Arte e Limite. La misura del diritto

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Arte e Limite. La misura del diritto
A

Le curatrici ringraziano Anne Prudence Collins e la Koinè s.a.s. per il contributo alla
realizzazione del volume. Sono grate a Maria Novella Campagnoli e Federica Vinci per il
lavoro redazionale svolto con attenzione e impegno.
Arte e limite
La misura del diritto
Atti del III Convegno nazionale della Società Italiana
di Diritto e Letteratura
Dipartimento di Giurisprudenza
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
- giugno 
a cura di
Agata C. Amato Mangiameli
Carla Faralli
Maria Paola Mittica
Contributi di
Agata C. Amato Mangiameli, Francisco Balaguer Callejón,
Roberto Bartoli, Antonio Cantaro, Vittorio Capuzza, Donato Carusi,
Felice Casucci, Valentina Colombo, Lorenzo Del Zoppo,
Alessandra Donati, Francesco Gandolfo, Peter Häberle,
Vincenza Mele, Maria Paola Mittica, Eugenio Picozza,
Giuseppina Restivo, Guido Saraceni, Claudio Sarzotti,
Guglielmo Siniscalchi, Angela Votrico
Copyright © MMXII
ARACNE editrice S.r.l.
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via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
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senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: settembre 
Indice
INTRODUZIONE
11
Contaminazioni. Tra diritto e opere dell’ingegno
AGATA C. AMATO MANGIAMELI
PARTE PRIMA – Diritto e Musica
19
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della
Costituzione come scienza della cultura
PETER HÄBERLE
47
Ragionevoli dissonanze. Note brevi per un possibile accostamento tra le intelligenze della musica e del diritto
MARIA PAOLA MITTICA
73
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
EUGENIO PICOZZA
121
Assalti Frontali. Giustizia e società nel rap italiano
GUIDO SARACENI
PARTE SECONDA – Diritto e letteratura
Il diritto come letteratura…
135
Poesia e legge
ROBERTO BARTOLI
5
6
157
Narrazione e finzione nella scienza giuridica moderna
ANTONIO CANTARO
169
Ensaio sobre a cegueira. L’analogia come misura del giuridico
DONATO CARUSI
179
“La verità, vi prego, sull’amore”. A proposito dell’educazione
giuridica
FELICE CASUCCI
…Il diritto nella letteratura
207
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
VALENTINA COLOMBO
235
Verità e certezza nel diritto e nella letteratura
FRANCISCO BALAGUER CALLEJÓN
251
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
GIUSEPPINA RESTIVO
PARTE TERZA – Diritto e arti figurative
Tra antico…
289
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
FRANCESCO GANDOLFO
…e contemporaneo
329
Misure del diritto per l’arte nei luoghi pubblici
ALESSANDRA DONATI
345
Il carcere e la dis-misura della pena. Una ricerca sulle locandine cinematografiche dei prison movies
CLAUDIO SARZOTTI, GUGLIELMO SINISCALCHI
7
PARTE QUARTA – Qualche altro spunto…
371
Ius est iungere et decidere
VITTORIO CAPUZZA
385
Un genere di film, un paese oltre misura
LORENZO DEL ZOPPO
411
Le ragioni della mente e le ragioni del cuore: suggestioni dalla
lettura del libro La custode di mia sorella di Jodie Picoult
VINCENZA MELE
421
Anamorfosi del mito. Il dissacrante nichilismo di Friedrich
Dürrenmatt
ANGELA VOTRICO
INTRODUZIONE
Contaminazioni.
Tra diritto e opere dell’ingegno
AGATA C. AMATO MANGIAMELI
Per introdurre il nostro tema muovo dal fastidio, e qualche volta
tormento, che gli studi giuridici assai spesso suscitano.
Alla erudizione giuridica mi sento poco adatto
sostiene lo studente e Mefistofele replica
E io non saprei troppo biasimarvi, so come van le cose in questo campo. I diritti
e le leggi si tramandano come una malattia che non ha fine, arrancano da una
generazione all’altra, da un luogo all’altro, cauti. La ragione diventa assurda, il
beneficio danno; se sei l’ultimo nato, guai a te! Del diritto che nasce insieme a noi,
purtroppo, non si dice una parola.
La ripugnanza dello studente non è che l’espressione dell’astio di
Goethe contro la scienza del diritto.
Ma la storia, dell’arte, della letteratura, della musica, custodisce
molte altre testimonianze. Un lungo elenco di uomini costretti agli
studi di diritto ed una ricca serie di sospiri – e, a volte, persino di
maledizioni – verso una scienza illiberalissima e contro libri
spaventosissimi. Il Corpus iuris civilis è per Heinrich Heine la bibbia
del diavolo, e per qualche altro un “incubo sul cuore”. Qualche altro
ancora esprime la propria avversione con ironia. Anche gli uscieri di
Tribunale concorrono allo scherno della scienza giuridica: Honoré
Daumier – per l’appunto apprendista usciere – nella sua celebre serie
di disegni si fa beffe di avvocati e di giudici.
12
Agata C. Amato Mangiameli
Così, talvolta la scienza del diritto – come spiega Hoffmann –
convive con altre inclinazioni e talaltra, invece, viene abbandonata:
Novalis studia diritto e si decide per la poesia: verità sublime e
piacevole inganno, Schumann studia diritto e sceglie la musica. Molte
volte teoria e pratica del diritto sono trattate con durezza, poche con
mitezza. Mite è certo Flaubert quando osserva: “se la mia mente fosse
sviluppata in modo più potente, allora lo studio giuridico non mi
avrebbe reso malato dalla noia; invece che miseria, ne avrei tratto
beneficio”.
Nomi di artisti, di filosofi, di giuristi. E le artiste, le filosofe, le
giuriste? Vorrei dire: poche, rare, nessuna. Si sa, l’arte e la filosofia si
occupano di universali, e le donne invece del particolare e del finito,
almeno sin tanto che non hanno avuto denaro, cibo ed una stanza tutta
per loro (una stanza tutta per loro se desiderano scrivere romanzi,
sosteneva Virginia Woolf). D’altra parte, il diritto – che certo dà senso
al particolare e al finito – richiede che nelle aule universitarie e nelle
aule di giustizia chi parla di diritto deve godere dei diritti (politici e
civili). Così qualcuna si traveste o si copre con un velo (come Bettisia
Gozzadini e Novella, e forse anche, Bettina D’Andrea), qualche altra
dona le proprie interpretazioni (è, questo, il caso di Harriet Taylor
Mill) e altre ancora finalmente si laureano in giurisprudenza e poi
semplicemente attendono. È il caso di Lidia Poet, laureatasi nel 1881,
alla quale una sentenza della Corte d’Appello, e in seguito della
Cassazione di Torino, nega il diritto di esercitare la professione, in
quanto le donne, non godendo dei diritti politici e in parte di quelli
civili, non possono svolgere funzioni di arbitro, né alienare beni o
comparire in giudizio. Ma è anche il caso di Anita Augsburg,
laureatasi nel 1897 (Università di Zurigo), alla quale viene concesso
di esercitare la professione legale soltanto nel 1922 (25 anni dopo la
laurea), e comunque prima che l’ascesa al potere di Hitler mettesse un
freno alle aspirazioni professionali di quelle poche donne che
svolgevano la libera professione.
Al di là dei nomi, maschili e femminili, la scienza del diritto è
guardata con sospetto sia dagli uomini che dalle donne. In quanto
scienza, vive di quel freddo intelletto che disturba i cuori, produce
ferite, annoia l’artista. Difficilmente è arte del diritto. In quanto
diritto, vive di quell’accidentale positivo che umilia la ragione,
Contaminazioni. Tra diritto e opere dell’ingegno
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produce carta straccia, irrita lo scienziato. Difficilmente è scienza del
diritto.
Solo al crocevia, né arte e neppure scienza, il diritto non sembra
godere di buona salute. Sarà anche per il fatto che alla sua scienza non
gli si adatta neppure quella errata credenza che divide gli uomini di
scienza, lì per istruirci, dai poeti e dai musicisti, lì per rallegrarci.
Sottolineava Wittgenstein: “che questi ultimi abbiano qualcosa da
insegnare, non viene in mente”.
Campi così distanti da sembrare antitetici: perché allora sempre più
spesso si parla di arte, musica, letteratura e diritto?
Per rispondere, un primo spunto è offerto dall’improvvisazione
musicale. Essa non coincide con il regno della libertà spontanea: il
jazz con quei suoi suoni inauditi, di cui parla Sparti, ad esempio, non
è forma d’arte primitiva e intuitiva che elude i processi cognitivi. Al
contrario, se i musicisti sono capaci di improvvisare, è perché
conoscono le regole e i materiali della loro disciplina, tanto da potersi
permettere di trasgredirli in modo creativo. Vincoli e competenze: il
jazzista non sa in anticipo quali idee genererà nel corso
dell’esecuzione, né può in una performance improvvisata tornare
indietro. Può però rivolgersi a quello che è stato già suonato (da lui o
da altri), ed estenderlo, creando così delle forme retrospettivamente.
In altri termini, nell’improvvisare e nell’accostarsi a un brano, non
si parte da zero ma sempre da uno sfondo di anticipazioni che
dischiudono un orizzonte di possibilità. Il rapporto col nuovo, come
ricostruiva Adorno nella sua Teoria estetica, ha il suo modello nel
bambino che preme i tasti del pianoforte alla ricerca di un accordo mai
ancora ascoltato. Ma l’accordo c’è sempre stato, le possibilità di
combinazione sono limitate, anzi, da un certo punto di vista, si può
dire che tutto è già nella tastiera.
E il diritto? Si consideri il compito del giurista. Tra il costruito e il
costruibile, egli ricerca la giustizia sciogliendo le diverse opposizioni,
quelle che, ad esempio, si danno tra l’individuale e l’universale, come
pure tra il concreto e l’astratto. In altri termini: il diritto prescrive, ma
la lettera della legge perché sia applicata va interpretata; e già il
termine interpretazione – e il giurista davanti alla legge innanzitutto
interpreta – mostra tutta la sua problematicità. Ogni cosa, semplice o
complessa, va letta; ed ogni lettura, oggettiva o soggettiva, può
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Agata C. Amato Mangiameli
destare controversie e disaccordi. Sia l’azione sia la disposizione
possono essere lette ora in un modo, ora in un altro.
Per di più, l’interpretazione giuridica – a differenza di quella
filologica – non è semplicemente mera riflessione su una cosa pensata
in un preciso momento, la volontà del legislatore non è la volontà
dell’autore. Essa è piuttosto un contenuto, è una volontà in continua
evoluzione che risponde a nuove necessità, a nuove condizioni e a
nuove questioni giuridiche. E vi risponde proprio grazie al susseguirsi
delle diverse interpretazioni, tutte ugualmente giustificate e molte
sfuggite a ogni previsione: cosa tesse non lo sa nessun tessitore.
Il che significa ancora: se è vero che ciò che distingue il diritto (e il
diritto positivo) dal non-diritto si può certo ricavare in prima ed
essenziale istanza dall’ordinamento, è altrettanto vero che l’esperienza
giuridica ha una sua specificità rispetto ad altre forme co-esistenziali
(ad esempio, la politica,…) che l’interprete è chiamato a porre in luce.
Qui, proprio qui, letteratura e diritto si intrecciano. I miti e i grandi
archetipi della letteratura ci parlano dell’origine e del destino del
diritto. Mosè, Eschilo, Sofocle – come sottolinea Ost – ci parlano
della consegna delle tavole della legge, dell’invenzione della giustizia
e poi ancora della ribellione della coscienza e dell’obiezione.
A proposito del rapporto che si dà fra letteratura e diritto, uno
spunto di riflessione è offerto dalla bella prosa. Essa è tale – bella
prosa appunto – solo se la forza delle parole comuni lì adoperate non
risiede solo nell’assertività delle parole isolate, ma è frutto del loro
reciproco rispecchiarsi. Il che significa, l’uso della parola è qui
sempre a metà strada tra la banalità e l’imprecisione: la parola non
può esprimere soltanto la lingua, se così fosse si tratterebbe di parola
banale; al contempo, però, la parola non può neppure allontanarsi
dalla lingua, se così fosse si tratterebbe di parola imprecisa. D’altra
parte, non è nemmeno la parola narcisistica, risultato di autoconvinzioni e auto-compiacimenti, a determinare la bellezza della
prosa. Se così fosse si tratterebbe di parola, forse stupefacente e
sorprendente, e tuttavia senza legami e priva di vincoli. Diversamente,
la prosa è tale – cioè bella, vitale, forte, straordinaria – nel momento
in cui ciascuna idea proposta tratteggia meravigliosamente ogni altra
idea ed il linguaggio con scintillii divini trasforma e crea qualcosa di
assolutamente nuovo. Si tratta di una creazione che, con attività
Contaminazioni. Tra diritto e opere dell’ingegno
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ordinaria, dice sì all’attività libera della parola. Ecco allora apparire la
bellezza!
Il diritto è da tutto ciò decisamente distante. Non a caso Radbruch
sottolinea che “violentemente separate da paragrafi e capoversi,
stanno le singole norme l’una accanto all’altra” e che “il piacevole
flusso del discorso è estraneo al linguaggio giuridico”. E tuttavia, se si
parla delle leggi, delle nostre leggi, anziché di formule (vuote) e di
pregevoli giochi da legulei, non si può fare a meno di riconoscerle
vive, perché dentro quelle formule circola il pensiero del nostro
tempo, entra l’aria che respiriamo e con essa i nostri propositi, i nostri
sacrifici, le nostre speranze. Che le leggi incantino, affinché siano
amate, e proprio perché amate, vengano obbedite!
Il diritto predispone per dir così lunghi elenchi, di diritti e di
doveri, di pretese e di rinunce, di azioni e di reazioni, e nel frattempo
che comanda, autorizza, permette, deroga, vieta…, ed il giurista vi si
accosta ricercando – tra la tradizionale opera di comprensioneadattamento dello ius conditum e l’audace progettazione dello ius
condendum – i criteri di giustificazione dell’obbligatorietà normativa.
Chi non sia un accanito sostenitore della sacralità della forma
riconoscerà che per comprendere non è sufficiente rinviare alla
legittimità e alla correttezza dell’ordine, né alla prassi giuridica, visto
che questa muta e quegli stessi comandi (autorizzazioni, permessi,
deroghe, divieti) suscitano rispetto o, al contrario, dissenso e
risentimento. Tutto sta a vedere, infatti, se la (mia) aspettativa, la
(mia) inclinazione e il (mio) fine, siano condivisi, possano essere presi
sul serio e rispettati, o semplicemente tollerati, oppure debbano essere
negati. Ciò suggerisce di trattare il diritto, non a partire da logiche
meramente contingenti – perché resterebbe l’eterna contesa di valori e
culture, di diritti e ragioni, ed ogni forma di vita si farebbe strada
difendendo le proprie posizioni e combattendo le altre –, bensì a
partire da quel fine comune che è l’ampia e durevole intesa su ciò che
è giusto e ingiusto, che è bene e male. Solo così, legati e subordinati
ad un sistema obiettivo e pacificante di regole, galoppiamo attraverso
il mondo e ci gridiamo l’un l’altro messaggi divenuti …sensati.
Sia detto in breve e per concludere: gli uomini hanno bisogno delle
attività superiori, dei pittori, dei poeti, dei musicisti, degli scrittori,
degli scultori – vale a dire degli artisti – perché senza di essi la
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Agata C. Amato Mangiameli
vicenda che interpretano e raccontano non potrebbe sopravvivere. Per
essere infatti ciò che il mondo ha sempre rappresentato, dimora per gli
uomini, la sfera artificiale umana deve costituire uno spazio adeguato
per l’azione e per il discorso, per quelle attività non legate alla
necessità della vita, ma anche di natura completamente differente
dalle molteplici attività di fabbricazione, grazie alle quali viene
prodotto il mondo e tutte le cose che vi si trovano.
In questa sede, con Arendt, potremmo dire di non aver bisogno “di
scegliere fra Platone e Protagora, o di decidere se sia l’uomo o un dio
misura di tutte le cose; ciò che è certo è che la misura non può essere
né l’impellente necessità della vita biologica e del lavoro, né lo
strumentalismo utilitaristico della fabbricazione e dell’uso”. E sempre
in questa sede potremmo dire che il diritto, in quanto regola, insieme
di regole, e quindi insieme di doveri e garanzia di diritti, presta
all’arte quella fondamentale protezione di coloro che – come
osservava Voltaire – aprendo vie nuove si condannano (come pesci
volanti) alle fiere. E con l’arte il giurista porta nelle impassibili aule di
giustizia l’irrequieto fervore di chi ricerca certezza, giustizia, verità,
tre grandi parole, parole usate di continuo dagli uomini, dalle
comunità, dai sistemi di pensiero, e che riaffiorano ogni volta che il
giurista si avvicina con rispettoso desiderio di comprensione al caso
individuale, che non è comparabile con alcun altro, non fosse altro
perché ogni creatura umana è unica, ogni gioia e ogni dolore sono
nuovi.
PARTE PRIMA
Diritto e Musica
Musica e “diritto” all’interno del dibattito
della dottrina della Costituzione
come scienza della cultura
PETER HÄBERLE
SOMMARIO: Introduzione. – 1. Prima parte: Un quadro teorico di riferimento. – 2. Seconda
parte: Musica e “diritto” – “Stato costituzionale”. – 2.1. Musica. Un inno alla musica dalla
penna di un dilettante o piuttosto di un costituzionalista. Sette prospettive. – 2.2. “Diritto”.
– 2.3. Aspetti di una storia della musica alla luce dello sviluppo dello “Stato costituzionale”. – 3. Terza parte: Ambiti di riferimento, forme espressive. – 3.1. Inni nazionali. –
3.1.1. Indice delle questioni. – 3.1.2. Aspetti di un’analisi musicale delle melodie degli inni nazionali. – 3.1.3. L’ideale livello testuale di un inno nazionale di uno Stato costituzionale. L’articolo sull’inno previsto dalla Costituzione. “Inni costituzionali”. – 3.2. Preamboli di Costituzioni. – 3.3. Interpretazione della Costituzione – Interpretazione dei testi
giuridici. – 3.4. Lingua e Musica – loro relazione nel “diritto”. – 3.5. “Musicisti-Giuristi”.
– 3.6. Questioni sul diritto d’autore. – 3.7. Ulteriori forme d’espressione nate dalla connessione di “musica e diritto”. – Prospettive future.
Introduzione
“Prima la musica – poi le parole” – questa famosa tesi è stata a
Vienna al centro della diatriba fra Salieri e Mozart. Possiamo oggi
osare riformularla: Prima la musica – poi il diritto? Già in Platone il
rapporto fra musica e Stato era un tema tipico. Oggi lo incontriamo
quasi quotidianamente: ad esempio, nel Kosovo diventato indipendente, la Nona di Beethoven – quasi come un inno nazionale europeo – è
stata festeggiata insieme al testo costituzionale in Parlamento, e più in
generale il tema si ripropone ogniqualvolta nei diversi paesi in giorni
festivi si intonano gli inni nazionali.
L’incontro di oggi si occuperà anche di Letteratura e diritto (ne
parlerà insieme ad altri il Prof. Balaguer). Si tratta di un tema che è
ormai diventato centrale e che io ho studiato nel 1981 nel libretto Das
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Peter Häberle
Grundgesetz der Literaten. Entrambi i temi, musica e diritto da una
parte, letteratura e diritto dall’altra, sono come le due ante di un unico
e grande “altare”, quello della Costituzione come cultura.
1. Prima parte: Un quadro teorico di riferimento
Il tema “Musica e Diritto” può essere trattato solo all’interno del
dibattito che è iniziato nel 1982 e che è progredito nel 1998 con la discussione sulla dottrina della Costituzione come scienza della cultura.
Da quella piattaforma programmatica sia ripetuto il seguente principio1: riscritture, testi, sistematizzazioni e procedimenti meramente
giuridici non sono sufficienti. La Costituzione non è solo un ordinamento giuridico interpretabile da giuristi secondo vecchie e nuove regole: essa opera essenzialmente come guida per non giuristi, e cioè per
i cittadini. La Costituzione non è soltanto un testo giuridico o “un libro di regole” normative, è anche l’espressione della condizione culturale, il mezzo di rappresentazione, lo specchio del patrimonio e il fondamento delle speranze di un popolo. Le Costituzioni viventi, quali
creazioni di tutti gli interpreti della società aperta, sono per forma e
per sostanza soprattutto espressione e trasmissione di cultura, cornice
per la (ri-)produzione e per la ricezione culturale, deposito di tradizionali “informazioni”, di esperienze, di avvenimenti e di saperi2. La loro
validità è quindi profonda, ovvero culturale. In modo molto bello ciò è
espresso da un’immagine di Goethe usata da Hermann Heller: la Costituzione è “forma creata, che si sviluppa vivendo”.
Da un punto di vista giuridico un popolo ha una Costituzione, ma
se osservato da prospettiva culturalmente più ampia un popolo è in
(più o meno) buona costituzione! L’adesione ad una Costituzione, il
suo radicamento nell’etica dei cittadini e nella vita collettiva, l’essersi
sviluppata assieme al soggetto politico collettivo (ecc.), tutto questo
abbisogna sì di determinate norme giuridiche come condizioni necessarie, ma non garantisce ancora il “reale” hic et nunc di uno Stato co1
Cfr. P. HÄBERLE, Verfassungslehre als Kulturwissenschaft (1982, 19 s.), Berlin 1998, 83
s. e sulla musica si veda 512 ss. (trad. it., Per una dottrina della Costituzione come scienza
della cultura, Roma 2001).
2
Il concetto di “Costituzione” è utilizzato in senso antropologico e etnologico, nongiuridico, da B. MALINOWSKI, Eine wissenschaftliche Theorie der Kultur (1941), Frankfurt a.
M. 1975, 142.
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
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stituzionale (il giuridico è solo un aspetto della Costituzione come cultura). Se si sia riusciti a rendere effettivo lo Stato costituzionale, lo si
può comprendere solo ponendo domande del tipo: c’è un consenso costituzionale vivo? Il testo giuridico-costituzionale ha un equivalente
nella “cultura politica” del popolo? Le parti della Costituzione che regolano specificatamente gli aspetti giuridico-culturali sono traducibili
nella realtà in modo tale da permettere al cittadino di identificarsi? In
altri termini: la realtà giuridica dello Stato costituzionale è solo un lato
della realtà di una “Costituzione vivente” che ha – più ampiamente e
profondamente – una natura culturale. I testi costituzionali devono letteralmente essere “coltivati” per divenire Costituzione.
2. Seconda parte: Musica e “diritto” – “Stato costituzionale”
2.1. Musica. Un inno alla musica dalla penna di un dilettante o piuttosto di un costituzionalista. Sette prospettive
Non domandatemi del concetto e dell’essenza della “musica”: essa
non è solo “forma sonora in movimento” (E. Hanslick). Lasciatemi
però qui ricordare che un Lied (per esempio: Lieder ohne Worte di F.
Mendelssohn) si può presentare in forme diverse, sino al ForellenQuintett di F. Schubert o alle colonne musicali di N. Rota. Si ricordi
pure la tradizione di musiche religiose, dal canto gregoriano, attraverso la scuola di Notre-Dame intorno al 1200, fino a M. Lutero.
Non si può rinunciare a spendere qualche parola sulla musica come
arte dell’uomo e per l’uomo, quando ci si prepara a introdurre da un
punto di vista teorico-costituzionale, e quindi culturale, il tema degli
inni nazionali3 nel modello dello Stato costituzionale. Certo, trattereb3
Sulla storia della parola e sulla storia culturale degli “Inni”: Meyers Großes
Universallexikon, Mannheim 1982, voce Hymne. Vedi anche voce Hymnologie, in Die Musik
in Geschichte und Gegenwart, IV, seconda edizione, Kassel 1996, 459 ss.; voce Hymnus, ivi,
464 ss. (con molti esempi). Meyers Enzyklopädisches Lexikon in 25 Bänden, XVI, nona
edizione, Mannheim 1976, 780: “vennero dichiarati Inni nazionali canti di lotta religiosi
medievali, inni reali, inni alla libertà e rivoluzionari, canti popolari patriottici, marce militari,
pezzi tratti da opere teatrali o nuove composizioni”. Brockhaus Enzyklopädie in 24 Bänden,
XV, diciannovesima edizione, Mannheim 1991, a pagina 351 si dice degli Inni nazionali: “in
seguito alla rivoluzione francese, dalla prima metà del XIX secolo si diffusero i canti
patriottici, in genere melodie popolari, che esprimevano la coscienza nazionale, suonati e
cantati in occasioni pacifiche, politiche e sportive, e quindi divenuti parte del protocollo
ufficiale”. Dalla letteratura recente cfr. H.D. SCHURDEL, Nationalhymnen der Welt –
22
Peter Häberle
be il tema in modo professionale soltanto un musicologo ovvero il critico – la disciplina4 è fiorente proprio in Germania e va da F. e J.A.P.
Spitta fino a E. Hanslick, da Alfred Einstein5 fino a J. Kaiser. L’autore
può in questo campo solo dilettarsi e farsi riconoscere in quanto amante e pratico di musica. Goethe diceva: “l’arte si dà delle leggi e le impone all’epoca, il dilettantismo segue la tendenza dell’epoca”. Ma
all’età dell’autore qualcosa può forse essere permesso. Senza dubbio,
non può richiamarsi ai molti compositori che hanno cominciato come
giuristi: da R. Schumann6 fino a I. Stravinskij7 o a P.I. Tchaikovsky8,
o a quelli che addirittura osarono una doppia esistenza, è il caso di
E.T.A. Hoffmann9. Le pagine seguenti sono sorrette in modo piuttosto
“ingenuo” solo dall’amore per la musica. Esso ha mosso nientemeno
Entstehung und Gehalt, Zurich 2006. Non molto significativo, voce Hymnen, Lexikon der
Kunst, III, Leipzig 2004, 372. È sorprendente che molti altri lessici omettano il tema: per
esempio Staatslexikon der Görres-Gesellschaft, settima edizione, Freiburg 1987, così pure
Handwörterbuch der Sozialwissenschaften, Stuttgart 1956, o il Lexikon der
Politikwissenschaft (Hrsg. von D. NOHLEN u.a.), Munchen 2002, o il Politiklexikon di E.
HOLTMANN, terza edizione, Munchen 2000. Per ulteriori considerazioni P. HÄBERLE,
Nationalhymnen als kulturelle Identitätselemente des Verfassungsstaates, Berlin 2007, 65 ss.
4
La musicologia tedesca gode fino a oggi di grande considerazione: si pensi a T. ADORNO
o più recentemente a G.-S. MAHNHOF. Tre riviste sono fortemente vivaci: Musik-Konzepte,
Musik-Texte e Musik und Ästhetik.
5
Sua la rielaborazione di Das neue Musikalexikon, Berlin 1926.
6
Prove e indicazioni dettagliate in H. WEBER, Recht, Literatur und Musik - Aspekte eines
Themas, in Literatur, Recht und Musik, a cura di H. WEBER, Berlin 2007, 1 ss. (2 s.
“Musikerjuristen”: particolarmente su R. Schumann (pagina 3, note 5-9)). – R. SCHUMANN,
Schriften über Musik, Stuttgart 1982. Sull’inizio degli studi di diritto a Lipsia nel 1818 e sul
proseguimento degli stessi studi a Heidelberg (presso Thibaut e Mittermaier) 1829, vedi
anche A. BOUCOURECHLIEV, R. Schumann in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Reinbek
1974, 24 ss. Sugli studi di diritto a Lipsia e Heidelberg e sul loro abbandono, così come
sull’inizio degli studi di musica a Lipsia nell’autunno del 1830, vedi anche K.H. WÖRNER, R.
Schumann, Zürich 1949, 29-45.
7
Inizio degli studi di diritto nell’Università di San Pietroburgo nel 1902 e conclusi nel
1905, cfr. V. SCHERLIESS, Strawinsky und seine Zeit, Laaber 2002, 14.
8
E. HELM, Tschaikowsky in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Reinbek, 1983, 22 ss.
(ingresso nella scuola di diritto di San Pietroburgo nel 1850; con il grado di consigliere
titolare nel maggio 1859 lascia la scuola di diritto e diventa impiegato del Ministero della
giustizia; nel 1862 entra al conservatorio di San Pietroburgo per studiare musica e nel 1863 si
ritira dal pubblico impiego). Vedi anche E. GARDEN, Tschaikowsky – Eine Biographie,
Frankfurt a. M. 1998, 17 ss. (in particolare 21 sull’impiego come segretario amministrativo al
Ministero della giustizia e pag. 24 sul suo ritiro dal Ministero).
9
Nella letteratura recente K. KASTNER, E.T.A. Hoffmann – Jurist, Dichter und Musiker, in
Literatur, Recht und Musik, cit., 72-88. Per ulteriori considerazioni H. WEBER, Recht,
Literatur und Musik – Aspekte eines Themas, cit., 2 (soprattutto nota 4). Vedi anche H.
STEINECKE, Die Kunst der Phantasie, Frankfurt a. M. 2004.
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
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che L. v. Beethoven10 a una frase ormai classica: “la musica è ben più
alta saggezza rispetto ad ogni rivelazione e filosofia” e ha ispirato
Schubert a comporre un canto An die Musik come “arte incantevole”.
Se con H. Prantl si riconosce nella Costituzione persino una “dichiarazione d’amore a un paese”11, allora un costituzionalista può occuparsi
della musica almeno tanto quanto si occupa con mezzi ovviamente
professionali della Costituzione (ad esempio, del suo inno nazionale).
Ci si ricordi la frase di Shakespeare: “Se la musica è l’alimento
dell’amore (…)”. Con queste poche indicazioni si consideri preparato
il terreno, sul cui humus può prosperare anche il tema “Stato costituzionale e musica”, e più precisamente quella speciale filiazione degli
“inni nazionali”.
In particolare:
1. La musica12, in tutte le sue forme: dalla corale fino al “Lied”, dal
quartetto di archi sino all’opera, dall’oratorio fino all’inno nazionale,
penetra nel modo più immediato nell’anima dell’uomo, nella sua sensibilità. Tocca l’anima come probabilmente nessun’altra forma d’arte
(al più, altrettanto intensamente, la toccano la lirica di Goethe Wanderers Sturmlied13 o di F. Hölderlin – Wie wenn am Feiertage, Friedensfeier, Patmos –, e forse anche i canti di Omero). Innanzitutto la musica non è da “pensare”, ma da sentire. La musica prende l’uomo letteralmente come un tutto: dalla testa sino al cuore e alcune volte fino ai
piedi (per esempio nel ballo). Se si includono nella prospettiva di una
storia degli Stati costituzionali anche altri canti oltre agli Inni nazionali – la canzone del cantante Pop J. Brown morto nel 2006, in quanto
canto del movimento dei cittadini neri negli USA14, gli inni di lotta
della socialdemocrazia tedesca (Brüder zur Sonne) o dei comunisti, e
ancora i diversi canti religiosi delle processioni (animate da inni) cattoliche –, diviene immediatamente riconoscibile che la musica può incidere su molte attività e su molti processi dei singoli uomini e delle
10
A questo proposito B. WECK, “Euch werde Lohn in besseren Welten!” – L. van
Beethoven und die Entwicklung moderner Menschenrechts- und Verfassungsutopien, in
Literatur, Recht und Musik, cit., 48-71.
11
H. PRANTL, Ein deutscher Liebesbrief, SZ n. 238 del 16.10.2006, 8.
12
Presto un classico: H. MAIER, Cäcilia, Essays zur Musik, Frankfurt a. M. 1998/2005.
13
H. WALWEI-WIEGELMANN (Hrsg.), Goethes Gedanken über Musik, Frankfurt a. M.
1985.
14
A questo proposito SZ del 27 dicembre 2006, pag. 13: “In lui tutto diveniva ritmo: per
la morte di J. Brown, il padrino del Soul”.
24
Peter Häberle
loro forme socializzate (si pensi alla Marcia15). La musica ha quindi
una parte o una funzione profondamente personale, ma può anche
svolgere la funzione di costituire una comunità e di integrare. Si pensi
ai concerti Jazz e Rock16 (“Woodstock”), o agli inni calcistici (come
nel 2006), o al Chartshow “The Dome”, ma si pensi anche
all’incantesimo, almeno momentaneo e unicamente spirituale, di “una
grande quantità di gente” attraverso la musica: nella sala dei concerti
del Wiener Musikvereins o della Berliner Philarmonie17. Il Requiem
da Mozart fino a Verdi ha come tema il morire e la morte, e possiede
la sua forma propria. La musica si mostra così come una costante culturale e antropologica, ma anche come una variante umana in spazi
culturali differenti. Nella sua forma attuale, lo Stato costituzionale accorda tutto questo spazio. Di tanto in tanto pone la musica direttamente al suo servizio: appunto nella forma degli inni nazionali (e al tempo
dell’assolutismo nella forma delle commissionate18 “Festoper”).
2. Il “potere” della musica è oggi tendenzialmente universaleastratto-immateriale e al tempo stesso emotivo/concreto. Questa quasi
“santa” combinazione di elementi opposti può essere prospettata con
una riserva. Di certo, la musica occidentale (con i suoi inizi nel canto
gregoriano, così come nella notazione musicale di G. d’Arezzo) oggi
ha una rilevanza pressoché universale: l’arte di Beethoven è riconosciuta sia in Giappone sia in Cina. Il contrario non si dà quasi mai: a
un europeo appare molto difficile la comprensione della musica cinese, araba o tibetana. È più facile l’accesso a forme di espressione musicali latino-americane, in particolare quelle del Brasile, paese della
musica (Jobim, Villalobos). L’inno nazionale cinese è piuttosto occidentale. Difficilmente sopportabile appare “l’opera di Pechino”.
15
S. GIESBRECHT, “Lieb’ Vaterland, magst ruhig sein” – Musik und Nationalismus im
deutschen Kaiserreich, in H. LÜCK/D. SENGHAAS (Hrsg.), Vom hörbaren Frieden, Frankfurt a.
M. 2005, 413 ss. (pag. 429 ss. sulla “onnipresenza della marcia”). Anche di Mozart si parla di
una sua “propensione alla marcia” (G.R. KOCH, in FAZ del 23 giugno 2006, 46).
16
Dal punto di vista giuridico, in particolare sulla “direzione musicale” del Rock & Roll,
si veda la ricerca di M. RONELLENFITSCH, Rock & Roll und Recht, Stuttgart 1998.
17
Felice l’espressione di W. SCHREIBER, Ton der Nation, SZ del 20 febbraio 2007, 11:
“anche il luogo fa la musica”.
18
Il mio Die Geburt der modernen Staatsmusik, in E. BUCH, Beethovens Neunte – Eine
Biographie, München 2000, 19 ss. Si disegna “una prima teoria di inno nazionale voluto dallo
Stato” (pag. 23) e si parla dell’opera musicale come “catalizzatore dell’unità nazionale”. Vedi
anche pag. 30 sulla Marseillaise e su God Save the King quali modelli di inni nazionali
moderni.
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
25
3. La musica ha la forza di superare i confini dei continenti e delle
nazioni. Ci sono però anche specifiche sfumature nazionali che la storia della musica ha prodotto nel corso del tempo. Così Stravinsky poteva qualificare come “particolarmente russo” Tchaikovsky, a suo
tempo considerato e criticato come “occidentale”. C’è quindi una
“scuola russa”, da Scriabin (1872-1915) fino a Schostakowitsch, caratterizzata da ritmi specifici e da strumentalizzazione sua propria. La
musica francese, da M. Ravel fino a C. Debussy, e anche E. Satie e E.
Poulenc, è egualmente congeniale all’impressionismo francese in pittura. D’altra parte, non è a caso che l’opera sia nata in Italia (Monteverdi, 1607). G. Verdi ha composto col Nabucco19 in un certo senso
un’opera nazionale-italiana, e non solo nel “coro degli schiavi”. È noto poi che l’opera tedesca ha inizio con il Freischütz di C. M. v. Weber20. Tuttavia, nella produzione artistica la capacità di superare i confini è ancora più creativa: Mozart compose la Marcia turca, J. Brahms
le Danze ungheresi, lo stesso J.S. Bach apprese da maestri italiani (Palestrina e A. Vivaldi) e poi compose le Suite inglesi. Il carattere nazionale della musica (come ad esempio quella andalusa) e l’idoneità a
varcare i confini non si escludono quindi a vicenda. Si pensi a La
Moldava di B. Smetana e a Finlandia di J. Sibelius, nelle quali sono
espresse la nostalgia della patria e il desiderio di indipendenza nazionale (Sibelius motivava così la sua fama di compositore nazionale).
Tutto ciò diviene rilevante anche per la comprensione degli inni
nazionali. Questi possono affascinare tutta l’Europa e addirittura il
mondo intero, come la Nona di Beethoven in combinazione con l’Ode
di F. Schiller. Qualcosa di simile vale anche per gli “inni personali”,
l’Happy birthday americano o la canzone di Natale (ci sono anche altre canzoni natalizie) Stille Nacht. Gli inni nazionali esigono altrove
rispetto, anche se sotto il profilo musicale non sono comparabili, poi19
Su Verdi – Nabucco – opera nazionale, U. BERMBACH, Opernsplitter – Aufsätze.
Essays, Würzburg 2005, 117 ss. (“oh, mia patria sì bella e perduta” – Su potere e impotenza
nel Nabucco (in part. 118: “I fini (…) erano per Verdi: l’indipendenza nazionale dell’Italia, la
cosa migliore se stabile, se possibile istituzioni repubblicane (…)”). ID., Über Leichen geht
der Weg zur Macht – Gesellschaftliche und politische Aspekte in Giuseppe Verdis Opern, in
ID., Wo Macht ganz auf Verbrechen ruht – Politik und Gesellschaft in der Oper, Hamburg
1997, 146 ss. Infine E. SCHMIERER, Kleine Geschichte der Oper, Stuttgart 2001, 150 ss.
(“Verdi deve la sua fama non da ultimo al fatto che la sua vita e la sua produzione artistica
sono strettamente collegate al risorgimento e con il movimento di unità e di libertà italiano”).
20
U. BERMBACH, Freikugeln für die Freiheit – Zu Webers Der Freischütz, in ID.,
Opernsplitter – Aufsätze. Essays, cit., 109 ss.
26
Peter Häberle
ché sono creazioni di una propria cultura nazionale, e meglio di una
nazione con la sua cultura, e perché sono interiorizzati da un popolo,
pur nell’alto livello di astrazione tipico della musica.
4. La musica si contraddistingue attraverso il suo specifico rapporto con il tempo. Si tratta dell’unica arte (accanto alla poesia) che si costituisce realmente solo e soltanto nel tempo. Ha un “inizio sonoro”
(per esempio: Ouverture, Preludio) e un finale riconoscibile (per
esempio “Finale” o “Coda”). Tutte le altre arti rimandano, con
l’esclusione della letteratura, a un carattere spaziale: si pensi alla pittura bidimensionale o all’architettura e alla scultura (arti plastiche) tridimensionali – Lessing ha nel suo Laocoonte separato pittura e poesia
l’una dall’altra. Certo, si è tentati di trarre analogie con la Costituzione
vivente. Questa opera nel tempo e lascia che il tempo abbia effetto in
modo analogo e altamente differenziato (dalla “revisione totale” fino
alla “raffinata” forma dell’opinione dissenziente dei tribunali costituzionali, negli USA e in Germania, purtroppo non ancora a Roma).
Spesso le Costituzioni contengono preamboli, culturalmente comparabili ai preludi o ai prologhi, e si concludono con le “disposizioni transitorie e finali” (Finale). Il tema giuridico Tempo e Costituzione21 si
giustifica grazie alla scienza della cultura.
Nondimeno il tempo nella musica agisce in modo molto diverso. I
“tempi” di una sonata e di una sinfonia si distinguono anche attraverso
l’andamento (es.: Lento, Adagio, Allegro con brio, Presto) ed è soprattutto il ritmo che imprime in particolare la forma metrica22. Tra l’altro
vi sono contrasti sui testi di alcuni inni nazionali: è il caso della Germania, del Cile23, della Bosnia Erzegovina, e la Spagna non riesce ad
accordarsi su un testo.
