ingaggiata un'aspra battaglia dall'esito incerto. Dopo settimane la colonna fa rientro al forte, guidata da Ludovici, dopo che Sant'Elia ha perso la vita nello scontro con i ribelli nel deserto. Ludovici trova inaspettatamente Cristiana, la sua fiamma, giunta al forte con un gruppo di turisti. Cristiana tenta invano di riconquistare Ludovici, ma in lui prevale il senso del dovere militare e risponde che ormai il suo posto è lì,
al comando delle sue truppe nel deserto. Segue il ricordo del capitano Sant'Elia, le cui ultime volontà furono di essere sepolto nel deserto, terra da lui tanto amata.
Come già all’epoca dell’uscita del film molti recensori hanno notato, la forza de Lo squadrone bianco sta
tutta nella sapienza con cui Genina lavora per sottrazione e per astrazione, costruendo un dramma che
dagli stilemi noir iniziali si trasforma in un film epico sulla forza redentrice del deserto, alla ricerca di austerità e di eleganza: «Si tratta di un dramma ottenuto per semplificazione da un tema di grande fecondità
cinematografica: quello della natura vergine che fa da contravveleno alla passione» (Anonimo, «Cinema»,
ottobre 1936). Insomma, Genina oppone spazialmente e simbolicamente due mondi: la decadenza del
“bel mondo” femminile, urbano e alto borghese (rappresentato dal prologo e da Cristina, la fidanzata del
protagonista), e la rigenerazione offerta dal deserto e dalla vita coloniale fatta di dovere, sacrificio e cameratismo maschile. Una contrapposizione che viene resa innanzitutto attraverso la scenografia, e lo splendido lavoro dell’architetto Guido Fiorini, ma anche da una serie di opposizioni dialettiche che danno una
forma circolare al film: notte/giorno, interno/esterno, buio/luce, mondo femminile/mondo maschile,
città/deserto, amore passionale/amicizia virile.
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Liber n. 23
LA STANZA DEL FIGLIO
Un film di Nanni Moretti. Con Nanni Moretti, Laura Morante, Jasmine Trinca, Giuseppe Sanfelice, Claudio Santamaria.
Drammatico, durata 100 min. - Italia 2001.
Ancona. Giovanni è uno psicoanalista con numerosi pazienti con i
quali ha un rapporto di paziente comprensione ma anche, come la
professione richiede, di lucido distacco. Giovanni ha una moglie,
Paola, e due figli adolescenti: Irene e Andrea. La vita scorre tranquilla, turbata solo da una ragazzata commessa da Andrea: il furto di
un'ammonite nel piccolo museo scolastico. Il ragazzo decide di andare a fare un'immersione con gli amici e, per cause imprecisate,
muore per un'embolia. La perdita del figlio stronca i familiari. Giovanni non riesce quasi più a lavorare, Paola si chiude nel dolore e
Irene diventa irascibile. Un giorno arriva una lettera per Andrea. È firmata da Arianna, una coetanea che
lo aveva conosciuto solo per un giorno e che si era innamorata di lui. Sarà proprio partendo da questo
inatteso contatto che la vita della famiglia potrà rimettersi in moto.
Nanni Moretti sembra essere a una svolta della sua carriera di regista e attore. Moretti torna a costruire
un 'personaggio': che non è più Apicella e neppure il prete di La messa è finita. Lo fa con tutto il rigore che
neppure i più accesi detrattori gli hanno mai negato. Divenuto padre di Pietro cinque anni fa Moretti deve avere colto il senso di quello che è il titolo dell'ultimo film di Zanussi (non uscito da noi) : "La vita
come malattia mortale trasmissibile per via sessuale". Cioè dando la vita a un figlio gli assicuriamo inevitabilmente anche la morte. E se questa accade prematuramente e mentre i genitori sono ancora presenti il
dramma è devastante. Il film ( come già La vita è bella di Benigni) è come diviso in due parti. La prima, in
cui Moretti 'fa' Moretti con le sue idiosincrasie, le sue scarpe, le sue corse, le sue incertezze, i suoi incupimenti seguiti da improvvisi sorrisi luminosi. La seconda, in seguito alla morte di Andrea, in cui si muta
bruscamente registro. I lutti laceranti cambiano nel profondo, ma forse si poteva lavorare un po' di più
sul Giovanni personaggio e un po' meno sul Nanni che gli si sovrappone. Resta comunque un film da
vedere.
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Liber n. 23
LA STORIA DEL GENERALE
CUSTER
Un film di Raoul Walsh. Con Olivia De Havilland, Errol
Flynn, Arthur Kennedy, Charley Grapewin.
Titolo originale They Died with Their Boots on.
Western, b/n durata 138 min. - USA 1941.
Il giovane George Armstrong Custer arriva all'accademia di West
Point e si distingue immediatamente per coraggio, abilità nelle
armi e pessimo profitto. Conosce la ragazza che diventerà sua
moglie e scalpita quando scoppia la guerra. Finalmente parte e,
per un disguido burocratico, si vede assegnare il grado di generale. Alla fine della guerra è un eroe. Diventa comandante del leggendario Settimo cavalleggeri, viene mandato nel Dakota a tener
d'occhio gli indiani. Coinvolto in beghe politiche, per la sua irruenza si fa nemico lo Stato Maggiore. Perde il comando e grazie a una petizione al presidente Grant lo
riottiene. Nel giugno del 1876 muore da eroe al Little Big Horn lasciando inconsolabile l'adorata moglie.
Uno dei migliori western di sempre, perfetto in tutte le combinazioni: regia dal ritmo irresistibile, tempi
perfetti del racconto, ricostruzione straordinaria delle sequenze corali e militari, supporto musicale travolgente (Steiner). Ma soprattutto vale l'interpretazione di Errol Flynn, enorme personaggio e stranamente
misconosciuto nelle sue qualità di attore. Quando lavorò con Walsh, suo regista preferito, lasciò un profondo segno nella fantasia del pubblico. Fra le scene salienti del film ricordiamo le cariche di Flynn alla
testa del Settimo, la famosa canzone di sapore scozzese Garry Owen, l'addio alla moglie e la sequenza della
battaglia finale.
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Liber n. 23
STROMBOLI
Un film di Roberto Rossellini. Con Ingrid Bergman, Mario Vitale, Renzo Cesana
Drammatico, b/n durata 107 min. - Italia 1950.
Karin è una profuga lituana che accetta di sposare un soldato siciliano per uscire dal campo di internamento emettersi alle spalle un
passato di collaborazionista dei nazisti. Dopo le nozze la coppia si
stabilisce nell'isola natale di lui, Stromboli, dove la giovane donna si
sente sempre più a disagio per un complesso di ragioni culturali e
ambientali. La sua mentalità nordica, atea e razionale si scontra con
quella del marito pescatore e la spinge a desiderare di fuggire dall'isola.
Questo è il film che dà inizio al complesso rapporto tra Ingrid Bergman e Roberto Rossellini dopo che l'attrice gli aveva scritto offrendosi di lavorare con lui aggiungendo di saper dire 'ti amo' in italiano.
