uno schiavista per capire l`America post-razziale

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uno schiavista per capire l`America post-razziale
30 | IDEE
pagina 99 |
sabato 22 ottobre 2016
uno schiavista per capire
l’America post-razziale
FABIO DEOTTO
n LOS ANGELES. «Gli europei il
razzismo americano non lo capiscono finché non vengono a vivere
qui», dice Irene, indicandomi l’uscita di Prospect Park. Irene ha
origini greche e per il suo giornale
segue l’attività del gruppo Black
Lives Matter a Manhattan. Poco fa
una volante della polizia ha accostato e un agente ci ha gentilmente
informato che il parco era chiuso.
«Se fossimo neri, non ci avrebbero
lasciato andare così», afferma Irene, per poi illustrarmi la situazione
che vive ormai da anni: «In Europa il razzismo è legato all’immigrazione, qui è legato ancora allo
schiavismo, alla segregazione, al
senso di colpa che trascolora nella
paranoia».
Irene ha ragione, ma su una cosa
sbaglia. Per capire la questione razziale afroamericana è sufficiente
procurarsi due libri: il primo è Tra
me e il mondo di Ta-Nehisi Coates
Usa | L’eroe dell’ultimo libro di Paul Beatty è un nero
segregazionista. Che recinta un quartiere per imporre il black
power. Una satira efficace che racconta una realtà feroce
L’opera ha una tale carica
comica che nella comunità
afro c’è chi accusa l’autore di
aver trasformato il problema
in un demenziale circo.
Ma l’imputazione non regge
(Codice 2016, trad. Chiara Stangalino, pp. 207, euro 16), vincintore
dell’ultimo National Book Award;
il secondo è Lo schiavista di Paul
Beatty (Fazi 2016, trad. Silvia Castoldi, pp. 370, euro 18,50), uscito
lo scorso 6 ottobre.
L’evento che funge da innesco
per il libro di Ta-Nehisi Coates è vedere il figlio di quindici anni che si
chiude in camera dopo aver saputo
che i poliziotti responsabili della
morte di Michael Brown sarebbero
rimasti liberi. La rabbia silenziosa
del figlio gli riporta alla mente l’adolescenza nella Baltimora degli
anni ’80, gli studi alla Howard University, le lotte delle Pantere Nere,
fino ad arrivare agli omicidi di Ferguson e alle relative sommosse.
Coates si rende conto che la rabbia
del figlio rischia di scolorire in rassegnazione, così, ispirandosi al James Baldwin di The Fire Next Time, decide di scrivergli una lunga
lettera. Fin dalla prima pagina,
Coates parla di «coloro che si credono bianchi», locuzione che ha
l’effetto di svuotare il concetto illusorio di “razza bianca” per rivelarne
l’inconsistenza: perché «la razza è
figlia del razzismo, non la madre» e
molti americani, per consolidare ed
elevare a stigmate di superiorità civile una differenza unicamente cromatica, per secoli hanno saccheggiato, ucciso, incarcerato, e ancora
oggi fanno fatica a lasciare la presa
sui privilegi a cui millantano di
aver rinunciato.
Il protagonista senza nome de Lo
Schiavista, invece, è cresciuto con
un padre psicologo che lo ha utilizzato come cavia per mettere alla
prova le sue bizzarre teorie sul razzismo; quando questi viene ucciso
NICK COTE / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO
GESTI Chris Parrish, sulla
sinistra, e Tarell Gissendanner
sono due giocatori di football
della Aurora Central High
School, in Colorado. Per
protestare contro le
discriminazioni razziali, il
primo ottobre si sono
inginocchiati durante l’inno
nazionale, come già aveva
fatto il quarterback dei San
Francisco 49ers Colin
Kaepernick
dalla polizia di Los Angeles, il figlio
reagisce diventando padrone di
uno schiavo e reintroducendo la segregazione in un quartiere fittizio
di Los Angeles chiamato Dickens.
Se Coates punta il dito contro «coloro che si considerano bianchi»,
Paul Beatty, pur senza ribaltare
esplicitamente la locuzione, mette
sull’incudine «coloro che si considerano neri», o meglio «negri»,
termine che dissemina nel testo
con la stessa irriverente urgenza
che nel dicembre 1962 spinse Lenny Bruce a ripetere durante uno
spettacolo di stand-up la parola
“nigger” fino a farla diventare inoffensiva. Mentre Coates si concentra sugli strascichi appiccicosi lasciati dallo schiavismo e dalla segregazione delle leggi Jim Crow,
utilizzando gli strumenti dell’argomentazione storica e sociologica,
Beatty utilizza quelli della satira
per riportare indietro le lancette
della storia, sostituendo il razzismo
subdolo che sclerotizza la società
statunitense con una discriminazione ben più nota e percepibile.
Ed è forse questo lo scarto maggiore tra i due libri: al passo misurato e lucido di Tra me e il mondo,
Beatty contrappone una prosa che
sferra battute come una pitching
machine settata sulla massima velocità: non fai in tempo a battere
una palla che ne hai prese in faccia
altre tre. Lo schiavista ha una carica comica tale che nella comunità
afroamericana c’è chi accusa Beatty di aver trasformato la questione
razziale in un circo demenziale.
Ma l’accusa non regge. L’idea di un
nero che nel 2016 recinta un quartiere per ristabilire una forma di
In una lettera al figlio, lo
scrittore Ta-Nehisi Coates
parla di “coloro che si
credono bianchi”per
svuotare il concetto di razza,
pura invenzione del razzismo
segregazione è ridicola solo fino a
un certo punto: nell’America di oggi le idee separatiste del sindacalista e scrittore Marcus Garvey (che
auspicava la nascita di una nazione
nera) sopravvivono nei rabbiosi
proclami di gruppi estremisti come il New Black Panther Party e
nella mente di alcuni cittadini di
colore stanchi di vedere i loro figli
che a scuola imparano come rispondere in modo sicuro alle domande dei poliziotti; non solo, a
distanza di quasi cinquant’anni dal
Fair Housing Act, il fenomeno del
redlining (la tendenza a negare affitti e vendite su base razziale) è
ancora una realtà.
Proprio in forza del loro diverso
approccio, questi due testi sono risorse preziose per chi voglia capire
perché nel 2016 gli Usa sembrino
indugiare sull’orlo di una guerra civile razziale; e se il saggio di Coates
riesce a inquadrare il problema
dalla giusta prospettiva storica, il
romanzo di Beatty sembra scritto
per i lettori di un mondo post-razziale. Un mondo futuribile dove il
concetto di razza (come gli epiteti
che gli fanno da satelliti) è stato
svuotato, in cui nessuno si sente in
dovere di riportare in pari la bilancia, semplicemente perché quella
bilancia ha smesso di esistere.