Tutto ciò non è irrilevante per gli inni nazionali. Un musicologo
dovrebbe analizzarne il ritmo e la simbiosi con il testo (allo stesso
modo dell’aria, del recitativo e dell’oratorio). Anche questo può essere
qui solo accennato. Il pacifico “Andante” di un inno nazionale ha il
suo opposto nel tempestoso e aggressivo “Allegro”, nella “Marcia”, o
addirittura nel “Presto”, di un inno nazionale che si presenta alla ma21
P. HÄBERLE, Zeit und Verfassung, ZfP 1974, 111 ss.; ID., Zu “Strukturen und
Funktionen von Übergangs- und Schlussbestimmungen” von Verfassungen, in FS Lendi,
1998, 137 ss.
22
In Cile, nel 1847, l’antico inno nazionale fu sostituito da un “testo pacifico”, cfr.
Nationalhymnen, 11. Aufl., Stuttgart 2006, 38.
23
Ibidem.
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
27
niera della Marsigliese. Tutto questo è qui suggerito alfine di mostrare
l’appartenenza degli inni nazionali in quanto musica e testo alla Musica nel suo complesso (per Mozart la musica nell’opera24 era
l’“ubbidiente figlia” della poesia, in verità spesso essa è la sua elevazione e il suo approfondimento).
5. Fondamentalmente la percezione della musica si basa su un unico organo sensoriale: l’orecchio. Questa tesi necessita però di una correzione: alcuni tipi di musica (devono) “rivolgersi” anche ad altri organi. Ad esempio agli occhi, così è per i balletti che investono tutto il
corpo di un pathos espressivo (“Pathosformeln” – inventati a Parigi intorno al 1700), così è per il ballo (dal Valzer fino al Tango) o per
l’Opera. Qualcosa di più specifico vale per le colonne sonore dei film
(grandi quelle di E. Morricone, finalmente ricompensato nel 2006 per
la sua carriera, o di Rota). Se la musica viene unita a un testo come
nella “preghiera eucaristica”, nella liturgia cattolica, nei canti religiosi
protestanti, grazie alla lingua tedesca creata da Lutero (P. Gerhardt),
si ha allora una simbiosi delle più fortunate (es.: Befiehl du deine
Wege). Si pensi anche a Winterreise di Schubert con i testi dello spesso sottovalutato W. Müller o al ciclo di canti di Schumann
Dichterliebe. La medicina conosce addirittura la “musico-terapia”,
quale disciplina che utilizza la forza della musica per curare alcune patologie.
Con questo tipo di considerazioni in mente bisogna avvicinarsi finalmente alla questione, ovvero all’unione di musica e testo negli inni
nazionali. Nelle “poesie musicate”, la musica si realizza anche solo
nel tempo, la lingua invece può rivolgersi oltre che all’emotività, anche alla ragione. Nella comunità protestante, il canto religioso di Lutero crea “la comunità”. Alcune azioni liturgiche sono accompagnate
nella messa cattolica da musiche determinate e pacate (la “musica religiosa” segue le sue leggi. H. Pfitzner ha musicato in modo molto bello persino un Concilio!)25. Qui allora non si tratta solo dell’orecchio o
dell’occhio, del sentire e del vedere, ma anche del camminare,
dell’andare, dell’incedere, quindi del corpo intero (Polonaise). La musica ha dal canto suo effetti sulle funzioni del corpo (secondo la Bibbia la musica dell’arpa di Davide liberò il Re Saul dalla malinconia; le
24
Sull’opera come “magia dell’istante” M. BRUG, Die Welt del 24 febbraio 2007, 28. La
domanda è “il genere artistico ha ancora un futuro?”.
25
Purtroppo egli scrisse anche un omaggio a Frank, “il macellaio dei polacchi”, Krakauer
Begrüßung (FAZ del 25 gennaio 2007, 31).
28
Peter Häberle
Variazioni Goldberg di Bach avrebbero dovuto “curare” il loro insonne committente).
Anche tutto questo non è privo di importanza per il tema di seguito
trattato degli inni nazionali. Essi vengono spesso cantati in piedi, con
un contegno particolare, aprono o chiudono precisi eventi, svolgono
una funzione integrativa: riferiti a un paese intero, o a una determinata
regione come nell’inno bavarese26, o ancora a una nazione intera come
nel Schweizer Psalm (sotto il profilo storico bisogna ricordare la
Krönungsmesse di Mozart e La clemenza di Tito, opera criticata in
quanto omaggio all’assolutismo. Bach compose sì Gott in der Höhe e
anche i concerti brandeburghesi).
6. La musica sembra (solo) a prima vista essere meno soggetta al
mutamento rispetto alla lingua. Essa però si diversifica anche grazie al
già accennato fattore-tempo dalle altre Arti: dall’architettura con le
sue costruzioni, con i suoi monumenti, edifici, ponti “duraturi”, dalla
scultura del Laocoonte, dal Partenone d’Atene e dal Panteon di Roma,
dalla pittura del divino Raffaello o della Cappella Sistina di Michelangelo a Roma. Nella musica vi è mutamento. Per un verso, la sua storia
mostra procedure evolutive enormi, tutto sommato anche “rivoluzioni”. Si pensi allo sviluppo da Palestrina a Pergolesi, da Bach alla prima e alla seconda “scuola di Vienna”, a Le Sacre du Printemps di
Stravinsky (si ricordi il Saggio su una nuova estetica musicale di Busoni). Per l’altro verso, i singoli brani musicali vengono in periodi diversi interpretati in modo diverso. Solo uno spunto: il cambiamento
del metodo di esecuzione (della storia della ricezione) e l’odierna
ideologia della “fedeltà all’opera” o dell’infelice “decostruzione” di
singole opere, come è accaduto con la pièce teatrale Othello (Düsseldorf, ottobre 2006). L’irrispettosa intromissione nei classici – a partire
dal “Regietheater” – è una ferita a quelle opere. L’interpretazione è un
servizio! Il ritorno al cosiddetto “suono originale” con strumenti originali (N. Harnoncourt) – accanto alla ricerca del “testo originale” – fa
parte di tutto ciò, come i tentativi di trasporre Bach in Jazz (J. Loussier) o di utilizzarlo come musica per balletti. Si ricordino pure le “trascrizioni” e gli “adattamenti”, soprattutto quelli di F. Liszt delle sinfonie di Beethoven. Infine, è da osservare che alcuni compositori vivono
una sorta di “rinascita”: negli anni ’70 G. Mahler, oggi l’opera baroc26
Sull’origine e sulle relative intenzioni, M. TREML, Die Geschichte des modernen
Bayern – Königreich und Freistaat, 3. Auf., München 2006, 80, 131, 148.
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
29
ca di G. F. Händel, e altri invece restano pressoché dimenticati (J. Halevy).
Anticipando: gli inni nazionali non potrebbero restare del tutto integri rispetto a tali sviluppi, né nel momento della loro composizione,
né nella pratica più tarda della loro esecuzione. Tuttavia essi rappresentano un brano musicale “relativamente statico”, sia pure nel mutamento di un concreto Stato costituzionale.
7. Siamo così giunti al ruolo dell’interpretazione (e alla sua storia).
Ogni musica crea, anzi vive di luoghi di interpretazione e esecuzione
aperti, in modo simile alle opere poetiche. In passato sono stati sottolineati possibili paralleli fra l’interpretazione “della legge e del diritto”
e quella delle opere poetiche27. Di recente, il giudice, rispetto alla legge, è stato paragonato ad un pianista28. Grandi solisti e direttori
d’orchestra si distinguono proprio grazie a una nuova e creativa interpretazione dalla partitura. Ciò vale anche per le composizioni corali e
per le opere29. Si tratta di opere artistiche e di libretti, testi, trame, didascalie relativamente “aperti”. Forse possiamo modificare la famosa
frase di G. Radbruch: l’opera d’arte, ad esempio la musica, è “più intelligente del suo creatore”.
La particolarità degli inni nazionali è che non sono eseguiti o cantati (solo) da “professionisti”, bensì tendenzialmente e volutamente da
tutte le persone della stessa nazione. “La società aperta degli interpreti
della Costituzione” ha anche intorno agli inni nazionali il suo dibattito. Certo, gli inni nazionali devono avere una melodia corta, sebbene
talvolta le differenti strofe possano permettere un “ampliamento”. La
loro particolarità non sta generalmente nella forza e nella densità musicale di un canto artistico, di un inno, di un coro, di un Agnus dei di
Mozart o di una composizione di giubilo come nell’Oratorio di Natale
di Bach. Tuttavia rimangono, in quanto musica, indivisibilmente legati
ad altre forme espressive musicali, da un punto di vista estetico, sia
ideale sia reale. Gli inni nazionali sono una parte di cultura umana e
una parte di Costituzione, di “Costituzione come cultura” in ogni caso
27
P. HÄBERLE, Kommentierte Verfassungsrechtsprechung, Königstein/Ts 1979, 22 s.
Il dibattito è apparso nel FAZ-Feuilletton (es.: FAZ del 26 ottobre 2006, con la
partecipazione di C. MÖLLERS, del presidente del BGH G. HIRSCH, di G. ROLLECKE, di B.
RÜTHERS, FAZ del 30 gennaio 2007, 34).
29
Per ulteriori informazioni B. BEYER (Hrsg.), Warum Oper? Gespräche mit
Opernregisseuren, Berlin 2006. V. anche P. BOULEZ, FAZ del 13 maggio 2006, 37: Musik mit
Bürgersinn, Laudatio auf D. Barenboim.
28
30
Peter Häberle
(gli archeologi hanno trovato “flauti d’osso” risalenti all’incirca a
35000 anni fa. Nell’antico Egitto esistevano già tamburi e trombe).
Oggi il grido “Salvate il canto del popolo”! (C. Tewinkel) è fin troppo
giustificato.
Ciò nonostante musica e testo sono in egual misura di alto livello.
Proprio l’inno nazionale vive al di là dell’alternativa così controversa:
“prima la musica – poi le parole”. L’inno è in un certo senso “musicaprogramma”: i testi assimilano di frequente la storia e tracciano
l’avvenire, spesso molto concretamente come dei preamboli! Oppure
danno espressione all’amore per la patria, per la natura o per Dio30.
2.2. “Diritto”
Non mi domandate del concetto di “diritto”! Secondo Ovidio gli
uomini si distinguono dagli animali per il pudore e per il diritto, noi
aggiungiamo, anche per la libertà e per la religione. Da millenni aspiriamo alla giustizia quale “verità del diritto” e ci interroghiamo – come il teologo rispetto alla questione divina – sul concetto di “diritto”.
Un primo aiuto è offerto dalla differenza nella Costituzione tedesca fra
la “legge” da una parte e il “diritto” dall’altra (art. 20 comma 3). Il
“diritto” denota un rinvio alla giustizia, mentre con il termine legge si
intende il diritto positivo. Il rapporto di tensione è evidente, l’idea del
diritto naturale diviene visibile. Nelle pagine seguenti con “diritto” si
intenderà il diritto positivo e anche il diritto prestatale, e soprattutto il
principio di dignità umana in quanto premessa culturale e antropologica dello Stato costituzionale.
Musica e letteratura non sono da considerare solo come parallele rispetto al diritto, esse si trovano anche fra loro in molteplici relazioni.
Queste saranno qui di seguito oggetto di indagine.
2.3. Aspetti di una storia della musica alla luce dello sviluppo dello
“Stato costituzionale”
La storia dell’evoluzione dello Stato costituzionale non può essere
scritta senza “accompagnarla” con la storia musicale31.
30
31
P. HÄBERLE, Nationalhymnen, cit., 11 ss., 83 ss.
Già P. HÄBERLE, Verfassungslehre als Kulturwissenschaft, cit., 512 ss.
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
31
Da un’analisi dell’elaborazione e assimilazione delle idee politiche
e filosofiche rivoluzionarie-repubblicane – legate all’Illuminismo – e
dall’analisi statuale (secondo l’accezione moderna) e giuridicocostituzionale della corrispondente tematizzazione in musica, il “giacobino musicista” Ludwig van Beethoven (1770-1827) domina ed è al
centro della storia della musica. In diverse opere – soprattutto in creazioni come la sua terza Sinfonia (1804/1805 Eroica), la musica per
Egmont di Goethe (1810), la nona Sinfonia (1824; insieme a Ode an
die Freude di Friedrich Schiller come coro di chiusura, che all’origine
doveva anche cantare la “libertà”) e particolarmente nella sua unica
opera Fidelio (terza versione 1805/1806, 1814, testo di Sonnleithner e
Treitschke ispiratisi a N.J. Bouilly) – Beethoven prese posizione contro l’abuso di potere e l’assolutismo e fece proprio il pathos di libertà
e di liberazione umanistico, in sintonia con il fascino esercitato dallo
spirito tardo illuministico dell’epoca post-rivoluzionaria che seguì la
rivoluzione francese32. Prima di ciò, anche Mozart (1756-1791) nella
sua opera buffa Le nozze di figaro (libretto di Lorenzo da Ponte, ispiratosi a Beaumarchais) aveva ripreso l’impertinente critica delle arrugginite strutture sociali feudali dall’autore della commedia Le mariage de figaro e con il tedesco Singspiel Die Zauberflöte (libretto di
E. Schikaneder) aveva utilizzato e elevato con profonda partecipazione gli ideali massonici posti al servizio dell’umanità33. In questo contesto è necessario sottolineare che molte confederazioni segrete
32
Sull’impronta politica di Beethoven, dovuta al Josephinismus e al pensiero illuministico
riformatore, S. KROSS, Beethoven und die rheinisch-katholische Aufklärung, in ID. (Hrsg.),
Beethoven – Mensch seiner Zeit, Bonn 1980, 9-36. Sull’efficacia v. D.B. DENNIS, Beethoven
in German Politics, 1870-1989, New Heaven 1996. Sull’Eroica: M. GECK/P. SCHLEUNING,
“Geschrieben auf Bonaparte” – Beethovens “Eroica”: Revolution, Reaktion, Rezeption,
Reinbek 1989; P. SCHLEUNING, Frieden durch Krieg – Beethovens “Sinfonia eroica”, in H.
LÜCK/D. SENGHAAS (Hrsg.), Vom hörbaren Frieden, cit. Sull’Ode an die Freude v. D.
HILDEBRANDT, Die Neunte – Schiller, Beethoven und die Geschichte eines musikalischen
Welterfolgs, München 2005. Su Fidelio, E. POETTGEN, Fidelio und die Menschenrechte. Eine
sehr persönliche Annäherung an ein zentrales Werk der Musikgeschichte, in P. CSOBÁDI u.a.
(Hrsg.), Fidelio/Leonore – Vorträge und Materialien des Salzburger Symposions,
Anif/Salzburg 1996, 1998, 257 ss. Su Josephs-Kantate: K. KÜSTER, Beethoven, Stuttgart
1994, 29 ss.; B. WECK, in Verfassung im Diskurs der Welt, Liber amicorum Peter Häberle,
Tübingen 2004, 856 s. (con ulteriori indicazioni).
33
Sullo sfondo massone (“illuminato”) e contenuti illuministici di grande effetto le
ricostruzioni di: J. ASSMANN, Die Zauberflöte – Oper und Mysterium, München 2005; H.
PERL, Der Fall “Zauberflöte”. Mozarts Oper im Brennpunkt der Geschichte, Darmstadt 2000;
HERBERT LACHMEYER (Hrsg.), Experiment Aufklärung im Wien des ausgehenden 18.
Jahrhunderts – Essayband zur Mozart Ausstellung des Da Pote Instituts Wien (Albertina
Wien), Ostfildern 2006. V. anche G. FALKE, Mozart oder über das Schöne, Berlin 2006.
32
Peter Häberle
(l’Ordine degli illuminati, ecc.) ebbero, attraverso la loro prospettiva
illuministico-umanista, un’influenza sull’arte drammatica della fine
del diciottesimo secolo e anche, almeno indirettamente, su compositori come Beethoven34 (meritano di essere ricordate le due Cantate composte nel 1790, per la morte dell’imperatore Giuseppe II e per
l’incoronazione di Leopoldo, i cui testi (Severin Anton Averdonk)
erano mossi da quello stesso spirito).
I sovvertimenti politici e sociali degli ultimi decenni del XVIII secolo portarono anche a una “rivoluzione estetica” della drammaturgia
dell’opera35, che produsse nuovi “sottoinsiemi”: opere che tematizzano la paura o la salvezza36, legate a nomi di compositori come Luigi
Cherubini (1760-1842), E.N. Méhul (1763-1817) e F. Paer (17711839) (anche Fidelio di Beethoven, probabilmente ispirato alla Leonora di Paer (1804), appartiene a questo genere). Il pathos eroico e appassionato per la libertà si ritrova nella generazione successiva anche
nel Nabucco di G. Verdi (1813-1901), che narra della liberazione degli Ebrei dalla prigionia babilonese e che costituisce fino a oggi
l’“inno segreto” degli italiani37. R. Wagner sia a questo punto semplicemente nominato38.
L’operetta che si sviluppò in questo periodo, in particolare grazie
all’influenza di Jaques Offenbach, esercitava tramite satira e derisione
una critica alla situazione politica, con uno sguardo rivolto soprattutto
al regime di Napoleone III in Francia39 ed era un genere impertinente
e critico, che nulla ha più a che vedere con la pratica della rappresentazione odierna (non ultimo a causa della fondamentalmente mutata
34
Cfr. S. KROSS, Beethoven und die rheinisch-katholische Aufklärung, cit.
W. OEHLMANN, Oper in vier Jahrhunderten, Stuttgart 1984, 321 ss. (321).
36
Ivi, 322 ss. e 330.
37
U. BERMBACH, Zwischen Inquisition und Freiheit – zum Kernkonflikt in Verdis Don
Carlos, in ID., Opernsplitter – Aufsätze. Essays, cit. Su pace, guerra e nostalgia della pace: M.
GECK, Musik dringt höher, tiefer und weiter als die Fanfare von Krieg und Frieden, in H.
LÜCK/D. SENGHAAS (Hrsg.), Vom hörbaren Frieden, cit.
38
Dalla letteratura U. BERMBACH, Der Wahn des Gesamtkunstwerks – Richard Wagners
politisch-ästhetische Utopie, Frankfurt a. M. 1994; ID., Blühendes Leid – Politik und
Gesellschaft in Richard Wagners Musikdramen, Stuttgart 2003.
39
Cfr. VOLKER KLOTZ, Bürgerliches Lachtheater, 1983. Altre e generali informazioni in
K. KASTNER, Die Kunst der Kritik – in der Literatur, auf der Bühne und in der Musik, NJW
1995, 822 ss. – Originale e brillante è M. STOLLEIS, Komponierende Staatsrechtslehrer, in K.
REICHERT (Hrsg.), Recht, Geist und Kunst, Baden-Baden 1996, 373 ss. Lo stesso vale per il
saggio di B.-R. KERN, Rossini und Metternich, in M. KILIAN (Hrsg.), Jenseits von Bologna –
Jurisprudentia literarisch, Berlin 2006, 61 ss. Oggi il mio tema è “diritto costituzionale
musicale”!
35
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
33
situazione politica). Alcuni compositori contemporanei del XX secolo
hanno proposto le testimonianze più significative contro la guerra e il
disprezzo delle più elementari leggi della dignità umana, contro lo
Stato autoritario e la violenza di Stato. Arnold Schönberg (1874-1951)
scrisse nel 1949 la Cantata Ein Überlebender aus Warschau, sul ghetto per l’appunto di Varsavia. Già durante la seconda guerra mondiale
Karl Amadeus Hartmann (1905-1963) aveva espresso in opere strumentali di forte impatto espressivo la sua disperazione sulla mancanza
di pace del suo tempo (concerto per violini Musik der Trauer, 1939 Prima a St. Gallen nel 1940; Symphonia Tragica, 1941 - Prima nel
1989 (!) a Monaco). Anche Arthur Honneger (1892-1955) si era occupato nella sua terza Sinfonia (1946) “liturgica” (in tre composizioni
dies irae, de profundis clamavi e dona nobis pacem) degli orrori della
guerra e del desiderio di pace dell’uomo. Infine il compositore polacco nato nel 1933 Krysztof Penderecki creò fra il 1959 e il 1961 Threnos in ricordo delle “vittime di Hiroshima” (1945). Un rimando integrativo a Ernst Bloch (1880-1959), Shelomo (1917), e a Gustav Holst
(il brano Mars nella suite orchestrale Die Planeten – 1914 (!)), dovrebbe bastare. Fra i musicisti moderni, nel periodo che va da dopo la
prima guerra mondiale fino ai nostri giorni, sono stati soprattutto i
compositori dell’Europa dell’est ad aver rispecchiato nelle loro opere
le tensioni fra l’individuo e le “istanze collettive” (come quelle dello
Stato e della società). Una grande importanza deve essere data qui a
Dimitri Shostakovich (1906-1975), il quale dopo le misure restrittive
della burocrazia stalinista nell’anno 1936 (gli si mosse il rimprovero:
“il caos anziché la musica”, per l’opera Lady Macbeth del distretto di
Mcensk (tratta dal racconto omonimo di N. Leskow)) si rifugiò in una
specie di “esilio interiore” e da quel momento in poi trattò nelle sue
creazioni in modo criptico dello scontro fra le esigenze collettive e gli
interessi dei singoli uomini (soprattutto nella quinta Sinfonia del
193740). Del confronto fra popolo e potere tratta anche l’undicesima
Sinfonia L’anno 1905, che Shostakovisch iniziò sotto l’effetto della
rivolta ungherese del 1956 (Prima 1957) e che “è dedicata dal punto di
vista tematico alla soffocata rivolta popolare del 1905”41. Notevole coraggio dimostrò questo grande compositore del secolo scorso anche
40
Sull’accusa di “formalismo” v. soprattutto: Zeugenaussage – Die Memoiren des Dimitri
Schostakowitsch, annotato e curato da SOLOMON VOLKOW, Hamburg 1979 (Ausgabe 1981, 35
e 356); S. WOLKOW, Stalin und Schostakowitsch. Der Diktator und der Künstler, Berlin 2004.
41
Cfr. D. GOJOWY, Dimitri Schostakowitsch, Reinbek 1983, 92.
34
Peter Häberle
nella sua tredicesima Sinfonia Babij Jar (1962), nella quale furono
musicati i testi del poeta bandito Jewgenij Jewtuschenko (nato nel
1932), che ricordano i massacri degli ebrei ucraini al tempo
dell’occupazione tedesca, ma al tempo stesso contengono una resa dei
conti con l’antisemitismo sovietico42. Shostakovich43, che secondo la
ricostruzione di S. Volkow viveva ritirato nella tradizione religiosa dei
“Pazzi in Dio” molto nota in Russia, creò opere sempre più meditate,
che giravano intorno alla mancanza di vie d’uscita della situazione
umana (es.: ottavo quartetto di archi op. 110 (1960) e diversi altri
quartetti d’archi successivi 9-15). La suggestiva definizione di “vassallo festeggiato”44 non è, nell’insieme, giustificata45. L’opera Weltparlament di Stockhausen e la musica dei nostri giorni non può essere
ancora giudicata dall’autore. Ciò vale di più per l’arsenale critico di
H.W. Henzes (Reiselieder, 1996)46. All’autore non è ancora accessibile L’armonia cosmica, o Musica cosmica, dell’autore greco M. Theodorakis con il “canto di balene e elefanti”47.
Molto si lascia dedurre “in quanto citazione” dagli inni nazionali,
soprattutto europei (B. Glaner, voce Nationalhymne, MGG – Tomo
7/1997, 16 (23 ss.)).
3. Terza parte: Ambiti di riferimento, forme espressive
3.1. Inni nazionali
3.1.1. Indice delle questioni
Gli inni nazionali sono “elementi di identità culturale dello Stato
costituzionale”. Costituiscono una fonte di consenso razionale e emo42
Ivi, 97.
Cfr. S. VOLKOW, Stalin und Schostakowitsch. Der Diktator und der Künstler, cit., 23,
35, 38.
44
Necrologio in Die Zeit, settembre 1975.
45
Il “punto assolutamente più basso” del nazionalsocialismo tedesco fu evidenziato
dell’“arte degenerata”, dalla “musica vietata” (es. A. Schönberg) e anche dalle “immagini
deformate” di E. Nolde. Su questo tema molto trattato si veda per nuovi aspetti: S.A.
REICH/H.J. FISCHER, Wem gehören die als “entartete Kunst” verfemten, von den
Nationalsozialisten beschlagnahmten Werke?, NJW 1993, 1417 ss.; F.K. PRIEBERG, Musik im
NS-Staat, Neuausgabe, Köln 2000.
46
Sono commoventi le conversazioni tra Henze e I. Bachmann (3sat, 9. settembre 2006,
21.45).
47
V. la sua intervista in SZ del 10 marzo 2006.
43
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
35
tivo per un vivere insieme politico. Quattro anni fa, in una breve monografia ho analizzato dal punto di vista linguistico, musicale e giuridico, 80 inni48. Ecco alcune indicazioni. Innanzitutto va fatta la distinzione fra una definizione giuridico-costituzionale della musica (compositore) e del testo (poeta) di un inno specifico e la semplice determinazione dell’uno o dell’altro. Un’analisi musicologica della “congenialità” di musica (melodia) e testo (lingua) non è possibile neanche
in linea di principio. Possono essere citati soltanto alcuni caratteri evidenti: per esempio l’aggressività del testo e della melodia della Marsigliese o di qualche “marcia” (Filippine, Indonesia, Albania, Principato
di Monaco, Senegal, Sri Lanka, Libia, Libano, Cuba, Colombia, Algeria, Turchia, Spagna: com’è ovvio, con le loro differenze). Tuttavia,
l’autore non si permette un giudizio sulla qualità artistica dei singoli
inni nazionali. Si può tutt’al più dire, che un particolare inno è dal
punto di vista musicale particolarmente “bello”: grazie a J. Haydn la
Germania ha un “lento”, la Bulgaria ha un “andante maestoso”, un
“allegro” il Belgio, gli Emirati Arabi, l’Uruguay e il Venezuela, un
“adagio” il Giappone, un “moderato” la Liberia e l’Olanda ha un “allegro risoluto”. Il “maestoso” è amato ad esempio in USA, Ungheria,
Ucraina, Serbia e Montenegro, Malta, Malesia, Gran Bretagna, Grecia,
Svezia, Lituania, Lettonia. Il Portogallo si permette un “grandioso”. Il
Vaticano civetta con un “allegretto maestoso”. Alcuni inni sono meno
gradevoli. L’andamento è in modo caratteristico indicato in italiano –
un omaggio al vostro paese, l’Italia. Sarebbe forse anche interessante
chiedersi, quale storia (costituzionale) ha portato a un inno nazionale
ufficiale, chi l’ha reso tale, quale autore o compositore è stato incaricato di scrivere o comporre un inno e da chi (es.: dal costituente, dal
legislatore o da un organo costituzionale come il Capo dello Stato (così in Sudafrica)), se i concorsi (es.: Messico, Iran e Libano) hanno
avuto successo? La domanda sulla prassi di eseguire l’inno nel quotidiano e durante le festività è di particolare importanza.
L’enorme materiale costituzionale è così suddiviso:
1. In che punto di una Costituzione scritta è collocato l’inno nazionale: a tale questione appartiene la domanda sul “contesto”49. L’inno
nazionale è messo accanto agli articoli che riguardano i simboli (es.:
sigillo, bandiera, stemma, giorni festivi, città principali) in quanto
48
49
Nationalhymnen, cit., 83 ss.
Sulla tesi P. HÄBERLE, Kommentierte Verfassungsrechtsprechung, cit., 44 ss. (e più).
36
Peter Häberle
elementi di identità culturale, o si trova in un’altra parte soltanto “per
sé”?
2. Quali sono le forme esemplari per gli inni nazionali costituzionalmente stabiliti, esistono modelli di base, varianti o tipi? Ci sono –
accanto ai testi (strofe) – anche alcune tonalità e tempi già fissati (di
solito è predominante il semplice do maggiore – es.: Estonia, Australia, Belgio, Bolivia, Bulgaria, Cile, India, Giappone, Kenia, Colombia,
Lussemburgo, Messico, Norvegia (inno nazionale), Portogallo, Russia, Svezia (inno reale), Senegal, Tailandia (inno nazionale))? Quali
temi sono trattati nei testi (es.: patria, paese natale, fama, guerra, “diritto e libertà”, natura, dio, re, martiri, Africa)?
3. Esistono molte o solo alcune Costituzioni, nelle quali, in modo
consapevole o per errore, il tema inno nazionale non è affrontato? O è
solo indicata una legge di attuazione (di delega, Schedules)? Ci sono
pure differenze di spazio e tempo: secondo le epoche storiche (monarchie, repubbliche, democrazie), secondo gli Stati (nazionali classici o
moderni in via di sviluppo), differenze anche secondo i continenti? E
le culture costituzionali? Dove e quando gli inni nazionali sono elementi di continuità (così in Polonia, Lituania, Lettonia e Bielorussia)?
3.1.2. Aspetti di un’analisi musicale delle melodie degli inni nazionali
Non si proporrà qui di seguito alcuna analisi musicologica degli inni nazionali, poiché per questo manca all’autore qualsiasi competenza.
Ci si interrogherà invece secondo una prospettiva comparatista dal
punto di vista di un costituzionalista e amante della musica.
Tre questioni fondamentali si pongono rispetto alla melodia, cioè
alla musica degli inni nazionali.
1. Qual è il loro tempo: “Marcia veloce”, dinamicamente aggressiva, cioè un Allegro, un “Andante” lentamente-meditativo (ecc.) , oppure un “Lento”?
2. Qual è il metro della composizione? Si tratta della domanda sul
ritmo: tre quarti o quattro quarti?
3. Quale tonalità ha scelto il compositore di un inno, un “tono originario” o l’uso corrente? Da qui dipendono infatti grandi differenze
nell’“atmosfera” di un inno nazionale: si pensi al luminoso do maggiore, o al morbido re minore di Mozart, o ancora al gioioso la maggiore di Beethoven. Si può presumere che il compositore di inni nazionali scelga delle tonalità possibilmente “semplici”, in modo tale da
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
37
non chiedere troppo sforzo ai cittadini. Le tonalità hanno nella musica
la loro “coloritura propria”, il loro “spirito” e anche il loro “messaggio”.
Si consideri anche la prassi dell’orchestra o meglio della strumentazione preferita in ogni singola nazione. La banda di un paese suonerà l’inno nazionale in una “formazione” diversa rispetto a un’orchestra
sinfonica di un evento “presidenziale”, una banda militare suonerà in
modo diverso dall’orchestra di una emittente, alla fine di una trasmissione intorno alla mezzanotte.
Se è dai suoni (antichi) di competenza degli autori, che sono caratterizzate le tonalità, bisogna tuttavia ricordare la riserva di Schumann.
Egli relativizza la loro forza espressiva ovvero la loro connotazione
(Neue Zeitschrift für Musik, Lipsia, 3 Febbraio 1835, 43 ss.).
Le impressioni dell’autore nell’ascoltare la musica possono sicuramente anche essere influenzate dall’arte e dalla qualità delle singole
esecuzioni50. È anche pensabile che le tonalità, con il mutare del tempo e grazie alle nuove composizioni, siano oggi percepite in modo diverso (si pensi alla sonata in sol maggiore di Schubert!).
L’ordinamento giuridico fissa in molte Costituzioni sia il testo musicale che quello linguistico degli inni nazionali. Inoltre molte Costituzioni regolano la protezione giuridica degli inni nazionali – in modo
simile agli altri elementi di identità culturale, come i giorni festivi e le
bandiere nazionali. Solo pochi inni nazionali ufficiali entusiasmano
per le loro qualità musicali: si citino come eccezioni di grande qualità
l’inno tedesco di Haydn e anche quello del Vaticano (C. Gounod).
50
Sul tema: A. BARTOLUS, Musica Mathematica, Das ist: Das Fundament der
allerliebsten Kunst der Musicae, wie nemlich dieselbe in der natur stecke, vnd ihre gewisse
proportiones, das ist, gewicht vnd mass habe, vnd wie dieselben in der Mathematica,
Fürnemlich aber in der Geometria vnd Astronomia beschrieben sind, Leipzig 1614; L.H.
BERLIOZ, Grand Traté d’Instrumentation et d’Orchestration modernes, Paris 2/1856. M.-A.
CHARPENTIER, Règles de composition, Paris 1692; A.E.M. GRETRY, Memoires, ou Essais sur
la Musique, Bd. 2, Paris 1797; J.J. W. HEINSE, Hildegard von Hohenthal, 1. Bd., Berlin 1795,
55. J.-P. RAMEAU, Traité de l’harmonie réduite à ses principes naturels, Paris 1722; J.J.H.
RIBOCK, Ueber Musik, an Floetenliebhaber insonderheit, in Magazin der Musik, Carl
Friedrich Cramer (hrsg.), Jg. 1, Hamburg 1783; J. ROUSSEAU, Méthode claire, certaine et
facile pour apprendre à chanter la Musique, Paris 1691; C.F.D. SCHUBART, Ideen zu einer
Ästhetik der Tonkunst, Wien 1806; R. SCHUMANN, Neue Zeitschrift für Musik, Leipzig, 3.
febbraio1835, 43; G.J. VOGLER, Système de Simplification pour les Orgues [Ms. Mannheim
1798]. – Per gli aspetti generali W. AUHAGEN, Studien zur Tonartencharakteristik in
theoretischen Schriften und Kompositionen vom späten 17. bis zum Beginn des 20.
Jahrhunderts, Frankfurt a. M. 1983.
38
Peter Häberle
3.1.3. L’ideale livello testuale di un inno nazionale di uno Stato costituzionale. L’articolo sull’inno previsto dalla Costituzione. “Inni
costituzionali”
1. Tre esempi di inni costituzionali: dall’inno nazionale all’inno nazionale costituzionale.
Nell’attuale stadio di sviluppo dello Stato costituzionale, solo in tre
paesi è riuscito il livello testuale dell’inno nazionale, e ciò merita particolare lode. Sono le Costituzioni delle Filippine (1986-1987), della
Mongolia (1992) e dell’Etiopia (1994). Così come i preamboli e le
“clausole spirituali” costituiscono un concentrato della Costituzione,
anche gli inni nazionali possono in casi ideali essere “orchestrati” in
modo analogo. Questi dovrebbero armonizzarsi con i valori fondamentali della Costituzione, essere consapevoli del suo “spirito” e allo
stesso tempo collegarsi alla storia costituzionale del popolo e delineare le sue speranze future. Nel caso ideale ciò potrebbe riuscire nella
melodia e nel testo, oppure in singole strofe dell’inno. Ovviamente è
difficile realizzare in concreto tale ideale. Avremmo bisogno di Montesquieu o di Hölderlin (per 1848), oppure di Leopardi insieme a Verdi (per l’Italia), di Rousseau e di H. Berlioz (per la Francia), di Shakespeare insieme a Bird o Elgar (per l’Inghilterra)51. Si tratterebbe di far
rivivere i valori fondamentali di una Costituzione nazionale come la
libertà dei cittadini e la democrazia, i momenti culminanti della storia
costituzionale (come la riunificazione tedesca (1990)), o le idee (in
Polonia le idee della prima Costituzione del Maggio 1791 (nelle note
di F. Chopin)), nella partitura, nella melodia, nel ritmo, nel tempo,
nella scansione, nella coloritura52.
2. Due tipologie: inni nazionali pre-costituzionali e postcostituzionali.
51
È raro che un paese abbia la fortuna di avere un poeta-presidente autore del testo. È
stato così nel 1960 per il Senegal nella persona di L.S. Senghor (cfr. Nationalhymnen, cit.,
173) (melodia in do maggiore, marcia, quattro quarti), ed è così dal 1847 in Liberia, qui è
stato il primo ministro a scrivere il testo dell’inno (ivi, 103).
52
L’unico caso di un poeta-compositore si trova in India. Il suo inno nazionale proviene
dal testo e dalla melodia di Rabindranath Tagore (1861-1941) ed è stato adottato
dall’Assemblea costituente nel 1950 (ivi, 62). La melodia è in do maggiore, il tempo
“Maestoso”.
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
39
Si distinguono due tipi di inni nazionali: quelli creati secondo lo
“spirito” di una (nuova) e concreta Costituzione e quelli che precedono la Costituzione, fra questi ultimi si trova, con tutta la sua bellezza
musicale, con lo sguardo alla Costituzione e alla Costituzione di
Weimar il Deutschland-lied di J. Haydn e Hoffmann von Fallersleben.
Anche la Marsigliese francese è rivoluzionaria e precedente alla Costituzione: ha risposto pur sempre all’esigenza di aver aperto la strada
con la rivoluzione del 1789 allo Stato costituzionale francese. Il compito sarebbe quello di analizzare scientificamente tutti i citati inni nazionali, la loro melodia e i loro testi, rispetto alla Costituzione di appartenenza, ai suoi valori fondamentali e alla storia costituzionale. Ma
ciò è, per tanti motivi, impossibile.
Allo stesso modo è difficile, trovare poeti e compositori, che “insieme” riescano a elaborare l’inno “congeniale” allo spirito della loro
Costituzione. L’autore non può giudicare, se ciò sia riuscito nelle Filippine, in Etiopia o in Mongolia. Tuttavia il tentativo di un’analisi più
attenta varrebbe in quei casi sicuramente la pena.
3. Il guadagno teorico-costituzionale.
Rimane decisivo il guadagno della teoria costituzionale: la vicinanza interna dei buoni inni nazionali ai preamboli, alle clausole sullo spirito e l’eredità culturale, anche alle bandiere e ai giuramenti, in generale ai valori fondamentali di una Costituzione, alle sue “storie” e alla
sua storia. Che il darsi una Costituzione nei tre paesi sopracitati abbia
permesso l’elaborazione di un livello testuale maturo, non può essere
lodato abbastanza. La teoria costituzionale arriva ancora una volta
“troppo tardi”. Tuttavia la comparazione costituzionale, in quanto
scienza della cultura, può ancora una volta – grazie all’analisi dei livelli testuali – dare buoni risultati e aprire un nuovo campo di applicazione. Certo, per la democrazia è difficile essere un buon “costruttore”, così le sarà difficile creare o trovare per una nazione concreta il
“miglior inno nazionale”, da un punto di vista musicale e testuale. Era
più semplice per gli Stati assoluti con le loro molteplici forme di rappresentazione: la poesia, l’architettura, la pittura, la musica, le arti plastiche. Si pensi soltanto alla Francia di Luigi XIV (Molière/Lully, il
Balletto), o anche al re prussiano Federico II (il Musikalisches Opfer
di Bach è stato certo inizialmente “inutile”) o anche all’imperatore
40
Peter Häberle
Federico II Hohenstaufen, e non solo in Sicilia (i suoi borghi e castelli,
come Castel del Monte).
Nel nostro tempo si esige molto dalla melodia e dal testo previsti
dalla Costituzione, ma ciò non deve significare che sia sbagliata l’idea
di un “inno nazionale ideale” di uno Stato costituzionale concreto. È
necessario restare fedeli a tale pretesa, così come all’esigenza dei
giorni festivi e della loro realizzazione. Nuovi paesi e giovani Stati
con nuove Costituzioni potrebbero orientarsi secondo tale ideale. Si
pensi al Kosovo divenuto indipendente.
3.2. Preamboli di Costituzioni
I preamboli delle Costituzioni53 equivalgono da un punto di vista
culturale ai preludi, alle ouverture e ai prologhi. Vicini ai cittadini,
elaborano la storia in una lingua particolarmente festosa, riassumono
in quanto “Costituzione nella Costituzione” un insieme di testi che seguono e tracciano un programma per l’avvenire (concreto e utopico).
Linguisticamente suonano spesso molto gioiosi e apportano così un
contributo al tema “diritto e letteratura”54. Esemplari sono i preamboli
della Costituzione americana come della Costituzione tedesca, anche
quelli della Costituzione di Andorra (1993), del Sudafrica (1996), della Polonia (1997) e dell’Albania (1998). Purtroppo il preambolo della
Costituzione ungherese dell’aprile di quest’anno utilizza male la forma artistica dei preamboli, che è divenuto nelle mani di altri costituenti un “evento testuale”. Questo si nota nell’Ungheria del 2011: negativo nella unilaterale e esagerata forma nazionalistica del preambolo,
nella sua vicinanza a un semplice manifesto di partito, nel quale non
compaiono tutti gli strati e periodi della storia dello Stato e della Costituzione ungheresi, nella scelta dei temi e dei partecipanti.
A proposito di musicalità si tenga presente lo splendore linguistico
dei preamboli, una forma particolare di rappresentazione dei rapporti
fra musica e diritto costituzionale.