Tre sono le versioni che vennero messe in circolazione. Una versione americana distribuita dalla RKO
nel febbraio 1950 costituisce la testimonianza dell'incomprensione tra Rossellini e le major americane. Vi
sono infatti aggiunte , ivi compresa una voce narrante, che hanno lo scopo di rendere meno ostica sia la
storia che il linguaggio delle immagini. Ne seguirono altre due: una internazionale che venne presentata
fuori concorso alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia e un'altra che circolò sul mercato italiano
che era più breve di 6 minuti rispetto a quella internazionale ma aveva delle immagini in più sul finale
tese a sottolineare la dimensione spirituale del film di cui rivendicò la paternità il domenicano Félix Morlion che all'epoca collaborava con il regista.
Rossellini si muove su un piano che va dal documentaristico (si veda la sequenza della tonnara o alcuni
scorci dell'isola) all'autobiografico. Perché non è difficile leggere in controluce in Stromboli terra di Dio il
sentire che pervade sia il regista che la sua protagonista. Ingrid Bergman è al centro dell'attenzione della
stampa scandalistica di tutto il mondo per la sua relazione con Rossellini così come Karin viene quotidianamente passata al vaglio degli sguardi dei ruvidi e ancestralmente diffidenti abitanti dell'isola. Così come
Rossellini, che si sente comunque ai margini del cinema 'ufficiale' che non lo ha mai gratificato di un'accoglienza piena e convinta. Questo lo spinge a sperimentare e a vedere nel vulcano, minacciosamente
sempre pronto ad eruttare, un elemento simbolico da interpretare secondo una molteplicità di punti di
vista. Ivi compreso quello di una ricerca spirituale che più che dell'ascesi si nutre del dramma e del conflitto.
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Liber n. 23
IL TE’ NEL DESERTO
Un film di Bernardo Bertolucci. Con Debra Winger,
John Malkovich, Campbell Scott, Veronica Lazar, Nicoletta Braschi.
Titolo originale The Sheltering Sky.
Drammatico, durata 138 min. - Italia, Gran Bretagna
1990.
Due giovani coniugi americani e un loro amico si recano nel
Nord Africa. Partendo da Tangeri percorrono un lungo itinerario che li porta nei luoghi dove l'Africa è più ostile. Il viaggio
rappresenta una vera e propria traversata della loro esistenza.
Mette a nudo l'inconsistenza di una vita senza scopi. Il marito,
colpito da febbre tifoidea, muore dopo una straziante agonia. La
moglie si perde nel deserto, dove viene soccorsa dal capo di una tribù di Tuareg. L'uomo, divenuto il suo
amante, la tiene segregata sino alla liberazione per mano di una delle sue concubine, gelosa dell'occidentale. Prostrata, la donna viene infine soccorsa da una funzionaria dell'ambasciata americana. Ma la sua
esistenza è spezzata dalle esperienze vissute.
Il film è tratto da un romanzo di Paul Bowles, che compare nel ruolo di testimone della vicenda.
Ed è proprio a lui che nel finale si rivolge la donna. Il vecchio conclude con queste parole: "...Quante
altre volte guarderete levarsi la luna?... Forse venti. Eppure, tutto sembra senza limite...". Sembra soprattutto che i protagonisti, partendo da presupposti basati sulla decadenza della cultura occidentale, si trovino schiacciati dalla incomprensibilità di una regione che al contrario vive la propria cultura nella fisicità
che la radiosa asprezza del clima impone. Un abisso. Un'utopia che l'arroganza culturale non riesce a raggiungere. La sconfitta giunge prima nel corpo per poi diffondersi nel mistero della morte.
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Liber n. 23
LA TERRA TREMA
Un film di Luchino Visconti. Con Antonio Arcidiacono,
Giuseppe Arcidiacono, Venera Bonaccorso, Nicola Castorino.
Drammatico, b/n durata 157 min. - Italia 1948.
Aci Trezza, porticciolo vicino ad Acireale. La famiglia Valastro vive
poveramente di pesca, attività controllata da grossisti senza scrupoli.
Il figlio maggiore dei Valastro, 'Ntoni, protesta contro i loro abusi,
ma la sua è una rivolta che rimane solitaria.
In seguito a una rissa iniziata con Lorenzo, grossista profittatore e
spaccone, 'Ntoni è rinchiuso in prigione e quando, pagato il rilascio,
ne esce, decide di mettersi in proprio con la sua famiglia. All'inizio
gli affari vanno bene ma una tempesta distrugge la loro barca, i debiti aumentano, le riserve di acciughe devono essere vendute a basso
costo e la famiglia si disgrega.
La sorella Lucia diviene l'amante del maresciallo del corpo di finanza di Aci Trezza, il fratello Cola diventa un contrabbandiere e la sorella Mara non può sposare il muratore che ama. 'Ntoni rimane solo e, con
grande amarezza, non gli rimane che chiedere l'imbarco proprio agli sfruttatori che aveva cercato inutilmente di sfidare.
Questo film di Visconti avrebbe dovuto essere il primo episodio del cosiddetto "trittico della miseria" destinato a descrivere – attraverso il linguaggio del docu­mentario, nelle intenzioni iniziali
del regista – la lotta dei pescatori, dei minato­ri e dei contadini siciliani per il miglioramento della
propria condizione sociale, progetto poi sfumato per l'insuccesso commerciale del film. La ricerca delle ragioni storiche ed economiche della questione meridionale hanno spinto Vi­sconti
a preferire all'idea del documentario una rilettura in chiave progressista del romanzo di Verga I
Malavoglia, con la sostituzione della lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori a quella dei protagonisti
verghiani contro il destino.
Stanco degli abusi dei grossisti della pesca, 'Ntoni Valastro (Arcidiacono) si mette in proprio,
ma una tempesta ne distrugge d'un colpo la barca e le spe­ranze. Di fronte alla perdita della casa
e al progressivo disgregarsi della famiglia, 'Ntoni torna alle dipendenze dei grossisti, ma con una nuova
coscienza sociale.
La pellicola conserva elementi di ascendenza documentaristica: la fotografia che restituisce la violenza delle forze naturali; il ricorso ad attori non professionisti scelti tra gli abitanti di Aci Trezza;
l'uso del dialetto secondo una prospettiva ideologica per cui "la lingua italiana non è in Sicilia la lingua
dei poveri".
PAGINA 121
Liber n. 23
IL TRASFORMISTA
Un film di Luca Barbareschi. Con Luca Barbareschi,
Rocco Papaleo, Raffaele Pisu, Luis Molteni, Riccardo
Leto.
Commedia, durata 100 min. - Italia 2002.
Augusto Viganò, quarantenne titolare di una birreria ed impegnato ambientalista, durante una manifestazione viene ripreso
in diretta tv, e notato da un politico che ne vuole sfruttare la
notorietà per i suoi fini. Dopo una convincente campagna
elettorale, Viganò viene eletto in Parlamento, ma quando si
accinge a proporre leggi che salvaguardino l'ambiente, si scontra con l'ostilità dei politici di professione e il conformismo
dei salotti romani. Per rimanere a galla, è costretto a mentire a
se stesso e ai suoi elettori, diventando in tutto e per tutto simile ai personaggi che prima combatteva.
