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editoriale
L’Unione Europea è stata inventata. Non è stata fondata con la spada – a differenza
di quasi tutti gli Stati o gli imperi della storia – ma è nata da negoziati. È il frutto di
un progetto, non del sangue: è una invenzione di uomini razionali, decisi a mettere fine alle guerre in Europa. Per cui è strano che ancora non sappiamo bene cosa sia e soprattutto che cosa diventerà. Pensavamo che la Costituzione servisse a chiarire, a fissare dei limiti. In parte è così, ma solo in parte. Il vero dibattito sull’Europa sembra essersi aperto solo adesso. Solo adesso, i retro pensieri di sempre sembrano essersi scatenati davvero: c’è chi spera che il popolo inglese bocci l’approvazione del Trattato costituzionale, eliminando dal gioco il freno britannico; c’è chi sogna il ritorno a una piccola Europa; c’è chi invece vorrebbe allargarla ancora di più, non solo alla Turchia ma
all’Ucraina e, perché no, a Israele.
L’unica cosa abbastanza sicura è che l’Unione Europea non diventerà come gli Stati
Uniti; non sarà un super-Stato. Non sarà insomma una Federazione classica. E d’altra
parte non è, viste le quote di sovranità condivisa, una Confederazione pura o un’organizzazione internazionale tradizionale. Se non possiamo pensarla come uno Stato, e se
non possiamo descriverla come un’organizzazione internazionale, ha allora senso concepire l’UE come una specie di impero? Questo numero di Aspenia pone così la questione.
Dopo tutto, lo Stato e l’impero sono le due principali forme di governo che il mondo ha
finora conosciuto. E continuare a sostenere che l’Unione Europea è “altro”, è un ibrido,
è un modello senza precedenti, può essere corretto, anzi decisamente lo è; ma non aiuta
granché a immaginarsi il futuro. E soprattutto non aiuta l’Europa a concepirsi come potenza internazionale, con un’influenza da esercitare responsabilmente.
Robert Cooper spiega, nel suo saggio, che l’analogia dell’impero ha a sua volta dei limiti: proprio lui, inventore della formula dell’Unione Europea come “impero volontario”, sottolinea quanto sia difficile descrive un mondo nuovo con parole vecchie. Parlare di impero, per l’Europa di oggi, serve essenzialmente a chiarirne tre caratteristiche
di fondo: l’autolimitazione della sovranità degli Stati; l’impianto multinazionale; la
tendenza a esportare il proprio sistema di governo. Nel caso dell’Unione Europea, ciò
non avviene per imposizione, con la forza delle armi. Avviene sulla base del proprio potere di attrazione: chi vuole entrare nel club europeo, deve accettarne i principi, i requisiti, le regole. Il problema è che molti, moltissimi, aspirano ancora alla membership: da Ankara a Kiev, da Belgrado a Tirana, il vasto arco di instabilità – ai nuovi e
provvisori confini dell’UE a 25 – vuole ancorarsi al magnete europeo.
Per cui l’UE sembra quasi condannata a rimanere aperta; ma così rischia, proprio come
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gli imperi del passato, di soccombere per “sovraestensione”. Perdendo progressivamente,
in questo suo processo di espansione, consenso all’interno. Il dibattito sulla Turchia è, da
questo punto di vista, quanto mai indicativo: il moto perpetuo dell’allargamento comincia a essere messo in questione dai meccanismi decisionali delle nazioni europee. Se la storia dice qualcosa è che, alla fine, impero e democrazia non sono facilmente compatibili.
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Punto primo, quindi: l’Unione Europea ha bisogno di definire, per sopravvivere, i suoi
confini; se non ultimi, validi almeno per una lunga fase di transizione. L’Europa ha bisogno di confini per non implodere ma anche per riuscire a decidere come gestire i rapporti con gli ex imperi che premono alle sue periferie. Anzitutto i rapporti con la Federazione Russa, dopo che l’ingresso della Polonia nell’Unione e la “rivoluzione arancione” in Ucraina hanno creato una specie di corto circuito geopolitico: il semi-impero europeo e l’ex impero sovietico condividono ormai il “vicino estero”. Punto secondo,
allora: che fare – sto delat’ – con Putin? Che fare con l’imperatore di Mosca venuto da
San Pietroburgo, di cui Bush 1 aveva scorto l’anima nel dopo 11 settembre – e cioè la
possibilità di una solida alleanza contro il terrorismo – e di cui adesso Bush 2, a Bratislava, ha scorto i denti, oltre che l’anima – e cioè i limiti di quella stessa alleanza.