53
P. HÄBERLE, Präambeln im Text und Kontext von Verfassungen, Broermann 1982, 211
ss.; ID., Verfassungslehre, 2. Aufl., Berlin 1998, 920 ss.
54
Dall’ampia letteratura K. LÜDERSSEN, Produktive Spiegelungen, Recht in Literatur,
Theater und Film, 2004. Sul tema “Letteratura e Stato costituzionale” P. HÄBERLE,
Verfassungslehre, cit., 504 ss.; ID., Das Grundgesetz der Literaten, Baden-Baden 1983.
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
41
3.3. Interpretazione della Costituzione – Interpretazione dei testi
giuridici
Questo nesso è stato sviluppato in modo decisivo particolarmente
in Italia da G. Resta55. A questo punto deve bastare quanto segue: alcuni metodi d’interpretazione giuridica – un classico è, non solo in
Italia, E. Betti56, mentre di recente si apprende dai lavori
sull’interpretazione costituzionale di A. Cervati e P. Ridola57 – trovano il loro corrispettivo nell’interpretazione di opere musicali. In modo
particolarmente evidente ciò accade nell’interpretazione storica (“fedeltà all’opera”): si pensi alla, storicamente discussa, cosiddetta pratica rappresentativa “autentica” di Harnoncourt, a questa corrisponde la
storia delle origini dell’interpretazione parola-suono. Così come cambia nel corso del tempo l’interpretazione dei testi giuridici, allo stesso
modo l’interpretazione si rinnova in un determinato tempo anche con
una diversa esecuzione di sinfonie, opere e concerti. Lo spirito del
tempo compie qui la sua opera – forse evidente solo allo spirito del
mondo. L’interpretazione teleologica trova un equivalente nella musica programmatica di R. Strauss o di Tchaikovsky, si pensi anche ai
suoi balletti. La comprensione della musica viene influenzata anche
dalla diversità spaziale e temporale dei contesti nazionali (le danze
ungheresi di J. Brahms, le opere di B. Bartok), così come lo stesso testo giuridico può accogliere un contenuto diverso. Rispetto alle opere
musicali e alle orchestre si parla anche di specifiche “scuole” (es.: la
scuola di Lipsia o di Berlino, oppure la scuola tedesca in contrapposizione con quella francese), in modo simile alle scuole giuridiche (es.:
la scuola di H. Kelsen o di R. Smend). Il direttore d’orchestra svolge
nella musica un ruolo di guida, che nella giurisprudenza a mio avviso
non (dovremmo) praticare: poiché nella società aperta degli interpreti
della Costituzione neanche la Corte costituzionale tedesca ha “l’ultima
parola”, anche se purtroppo solo poco tempo fa lo ha preteso nella non
riuscita decisione di Lisbona (E 125, 385)58. C’è piuttosto un nesso fra
55
Variazioni
Comparatistiche
Sul
Tema:
“Diritto
e
Musica”,
in
www.comparazionedirittocivile.it., 1 ss. Degno di nota in Germania è M.T. FÖGEN, Das Lied
vom Gesetz, München 2007.
56
G. RESTA, Variazioni Comparatistiche Sul Tema: “Diritto e Musica”, cit., 8 ss.
57
A.A. CERVATI, Per uno studio comparativo del diritto costituzionale, Torino 2009; P.
RIDOLA, Diritto Comparato e Diritto Costituzionale Europeo, Torino 2010.
58
Sul punto la mia critica Europäische Verfassungslehre, 7. Aufl., Baden-Baden 2011,
729 ss.
42
Peter Häberle
“dirigere e governare”, nelle prove d’orchestra lo si può osservare (si
pensi a Fellini). Nella musica da camera, che si tratti di quartetti
d’archi o di trii con pianoforte, tutti i musicisti sono eguali.
3.4. Lingua e Musica – loro relazione nel “diritto”
Già a proposito dei preamboli delle Costituzioni, così come degli
inni nazionali, è stato dimostrato che lingua, musica e diritto, nella
prospettiva delle scienze della cultura sono da trattare insieme. Negli
oratori (J. Haydn/G. F. Händel) e nei libretti d’opera (da Ponte/Mozart: Così fan tutte), anche nelle Passioni e nelle Cantate di
Bach, riconosciamo un legame forte fra partitura musicale e testo, e
ciò vale anche per le musiche popolari e le musiche religiose, anche
qui si arriva a forti simbiosi. È importante ora ricordarsi dei contenuti,
che in alcune opere musicali rimandano al diritto anche da un punto di
vista linguistico. Si pensi a questioni giuridiche nella musica, per
esempio nell’opera Freischütz di Weber, o anche all’importante raccolta di casi criminali nelle opere di R. Wagner (assassinio e omicidio,
incesto e tradimento). Su questo argomento c’è tutta una letteratura.
Wagner è estremamente interessante soprattutto dal punto di vista del
diritto penale59. Vanno citati espressamente anche i grandi concetti
giuridici, che si trovano nei testi degli inni nazionali (per esempio: Libertà, Patria, Paese natale, Diritto, Unità, Dio, Popolo, ecc.).
3.5. “Musicisti-Giuristi”
Molti compositori hanno iniziato come giuristi, e questo è un dato
noto e da non sottovalutare. Nomino nuovamente Schumann, Tchaikowsky, Stravinskij. Così come ci sono molti poeti-giuristi (prima di
tutti Goethe e anche Hoffmann)60, tema spesso affrontato nella lettera59
Cfr. E. VON PIDDE, Richard Wagners “Ring der Nibelungen” im Lichte des deutschen
Strafrechts, München 2003.
60
Dalla letteratura classica H. FEHR, Das Recht in der Dichtung, Bern 1931; E. WOLF,
Das Wesen des Rechts in deutscher Dichtung, Frankfurt a. M. 1946; P. SCHNEIDER, “ein einig
Volk von Brüdern”, Frankfurt a. M. 1987. Per ulteriori informazioni P. HÄBERLE, Das
Grundgesetz der Literaten, cit., passim (in part. 9 ss.). V. pure R. POSNER, Law and literature,
A Missundersstood Relation, Cambridge, Mass. 1988.
Musica e “diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione
43
tura tedesca, allo stesso modo ci sono tanti “musicisti-giuristi”. Sarebbe interessante ricercare i possibili legami fra l’inizio biografico da
giurista e la svolta nell’arte musicale, per esempio nella costruzione di
un movimento, nel ritmo e nello stile. Il cambiamento di vita di grandi
personalità, la loro scelta per la musica, non deve però essere un argomento contro il legame fra musica e diritto.
3.6. Questioni sul diritto d’autore
Una questione particolarmente difficile sul rapporto fra musica e
diritto si pone nei seguenti termini: se e come l’ordinamento giuridico
tratta nell’odierna società dell’informazione con gli aventi diritto, cioè
con gli autori e gli interpreti di opere musicali. Le questioni sono oggi
drammatiche, viste le molte copie pirata e le illimitate possibilità di internet. È ancora l’autore della “musica”, di qualsivoglia genere, sufficientemente e abbastanza a lungo protetto? – quale conseguenza del
suo diritto della personalità. Anche qui il tema può essere solo accennato. La proprietà intellettuale della musica dovrebbe in ogni caso essere giuridicamente protetta a sufficienza (cfr. art. 14 GG, e a proposito BVerfGE 31, 229; 36, 281)61: è un compito giuridico e politico. Si
accenni anche al possibile conflitto fra la libertà di espressione
dell’autore e la libertà di espressione dell’interprete62.
3.7. Ulteriori forme d’espressione nate dalla connessione di “musica e diritto”
Va citato espressamente il problema della musica nel diritto ecclesiastico, e in particolare in Chiesa. Su questo tema esiste anche
un’opera: Palestrina di Pfitzner. È nota la lite in qualche concilio medievale a proposito della domanda, se e quali musiche possono essere
eseguite nelle chiese cattoliche (es.: Vienna, 1311/12, e soprattutto
Trento, 1545). Il CIC del 1983 regola il nostro tema (per esempio il
canone n. 1173: “in canto e preghiere”), prima c’era stata l’enciclica di
Pio XII (1955) Musicae Sacrae Disciplina. Anche il mondano diritto
61
62
F. FECHNER, Geistiges Eigentum und Verfassung, Tübingen 1999.
F. HUFEN, Staatsrecht II, 2. Aufl., München 2009, 584 ss.
44
Peter Häberle
dei giorni festivi si occupa della questione delle musiche permesse e
proibite (il diritto sul giorno festivo di tutta la Germania regolamenta
“i giorni festivi silenziosi” – cfr. BayFeiertagsG con divieto di ballo e
di musica ad esempio per il venerdì santo).
Prospettive future
Il mio schizzo assomiglia più a una “passeggiata” attraverso il nostro tema. Corrisponde in questo senso allo spirito del luogo, a Roma.
Alcuni di voi conosceranno il bel detto di uno studioso romano: non
esiste il diritto romano, bensì: il diritto è romano. Ho appreso questa
battuta da A. D’Atena (certo, il diritto costituzionale è rispetto a “Roma” qualcosa di nuovo). La musica in tutto ciò è il più universale dei
regali e noi ne ringraziamo gli dei. Si dice che la Grecia antica ha
ammirato la propria musica (oggi purtroppo a noi sconosciuta) come
la più alta creazione della propria cultura. Noi ammiriamo il diritto
romano come il regalo di Roma all’Europa, al mondo. Il diritto costituzionale è senza dubbio una particolare creazione della modernità, e
cioè il diritto costituzionale degli Stati costituzionali. Anche se questo
può trovare le sue fonti classiche in Platone e Aristotele, anche in Cicerone (con riferimento alla giustizia o alla salus publica), lo Stato costituzionale è una conquista culturale di molti, per lo più dei nuovi
tempi, di luoghi e di persone: cito solo Montesquieu, Rousseau, i Federalist papers degli Stati Uniti nel loro costituirsi, così come I. Kant
(per la dignità dell’uomo) e, dall’Inghilterra, T. Hobbes e J. Locke.
Sulle spalle di questi giganti, la “dottrina della costituzione come
scienza della cultura” può rendere in modo umile riconoscibile il legame fra musica e diritto, anche se qui e oggi – per quanto a Roma –
solo in forma di accenno.
(trad. it. di Giada Mangiameli)
Ragionevoli dissonanze.
Note brevi per un possibile accostamento
tra le intelligenze della musica e del diritto
MARIA PAOLA MITTICA
SOMMARIO: 1. Un ulteriore versante negli studi di Diritto e Musica. – 2. Razionalizzazione e
armonia. Tra consonanza e dissonanza. – 3. L’artista engagé: la ricerca costruttiva di
Schönberg. – 4. Sul volano della dissonanza. Il superamento della tonalità. – 5. Il resto
della musica. Verso una nuova espressione del diritto. – Conclusioni.
“E di quelle (cose), infine, che stimolano le orecchie dicono che emettono strepito, suono
o armonia; opinione quest’ultima che ha provocato negli uomini un tal grado di follia da far
loro credere che anche Dio trae diletto dall’armonia”
(SPINOZA, Etica, 1677)
“La struttura è propriamente controllata dalla mente. L’una e l’altra godono della precisione, della chiarezza, e dell’osservanza delle norme. Mentre la forma richiede soltanto che
esista libertà. Essa appartiene al cuore; e la legge che osserva, seppure mai essa si sottomette a
qualche legge, non è mai stata scritta né mai lo sarà. (…) Qualsiasi tentativo di escludere
l’irrazionale è irrazionale. Qualsiasi strategia compositiva totalmente “razionale” è supremamente irrazionale.
(J. CAGE, Silenzio, 1971)
1. Un ulteriore versante negli studi di Diritto e Musica
Il ricorso intuitivo alla metafora musicale per spiegare alcuni problemi o specifiche modalità del ragionamento e dell’espressione giuridici è sempre più ricorrente in molti studi aventi a oggetto il diritto,
assumendo particolare rilievo di recente nel campo Law and the Humanities.
Nulla di così sorprendente se si considera che la riflessione sulla
musica occupa un posto di rilievo nella storia del pensiero umano sin
48
Maria Paola Mittica
dall’antichità, e in modo trasversale ai vari saperi che osservano il
mondo e l’uomo anche rispetto al suo essere politico e di conseguenza
giuridico. In fondo, è più curioso che sia il pensiero del diritto ad averla accantonata per un certo periodo di tempo. Ulteriori effetti della
modernità, potremmo dire. In tal senso, anche l’esclusione di un pensiero della musica rientrerebbe tra le tante operazioni selettive del processo di formalizzazione e di autonomizzazione che hanno trasformato
il diritto in un sistema altamente burocratizzato, in dipendenza di una
cultura per vocazione specialistica e autoreferenziale. Nelle pieghe del
pensiero giuridico di questa epoca di crisi accade dunque che, tra le
preoccupazioni e le esigenze di rinnovamento che si accompagnano
alla messa in questione dei paradigmi della modernità, riemerga anche
l’attenzione per la musica.
Dagli Stati Uniti provengono gli studi più risalenti1, ma anche di riferimento nel dibattito attuale2. In essi, oltre che per la comprensione
del senso comune giuridico che si riversa al livello della cultura popolare, l’accostamento tra diritto e musica trova la sua più fruttuosa applicazione negli specifici ambiti dell’interpretazione e della performance (che contempla anche l’improvvisazione), quali contesti specifici dell’azione tanto giuridica quanto musicale, come hanno messo
ben in rilievo di recente Valerio Nitrato Izzo e Giorgio Resta3. Esistono, tuttavia, testimonianze non trascurabili per una gius-musicologia
anche in Italia e ancor di più in Europa4.
1
Quelli di Jerome Frank, che viene indicato come l’antesignano dell’approccio di Law &
Music, sono i più significativi. Cfr. F. JEROME, Say it With Music, in Harvard Law Review,
61/1948, 921 ss.; ID., Words and music: Some Remarks on Statutory Interpretation, in
Columbia Law Review, 47/1947, 1259 ss.
2
Per tutti si rimanda a D. MANDERSON e D. CLAUDILL (Eds.), Symposium. The Modes of
Law: Music and Legal Theory. An Interdisciplinary Workshop, in Cardozo Law Review, 20,
5-6/1999; J.M. BALKIN e S. LEVINSON, Law, Music and Other Performing Arts, in U. Pa. L.
Rev. 139/1991, 1597 ss.
3
Vedi di V. NITRATO IZZO, Interprétation, musique, droit: performance musicale et
exécution de normes juridiques, in R.I.E.J. 58/2007, 99 ss., e Diritto e musica: performance e
improvvisazione nell’interpretazione e nel ragionamento giuridico, in Diritto e narrazioni.
Temi di diritto, letteratura e altre arti, a cura di M.P. Mittica, Milano 2011, 125 ss. Di G.
RESTA, Il giudice e il direttore d’orchestra. Variazioni sul tema: “diritto e musica”, in
Materiali per una storia della cultura giuridica, 2/2011.
4
Si rinvia in particolare al saggio, preziosamente corredato di una cospicua bibliografia,
di G. RESTA, op. cit., per lo sforzo critico ricostruttivo degli studi di Diritto e Musica negli
USA come in Europa, e per la specifica attenzione che dedica agli studi sull’interpretazione
giuridica, sebbene da una prospettiva del tutto diversa da quella americana, di Emilio Betti
che si occupa di Diritto e Musica in Italia intorno agli anni ’40 del ’900, raffrontandoli a
quelli di Salvatore Pugliatti, giurista ma anche critico letterario e musicologo riconosciuto.
Ragionevoli dissonanze
49
Il nostro pensiero va in particolare al Jean Carbonnier delle pagine
che Francesco Saverio Nisio rintraccia sulla relazione tra il diritto e le
(altre) arti5. Nel merito, Carbonnier sostiene non soltanto che la
musica suggerisce la regolarità e dunque è di per sé regola, ma
richiama anche il rapporto tra ritmo e regolazione. In ciò andrebbe
osservato l’emergere del legame musicale tra diritto e società,
compresa la dinamica degli spostamenti tra diritto e non diritto,
nonché il bilanciamento tra crimine e punizione come ritmo-chiave
della vita sociale. Inoltre: “Lo studio comparato della giuridicità dei
suoni non è ancora cominciato”, dice Carbonnier. “Esistono
intonazioni cariche di diritto. In tutte le culture l’orecchio umano sa
riconoscere la voce del comando, la voce dell'ingiunzione, della
minaccia, dell'ingiuria. Registrata in udienza, la lettura delle sentenze
o dei decreti rivelerebbe contrasti tra magistrati, tra gradi di
giurisdizione, tra motivazioni e dispositivi (…). Alcune grida hanno
un significato giuridico carico di consuetudine: l’inveire contro
qualcuno, il nostro ‘Al ladro!’ il ‘Si salvi chi può!’ (un invito a gettarsi
nel non diritto), gli avvisatori acustici, ecc.”6. Per non pensare, poi,
all’uso della voce nelle performance giuridiche. Come negare che le
differenti emozioni malcelate nel tono delle parole, o più
semplicemente una balbuzie, non giochino per la loro parte gli esiti di
un’azione giuridica?
Un taglio originale dell’approccio Diritto e Musica è quello offerto
anche da Peter Häberle, il quale si è occupato di ricostruire
5
Cfr. F.S. NISIO, Jean Carbonnier, Torino 2002, 34-37, che ringrazio per avermi per
avermi guidato sulle tracce di questa riflessione nella complessa quanto raffinata opera di
Carbonnier.
6
J. CARBONNIER: Droit civil, Paris 1955, Intr., 34-35 e 45-52; Sociologie juridique, Paris
1972, 169, 311, 344. È evidente che quelle di Carbonnier non vogliono essere più che
suggestioni. Ne testimoniano la bontà, tuttavia, sia lo sviluppo della ricerca nel campo della
psico-acustica, che si occupa di indagare il fenomeno della percezione soggettiva dei suoni,
ovvero della conversione dei suoni uditi in forme di pensiero; sia la ricerca nel campo
dell’etnologia della musica. In particolare viene da chiedersi se Carbonnier non abbia letto il
Simmel degli Studi psicologico-etnografici sulle origini della musica. Ipotizzando la
continuità tra linguaggio e musica, il sociologo tedesco afferma che l’enfasi emotiva abbia
con il tempo caricato il linguaggio di particolari intonazioni, poi codificate e significate con
diverse sfumature all’interno di ogni cultura. Linguaggio e musica si compenetrano quindi
come pensiero ed emozione e seguono nel corso del tempo un processo di strutturazione
culturale. Il che potrebbe essere presupposto anche per l’idea di uno studio comparato delle
intonazioni giuridiche. Per la riflessione di Simmel, vedi M. DEL FORNO, Musica, linguaggio
e comunicazione nell’opera di Georg Simmel, in Simmel e la cultura moderna, a cura di C.
Corradi, D. Pacelli, A. Santambrogio, I, Perugia 2010, 391 ss.
50
Maria Paola Mittica
l’evoluzione dello Stato costituzionale in rapporto alla storia musicale,
proponendo un interessante esame comparativo sugli inni nazionali
come indicatori fondamentali dell’identità culturale di un popolo e
“fonte di consenso razionale ed emotivo per un vivere insieme politico”7.
La linea di pensiero che mi prefiggo di seguire in questo contributo
è ancora ulteriore e ripropone il nesso tra diritto e musica nella storia
delle idee, facendo particolare riferimento all’idea di ragione.
In un lungo saggio, pubblicato nel 2000, negli atti di un convegno
svolto a Aix-Marseille su Droit et Musique, Rouland mette in evidenza come lo sviluppo della ragione giuridica e quello della ragione
compositiva musicale presentino elementi di affinità nella storia della
cultura occidentale8, in particolare durante l’epoca moderna, in cui
evolvono entrambe in dipendenza dello stesso processo di razionalizzazione che giunge al proprio culmine nel ’700 per cominciare a declinare nell’’800 e “vacillare” nel ’900, dando luogo nella teoria musicale come nelle discipline giuridiche a nuove sperimentazioni e prospettive di analisi che affrontano criticamente il razionalismo, e il
formalismo che lo caratterizza, verso una nuova formulazione
dell’idea di intelligenza in grado di stemperare gli eccessi della ragione moderna.
Questo studio deve molto al Weber dei Fondamenti razionali e sociologici della musica, scritti intorno al 19119, in cui si riscontra
l’evolversi nella società occidentale di una concezione sempre più razionalizzante del suono e dell’armonia, che giunge al suo massimo
sviluppo sul piano dell’evoluzione tecnico-strumentale con
l’invenzione del pianoforte e, al livello delle forme espressive, con il
perfezionamento del sistema temperato e della notazione, finendo così
con il rappresentare per lungo tempo un modello di equilibrio per eccellenza10. Meno determinante è il giudizio di Weber sulla ricerca di
7
Si rimanda alla splendida relazione, in questo stesso volume, di P. HÄBERLE, Musica e
“diritto” all’interno del dibattito della dottrina della Costituzione come scienza della cultura.
8
N. ROULAND, La raison, entre musique et droit: consonances, in Droit et Musique. Actes
du Colloque de la Faculté de Droit d’Aix-Marseille, 23 juin 2000, Aix-En-Provence 2001, pp.
109-192.
9
M. WEBER, Fondamenti razionali e sociologici della Musica, in Economia e società, V,
Milano 1995. Ed. or. Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen 1922.
10
Per un’introduzione alla sociologia della musica di Weber, vedi L. DEL GROSSO
DESTRERI, Sociologia delle musiche: teorie e modelli di ricerca, Milano 2002, cap. 5, 50 ss.
Più interessante il saggio di M. DEL FORNO, Max Weber e lo sviluppo della musica in
Ragionevoli dissonanze
51
quei compositori a lui contemporanei che vanno prendendo congedo
dai capisaldi teorici dell’armonia tradizionale. Il sociologo tedesco
non esita infatti a manifestare il proprio scetticismo nei confronti delle
nuove sperimentazioni, e in particolare si distanzia proprio dalle ragioni che guidano il recupero della dissonanza, in cui egli vede non
tanto la ricerca di un’espressività più complessa, quanto il rischio della decadenza dell’ordine compositivo faticosamente elaborato nel corso di varie secoli, senza che ne subentri uno davvero nuovo11.
Dopo quasi un secolo, Rouland riformula il problema con il vantaggio di poter osservare gli sviluppi intervenuti nel corso del ’900 sia
nel campo musicale che in quello delle scienze giuridiche. Nel primo,
l’abbandono della razionalità delle forme, che sembra caratterizzare la
composizione a partire da Debussy e dalla musica ancora più recente,
si rivela infatti non tanto in un arretramento verso l’irrazionalità,
quanto in uno sviluppo ulteriore della polifonia e della libertà espressiva più “ragionevole”. Sul côté del diritto procedono similmente, verso una complessificazione dell’intelligenza giuridica, i movimenti di
rivolta al formalismo, che le scienze giuridiche ereditano dalla cultura
del Romanticismo e si sviluppano nel ’900 in discipline accomunate
dalla critica del positivismo giuridico12. Riportando il diritto al contesto dell’esperienza, l’antropologo francese conclude che è possibile
osservarne la complessità, e con “ragionevolezza” trattare le questioni
sempre più variegate che il mondo contemporaneo manifesta principalmente come un pluralismo giuridico da comparare con la polifonia
musicale13.
Occidente, in Quaderni di teoria sociale, 8/2008, 339 ss.
11
F. MONCERI, Musica e razionalizzazione in Max Weber. Fra Romanticismo e Scuola di
Vienna, Napoli 1999, 103-105.
12
La storia del pensiero sul diritto degli ultimi due secoli è particolarmente articolata e
investe la cultura occidentale nel suo complesso. D’altra parte, le implicazioni del formalismo
piuttosto che del razionalismo giuridico sono tutt’ora oggetto di questioni imprescindibili per
chiunque si interroghi sul diritto. Qui basti, nell’economia del discorso, il riferimento alle
pagine che R. TREVES, Sociologia del diritto, Torino 1987, cap. IV, 103 ss., dedica alla rivolta
contro il formalismo di giuristi che hanno operato in Europa e negli USA a partire dalla metà
dell’’800, ma anche a G. MINDA, Teorie postmoderne del diritto, Bologna 2001, più
specificatamente per la storia dei Critical Legal Studies negli Stati Uniti. Circa l’odierna
critica del formalismo giuridico, svolta da numerosi scienziati giuridici particolarmente
sensibili alla crisi di paradigma che investe il positivismo giuridico, cfr. M. VOGLIOTTI, Tra
fatto e diritto. Oltre la modernità giuridica, Torino 2007.
13
N. ROULAND, La raison, entre musique et droit, cit.
52
Maria Paola Mittica
Più delle conclusioni, il punto che maggiormente ci interessa del
lavoro di Rouland è la conferma che, nonostante la messa in crisi della
razionalità moderna, diritto e musica restino comparabili e proprio sul
perno dell’impiego della ragione14. È plausibile quindi proseguire il
percorso per capire se le evoluzioni intervenute nel campo musicale
possano contribuire, non soltanto all’analisi critica del diritto, ma anche all’elaborazione di un’intelligenza più variegata e sensibile per il
diritto, supportando di un’ulteriore prospettiva le materie che già lavorano in questa direzione. A fronte di una cultura giuridica ancora permeata dal positivismo à la Kelsen, che sta proseguendo nel segno del
razionalismo, andando sempre più alla deriva dell’astrazione e del
tecnicismo, il problema che si propone è, in altri termini, di capire se
l’intelligenza dell’arte musicale possa rivelarsi utile a una intelligenza dell’arte giuridica che attende di essere elaborata, in vista di delineare modelli interpretativi più adeguati per l’analisi del rapporto tra
complessità sociale e regolamentazione giuridica.
L’ipotesi che tenteremo di verificare è che sia proprio la dissonanza, così invisa a Weber, a sollecitare una forma di intelligenza ed
espressione particolarmente utile nel campo giuridico. Pretendendo la
concezione e l’ascolto della complessità, gli elementi dissonanti inducono, infatti, a sviluppare una maggiore sensibilità per la relazione
nell’impianto compositivo generale, che potrebbe svelarsi preziosa
nello svolgersi delle azioni nel campo giuridico, aprendo a una più raffinata capacità di contemplare elementi diversi e molteplici in grado di
alimentare una necessaria immaginazione giuridica e al contempo inclinando a un più efficace temperamento dei potenziali conflitti.
Per poter procedere in questa direzione è necessario, tuttavia, ripercorrere, seppure in modo estremamente sintetico, la storia del rapporto
tra armonia e dissonanza entro cui cogliere il nesso tra diritto e musica.
2. Razionalizzazione e armonia. Tra consonanza e dissonanza
Partiamo da alcuni elementi di sfondo. Il processo di razionalizzazione in musica si individua prevalentemente nello sviluppo della teo14
A questa conclusione conducono peraltro anche le riflessioni della stessa F. MONCERI,
op. cit., 122.
Ragionevoli dissonanze
53
ria della composizione, prendendo avvio dall’idea di armonia che proviene dalla tradizione platonica, e che Plotino consegna alla filosofia
del medioevo, traducendola in una visione del mondo che coinvolge
tutte le dimensioni della vita umana: la harmonia mundi.
Da qui in avanti l’armonia diviene l’equilibrata mescolanza di cose
diverse da cui scaturisce l’unità. Espressione di una legge matematica
che governa le singole parti, essa rivela l’esistenza di un Principio
primo e assoluto, incarnato in un Essere certo e imperituro al fondo
delle cose: l’Uno per Pitagora che sublima nell’idea di Dio. L’armonia
– cui corrispondono bellezza, verità e perfezione – è quindi matematica; perciò, pur essendo presente nel mondo, può essere colta e tradotta
nei diversi linguaggi soltanto tramite la razionalità.
Questa visione matematico-logica dell’armonia influenzerà in modo massivo la cultura occidentale fino al XIX secolo, costituendo il
principale riferimento tanto per il pensiero politico e le più rare riflessioni di giuristi che si serviranno della metafora musicale15, quanto per
la teoria compositiva in musica di questo lungo periodo.
La dissonanza vi si colloca centralmente come uno dei principali
propulsori dello sviluppo della struttura dell’armonia come idea del
mondo riflessa in quella della musica. Più la cultura evolve, le conoscenze si ampliano, le possibilità tecniche aumentano: più la realtà si
traduce in termini di complessità come dissonanza, invitando a
un’articolazione ulteriore delle possibilità nella vita e nella composizione.
La cosa si comprende molto bene nell’ambito musicale. Le svolte
epocali nell’evoluzione dell’armonia – essenzialmente tre: l’ingresso
della polifonia accanto alla monodia gregoriana (1200-1300)16, la na15
A titolo di esempio si rimanda alle tesi di Jean Bodin sulla justice harmonique alla fine
del 1500, e alle critiche che riceve da M. VILLEY, La Justice harmonique selon Bodin, in
Critique de la pensée juridique moderne, Paris 1976, il quale mostra grande sensibilità per
l’accostamento del pensiero politico e giuridico alla musica. Si veda a questo proposito S.
BAUZON, Il mestiere del giurista. Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Milano
2001. Un ulteriore esempio è offerto da A. LECA, Droit et musique: l'exemple de Jean de Dieu
Olivier (1753-1823) et son rêve de mise en musique de lois, in AA.VV., Droit et musique.
Actes du colloque de la Faculté de Droit d'Aix-Marseille, 23 juin 2000, Aix-Marseille 2001,
71-84, dove Jean de Dieu Olivier è un notaio francese che scrive L’esprit d’Orphée ou de
l’influence respective de la musique, de la morale et de la legislation comparsa in 3 voll. nel
1800, 1802 e 1804, con la proposta di tornare a cantare le leggi.
16
L’ingresso della polifonia accanto alla monodia gregoriana introduce una via di lento
superamento del canto basato su una sola linea musicale-vocale orizzontale, da parte di un
diverso canto articolato in più linee vocali parallele e corrispondenti tra loro in senso
54
Maria Paola Mittica
scita dell’armonia triadica (1500-1600)17, l’introduzione del sistema
tonale (dalla fine del 1600 in poi)18 – potrebbero essere lette anche
come risposte ai problemi di volta in volta provocati dall’introduzione
di elementi dissonanti nell’organismo musicale19.
Detto ciò, anche se talvolta giungerà a essere ritenuta indispensabile, la dissonanza resterà comunque un elemento “estraneo” da risolvere sul piano armonico, nell’ottica della visione originaria dell’armonia
come ordo et proportione del mondo20. Finché il sistema tonale non
andrà in crisi e la musica comincerà a essere prodotta nella ricerca
dell’“ineffabile armonia della dissonanza”, così come della possibilità
di utilizzare la musica quale strumento conoscitivo di quella dimen-
verticale. L’armonia nasce in senso tecnico proprio nel momento in cui alla melodia e al ritmo
(indissolubilmente legati tra loro) si associa la possibilità di “combinare simultaneamente due
o più suoni”, quando in altre parole alla struttura orizzontale della musica (quella della
melodia) si aggiunge quella verticale (l’armonia) che rende possibile cantare all’unisono non
soltanto su due ottave diverse, ma di utilizzare intervalli anche diversi dall’ottava.
17
La nascita dell’armonia triadica si sviluppa in particolare con le composizioni del ’500
e del ’600, attraverso le innovazioni della cd. “scuola fiamminga”, una corrente musicale che
porta a un elevatissimo grado di sviluppo e perfezione la polifonia, introducendo la
dissonanza nel cuore della composizione, imparando a trarne forza espressiva.
18
Con il sistema tonale, grazie al “temperamento equabile”, la scala musicale viene
fissata in dodici semitoni identici e nei due modi maggiore e minore, offrendo la possibilità di
costruire organismi musicali sia perfettamente integrati sul piano armonico (in verticale – si
pensi a Bach o a Palestrina), sia riccamente sviluppati sul piano melodico (quello orizzontale).
A queste grandi potenzialità compositive, si aggiunge la possibilità della modulazione, ovvero
del passaggio da una tonalità all’altra secondo una logica accordale già implicita nel sistema
gerarchico delle relazioni tra i dodici gradi: relazioni che possono essere attrazioni
(consonanze) o repulsioni (dissonanze).
19
Una storia del concetto di armonia si può ricostruire in modo più esteso attraverso i
saggi raccolti in Armonia, Tempo, a cura di G. Borio e C. Gentili, Milano 2007 (parte prima).
20
Una delle riflessioni più emblematiche di questo atteggiamento nel corso della storia
della dissonanza è quello di Leibniz, come sottolineato da M. HEARD, Concepts musicaux en
pensée politique: l’analogie et-elle féconde?, in Raisons Politiques, 14/2004, 91 ss. Per
Leibniz, l’armonia musicale è la metafora costante della matematica divina che presiede
all’ordine dell’universo. Così come il male e il peccato mettono in questione l’armonia divina,
allo stesso modo la dissonanza mette dunque in questione l’armonia musicale. La dissonanza
è considerata dunque come il migliore strumento per risalire dalle imperfezioni che esistono
nell'universo come in un pezzo di musica alla perfezione dell'intelligenza e del calcolo divino:
un'alterazione fertile in grado di sollecitare un’intelligenza particolarmente vigile. Difatti è
grazie alle dissonanze che è possibile cogliere la diversità e la molteplicità che l’armonia –
unitas in varietate – suppone. Il problema è semmai quello del rapporto tra la parte e il tutto,
tra universale e particolare, dove la dissonanza è la parte che adatta la variabile inattesa
all'armonia dell'insieme. Per questo, secondo Leibniz, l’armonia non esiste senza dissonanza.
Ragionevoli dissonanze
55
sione della vita a lungo travisata e limitata dagli strumenti della razionalità che le hanno impedito di “risuonare”21.
Il grande commiato dal sistema tonale e dalla visione classica
dell’armonia arriva, come si diceva, con il Romanticismo22. In Beethoven (1770-1827) – si pensi alle ultime opere, le sonate per pianoforte e ancor di più i quartetti per archi – la consonanza sta già corrodendosi in un processo senza ritorno che rifugge dalla visione armoniosa e perfetta del mondo, privilegiando alla base del linguaggio il
sentimento e le passioni piuttosto che i rapporti architettonici. Ed è
dissoluzione che diviene progressiva con Wagner (1813-1883), la cui
composizione si spinge sino ai confini del sistema armonico ingenerando la rottura della forma chiusa e l’instaurarsi della “melodia infinita”, che innova la funzione logica e costruttiva dell’armonia. Un
passaggio riflesso, peraltro, nella filosofia di Nietzsche (che proprio
con Wagner intesse un rapporto travagliato), il quale riconduce alla
dissonanza il dionisiaco, cuore pulsante della vita, espresso in un grido
che la musica può e deve accogliere in contrapposizione alla parola
scritta dell’ordine apollineo (simulacro dell’armonia), artificiale come
il tentativo di razionalizzare e ordinare la vita, il cui senso inevitabilmente sfugge23.
In queste radici va cercato il senso di discontinuità e incompiutezza
in cui è sospesa la contemporaneità a partire da Mahler (1860-1911),
che della rottura fa la propria estetica, affidando l’unità delle sue imponenti quanto mai frammentarie composizioni non più alla struttura
ma a un’idea guida, e dalla musica francese del primo decennio del
secolo scorso, dove si cominciano a enfatizzare le relazioni cromati21
In questi termini si esprime Riccardo Muti in un’intervista rilasciata qualche anno fa di
cui riferisce G. GALIMBERTI, La musica e l’abisso dell’ineffabile, in D La Repubblica,
marzo/2009.
22
Per la ricostruzione di questo processo di “commiato” dal sistema tonale e le questioni
relative alla “nuova musica”, cfr. E. LISCIANI PETRINI, Il suono incrinato. Musica e filosofia
nel primo Novecento, Torino 2001, alla quale insieme a F. MONCERI, op. cit., (capitolo terzo)
dobbiamo in larga misura la ricostruzione dello sfondo su cui si sviluppa la storia della
dissonanza che serve al nostro ragionamento.
23
Per un’introduzione al rapporto tra Nietzsche e la musica, vedi C. MIGLIACCIO, Musica
e filosofia in Friedrich Nietzsche, in Introduzione alla filosofia della musica, a cura di C.
Migliaccio, Novara 2009, 149-165. Ha lavorato in particolare alla ricostruzione del concetto
di dissonanza nel pensiero nietzschiano C. Lévesque, Dissonance. Nietzsche à la limite du
langage, Hurtubise HMH 1988. Su questo testo vedi la bella recensione di M. TUGEON, in
Philosophiques
XVIII/1,
1991,
disponibile
su
Érudit
(www.erudit.org)
http://id.erudit.org/iderudit/027144ar.
56
Maria Paola Mittica
che tra le note rinnovando il senso delle dissonanze. Sono di Debussy
(1862-1918), ma non soltanto, le grandi intuizioni destinate a rivoluzionare la composizione sul divenire della dissonanza in consonanza,
piuttosto che sulla possibilità di comporre facendo riferimento alla
scala cromatica (sono celebri i suoi motti: “dissonanze di oggi, consonanze di domani”; “il cromatismo offerto dalla scala a dodici semitoni
resta da sfruttare”). Anche le dissimmetrie nel ritmo e nel percorso
armonico introdotte da Stravinskij (1882-1971) si muovono verso un
rinnovamento radicale, restituendo il senso di una vita che si svolge in
modo irregolare ed eccentrico anche se attraverso “quadri” che le danno forma. E gli esempi potrebbero continuare a lungo, se soltanto si
pensa al periodo di grande fermento che interessa la musica come tutte
le altre arti nel corso del ’900. Basti quindi considerare che qualunque
sia la reazione che segue la crisi della visione classica dell’armonia,
nella rinnovata consapevolezza che la musica al pari di altre arti debba
essere veicolo di conoscenza, le soluzioni compositive a cui giungono
questi autori, sebbene ognuno con la propria specificità, convergono
in molteplici punti che, a partire da un impiego della dissonanza sempre più azzardato, sono destinate a sfociare in una nuova intelligenza
compositiva, in grado di fornire non pochi elementi di riflessione rispetto alla questione posta nel presente contributo.
In questo quadro, tra le diverse innovazioni intervenute nel linguaggio musicale, tutte di per sé interessanti ai fini del raffronto tra intelligenza giuridica e musicale nell’arte contemporanea, la nostra scelta ricade sulla ricerca che accompagna il passaggio dalla tonalità alla
pantonalità, ed evolve nella teoria musicale di Cage, essendo la via
che più ci è apparsa agevole per un primo approfondimento del tema
della dissonanza tra diritto e musica.
3. L’artista engagé: la ricerca costruttiva di Schönberg
La rielaborazione radicale del rapporto tra armonia e dissonanza è
al cuore della ricerca di Arnold Schönberg (1874-1951).
La ricerca di un nuovo sistema musicale è per Schönberg un imperativo morale che discende dalla necessità di affrontare il senso di
Ragionevoli dissonanze
57
smarrimento che ha investito la cultura del suo tempo24. Se non si
vuole la rarefazione totale della musica nel silenzio che ormai avvolge
il fondamento, è necessario tentare la riorganizzazione del suono in
una nuova sintassi. Il che significa anche procedere verso una diversa
comprensione del mondo a cui la musica deve dare accesso: la missione dell’artista è il conoscere come continua ricerca di una verità che
non si raggiunge, che probabilmente non saremmo in grado di sopportare25.
Schönberg insiste più volte sulla necessità di osservare il superamento della musica tradizionale da una prospettiva storica. Contro
l’ideologia naturalistica che fa coincidere il concetto di armonia con
una visione ordinata del mondo colta mediante la logica del sistema
tonale, il concetto di tonalità va ridefinito all’interno del rapporto ineliminabile tra arte e natura, in cui l’arte è storicamente determinata. In
tal senso, nel prendere distanza dall’“atonalità” – poiché non si tratta
di superare la tonalità quanto invece di individuare il modo in cui la
tecnica artistica elabora “naturali possibilità”26 – l’Autore chiarisce
che il metodo compositivo giunto alle soglie del ’900 è soltanto una
tecnica che si è limitata a considerare alcune delle possibilità offerte
dalla natura dei suoni, e non è quindi una condizione necessaria.
L’idea che una nota di base (la tonica) domini la composizione ponendosi come centro di riferimento per ogni costruzione e successione
di accordi, è soltanto un artefatto storicamente situato, che riflette la
cultura, l’ideologia, nonché il gusto del proprio tempo. Sarà utile conoscerlo non più che per penetrare il senso delle opere del passato.