Il trasformista, lucida e spietata “satira” e analisi di un potere al governo che, al di là dei suoi colori politici,
“puzza” di corruzione e sporchi compromessi per un bieco arrivismo personale. La storia di Augusto
Vigano’, (un Barbareschi attore maturo e a suo agio nella discesa agli inferi della politica “romana” che
forse tradisce un coinvolgimento un po’ troppo personale), leader involontario di un gruppo ambientalista locale balzato agli onori della cronaca per la sua passionale denuncia del degrado ambientale, è
l’aggiornamento “brutto, sporco e cattivo” di un moderno “Alice nel paese della politica italiana”.
Coinvolto in giochi di potere più grandi di lui, Viganò sarà eletto deputato del parlamento nelle liste del
Polo, ma ben presto scivolerà nel vortice d’irrisolutezza, tradimenti e intrighi che agita e smuove le paludate acque della scena parlamentare italiana, finendo per smarrire i suoi semplici e puri ideali di lotta.
Con questo thriller politico di alta fattura e tensione, Barbareschi (attorniato da un cast di attori magistralmente in parte, e su tutti va menzionato il laido consigliere Lanzetta, interpretato da Rocco Papaleo
con inediti ed appropriati toni e sfumature) ci guida nei gironi danteschi della politica romana con il coraggio e la schiettezza di uno sguardo mai falso ne assoggettato ad una qualsivoglia logica politica di convenienza.
E scopriamo (che bello liberarsi finalmente dei pregiudizi!) un Barbareschi regista che nei suoi mai scontati o superflui movimenti della macchina da presa ha fatto sua la lezione del grande cinema italiano
d’impegno sociale e civile .
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Liber n. 23
I TRE GIORNI DEL CONDOR
Un film di Sydney Pollack. Con Robert Redford, Max von Sydow,
Faye Dunaway, Cliff Robertson, Addison Powell.
Titolo originale Three Days of the Condor.
Drammatico, durata 117 min. - USA 1975.
Tutti i componenti di un reparto della Cia vengono misteriosamente eliminati,
tranne uno il cui nome in codice è "Condor". Con una personale e rischiosissima indagine, nella quale viene aiutato da una donna, l'agente scopre i loschi segreti che stanno dietro la mattanza.
Redford in uno dei ruoli che ne hanno imposto il mito. Pollack parte da un genere particolarmente spettacolare (il film di spionaggio) per abbozzare un discorso anche politico di vasta portata (l'individuo schiacciato dal Potere). Tensione drammatica, efficace complessità dei personaggi e gran senso dell'azione,
fanno del film un classico degli anni Settanta.
Il cinema fotografa il tempo, riportando intatta l’atmosfera di un determinato periodo storico.
È quello che succede riguardando I Tre giorni del Condor di Sydney Pollack che evoca la New York degli
anni 70 (sconvolta dallo scandalo Watergate e dalla sconfitta del Vietnam), avvolta in un cielo plumbeo
invernale che stona con l’atmosfera natalizia delle note dell’Esercito della Salvezza. Pollack riprende il
romanzo di James Grady I Sei Giorni del Condor pubblicato nel 1974 e, insieme agli sceneggiatori Lorenzo
Semple Jr e il fido David Rayfiel, opera una marcata riduzione del tempo dell’azione (da sei giorni a tre) e
innesta ex novo la storia d’amore tra Robert Redford e Faye Dunaway, due solitudini che si incontrano e
si riconoscono un po’ come gli Amanti Senza Domani (1932) di Tay Garnett, un po’ come i replicanti
Sean Young ed Harrison Ford in Blade Runner di Ridley Scott (1982).
Il clima politico e il successo di precedenti spy stories come Il Giorno dello Sciacallo di Fred Zinnemann
(1973) e Perché un assassinio di Alan J Pakula (1974), favoriscono la grande affermazione del film, con il
valore aggiunto dalla presenza di attori del calibro di Max Von Sydow e Cliff Robertson. Joe Turner
(Robert Redford), nome in codice Condor, è l’unico sopravvissuto di una strage apparentemente inspiegabile tra gli operatori della “American Literary Historical Society”, ufficio che collabora con la CIA per
smascherare eventuali complotti anti americani nascosti tra le pagine di libri.
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Liber n. 23
I TRE VOLTI DELLA PAURA
Un film di Mario Bava. Con Boris Karloff, Michèlle
Mercier, Jacqueline Pierreux, Glauco Onorato.
Horror, durata 100 min. - Italia 1963.
Mario Bava diresse I tre volti della paura, trittico di novelle
del brivido pensato per il mercato internazionale e interpretato da un cast in larga parte straniero. Il telefono è un
thriller d'interni interamente basato sulla costruzione della
suspense: Mary (Alfonsi) è minacciata di morte telefonicamente, un macabro scherzo di Rosy (Mercier) che si trasforma in delitto; nel secondo episodio, i Wurdalak del
titolo sono vampiri che si nutrono del sangue delle persone amate, come scopre suo malgrado Wladimiro; sospeso tra soprannaturale e allucinazione è, infine, La goccia d'acqua: nel cuore di una notte tempestosa, l'infermiera
Miss Chester (Pierreux) viene chiamata a ricomporre il cadavere di una medium (un fantoccio di
cera creato dal padre di Bava, Eugenio). Miss Chester sottrae un anello alla morta ma, una volta
a casa, è vittima di una serie d'inquietanti eventi. A Karloff sono affidati il prologo, nel quale introduce con ironia gli spettatori alla visione, e il celebre epilogo che svela la finzione del set.
Bava, direttore della fotografia fino all'esordio alla regia nel 1960, dimostra la sua maestria nell'uso creativo ed espressivo di illuminazione e toni: il film è interamente dominato da luci irreali,
ombre inquietanti e colori che rappresentano simbolicamente la paura e il pericolo. Curiosamente, i titoli di testa alludono all'ascendenza dei racconti da nobili fonti letterarie: eppure l'attribuzione a Maupassant (Il telefono) è falsa, quella a Cechov (La goccia d'acqua) dubbia e I Wurdalak è tratto da
La famille du Vourdalak di Aleksej Tolstoj.
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Liber n. 23
TRENO POPOLARE
Un film di Raffaello Matarazzo. Con Maria Denis, Marcello Spada, Lina Gennari, Giuseppe Pierozzi.
Drammatico, b/n durata 65 min. - Italia 1933.
È una domenica mattina alla stazione ferroviaria di Roma. La folla si
accalca alla biglietteria per poter partire con un treno popolare diretto ad Orvieto. Tra questi Giovanni, un impiegato che è finalmente
riuscito a convincere la vivace collega Lina, cui fa la corte, a trascorrere con lui la giornata, sperando così di avere l’occasione per dichiararsi, anche se lei lo scoraggia in ogni modo.
In viaggio fanno conoscenza con Carlo, un intraprendente giovane
che si offre come guida, affermando di conoscere benissimo Orvieto. Giovanni ne è indispettito e tenta di liberarsene ma invano, in
quanto la ragazza invece gradisce la compagnia e la coinvolgente
spontaneità del nuovo venuto.
Giunti a destinazione, i tre iniziano a visitare la città e i suoi monumenti ed emerge che Carlo ha millantato la sua conoscenza della città, di cui non sa nulla, solo per restare con la giovane. Ma tutti gli sforzi del
goffo Giovanni per metterlo in cattiva luce e per allontanarlo non ottengono risultati ed, anzi, in qualche
occasione è lui a restare escluso.