Visto da Bruxelles, invece che da Washington, Putin sembra più uguale a se stesso: un
figlio tipico della storia russa, da capire prima che condannare. Visto dalle finestre del
Cremlino, scrive in questo numero Sergio Romano, il vecchio spazio sovietico appare
ancora meno rassicurante di quanto non fosse dopo il crollo del muro di Berlino e dell’URSS. La sporca guerra di Cecenia sembra destinata a incancrenirsi. Gli americani sono decisi a restare in Uzbekistan e in Kirghizistan. La Georgia guarda a Ovest e punta ormai a eliminare le influenze russe dal proprio territorio. L’Ucraina, dopo l’elezione di Viktor Yushchenko – invitato anch’esso alla corte di Bruxelles per omaggiare
l’imperatore d’Occidente in visita all’Europa – tende a gravitare verso l’orbita della NATO, staccandosi da quella dello Stato russo. E intanto Condoleezza Rice ha inserito la
Bielorussia di Lukashenko (persona non grata per l’Unione Europea, alleato di ferro
per Putin) negli “avamposti” della tirannia, da combattere con la diffusione della libertà. Il nostro catechismo democratico nell’ex spazio sovietico, conclude Romano, è visto da Mosca come un’arma offensiva, di cui ci stiamo servendo per “sfogliare un po’
alla volta il carciofo russo”. E se si considera quanto la Russia sia da sempre afflitta
da due patologie che si rafforzano a vicenda – un’inesauribile bulimia territoriale e il
complesso dell’accerchiamento – Putin è in fondo il migliore dei russi possibili.
C’è poi, aggiungiamo noi, una dose fastidiosa di incoerenza: le voci indignate per la
svolta autoritaria del presidente russo, dal 2003 in poi – dall’esplodere del caso Yukos
alla decisione di nominare, invece che eleggere, i governatori regionali – si sono levate
soprattutto quando Putin ha compiuto le prime mosse “non-allineate” in politica estera, con l’intervento (quanto mai maldestro) nella crisi ucraina e poi con la scelta di te-
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nere aperti canali preferenziali con la Siria (acquirente di vecchia data di armi russe) e
l’Iran (con la precisazione che Mosca non avallerebbe un’opzione nucleare militare di
Teheran). In altri termini: sembra che gli occidentali si accorgano del Putin “interno”
(che diventa allora Ivan il Terribile) soltanto quando il Putin internazionale (giudicato agli esordi quasi un emulo di Pietro il Grande) esce dai binari della cooperazione
pragmatica inaugurata dopo l’11 settembre e magari riscopre tentazioni “asiatiste” (ancorate fra l’altro a rapporti energetici crescenti con Cina, India e Giappone).
Detto tutto ciò, ammesso tutto ciò, resta quello che scrive Lilia Shevtsova: il regime politico che si sta configurando in Russia è un regime burocratico-autoritario. Meglio
non farsi troppe illusioni. Putin ha giustamente combattuto contro il “capitalismo oligarchico” dell’era Eltsin; ma la gestione del caso Yukos dimostra i rischi di un neostatalismo economico, che potrà in futuro frenare una crescita oggi drogata dagli alti
prezzi del petrolio. La delusione di German Gref, il ministro riformatore dell’economia,
è quanto mai indicativa. Putin è stato, nel suo primo mandato, un innovatore politico;
ma ha inaugurato il secondo con un colpo di freno autoritario, spostando tutto il suo
peso dalla parte dei siloviki (gli esponenti degli apparati di sicurezza), e diventandone
in qualche modo prigioniero.
Per le tesi ottimistiche, e per Putin stesso, si tratta di una fase necessaria: solo rafforzando il controllo centrale dello Stato, la Russia riuscirà a modernizzarsi, secondo una
via cilena o cinese modificata. Tutto – dalla risposta alla tragedia di Beslan alla repressione in Cecenia – serve a questo obiettivo. Per quelle pessimistiche, il pendolo si è
di nuovo e inesorabilmente spostato in senso restauratore. L’uomo forte della Russia, a
lungo così popolare, è in realtà più debole di quel che non si pensi. Per l’impatto delle
riforme sociali, Putin sta per la prima volta perdendo consenso.