24
Il riferimento alla prossimità delle visioni oltre che alla vicinanza umana e personale tra
Schönberg e Adorno è d’obbligo. Qui sia sufficiente ricordare la perfetta sintonia nella critica
dell’armonia tradizionale e della funzione della musica, che anche per Adorno non è quella di
garantire o rispecchiare la pace e l’ordine, ma di far apparire ciò che viene nascosto sotto la
superficie, quella dissonanza vitale che resiste all’oppressione di una componente dominante.
Tra le molte opere di musicologia e sociologia della musica, si rinvia a TH.W. ADORNO,
Dissonanze, Milano 1959.
25
A. SCHÖNBERG, Manuale di armonia, Milano 2008, 411-412.
26
Scrive Schönberg: “Già il termine ‘tonale’ è usato impropriamente se lo si intende in
senso esclusivo e non inclusivo: esso può avere un senso solo se si ammette che tutto ciò che
deriva da una successione di suoni – sia esso vincolato mediante la relazione diretta a
un’unica tonica o mediante legami più complessi – costituisce la tonalità. (…) Un pezzo di
musica dovrà sempre essere tonale almeno per il fatto che da suono a suono vi deve essere
una relazione in base alla quale i suoni, siano essi successivi o sovrapposti, diano una
continuità accettabile come tale.” (ivi, 509, nota) Vedi a questo proposito l’interessante
ricostruzione del pensiero di Schönberg fornita da G. GUANTI, Emanciparsi
dall’“emancipazione della dissonanza”?, in G. BORIO, C. GENTILI, op.cit., 171-198.
58
Maria Paola Mittica
Viceversa, la musica del ’900 deve essere compresa a partire dello sviluppo del cromatismo che introduce una tonalità estesa e l’educazione
progressiva dell’orecchio agli armonici più lontani. Il concetto tecnico di armonia muta, ma va cambiando infatti anche la capacità di
ascolto, più disponibile ad accogliere suoni poco familiari27.
Ripercorrendo la storia e le evoluzioni dell’armonia nella musica
occidentale, in Schönberg prevale l’idea che in natura non esistono
suoni non armonici, e dunque che l’opposizione tra consonanza e dissonanza non ha più senso. Piuttosto che un’eccezione da risolvere, la
dissonanza è una consonanza più lontana, dice l’Autore, e va recuperata in un’idea più ampia di armonia28. Si tratta di spostarsi dalla logica bi-modale impiegata tradizionalmente nel sistema tonale, che usa
per lo più i toni interi, alla scala cromatica che contempla dodici suoni, di semitono in semitono, così da evitare, da una parte, l’esclusione
di suoni, e organizzare, dall’altra parte, il materiale musicale secondo
una logica compositiva più estesa. La dodecafonia è in sintesi una maniera per organizzare tutte le risorse della scala cromatica: l’esito
dell’evoluzione di un metodo compositivo che muta la tonalità in pantonalità29.
Se soltanto cominciamo a giocare queste prime riflessioni sul côté
giuridico, già è possibile scorgere il forte collegamento tra i due versanti. L’intelligenza musicale si mostra adeguata infatti a confermare i
limiti, già individuati dalla critica del diritto, della logica bi-modale
che caratterizza il ragionamento giuridico. In un processo simile a
quello subito dalla dissonanza rispetto alle soluzioni armoniche, procedendo per opposizioni il sistema giuridico arriva a pensare soltanto
27
Peraltro, sottolinea Schönberg, nel corso dell’’800 con lo sviluppo del cromatismo
l’orecchio si è riabituato alla dissonanza e ha perduto il timore per la sua incoerenza. (Si pensi
a La bagatelle senza tonalità o alla Lugubre gondola di Listz del 1885 circa).
28
E ancora: “Le espressioni consonanza e dissonanza, che indicano un’antitesi, sono
errate: dipende solo dalla crescente capacità dell’orecchio di familiarizzarsi anche con gli
armonici più lontani, allargando in tal modo il concetto di ‘suono atto a produrre un effetto
d’arte’ in modo che vi trovi posto tutto il fenomeno naturale nel suo complesso. Quello che è
oggi lontano, domani potrà essere vicino: basta essere capaci di avvicinarsi. Nella via che la
musica ha percorso essa ha introdotto nell’ambito dei suoi mezzi espressivi un numero sempre
maggiore di possibilità e di rapporti già insiti nella costituzione del suono”, A. SCHÖNBERG,
Manuale di armonia, cit., 24.
29
Per le ripetute precisazioni di Schönberg nel merito della distinzione tra atonalità e pantonalità, vedi ancora G. GUANTI, op. cit. Per la storia del termine “dodecafonia”, originariamente coniato in area francese soltanto per indicare ciò che i musicisti tedeschi intendono per
“musica di dodici suoni”, vedi J.N. VON DER WEID, La musica del XX secolo. Le opere, i compositori, le tecniche, i linguaggi, gli scritti, la critica, le tendenze, Milano 2002, 48.
Ragionevoli dissonanze
59
in termini di esclusione, di assimilazione o integrazione, eliminando o
tentando di azzerare il più possibile la diversità. Ciò che non “suona”
familiare, che fa emergere l’alterità, caratteristica saliente del legame
sociale e dimensione sempre più complessa nella società tardomoderna, viene così messo a tacere tentando di riportare l’alterità a
identità, senza che possa dispiegarsi la funzione originaria del diritto
di tutelare il legame sociale tra soggetti “altri”, rischiando,
nell’inseguire un’idea astratta di “armonizzazione”, non soltanto di risultare inefficace nel trattamento delle divergenze, a cui è chiamato,
ma di fomentare verosimilmente i conflitti e in ultima istanza a frenare
il rinnovamento politico e sociale.
Analizzando ulteriormente la rivoluzione della “nuova musica”, il
collegamento tra il pensiero musicale e quello giuridico si fa anche più
immediato. Per utilizzare tutti i dodici semitoni sui quali si costruisce
la scala cromatica e quindi giocare la composizione contemplando tutti gli armonici, Schönberg elabora infatti alcune soluzioni compositive
di estremo interesse anche per un’armonia del “ragionamento giuridico complesso”.
Senza entrare in tecnicismi, basterà riferirne due: la possibilità di
estendere l’ambito tonale, fino alla dissoluzione della dominante, provocando l’effetto della “tonalità sospesa”; e l’organizzazione relazionale interna delle parti, grazie a una rielaborazione del contrappunto
che tiene in perfetto equilibrio tra loro i suoni, da cui si dispiega
un’assoluta “emancipazione della dissonanza”.
Da qui in avanti la comprensibilità della dissonanza viene considerata pari a quella della consonanza. Ciò che unisce il suono non è più
la consonanza tonale, ma una diversa logica (intervallare) relativa ai
rapporti di distensione o rarefazione timbrica, dinamica o armonica
che interessa tutte le parti all’interno del materiale sonoro stesso30. La
composizione interessa uno spazio polirelazionale in cui ogni polarità
sensoriale vive di e con tutte le altre relazioni in cui è innestata e
l’armonia si realizza nell’individuazione del nesso che tiene insieme le
stesse.
In questo specifico ambito estetico, dunque, comporre musica è
come costruire cosmi relazionali, rinunciando a un centro.
Se Schönberg fosse uno studioso del diritto sarebbe tra i più accaniti critici del monismo in favore del pluralismo giuridico, dove
30
Cfr. E. LISCIANI PETRINI, op. cit., 107-135.
60
Maria Paola Mittica
l’emersione del diritto è osservata in relazione a una pluralità di fonti
(formali e informali) e nessuna di queste è “dominante”. Il musicista
potrebbe suggerire al giurista di rendere il diritto innanzi tutto un sistema capace di contemplare il maggior numero di voci possibili. Se
non v’è consonanza nei valori, quindi la possibilità di chiudere su una
dominante, perché molteplici sono le visioni del mondo, l’ordine dovrebbe essere composto con un nuovo metodo, in grado di normare le
relazioni secondo la propria spontanea espressione. Rinunciare a un
centro significa tentare di pensare a partire dalle realtà periferiche, dotate di una propria identità e di un certo grado di autonomia31.
Una volta richiamato il ragionamento giuridico alla dissoluzione
della dominante in vista di realizzare una tonalità sospesa, Schönberg
non sembra riservarci, tuttavia, suggerimenti ulteriori.
Il problema è che dell’organizzazione relazionale interna delle parti Schönberg propone la regia. È lui a elaborare le regole per mettere
in relazione tra loro i suoni, e quindi, pur componendo con dodici note
guidato da una visione pluralistica, impone “gerarchicamente delle
leggi”. Inoltre, privilegiando l’utilizzo della logica per definire i nessi
tra le relazioni, Schönberg crea di fatto una struttura rigorosa delle
stesse pre-determinandole, finendo inavvertitamente per contenere le
possibilità sonore in un insieme finito, e rinunciare alla comprensione
dell’armonia del mondo nella sua complessa gamma di sonorità: ciò
che non consente di ristabilire il rapporto di immediatezza con la vita
che le avanguardie del secondo dopoguerra chiedono all’arte.
Riportando il discorso sul côté del diritto, se ne capiscono bene i
limiti. Da una parte, non si riesce a individuare con chiarezza il rapporto tra centro e periferie; dall’altra parte, l’idea di rispondervi estendendo le potenzialità della logica strutturale del sistema giuridico introduce il rischio di alimentare il processo di astrazione del diritto dalla realtà e inficiarne la funzione sociale. Sia dal fronte dell’esperienza,
sia dagli studi di logica si sa infatti che il diritto positivo più si razionalizza e formalizza, più introietta paradossi al livello della realtà sociale che pretende di ordinare, senza che il proprio ragionamento cessi
di essere caratterizzato da incertezza.
31
Il rapporto centro-periferia è un altro paradigma che è stato elaborato nell’ambito delle
scienze sociali e ampiamente impiegato nella critica del diritto positivo a partire dagli anni
’80. Per un’introduzione generale, vedi la voce di D.W. URWIN, Centro e periferia, in
Treccani.it Enciclopedia delle scienze sociali, http:// www.treccani.it/enciclopedia/centro-eperiferia_%28Enciclopedia-delle-Scienze Sociali%29/.
Ragionevoli dissonanze
61
Per due strade diverse, quindi, la critica mossa al razionalismo potrebbe valere per la concezione di Schönberg come per quella di Kelsen circa la teoria pura del diritto32. La questione merita, tuttavia, un
seppur minimo approfondimento per evitare di comprimere la riflessione di Schönberg nel cerebralismo.
In un breve scritto dedicato alla “Dottrina della forma”, Schönberg
si difende dall’accusa di “violentare il naturale” spiegando in che modo l’arte coincida con la natura: “Bisogna costringere ciò che è naturale (il materiale), attraverso ciò che è naturale (il nostro modo di pensare), ad agire in modo naturale e conforme alla nostra natura, altrimenti
non lo possiamo comprendere”. Si tratta di riuscire ad assumere consapevolmente il mondo nella sua complessità, sia al livello emozionale
che intellettuale, e restituirlo in una sintesi che non risulti ostica. Per
far ciò il vero artista è “uno che con autodisciplina e cultura ha trasformato le proprie doti emotive e intellettuali innate in un apparato
perfettamente funzionante, che non ha bisogno della frusta della riflessione e si trova a casa propria nell’ambito intellettuale come in quello
emozionale (…) uno che non può in alcun modo tenere distinta la sfera emotiva da quella razionale e le percepisce come qualcosa di unico
e identico, allora si può supporre che la sfera intellettuale sia un criterio di valore esattamente come quella emotiva; e quindi si può essere
certi che in ogni opera nella quale si trovano alte qualità intellettuali,
si troveranno anche qualità emotive altrettanto preziose (…). Perché
c’è solo una fonte!”33.
L’ambizione di Schönberg è espressa chiaramente e sta nel ritrovare un nesso tra la vita e l’uomo attraverso un metodo rigoroso, volto a
esprimere l’idea di armonia fondandola però su nuove leggi. Interpretare la dodecafonia attraverso una semplicistica opposizione tra razionalismo e natura sarebbe dunque fuorviante. La tensione emotiva e il
32
In tal senso si rimanda al parallelo tra gli assunti epistemologici di Hans Kelsen e di
Arnold Schönberg elaborato da Monica Sette Lopes, sebbene riteniamo che l’interessante
operazione meriterebbe di essere ulteriormente affinata, tenendo conto non soltanto del purismo tecnico che accomuna i due approcci e conduce l’A. a sopravvalutare il processo di astrazione dalla realtà che caratterizzerebbe entrambi. Non bisogna dimenticare infatti che, per
quanto si tratti di operazioni logiche in entrambi i casi, Schönberg scardina l’idea della centralità della dominante, mentre Kelsen costruisce la teoria pura del diritto sul presupposto di una
norma fondamentale da cui fa discendere l’intero sistema giuridico. Cfr. M. SETTE LOPES,
Uma metafora. Musica & Direito, Sao Paulo 2006, 108-109.
33
A. SCHÖNBERG, Stile e pensiero. Scritti su musica e società, a cura di A.M. Morazzoni,
Milano 2008, 104-106.
62
Maria Paola Mittica
lirismo sono del tutto centrali al pari della componente intellettuale
(naturale – essa stessa – come l’emozione, i sensi e la materia). Con
questa eredità, d’altra parte, si confrontano i suoi allievi in una tensione progressiva verso l’espressione del sentimento e della libera aggregazione di suoni34.
Il limite è semmai, come dicevamo, in quell’esigenza di regia che
si affida alla mente e si sviluppa in eccesso, sopravanzando le altre intelligenze della natura umana. Sebbene quindi le due logiche del sistema dodecafonico e del sistema giuridico si prestino a essere comparate sul piano di un impiego privilegiato della razionalità, le premesse
e la tensione appaiono del tutto diverse. Mentre Schönberg tenta di far
collimare mente e sentimento con la natura, la scienza giuridica si dirige verso la totale astrazione del diritto positivo dall’universo naturale e morale, concependolo come un sofisticato dispositivo che osserva
la vita soltanto attraverso la traduzione della stessa in termini artificiali. La struttura chiusa del sistema, che nel caso di Schönberg si rivela
limitante rispetto alle ambizioni espressive affidate alla musica, per la
teoria del diritto è una evoluzione positiva, rispondente a una “necessaria chiusura operativa”.
Dalla ricerca del maestro viennese provengono dunque, per
l’intelligenza giuridica, oltre alle chiare indicazioni circa l’opportunità
di abbandonare la logica bi-modale, accogliendo l’emancipazione della dissonanza, e di tentare la composizione con molteplici voci che risuonano a prescindere da una nota centrale, anche l’invito a ricostruire
un diritto aderente alla vita e alla società, dove l’intelligenza
dell’uomo, razionale, sentimentale ed emotiva, sia al contempo natura
e arte.
4. Sul volano della dissonanza. Il superamento della tonalità
Recepita in modo critico l’esperienza della dodecafonia, la ricerca
di John Cage (1912-1992), uno tra i compositori più interessanti del
34
La ricerca di Alban Berg (1885-1935) sarà volta all’introduzione progressiva di
elementi in grado di esaltare l’espressione emotiva; quella di Anton Webern (1883-1945)
amplierà le possibili combinazioni dei rapporti reciproci tra le parti, fino a concepire
un’organizzazione del tessuto sonoro per trame relazionali che si traducono in molteplici
leggi, tutte parimenti legittime ancorché imprevedibili. Entrambi, è evidente, non si
sposteranno dall’assunto della necessarietà della costruzione più perfetta.
Ragionevoli dissonanze
63
’900, riparte dalla libera esplorazione dell’universo musicale, in modo
che l’artista possa disporre secondo la propria creatività delle infinite
possibilità sonore date in natura35.
Ci si avvia in altre parole al superamento del concetto stesso di armonia verso una nuova idea di forma in grado di recuperare un rapporto di immediatezza con il suono.
Per Cage la dodecafonia è un passaggio obbligato, ma soltanto per
andare oltre. Pur essendo in linea con i presupposti teorici del maestro
viennese, e subendone l’influenza, egli ben presto ne estremizza alcune posizioni, procedendo verso una libertà formale che lo stesso
Schönberg non sarà in grado di valutare, riducendola a
un’insufficiente comprensione dell’armonia36. In realtà Cage non fa
altro che sviluppare il concetto di emancipazione della dissonanza fino
a liberare il suono dalla tessitura strutturata in note e intervalli temperati, assecondando con più coraggio e fantasia degli altri discepoli
proprio l’idea di Schönberg per cui nella natura tutti i suoni sono possibili37.
La prima a cadere è la distinzione tra suoni e rumori. Nel 1937, in
occasione della famosa conferenza su The Future of Music: Credo,
Cage afferma che la musica è un’organizzazione del suono, dove per
“suono” bisogna intendere tanto gli eventi musicali ritenuti “normali”
quanto ogni tipo di rumore. Da qui la necessità di elaborare un metodo
compositivo che abbracci l’intero campo dei suoni, e al contempo abbandoni definitivamente il concetto di armonia, ritenuta peraltro “un
fenomeno occidentale recente”38. Sulla scorta di questa riflessione e
della sperimentazione che vi si accompagna, Cage si avvia a comporre
facendo riferimento al “pianoforte preparato”, ovvero un pianoforte
tra le cui corde egli prevede materiali di vario tipo che introducono
“altri suoni” rispetto a quello che un pianoforte “normale” può fornire.
Oltre alla messa in questione della presunta inviolabilità degli strumenti musicali classici, si tratta di introdurre l’idea che un composito35
Ci affidiamo alla riflessione di Cage non ultimo per il suo rapporto diretto con
Schönberg, del quale è allievo a partire dal 1935 anche se soltanto per un paio di anni (si tratta
soprattutto di corsi privati estivi alla University of Southern California).
36
Per la ricostruzione dell’opera di Cage a partire dal suo rapporto con Schönberg, si
rimanda a E. ARCIULI, Musica per pianoforte negli Stati Uniti, Torino 2010, 155 ss.
37
Cfr. G. GUANTI, Emanciparsi dall’“Emancipazione della dissonanza”?, cit., 191.
38
L’idea che ogni suono è musica, e che sarebbe folle organizzarla secondo strutture
precise, si precisa in particolare dopo che Cage approfondisce gli studi sulla filosofia Zen. Per
la ricostruzione delle maggiori evoluzioni di Cage, vedi J.N. VON DER WEID, op. cit., 278-284.
64
Maria Paola Mittica
re, sebbene annoti come preparare lo strumento, indicando gli oggetti
di varia natura cui fare ricorso, non possa predeterminare completamente il risultato sonoro della propria opera.
È questa la via che conduce alla musica aleatoria, ovvero alla possibilità di lasciare al caso parte del processo compositivo39. Il punto è
di consentire alla “musica del mondo” di esprimersi autonomamente
senza che sia pre-determinata, né in sé conclusa.
L’esigenza di “non determinare” è il filo conduttore della ricerca di
Cage che lo fa inoltrare nell’esplorazione del silenzio, portandolo prima a introdurre nella composizione i “silenzi espressivi” al pari di
suoni e rumori, quando ancora concepisce il processo compositivo
come un’organizzazione del materiale sonoro secondo una logica
strutturale40, e a partire dagli anni ’50 verso soluzioni sempre più radicali in cui i silenzi espressivi diventano piuttosto “l’insieme dei suoni
non voluti”.
In 4’33” del 1952, la composizione “per non importa quale/i strumento/i”, egli prevede che non sia prodotto alcun suono. Il fine è far
emergere, attraverso il silenzio “eseguito”, la musica che proviene
dall’ambiente (si pensi ai suoni in un teatro: il rumore dell’aria condizionata, i programmi che vengono sfogliati, il colpo di tosse, la risata
ecc.) che a sua volta va lasciata dispiegare nella propria “esecuzione”.
Non si tratta di silenzio per se stesso, ma piuttosto del “mettere a tacere” la musica tradizionale, “immaginata e costruita” dal pensiero e dai
sentimenti dell’uomo, in favore dell’ascolto degli altri suoni del mondo e della loro affermazione come musica. Il silenzio è disciplina e
39
Ad esempio, mentre compone, l’autore può affidare alcune sue scelte all’esito di un
lancio di dadi (non a caso Cage impiegherà i responsi del I Ching direttamente nel lavoro
compositivo), oppure può scrivere varie pagine di musica e lasciare che sia l’esecutore a
decidere quali interpretare (si pensi a composizioni come Winter Music del 1957, dove ogni
musicista sceglie sul momento la pagina e il passaggio che desidera eseguire e deve variarlo
sulla base dei suoni che sente provenire dagli altri strumenti), oppure ancora lasciare pagine
bianche nelle quali sarà l’esecutore o, perché no, il pubblico stesso a improvvisare eventi
sonori dovuti alla pura casualità del momento.
40
Fino agli anni ’50 per Cage comporre significa “strutturare secondo la durata”, dopo
aver individuato nel tempo l’unica caratteristica condivisibile da ogni suono (nella più
assoluta indistinzione di “note” e rumori) e dal silenzio come elemento opposto e necessario
del suono. Per comprendere questa forma della misurazione si rimanda ancora G. GUANTI, op.
cit., 194-195.
Ragionevoli dissonanze
65
dono che fa da misura alla pratica dell’ascolto: attività di percezione
costante41.
Per certo, e questo è il punto critico, l’esecuzione del silenzio è prescritta dalla partitura. Nonostante dunque la forte affermazione
dell’idea che la musica comprende “tutti i suoni”, tanto quelli notati
quanto quelli che non lo sono42, non scompare nel gioco del farsi della
musica, una parte cospicua riservata alla creazione dell’artista che
combina i suoni secondo le proprie inclinazioni, contro cui il pensiero
di Cage va a collidere mentre evolve costantemente nella direzione di
una progressiva libertà.
D’altra parte, la portata dell’intervento del compositore potrà essere
ridotta soltanto quando, abbandonata anche l’idea di basare la struttura
compositiva sulla durata, Cage riuscirà a svincolare la musica “da
qualunque ricorso alla misurazione”.
41
“La scelta poetica di ‘scambiare i suoni con i silenzi’ non appartiene ad una svolta
afasica, ma è conseguente ad un’estetica che cerca di allontanare l’arbitrio soggettivo dal
processo compositivo, poetica che ha le sue radici sul rapporto tra arte e natura che Cage
adotta dall’arte e dalle dottrine orientali. L’arrivo all’alea non è che l’estrema coerente
conseguenza dei fondamentali presupposti poetici contenuti già nella poetica del silenzio e
dell’eterogeneità del fenomeno sonoro degli anni ’40. Questo delicato passaggio segna
evidentemente un punto di rottura radicale da un punto di vista estetico: infatti, se prima è il
compositore che, con una scelta personale di gusto, sceglie l’intreccio tra suono e rumore,
dopo, sarà il caso a sostituire la sensibilità del compositore, e suono e silenzio si equivarranno
sotto il titolo di materiali musicali. La composizione secondo metodi casuali apre nuove
prospettive sull’aspetto performativo dell’opera d’arte come ‘evento’, punta sulla percezione e
radicalizza il contesto, la situazione; diviene scelta ‘politica’ puntando sulla decostruzione
dell’identità di esecutore, compositore, pubblico.” Cfr. F. ASTE, Il materiale e il processo
compositivo tra indeterminazione e necessità. Le Sonatas and Interludes per pianoforte
preparato di John Cage, on line http://users.unimi.it/~gpiana/dm9/aste/articolocage.pdf, 1415, 27.
42
Nel limite posto alla notazione v’è, d’altra parte, un ulteriore segno del superamento del
concetto di armonia. La notazione è infatti un’altra dimensione forte del metodo compositivo
tradizionale messa in crisi da Schönberg. Se per Weber la scrittura della musica costituisce
l’apice del razionalismo musicale occidentale perché consente di fissare e tramandare le composizioni in forma univoca (Cfr. F. MONCERI, op. cit., 116-117), per Schönberg essa dà
un’idea approssimativa del fenomeno sonoro, divenendo ammissibile soltanto “se intesa come
una delle tante semplificazioni che lo spirito umano deve escogitare per padroneggiare il materiale.” (Cfr. A. SCHÖNBERG, Manuale di armonia, cit., 59). E Cage va ancora oltre. Commentando un saggio di Busoni, in cui questi sottolinea l’eccessiva rigidità della notazione nella nuova musica, il musicista americano trova che ciò che l’ha resa rigida è la tendenza verso
l’architettura particolarmente gradita agli accademici perché più facile da insegnare, sebbene
del tutto aliena dall’autentico spirito della musica. Cfr. G. GUANTI, Busoni e la nuova musica
americana, in Ferruccio Busoni e la sua scuola, G. Borio, M. Casadei Turroni Monti, Lucca
1999, 19-35.
66
Maria Paola Mittica
La rinuncia alla misurazione è il definitivo superamento del concetto di armonia. Se si smette di misurare, si cessa di ragionare sulle relazioni tra i suoni e si torna a dare spazio ai suoni considerati nel loro
essere in sé e per sé (singolarità irrelate). Si tratta di smantellare il
processo di astrazione messo in atto dall’armonia occidentale che, costruendosi in sistema, ha finito con il lavorare sulle relazioni tra suoni
senza più preoccuparsi degli stessi nella loro espressione intrinseca43.
Non per questo i suoni non si compenetrano. Tutt’altro. Senza
l’intervento dell’uomo le relazioni tra suoni si compongono in modo
più complesso e autentico. Viceversa, la messa in relazione dei suoni è
un atto autoritativo che impedisce la spontaneità e l’autonomia delle
aggregazioni sonore nella propria interazione reciproca, impedendone
la congiunzione.
Ecco che allora si profila una nuova formulazione del compito del
compositore, non priva di interessanti suggestioni di metodo. L’artista
deve emendare consapevolmente il proprio intelletto per riuscire ad
accogliere la musica e veicolarla quale essa sia. Qualunque numero di
suoni può verificarsi in qualunque combinazione e con qualunque
continuità44.
Non si tratta, tuttavia, di una rinuncia all’umano quanto di una
svolta psicologica che guida nel mondo verso una rinnovata immediatezza tra umanità e natura. Contro l’artificiosità di giudizi quali eufonico-cacofonico, armonico-disarmonico, consonante-dissonante, il
musicista deve “lasciare che il proprio desiderio controlli il suono, distaccare il proprio spirito dalla musica, e promuovere i mezzi di scoperta che permettano ai suoni di essere se stessi piuttosto che veicolo
di teorie fatte dall’uomo, o l’espressione di sentimenti umani”45.
Quale intelligenza debba supportare l’artista in questo processo è
quella che consente di esprimere la forma della libertà. Una forma che
43
Cfr. G. GUANTI, Emanciparsi dall’“Emancipazione della dissonanza”?, cit., 194-195.
Vale la pena precisare che Cage, per la sua vicinanza alla filosofia Zen, ritiene che tutti
gli enti nel mondo – e prima di tutto i suoni – nel loro spontaneo fluire si congiungano
spontaneamente nell’Uno. È una tesi che lo espone evidentemente alla critica di voler
abbandonare l’idea di armonia soltanto per riformularne una nuova, spinto romanticamente
dalla fede nell’esistenza di un’armonia che l’uomo avrebbe negato nel suo progressivo
distanziarsi dalla natura. L’argomento, di per sé interessante, ci porta tuttavia in un percorso
che esula dall’economia del presente contributo. Valgano, a tal fine, le indicazioni di metodo
di Cage per la composizione musicale rispetto alla possibilità dell’artista di farsi veicolo per
l’espressione delle relazioni sonore. Vedi Ivi, 194-195.
45
Cfr. J.N. VON DER WEID, op. cit., 284.
44
Ragionevoli dissonanze
67
è di ordine estetico non logico, rispetto alla quale non può aver alcun
valore la distinzione tra razionale e irrazionale, individuata tramite il
concorso delle molteplici sensibilità che sono nel mondo, e non solo
degli uomini.
5. Il resto della musica. Verso una nuova espressione del diritto
Muovendoci dalla riflessione di Cage sul versante del diritto, le
questioni messe in gioco diventano piuttosto interessanti, offrendo alcune soluzioni che il metodo compositivo di Schönberg, nel limite che
ci siamo dati ovviamente di valutarne soltanto le direttrici, forse non
suggerisce per il fatto di riproporre un sistema chiuso e strutturato sulla base di processi logici in dipendenza di una precisa volontà
dell’uomo.
Cage accoglie sin da subito, sebbene stia ancora componendo attraverso il calcolo, la possibilità di far risuonare con le note tutti gli altri
suoni del mondo. Certamente è la razionalità a predominare in questa
fase; tuttavia, si tratta già di un’intelligenza disponibile a un’effettiva
autodeterminazione di altre sonorità; disposta, in altre parole, a lasciare il controllo fin qui totale della composizione. Traslata sul fronte del
diritto, quest’apertura si traduce in termini di possibilità rispetto a un
ampliamento delle fonti giuridiche, che contemplino “tutte” le voci del
diritto, anche quelle che la legge non riesce a tradurre nel proprio linguaggio, quelle che dal pianoforte preparato di Cage emergono come
rumori. Si alimenta, così, l’immaginazione giuridica oltre Schönberg,
vale a dire oltre le possibilità di combinazioni entro la scala cromatica.
E non soltanto. Questo processo verso l’indeterminazione reca anche
la possibilità dell’impiego di altre intelligenze, proprie del mondo tout
cour, prima che dell’uomo stesso.
Mettere a tacere la musica delle note, per ascoltare in silenzio “il
resto della musica” è il passo successivo. Potremmo scorgere in questo arretramento quello del diritto verso il non diritto. Carbonnier, da
fine osservatore del fenomeno giuridico, lo osserva come un movimento spontaneo, al ricorrere di quella porzione di giuridicità che si
manifesta come assenza rispetto al diritto, dove al “diritto” corrisponderebbe la parte di giuridicità fatta di codici consolidati e al “non diritto” la parte di giuridicità in cui si manifestano le possibilità alternative, in un movimento mosso da un’intelligenza delle cose e delle per-
68
Maria Paola Mittica
sone che è situazionale nel primo caso, affettiva e sentimentale nel secondo46.
Questo movimento, pare dirci Cage, può e, ancor più deve essere
anche indotto. La legge può e deve essere messa a tacere quando si
tratta di ascoltare le voci che non ha contemplato, o non ha immaginato, e le stesse devono essere accolte nel loro spontaneo risuonare. Inutile dire i numerosi punti di contatto che sarebbe possibile rinvenire tra
le tesi di Cage e quelle che animano il movimento del legal storytelling degli anni ’70 maturato in seno ai Critical Legal Studies americani, sino alla riflessione sul silenzio del diritto che sta impegnando molti studiosi critici che si avvalgono della prospettiva di Law and the
Humanities47. Il silenzio come dono, ma anche come disciplina, richiama la legge e soprattutto gli operatori giuridici a ritrovare una misura che viene dalla pratica dell’ascolto che è “attività di percezione
costante” ci ricordano i musicisti48.
Cosi come per Schönberg, anche per Cage l’ascolto della musica si
profila principalmente come un fatto educativo. Ciò che cambia radicalmente è il ruolo assegnato al compositore e l’individuazione
dell’intelligenza compositiva. Non basta recepire la musica in tutte le
sue sonorità, bisogna che essa si dispieghi senza “ostruzioni”.
Il compito dell’artista si rarefà, nella ricerca del nostro, dismettendo qualunque forma di “regia” nell’organizzazione del materiale sonoro. Sebbene la sua rinuncia alla misurazione vada interpretata contestualmente alla decisione di smettere di strutturare la composizione
sulla base delle durate, la scelta di abbandonare il campo delle relazioni si presenta come la più difficile al cospetto del diritto, almeno a
prima vista.
46
“Per dare all’ipotesi (del non-diritto) il suo vero significato, il suo significato estremo, è
essenziale andare oltre la semplice constatazione di una coesistenza del diritto con altri
sistemi normativi. Infatti questa constatazione in fondo è di una banalità estrema (…): il
diritto non è solo, coesiste con altri sistemi normativi. (…) Se dobbiamo studiare il nondiritto, sembra logico attaccarsi in primo luogo al non, al vuoto, all’assenza, rinviando a più
tardi la cura di scoprire che cosa verrà al posto del diritto. L’essenziale nell’ipotesi del nondiritto è il movimento dal diritto al non-diritto, l’abbandono da parte del diritto di un terreno
che occupava o che rientrava nella sua competenza occupare”. Cfr. J. CARBONNIER, Flessibile
diritto, cit., 26-27.
47
Un libro per tutti, M. CONSTABLE, Just Silences: The Limits and Possibilities of Modern
Law, Princeton 2005. Mi permetto di rinviare anche M.P. MITTICA, Tacitarsi e ascoltare. I
presupposti impliciti del diritto, sul legal storytelling di prossima pubblicazione in un
collettaneo su silenzio e diritto a cura di Felice Casucci, Napoli.
48
Cfr. F. ASTE, op. cit.
Ragionevoli dissonanze
69
Eppure non dovrebbe sorprenderci se soltanto ci spostiamo dalla
logica del diritto positivo e osserviamo le molteplici forme di relazione normativa che sono state individuate nell’ambito dell’antropologia
giuridica, anche all’interno delle società occidentali. Tali relazioni
sorgono e si regolano spontaneamente in autonomia, in forma implicita o esplicita, con un proprio linguaggio; soprattutto le stesse dispiegano la vincolatività necessaria per orientare i comportamenti nel senso dell’equilibrio solidale. Non sembra, in breve, che queste relazioni
sociali siano così distanti dalle aggregazioni sonore dotate di autonomia di cui parla Cage. E il richiamo alla necessità di smantellare
l’architettura sistemica, che ha innescato un processo di astrazione tale
per cui si è smesso di ascoltare i suoni per se stessi, per ragionare soltanto al livello dei nessi relazionali, non è altrettanto repentino nei
confronti del diritto positivo. Anche sul fronte giuridico diventa fondamentale il recupero della materia in cui affonda il rapporto tra le
persone, per comprendere e accogliere o trattare la natura e la norma
di ogni relazione.
Semmai il problema è che questa interazione reciproca non può essere data scontatamente come irenica. Non è possibile ritenere con
Cage che il corso delle relazioni possa essere così fluido. Né confidare
in un prossimo ritorno dell’uomo alla natura. La scomparsa del diritto
non è prefigurabile, almeno finché non troviamo un’altra strada per
gestire la tendenza all’eccesso che caratterizza l’uomo (e non soltanto
in Occidente).
È necessario quindi rimettere in gioco il ruolo dell’artista, ma ciò
non esclude l’opportunità di far tesoro della ricerca in musica per avvalersi delle qualità dell’intelligenza compositiva individuate da Cage.
Varrà la pena precisare ancora una volta che questa intelligenza è
quella della musica di tutti i suoni, e dunque non è prerogativa assoluta dell’artista. Inoltre è un’intelligenza che si presta a diverse vie per
intelligere: della razionalità come dei sentimenti come delle emozioni
e delle percezioni, ed è corpo fisico, materia che si dispiega in espressione. Non ci si arresti sull’adeguatezza o meno del termine “intelligenza” per definire il complesso di queste qualità, ma sulla proprietà
della funzione. A queste qualità è affidata la comprensione e la nostra
capacità di elaborare modi per stare al mondo sopravvivendo e magari,
con un po’ di perizia, anche per vivere. Quando Nussbaum mette al
cuore della sua proposta di sviluppo umano e di cittadinanza
l’intelligenza delle emozioni quali centri di cognizione e di decisione
70
Maria Paola Mittica
sta riferendo anche che il diritto può e deve imparare a ragionare facendo ricorso a tutte le risorse dell’intelligenza49.
Il musicista veicola le articolazioni di questa intelligenza per dare
loro espressione. Il suo compito è di emendare il proprio intelletto per
essere parte tra altre parti che si relazionano nel processo compositivo.
Al giurista ciò non può essere chiesto, né il diritto può retrocedere fino
a lasciare le relazioni sociali senza la possibilità di una mediazione.
Dalla musica tuttavia giunge l’indicazione fruttuosa di abbandonare
l’ideale della razionalità per giovarsi dell’esperienza della ragionevolezza. Per questa via, tanto per il diritto quanto per coloro che ne sono
gli artisti (nel senso originario di demiurghi), è possibile partecipare
concretamente alle relazioni e intervenire quando necessario nel rispetto del limite di ogni parte, prestando attenzione (ascolto) alle
istanze per se stesse, o almeno tentando il più possibile di non forzarle
perché troppo diverse o distanti.
In questo suggerimento, ecco che il concetto giuridico di misura
torna nel proprio significato originario per consegnarsi a un giurista
artista, che con disciplina si impegna ad acquistare la sensibilità necessaria per affrontare il difficile compito della cura. Perché è la cura
delle relazioni sociali la funzione fondamentale del diritto, impastato
di ogni materia, che il sistema giuridico ha finito con il dimenticare,
senza che si possa pre-definire né definire una volta per tutte.
Conclusioni
Nel concludere questo breve saggio vorremmo sottolineare quella
che è forse la maggiore provocazione che ci proviene dal percorso di
raffronto tra diritto e musica che abbiamo seguito. Con l’abbandono
dell’armonia tradizionale si scinde quel legame tra struttura, razionalità e forma che caratterizza la musica fino al romanticismo. Nella cultura giuridica, questo nesso, non soltanto sopravvive per tutto il ’900,
ma si assolutizza attraverso una logica sistemica, creando una dicotomia tra diritto formale e diritto informale destinata a replicarsi fino a
mettere a tacere le norme della musica non ufficiale. Quanto ciò abbia
reso inefficace il sistema giuridico a fronte dell’attuale complessità
sociale l’abbiamo più volte posto in evidenza anche in questa sede.
49
M.C. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, trad. it., Bologna 2009.
Ragionevoli dissonanze
71
Se accogliessimo il superamento della logica armonica anche in
ambito giuridico, la distinzione non avrebbe più senso. Allora si potrebbe avviare un discorso su una possibile nuova forma del diritto50.
Un suggerimento importante a questo proposito potrebbe provenirci
non tanto da Cage, quanto dalla dottrina della forma di Schönberg. In
un contesto in cui le istanze sociali si esprimono liberamente e si aggregano autonomamente, il giurista ha il dovere di assumere consapevolmente il mondo nella sua complessità, sia al livello emozionale che
intellettuale, per intervenire a misurare l’eccesso. Per far ciò, questi
deve affinare tutte le proprie potenzialità di comprensione con umiltà,
disciplina e cultura. Fino a “sentirsi a casa” in quella stessa complessità, e muoversi con familiarità e rispetto “nell’ambito intellettuale come in quello emozionale”. Soltanto allora la sua azione assumerebbe
efficacia, riconoscibilità e consenso sotto forma di diritto.
Nell’espressione di questo agire concreto, la forma e il contenuto del
diritto potrebbero tornare a essere una unità. E l’arte giuridica un’arte
dell’uomo responsabile.**
50
In tal senso si va profilando anche un’estetica giuridica. Vedi da ultimo P. HERITIER, La
terza E: epistemologia, ermeneutica, estetica giuridica, in Diritto e narrazioni. Temi di
diritto, letteratura e altre arti, a cura di M.P. Mittica, Milano 2011, 81 ss.
**
Ringrazio Stefano Malferrari, docente del Conservatorio “Martini” di Bologna e
interprete particolarmente attento al repertorio contemporaneo, per aver riletto queste pagine e
per i suoi preziosi consigli, dei quali spero di aver fatto buon uso.
Il problema della interpretazione
tra musica e diritto
EUGENIO PICOZZA
SOMMARIO: PARS I: INGRESSIO – Premessa. – 1. La musica e il diritto frequentemente si
incrociano come dimostra anche la scelta di questo importante convegno, di dedicare al
tema un’apposita sezione. – 2. La sostanziale indifferenza tra esecuzione e interpretazione
nella storia della musica occidentale dalle origini al rinascimento. – 3. L’interpretazione
della musica durante il periodo barocco e prerivoluzionario. – 4. Il problema della
interpretazione musicale e giuridica durante il positivismo. – 5. Il problema della
interpretazione musicale e giuridica dal positivismo alla seconda guerra mondiale. – 6. Il
problema della interpretazione musicale e giuridica dal secondo novecento all’epoca
attuale. – PARS II: EXPOSITIO – Alcuni criteri interpretativi della musica condividibili
con il diritto. – 7. Posizione del problema. – 8. Differenza tra interpretazione letterale e le
altre forme di interpretazione. – 9. Rilevanza della conoscenza del periodo storico in cui
la composizione fu concepita e valore della successiva storicizzazione della prassi
esecutiva (problematica che riecheggia quella tra voluntas legislatoris e voluntas legis). –
10. Possibilità di applicare anche alla musica teorie postmoderne quali l’analisi
economica del diritto, il decostruzionismo, ecc... – 11. L’impatto delle discipline
cognitive (neuroscienze) sulla musica e le principali conseguenze sulla teoria della
interpretazione (musicale). – 12. Conclusioni. Fine o rimodulazione delle interpretazioni
(giuridica e musicale)?