Dopo il pranzo, Carlo propone di fare una gita in bicicletta verso il fiume, idea che, nonostante
l’opposizione di Giovanni, viene accolta da Lina con piacere. Ben presto Lina e Carlo lasciano indietro
Giovanni, il quale sbaglia strada e si ritrova da solo. Arrivati sulle sponde del Fiume Paglia, i due giovani
salgono su una barchetta, ma a causa di una manovra maldestra cadono in acqua.
Per asciugare i vestiti fradici, Carlo e Lina li stendono sul greto e si nascondono in un capanno. Quando
sopraggiunge Giovanni e vede gli abiti crede che i due siano annegati e corre in città a chiedere aiuto.
Dopo una serie di malintesi ed una rissa con Giovanni, finalmente Carlo riesce a restare solo con Lina ed
i due giovani si baciano.
Esordio del ventitreenne Raffaello Matarazzo, il film è una testimonianza della rinascita del cinema italiano grazie al sonoro, e dimostra la possibilità di un nuovo e fresco realismo, che si estende,
anche al di là del dialogo, al ritratto delle azioni e dei costumi quotidiani della piccola borghesia
italiana dell'epoca. I protagonisti non sono più, dunque, nobili o dirigenti d'azienda, ma gente
comune, della classe lavoratrice, che approfitta di istituzioni fasciste come il sabato e la gita organizzata fuori porta per socializzare.
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Liber n. 23
L’ULTIMO BACIO
Un film di Gabriele Muccino. Con Stefano Accorsi,
Giovanna Mezzogiorno, Marco Cocci, Stefania Sandrelli, Martina Stella.
Drammatico, durata 115 min. - Italia 2000.
Carlo (Accorsi) sta per sposare Giulia (Mezzogiorno), che è
incinta. C'è la madre di Giulia (Sandrelli) ossessionata dall'età,
c'è Marco (Favino) anche lui sul punto di sposarsi per interesse, c'è Adriano (Pasotti) che odia la moglie. I sentimenti si palesano, poi salgono di tono e tutti alla fine stanno peggio. Carlo, che vede il matrimonio come un cambiamento finale, dopo
il quale non si potrà che essere seri e tristi, si concede un'ultima fuga "cedendo" alle grazia di un'avvenente liceale (Stella).
L'ultimo bacio diventa da subito simbolo di una generazione, quella dei trentenni, restia a diventare
adulta, incapace sia di adagiarsi all'interno degli schemi dettati dalle regole sociali sia di romperli per
sostituirli con principi nuovi. Giovani cresciuti all'interno di famiglie normali, perennemente in corsa, affetti da depressione cronica e alla ricerca disperata di un sentimento d'amore che dovrebbe
porre fine a ogni forma di frustrazione. Tradimenti, matrimoni, fughe e rientri coinvolgono cinque amici con le rispettive consorti; su tutte spicca la storia di Carlo (Accorsi) e Giulia
(Mezzogiorno): lei al terzo mese di gravidanza, lui sedotto "per l'ultima volta" da una diciottenne (Stella).
Gabriele Muccino (a sua volta trentenne), con alle spalle esperienze televisive e un apprendistato
presso Pupi Avati e Marco Risi, colpisce non tanto per il racconto del film, quanto per l'abilità nella
messa in scena. Nonostante il giudizio spesso severo riservato al regista, il ritmo incalzante, l'inseguimento quasi asfissiante dell'attore, diretto con notevole mestiere, l'uso strategico della colonna sonora insieme a un montaggio serrato rendono la pellicola particolarmente efficace e toccante. Il
film uscirà dai confini nazionali e si farà notare anche oltreoceano.
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Liber n. 23
L’UOMO CON LA MACCHINA DA
PRESA
Un film di Dziga Vertov.
Titolo originale Celovek s kinoapparatum.
Documentario, b/n durata 64' min. - Russia 1929.
Dziga Vertov (Denis Kaufman) iniziò come giornalista, filmando le battaglie dell'Armata Rossa durante la Guerra civile
russa (1918-21) e mostrando le riprese al pubblico dei villaggi
e delle città che confinavano con le "retrovie della sommossa". L'esperienza aiutò Vertov a formulare la sua idea di cinema, condivisa da un gruppo di giovani cineasti che la pensavano allo stesso modo e che si ribattezzarono Kino-glaz (Cineocchio).
I principi del gruppo - l'onestà del documentario se paragonata alla finzione di un film, la perfezione del­l'occhio cinematico rispetto all'occhio umano danno forma al più straordinario film di Vertov, lo splendido L'uomo con la macchina da presa.
In questo film Vertov unisce una politica radicale a un'estetica rivoluzionaria, con effetti esilaranti e persino vertiginosi. I due strumenti principali del cinema - la macchina da presa e il
montaggio - funzionano come partner paritari (e sessualmente connotati).
Michail Kaufman, operatore nonché fratello di Vertov, riprende una giornata nella vita di una
città moderna - ciò che Vertov chiamava "la vita ignara" - mentre l'addetta al montaggio (la
moglie Elizaveta Svilova) taglia e incolla le pellicole, riformulando quella vita. Vertov utilizza ogni possibile mezzo di ripresa e di montaggio - rallentatore, animazione, immagini multiple,
scomposizione dello schermo, zoom, sfocature, e fermo-immagine - per creare un manuale di
tecnica cinematografica e insieme un inno al nuovo stato sovietico.
La macchina da presa inizia a girare quando la città comincia gradualmente a svegliarsi, quando i bus e i tram escono dai depositi notturni e le strade vanno riempendosi, poi continua riprendendo gli abitanti - soprattutto di Mosca, ma molte scene furono girate a Kiev, Jalta e Odessa - nella loro routine di lavoro e di svago.
L'esistenza viene compressa in un giorno, la macchina da presa filma un neonato, spia bambini
ammaliati da un mago di strada, segue un'ambulanza che trasporta la vittima di un incidente.
Nuovi rituali prendono il posto dei vecchi e diverse coppie si sposano in un ufficio pubblico
invece che in chiesa.
Vertov dà forma visiva ai principi marxisti in uno straordinario montaggio che segue le trasformazioni dell'artigianato in lavoro meccanizzato (il progresso delle donne, dal cucire a mano
al cucire a macchina, dall'abaco al registratore di cassa) e che loda la velocità, l'efficienza, la catena
di montaggio. I lavoratori utilizzano il nuovo tempo libero per socializzare in locali statali e birrerie, per ascoltare musica e giocare a scacchi, nuotare e prendere il sole, fare il salto con l'asta o
giocare a pallone.
Vertov dà un esplosivo addio al vecchio, puntando sul potenziale rivoluzionario del cinema.
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Liber n. 23
UN UOMO DA BRUCIARE
Un film di Vittorio Taviani, Paolo Taviani, Valentino
Orsini. Con Gian Maria Volonté, Lydia Alfonsi, Didi
Perego, Spiros Focas, Vittorio Duse.
Drammatico, b/n durata 92 min. - Italia 1962.