Che fare, quindi? Scommettere sulla prima tesi, come in fondo preferirebbe la “vecchia”
Europa, ben conscia fra l’altro della sua dipendenza energetica dalla Russia? O condire la partnership strategica con Mosca, inclusa la prospettiva di un rapido ingresso della Russia nel WTO, di un buon grado di pessimismo, come in fondo preferirebbero i nuovi membri dell’Unione e la “lobby polacca” di Washington? L’incontro Bush-Putin a
Bratislava, nel febbraio scorso, ha dimostrato che neanche il presidente più “neocon”
dell’America riesce a fare a meno della realpolitik nei rapporti con la Russia.
Dal punto di vista europeo, la quadratura del cerchio è ancora più complicata. Anzitutto, perché ci siamo troppo a lungo cullati nell’idea di una eterna transizione della
Russia; può darsi che la transizione sia in realtà conclusa e che il punto di arrivo della nuova Russia non ci piaccia granché. Secondo, perché la gestione della crisi Ucraina ha dimostrato quanto – nel “vicino estero” comune – politica europea e interessi russi tendano ormai a collidere. In sostanza, la nuova Russia ha di fronte la nuova Europa dell’allargamento, per definizione meno conciliante. E questo spiega perché la
Russia divide, invece che unire: per Francia, Germania ed Italia, resta comunque es-
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senziale il rapporto bilaterale con Putin; per i paesi nordici, la promozione di valori democratici deve in certi casi prevalere sugli interessi economici; per i nuovi membri, la
Russia è ancora l’ex impero sovietico ristretto (o addirittura l’impero zarista).
La verità molto semplice è che Mosca resta, per l’Europa nel suo insieme, un partner
indispensabile. Da cui dipendiamo strategicamente (petrolio e gas). E da cui ci deriveranno, se la Russia non si stabilizzerà, rischi piuttosto che opportunità (in termini di
sicurezza nucleare, criminalità organizzata, migrazioni clandestine, spill-over di crisi
umanitarie). È un nostro interesse strategico, ormai molto diretto, che la Russia “tenga”; e che non imploda sotto il peso delle sue ferite interne – fra cui una situazione demografica spaventosa, che vede anche una riduzione delle aspettative di vita. Che la
ricetta di Putin sia la più adatta a raggiungere questo obiettivo è perlomeno dubbio.
Che esistano alternative facili o rapide è escluso. Che l’Unione Europea debba rivedere la propria politica è sicuro – partendo, come invita a fare questo numero di Aspenia,
da una discussione in qualche modo meno ipocrita sul momento politico della Russia.
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È più facile capire Bush 2, si direbbe, che Putin 2. Ed è più facile capire qual è il rischio,
dopo il viaggio europeo di un presidente poco amato in Europa: che la ricucitura a parole lasci sussistere divergenze nei fatti. Non è solo l’Iran o la scelta di come gestire i rapporti interni fra Stati Uniti ed Europa. È piuttosto il problema di come rispondere alla
fonte principale di pressione esterna, ossia l’ascesa di nuove potenze – la Cina anzitutto,
seguita da India e Brasile – nel sistema internazionale. Se guardiamo agli scenari futuri, alle gerarchie del mondo nel 2020, l’impero di mezzo sarà in ascesa; l’impero sui generis europeo sarà in declino – anzitutto per ragioni demografiche; l’ex impero sovietico
sarà ancora in difficoltà; l’impero “involontario” americano resterà dominante, ma sarà
a sua volta fortemente dipendente dall’esterno sotto il profilo finanziario ed energetico.
Facciamo finta per un momento che i responsabili politici decidano guardando al futuro. Se la tendenza sarà, come appare inevitabile, verso la diffusione del potere (economico, demografico, e quindi strategico), la politica internazionale tornerà verso il balance
of power. Le due alternative all’equilibrio di potenza restano quelle che Raymond Aron
identificava nel suo libro più famoso Pace e guerra tra le nazioni: “la paix par la loi e la
paix par l’empire”. In qualche modo, il dibattito transatlantico post 11 settembre si è mosso, nelle sue versioni estreme, fra questi due poli: il multilateralismo all’europea (un ordine fondato sul diritto internazionale); il momento unipolare degli Stati Uniti (un ordine egemonico occidentale). Da realista, Aron considera entrambe queste soluzioni meno
stabili e meno sostenibili nel tempo del balance of power.
Può darsi, guardando al futuro, che avesse ragione: se avrà avuto ragione, sarà la Cina, prima della Russia, a poter dividere l’Occidente.
Lucia Annunziata
Marta Dassù