PARS I: INGRESSIO
Premessa
1. La musica e il diritto frequentemente si incrociano come dimostra anche la scelta di questo importante convegno, di dedicare
al tema un’apposita sezione
Prima di tutto è comune la riflessione sul proprio oggetto: cosa è il
diritto, cosa è la musica. Particolarmente stimolante è poi l’analisi di
questo tema sotto il profilo del linguaggio. Il diritto è linguaggio, ma
74
Eugenio Picozza
anche la musica è linguaggio “ineffabile” per usare le parole di
Jankélévitch.
Il diritto ha le sue teorie generali e la musica altrettanto. Queste
teorie generali tra l’altro hanno immediate ricadute sul modo di affrontare e di proporre soluzioni sul tema specifico della interpretazione. È veramente sorprendente notare infatti come le teorie o addirittura le correnti filosofiche che hanno ispirato il diritto, sono applicabili
alla musica.
Limitando l’analisi ad un periodo abbastanza breve che nasce con
il positivismo scientifico e sociologico e con la teoria
dell’evoluzionismo ci accorgiamo che anche la musica (soprattutto attraverso gli scritti dei musicologici che si sono occupati della interpretazione musicale) ha seguito più o meno fedelmente le scoperte del
pensiero scientifico e filosofico.
In piena epoca evoluzionista ad esempio non poche dottrine (tra le
quali per la particolare rilevanza assunta in Italia va ricordata quella di
Benedetto Croce) si sosteneva che anche la musica aveva compiuto un
percorso evolutivo (per limitare il periodo dalla creazione degli stati
nazionali con la pace di Westfalia del 1648) da Bach a Wagner in un
percorso di quasi due secoli e mezzo.
Tale unità di intenti era stata poi messa in discussione dalla formazione degli stili nazionali e quindi alla molteplicità creativa si era opposto un metodo unitario di interpretazione basato su una pretesa rigorosa ed autentica lettura dell’altrettanto preteso pensiero del compositore. Basta rileggere le edizioni soidisant critiche della prima metà del
XX secolo per rendersene conto. In buona fede venivano apportare
correzioni, integrazioni ed in breve manipolazioni del testo musicali,
almeno fino a quando essenzialmente a partire dal secondo dopoguerra non apparvero i primi urtext le prime edizioni più o meno fedeli ai
manoscritti.
Addirittura pianisti e compositori insigni come Alfredo Casella sostenevano che Bach aveva scritto i due libri del Clavicembalo ben
temperato con l’intenzione di propugnare il sistema del temperamento
equabile basato sulla eguale divisione delle frequente dei dodici semitoni della ottava di ogni tastiera; e non aveva perciò esitato a trascrivere in mi bemolle minore lo splendido preludio e fuga del primo libro
contro il manoscritto e direi anche contro il buon senso.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
75
È vero che questa tendenza all’integralismo è assai frequente negli
ambienti accademici, ma dimostra quanto labile sia la pretesa di offrire una verità rilevata valida in ogni periodo.
Peraltro, soprattutto nel secondo dopoguerra, proprio allo scopo di
“ripulire” il testo da queste integrazioni e manipolazioni, venne adottato un metodo interpretativo c.d. “neoclassico” basato su una altrettale pretesa fedeltà alla voluntas compositoris, che non poteva proprio
esistere senza conoscere almeno le linee di fondo della prassi esecutiva della c.d. musica antica (medievale, rinascimentale e soprattutto
barocca).
La Baroque Renaissance di lì a poco si prendeva la sua vendetta
inaugurando sempre in base a regole interpretative che potremmo definire quasi “bibliche” la vera prassi interpretativa basata essenzialmente da un lato dall’uso di strumenti originali o loro copie; dall’altro
dall’uso appassionato e a volte fuorviante dei trattati dell’epoca. Tuttavia come ha ironicamente affermato un insigne musicologo e musicista Nikolaus Harnoncourt non avremmo mai potuto ricostruire
“l’orecchio” del pubblico del XVII, XVIII, ma anche XIX secolo.
Questa affermazione è veramente efficace perché posteriormente confortata dalle scoperte della Neuromusica negli ultimi vent’anni.
Ora, come non cogliere in questo processo una tendenza al decostruzionismo, ancora più evidente nelle composizioni di musica classica a partire dal secondo dopoguerra?
Ma non era ancora finito: irrompono nella musica due ulteriori correnti di pensiero che si fronteggiano anche attualmente proprio come
avviene particolarmente in Italia nel campo del diritto pubblico.
– Da un lato il tentativo di ancorare l’interpretazione musicale ad
una costituzione (ovviamente non scritta) permeata di principi e di valori. Basta andare a seguire una lezione in un Conservatorio per rendersene conto.
– Dall’altro l’erompere dei criteri della analisi economica: prima
sotto forma di combattimento anziché tra Clorinda e Tancredi, tra case
discografiche e interpreti tradizionali ovvero barocchismi.
Successivamente (data la crisi di mercato che ha colpito anche il
settore della musica classica), le case discografiche hanno realizzato
anche in tale campo una pretesa pax, ed allora si sono dedicate al
marketing. La star musicale, salve poche eccezioni segue le stesse regole di preparazione e lancio delle stars del cinema, della televisione e
della musica non classica; marketing, look, prezzi quasi a livello di
76
Eugenio Picozza
dumping ecc… fino a vere e proprie finzioni al limite della truffa.
L’analisi economica trasforma il musicista professionista in produttore, ed il pubblico in consumatore di prodotti.
Va notato peraltro che si tratta di processi, come tutti i processi
umani che hanno una gestazione molto lenta. È accaduto ed accade in
minore misura anche ora che conviva nella stessa persona un metodo
ispirato alla filosofia dei valori, quando assiste ad un concerto; e più
consumistico quando colleziona i dischi o li sente mentre attende ad
altre occupazioni. Questo apparente mistero è stato in realtà abbondantementemente disvelato dalle scoperte della neuro musica.
Parole definitive sulla economia politica della musica sono state
scritte da un brillante saggista Jacques Attali: ripercorrendo l’intera
storia della musica del secondo millennio, egli ha distinto nell’ordine
una funzione celebrativa, rappresentantativa, ripetitiva (Benjamin) e
riproduttiva della musica e di questo ha tenuto conto ogni teorico della
interpretazione musicale.
Tuttavia il cambiamento epocale è giunto è sotto i nostri occhi. Ne
sintetizzo rapidamente alcuni aspetti perché sono molto utili per testare l’attualità dei criteri interpretativi:
– per quanto riguarda lo spettacolo dal vivo, dal concerto sempre
più frequentemente si passa al c.d. evento e sempre più frequentemente vi è una commistione di diversi generi musicali nello stesso spettacolo come si conviene a quella società di massa definita efficacemente
da Friedmann come società orizzontale;
– il mondo delle note e quindi di una scrittura per quanto mutevole
comunque documentata e riproducibile anche per approssimazione
tende a liquefarsi nel mondo dei suoni, reali, virtuali o misti. In ciò si
potrebbe anche leggere un abbandono del razionalismo Cartesiano che
ha ispirato la musica a partire dalla invenzione del contrappunto,
quando ancora si credeva nella tripartizione di musica celesti, humana
e mundana;
– l’unitarietà della composizione non è più rispettata. La velocità e
la mancanza di concentrazione del mondo contemporaneo preferisce
l’assaggio, la compilation etero prodotta o auto poietica. Sotto questo
profilo i computers, ipod, ipad e in generale il web sono ottimi supporti. Poco importa che venga violato il diritto di autore.
– infine il fenomeno di secolarizzazione della musica, della sua riduzione allo stato laicale può dirsi compiuto attraverso la c.d. banalizzazione.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
77
Quel percorso che ai primi del ’900 era iniziato con il disco che
consentiva sì il divertimento ma anche l’acculturazione soprattutto per
le persone che non avevano la possibilità geografica o economica di
recarsi a teatro o a concerto, termina con il video on-demand; con la
possibilità di interpretare virtualmente anche una partitura di Beethoven dando apposite istruzioni al computer attraverso il “midi”, e con
la messa in comune delle melodie soprattutto liriche tra artisti di musica classica e cantanti di musica leggera.
Ed anche questo processo di frammentazione e di virtualizzazione
della musica è del tutto simile a quello che sta compiendo il diritto: la
norma giuridica ,anche essa è ridotta allo stato laicale, si tenta di salvare le costituzioni nazionali o di costruirne di nuove più o meno globali quali quella europea o la CEDU. Si ancora la roccia ai principi
generali del diritto internazionale, comunitario o costituzionale, ma
emerge sempre di più il ruolo del decisore operatore amministrativo o
giudice che dir si voglia, la teoria del precedente appare come
l’illusione di fissare permanentemente il concreto e transitorio. Ora
quali riflessi ha tutto ciò sulle regole della interpretazione giuridica e
musicale? Possiamo sostenere che esse sono simili e soprattutto che
esistono ancora? Non cercherò ovviamente di poter rispondere a tali
formidabili quesiti. Seguirò un metodo diffuso nel periodo barocco; in
altri termini queste note sono solo frammenti di pensiero, seguendo il
genere musicale della toccata inerente al c.d. stylus phantasticus così
bene descritto dal gesuita padre Athanasius Kircher1 e altrettanto efficacemente realizzato dai compositori di musiche per tastiera del nord
Germania, quali Bruhns, Lubeck e soprattutto Buxtehude. In altri termini, non si tratta di uno studio con pretese di ordine sistematico, ma
piuttosto di un abbozzo fantasioso su diverse tematiche, che – proprio
come accadeva per le toccate del XVII e XVIII secolo – si intrattiene
su diversi spunti, li elabora, li abbandona, li riprende e li consolida,
cercando di suscitare nel lettore più una sensazione complessiva che
un ragionamento analitico2.
1
Cfr. Athanasius Kircher Musurgia Universalis, Roma 1650.
Non vi sono molti saggi su questo tema. In generale alcuni importanti giuristi hanno
percepito approfonditamente l’analogia del linguaggio musicale con quello giuridico e hanno
spesso intitolato i loro saggi giuridici come “variazioni sul tema” o simili. Un interessante
saggio è quello di Giorgio Resta Variazioni comparatistiche sul tema: “Diritto e Musica” in
www.comparazionedirittocivile.it 2009 ove anche una importante bibliografia. Più
tradizionale lo studio di G. IUDICA Interpretazione giuridica ed interpretazione musicale in
Rivista di Diritto Civile, II, 2004, 467.
2
78
Eugenio Picozza
– Dal punto di vista più strettamente “filosofico”, l’incipit di queste
note trae spunto dal saggio “Il metronomo: problemi
dell’interpretazione tra musica e diritto”.3 In quella occasione il
presupposto per l’analisi della problematica mi fu offerto, in
particolare, dalla circostanza che il metronomo (oggetto che serve a
misurare il tempo nelle esecuzioni musicali, dal Largo al Presto,
potendo variare da 40 a 208 al minuto i propri battiti), non era rimasto
identico. Al contrario, dall’epoca in cui fu inventato (il 1815)
all’epoca in cui si stabilizzò definitivamente (l’unica recente
innovazione, infatti, è stata costituita dall’invenzione del metronomo
elettronico al posto di quello meccanico) esso subì due modificazioni
interessanti, nel senso che la stessa misura del tempo venne
modificata. Ad esempio, mentre nel modello originale il Presto
corrispondeva a 160 battute per minuto, già in piena epoca romantica
(circa il 1830) il Presto corrispose a 208 battute per minuto; cioè fu
sentito e misurato in modo molto veloce. Così anche per i tempi
intermedi: l’Allegro, che in un certo senso è il tempo normale di
riferimento, passò da 80 battute a minuto a quasi 160, per stabilizzarsi
definitivamente a 120. Mi sono allora domandato: se un oggetto
meccanico, inventato proprio per evitare l’arbitrio nella scelta del
tempo giusto da parte dell’esecutore (infatti, pare che Beethoven fosse
molto contento dell’invenzione del metronomo, anche se molte delle
indicazioni da Lui fornite non sembrano affatto affidabili) ha subito
queste così radicali trasformazioni, che valore ed efficacia hanno le
prescrizioni di tempo assegnate dall’autore ad una sua determinata
prescrizione? (sempre per rimanere a Beethoven, il terzo movimento
della sonata op. 27 n. 2 n. 14 in do diesis minore “Al Chiar di Luna” a
quale velocità deve essere suonato? A 160 battiti del metronomo al
minuto; ovvero a 208; ovvero a metà strada tra i due? Da questo
piccolo (ma in musica rilevantissimo) problema – che in termini
giuridici potrebbe appieno essere trattato applicando sia le categorie
dogmatiche generali della rilevanza e dell’efficacia giuridica; sia
quelle pubblicistiche della discrezionalità amministrativa, tecnica o
del merito –, ne sono sorti altri più grandi e soprattutto più generali,
quali a mero titolo esemplificativo:
a) differenza tra esecuzione e interpretazione in senso stretto (che
3
Pubblicato in Ars Interpretandi, Padova 2004; e negli Studi in onore di Giorgio Berti,
Napoli 2005.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
79
corrisponde in diritto alla differenza tra mera applicazione o viceversa
attuazione della norma);
b) differenza tra l’interpretazione letterale e le altre forme di
interpretazione, concetti ben conosciuti nel mondo giuridico;
c) rilevanza della conoscenza del periodo storico in cui la
composizione fu concepita e valore della successiva storicizzazione
della prassi esecutiva (problematica che riecheggia quella tra voluntas
legislatoris e voluntas legis);
d) possibilità di applicare anche alla musica teorie postmoderne
quali l’analisi economica del diritto, il decostruzionismo, ecc.;
e) da ultimo ma non in ordine di importanza, incidenza delle
scoperte delle discipline cognitive che vanno sotto il nome di
neuroscienze, con particolare riferimento al settore ormai etichettato
come neuro musica, che ha conosciuto uno sviluppo sorprendente
negli ultimi 10 anni4. Infatti proprio in quel periodo, l’attenzione è
stata attratta (sempre a causa della passione per la musica) da una
poderosa indagine che le scienze cognitive andavano compiendo
sull’influsso delle neuroscienze in vari settori dell’attività umana tra
cui in particolare la musica. In proposito ormai vi è una cospicua
letteratura sulla quale rinvio al primo capitolo di un libro scritto
insieme ad altri coraggiosi (o piuttosto temerari?) collaboratori5
4
V. tra le principali opere dedicate a questo tema Cfr. In generale MACDONALD CRITR.A. HENSON, La musica e il cervello. Studi sulla neurologia della musica, trad. it.,
Padova 1987; J.A. SLOBODA, La mente musicale. Psicologia cognitivista della musica, Bologna 1988; O. SACKS, The power of music in Brain October 2006. Una prima lettura appassionante è B. LECHEVALIER, Il cervello di Mozart, Milano 2006. L’autore è sia professore di neurologia che organista titolare della chiesa di S.Pierre a Caen. I più recenti approfondimenti in
A. STORR, Music and Mind, New York 1992; L.B. MEYER, Emozione e significato nella musica, trad. it., Bologna 1992; I. PERETZ, R. ZATORRE, The biological foundation of music,
Annals of The New York Academy of Sciences, vol. 930, 2001; G. AVANZINI ET AL., The
neurosciences and music, Annals of the New York Academy of Sciences, vol. 999, 2003. I.
PERETZ, R. ZATORRE, The Cognitive Neuroscience of Music, Oxford 2003; G. AVANZINI, L.
LOPEZ, S. KOELSCH, M. MAJNO, The neurosciences and Music. II – From perception to performance, Annals of the New York Academy of Sciences, vol. 1060, 2005. III Disorders and
plasticity, Annals of the New York Academy of Scinences, vol. 1069, New York 2009. Molto
specifico è C. AGRILLO, Suonare in pubblico (l’esperienza concertistica e i processi neurocognitivi, Roma 2007); v. anche D. SCHON ET AL., Psicologia della musica, Roma 2009. Di
straordinario fascino anche autobiografico il recente studio di D. LEVITIN, Fatti di musica. La
scienza di un’ossessione umana, Torino 2008. Ed infine altro convegno su The Neurosciences
and music IV Learning and memory tenuto ad Edinburgo dal 9 all’11 giugno 2011 e pubblicato come i precedenti.
5
E. PICOZZA, V. CUZZOCREA, L. CAPRARO, D. TERRACINA, Neurodiritto: una
introduzione, Torino 2011.
CHLEY,
80
Eugenio Picozza
recentemente pubblicato. L’impatto con il mondo delle neuroscienze
ha comportato che dovessi in qualche modo aprire una nuova
prospettiva sul concetto di interpretazione sia giuridica che musicale e
ne rendo conto (in modo provvisorio perché gli studi sono solo
all’inizio) all’ultimo paragrafo. Il punto di vista delle neuroscienze sul
fenomeno della interpretazione pone infatti numerosi e nuovi
problemi alla teoria della interpretazione stessa. Ne elenco alcuni a
mero titolo esemplificativo.
a) l’esistenza o meno di un “interprete” all’interno del cervello,
cioè un area cerebrale altamente specializzata a conferire un
significato a immagini, suoni, parole, idee e concetti;
b) il rifiuto di un’analisi dualistica delle problematiche collegate
alla interpretazione come invece veniva (e viene tuttora) fatto quanto
meno nella teoria classica della interpretazione giuridica, quando si
debbono analizzare leggi ovvero sentenze, negozi giuridici, atti
amministrativi o ancora altri atti giuridici. Per il vero, come si vedrà
meglio oltre, già la scuola giuridica legata al pensiero di Gadamer
(soprattutto Esser) aveva teorizzato una “precomprensione” del
giudice (inteso in senso ampio); ma le discipline cognitive legate alle
neuroscienze vanno molto oltre per cui occorrerà probabilmente
ridisegnare il senso di parole divenute classiche nel mondo del diritto
quali “coscienza”, “intenzione”, “volontà”, “dolo”, colpa”,
“responsabilità” ecc.
Dunque il saggio che segue mentre all’inizio alterna una serie di
consonanze e dissonanze secondo regole armoniche tradizionale, e
tessendo un contrappunto fatto di simmetrie geometriche, nel
paragrafo 6 conoscerà l’accordo di nona così adoperato in una
rivoluzionario della musica quale Wagner ma già a suo tempo
anticipato da J.S. Bach nella poderosa Fantasia Cromatica e Fuga
BWV 903.
2. La sostanziale indifferenza tra esecuzione e interpretazione
nella storia della musica occidentale dalle origini al
rinascimento
Proprio come è accaduto per il diritto, non sempre la figura
dell’esecutore è stata distinta da quella dell’interprete o addirittura
dell’autore del testo musicale. Tralasciando il periodo storico – pur
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
81
lunghissimo – nel quale non vi era traccia scritta di brani musicali, ma
solo trasmissione orale6, le prime testimonianze storiche “grafiche”
della musica risalgono alla formazione del canto gregoriano7. Sono le
c.d. notazioni neumatiche del cui studio si occupa una disciplina
specifica la paleografia musicale. Ovviamente non esiste alcun trattato
sulla interpretazione, ma dalle cronache del tempo e anche dalla
iconografia presente per lo più nelle miniature, possiamo ricavare che
esse erano indicazioni molto sommarie della altezza e della durata dei
suoni. Tutto il resto era opera della “scuola”, cioè della comunità di
cantori professionalmente addetti a cantare tali brani. Quando, attorno
al 1200 nasce il primo abbozzo di polifonia (naturalmente favorito
dalla distinzione della tessitura vocale femminile e maschile nelle
quattro voci fondamentali di soprano, contralto, tenore e basso, che
hanno dato origine al contrappunto classico a quattro parti), il risultato
non cambia. Attorno al compositore (magister) si forma una scuola di
allievi che non distinguono, ma cumulano il ruolo di esecutori e a loro
volta futuri compositori. È il caso della celebre scuola di Notre Dame
di Parigi e degli altrettanto celebrati “magistri” Leoninus e Perotinus
(magnus). Ma anche nella musica profana, il trovatore, troviere,
minnesanger o autore di lied è contemporaneamente compositore,
improvvisatore, cantante, musicista, poeta. In particolare è molto
difficile distinguere la destinazione del brano alla musica vocale
anziché strumentale, perché spesso l’esecuzione avviene in modo
congiunto o alternato. Non di rado, alla musica si accompagna la
danza, da parte dello stesso compositore o di una compagnia di
giullari, ballerini, giocolieri ecc.8.
– Tale situazione non muta nel Rinascimento, dove peraltro si
6
V. per tutti l’insuperato studio di C. SACHS, La musica nel mondo antico, Firenze 1981;
cfr. anche W.D. ANDERSON Music and Musician in Ancient Greece, Itaca-London 1994; A.
BARKER, Ricerche sulla musica greca e romana, Pisa 2002; G. TINTORI, La musica di Roma
antica, Lucca 1996.
7
Per il vero ci sono frammenti di musica greca e di altre civiltà mediorientali o anche
orientali, ma sono assolutamente opinabili e quindi ogni tentativo di interpretazione si base su
pure congetture. È invece assodato che in tutte le culture sono presenti le sette note
fondamentali della scala e tali sono stati ritrovati in strumenti (flauti, arpe) che risalgono a
decine di migliaia di anni fa agli albori della comparsa dell’essere umano e alla sua
distinzione dai primati. Cfr. HENRI-IRÉNÉE MARROU, I trovatori, Milano 1983; A. SEAY La
musique du Moyen Age, Arles 1988.
8
Per approfondimenti v. in particolare E.S. MAINOLDI, Ars musica la concezione della
musica nel Medioevo, Milano 2001 e l’ormai classico GUSTAVE REESE, La musica nel
medioevo, Milano 1990.
82
Eugenio Picozza
cominciano a registrare le prime specializzazioni vocali e strumentali
(nell’ultimo periodo del Medioevo vi erano virtuosi strumentali quali
il fiorentino Francesco Landini, maestro dell’organetto; ma il brano
strumentale assolveva più a una funzione di dimostrazione del
virtuosismo che a genere musicale a sé stante). Nascono i primi
virtuosi delle tastiere, del violino, degli strumenti a fiato, in un ambito
in cui la principale funzione della musica come magistralmente
descritto da Jacques Attali era prevalentemente celebrativa dei luoghi
del potere, politico e religioso9. Nell’ultimo periodo del Rinascimento,
in una transizione quasi impercettibile verso il periodo del Barocco, si
assiste alla nascita dei primi grandi virtuosi: un nome per tutti,
Girolamo Frescobaldi che non è solo il massimo organista titolare
degli organi di San Pietro in Roma, ma – come si direbbe oggi per la
musica rock – è uno stupefacente “tastierista” maestro supremo del
suonare all’organo, al cembalo, alla spinetta. La caratteristica del
musico di questo periodo è da un lato di essere nel contempo
compositore ed improvvisatore delle proprie musiche, caratteristica
che durerà per molti secoli fino alle soglie del Romanticismo.
Dall’altro di suonare prevalentemente se non esclusivamente sé stesso
cioè le proprie composizioni, anche se dagli archivi testamentari si
desume il lungo studio sulle partiture di celebrati maestri vissuti anche
secoli prima. Se si vuole a tutti i costi rinvenire in tali soggetti la
figura dell’interprete dovremmo dire che si tratta appunto di interprete
di sé stesso, della propria musica. Ma io ritengo che nel pensiero di
tali soggetti non ci fosse alcuna riflessione e distinzione tra il ruolo
dell’interprete e quello dell’esecutore: scientia ac experientia
viaggiavano di pari passo, come è scritto a proposito del diritto nella
nostra Sala delle Lauree. Ma ancora in pieno periodo barocco,
prevalentemente anche se non esclusivamente, il compositore è
sommo interprete di sé stesso: questo vale per J.S.Bach, A.Corelli, F.
Couperin, H. Purcell, G.F. Handel, H.F.I. Von Biber, A. Vivaldi e
tanti altri musici. La nascita dell’orchestra e delle formazioni di
musica da camera tuttavia individua e assegna un ruolo, spesso molto
umile, agli “esecutori” in senso stretto, cioè a coloro che eseguono
quasi esclusivamente musiche altrui, o cantano brani vocali (le famose
cappelle Sistina, Giulia di Roma o quelle da secoli presenti nelle Corti
9
Anche per il Rinascimento, v. soprattutto GUSTAVE REESE, La musica nel Rinascimento
Firenze 1990.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
83
di Firenze, Ferrara, Mantova, Milano per non citare che alcuni dei più
famosi luoghi della musica vocale)10.
Sotto questo profilo e per questo periodo storico, dunque, la
rappresentazione della problematica della interpretazione musicale è
molto diversa dal diritto, disciplina nella quale dapprima prevalgono i
“glossatori” e poi i commentatori, i “dottori”. Ma la creazione, la
composizione della norma appartiene a chi detiene il potere politico o
religioso. Egli è il vero compositore: non di meno, diversamente dalla
musica, vi è già una scissione tra personaggio ed interprete, perché il
magistrato o funzionario che deve applicare la regola, deve anche
necessariamente “interpretarla”. Ed inoltre come notò a suo tempo
con molta efficacia V. Piano Mortari, “i giuristi del diritto comune
conobbero un’altra forma di interpretazione giuridicamente
vincolante: l’accertamento del significato della legge operato dalla
consuetudine”11. In questo ultimo elemento si rinviene un tratto
comune nella storia della interpretazione del diritto e della musica.
Infatti anche per la musica, prima della pubblicazione dei Trattati (i
primi risalgono alla fine del Quattrocento) la notazione scritta era
talmente scarna che ciascun esecutore vocale o strumentale doveva
“interpretarla”, in uno sforzo dove l’elemento creatore era molto
maggiore di quanto non si sarebbe richiesto in futuro. Tale sforzo
riguardava in particolare la prassi degli abbellimenti, cioè di tutte
quelle tecniche che riguardano singole note o piccoli gruppi di note
per renderli più interessanti e variati all’ascolto. Ma l’interpretazione
della consuetudine non si limitava agli abbellimenti della notazione:
essa si estendeva al tempo, (non vi erano le indicazioni che sarebbero
diventate poi familiari come Adagio, Andante, Allegro e Presto), al
ritmo (non esisteva la divisione in battuta, ma piuttosto il tactus che si
regolava fondamentalmente sul ritmo della respirazione, essenziale
per la esecuzione della musica vocale e del tutto naturale per gli
strumenti a fiato, a corda e – a mio avviso personale – anche per
l’organo); e perfino alla pronuncia delle parole cantate.
10
Su tali problemi oltre gli autori citati nella nota 13 vedi: AA. VV., Companion to
medieval and renaissance music (tess knighton and David Fallows Eds.), New York-Oxford
1997; E.E. LOWINSKY, Musica del rinascimento, 3 saggi, Lim, 1997; G. REESE, La musica nel
rinascimento, cit.; L. LOCKWOOD, La musica a Ferrara nel rinascimento. La creazione di un
centro musicale nel XV secolo, Bologna 1987; G. STEFANI, La musica barocca, voll. 2,
Milano 1988; R.M. ISHERWOOD, La musica al servizio del re, Bologna 1988.
11
Interpretazione (diritto intermedio) in Enciclopedia del Diritto, Milano 1972 ad vocem.
84
Eugenio Picozza
– Viceversa, diversamente da quanto accade nel diritto nell’epoca
intermedia laddove “più che l’interpretazione giudiziaria, nell’età del
diritto comune rivestì importanza pratica e teorica particolare
l’interpretazione del diritto compiuta dalla dottrina”, nella musica tale
ruolo era già stato giocato e sostanzialmente esaurito nel medioevo a
partire dal De Musica di Severino Boezio. La musica mundana è
quella causata dalle sfere celesti nel loro movimento armonico
esplicato nel numero, quella humana è propria dell’uomo e del corpo
politico, la musica in instrumentis costituita è quella cantata o suonata
da voci e strumenti12. Già nel Rinascimento la figura dell’homo faber
fortunae suae aveva determinato l’unificazione tra compositore ed
esecutore, tra teorico e pratico. L’opinio doctorum in altri termini non
riveste nella musica pratica tutta quella importanza che avrebbe avuto
per il diritto fin quasi alla soglia delle moderne codificazioni. Il
trattato strumentale o vocale ha solo valore orientativo.
3. L’interpretazione della musica durante il periodo barocco e
prerivoluzionario
Nel passaggio dal rinascimento al barocco si consuma una vera e
propria “rivoluzione” musicale. Infatti pur continuando la musica
stessa ad essere appannaggio principale delle chiese e delle corti (cioè
del potere politico e/o religioso) sorgono tre fenomeni relativamente
nuovi nel panorama della storia della musica:
a) il professionista, virtuoso vocale o strumentale;
b) i teatri a pagamento, e successivamente anche le sale da concerto per la nobiltà e la buona borghesia;
c) la figura del dilettante vocale o strumentale di buon livello.
Non esistendo l’istituto del diritto di autore, il professionista deve
porre particolare cura nelle edizioni a stampa delle proprie opere, per
salvaguardare (per quanto possibile) dalla imitazione o addirittura dal
plagio, le proprie composizioni. Esempi importanti di tali
professionisti-compositori sono Arcangelo Corelli in Italia, Johann
Sebastian Bach in Germania, e Francois Couperin in Francia. Tutti
costoro ottengono “privilegi” di stampa da parte delle autorità
competenti politiche o religiose. Spesso gli allievi prediletti dei
12
Cfr. MASSIMO MARONGIU, Il medioevo musicale, cit.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
85
Maestri si occupano di redigere trattati per dimostrare come dovevano
essere abbellite le melodie. Ma la crescita del dilettantismo musicale
impone anche la redazione di manuali per insegnare la tecnica
fondamentale di base dei principali strumenti: organo, clavicembalo (e
sul finire del ’700 anche pianoforte), violino, flauto diritto e flauto
traverso, oboe, tromba e altri strumenti a fiato. Inevitabilmente il
fenomeno interpretativo si distacca dalla “voluntas legislatoris” e –
proprio come accadeva per il diritto durante l’intero evo intermedio –
si affida prevalentemente alla consuetudine e alla opinio doctorum.
Ecco come nascono i c.d. stili nazionali, mirabilmente sintetizzati
nelle composizioni strumentali e per orchestra di Johann Sebastian
Bach. Infine il teatro a pagamento che non è certamente un luogo nato
solo per esigenze musicali, ma come occasione privilegiata di
relazioni sociali, politiche, private ed anche per praticare il gioco
d’azzardo, comporta il nascere di tutta una serie di convenzioni
interpretative (ma sarebbe meglio definirle esecutive e realizzative)
che includono le c.d. arie da baule (cioè arie alternative da cantare
durante la rappresentazione teatrale per soddisfare i gusti del
pubblico), pastiches di composizioni di autori diversi, traduzioni ed
esecuzioni in lingua diversa dall’originale ecc. Nel campo della
musica strumentale si formano le “grandi scuole” in primo luogo
quelle organistiche (Germania del Nord e del Sud, Francia, Italia
Centrale, ecc.) che precedono di gran lunga le Scuole giuridiche.
Tuttavia in epoca appena prerivoluzionaria e durante lo stesso periodo
della rivoluzione francese emerge in tutta la sua statura il compositore
– improvvisatore – interprete. Non va dimenticato che fino al periodo
romantico inoltrato composizione ed improvvisazione erano
considerate manifestazioni del genio musicale indissolubilmente
collegate tra di loro. Tuttavia era un’arte (come si espresse il
compositore Reincken nell’udire Bach improvvisare all’organo della
Chiesa di Santa Caterina in Amburgo) praticata a livello individuale e
per il proprio piacere personale, oppure per intrattenere gli ospiti
importanti arrivati per soggiornare per affari in una determinata
località)13. Nel caso di Mozart e di Beethoven diventa un’occasione di
13
V. in generale sulle problematiche della interpretazione-esecuzione di musica antica tra
gli altri: C. PAGE, Voices & Instruments of the Middle Ages (Instrumental practice and songs
in France 1100/1300), London 1987; N. HARNONCOURT, Il discorso musicale – scritti su
Monteverdi, Bach, Mozart, Milano 1987 (trad. dall’ed. tedesca del 1984). A. DOLMETSCH,
The interpretation of the music of the 17th and 18th centuries revealed by contemporary
86
Eugenio Picozza
guadagno e di look professionale. Nel contempo gli Stati cominciano
ad istituire centri di formazione professionale che diventeranno i veri
e propri Conservatori (già presenti in alcune capitali da secoli, ma non
di derivazione statale). Infine si allarga e si moltiplica la schiera di
dilettanti, specialmente da quando sulla scena musicale, irrompe un
nuovo protagonista destinato rapidamente a soppiantare tanto il
clavicembalo quanto l’organo e cioè il pianoforte. Questo
straordinario strumento che si accorda abbastanza facilmente con il
sistema del temperamento equabile (cioè l’ottava viene
artificiosamente divisa in 12 note aventi tutte la medesima distanza di
frequenza acustica l’una dall’altra) riesce anche a sostituire l’orchestra
attraverso numerosissime trascrizioni che fioriranno quasi fino alla
seconda guerra mondiale. Il successo è tale che anche virtuosi
trascendentali come Chopin e Liszt non disdegnano di insegnare (a
caro prezzo) ad allievi ed allieve le proprie composizioni e il proprio
metodo. Quindi la conclusione è che l’interpretazione gradualmente si
stacca dall’interprete e si affida ad un doppio circuito:
a) quello ufficiale dei Conservatori largamente basato su metodi
spesso scritti e pubblicati dai medesimi Insegnanti del locale
Conservatorio;
b) quello ufficioso basato sui grandi virtuosi interpreti di se stessi,
ma ormai anche di altri autori. È il caso in particolare di Paganini per
il violino e di Liszt per il pianoforte. Ad essi si deve la nascita
ufficiale ed economica del concerto solista a pagamento, anche se a
Londra l’imprenditore e musicista Salomon aveva già aperto sale per
l’ascolto di musica da camera e orchestrale a pagamento (per i teatri
evidence, London 1915. T. DART, The interpretation of music, London 1954. R. DONINGTON,
The Interpretation of Early Music, London 1963. L. LOCKWOOD, Performance and
“Authenticity”, Early Music, Vol. 19, No. 4 (1991), 501-508. C. PAGE, The English “a
cappella” renaissance, Early Music, Vol. 21, No. 3 (1993), 452-71. R.F. TARUSKIN, Text and
Act: Essays on Music and Performance, New York 1995. AA. VV., Companion to Medieval &
Renaissance music (Tess Knighton and David Fallows, eds.) , New York 1997. C. COLLINS
JUDD, Introduction: Analyzing Early Music – Tonal Structures of Early Music, New York
1998. M. BENT, Introduction: Analyzing Early Music – The Grammar of Early Music:
Preconditions for Analysis, New York 1998. D. LEECH-WILKINSON, The Modern Invention of
Medieval Music, Cambridge 2002. B. HAYNES, The End of Early Music: A Period
Performer’s History of Music for the Twenty-First Century , New York 2007. H. HASKELL,
voce “Early Music” sul New Grove Dictionary of Music and Musicians; F. NEUMANN,
Performance Practices of the Seventeenth and Eighteenth Centuries, New York 1983; C.
BROWN, Classical &Romantic Performing Practice (1750-1900), Oxford 1999. Riassuntivo,
ma molto efficace per una prima introduzione a tale complessa problematica B.D. SHERMAN,
Interviste sulla musica antica (Dal canto gregoriano a Monteverdi), Torino 2002.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
87
d’opera come si è visto la storia era iniziata molto prima e grandi
compositori come Vivaldi ed Handel ci hanno più volte rimesso le
penne dal punto di vista economico). L’epoca prerivoluzionaria,
rivoluzionaria e romantica costituisce l’ultimo baluardo come a suo
tempo acutamente notato da J. Attali della funzione “rappresentativa”
della musica. Il positivismo bussa alle porte, ma con conseguenze
fatali per la categoria musicale della interpretazione (le stesse
conseguenze per la interpretazione giuridica sono spostate oltre un
secolo dopo e comunque con esiti non così globali) soprattutto quando
sul finire dell’’800 nascono i primi mezzi di riproduzione sonora. In
questo arco di tempo viceversa, il diritto, attraverso il compimento del
percorso degli Stati nazionali, le codificazioni e le costituzioni
precede la musica nell’intento di separare interpretazione da
esecuzione e in quello di dettarne le regole cogenti.
4. Il problema della interpretazione musicale e giuridica durante
il positivismo
Come è noto, ancor prima dell’epoca del positivismo, si pose la
problematica della differenza tra esecuzione e interpretazione. Come
acutamente notato da un nostro grande Maestro (che abbiamo avuto la
fortuna di avere nella nostra Facoltà di Giurisprudenza di Tor Vergata,
Severino Caprioli) spetta al multanime Thomasius pressoché
inarrestabile nella critica e nella autocritica, guidare i pensieri di molti
sull’ultimo tornante. Dopo aver accolto e rimeditato quelle tre figure
dell’interpretazione, in cui si erano venute dissolvendo le categorie
medievali – da quando gli effetti della interpretatio erano prevalsi agli
occhi dei dottori sulla struttura di questa – ed avercele consegnate
nella triade interpretazione dichiarativa, estensiva e restrittiva – egli
si avvedrà che il thema dell’interpretazione – imprescindibile per i
teologi non meno che per i giuristi, ma da questi soltanto coltivato
come proprio – è tuttavia estraneo alla juris naturae et gentium
doctrina, e senz’altro pertinet ad logicam: a questa con gesto deciso
egli lo rivendica14. In altri termini al Thomasius e agli altri autori citati
14
Le citazioni sono tratte da SEVERINO CAPRIOLI, Interpretazione nel diritto medievale e
moderno, in Digesto Discipline Privatistiche, Torino 1993, 13 ss. Ma puntualmente pagina 23
e note corrispondenti. In particolare è illuminante il riferimento contenuto nella nota 60 (ma
v. anche 58 e 59) e che riassumo: Thomasius Fundamenta iuris naturae et gentium ex sensu
88
Eugenio Picozza
da Caprioli in primis Grotius e Pufendorf si deve l’applicazione al
diritto di quel richiamo alla logica svolto da Cartesio e definito da un
eminente neuro scienziato contemporaneo, Antonio Damasio, appunto
come “l’errore di Cartesio” che da il titolo ad un fortunato libro edito
da Adelphi. L’errore della ragione (o più semplicemente l’esclusività
della ragione). Ma per quei paradossi propri della specie umana, nello
stesso momento in cui i dotti si allontano dal diritto naturale rivelato
agli uomini da Dio, essi pretendono di ricostruire un dio logico,
attraverso la legge della ragione, cercando di costruire un “sistema
giuridico” ed in esso un sistema della interpretazione15. Tale è la
necessità di infinito che anche i giuristi debbono sostituire icone con
idola. Né l’affannosa ricerca di immortalità, che sarebbe culminata
con il dogma della completezza dell’ordinamento giuridico e il rifiuto
delle lacune nel diritto, si arresta con la rivoluzione che pure
originariamente si poneva proprio lo scopo di abbattere le icone della
sacralità e dei privilegi. È infatti noto che già i giuristi rivoluzionari,
nell’istituire la Court de Cassation, pretendevano che essa si limitasse
ad una mera attività esecutiva, ad essere “la bouche de la loi”,
proibendo per legge addirittura la cd. interpretazione estensiva della
norma. (Osservo incidentalmente che una simile problematica si pose
anche per la musica, ma non in modo così perentorio). La Rivoluzione
francese sostituendo la legge positiva a quella naturale, desacralizzava
l’interprete, riducendolo allo stato laicale. Nel contempo avendo
comunque bisogno del sacro per convincere (o comunque manipolare)
il cittadino elevava le stesse Assemblee Parlamentari ad interpreti
“autentici” della propria volontà e la legge della ragione (la famosa
dea ragione) al posto del Dio dell’Uomo. Il lungo percorso dal
richiamo ai principi generali del diritto naturale ai semplici principi
generali del diritto (v. ad esempio il codice civile italiano del 1865)
dimostra come gli istituti di rappresentanza popolare si spostino
communi deductae Halle 1718 (ripr. Anastatica Aalen 1963) lib. II, XII De interpretazione
par. 1: “Pertinet ad philosophiam de usu intellectu seu ad genuinam logicam” (242) ed ancora
par. 11 (245).