Salvatore, un giovane attivista sindacale di ispirazione marxista,
rientra al paese natale in Sicilia. A Roma lascia una vita allettante e una relazione appassionata. Nel piccolo centro isolano si
propone di capeggiare i suoi compaesani nell'occupazione forzata di un fondo, in contrasto con la mafia, decisamente avversa all'impresa. Ben presto i suoi compagni di fede e di azione si
lasciano intimorire e rinunciano alla lotta. Salvatore usa ogni
mezzo per scuotere i suoi seguaci, arrivando persino a fare il
doppio gioco con la mafia. Questa tuttavia ben presto scopre le
vere intenzioni di Salvatore e ne decreta la morte per mano di
un sicario. Il sacrificio di Salvatore stimola la coscienza e la ribellione dei proletari intorpiditi.
"La evidente ispirazione marxista del soggetto e del regista deforma completamente il risultato globale
del film, che troppo scopertamente si piega alle esigenze polemiche invano mascherate dalla volontà di
demitizzare alcune realtà ed alcuni personaggi chiave dell'attuale società italiana, ivi compresa la figura del
protagonista. Una spiccata povertà d'invenzione cinematografica, l'inconsistenza dei dialoghi,un'interpretazione piuttosto manierata, una narrazione deficitaria (nonostante qualche pagina di corale incisività) nonché la mancanza di gusto e misura in alcune scene riducono l'opera ad un tentativo approssimativo e mal riuscito." ('Segnalazioni cinematografiche', vol. 52, 1962)
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Liber n. 23
IL VAGABONDO
Un film di Carlo Borghesio. Con Erminio Macario, Lilly
Granado, Evelina Paoli, Luigi Almirante.
Commedia, b/n durata 92 min. - Italia 1941.
Pippo il vagabondo non ha una lira in tasca, ma neanche una preoccupazione per la testa. Fa la corte alla servetta di una casa nobile
quando scopre per caso che il promesso sposo della figlia dei padroni
mira esclusivamente ai soldi. Rivela la notizia alla famiglia e, invece di
sfruttare la loro riconoscenza, va via come sempre libero e felice.
«Tra la fine del ’40 e il ’42, […] il produttore Capitani scritturò il comico torinese, ormai pienamente convinto della bontà di quella scelta
artistica, per un’altra serie di tre pellicole: Il pirata sono io! di Mattoli, Il
chiromante diretto da Oreste Biancoli e Il vagabondo, con la regia di Carlo Borghezio, nel quale compariva nel ruolo di spalla Memo Benassi,
uno dei migliori gigioni del teatro di prosa. Questi film, seppure diretti da tre diversi registi, avevano in
comune il fatto che Macario riversava in essi in maniera un po’ ripetitiva lo stile delle sue riviste e la propria maschera. Se sul set il lusso e lo sfarzo teatrale non erano riproducibili se non per aride immagini,
giocoforza lontane dal calore e dal colore degli allestimenti dal vivo, il personaggio invece vi era presente
in tutti i suoi tratti caratteristici. La macchina da presa indugiava a lungo su quel giovane ingenuo facilmente beffato che puntava su indubbie doti mimiche (l’espressione sorniona e stralunata dei tondi occhi,
la bocca a fetta di cocomero, la camminata ondeggiante del “mamo” dall’abbigliamento raffazzonato) e
sugli strani vezzi verbali (la cantilena tipicamente piemontese, l’epentesi, il ripetitivo intercalere, la dizione
incerta e frammentata). E gli spettatori non potevano far altro che ridere e commuoversi di fronte alle
imprese del candido e involontario buffone dal calcolato vittimismo un po’ piagnucoloso e dalle battute
assolutamente inaspettate che spiazzavano tutti. […] Gli attori e i registi che hanno lavorato con Macario
sino ai primi anni ’50 avevano tutti la non nascosta ambizione di prendere come modello Charlie Chaplin, e di cucire addosso al piccolo e fragile uomo ai margini della burrascosa fase storica di quegli anni
alcuni soggetti realistici nei quali egli potesse dimostrare tutte le proprie capacità espressive e recitative.
Spesso Macario, con un po’ troppa supponenza, amava mettersi sullo stesso piano del popolarissimo attore americano del cinema muto: “Charlot a volte è cattivo o maligno: nelle brevi comiche mute prende a
calci anche i derelitti suoi pari, mentre io, in quei personaggi dotati di affinità con lui, sono abitualmente
timido e remissivo anche troppo, sicché le busco sempre”» (M. Ternavasio, Macario, Lidau, Torino,
1998).
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Liber n. 23
I VAMPIRI
Un film di Riccardo Freda. Con Gianna Maria Canale, Wandisa Guida, Carlo D'Angelo, Emilio Petacci, Paul Müller.
Horror, b/n durata 85 min. - Italia 1957.
Una serie di misteriosi omicidi sconvolge Parigi: le vittime
sono giovani donne che vengono ritrovate dissanguate. Un
ispettore di polizia indaga ma non raggiunge risultati concreti, mentre il giornalista Pierre si dedica al caso ed è convinto che l'autore degli omicidi sia un vampiro. Laurette,
amica di una vittima, confida al giornalista che qualcuno da
tempo la segue e a un certo punto viene rapita. Pierre deve
scrivere un articolo su una festa che si tiene al castello della
duchessa De Grand, dove vivono l'anziana zia Marguerite e
la giovane Giselle. La nipote è innamorata di Pierre e tenta
di sedurlo, ma lui non ne vuol sapere e comincia a nutrire sospetti per ciò che vede al castello. L'uomo
che seguiva Laurette viene trovato nel giardino del castello e prima di morire confessa alla polizia di aver
rapito molte donne. La verità è sconvolgente perché zia e nipote sono la stessa persona: un'orribile donna che ringiovanisce per mezzo del sangue delle ragazze rapite e un macchinario inventato da uno scienziato pazzo.
Riccardo Freda è un autore sottovalutato dalla critica, come molti artigiani del nostro cinema, ma è un
abile regista che sperimenta quasi tutti i generi cinematografici in voga negli anni Sessanta - Ottanta. Non
ci sono mostri nel film di Freda, ma esiste una realtà permeata di elementi fantastici, composta da scienziati pazzi, nobildonne che non vogliono morire e desiderano scoprire il segreto dell'eterna giovinezza,
amori orribili che superano le soglie della morte. Riccardo Freda è un regista che pesca a piene mani nel
gotico, perché il suo film si svolge in un castello cadente, tra cripte, passaggi segreti, cimiteri, teschi e fioche luci di candela, ma al tempo stesso cerca di essere moderno. La sua rappresentazione del male è calata all'interno di una società composta da mostri, persone senza cuore che uccidono e rubano il sangue
delle vittime per donare la giovinezza a una megera cadente che vuole coronare un sogno d'amore. Per
Freda, il male non va esibito ricorrendo al soprannaturale e ai mostri della fantasia, ma il vero male è
dentro la società e i mostri sono persone comuni che spesso scatenano passioni incontenibili. I vampiri
segna il cammino per l'horror italiano più moderno e originale, anche se non va dimenticato un ottimo
cinema di mostri realizzato da Mario Bava, Lucio Fulci e Dario Argento.
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Liber n. 23
VAMPYR
Un film di Carl Theodor Dreyer. Con Sybille Schmitz,
Julian West, Henriette Gérard, Rena Mandel
Titolo originale Vampyr ou l'étrange aventure de David Gray.
Drammatico, b/n durata 75 min. - Francia 1932.
La grandezza del primo film sonoro di Carl Theodor Dreyer
deriva in parte dal suo approccio al tema del vampiro in termini di sessualità ed erotismo e in parte dal suo lato onirico profondamente caratterizzante, ma ha anche qualcosa a
che fare con la sua radicale trasposizione della forma narrativa.
Riassumere il film non solo lo tradirebbe ma porterebbe
al fraintendimento della sua trama: la pellicola confonde
le convenzioni per stabilire un punto di vista e una continuità, e inventa un linguaggio narrativo a sé. Alcune delle atmosfere e delle immagini trasmesse da questo linguaggio sono veramente perturbanti: il lungo viaggio nella bara dal punto di vista del cadavere; l'espressione di
desiderio carnale di una donna vampiro per la sua fragile sorella; la misteriosa morte per soffocamento di un malvagio dottore tra le polveri di un mulino, e una protratta sequenza onirica che tenta misteriosamente di ricollegarsi alla narrazione convenzionale.
Finanziato e prodotto dal cinefilo olandese Barone Nicolas de Gunzburg, che interpreta il ruolo
principale di David Gray sotto lo pseudonimo di Julian West, Il vampiro fu liberamente adattato
da un racconto di Sheridan Le Fanu, Carmilla.
Come molte altre prove sonore di Dreyer anche questo film, quando uscì, fu un fiasco commerciale. In seguito diventò un classico del cinema horror e fantastico (e un film d'arte), sebbene non sia mai rientrato perfettamente in alcuna di queste categorie.
La notevole colonna sonora, creata interamente in studio, in contrasto con le immagini, che
furono girate completamente in esterni, è una parte essenziale dell'atmosfera ultraterrena, voluttuosa e spettrale del film. Il vampiro fu originariamente distribuito da Dreyer in quattro versioni separate: francese, inglese, tedesca e danese.
La maggior parte delle copie oggi in circolazione mescola due o tre di queste versioni, sebbene
il dialogo sia alquanto scarso. Se non avete mai visto un film di Dreyer e vi chiedete perché
molti critici lo considerino il più grande di tutti i registi, quest'opera è il miglior punto di partenza.
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Liber n. 23
IL VENTO FA IL SUO GIRO
Un film di Giorgio Diritti. Con Thierry Toscan, Alessandra Agosti, Dario Anghilante, Giovanni Foresti,
Caterina Damiano.
Drammatico, durata 110 min. - Italia 2005.
Quando si incontrano sul proprio cammino pellicole simili,
vien da gridare che il cinema italiano non solo non è morto,
ma si ha voglia di abbassare la testa e volgere lo sguardo altrove, vergognandosi persino di averlo pensato. Girato interamente nelle valli occitane del Piemonte, un ex professore decide di trasferirsi con tutta la sua famiglia - una moglie e tre figli
- in un paesino di poche anime, sulle montagne, per poter vivere secondo natura. Nella diffidenza generale, Philippe e sua
moglie vivono di pastorizia, cercando di raggiungere quel difficile equilibrio con le cose del mondo e con gli anziani abitanti del posto.
Il film di Giorgio Diritti vale almeno quattro stelle. Una per il coraggio, due per le difficoltà della distribuzione (il film fa la spola fra una sala e l'altra di Italia, dove il mercato non sembra accorgersene, mentre
all'estero ha fatto incetta di premi e riconoscimenti), la terza per la prova corale di tutti gli attori, bravissimi e non professionisti (eccezion fatta per Thierry Toscan e Alessandra Agosti), la quarta per risarcirlo
moralmente di tutto ciò che ha subito e per tutto ciò che subirà, nella cecità dei nostri critici e dei nostri
speculatori culturali. "E l'aura fai son vir" - questo il titolo occitano del film - si riferisce al detto popolare
che vuole il vento una metafora di tutte le cose, un movimento circolare in cui tutto torna, come rappresentato nel film dalla figura di uno scemo del villaggio che corre nei prati simulando il gesto del volo.
Questa pellicola, senza scomodare miti e profeti, ha la forza di un trattato antropologico, ma senza perdersi nella retorica dei buoni sentimenti, sottolineando piuttosto come la vita si componga di sensazioni
contrastanti e sgradevoli, in un cinismo che contagia, ma rende liberi da pregiudizi e ipocrisie. Tre aggettivi per descriverlo? Genuino, inaspettato, meraviglioso. Come le anime salve che descrive, uomini in cerca di un senso che l'esistenza stessa allontana ogni giorno di più.
PAGINA 132
Liber n. 23
VIP. MIO FRATELLO SUPERUOMO
Un film di Bruno Bozzetto.
Animazione, b/n durata 80 min. - Italia 1968.
Pur essendo fratelli, SuperVip e MiniVip, ultimi discendenti di una
gloriosa famiglia di supereroi, sono assai diversi l'uno dall'altro: prestante, muscoloso e coraggioso il primo, piccolo, gracile e miope il
secondo.
Seguendo il consiglio degli psichiatri, MiniVip si prende un periodo
di vacanza sperando di vincere il proprio complesso d'inferiorità e si
imbarca su una nave da crociera. L'idea del viaggio si rivela, tuttavia,
infelice: durante una festa in maschera, MiniVip, vittima degli atroci
scherzi degli altri passeggeri, finisce in mare insieme con Lisa, una
studentessa travestita da leone, e naufraga sull'isola dell'arcigna miliardaria Happy Betty, una terribile vecchia paralitica, che ha in mente
di trasformare l'intera umanità in una massa di automi desiderosi soltanto di fare la spesa nei suoi supermercati. Fatti prigionieri i due intrusi, la donna si prepara a sferrare
l'attacco contro il mondo armando i "missili-cervello" di occhi elettronici che condizioneranno la volontà
degli uomini, ma il piano è sventato in tempo da SuperVip, giunto sull'isola in cerca del fratello. Nella
battaglia conclusiva la spietata capitalista avrà ciò che si merita e i due superuomini - anche MiniVip si
comporta, finalmente, da coraggioso - avranno modo di coronare il sogno d'amore con Lisa e con Nervustrella, una timida prigioniera che era stata destinata ad essere cavia dei folli esperimenti. "...Fra tutte le
stirpi di superuomini la più gloriosa e potente fu certamente quella dei Vip, le cui radici si affondano nella notte dei tempi. Il loro nobile scopo fu sempre quello di salvare i deboli dagli oppressori..."
Secondo lungometraggio a cartoni animati di Bruno Bozzetto, ricco di divertenti trovate e di efficaci
spunti di riflessione critica sul neocapitalismo, sul consumismo, sulla manipolazione del consenso da parte dei mass-media e - nel ritratto del complessato MiniVip - sulla emarginazione dei più deboli e psicologicamente più vulnerabili. Il "messaggio" è naturalmente alleggerito e filtrato dai toni ironici e caricaturali
di una favola per grandi e piccoli, ma riflette (almeno in maniera indiretta e un po' piccolo-borghese nello stesso periodo Bozzetto realizzava, proprio per la pubblicità, una serie di caroselli televisivi), il clima
politicamente impegnato degli anni della contestazione. Progettato inizialmente sulla figura del timido e
insignificante MiniVip, il film prese via via corpo strutturandosi narrativamente sulla parodia dei fumetti,
della fantascienza cinematografica e delle avventure fantaspionistiche alla James Bond. Meno godibile,
forse, del precedente West and Soda, rappresentò, comunque, una proposta innovativa nel panorama del
cinema di animazione italiano.