15
V. ancora CAPRIOLI, op.cit. Le categorie medievali dell’interpretatio restavano così
lontane, travolte da istanze diverse e diversamente risolte nel sistema. L’interpretazione di
una data legge si fondava sempre “su un’altra legge, la quale ordinasse diversamente da quel
che sembrava regolato ad una prima lettura di quella”. Domat qui pareva suggerire un
modesto espediente ermeneutico; ed invece scolpiva il sistema qualificandolo per le
antinomie”. V. anche il ponderoso lavoro di G. LOSANO, Sistema e struttura del diritto vol. I,
II, III, Milano 1984 ma particolarmente il terzo.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
89
progressivamente dalla legittimazione alla autoreferenzialità.
Nascono, o per lo meno si consolidano le categorie giuridiche
classiche della interpretazione: quella letterale che non è vera
interpretazione (in claris non fit interpretatio); quella logicogrammaticale; quella sistematica e solo nei successivi tempi
dell’idealismo quella storico-evolutiva e teleologica. Nei paesi di civil
law non si è alcun dubbio che il primato interpretativo spetti al
Parlamento: non a caso è coniata l’espressione Stato Parlamentare.
L’apparato amministrativo è chiamato “potere esecutivo”, e lo stesso
giudice deve eseguire la legge, applicarla. Tutto ciò è lucidamente
riassunto da Caprioli: Come è noto, il riparto dei poteri negli Stati di
diritto attribuiva ad un solo organo la funzione normativa, mirava ad
identificare i precetti con la legge; e sospinta l’attività detta
interpretazione fuori del campo riservato ai fatti normativi, ne esaltava
il carattere di “libera operazione intellettuale”, di “processo logico”
inteso a “riconoscere la legge nella sua verità”, a ricostruire il
pensiero racchiuso nella legge. Figura precipua di un tale processo
risultava “l’…interpretazione dottrinale”, conforme del resto a quella
ideologia, che nel grande programma savignyano avrebbe preso
lineamenti marcati, riconoscibili ancora oggi – e non soltanto nelle
teorie ermeneutiche16. Solo negli stati di common law al giudice viene
assegnata una funzione interpretativo-decisionale molto più ampia, ma
come è noto, ciò costituisce una conseguenza dello stesso modo di
intendere la separazione dei poteri come check and balance e non
come sottoposizione degli stessi alla legge. Come si può dunque
agevolmente notare, la fiducia data alla ragione non sembra spostare
di molto la verità della affermazione di T. Hobbes “auctoritas non
veritas facit legem”. Come verrà colto in modo impareggiabile da C.
Schmitt nel XX secolo, in realtà l’uso della ragione viene dopo
l’adozione della “decisione”: questa anche se assunta nella forma
della legge, è autoreferenziale ed il meccanismo propulsivo è riposto
nelle formule della rappresentanza politica, nelle quali – in un modo o
in un altro – il potere decisionale viene delegato dai molti ai pochi.
Problema ancora cruciale (eccome) nelle odierne democrazie, dove
anzi la crisi e i limiti dei sistemi politici rappresentativi (non solo in
16
S. CAPRIOLI, op. cit.; le frasi riportate tra virgolette sono tratte da SAVIGNY, Sistema del
diritto romano attuale, trad. it. di A. Scialoja, Torino 1886 e Antologia di scritti giuridici, a
cura di De Marini, Bologna 1980.
90
Eugenio Picozza
Italia ma in tutte le democrazie occidentali) sono sotto gli occhi delle
rispettive popolazioni. In altri termini il percorso logico segue e non
precede la legge: tuttavia, occorre dire, proprio attraverso l’attività
interpretativa si tenta in qualche modo di condividere il potere della
norma, soprattutto nell’esercizio della attività amministrativa e
giurisdizionale. Il sacro (la norma giuridica) deve avere una “epifania”
nel profano (la fattispecie reale): senza concretizzazione non vi è
diritto, ma pura astrazione. Peraltro si è molto lontani dalla saggezza
degli antichi “ex facto oritur jus”; ed in effetti nel XX secolo in molti
stati l’autorità sarà totalitarismo.
Nel campo musicale invece, il metodo che potremmo
giuridicamente definire della “interpretazione libera”, continua
almeno fino alla seconda metà dell’’800 quando gli stessi compositori
(Brahms in testa) cominciano a rivisitare e a riassumere l’enorme
patrimonio musicale dipanato fin dal periodo Barocco. Sorge il
fenomeno concertistico delle “integrali”: e i primi grandi “interpreti”
(cioè soggetti nei quali la composizione è fenomeno secondario con
alcune rilevanti eccezioni quali ad esempio Sergei Rachmaninov)
mostrano al grande pubblico i tesori dell’arte pregressa (Bach,
Mozart, Beethoven, Schubert e via via tutti i Romantici: Chopin,
Mendelssohn, Schumann, ecc.,…). Il concerto solistico o orchestrale
non è più “improvvisazione” ma ripetizione-rappresentazione. In altri
termini mentre ancora Chopin o Liszt presentavano prevalentemente
le proprie musiche, ora i virtuosi strumentali e vocali presentano quasi
esclusivamente musiche altrui. La categoria dell’interprete si distacca
(per il momento irreparabilmente) da quella del creatore e ciò crea un
dualismo che si è protratto fino ai giorni nostri tra:
a) interpretazione creatrice, non necessariamente fedele all’autore e
al testo scritto;
b) interpretazione esecutrice, che cerca di essere il più fedele
possibile agli stessi17.
17
Un bellissimo saggio su tali problemi è quello di SERRAVEZZA, Musica e Scienza
nell’età del Positivismo, Bologna 1995.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
91
5. Il problema della interpretazione musicale e giuridica dal
positivismo alla seconda guerra mondiale
Il secondo ’800 e il primo ’900 mettono in luce due grandi
differenze tra interpretazione musicale e interpretazione giuridica:
a) la prima consiste nella “virtuosità”. Il grande interprete
musicale, vocale o strumentale che sia, deve possedere doti fisiche che
lo accumunano all’atleta. All’interprete giuridico queste doti sono
inutili, tutt’al più gli si richiede una non comune capacità oratoria e
retorica, scritta ed orale.
b) la seconda consiste nella riproducibilità tecnologica della
composizione. Essa fa nascere il c.d. “documento sonoro” e quindi
scinde l’interprete da se stesso. La tecnologia dell’epoca non permette
normalmente una riproduzione “live” e quindi lo stesso individuo
coltiva due tipi di interpretazioni-esecuzioni: quella dal vivo che è
ancora rappresentazione-ripetizione musicale, e quella in studio che è
formazione di un documento sonoro permanente. La neuro musica ha
recentemente spiegato in modo convincente come le due
interpretazioni non possano coincidere perché nello studio
discografico non vi è pubblico e quindi il grado di coinvolgimento, lo
stesso scopo interpretativo è molto diverso.
Nel diritto viceversa vi è un continuo processo di concretizzazione
ascendente e discendente: dal fatto alla norma, e dalla norma al fatto.
Ci sono i codici, ci sono le prime Raccolte Ufficiali di Leggi, decreti e
circolari, come pure di massime e di sentenze. Ma, almeno nei sistemi
di civil law, la limitazione conferita al giudice, il quale deve applicare
la legge nel caso concreto (e così anche il funzionario amministrativo)
non consente generalizzazioni. Il processo (e più tardi il procedimento
amministrativo) diventano effettivamente “metafore della realtà”.
Tuttavia il ruolo dell’interprete non ufficiale (il giurista) viene in
qualche modo recuperato rispetto alla ventata iconoclasta della
Rivoluzione e della prima metà dell’’800: nasce anzi un circuito
virtuoso tra norma, dottrina e giurisprudenza. Il sacro cacciato dalla
porta della Rivoluzione, rientra dalla finestra con la Restaurazione e
successivamente con le Costituzioni Liberali. Ma il bisogno di Dio è
talmente forte che anche la classe dei giuristi non rinunzia a crearsi i
propri dogmi e successivamente vere e proprie teologie giuridiche
attraverso i tentativi di teorie generali del diritto. Si assiste così ad un
paradosso, che mi sembra non essere stato sufficientemente
92
Eugenio Picozza
sottolineato nella analisi critica di questi fenomeni ormai
storicizzabili: nell’epoca di trionfo del positivismo e delle scienze
naturali, proprio i positivisti più accaniti (in cima Kelsen) tendono a
rifugiarsi nella dottrina pura del diritto e successivamente nella teoria
generale del diritto e dello Stato. Antonio Damasio ed altri neuro
scienziati attribuiscono a Cartesio questo errore cerebrale: il distacco
della ragione dalle emozioni. Certo è che il primo novecento è
un’epoca d’oro per gli interpreti giuristi i quali partendo da dati
concreti riescono a costruire interi sistemi giuridici completi, quando i
totalitarismi o autoritarismi sono alle porte. Peraltro, la funzione
profetica della musica non rimane estranea al diritto: si è poco prima
sottolineato che la scoperta della radio e del disco assegna
all’interprete anche una funzione riproduttiva, il confezionamento e la
consegna ai contemporanei e ai posteri di un documento permanente:
ebbene il diritto sfrutta al massimo questi nuovi sistemi di
comunicazione di massa, e soprattutto la radio (solo successivamente
la televisione). Come è noto i dittatori favoriscono da un lato
l’acquisto della radio a prezzi popolari; dall’altro fanno collocare
altoparlanti nelle scuole e nelle piazze, affinché la gente possa sentire
la voce del capo. Si crea così una prima “immagine” sonora,
successivamente televisiva ed attualmente multimediale. La
formazione (o manipolazione) dell’opinione pubblica che durante
l’ottocento e il primo novecento era affidata alla stampa, giornali,
libri, manifesti, vede un nuovo protagonista nella radio e beninteso nel
cinema. Ma questo impatto riduce “la forza della ragione” o meglio
del ragionamento che il lettore poteva esercitare sul suo giornale
preferito: il suono della parola e l’immagine stimolano altre aree
cerebrali e creano altri mezzi di interpretazione che solo nell’epoca
contemporanea le neuroscienze stanno faticosamente decrittando. Per
il vero la vis oratoria giocava un ruolo fondamentale già dall’antichità
come dimostrano tutti i testi retorici, e tale ruolo era di tale intensità
che la musica ma anche altre arti se ne sono largamente appropriate,
cercando di imitare con i propri ferri del mestiere le figure retoriche
scritte e vocali. Ma la grande differenza è l’applicazione della legge
dei grandi numeri: radio e cinema raggiungono le masse, obiettivo
impossibile sia per i giornali che per le celebrazioni oratorie di un
tempo. Mi sembra quasi banale osservare che le grandi adunate tra le
due guerre sono state rese possibile solo dai mezzi di informazione e
amplificazione sonora e visiva.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
93
6. Il problema della interpretazione musicale e giuridica dal
secondo novecento all’epoca attuale
Per una misteriosa coincidenza (o decisione) del destino, le sorti e
le problematiche della musica (classica) e del diritto (classico)
vengono ad incrociarsi proprio dopo la rovina lasciata dalla seconda
guerra mondiale. Queste problematiche potrebbero riassumersi in una
sola parola: incomprensione. In altri termini si allarga il solco tra
produttori e consumatori (o comunque utenti) della musica e del
diritto. Ciò in gran parte è dovuto proprio alle difficoltà in cui si
dibatte la problematica della interpretazione. Ma occorre andare con
ordine e riprendere innanzitutto il filo conduttore della interpretazione
musicale che avevamo lasciato al periodo di fine ottocento e poi tra le
due guerre. In questo periodo, come accennato nel paragrafo
precedente si affaccia un altro “medium” che in ultima analisi
diventerà se non un interprete vero e proprio quanto meno una
autorevole mezzo di interpretazione comparata: alludo al mezzo di
riproduzione sonora. Dopo i primi tentativi di riproduzione a mezzo
del cilindro e degli strumenti automatici (soprattutto pianoforti) il
disco acustico e poi elettrico a 78 giri spiazza completamente il
rapporto tra interpretazione come rappresentazione e interpretazione
come riproduzione. Non bisogna farsi trarre in inganno dai filmati in
bianco e nero che mostrano sale di teatro e d’opere piene di gente
composta che ascolta lo strumentista, il cantante, il quartetto o
l’orchestra in silenzio quasi religioso. Quella è un’élite, ma la storia
della interpretazione la fa tanto per la musica quanto per il diritto, la
massa, come dimostra da ultimo l’erompere del diritto dei
consumatori e degli utenti con tanto di class actions. La massa mostra
di gradire enormemente il disco che con una piccola spesa iniziale
consente anche a chi non ha i soldi per andare all’opera o al concerto
– ovvero vive in posti lontani dai grandi centri oppure ha
semplicemente difficoltà di motiv mento – di fruire della esecuzione
di grandissimi virtuosi ed interpreti. Né il disco è la sola sorpresa
interpretativa; ad esso ben presto si affianca la radio che dal punto di
vista della massificazione (lo dimostrano le tragiche storie delle
dittature) ha un impatto sorprendente sulla popolazione, a mio
personale avviso superiore anche a quello della televisione e del
cinema (per ragioni che cercherò di spiegare nell’ultimo paragrafo).
Ai nostri fini è sufficiente esporre la tesi già magistralmente svolta nel
94
Eugenio Picozza
citato libro di J. Attali secondo cui la funzione della interpretazione
tende a passare dalla rappresentazione alla riproduzione. Anche la tesi
del pensatore francese non è originale perché preceduta dal
fondamentale saggio di Benijamin La riproducibilità dell’opera d’arte
nell’epoca tecnologica: ma l’effetto pratico nella musica è che la
funzione del musicista concertista è irrimediabilmente scissa: da un
lato quando rappresenta egli è un esecutore che si presenta ad un
pubblico sempre diverso e risente fisicamente delle condizioni (non
esistevano nei primi tempi gli aerei come efficacemente raccontato
nella autobiografia di Arthur Rubinstein); dall’altro è un interprete
quando affida alla storia un documento sonoro, in specie una integrale
di composizioni (valga per tutti il cofanetto di dischi di Wilhelm
Backhaus con l’integrale delle sonate per pianoforte di Beethoven).
Ma questo è solo l’inizio: la globalizzazione della musica comporta
non solo la globalizzazione degli esecutori, ma anche un vero e
proprio mercato delle interpretazioni. Già negli anni ’60 del secolo
XX con la nascita della alta fedeltà e degli stereo; e successivamente
negli anni ’80 con la nascita del compact disk e del mininastro; e
infine agli albori del XXI secolo con I-POD; I-PAD e soprattutto
internet l’offerta del mercato interpretativo è enorme, al punto che
l’interpretazione musica si ripiega su sé stessa per eccesso di offerta.
Ci sono talmente tanti dischi in giro che l’ascoltatore (spesso non
fornito di un’adeguata capacità linguistica musicale o comunque di
sufficienti basi estetico-culturali) diventa semplicemente consumatore,
e quindi preda della pubblicità che viene lanciata da riviste
specializzate; ed in alcuni casi addirittura da accordi commerciali
internazionali tra Stati. Le edizioni discografiche di una singola opera
sono talmente tante che l’una vale l’altra (forse per una nemesi del
compositore il quale se non altro ha avuto il merito di lasciare un
segno scritto sul quale fondare delle regole interpretative). Giocoforza
il solco tra interpretazione ed esecuzione, cui prima si accennava, si
approfondisce viepiù: gli esecutori sono un’infinità, gli interpreti assai
pochi, tanto è vero che non è difficile per accurati specialisti quali il
Kaiser o in Italia Rattalino fondare una vera e propria storia
dell’interpretazione (pianistica). Ma il fenomeno è talmente
impressionante che contamina anche un settore prima de tutto assente
o riservato a pochi eletti, quello della musica antica: Medioevo,
Rinascimento, Barocco, Classico, Romantico e perfino Moderno
vengono squassati alla ricerca di chiavi interpretative diverse, in
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
95
un’affannosa (ma sovente alterata) ricerca degli strumenti originali;
dei trattati originari; della decifrazione filologica della partitura. Lo
stesso metodo ermeneutico che fino al secondo novecento era stato
unitario si divide in due tronconi: interpretazione filologica (che si
presume verbo da cui deriva la parola presunzione); e interpretazione
“moderna” che rivendica maggiori spazi di creatività personale. E a
questo punto cominciano le vere assonanze con le teorie postmoderne
del diritto, come ho avuto occasione di raccontare in altri saggi: come
non riconoscere in questa affannosa ricerca la scuola del diritto libero,
o i critical studies? E come non pensare ai metodi e criteri dell’analisi
economica del diritto quando le case discografiche maggiori che erano
state molto prudenti nell’accettare la esecuzione di musiche classiche
con strumenti originali (ricordo quando ero ragazzo solo due felici
eccezioni: la Archiv appartenente alla DGG e la Telefunken), aprono
completamente al mercato della musica antica con strumenti originali
che in alcuni casi diventa vero e proprio bestseller? L’invasione di
criteri filologici veri e presunti arriva quasi all’epoca contemporanea:
Debussy e Ravel non “possono” più essere suonati su moderni
Steinway ma “debbono” essere eseguiti su pianoforti Bechstein del
1911 o Bluthner ecc. Le Sinfonie di Brahms o le opere di Wagner
debbono ritrovare gli ottoni originali del secondo ’800. Le opere di
Bach possono essere eseguite solo con organi meccanici (peraltro
nessuno eccepisce sulla mancanza di robusti giovanotti per azionare i
mantici: vantaggi della tecnologia). Il criterio dell’analisi
costi/benefici sembra mettere d’accordo tutti. Il punto finale (almeno
attualmente) è che ognuno faccia come vuole, l’importante è che la
casa discografica ci guadagni. Ovvero con un linguaggio più political
correct, il criterio interpretativo principe diventa l’analisi
costi/benefici. Il mercato premia anche nella musica le mode, la
popolarità, la campagna pubblicitaria aggressiva, non la qualità. Si
potrà obiettare che ciò è sempre avvenuto, che in ogni epoca gli artisti
si sono fatta una guerra seconda solo a quella tra professori (valga per
tutti il dissidio Bernini-Borromini); ma ancora una volta la differenza
è tra i grandi numeri18.
18
La babele sui possibili significati di “interpretazione musicale” ha indotto, soprattutto
nei confronti della musica antica, addirittura a sostituire tale impegnativo termine con quello
più generico ed omnicomprensivo di “prassi esecutiva”. Su tali problematiche v. comunque:
Linguaggio ormai adoperato anche nei dizionari di musicologia quale il Dizionario
Universale della Musica e dei Musicisti, voce prassi esecutiva, Torino 1988, e la recentissima
96
Eugenio Picozza
Sennonché internet è in agguato e la possibilità di scaricare
materiale musicale e filmografico gratis corrode anche questo
accordo. Come aveva già da tanto tempo intuito Giannini il bene
culturale e artistico è un bene funzionalizzato: ad appartenenza
individuale ma con l’obbligo (di fatto o di diritto) della fruizione
collettiva. Il diritto di autore (e di esecutore) si stempera sempre di più
in quello del consumatore o fruitore. Se è sempre più difficile per
quest’ultimo distinguere un prodotto artistico di qualità senza una
educazione e formazione preparatoria, per converso egli ha accesso
alle più disparate fonti di interpretazione e di esecuzione.
– Nel diritto la situazione come accennavo non è molto diversa.
Dopo l’ultima infiammazione per Kelsen e le sue teorie generali
(epigoni italiani compresi) il realismo giuridico portato alle estreme
conseguenze apre la pista alle più bizzarre categorie interpretative.
Non interessa qui ripercorre le tappe della influenza delle teorie
postmoderne sulla interpretazione19, quanto piuttosto rappresentare il
cuore del problema, cioè la crisi della stessa norma giuridica. A mio
avviso infatti è lì ancora più che nella concomitante crisi delle fonti
del diritto, il vero nodo centrale della interpretazione postmoderna. La
irrimediabile crisi dello Stato Parlamentare, l’emergere della
dimensione governativa a livello centrale e locale, lo stesso concetto
Enciclopedia della Musica, capitolo sulla prassi esecutiva, Torino 2002. Vi sono tuttavia, a
parte i trattati antichi sulla prassi interpretativa (sui quali v. per tutti Donington cit. più avanti
e S. LEONI, Le armonie del mondo – la trattatistica musicale nel Rinascimento 1470-1659,
Genova 1988), eccellenti manuali sulla interpretazione musicale, ovvero veri e propri saggi
sul problema della identificazione della interpretazione musicale. A. DOLMETSCH, The
interpretation of the music of the XVII and XVIII centuries, London 1946, trad. it.
L’interpretazione della musica nei secoli XVII e XVIII, a cura di L. Ripanti, Milano 1994; T.
DART, The interpretation of music, London 1967; R. DONINGTON, The interpretation of Early
Music New Version Faber and Faber, London 1974; ID., Baroque Music – Style and
Performance, London 1992; F. NEUMANN, Performance Practices of the Seventeenth and
Eigteenth Centuries, New York 1993; AA.VV., Performance practice, a cura di H. M. Brown,
S. Sadie, New York 1990. Ed inoltre con riferimento ai soli strumenti a tastiera: H.
FERGUSON, Keyboard Interpretation (from the XIV to the XIX century), London 1979; S.
ROSEMBLUM, Performance Practices in Classic, Bloomington 1991; con riferimento a singoli
compositori E. e P. BADURA SKODA, L’interpretazione di Mozart al pianoforte, trad.it.,
Padova 1980; P. BADURA SKODA, Interpretare Bach su strumenti a tastiera, trad. it. a cura di
M.T. Bora, Rovetta 1998; J. BUTT, Bachs Interpretation, Cambridge 1990; ID., Playing with
history, London 2002; KIVY, Music alone London 1995; ID., The possessor and the
possessed, London 2001.
19
Mi permetto di rinviare il lettore ad un precedente saggio Teorie postmoderne del
diritto e diritto amministrativo, in Studi in memoria di F. Paolo Pugliese, Napoli 2010 e alla
bibliografia ivi riportata.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
97
di “politica pubblica” che si sostituisce al rapporto tra creazione ed
esecuzione della norma; l’indirizzo politico presente in misura sempre
maggiore nelle decisioni giurisprudenziali, tutto questo complesso di
fattori emargina la norma a favore della decisione. I sociologi, in testa
N. Luhmann hanno tentato di spiegare efficacemente tale fenomeno
ricorrendo tra l’altro anche all’applicazione della teoria dei sistemi al
diritto. Probabilmente vi è in tutto ciò un frammento di verità; e in
Italia la tormentata storia della “conferenza” di servizio sta a
dimostrarlo. Ma io credo che questo non sia il solo motivo: a mio
avviso occorre prendere in seria considerazione anche la perdita del
sacro nel diritto, la morte del dio giuridico (per parafrasare Nietsche),
la riduzione allo stato laicale (fra poco al proletariato) dei professori
universitari di diritto e il contemporaneo emergere dell’importanza
della giurisprudenza rispetto alla legge. Sicuramente è da
comprendere in questi complessi fenomeni anche il passaggio del
concetto di “valore” dall’etica all’economia. In un mondo
(occidentale) in cui le relazioni fondamentali interindividuali e sociali
si sbilanciano sempre di più a favore del rapporto produttoreconsumatore non v’è da sorprenderci molto se anche l’interpretazione
giuridica risenta di tutto ciò. La battaglia tra sacro e profano nel diritto
tuttavia non è ancora conclusa: ad esempio le principali Corti
Costituzionali europee tentano di risacralizzare l’interpretazione
giuridica, mediante un indirizzo interpretativo favorevole alla c.d.
interpretazione “costituzionalmente orientata”, come pure adottando il
c.d. bilanciamento di valori. Tuttavia anche questo tentativo ha i suoi
prezzi da pagare: le Corti Supreme (non solo quelle costituzionali, ma
anche quelle di ultimo grado nelle varie giurisdizioni) diventano una
sorta di “sacerdoti” della interpretazione, come già pretendeva
l’articolo 65 della nostra legge sull’ordinamento giudiziario nei
confronti della Cassazione. Ma proprio il fatto che essa non riesca
nell’opera della unificazione del diritto interpretativo ed anzi negli
altri stati vi sia un apposito Tribunale dei Conflitti (una sorta di
Concistoro Giuridico), dimostra che non è affatto scontato che tale
battaglia sia vincente. Infatti vi è un ostacolo ben maggiore
rappresentato dalla stessa perdita di centralità – anche in relazione al
fenomeno interpretativo del giudice ufficiale – in favore delle ADR e
principalmente tra queste della mediazione. Il criterio costi/benefici
della analisi economica fa sì che altri criteri interpretativi ispirati da
discipline non giuridiche prenda gradualmente il posto dei criteri
98
Eugenio Picozza
classici della interpretazione propria. In termini più propriamente
giuridici la funzione mediativa soppianta almeno parzialmente quella
della giustizia. Mai come nei tempi contemporanei è attuale la frase
manzoniana secondo cui il torto e la ragione non si dividono mai col
coltello. Ma il diritto contemporaneo va oltre il buon senso
manzoniano che puntava non tanto sulla mediazione quanto sul
riconoscimento sinallagmatico di spazi di torto e ragione: esso va
dritto alla ricerca dell’accordo tra le parti in contrasto potenziale o
attuale. Ed allora i criteri interpretativi vanno modificati: la fattispecie
reale (il fatto giuridico) che costituiva nel sillogismo interpretativo la
premessa minore della norma (premessa maggiore) perde insieme a
questa il primato di fattore interpretativo. La mediazione comporta
un’accurata indagine di tipo psicologico sul comportamento delle parti
per cercare senza troppi eufemismi, il cavallo di troia attraverso il
quale penetrare nella psiche per convincerlo ad un accordo. E non è
detto che esso sarà alla fine equo per entrambe le parti, ancorché lo
ritengano soddisfacente. Qualcosa del genere avviene anche per la
musica (classica) della quale viene edulcorato lo sforzo di ascolto, allo
scopo di facilitarne il processo di digestione o più semplicemente di
consumo. Molte sono le tecniche per ottenere questo scopo: ab
externo mediante la sostituzione del fenomeno e della prassi del
concerto con quella dell’evento o meglio ancora del grande evento
musicale. I luoghi sacri del concerto diventano luoghi di
comunicazione multimediale. Ab interno la composizione viene
sezionata, frammentata e presentata in una sorta di gradevole
compilation, per giungere al risultato, reso possibile dal computer, da
ipod e dal web del fai da te. Un pizzico di Beethoven, un frammento
di concerto o di sonata di Mozart, l’aria sulla quarta corda di Bach:
possibilmente tutti pezzi popolari di facile impatto. Sì perché il vero
problema della contemporaneità è la passività dell’ascolto cui ci ha
abituato la radio e la televisione, e i mezzi di riproduzione off-line che
esonera dal sacrificio e dall’attenzione di un ascolto consapevole. E
come è noto questo è anche il problema della difficoltà
dell’apprendimento del diritto20.
20
Gli studi sull’interpretazione nel diritto nel XX secolo e soprattutto nella seconda metà
non consentono, per la loro ampiezza, di rendere conto di una bibliografia adeguata, ci
limitiamo pertanto ad una indicazione molto sommaria. Vedi AA. VV., L’interpretazione negli
anni trenta, Bologna; M. ASCOLI, L’interpretazione delle leggi. Saggio di filosofia del diritto,
Roma 1928, N. BOBBIO, L’interpretazione delle leggi e la ragion di stato, Padova 1939; V.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
99
CRISAFULLI, I principi costituzionali dell’interpretazione e applicazione delle leggi, Padova
1939; C. GRASSETTI, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai
contratti, Padova 1939; R. QUARDI, L’interpretazione dei negozi giuridici nel diritto
internazionale privato, Padova 1939; M.S. GIANNINI, L’interpretazione dell’atto
amministrativo nella teoria giuridica generale dell’interpretazione, Milano 1939; C.
LAVAGNA, L’interpretazione autentica delle leggi e degli altri atti giuridici, Roma 1942; G.
GORLA, L’interpretazione del diritto, Milano 1941; R. SACCO, Il concetto di interpretazione
del diritto, Torino 1947; E. BETTI, L’interpretazione della legge e degli atti giuridici (teoria
generale e dogmatica), Milano 1949; T. ASCARELLI, Interpretazione del diritto e studio del
diritto comparato, Milano 1954; R. TREVES, Interpretazione del diritto e filosofia delle
culture; E. OPOCHER, Rapporti tra teoria generale nella prospettiva dell’applicazione e
interpretazione del diritto, Roma 1965, G. LAZZARO, Storia e teoria della costruzione
giuridica, Torino 1965; D. CORRADINI, Il problema del controllo dei valori
nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto, Milano 1966; F. CORDERO, Gli osservanti,
fenomenologia delle norme, Milano 1967; L. PAREJESON, Verità e interpretazione, Milano
1971; G. TARELLO, Diritto, enunciati, usi. Un’indagine analitico – linguistico della
problematica giuridica in una serie di studi di teoria e metateoria del diritto, Bologna 1974;
J. ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto,
Napoli 1983; G. ZACCARIA, Ermeneutica e giurisprudenza. I fondamenti filosofici nella teoria
di Hans Georg Gadamer, Milano 1984; J. ESSER, Ermeneutica e giurisprudenza. Saggio sulla
metodologia, Milano 1984; J. BLEICHER, L’ermeneutica contemporanea, Bologna 1986; R.
ALEXY, Teoria dell’argomentazione giuridica, Milano 1988; T. GRIFFERO, Interpretare. La
teoria di Emilio Betti e il suo contesto, Torino 1988; G. ZACCARIA, L’arte
dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, Padova 1990; G.
STELLA, I giuristi di Husserl: l’interpretazione fenomenologica del diritto, Milano 1990; R.
GUASTINI, Le fonti del diritto e l’interpretazione, Milano 1993; E. BETTI, L’ermeneutica
giuridica, Milano 1994; L. BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione, Milano 1994; M. IORI,
Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto, Torino 1994; P.
AMSLEK, Interpretazione et droit, Bruxelles 1995; A. MANGIA, L’ultimo Forsthoff, Padova
1995; V. MARINELLI, Ermeneutica giudiziaria. Modelli e fondamenti, Milano 1996; G.
ZACCARIA, Questioni di interpretazione, Milano 1996; Annuario di ermeneutica giuridica –
ermeneutica e applicazione, Milano 1996; Annuario di ermeneutica giuridica – testo e diritto,
Milano 1997; M. BESSONE, Interpretazione e diritto giudiziale. Regole, metodi, modelli,
Torino 1999; F. VIOLA, G. ZACCARIA, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria
ermeneutica del diritto, Roma 1999; V. MATHIEU, L’uomo animale ermeneutico, Torino
2000; L’interpretazione del contratto nella dottrina italiana, a cura di N. Irti, Padova 2000;
G. ALPA, Storia, Fonti, interpretazione, Vol. I, Trattato di diritto civile, Milano 2000; G.
BONGIOVANNI, Teorie costituzionalistiche del diritto, Bologna 2000; M. ROSENFELD,
Interpretazioni. Il diritto fra etica e politica, Bologna 2000; G. MINDA, Teorie post moderne
del diritto, Bologna 2001; G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, Bari 2002; L. PERISSINOTTO,
Le vie dell’interpretazione nella filosofia contemporanea, Bari 2002; M.M. FRACANZANI,
Analogia e interpretazione estensiva nell’ordinamento giuridico, Milano 2003; V. OMAGGIO,
Teorie dell’interpretazione: giuspositivismo, ermeneutica giuridica, neocostituzionalismo,
Napoli 2003; Annuario di ermeneutica giuridica – mediazione ed ermeneutica, Padova 2004;
R. GUASTINI, Il diritto come linguaggio. Lezioni, Torino 2006; P. CHIASSONI, Tecnica
dell’interpretazione giuridica, Bologna 2007; S. CAPRIOLI, Lineamenti dell’interpretazione,
San Marino 2008; F. MODUGNO, Interpretazione giuridica, Padova 2009; G. PINO, Diritti e
interpretazione: il ragionamento giuridico nello studio costituzionale, Milano 2010; V.
OMAGGIO, Ermeneutica ed interpretazione giuridica, Torino 2010; G. BARTOLI Il problema
100
Eugenio Picozza
PARS II
Expositio
Alcuni criteri interpretativi della musica condividibili con il
diritto
L’ingressio potrebbe essere considerata una lettura a sé stante, ma il
dovere o l’uzzolo del giurista tradizionale resta quello di comparare,
applicare, indicare; non posso, né voglio sottrarmi a tale tentativo.
7. Posizione del problema
Occorre premettere alcune informazioni, perché l’analogia non può
essere in proposito automatica e letterale. In primo luogo l’esecuzione
musicale deve essere divisa in esecuzione dal vivo o riprodotta (anche
in questo caso vi sono peraltro somiglianze sorprendenti, perché in un
prossimo futuro anche la decisione amministrativa o giurisdizionale
potrebbe essere riprodotta e comunque presa in sede virtuale e non dal
vivo, cioè a mezzo di funzionari e giudici realmente esistenti). In
secondo luogo l’esecuzione musicale non può essere governata solo
da regole logiche, perché le scienze mediche e biologiche hanno
dimostrato che entrano in gioco fattori istintivi e comunque fisici
(sensazioni, percezioni) ed emotivi (sentimenti) che si combinano e
comunque interagiscono con la mente in modo molto soggettivo e
personale; soprattutto nelle persone che non hanno ricevuto una
educazione e informazione musicale in senso proprio. Che il mondo
del diritto debba essere governato da regole logiche resta uno dei
principali dogmi della c.d. teologia giuridica: la realtà si incarica
puntualmente di smentire tale assioma ed allora i giuristi (soprattutto
quelli compiacenti verso il potere) cercano di “logicizzare”
l’irrazionale: uno splendido esempio è il metodo dell’analisi
economica del diritto (diventata secondo autorevoli dottrine
addirittura una possibile teoria postmoderna del diritto). In essa la
teoria degli interessi economici prende il posto del concetto di valore
dell’interpretazione giuridica tra ermeneutica e fenomenologia, Torino 2010; T. GUARNIERI,
Interpretazione costituzionale e integrazione europea, Napoli 2010.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
101
etico, così come nel medioevo il concetto di giustizia aveva sostituito
quello di virtù. In terzo luogo nella interpretazione della musica le
regole logiche da applicare sono quelle comuni, perché
sull’applicazione delle regole deontiche (proprie delle teorie
giuridiche tradizionali) regna una certa elasticità. In genere, la validità
e l’efficacia di queste regole riguarda ordinamenti giuridici particolari
(i Conservatori e le Accademie); élites professionali (gruppi
organizzati di musicisti), ma non il pubblico degli utenti. In altri
termini non esistono principi deontici obbligatori come per il diritto
(es. il principio di buona fede) tali da poter fondare un giudizio di
valore o di assoluto disvalore21.
Per amore di completezza va anche aggiunto che da alcuni decenni,
è in atto una tendenza diffusa, anche per merito (o demerito), della
globalizzazione, ad adottare standard esecutivi abbastanza uniformi,
distinti per grandi periodi storici (musica antica, barocca, moderna e
contemporanea). Si costituiscono “scuole”, piuttosto che tradizioni,
interpretative (un’analogia con le scuole medievali?) che informano
21
In questa affermazione concordo parzialmente con la tesi di G. IUDICA, Interpretazione
giuridica e interpretazione musicale, in Rivista di diritto civile, 2004, 467 ss. ma
particolarmente 478. È vero a mio avviso che “l’interprete musicale è ad un tempo più
svantaggiato e più avvantaggiato del collega giurista. Più svantaggiato perché non ha a
disposizione una norma, come l’articolo 12 delle preleggi, che gli fornisca una recta via, un
metodo di interpretazione, che gli fornisca una bussola, e insomma, bene o male, la sicurezza
quanto meno di una direzione lungo la quale orientare la propria scelta interpretativa”. Sono
invece discutibili le due affermazioni seguenti:
a) “Più avvantaggiato perché più libero, perché svincolato da quei criteri che invece
vincolano il civilista verso quella ratio legis più congrua alle finalità pratiche, cui la norma è
rivolta, di composizione di circoscritti interessi configgenti”. Temo infatti che le ADR ed in
particolare gli istituti della mediazione abbiano posto in crisi la stessa validità giuridica della
nozione di interessi configgenti. Anche il giurista (o meglio l’èquipe) diventa più libera.
b) L’interprete musicale potrà compiere la sua scelta interpretativa attingendo non già a
criteri vincolanti prestabiliti da un qualsiasi legislatore, bensì ai criteri che, in base alla sua
cultura, alla sua sensibilità, alla sua visione dell’arte e del mondo, alla sua più o meno fedele
adesione o alla sua rivolta rispetto ad una piuttosto che ad un’altra autorevole tradizione
interpretativa riterrà preferibile adottare con il limite della compatibilità tecnica della sua
scelta con il testo da interpretare (grassetto mio). In realtà non vi è più tradizione
interpretativa: per il pianoforte ciò è stato stabilito in modo definitivo dalle interpretazioni di
Glenn Gould. Né vi è il limite della compatibilità tecnica perché, proprio come per il diritto
pubblico, vi è una crisi per il momento irreversibile del principio di autorità (anche nella sua
versione più carismatica e culturale che è l’autorevolezza). Ciò è dovuto come sempre dal
consumo di massa cui proprio i luoghi che dovrebbero salvare le tradizioni interpretative
autorevoli (chiese, teatri, auditori) facilmente si piegano; e perché il testo è decostruito come
quello giuridico o addirittura annichilito da esecuzioni volgari e tutt’altro che fedeli ma capaci
di ingannare il pubblico tramite una oculata campagna pubblicitaria orchestrata dai mass
media e dalla politica culturale.
102
Eugenio Picozza
dei loro stilemi anche la riproduzione documentale (dvd, compact disk
e da ultimi i prodotti scaricabili on line). Manca poi l’elemento
principe della logica deontica e cioè la obbligatorietà del
comportamento e il rimedio alla sua violazione attraverso la sanzione
(che tutt’al più può consistere in una bocciatura durante gli studi di
conservatorio, ovvero, in un tentativo di stroncatura da parte di critici
musicali di diversa formazione teorica).
Ciò premesso, vi sono indubbiamente metodologie e
concettuologie simili: -vi è in entrambi i casi una consistente
differenza tra esecuzione ed interpretazione, che in musica significa la
distinzione tra una ripetizione meramente “accademica” del brano, e
invece una esecuzione in cui il pensiero dell’autore (voluntas
legislatoris) o della stessa composizione oggettivata (voluntas legis) si
fonde con il soggetto interprete. Purtroppo la diffusione di esecutori
professionali da poche centinaia a intere legioni, rende molto più
difficile individuare un vero interprete rispetto ad una schiera di
esecutori: corretti, anzi tecnicamente impeccabili e virtuosi, ma privi
del possesso dei segreti della interpretazione, cioè come insegnava già
Betti della capacità di interporsi tra l’Autore e l’Opera. Nel diritto,
tradizionalmente, la distinzione consisteva tra esecuzione della norma,
come mera interpretazione letterale; e utilizzazione “intelligente”
delle varie categorie ermeneutiche. Attualmente, la vera differenza
sembra consistere tra interpretazione (che rientrerebbe comunque in
una attività meramente applicativa della norma) e attuazione (che
comporterebbe un margine di creatività per il soggetto giuridico
competente all’attuazione). Questa distinzione è presumibilmente
collegata alla crisi stessa della norma (che abbisogna di un continuo
processo di concretizzazione per dimostrarsi kelsenianamente
effettiva); sia alla crisi del sistema delle fonti (che rende molto
disagevole il ricorso ai criteri di cui all’articolo 12 delle preleggi); ma
soprattutto all’emergere dell’amministrazione e del giudice (non
necessariamente il giudice professionale, ma anche l’arbitro, il
mediatore ecc.) la cui attività è oggettivamente creativa. Si assottiglia
quindi anche la seconda distinzione proposta da Iudica22, nel senso
che la parte (fruitore ovvero utente del diritto) contribuisce molto più
che nel passato – attraverso il procedimento amministrativo, quello
giurisdizionale e ancor più quello compositivo – a dare il significato
22
G. IUDICA, op. cit., 478.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
103
effettivo, ma contingente della norma da interpretare.