PAGINA 133
Liber n. 23
VITA DI O-HARU,
DONNA GALANTE
Un film di Kenji Mizoguchi. Con Kinuyo Tanaka, Ichiro
Sugai, Toshiro Mifune Titolo originale Saikaku Ichidai
Onna.
Drammatico, b/n durata 148 min. - Giappone 1952.
Durante una visita ad un tempio, Oharu, un'anziana prostituta,
ripercorre gli infausti avvenimenti che hanno caratterizzato la sua
vita. Nel 1658 si innamora del servo Katsunosuke, ma la loro relazione clandestina porta la donna e i suoi genitori all'esilio forzato
da Kyoto, mentre il servo viene giustiziato. In seguito alla morte di
Katsunosuke, Oharu tenta il suicidio per poi venire scelta dal potente signore Matsudaira come madre del suo futuro erede. Partorito il bambino, la donna viene congedata senza la possibilità di
crescere il figlio e con il misero compenso di cinque monete d'oro; ritornata a casa, Oharu viene venduta
dal padre, che nel frattempo si era indebitato, ad un ricco signore. I contrasti tra lei e la padrona di casa
portano Oharu a tornare mestamente dai suoi genitori. Riesce a trovare marito, sposando Yakichi Ogiya,
un modesto artigiano che però viene ucciso durante una rapina. Rimasta senza soldi e senza un posto in
cui andare, Oharu decide di farsi suora, ma un creditore di suo padre la seduce e viene così cacciata dal
tempio. Perduta la speranza di avere una vita soddisfacente, la donna intraprende senza alcun successo la
via della prostituzione, finché un giorno viene convocata alla corte di Matsudaira; incredula per questa
questa notizia, inizia a nutrire la speranza di poter riabbracciare il figlio mai conosciuto, ma la realtà è
purtroppo per lei diversa: non solo non le viene concesso di vedere il figlio, ma le viene imposto l'esilio
dalla corte e di tenere segreta la sua condotta immorale che infanga il buon nome dei Matsudaira.
Quest'ultimo evento si rivela così l'ennesima delusione e frustrazione per Oharu, ormai invecchiata e divenuta una mendicante.
In vetrina alla Mostra di Venezia, rivelò all’occidente il talento di Mizoguchi, devoto ai ritratti femminili e
alle accurate ricostruzioni storiche. Tratto dal romanzo La vita di una mondana (1686) di Ihara Saikaku, è
un racconto sconsolato ed avvilente che, più che per il genere (molto melodrammatico, con sottolineature sentimentaliste) o la forma (Mizoguchi, fra alcuni sguardi “pittorici”, predilige il passo lasco e la contemplazione nei piani sequenza), si fa apprezzare per il tocco polemico che, attraverso il dramma individuale, denuncia con ampio spettro la condizione femminile in quella particolare società patriarcale, ricorrendo a simbolismi, al realismo dei sentimenti, finanche alle forzature di una narrazione sempre più spietata ed emblematica. Lo scotto da pagare alla foga di inveire trova toni effettistici che accumulano scene
madri in un manto di patetico lirismo: la parte iniziale, ove il flashback dell’anziana protagonista tarda a
venire, ad esempio, ha una sua giustificazione etico-estetica, nel momento in cui Mizoguchi non vuole
forzare la donna ai brutti ricordi. In seguito gli indugi della pellicola paiono più compiaciuti e indecisi fra
moralità e moralismo.
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Liber n. 23
VOLTI
Un film di John Cassavetes. Con Seymour Cassel, Gena
Rowlands, John Marley, John Cassavetes.
Titolo originale Faces.
Drammatico, b/n durata 128 min. - USA 1968.
Una risata sullo schermo suona spesso falsa. Ma in Volti ogni
risata – lunatica, carnale, nervosa, isterica, difensiva – è assolutamente autentica, anche se richiesta dal regista o spostata in fase
di montaggio.
Qual era il segreto di John Cassavetes? Il suo rapporto con gli
attori era così totale, il suo lavoro con loro talmente sottile e
intenso, che era in grado di catturare la realtà più di ogni altro
regista americano. Dopo l'esperimento di Ombre (1959) e alcune esperienze negative a Hollywood, Volti segna la nascita dello "stile Cassavetes".
Girato nella sua abitazione, il film offre scene realistiche, con persone dai desideri irrealizzabili,
furiosamente alienate, alla deriva, come tutti i personaggi di Cassavetes, tra le dure responsabilità
della vita quotidiana e le sfrenate intossicazioni di quella notturna.
Cassavetes coglie il brillante lavoro d'insieme del suo cast – John Marley e Lynn Carlin sono tra i
migliori – sempre in medias res, con i corpi quasi mai al centro dell'inquadratura, le frasi e i gesti
tagliati dal montaggio. Ogni scena si basa su un'imprevedibile e spesso spaventosa "svolta", un
improvviso cambiamento nell'umore di un personaggio o nel suo atteggiamento nei confronti
degli altri. Il film inventa un nuovo uso del tempo nel cinema, dove le improvvise pause danno
l'impressione (per usare un'espressione dello stesso Cassavetes) "di scendere da un treno in corsa".
Interpretato da alcuni come una condanna di una borghesia materialista e senz'anima, il film è
piuttosto un resoconto dolorosamente intimo della fatica di vivere. Cassavetes definisce il territorio che spesso tornerà nelle sue opere – crisi coniugali, sesso occasionale, abbandono edonistico, legami familiari – con una narrativa che mescola e paragona costantemente gli itinerari dei
personaggi.
Volti è forse il primo film in cui si parla esplicitamente (e scherzosamente) di cunnilingus.
Quasi quarant'anni dopo, registi come Neil LaBute e Lars von Trier cercano ancora di eguagliare
Cassavetes nella rappresentazione della confusa complessità dei rapporti tra adulti.
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Liber n. 23
WEST AND SODA
Un film di Bruno Bozzetto.
Animazione, durata 86 min. - Italia 1965.
Nel selvaggio West un cattivissimo proprietario terriero vuole
impossessarsi delll'unico terreno fertile della vallata, di proprietà
della giovane Clementina, indomita e combattiva ragazza, priva
però di amici. Per proteggerla arriva Johnny, un cowboy inizialmente piuttosto apatico, che però al momento giusto si scatena.
Un classico del cinema d'animazione italiano diretto dal veterano
Bruno Bozzetto. Da antologia la scena del duello finale ricalcata
su quella, celeberrima, di Mezzogiorno di fuoco e ironicamente parodistica verso le interminabili sequenze analoghe di Sergio Leone. Da non trascurare anche il contrappunto sonoro.
West and Soda è il felice esordio nel lungometraggio di Bruno
Bozzetto che, grazie all'importante contributo di Guido Manuli, riesce a metter d'accordo, con qualche
piccola riserva, animazione, umorismo e western.