8. Differenza tra interpretazione letterale e le altre forme di
interpretazione
Lasciato un attimo in disparte il grande problema posto dalla
sostituzione della attività di osservanza della norma (v. disposizione
finale transitoria della Costituzione Italiana che obbliga chiunque ad
osservarla come Legge Fondamentale della Repubblica) e attività di
attuazione della norma (che implica già il problema della
discrezionalità e in termini organizzativi del governo, delegittimando
il valore sacro e simbolico della legge suprema), e mi concentro nel
problema particolare di cui alla rubrica del paragrafo. Non senza
osservare che la fine della teologia politica per il diritto, corrisponde
anche alla fine della teologia musicale. Sotto questo profilo il simbolo
più eclatante è l’enorme impatto della regia e della scenografia nelle
opere liriche che possono pressoché distruggere il messaggio della
composizione musicale. Nella musica strumentale l’impatto per il
momento è più mite, ma l’interazione tra musica ed elettronica
potrebbe riservare molte sorprese.
Orbene, la differenza tra l’interpretazione letterale e le altre
categorie ermeneutiche ha uno straordinario impatto nel regime delle
esecuzioni musicali, sia dal vivo che riprodotte. Basti pensare che la
sua ricerca è stata alla base dei nuovi criteri con cui da alcuni decenni
si esegue il repertorio della musica barocca, rinascimentale,
medioevale, e perfino il canto gregoriano. Si può anzi affermare che
all’interno della interpretazione letterale sono stati rinvenuti o costruiti
numerosi indici di riconoscimento della c.d. autenticità, primo tra i
quali – per comodità di comprensione – l’utilizzazione obbligatoria di
strumenti originali o almeno di buone copie. Non può non cogliersi –
con una punta di bonaria ironia – in tale ricerca, i sintomi di una
corrente di pensiero restauratrice e neoautoritaria, per non dire
integralista. Anche perché proprio la ricerca storica fornisce risultati
sorprendenti. In un bellissimo libro pubblicato per le celebrazioni dei
250 anni della morte di J.S. Bach, C. Wolff, probabilmente il
musicologo più importante intorno all’opera di Bach, ha scritto tra
l’altro di un ritrovamento di numerose fatture attestanti la vendita di
fortepiani Silbermann da parte del medesimo compositore, che
104
Eugenio Picozza
ovviamente cercava tutte le fonti di guadagno possibili per nutrire la
sua numerosa famiglia. Questa semplice scoperta spazza via ogni
pretesa sostenuta dagli interpreti “autentici” e da una parte della stessa
musicologia, secondo cui le composizioni per tastiere (Klavierwerke)
potrebbero essere suonate solo al clavicembalo, spinetta e comunque
strumenti a penna (e non a martello come tutti i pianoforti).
Tornando, dopo questa breve digressione, al tema principale, la
categoria della interpretazione quanto più possibile letterale ha retto
nel periodo tra le due guerre del ’900 ed oltre (detta anche
interpretazione neoclassica) e si è poi modificata nella c.d. corrente
struttural-funzionale. Esiste quindi anche in musica una concezione
positivista simile a quella giuridica, che pretende di disconoscere
l’eterna interazione tra mondo dello spirito e mondo della materia. Per
completezza, va aggiunto che anche in musica sono state praticate
altre forme di interpretazione, da quella storica (v. paragrafo seguente)
a quella logico-sistematica, a quella evolutiva; fino a vere e proprie
forme di interpretazione per principi e per valori. Basta in proposito
leggere i segni di commento alle varie edizioni delle sonate di
Beethoven per pianoforte o biografie sullo stesso Beethoven da parte
di musicologi di fede marxista23. Sotto questo profilo occorre
23
Tra i numerosissimi contributi sul tema della interpretazione musicale, filtrati sotto
prospettive anche del tutto eterogenee v. tra gli altri: G.M. GATTI, Dell’interpretazione
musicale, in, Atti del Primo Congresso Internazionale di Musica, Firenze 1935; S. PUGLIATTI,
L’interpretazione musicale, Messina 1940; M. BITSCH, L’interprétation musicale, Paris 1940;
A. PARENTE, La musica e le arti, Bari 1946; G. BRELET, L’interprétation creatrice, vol. I e II
Paris 1951; G. GRAZIOSI, L’interpretazione musicale, Torino 1952, 51; F. DELLA CORTE,
L’interpretazione musicale, Torino 1951 (peraltro gli ultimi due volumi sono parzialmente
dedicati allo studio della interpretazione di celebri esecutori e direttori); E. FUBINI, Notazione
musicale e interpretazione, in Rassegna Musicale, 1961; TH. ADORNO, Il fido maestro
sostituto, trad. it., Torino 1969; E. FUBINI, Temporalità e storicità nella interpretazione
musicale, in “studi Musicali”, 1972; L. GINSBURG, Wege zur Interpretation von Musikwerken,
Lipsia 1975; AA. VV., Beitrage zur musikalischen Hermeneutik, a cura di G. Dalhaus,
Ratisbona 1975; AGAWU, Playing with Signs. A Semiotic Interpretation of classic music,
Princeton 1991; G. FEDER, Filologia musicale, trad. it. a cura di G. Di Stefano, Bologna 1992,
soprattutto 95-138; Music Analysis, in Nineteenth Century. Hermeneutic Approaches, a cura
di I. Bent, Cambridge 1994; R. TARUSKIN, Text and Act. Essays on Music and Performance,
New York-Oxford 1995; M. GIANI, L’ermeneutica musicale nella tradizione tedesca, in
Bollettino del GATM, IV, 1997, 1-28; E. POZZI, Ermeneutica, analisi, narratività. Tracce per
un dibattito storiografico sulla musica anglosassone, ivi, 29-52; M. BARONI, L’ermeneutica
musicale, in Enciclopedia della Musica, Vol. II, Torino 2002; J. BUTT, Playing with history,
London 2002; Musica e interpretazione: soggettività e conoscenza nell’esecuzione musicale,
a cura di L. Attademo, Torino 2000; A. MAZZONI, La musica nell’ermeneutica
contemporanea, Milano 2005; A. GURBATTI, Riflessioni attorno al problema
dell’interpretazione musicale, Bergamo 2005.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
105
serenamente concludere che non vi è più un tipo soltanto (non una
categoria) di interpretazione, ma quanto meno:
a) L’interpretazione del testo scritto. Non a caso si sono diffuse le
edizioni urtext nella pretesa (a mio avviso vana) di offrire al lettore il
testo “autentico” del compositore. Addirittura gli esecutori più seri
(ovvero più integralisti) non accettano nemmeno il testo originale
moderno, ma vanno alla ricerca di quello antico, non volendo lasciare
ad altri che a sé stessi il compito della decifrazione. Ma questa non è
interpretazione musicale in senso stretto. Bensì interpretazione
filologica del testo.
b) L’interpretazione “durante” la rappresentazione. Qui come
giustamente ha scritto Iudica e ancor prima Eco, l’esecutore deve
misurarsi con l’ascoltatore. Il vero interprete è solo quello che
“muove” l’ascoltatore: tutti gli altri sono esecutori perché non
riescono ad intermediare tra compositore e ascoltatore.
c) L’interpretazione documentale. La consegna alla storia del
documento sonoro riguarda piuttosto l’elargizione di uno “stile
ermeneutico”. Non vi è il pubblico; la riproduzione dipende anche
dalla qualità della registrazione e del supporto di riproduzione sonora;
e al di là di tutto ciò lo scopo dell’esecutore è quello di consegnare al
pubblico il proprio “stile” come è comprovato dall’ascolto soprattutto
delle “integrali” per pianoforte, violino, organo ecc.
Gradualmente, peraltro sta sorgendo un nuovo tipo di
“interpretazione”: la rappresentazione virtuale, soprattutto nel campo
della musica lirica che con l’adozione di nuove tecnologie, mira a
comporre un prodotto nel quale l’impatto visivo è di efficacia neurale
almeno pari a quello uditivo. Prova ne è l’importanza (eccessiva)
assunta dalla scenografia e regia nell’opera lirica, rispetto alla musica.
Ma la transizione epocale non si ferma a ciò. Presto, proprio come
avvenne con gli strumenti automatici, sarà sufficiente conoscere la
“lingua musicale” per impartire al computer a al “midi” le istruzioni
necessarie per eseguire qualunque musica in base ai propri criteri
ermeneutici. In altri termini l’interpretazione musicale si stacca dalla
fisicità che finora ne era un elemento essenziale (il limite della
compatibilità tecnica della sua scelta con il testo da interpretare,
secondo quanto affermato da Iudica), e ci “celebralizza”.
L’interpretazione è nelle regole istruttive, nelle specifiche tecniche (o
meglio artistiche) del brano da eseguire: l’esecuzione reale (o meglio
virtuale) non fa più parte del processo interpretativo in senso stretto.
106
Eugenio Picozza
Nemmeno regge l’obiezione in base alla quale questa possibilità è
data solo attraverso un mezzo di riproduzione sonora virtuale (il
computer e relativo sintetizzatore elettronico di strumenti e di suoni).
Come è noto ci sono già strumenti acustici con appositi sensori che
consentono la riproduzione ancora più fedele di quella umanamente
realizzabile.
9. Rilevanza della conoscenza del periodo storico in cui la
composizione fu concepita e valore della successiva
storicizzazione della prassi esecutiva (problematica che
riecheggia quella tra voluntas legislatoris e voluntas legis)
La moderna musicologia attribuisce la massima importanza ad una
profonda conoscenza del periodo storico nel quale il compositore
visse ed operò, ai fini di una attendibile e fedele esecuzione
strumentale e vocale. Normalmente la ricerca viene compiuta unendo
un criterio soggettivo, basato sull’approfondimento della vita del
compositore, dei suoi studi, degli autori di riferimento ecc., al criterio
oggettivo, cioè l’approfondimento sistematico degli stili musicali e
delle corrispondenti regole compositive, sempre durante l’epoca di
riferimento presa in esame. Vi sono però dei luoghi comuni che
destano sorpresa ed anche imbarazzo. Ad esempio per perseguire ad
ogni costo l’autenticità, si usa combinare in modo indifferenziato le
fonti autografe (cioè le fonti manoscritte); oppure assegnare numeri di
metronomo corrispondenti a quelli dettati dallo stesso compositore.
Ancora una volta Beethoven può esserci utile. Tutte le edizioni urtext
delle sue opere per pianoforte portano indicazioni per metronomi che
sono equivalenti a quelle da lui dettate per le sinfonie o per altre
sonate per pianoforte del c.d. ultimo periodo: nessuno però ha
riflettuto sul fatto che le sonate del primo periodo (dalla n. 1 alla n. 8)
e del secondo periodo (dalla n. 9 alla n. 26) sono state scritte quando il
metronomo non era stato ancora inventato: e quindi o ci si basava sul
battito del polso o su rudimentali meccanismi antesignani del
metronomo stesso (come il pendolo di Louliè). Orbene Beethoven
scrive la Sonata al Chiaro di Luna nel 1800, mentre il metronomo è
inventato solo nel 1815. Nel 1800 ha esattamente trenta anni è robusto
e in buona salute. Nel 1815 è completamente sordo, in cattiva salute e
con numerosi dispiaceri familiari. È possibile dunque fondare il
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
107
giudizio e quindi la regola sulla sola autorità del compositore,
mediante una operazione analogica che applica gli stessi criteri a
composizioni molto distanti nel tempo? Ecco quindi introdotto il
criterio della rilevanza del fattore storico nella interpretazione così
come il valore (o disvalore) della sua progressiva storicizzazione.
Sempre prendendo come cavia il nostro Musicista, non vi è dubbio
che la storiografia musicale del positivismo, mescolata alla ideologia
evoluzionista propria del darwinismo, concepì una storia della musica
“ascendente” alla cui base si trovava Bach e al cui vertice si sarebbero
posti Verdi e soprattutto Wagner. Ecco quindi applicata alla musica
sia la categoria della ermeneutica storica soggettivistica (voluntas
legislatoris); sia della ermeneutica oggettivistica (voluntas legis)24.
Ora la constatazione sorprendente è che mentre nel mondo del diritto,
l’adozione di una tecnica o dell’altra è solo un espediente cui
appoggiare l’autorevolezza di una determinata scelta politica
(emblematica sotto questo profilo è la metodologia di attività
interpretativa seguita dalla Corte Costituzionale), non è difficile
trovare nel mondo della musica numerosi interpreti anche di rilievo
internazionale, del tutto convinti che queste categorie interpretative
siano le uniche “lecite” e “autorevoli”; e conseguentemente
appoggiare le loro esecuzioni a dichiarazioni o segni dell’autore
eseguito (voluntas legislatoris) o ai trattati musicali dell’epoca.
Tuttavia le conseguenze pratiche della scelta dell’uno o dell’altro
criterio ermeneutico, sono molto diverse nel campo del diritto rispetto
a quello musicale. È noto infatti, per lo meno agli studiosi di diritto
pubblico, che esistono anche meta-criteri ermeneutici, la cui
violazione può portare ad un giudizio di disvalore (illegittimità) o
almeno ad una possibilità di impugnazione (appello). Infatti è scontato
che il giudice è obbligato ad utilizzare il criterio ermeneutica di
24
Per la ricostruzione della emersione e del significato di questa dicotomia v. in generale:
Rinvio pertanto ad alcuni testi classici sulla storia della interpretazione, quali F. BIANCO,
Introduzione all’ermeneutica, Roma-Bari 1999; M. FERRARIS, Storia dell’ermeneutica,
Milano 1988; ID., L’ermeneutica, Roma-Bari 1998 e in precedenza G. GUSDORF, Storia
dell’ermeneutica, trad. it. di M.P. Guidobaldi, Roma-Bari 1989, che è molto utile per
effettuare opportuni riscontri con gli stilemi interpretativi della musica antica, medioevale,
rinascimentale, barocca e romantica. Più riassuntivi, ma ricchi di spunti di attualità il già
citato libro di MATTHIAS JUNG, L’ermeneutica; F. VIOLA, G. ZACCARIA, Diritto e
interpretazione (lineamenti di una teoria ermeneutica del diritto), Roma-Bari 2001,
soprattutto 238 ss.; Q. SCHINNER, Dell’interpretazione, Bologna 2001; R. PALMER, Cosa
significa ermeneutico, Nardò 2008.
108
Eugenio Picozza
conformità alla fonte superiore, alla Costituzione ed in particolare al
diritto comunitario; e che, soprattutto nei confronti di quest’ultimo, vi
è l’obbligo di disapplicazione della norma nazionale incompatibile, e
in difetto, l’azione per inadempimento comunitario causato dal potere
giurisdizionale di uno stato membro (sentenza della Corte di Giustizia
della Unione Europea del 30.09.2003). In musica non vi sono
conseguenze così gravi, anche perché spesso i centri di potere
accademico (i Conservatori), sono anche i meno sensibili all’opera di
ricerca scientifica e di aggiornamento culturale, che la pretesa di
autenticità nell’interpretazione giocoforza comporta. Al potere della
curiosità della scoperta, si contrappone sia la potenza della tradizione
e anche il proprio ruolo di docente, e quindi anche di esaminatore.
Non di meno al cuore delle varie metodiche dell’interpretazione, si
pone il problema della autenticità: autenticità che parte dalla ricerca
del testo da interpretare, e finisce nel giudizio di autenticità della
interpretazione di quel testo, sia dal vivo che riprodotta. Anche in
questo caso vi è dunque una sorprendente analogia con una
problematica tipicamente giuridica della interpretazione; e cioè il
problema oggettivo della possibilità di una interpretazione autentica
(della legge, dell’atto amministrativo, della sentenza) e il problema
soggettivo della competenza a tale interpretazione, cioè di quale sia
l’autorità che sia investita di tale formidabile potere. Ma, al di là di
affermazioni di comodo e di cassetta, nessun serio musicista o
musicologo ritiene che si possa pervenire ad una interpretazione
autentica del brano musicale e soprattutto unica. Sotto questo profilo
si può notare la sottile distinzione ermeneutica che consente di
attingere esiti differenti per la musica e per il diritto. Infatti la musica,
disciplina dello spirito per eccellenza, non ha problemi di “governo” e
di “primato della politica”: e quindi pur conoscendola, non
sopravvaluta la categoria ed il criterio della legittimazione. Anzi
proprio perché è una manifestazione dello spirito e non della sola
materia, preferisce il criterio della giustizia a quello della
legittimazione. Preferisce cioè parlare di tempo giusto, di esecuzione
giusta; nel diritto soprattutto pubblico, è noto viceversa, che dallo
stesso concetto di sovranità discende quello di legittimazione, la quale
non fornisce le regole per giocare, ma si accontenta (e non sempre) di
verificare che le regole dettate dalla politica siano correttamente
applicate. Ecco perché ad esempio si può parlare di dittature con
metodi di legittimazione tipicamente democratici (referendum) ecc...
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
109
Vi è poi un’altra differenza sostanziale: come si metteva in evidenza
nelle premesse, la musica è un’arte che non scinde i tre centri
principali della persona: istintività, emotività, razionalità; mentre il
diritto, da sempre poggiato sul razionalismo e sulla sua esasperazione
(tale è a mio avviso il positivismo), finisce per creare una
dissociazione tra autorità e verità, tra forza e giustizia, tra regola ed
eccezione, e così via. Ecco perché, in ultima analisi, l’interpretazione
autentica serve solo per legittimare; non per ricercare e formulare
l’interpretazione effettivamente giusta ed equa.
10. Possibilità di applicare anche alla musica teorie postmoderne
quali l’analisi economica del diritto, il decostruzionismo, ecc…
Tuttavia anche l’arte musicale ha subito le conseguenze della fine
della teologia politica. Infatti, come per il diritto, tale fine ha comportato la perdita di autorevolezza delle teorie generali tradizionali (ed in
particolare la dottrina dello Stato, imperniata sul mito politico e giuridico della sovranità nazionale); così per la musica, essa ha comportato
la perdita di autorevolezza sia del compositore sia dell’interprete. È
noto infatti che da quando Liszt creò attraverso il recital la forma stabile di “concerto professionale”, l’importanza del compositore fa gradatamente sostituita da quella dell’interprete; al punto che tuttora da
parte del pubblico non è infrequente sentire che si va ad ammirare un
interprete, non dei compositori. Tale vicenda è stata assai bene messa
in risalto da un notevole studioso di fatti economici Jacques Attali, già
consigliere del presidente Mitterand25. L’autore infatti la ricollega direttamente alle diverse prevalenti funzioni, che la musica ha svolto dal
punto di vista economico nei grandi periodi storici (rispettivamente di
celebrazione, dal medioevo al barocco; di rappresentazione durante
l’illuminismo e il romanticismo; di riproduzione durante l’età tecnologica, moderna e positivistica, e da ultimo di ripetizione nella attuale
società della comunicazione postindustriale). Orbene, questo vuoto di
autorità, questa nostalgia del sacro, ha finito per legittimare non solo i
più personali percorsi di interprete, ma addirittura fenomeni di esecuzione di massa; e da ultimo l’intreccio anche in musica tra mondo reale e mondo virtuale. Ecco perché è legittimo riflettere sulla possibilità
25
J. ATTALI, Essai sur l’économie politique de la musique, Paris 2000 (seconda edizione).
110
Eugenio Picozza
di applicare anche al mondo della musica categorie filosofiche postmoderne quale in primis l’analisi economica. Anche in questo caso gli
esiti della ricerca danno risultati sorprendenti. Se si utilizza un criterio
di analisi macroeconomica che tenga presente quanti più luoghi possibile in cui si suona, emerge che i valori tradizionali su cui si fondava
l’esecuzione classica professionale, vengono completamente sconvolti. Il valore di fondo infatti, proprio come per il diritto, non è quello
della legalità, legittimità, imparzialità, giustizia; bensì la massimizzazione del profitto sia per chi deve vivere mediante la musica, sia per
chi vuole fruirne. Tutti i metodi per raggiungere tale bilancio positivo
costi/ricavi sono considerati buoni: dalla utilizzazione della fotografia
dell’interprete in chiave erotica (nella musica c.d. extracolta ci si è peraltro già spinti fino alla vera e propria immagine o fiction pornografica); alla falsificazione della esecuzione, mediante un suo montaggio
che ora – attraverso il sistema di registrazione digitale – può essere
scomposto fino ad ogni singola nota; all’imbonimento pubblicitario;
alla vendita in dumping del prodotto; all’utilizzo chiaramente strumentale delle recensioni; alla denigrazione delle esecuzioni altrui ecc.
Per la verità appartiene alla agiografia musicale ritenere i musicisti
migliori degli altri esseri umani. A quanto pare Bach si metteva
d’accordo con amici organari per effettuare perizie fasulle o almeno
non veritiere sui nuovi organi, e questo non certo solo per amicizia disinteressata, ma le constatazioni sopra effettuate hanno il pregio di
non esonerare anche l’arte ed in particolare la musica dai problemi di
fondo della epistemologia. Dunque anche per la musica vale
l’avvertimento del grande filosofo italiano Benedetto Croce, secondo
cui il diritto o si riduce all’etica o all’economia! Tuttavia la musica
più che ridursi, sembra piuttosto piegarsi alle ragioni dell’economia,
attraverso molte modificazioni anche strutturali. La più divertente, che
in altri tempi avrebbe comportato il lancio di numerosi anatemi, è
l’impiego in concerto di organi elettronici: proprio nel periodo in cui
nella costruzione dei nuovi organi (quelli elettronici infatti sono ritenuti idonei solo a fini didattici) non solo non viene messa in discussione la metodica tradizionale di costruzione “a canne”; ma addirittura il rigoroso rispetto di sistemi di trasmissione meccanica e la scelta
di registri che siano fedeli rispetto al repertorio che si intende eseguire
più frequentemente.
Altre concessioni all’economia, sono la gestione politica delle
occasioni musicali, la sovvenzione a pioggia dei contributi, la
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
111
standardizzazione dei diplomi e la moltiplicazione dei centri per il
loro rilascio; l’equiparazione dei Conservatori alle Università (come
non pensare al tre più due) ecc. Accanto al trionfare dell’analisi
economica, anche la musica conosce l’impatto delle c.d. teorie
decostruzionistiche che spesso finiscono per annullare qualsiasi valore
finalistico dell’interpretazione, in favore di esiti puramente
soggettivistici o addirittura nichilisti. In tale contesto l’interrogativo
più preoccupante è posto proprio mediante l’applicazione della
categoria della analisi economica; ed è la fine della distinzione tra
professionisti ed amatori o se si vuole musicisti dilettanti. Sotto questo
profilo l’impatto è ancora più forte di quello che potrebbe avere la
regolazione del commercio internazionale ed in particolare le regole
comunitarie sulla riserva delle c.d. professioni intellettuali, perché i
mezzi di riproduzione di massa e gli stessi strumenti elettronici
consentono in pratica a chiunque sia interessato, di diventare
musicista operativo. È ancora notevolmente più difficile, e in molti
casi vietato dalla legge, difendersi senza essere avvocati; giudicare
senza essere giudici; e comunque fare una attendibile dichiarazione
dei redditi senza ausilio di un buon ragioniere o dottore
commercialista; come presentare una domanda di condono edilizio
senza l’ausilio del geometra. Anche sotto questo profilo una domanda
apparentemente così profonda e filosofica, può ricevere una risposta
affidabile, basata su semplici ed empiriche considerazioni
economiche, le seguenti:
– da un lato il mercato dei musicisti professionisti è troppo vasto,
poco qualificato, provinciale, non interconnesso con quello
internazionale, e per ultimo molto incline alla politicizzazione; inoltre
lo Stato e gli Enti locali, salvo felici eccezioni, non hanno sviluppato
una politica economica culturale, volta a formare un ampio bacino di
utenti e circuiti di scambio (solo con la riforma Moratti pare che vi
saranno centri di educazione e di informazione musicale intermedia
tra scuola e Conservatori di Musica; peraltro allo stato attuale
risultano autorizzati solo pochi licei ad indirizzo musicale);
– dall’altro il pubblico di potenziali utenti cresce in modo
esponenziale, dal momento che i giovani sono estremamente sensibili
al fenomeno musicale e che l’utilizzazione in chiave economica del
tempo libero costituisce una delle scelte politiche fondamentali delle
società occidentali del XXI secolo. Anche se i centri di potere delle
aziende multinazionali della musica leggera sono stati molto più
112
Eugenio Picozza
veloci nel comprendere, assecondare ed in larga misura anche
plasmare i gusti musicali del pubblico, interessanti esperienze di
politica economica culturale di massa nel settore della musica sono
rinvenibili in altri paesi membri dell’Unione Europea come la Francia.
In secondo luogo neanche la musica classica è stata immune dalle
dottrine decostruzionistiche, propense a finire nel nichilismo.
Chiunque abbia pratica anche minima della composizione e dei
compositori contemporanei può comprendere agevolmente il senso
delle mie parole. E quindi le certezze delle regole compositive ed
interpretative di un tempo; quel poderoso edificio fondato su un giusto
contrappeso tra tradizione e innovazione (nella biblioteca di Bach si
trovavano composizioni di Josquin Des Prez, Palestrina, Frescobaldi,
Vivaldi e numerosi altri), ha lasciato lo spazio ad analisi distruttive del
senso di ogni regola e di ogni tradizione, anche appoggiata alla
autorevolezza di massimi maestri; per cui ci si deve rifugiare nel
minimalismo, nel riduzionismo o in un’abile falsificazione della
musica leggera tout court. Ma il problema più impellente, che rivela
l’ultimo trait-d’union in questa riflessione congiunta sui problemi
della interpretazione tra musica e diritto, è costituito dall’impatto del
mondo virtuale, informatico ed elettronico. Qui gli scenari sono così
sconvolgenti da mettere in forse la pratica utilizzabilità delle stesse
categorie interpretative tradizionali. Infatti seguendo le affermazioni
di alcuni sociologi del diritto incentrate sulla problematica
dell’impatto della globalizzazione sul diritto, anche nella musica la
virtualità è destinata a rompere, trasformare le regole esistenti e a
crearne di nuove profondamente diverse. In primo luogo non sussiste
più un autore, ovvero anche un interprete reale. Già ora con gli
elaborati software a disposizione per poche centinaia di euro –
possedendo un sistema “midi” e mezzi sintetizzati di riproduzione
della musica – è possibile determinare autonomi criteri di esecuzione
ad esempio di una sinfonia di Beethoven senza alcuna abilità manuale
o direttoriale di esecutore, purché si sappia leggere il linguaggio delle
note. Ma i più recenti studi mettono in luce addirittura la possibilità di
creare sinergie tra strumenti tradizionali acustici e riproduzioni
elettroniche (ad esempio un arco virtuale di violinista per suonare uno
Stradivari). Ritorna anche qui il mito della chimera. Attali riferisce poi
di un sito internet in cui emulando il mitico Jimy Hendrix è possibile
salire su un palcoscenico virtuale ed esibirsi ottenendo applausi ed
apprezzamenti da un pubblico altrettanto virtuale, sia finto che vero,
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
113
ma collegato solo on-line all’esecutore. Sono già disponibili
collegamenti on-line per spostarsi virtualmente (ma sempre a
pagamento perché la moneta costituisce la vera invariante delle
trasformazioni della società, della religione, della politica e
naturalmente del diritto) da un teatro d’opera ad un altro; e magari
seguire in contemporanea, dividendo in due il maxischermo di un
televisore digitale multimediale al plasma o a cristalli liquidi, due
Carmen di Bizet on-line magari una al Metropolitan di New York e
l’altra all’Opera di Tokyo.
Anche per quanto riguarda la pratica strumentale, le innovazioni
spesso confinano con le falsificazioni. Mentre i primi modelli di
tastiera elettronica contenevano solo accordi preconfezionati suonabili
con un solo dito della mano sinistra, ormai attraverso i floppy-disk e i
loro discendenti è possibile suonare intere colonne sonore senza
alcuna fatica, impegnandosi con la sola mano destra (o con tutte e due
le mani) nella lettura digitale della sola melodia, che scorre sul display
della tastiera, opportunamente e sincronicamente regolata con la base
orchestrale.
Peraltro non è vero, e comunque non è dimostrato che questa
nuova prassi uccida il modo normale e reale di fare musica classica.
Anzi, proprio applicando i criteri dell’analisi economica del diritto, vi
potrebbe essere una espansione della pratica musicale, anche se è
ragionevole sostenere che la quantità andrà frequentemente a scapito
della qualità.
11. L’impatto delle discipline cognitive (neuroscienze) sulla
musica e le principali conseguenze sulla teoria della
interpretazione (musicale)
Come già riferivo succintamente nelle premesse, l’impatto del
complesso di discipline cognitive normalmente denominate
neuroscienze è stato tale da non aver risparmiato alcuna disciplina
tradizionale sia di interesse naturalistico che sociale. Sono stati così
pubblicati ponderosi volumi sulla filosofia, la politica, l’economia, la
sociologia, il diritto, filtrati attraverso lo studio del funzionamento dei
meccanismi del cervello.
Per quanto riguarda la musica l’impatto è ancora più globale in
quanto il suo ascolto attiva non solo determinate aree celebrali,
114
Eugenio Picozza
specializzate nella analisi di fenomeni come il linguaggio, ma l’intero
cervello, anzi i cervelli se così si può dire, che l’essere umano ha
ereditato dalla evoluzione dai primati secondo la nota teoria
darwiniana. Non è questa la sede, né ci sarebbe il tempo per illustrare
anche in modo sintetico l’influsso globale che la musica esercita sul
cervello e su tutto il corpo, analizzato dal punto di vista neuro
scientifico. Basti pensare al successo che stanno avendo in tutto il
mondo le discipline musicoterapiche, accettate comunemente anche
nella scienza medica ufficiale. In questa sede l’analisi deve
necessariamente concentrarsi sulle conseguenze che tale impatto può
avere sulla categoria della interpretazione musicale.
Un primo postulato che per il vero era già stato introdotto, per
quanto riguarda l’arte della narrativa da un filosofo della
interpretazione (anzi della semiologia per essere preciso) Umberto
Eco con lo splendido saggio “Lector in fabula”, con la tesi secondo
cui il lettore completa con la propria riflessione il senso del romanzo o
altro genere letterario. Questo postulato viene ripreso dalle discipline
cognitive nel senso che l’interpretazione di un brano esiste “solo” nel
cervello di chi lo ascolta.
Il complesso sistema auditivo che trasmette segnali al cervello
consente al medesimo di elaborare un proprio sistema di
riconoscimento dei suoni, che secondo un eminente neuro scienziato,
Michael Gazzaniga, viene poi ulteriormente elaborato e unificato da
un’area specifica del’emi cervello di sinistra non a caso da egli
denominato “l’interprete” (cfr. M. GAZZANIGA, L’interprete, trad. it.,
Roma 2007). In linea di principio tale processo di codificazione,
riconoscimento, elaborazione a assegnazione di significato ai “suoni”
non varia se l’ascolto della musica è fatto dal vivo o attraverso i
sistemi di riproduzione del suono. Peraltro (ed è la magia dello
spettacolo dal vivo) l’ascolto dal vivo, se l’esecutore ha notevoli
capacità “empatiche” con il pubblico, comporta un più vivo
coinvolgimento emozionale come ricordano i più anziani di noi che
hanno avuto il raro privilegio di assistere ai recitals di artisti quali
Rubinstein, Oistrach, Karl Richter, Giulini, Rostropovich, Ghilels per
citarne solo alcuni, quasi a caso, dal disordinato archivio della
memoria.
Il potere della musica (un vero fascino secondo l’etimo originario
del termine) si riverbera quale “ineffabile” (Jankélévitch) sull’intero
cervello, ma principalmente sulle aree ed organismi quali l’amigdala
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
115
deputati al riconoscimento e alla elaborazione delle emozioni, positive
e negative (gioia, dolore, allegria, tristezza; conforto,disperazione;
serenità, ansia; spiritualità,sensualità ecc.) secondo una tavola di
sensazioni, percezioni ed impressioni che per uno dei paradossi fu
elaborata da uno dei filosofi “razionalisti” Cartesio, finiti sul banco
degli imputati da parte delle neuroscienze (v. per tutti A. DAMASIO,
L’errore di Cartesio, trad.it., Milano 1996). Tuttavia queste
“emozioni” non sussistono allo stato puro, come si pensa agiscano
negli altri esseri animali, ma vengono “interpretate” dal complesso di
esperienze personali di vita che nel linguaggio neuro scientifico si
chiamano mappe cerebrali personali. Inoltre, secondo le più recenti
acquisizioni, queste mappe non sono stabili nel trascorrere
dell’esistenza di un singolo soggetto, sia perché, contrariamente a
quanto si riteneva fino agli anni ’60 dello scorso secolo, i neuroni
continuano a crescere anche in età avanzata; sia soprattutto perché le
connessioni tra i neuroni attraverso i filamenti denominati assoni (il
cui ruolo è principalmente quello di trasportare informazioni tra
neuroni) cambiano continuamente dando luogo a quel fenomeno che
in gergo comune è chiamato “plasticità cerebrale”.
In prima battuta ne deriva una conclusione provvisoria: nel
fenomeno musicale gli interpreti sono due: chi suona e chi ascolta:
non necessariamente il messaggio trasmesso dall’interprete attivo
viene filtrato “oggettivamente” dall’altro interprete attivo,
l’ascoltatore. Al contrario, esso viene del tutto rimodulato dal cervello
dell’ascoltatore e questo spiega l’innocente e sintetica espressione che
alla fine di ogni concerto sentiamo da parte soprattutto degli spettatori
che non hanno familiarità con il linguaggio specialistico della musica
classica, e cioè “questo brano mi è piaciuto o meno”; ovvero “questo
interprete mi ha coinvolto”, oppure “mi ha lasciato freddo” ecc… In
termini più propriamente giuridici, le scoperte della neuro musica
mettono in crisi un metodo “legale” di approccio alla musica a favore
dell’unico metodo che viene ritenuto effettivo quello esperienziale
(come non ricordare l’esperienza giuridica di Capograssi?). Insomma
in termini più spiccatamente filosofici l’approccio è di tipo
fenomenologico come appare ben descritto nel recente saggio di un
eminente neuro scienziato Vittorio Gallese apparso nel secondo
volume “norme e idee” della Enciclopedia del XXI secolo
recentemente pubblicata dall’Istituto della Enciclopedia. Queste
scoperte possono comportare la fine della interpretazione musicale,
116
Eugenio Picozza
come pure di quella giuridica? Personalmente non lo credo, ma vanno
compiuti alcuni “adattamenti” che del resto riguardano attualmente
quasi tutti i settori della espressione umana. Occorre partire dalla
differenza tra il concetto di informazione e quello di formazione.
Come è noto l’informazione è di per sé neutrale: si produce un segnale
visivo, auditivo, combinato e il recettore lo elabora e lo codifica
attribuendogli il senso che la propria esperienza gli comunica.
Purtroppo l’esperienza sociale dimostra che il messaggio non parte in
modo neutrale, ma intenzionale: basti pensare il sostegno che i mass
media offrono in tutto il mondo alle più svariate forme di
manipolazione politica; ovvero all’abilità persuasiva dei conduttori di
talk-show26. Nella musica come negli altri settori si pone innanzitutto
il problema della “etica della interpretazione” da parte del
trasmettitore, quel soggetto che tradizionalmente viene chiamato
esecutore o più raramente interprete. A mio personale giudizio, esso è
veramente interprete nella misura in cui dimostra la capacità di
trasmettere un proprio stile, una propria capacità di imprimere nella
musica eseguita l’impronta complessiva della sua personalità. Quindi
non solo capacità di trasmettere informazioni, ma di “formare” in
qualche modo il gusto del pubblico. In questo giustamente un tale
personaggio veniva e viene tuttora definito un Maestro. È così anche
nella famiglia, nella scuola, nella università e nei luoghi principali di
assorbimento della cultura. Purtroppo il cedimento della attività
musicale alle esigenze della economia e della comunicazione sociale,
tende sempre di più a trasformare il “concerto”(da “concentus”) in
evento, nel quale si ripete la triste epifania del rapporto tra produttore
e consumatore che ha contrassegnato il passaggio dall’Ancien Regime
alla rivoluzione industriale e che sussiste anche nell’epoca
postmoderna in attesa del trionfo del tempo della conoscenza.
In secondo luogo occorre, a mio personale avviso, un po’ ridurre il
ruolo dell’interprete-esecutore, perché l’ascolto della musica in uno
scanner appositamente predisposto dimostra che il vero interprete è
l’ascoltatore; questa circostanza rende giustizia al vero “mago” della
interpretazione, cioè il compositore che mette in modo il processo
demiurgico che ci consente di piangere sentendo la Serenata di
Schubert o di percepire l’incrollabilità della fede nel Corale “Eine
feste Burg ist unser Gott” di J.S.Bach, o i valori morali trasmessi dalla
26
Vedi per tutti D. WESTEN, La mente politica, Milano 2006.
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
117
musica di Beethoven, le sottile indagini psicoanalitiche delle opere
liriche di Mozart, ecc. Occorre ristabilire dunque la verità storica nel
rapporto triangolare compositore-esecutore-ascoltatore. L’esecutore è
un medium come già aveva intuito il grande Emilio Betti, è secondo la
corrente filosofica allora in voga, uno spirito che mette in
collegamento altri due spiriti, uno appartenente ad un passato magari
molto lontano, ed un altro che vive nel presente.
In questo la musica rasenta il mistero dell’eternità molto più di
altre discipline artistiche perché opera un collegamento intertemporale
che anche se è necessariamente virtuale, ha il sapore del senza tempo.
In sintesi dunque l’apporto neuro scientifico non smentisce le regole
interpretative tradizionali che accumunano musica e diritto intesi
come “linguaggi”, ma avverte che si tratta di interpretazioni parziali,
rispetto al fenomeno complessivo “fenomenologico” dell’ascolto
musicale; e che specificamente esiste un altro interprete in senso lato
“l’essere incarnato” dell’ascoltatore, e al suo interno, in un’area del
suo cervello, un interprete in senso stretto che si incarica di
reinventare in modo globale ma unitario, la somma di sensazioni,
sentimenti, percezioni proveniente dall’esterno. L’interpretazione
musicale, secondo la prospettiva neuro scientifica, dunque è in primo
luogo un processo complesso a corrispondenza triunivoca:
compositore-mediatore-ascoltatore;
ed
in
secondo
luogo
un’esperienza di empatia, fenomeno alla base di tutte le esperienze
sociali ed emozionali come ha dimostrato il gruppo parmense di
scienziati scopritori dei neuroni specchio, che sembrano deputati al
riconoscimento non solo dei segnali visivi, ma appunto anche di quelli
auditivi. È quindi commovente concludere questo passaggio nel segno
della solidarietà di specie che è anche alla base del fenomeno
musicale. Resta un mistero per il momento non svelato della naturalità
delle sette note della scala musicale, ritrovate anche in antichi reperti e
comuni a tutte le culture musicali anche se elaborate nei più svariati
modi, dando prevalenza di volta in volta alla melodia, all’armonia, al
contrappunto; ovvero ad una sapiente mescolanza di tutti questi
elementi come dimostra la musica di J.S. Bach.
118
Eugenio Picozza
12. Conclusioni. Fine o rimodulazione delle interpretazioni
(giuridica e musicale)?