La storia è volutamente esile e vede sfilare elementi classici del genere, vale a dire la cittadina comandata
dal cattivo di turno - che qui si chiama Cattivissimo - che vorrebbe sposare la bella Clementina, i due
sgherri del boss locale, Ursus e Smilzo, la donna del saloon, Esmeralda, tutto messo sotto sopra dall'arrivo del pistolero, dal nome anch'esso comune Johnny: dopo molte peripezie si arriverà allo scontro finale,
ovviamente in un duello all'ultimo sangue - se così si può dire - nella Main Street.
Molto particolare e stilizzato il character design dei personaggi e degli sfondi, sia urbani che naturali, lontani anni luce dall'animazione alla Walt Disney e più vicini ad essere una via di mezzo tra certi cartoon di
Chuck Jones e in particolare Wile E. Coyote e Road Runner - la sfida tra Johnny e Cattivissimo nei canyon e nel deserto - e il Lupin III di Hayao Miyazaki, specie nella figure filiformi di Johnny e dello Smilzo,
satirico-parodistici gli intenti, nello sbeffeggiare le più frequenti situazioni viste in centinaia di film,
dall'arrivo del pistolero in paese, alla prima scazzottata con i due nemici nel saloon, il ricorrente passaggio
della diligenza inseguita dai nativi, a loro volta inseguiti dalla cavalleria, all'anzidetta 'resa dei conti' e
un'azzeccata scelta nell'affidare le voci dei protagonisti alle voci più in voga del periodo, con l'effetto straniante della voce suadente di Nando Gazzolo che doppia Johnny.
Un evidente difetto, forse in parte causato dalla difficoltà di fare un film animato in quell'epoca che può
essere definita 'pionieristica' del nostro cinema, va riscontrato nella mancanza di ritmo di parecchie scene,
specialmente nella parte iniziale del film.
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Liber n. 23
ZERO IN CONDOTTA
Un film di Jean Vigo. Con Jean Dasté, Delphin, Louis De
Gonzague-Frik
Titolo originale Zéro de conduite.
Commedia, b/n durata 47 min. - Francia 1933.
Giovani diavoli a scuola: il sottotitolo di Zero in condotta suggerisce una mite incursione nell'allegria giovanile, invece questo
film breve di Jean Vigo, ormai un classico, è una cosa seria.
Questa descrizione della ribellione infantile verso un'oppressiva
istituzione scolastica rappresenta un vero manifesto surrealista,
la cui dimensione cosmica è attestata dalla ripresa finale in cui i
giovani, trionfanti sul colmo di un tetto, paiono pronti a prendere il
volo.
Si tratta di un film fantastico, da proporre a studenti non preparati a quello che vedranno: completa nudità frontale, umorismo scatologico e ossessione
corporea, blasfemia antireligiosa e omoerotismo insistito.
Zero in condotta trascende però il semplice dualismo giovani contro autorità (a dif­ferenza del
suo deludente remake, il film del 1968) attraverso il suo sguardo perverso e polimorfico: anche i più rigidi insegnanti appaiono segretamente dissoluti.
La provocazione si manifesta sia al livello del contenuto che della forma: gli esperimenti con il
rallentatore, l'animazione e il montaggio fotografico risultano prodigiosi e immaginifici. Vigo
aveva assimilato l'avanguardismo di Luis Bunuel e di René Clair, ma egli inventò anche una forma estetica unica nel suo genere: l'inquadratura da "acquario", uno spazio claustrofobico nel
quale si producono strane apparizioni da ogni angolo possibile.
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Liber n. 23
LO ZIO DI BROOKLYN
Un film di Daniele Ciprì, Franco Maresco. Con Pippo Agusta, Francesco Arnao, Antonino Bruno, Rosario Carollo, Marcello Miranda.
Grottesco, durata 90 min. - Italia 1995.
Ambientato in una Palermo semi diroccata ed apocalittica,
popolata da inquietanti personaggi che si aggirano in mutande, cantano senza motivo o stanno immobili con espressione
ebete, il film diventa a tratti una sequenza di immagini apparentemente non direttamente connesse tra loro secondo uno
schema logico.
I fratelli Gemelli (in tutto quattro, con il figlio di uno di loro
affetto da handicap e costretto sulla sedia a rotelle) vengono
costretti da una coppia di nani mafiosi ad ospitare un anonimo e silenzioso personaggio (che dà il nome al film, essendo semplicemente chiamato "lo zio d'America"). I nani sono responsabili dell'organizzazione di un attentato nei confronti del fratello del boss del
luogo, Don Masino.
Dopo un lungo periodo di prigionia forzata all'interno della loro abitazione, dovuta al gran numero di
cani randagi che assediano la città, simbolo del degrado che prende il sopravvento sulla "razza umana",
tale "zio" sparisce misteriosamente ed i quattro si recano alla sua ricerca. Durante l'esplorazione giungono in una radura paradisiaca dove trovano molti degli altri personaggi che, chi più chi meno, hanno preso
parte alle numerose sequenze grottesche che rappresentano la quasi totalità della pellicola, in abito bianco
ed intenti a cantare e a ballare venendosi a trovare in una dimensione (sottolineata da un marcato chiarore che assumono le immagini) in cui non esistono più sofferenze umane e differenze sociali tra potenti e
miserabili (un barlume di speranza finale che si riesce a cogliere in una pellicola intrisa di nichilismo). Qui
si ritrovano anche i due nani e il fuggitivo "zio", nonché il vecchio nonno Gemelli che nel frattempo era
morto. In realtà, la trama non è ben definita ed anzi assume un ruolo secondario all'interno della pellicola, tanto che alcuni particolari sono lasciati completamente senza una spiegazione all'interno di un alone
onirico fortemente surreale.
Il film si apre con una persona che si toglie l’occhio finto di porcellana e resta guercio: i cinefili correranno immediatamente con la memoria alla celebre sequenza di Un chien andalou di Buñuel, con il rasoio che
staglia l’occhio a metà. Ma la provocazione surrealista del regista spagnolo aveva degli obiettivi precisi e
ben individuabili (la cultura della borghesia parigina e i suoi valori; il piacere dello scandalo, soprattutto in
campo sessuale). Nel film di Ciprì e Maresco non manca certo la voglia di scandalizzare i “benpensanti”
(come nella scena del carrettiere che prostituisce la sua asina) ma il senso del film è molto più cupo e disperato. Sta soprattutto nella descrizione di un mondo che ha perso ormai ogni senso, abitato da
un’umanità residuale che sciorina personaggi con le loro trucide, agghiaccianti e meschine miserie, specchio di un mondo dove inferno, purgatorio e paradiso hanno perso i loro confini e si confondono continuamente. Lo spettatore non deve cercare di trovare una qualche «verità» in quelle storie e in quei personaggi (quando alla fine il misterioso «zio di Brooklyn» sembrerà disposto a svelare la propria identità, una
sonora pernacchia ci impedirà di ascoltarla) ma siamo sicuri che non potrà fare a meno di confrontarsi
con il disagio che attraversa tutto il film e che rimanda se non alla «fine dell’umanità» quanto meno al suo
annichilimento.