Tanti diversi segnali, tutti indicanti la medesima direzione,
legittimano una nota di pessimismo. Se è vero che la musica ha
un’alta capacità profetica, ne dovremmo dedurre che essa indica,
attraverso le analogie applicabili con i problemi della interpretazione
del diritto, la fine della interpretazione stessa. Una analisi
spregiudicata e priva del cd. romanticismo politico, porterebbe in
effetti a condividere tale “interpretazione”. Per un cittadino che non è
più tale – cioè non è più soggetto i cui pilastri sono costituiti dalla
capacità di agire e dalla relativa responsabilità verso se stesso e la
comunità – ma è prevalentemente un “consumatore ed un utente” di
prodotti e di servizi formati, standardizzati ed in ultima analisi imposti
da altri soggetti dell’ordinamento giuridico, tale prospettiva non è così
futuribile. Le varie “compilations” di musica classica; il passaggio dal
metodo del LP e del CD a quello di IPOD ne sono una inconfutabile
testimonianza Infatti l’elemento strutturale minimo di ogni categoria
interpretativa, perfino di quella puramente letterale, è la capacità e
l’autonomia delle scelte. Perfino una interpretazione cosi
apparentemente lineare e pragmatica, quale l’interpretazione
grammaticale e sintattica in realtà postula una elevata capacità di
scelta (valore delle parole; valore delle punteggiature; cui corrisponde
in musica il valore delle note, ed il valore delle pause e degli altri
segni di articolazione). Orbene, quando tale operazione non è più
necessaria, perché le specifiche tecniche del prodotto, i modi della sua
diffusione, le regole di penetrazione nei singoli mercati sono
globalizzate, essa viene meno in radice. Dal punto di vista giuridico si
sostiene infatti che la globalizzazione comporterebbe una nuova
concezione del diritto, della giustizia e del ruolo dei suoi principali
operatori; in pratica il diritto non sarebbe più la scienza ed esperienza
del torto e della ragione, del buono e del cattivo, del valido e
dell’efficace. Ma il luogo e il mezzo in cui le regole si formano di
volta in volta sotto la spinta dell’affare concreto, della scelta
volontaria e bilaterale delle regole da applicare; il mediatore laico e
opportunista quindi si sostituirebbe al giudice togato e quindi sacro; la
regola elastica e pieghevole alla norma rigida e gerarchicamente
ordinata. La stessa giustizia verrebbe interpretata pragmaticamente
come massimizzazione del profitto, o massimizzazione della riduzione
Il problema della interpretazione tra musica e diritto
119
di danni nel caso concreto. È ovvio che in una tale cornice sistematica
o addirittura sistemica, le regole tradizionali della interpretazione non
avrebbero più cittadinanza e meno ancora senso pratico. Che senso
infatti avrebbe più il richiamo alla buona fede in un accordo
transazionale che mette insieme culture e regole giuridiche, scritte e
non scritte, profondamente diverse tra loro? Tuttavia proprio le
scoperte delle neuroscienze basate sulla “empatia” degli esseri umani
e su comuni processi di apprendimento regolati dalla evoluzione,
consentono viceversa una nota di speranza, se non proprio di
ottimismo. Tuttavia, anche per esse, come per tutte le scienze, si pone
il problema principale dell’etica e della sua soluzione dipende anche
quello della interpretazione, cioè il saper riconoscere, accettare e
condividere le ragioni e (aggiungo io) le sensazioni ed emozioni
dell’altro, come già mirabilmente si esprimeva Gadamer nel
fondamentale saggio Verità e Metodo editore Bompiani.
Ora, non sono in grado di conoscere e di mostrare quali riflessi può
avere sulla musica e sulla sua interpretazione questa palingesi, questa
mutazione genetica ed epocale che sta colpendo così radicalmente il
diritto e soprattutto il diritto di civil law, sia pubblico che privato. Ma
tutti questi segnali mi sanno di ritorno al medioevo e ad istituti poco
democratici, nel migliore dei casi l’obbligatoria appartenenza ad una
corporazione, nel peggiore nuove forme di schiavitù intellettuale,
emozionale ed istintiva. Infatti i mezzi di comunicazione
multimediale, sono in grado di combinare attraverso la
visualizzazione effetti non solo di tipo mentale, ma anche emozionale
e animale. Ed anche la musica segue fedelmente il ruolo che le è
assegnato, quale ispiratrice della violenza, del terrore, della
distruzione, non diversamente dai suoni delle tubae romane o dei lur
vichinghi. Tuttavia a parte la possibilità di miracoli o più
semplicemente di resipiscenze, il giurista non può non accettare la
realtà perché la sua fede e la sua vera etica è proprio quella di
descrivere il reale e non di falsificarlo, onde renderlo più
politicamente corretto e meno odioso.
Sotto questo profilo si può quindi sostenere “con ragionevole
fondamento” che se la comparazione tra le regole e le problematiche
interpretative della musica e del diritto, autorizza a parlare di “fine
della interpretazione” intesa a partire dal notevolissimi studi moderni
sulla esegesi biblica, come mediazione tra il linguaggio sacro e il
linguaggio profano, tra simboli della città di Dio e miserie della città
120
Eugenio Picozza
dell’uomo, d’altra parte la scoperta della empatia autorizza un nuovo
significato della interpretazione anche musicale che non distingue più
nettamente tra soggetto ed oggetto. È il volto bifronte della
problematica del diritto d’autore che appartiene all’autore ma fa parte
del patrimonio dell’umanità come ogni opera d’arte. Resta poi intatto
l’altro grande senso interpretativo: capire le ragioni dell’altro e
dunque ricercare l’unità nella diversità come recita il preambolo del
progetto di Costituzione Europea. Sotto questo profilo la storia della
musica occidentale è stata un enorme fattore di integrazione tra i
popoli, addirittura rendendo possibile l’importazione di strumenti, di
tecniche compositive, di stili non solo fra popoli appartenenti alla
cultura occidentale, ma anche rispetto al mondo islamico e orientale.
Ascoltare una sinfonia di Beethoven può rivelare il senso della libertà
e dignità umana più della lettura dei principi generali di una
Costituzione contemporanea o di una Carta dei Diritti; suonare un
Corale di Bach può convincere dell’esistenza di Dio più dello studio
della Summa Teologica. In ultima analisi, il problema più profondo
dell’interpretazione sia giuridica che musicale, è proprio il contrario
della sua funzione; rendere il senso del mistero che si nasconde dietro
ogni apparenza di realtà.
Assalti Frontali.
Giustizia e società nel rap italiano
GUIDO SARACENI
SOMMARIO: 1. “Il rap non è musica”. – 2. “Non esiste nessuna città in fiore fiorita”. – 3. Legittima difesa o disegno sovversivo? – 4. Un’intesa perfetta.
“L’idea venne lungo quella stazione fantasma che è Roma Nomentano.
Era come una distesa di sale.
Come il luogo della mente tra quello che non c’è più e quello che non c’è ancora. Bisognava
scavalcare un cancello chiuso, oltrepassare le linee dei binari e c’era scritto pericolo di morte.
Cosa state facendo?
Le inutili domande delle guardie ci sfioravano appena.
Come posso spiegarti cosa stiamo facendo?”
(MILITANT A., Storie di assalti frontali.
Conflitti che producono banditi, Roma 1997)
1. “Il rap non è musica”
Mi è capitato spesso di ascoltare una condanna categorica nei confronti della musica rap; di solito, questo giudizio proviene da persone
che avevano già compiuto diciotto anni da almeno diciotto anni nel
periodo in cui il movimento hip hop muoveva i primi passi in Italia. A
mio avviso, affermare che il rap non ha una dignità artistica o, peggio
ancora, che non si tratta di musica è tanto sensato quanto dire che il
sonetto non è vera poesia, o che il racconto non è vera letteratura. Il
rap è una modalità espressiva che rientra a pieno titolo all’interno del
più ampio genus “musica”. Si dirà che i brani rap presentano una linea
melodica ed una struttura armonica estremamente “povere” e ripetitive, se non, addirittura, assenti (paradigmatici, in tal senso, i dischi dei
Public Enemy); eppure, nessuno si sognerebbe di affermare che la
musica lirica non è vera musica perché “carente di ritmo”; così come
122
Guido Saraceni
nessuno si sognerebbe di affermare che la musica classica è meno musica del jazz perché non sfrutta le spericolate variazioni armoniche che
caratterizzano gli standards hard bop.
Armonia, ritmo e melodia sono tre elementi a disposizione del
compositore; non è necessario che siano utilizzati tutti e tre; non è necessario che il rapporto tra di essi sia equamente bilanciato: il canto
degli uccelli è musicale anche se non c’è nessuno ad accompagnare
quella melodia, è musicale il battito del cuore, anche se nessuno ne fa
uso per ricamare sopra di esso una linea di basso, è musicale qualsiasi
giro armonico eseguito alla chitarra, anche se nessuno ne sfrutta
l’accompagnamento per cantare.
Se esistono diffusi e radicati pregiudizi nei confronti del rap, molto
probabilmente, ciò dipende dal fatto che si tratta di una modalità
espressiva, a suo modo, democratica: il rap non conosce le barriere
economiche e culturali che impediscono alle classi meno abbienti di
fare musica; perché un pianoforte costa molto; ma costa sicuramente
meno di sei anni di lezioni private.
Eppure, esaminando la questione sotto altro e diverso punto di vista, io credo che i detrattori di questo stile musicale abbiano ragione:
Il rap non è musica, o meglio, non è solo musica. Il rap è, anche, denuncia, giornalismo, letteratura; è la voce di chi non ha voce. Se provassimo a disegnare una carta geografica delle band musicali che utilizzano questo stile espressivo – in gergo dette “posse” –, potremmo
fare il giro dell’intero globo, riassumendone i principali problemi, non
esiste gruppo sociale/etnico che non abbia adottato questa modalità
espressiva come strumento di propaganda rivoluzionaria: dai movimenti per i diritti civili in America del Nord, ai cittadini napoletani
impegnati contro la Camorra, ai Palestinesi della striscia di Gaza.
In Italia, il rap arrivò alla fine degli anni ’80, presentandosi al grande pubblico sotto le mentite ed innocue spoglie della musica “da ballare”. In quel periodo, la novità si diffuse soprattutto grazie a trasmissioni televisive come Dee Jay Television e Be Bop a Lula. Fu proprio
durante una puntata di Dee Jay Television che Lorenzo Cherubini, in
arte Jovanotti, presentò la sua prima canzone dal titolo “walkin”; ovviamente, si trattava di un brano in Inglese. A quei tempi, la più gran
parte dei discografici pensava che l’hip hop fosse refrattario al suono
ed alla grammatica italiana, eppure, nell’underground, lontano dai riflettori, qualcosa si stava già muovendo.
Assalti frontali. Giustizia e società nel rap italiano
123
Gli Assalti Frontali sono una delle tante posse che si formarono in
quel periodo, ho scelto di dedicare questo saggio alla loro musica, essenzialmente, per due ordini di ragioni. In primo luogo, perché dopo
venti anni di carriera, più di mille concerti, una decina di LP ed un libro all’attivo, gli Assalti rappresentano, senza alcuna ombra di dubbio,
il gruppo rap più longevo e fortunato che abbia mai pubblicato dischi
in Italia. In secondo luogo, perché le canzoni degli Assalti sono politicamente e socialmente impegnate ed a me sembra che tocchino alcuni
nodi teoretici di fondamentale importanza per la riflessione giusfilosofica.
2. “Non esiste nessuna città in fiore fiorita”
A scapito delle funeste previsioni sociologiche del secolo scorso,
negli ultimi anni le metropoli sono divenute vere e proprie “cittàmondo”, accreditandosi, ogni giorno di più, come i principali attori
politici sulla scena mondiale; purtroppo, le popolose città contemporanee difettano di spazi socialmente rilevanti; sembrano composte
prevalentemente da quartieri isomorfi, ricchi di nonluoghi, refrattari –
quando non addirittura ostili – al dialogo ed alla integrazione sociale1.
Osservando attentamente le città post-moderne, non possiamo non ricordare la descrizione che il giovane Engels fece della cupa periferia
di Manchester; domandandosi se la patente emarginazione degli operai dipendesse da un progetto politico concepito “a tavolino” dai borghesi che governavano la città, o non fosse, al contrario, un prodotto
naturale, e per dir così spontaneo della libera interazione tra flussi di
cittadini. Per questo motivo, il degrado degli spazi periferici sembra
rappresentare un fil rouge che, attraversando i secoli, lega le nostre città ipertecnologiche e post-industriali alle loro progenitrici ottocentesche: potremmo affermare che la desolante condizione sociale metropolitana è un ulteriore aspetto della modernità ancora ben vivo e presente nella cosiddetta “epoca del post”.
Con una certa precisione, i brani degli Assalti Frontali illustrano la
situazione appena descritta, facendo spesso riferimento al quartiere
romano di Centocelle, considerato dal gruppo alla stregua di un “quar1
Sul punto, mi permetto di rimandare al mio Luoghi della giustizia. Riflessioni di geofilosofia per il diritto, Napoli 2008.
124
Guido Saraceni
tier generale”2. Le liriche che questa posse dedica alla periferia sud est
della Capitale risultano parecchio significative, sia dal punto di vista
contenutistico che dal punto stilistico. Per quanto attiene ai contenuti,
il modo in cui viene raccontata la vita di borgata ci consente di comprendere con quali occhi i giovani dei centri sociali guardino alla città,
metafora della società nel suo complesso: se il mondo è, essenzialmente, il luogo dove si realizza lo sfruttamento di molti deboli da parte di pochi potenti, la periferia urbana non fa che amplificare e rendere
più chiara questa dialettica, rappresentando l’ambito elettivo delle
contraddizioni, lo scenario dove le più drammatiche sperequazioni sociali deflagrano con tutta la loro urticante evidenza.
Per quanto attiene allo stile, la descrizione di Centocelle risulta
esemplificativa della brevitas che caratterizza le migliori liriche rap:
gli Assalti Frontali definiscono l’essenza del quartiere utilizzando la
felice diade “banche e bancarelle”3; ed ancora, in un altro brano, “banche e bmw, call center e tattoo”4. Da un lato, i call center, simbolo del
precariato, emblema del più bieco sfruttamento capitalistico del lavoro
flessibile; le bancarelle, metafora di una periferia ancora troppo povera e “rionale” per abbandonarsi completamente al lusso dei centri
commerciali; i tatuaggi, immagine di una cultura tribale e giovanile
che rifiuta ogni tipo di assimilazione; dall’altro, le banche e le bmw,
simbolo di un potere economico lobbistico e mafioso.
Ancora, la periferia si compone di “abitati sterminati” che pullulano di “famiglie strette in quaranta metri quadri”5; “tram che tardano” e
diventano “carri bestiame”; “primitivi abitanti della piazza che ti ammazzano nel traffico per una precedenza”; inconsapevoli gruppi di
teen-ager che, “giocano alla mafia per vantarsi col vicino”; compagni
di lotta politica – perché “queste borgate sono anche zone partigiane”6
– ed estremisti di destra, epigoni dei ragazzi che “uccisero Valerio”,
segnando la vocazione politica del leader degli Assalti Frontali e spronando una intera generazione al confronto violento7.
2
“Prenestino centocelle/è la mia base”, Si può fare così, Mi sa che stanotte, 2006.
Profondo rosso, Profondo Rosso, 2011.
4
Che ora è, Un’Intesa Perfetta, 2008.
5
In periferia, HSL, 2004.
6
Che ora è, cit.
7
“Con la musica/la lotta politica/sempre più serio dopo che i fascisti ammazzano Valerio”, Ribelli a vita, Mi sa che stanotte, 2006.
3
Assalti frontali. Giustizia e società nel rap italiano
125
Purtroppo, un simile contesto di degrado e conflitto miete molte
vittime, soprattutto tra i giovani; tanto più lo scenario quotidiano è
grigio e desolante, tanto più questi “figli di metropoli franate”8 provano ad evadere, cercando rifugio nei paradisi artificiali dischiusi dalle
sostanze stupefacenti. In tal modo, la periferia si trasforma nell’ambito
elettivo dello spaccio e del consumo di droga9. Sul punto, il giudizio
degli Assalti Frontali si articola attraverso fasi successive; in un primo
periodo, la condanna nei confronti di ogni tipo di sostanza stupefacente è categorica: la droga rappresenta un male assoluto, è peste, da fuggire e combattere, non tanto perché sia, in sé nociva; non tanto perché
conduca, lentamente ed inesorabilmente alla morte, quanto perché essa intralcia la lotta politica, impedendo pensieri cristallini ed azioni
corrette10. In un secondo momento, il rifiuto delle sostanze stupefacenti, pur permanendo netto e definitivo, assume un tono caldo e partecipato. Nell’arco di tempo che separa Conflitto da Banditi è accaduto qualcosa, è come se Militant A fosse passato dall’atteggiamento del
censore integerrimo – troppo impegnato nella lotta politica a vantaggio della società per non condannare la debolezza egoistica di chi cerca di “salire in verticale come un Dio/con il suo ascensore personale”11 – ad essere un sopravvissuto che ha fatto i conti con le proprie
debolezze, abusando delle sostanze psicotropiche sino a mettere a repentaglio la propria stessa vita12.
Quel che è certo, è che per riuscire a resistere – evitando di intraprendere un viaggio senza ritorno – i giovani che vivono in periferia
hanno bisogno di cultura, integrazione e partecipazione; tutto ciò, a
sua volta, non può prescindere dalla istituzione di uno spazio deputato
all’incontro, un luogo accogliente che consenta di incrociare gli
sguardi per mettere in comune la coscienza, facendo mente locale.
All’uopo, possono tornare utili le ville comunali – sopratutto la notte,
8
Viaggiatore, Banditi, 1999.
“La strada è malata/l’ultima dose di droga è finita/e non esiste nessuna città in fiore fiorita”, Verso la grande mareggiata, Conflitto, 1996.
10
In particolare, questa condanna si evince dalla lettura del libro “Conflitto”. “Non mi pare il caso di passare la vita assetati/sotto il potere dei falliti”, Devo avere una casa per andare
in giro per il mondo, Conflitto, 1996. “Avanti, su, rispondimi mi dici, quanto paghiamo al
giorno per essere felici?”, Verso la grande mareggiata, Conflitto, 1996.
11
Viaggiatore, cit.
12
Stressavo il mio cervello per uscire dalla notte/ma fossi arrivato poi da qualche parte/quattro anni di pasticche/quattro in una botta indecente/volevo andare dove non c’è niente/lì tutto succede ma nulla può accadere (...) combattevo debolezze/ma tornavano più grandi
di prima”, Notte e nebbia, Banditi, 1999.
9
126
Guido Saraceni
quando basta scavalcare un cancello per trasformare una misera panchina in “un vascello che cammina”13 – i capannoni industriali abbandonati, le ex concessionarie14, e, più in generale, tutti quegli spazi
“maltrattati” che, una volta occupati, possono essere “riqualificati” e
trasformati in punti di incontro15. La conquista di un luogo non ha nulla a che fare con la ricerca della tana dove rinchiudersi per evitare un
confronto con il mondo esterno, tutt’altro, si tratta di costruire un porto dal quale salpare nella consapevolezza che dobbiamo necessariamente avere una casa “per andare in giro per il mondo”16. Tuttavia,
questo spazio vitale costa, ed il prezzo da pagare è parecchio elevato.
3. Legittima difesa o disegno sovversivo?
“Col falso terrore del sacro borseggio
quando è un sistema intero
che si fonda sul saccheggio”
(Assalti Frontali, In Periferia, HSL)
La società non è un luogo edenico, non è il contesto pacifico dove
soggetti eterogenei, lasciati liberi di agire, trovano magicamente il posto che spetta loro, combaciando alla perfezione gli uni con gli altri
come pezzi di un immenso puzzle; non c’è nessuna mano invisibile
che opera nell’ombra, distribuendo diritti e doveri; dispensando pene e
benefici; allocando le risorse nel modo più conveniente per il singolo
e per la comunità. In sé considerata, la società è il luogo di elezione
dello scontro; se ponderiamo la questione sotto un particolare punto di
vista, possiamo anche affermare che è un bene che sia così, perché essa può sperare di rimanere democratica, viva e feconda, solo attraverso una contrapposizione esplicita e decisa tra diverse fazioni. In linea
di principio, il confronto dovrebbe avvenire secondo le modalità e le
forme proprie del dialogo culturale per questo motivo, le liriche degli
Assalti Frontali – operando molteplici richiami alla tolleranza – risultano permeate da un notevole afflato ecumenico del quale mi occuperò
13
C’est la Banlieu, Un’Intesa Perfetta, 2008.
“Ho nove vite/ho una banda planetaria/con rom romeni siamo dentro un ex concessionaria”, Roma meticcia, Profondo Rosso, 2011.
15
“Ogni spazio maltrattato funziona molto meglio come spazio occupato”, I miei amici
sono strani, Mi Sa Che Stanotte, 2006.
16
Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, Conflitto, 1996.
14
Assalti frontali. Giustizia e società nel rap italiano
127
più diffusamente nel prossimo paragrafo; tuttavia, le “belle penne”
non bastano, è necessario che le parole siano supportate da azioni concrete17.
Ciò è tanto vero quanto più si consideri che la “classe operaia” è
letteralmente costretta ad usare violenza, non tanto per sovvertire i
rapporti di forza, stabilendo finalmente la dittatura del proletariato sulle altre classi, ma per sopravvivere, per difendersi dalle continue e ripetute aggressioni a cui è assoggettata, lottando contro i fascisti, contro i capitalisti e, in maniera molto più frequente e stringente, contro le
forze dell’ordine, considerate alla stregua del braccio armato di cui si
servono i poteri forti per imporre un sistema di valori borghese e soggiogare le masse.
In tal senso, risulta paradigmatico il brano Rotta Indipendente –
dedicato al G8 di Genova ed al ricordo di Carlo Giuliani: se gli “elicotteri battono il cielo” ed i “motoscafi il mare”; se i “ministri infilano
mimetiche per comandare”; se le forze dell’ordine “attaccano col gas
mischiato col cianuro”18; insomma, se “la Palestina è a Genova e Genova è in Argentina”; allora il confronto tra opposte fazioni non può
avere altro destino che lo scontro. Certo, la non violenza viene presa
in considerazione, ma subito scartata alla stregua di una opzione per
“anime belle”, una strada non più seriamente praticabile (“parlare di
non violenza a questo punto è inutile nella mia esperienza”). Allo stesso modo, nel brano Giù le lame viene evidenziato come il ricorso alla
violenza rappresenti la estrema ratio da utilizzare per “mettere in salvo la vita” quando i fascisti decidono di alzare il livello del conflitto,
accoltellando i giovani dei centri sociali in maniera apparentemente
casuale e tuttavia sistematic19. Peraltro, questa chiamata alle armi non
trova giustificazione solo nell’egoistico istinto di sopravvivenza di un
ceto sociale che si sente accerchiato, ma si radica anche e soprattutto
in motivazioni di carattere umanitario, perché “non c’è solidarietà
senza rivolta”20.
17
“Premiamo sul portone in mezzo alle transenne/ci vogliono i bei gesti oltre che le belle
penne”, Cattivi maestri, Profondo Rosso, 2011.
18
Rotta indipendente, HSL, 2004.
19
“Qualcuno è uscito nella strada col coltello in tasca/senza cultura per la strada cosa vuoi
che nasca? (…) non mi piace niente de ’sti tipi/una generazione di fascisti cresciuti impuniti
(…) noi vogliamo altro/ma quelli hanno il veleno/le asce di guerra/le dissotterreremo”, Giù le
lame, Un’intesa perfetta, 2008.
20
Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, Conflitto, 1996.
128
Guido Saraceni
Tuttavia, il confine che separa la legittima difesa da quella “carica
omicida”21 di cui si parla in un brano del 1998 risulta labile, e di difficile determinazione. La questione diviene estremamente problematica
in tutti quei casi in cui le liriche degli Assalti Frontali operano esplicito riferimento alle armi: il possesso di una pistola viene giustificato in
una prospettiva difensiva – perché custodire “il pezzo” in tasca permette a tutti, anche ad una “dolce compagna”, di “uscire di notte” senza avere paura di subire violenza22 –, ma possiede anche una finalità
diversa, più simile alla vera e propria lotta di conquista, perché la pistola consente di mettere sotto scacco quel particolare ordine sociale
che nasce e si alimenta grazie ad una messe di sperequazioni. Assodato che “questo non è il mondo dei pari”23; considerato che “il modello
di imprenditore è il rapinatore”24; in un contesto in cui pochi “signori”
vantano “stipendi di venti milioni al mese”, mentre milioni di persone
oneste sono costrette a vivere alla giornata, “per le bollette e per immaginare un futuro”25; la pistola si trasforma nel perno su cui far ruotare il conflitto, ottenendo, finalmente, dignità e rispetto.
Detto in altre parole, le “canne mozze” rappresenterebbero il principale strumento della guerra di liberazione che, un bel giorno, investirà i rapporti di forza come una “grande mareggiata”26, sovvertendo la
dittatura del capitale e ridistribuendo la ricchezza in maniera più equa
tra le classi meno abbienti. Inoltre, le armi hanno una funzione simbolica forse ancor più importante di quella meramente pragmatica, esse
servono per ottenere attenzione e rispetto, gridando ad un mondo indifferente o rassegnato che gli sfruttati esistono e reagiscono; pur essendo apparentemente privi di difese, non hanno alcuna intenzione di
chinare il capo di fronte al proprio destino di vittime27.
21
“Quello che è follia impazzita per te/è la mia storia preferita/la mia carica omicida”, Il
tempo dell’attesa, Banditi, 1999.
22
“Dolce compagna/come ogni donna cresciuta/imparando in fretta a stare sempre
attenta/amo pensarti camminare al buoi sola/a testa alta per le vie di Roma/ma non sarà così la
storia/in giro per l'Italia un altro stupro a sera/e sarà tua la colpa pure/è vero/non dovevi uscire
sola per la strada senza una pistola in tasca da ficcargli in gola”, Conflitto, 1996.
23
Notte e fuoco, Banditi, 1999.
24
Ibidem.
25
Ibidem.
26
“Sto aspettando l’onda/navigando nell'asfalto (…) sì mi sono perso nel trip/ma se per
caso il giorno della grande mareggiata io sarò qui, sull’asfalto io farò surf”, Verso la grande
mareggiata, Conflitto, 1996.
27
“Davanti alle vetrine dell’impero/canne mozze in mano e ti prendono sul serio” Banditi,
Banditi, 1999.
Assalti frontali. Giustizia e società nel rap italiano
129
In linea di principio, i conflitti non dovrebbero essere risolti né con
i coltelli, né, tantomeno, con le bombe; chi si affida a questi mezzi è
un “animale” e non è degno di alcun rispetto. La rivoluzione è, prima
di tutto, una battaglia personale, una guerra che ciascuno combatte
contro se stesso28. Eppure, la violenza viene considerata l’unica alternativa possibile per chi vive in un sistema di politica economica che
tende ad emarginare ed a schiacciare chi non si difende. Se l’intera società è incardinata sulla dialettica che contrappone il capitale alla forza
lavoro non risulta necessaria una formale dichiarazione di guerra perché qualcuno si senta chiamato alle armi29; così come non c’è bisogno
di un popolo invasore che impartisce ordini in una lingua straniera per
sentirsi votati alla resistenza30. L’unica alternativa possibile ad una società necessariamente violenta – perché borghese – è rappresentata
dalla fondazione di una comunità ecumenica, in grado di accogliere ed
aiutare in maniera indiscriminata i diseredati di ogni razza e religione.
Questo gruppo sociale aperto non è serve solo come luogo d’asilo che
consente comunicazione e ristoro, ma costituisce anche la chiave di
volta di una rivoluzione possibile.
4. Un’intesa perfetta
“Comunità le formiamo/diamo ossigeno all’aria/barricate le alziamo/e respiriamo nell’aria incendiaria/mentre i mezzi militari vanno a palla sui viali,
addosso alle persone/ma siamo persone speciali”
(Rotta indipendente, HSL)
La comunità è tema fondamentale e ricorrente nelle liriche degli
Assalti Frontali, ad essa viene riconosciuto il valore di una necessità
primaria, vitale, perché solo grazie al reciproco riconoscimento possiamo “dare ossigeno all’aria” e respirare “nell’aria incendiaria”: ciò è
vero sia in senso letterale, dato che nessuno può opporsi uti singulus
alle cariche lacrimogene delle forze dell’ordine, sia in senso figurato,
28
“Lotto con me per primo/ogni uomo ha un motivo per alzarsi al mattino e mettersi in
cammino”, Banditi, Banditi, 1999.
29
“Sono figlio del sogno del comunismo/non posso vivere in pace mi dici”, Conflitto,
Conflitto, 1996.
30
“Anni difficili davanti/per tutti i figli di Di Nanni/sono un partigiano e sarò chiaro/perché ci si abitua a tutto anche ai fascisti/assassini in sottofondo doppiopetto in primo piano”, Fascisti in doppipetto, Conflitto, 1996.
130
Guido Saraceni
perché l’appartenenza comunitaria consente ad un individuo di crescere e maturare, divenendo, effettivamente, una persona.
Vivere all’interno di una comunità significa quindi abbandonare la
propria esistenza egoisticamente in-dividuale, optando per la completa
con-divisione di beni ed esperienze, perché il privato è pubblico ed il
pubblico è fatto di partecipazione. Se capissimo l’importanza del vincolo comunitario “potremmo essere più ricchi tutti”, questo sogno fantastico “prende espressione quando i ribelli entrano in comunicazione”, eppure, per provare a realizzare una simile utopia dobbiamo prima di tutto essere disposti a perdere qualcosa31, perché solo l’etica
della gratuità e del dono è in grado di mettere sotto scacco le logiche
borghesi, improntate all’egoismo ed al darwinismo sociale.
Come diretta conseguenza, gli Assalti Frontali caldeggiano la completa e totale integrazione degli stranieri, reclamando una accoglienza
indiscriminata per i viaggiatori ed i diseredati di qualsiasi razza ed
estrazione sociale. Sotto questo particolare punto di vista, il brano dedicato a Lampedusa risulta parecchio esemplificativo: migrare non è
di certo un reato, ma un vero e proprio diritto naturale – dato che
l’attitudine al viaggio è stata ben distribuita da Madre Natura tra tutte
le specie animali. Se è vero che “la dignità è in cammino ed oggi viene dal mare”32, allora “la porta dell’Europa” non può essere sbattuta in
faccia alle “carrette” che provano a raggiungere le coste del nostro
Paese. Tanto più che i poemi epici dell’età classica, parte fondamentale di quella matrice culturale che ha costruito l’occidente, ci ricordano
che l’accoglienza è, per noi, un valore antropologico costitutivo al
quale non possiamo rinunciare se non ad un prezzo altissimo33.
Eppure, gli Assalti Frontali non si limitano a richiedere asilo per gli
immigrati, la loro visione pancomunitaria include anche gli stranieri
“interni” al confine, come, ad esempio le comunità rom; questi ultimi
vengono descritti con estrema e poetica enfasi, forse perché i valori ai
quali ispirano la propria esistenza sono antitetici rispetto a quelli borghesi o forse, e con maggiore probabilità, perché la comunità rom, essendo transnazionale, esercita un certo fascino su coloro i quali caldeggiano l’unione dei proletari di ogni razza, nazione e religione. Per
31
Anche a costo di distruggere quel “tranquillo quotidiano idillio” a cui si fa riferimento
nel brano In movimento, Conflitto, 1996.
32
Lampedusa lo sa, Profondo Rosso, 2011.
33
Con qualche forzatura, che il gruppo, il brano EneaSuperRap (Un’Intesa Perfetta, 2008)
racconta l’Iliade, per invitare al dialogo ed alla tolleranza verso gli stranieri.
Assalti frontali. Giustizia e società nel rap italiano
131
di più, i rom sanno che la terra è grande ed appartiene a tutti, non hanno mai avuto un esercito e non hanno mai fatto la guerra34; se pure
commettono qualche errore, si tratta di “peccati veniali”, del tutto trascurabili in un mondo di bancarotte fraudolente e signoraggio35.
La comunità, però, non è solo accoglienza e pacifica condivisione;
non è solo il luogo nel quale cercare pace e rifugio quando fuori infuria la bufera; essa è anche uno strumento di lotta politica. Non ha importanza se si tratta di protestare contro la installazione di un’antenna
per i cellulari36 oppure contro la riforma della scuola promossa dal
Ministro Gelmini37; non ha importanza se si tratta di partecipare al G8
di Genova38 oppure di impedire lo sgombero di un centro sociale occupato39. In ogni caso, la comunità deve essere considerata il principale attore di lotta politica, perché solo attraverso di essa è possibile
rappresentare concretamente il conflitto sociale, nel senso più proprio
che riconosciamo a questo ultime termine, ovvero, solo tramite di essa
è possibile occupare lo spazio pubblico per mettere in scena, rendere
visibile per le vie del centro cittadino – e quindi ai mezzi di comunicazione di massa – quel disagio, quella rabbia e quel conflitto che i
poteri forti vorrebbero emarginare in ambiti meno significativi perché
più opachi, di conseguenza, e controllabili.
Nessuno si salva da solo. Per questo motivo, i brani degli Assalti
pullulano di riferimenti a compagni che non ci sono più. In tal modo,
le liriche di questa posse si appropriano di un modus comunicandi tipicamente giovanile, basti pensare a quanti mazzi di fiori vengano deposti, ogni domenica, sotto le curve degli stadi italiani. Onorare i defunti è una petizione di principio, un punto d’onore che possiede duplice valenza: interna ed esterna; perché bisogna rispettare coloro i
quali sono scomparsi combattendo, anche se indossavano una divisa
34
Sono cool questi rom, Profondo Rosso, 2011.
“Ci sono anche i rom/qualcuno ruba è vero/ma non c’è mai un banchiere che ruba di
meno”, Giù le lame, Un'Intesa Perfetta, 2008.
36
Al riguardo, si ascolti la seconda traccia dell'album HSL.
37
“Andate nelle scuole/formate i collettivi/organizzate la rivolta finché siete vivi”, Cattivi
maestri, Profondo Rosso, 2011.
38
“E ora nella dignità mi specchio/nella dignità del fratello che era assieme a noi nel
gruppo/ed ha lottato quando ha avuto l’occasione/non ha voltato gli occhi e questa è la lezione/da insegnare nelle scuole e nei racconti che disegnano le sere/ cosa sparava in faccia quel
carabiniere/ io porto con me il nome di Carlo Giuliani/ noi facciamo la storia/ mentre quelli
fanno i piani”, Rotta indipendente, HSL, 2004.
39
Roma meticcia, Profondo Rosso, 2011.
35
132
Guido Saraceni
diversa40. Ma la comunità non rende omaggio solo ai guerrieri, i testi
del gruppo fanno spesso riferimento a vicende personali che hanno
apparentemente poco a che fare con la lotta politica. Così, se le liriche
di Banditi nella sala ricordano Stefano Cucchi; Francisco Pancho Villa; Chester Himes; se l’intero Rotta indipendente è dedicato al ricordo
di Carlo Giuliani; brani come Notte d’acqua o Gaia per davvero, celebrano la prematura scomparsa di un’amica, di una confidente, di
un’amante. Insomma, il vincolo comunitario resiste alla prova più dura e sa trovare forza anche quando deve fare i conti con il vuoto che
scava solchi nelle profondità dell’anima.
40
Paradigmatiche, in tal senso, le rime iniziali del brano Banditi, Banditi, 1999.
PARTE SECONDA
Diritto e letteratura
Il diritto come letteratura…
Poesia e legge
ROBERTO BARTOLI
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. I possibili rapporti tra poesia e legge. –
SEZIONE I: LE LEGGI DELLA POESIA. – 3. La questione dell’esistenza di leggi
disciplinanti la poesia. – 4. L’attuale tendenza a negare l’esistenza di leggi disciplinanti la
poesia: una riflessione sulle possibili cause. – SEZIONE II: LA POLITICA DELLA
POESIA. – 5. La questione della “poesia politica”. – 6. Se la poesia possa avere una
funzione in politica. – 7. Il rapporto “tecnico” tra poesia e legge.
1. Considerazioni introduttive
Alcune premesse. La prima, relativa al concetto di legge. Per legge
non si deve intendere qui né la legge in senso formale (tutto il diritto è
legge), né il diritto in senso sostanziale (la legge concorre alla
formazione del diritto), ma la dimensione – per così dire – normativa
volta ad imporre determinati comportamenti. Forse sarebbe stato più
opportuno parlare di norma. Tuttavia il concetto di legge consente di
marcare il carattere etero-determinato e fortemente impositivo della
prescrizione e, come vedremo, di sviluppare il ragionamento in tutte le
sue articolazioni relazionali.
Due precisazioni in ordine al concetto di poesia. Anzitutto, nella
prospettiva che adotterò per poesia si intenderà non solo – e non tanto
– un genere artistico caratterizzato da una particolare modalità
espressiva consistente nel verso, ma anche – e soprattutto – una
visione di fondo, una dimensione spirituale contraddistinta dalla
capacità di osservare la realtà esterna in termini contemplativi,
lasciando cioè essere le cose così come sono. Contemplazione non
significa descrizione, ma nemmeno invenzione. Senza dubbio
significa prescindere il più possibile da valutazioni e quindi accogliere
con ospitalità il mondo nella lingua.
Rispetto alla poesia, si deve inoltre precisare che anche all’interno
di una prospettiva contemplativa si possono distinguere due diversi
136
Roberto Bartoli
stili: lo stile lirico e quello tragico. Lo stile lirico è caratterizzato dal
fatto che tra i due termini del confronto costituiti dal soggetto e
dall’oggetto l’accento tende a cadere sul soggetto. Con la conseguenza
che il poeta lirico tende ad esprimere e imprimere se stesso, il suo
stato d’animo, le sue convinzioni, le sue credenze. Lo stile tragico
colloca invece al centro della vicenda creativa non il soggetto, ma
l’oggetto, con la conseguenza che, diversamente dal lirico, nel tragico
il poeta tende a prescindere dal sé e a nominare e pensare (conoscere,
sapere) l’oggetto, cogliendone l’essenza nel suo darsi.
2. I possibili rapporti tra poesia e legge
Ciò premesso, il rapporto che intercorre tra la poesia e la legge può
essere esaminato distinguendo tre diversi profili. Anzitutto, ci
dobbiamo chiedere se esistano leggi deputate a governare e
disciplinare la poesia, vale a dire regole “generali e astratte”, che, pur
essendo flessibili e dinamiche, comunque preesistono all’atto creativo,
al singolo poeta, il quale le trova già formulate prima della sua
attività, e che pertanto devono essere conosciute e apprese con
esercizio dal poeta affinché la sua opera non sia casuale e
improvvisata, ma consapevole e sapiente.
In secondo luogo, in una prospettiva in cui poesia e legge si
assumono così come sono ovvero si lasciano essere loro stesse, nella
loro essenza, si deve indagare se esse costituiscano due mondi separati
e incomunicanti, due mondi privi di qualsiasi relazione oppure due
realtà che possono interagire, che entrano in contatto, dovendosi poi
ulteriormente stabilire il modo in cui eventualmente entrano in
relazione, se in termini dialettico-sintetici, rivelandosi destinate a
giungere a sintesi, oppure in termini tragico-conflittuali, destinate cioè
a permanere irrimediabilmente scisse pur relazionandosi tra loro.
Infine, ci dobbiamo chiedere se la stessa poesia sia in grado di
influenzare la legge in modo tale da condizionarne la struttura e la
configurazione, e quindi se non sia possibile elaborare una sorta di
legge poetica che, lasciando inalterata la funzione orientativa del
comportamento – funzione che deve caratterizzare qualsiasi legge –,
sia comunque capace di fondare tale orientazione in modo diverso da
come è accaduto fino ad ora, e cioè, come vedremo, senza quel
fondamento valoriale e quella forza-violenza propria della legge così
Poesia e legge
137
come concepita in termini “classici” occidentali. Quindi tre diversi
temi di indagine: le leggi della poesia; il rapporto tra poesia e legge; la
poesia della legge.
Ebbene, il presente saggio si occuperà soltanto della prima e della
seconda relazione tra poesia e legge, trascurando interamente l’ultima,
la cui trattazione meriterebbe un saggio a sé.
SEZIONE I: LE LEGGI DELLA POESIA
3. La questione dell’esistenza di leggi disciplinanti la poesia
Per quanto riguarda il primo rapporto (le leggi della poesia), sono
due gli aspetti da esaminare: se esistano e quali siano le leggi della
poesia; perché oggi si tenda ad affermare che in realtà la poesia
costituisce un’attività del tutto priva di regole.
In ordine all’esistenza di leggi, la poesia non può che basarsi su
regole predefinite. Se infatti si muove dal fatto che la poesia autentica
si basa sul rapporto tra soggetto ed oggetto, essa tenderà a conoscere
limiti e regole eterodeterminate, essendo ciò imposto proprio dal
raffronto con il mondo esterno, con ciò che è altro da sé. Al contrario,
è quando si rompe questo rapporto per dare risalto soltanto a se stessi
(in una prospettiva solipsistica o sperimentale) oppure addirittura al
terzo-destinatario (in una prospettiva comunicativa), che il senso del
limite e quindi della regola si vanno affievolendo, fino a scomparire
del tutto nel momento in cui l’interesse principale dell’attività artistica
non si concentra più sul soggetto, ma addirittura cade sul destinatario
dell’opera che ne è fruitore.
A) In particolare, per quanto riguarda il piano stilistico, la poesia
autentica consente di approdare a un risultato che potremmo definire
costituzionale: da un lato, esiste la regola fondante, accettata da tutti
gli stili, secondo cui la parola poetica non può che scaturire da un
confronto tra l’uomo e ciò che è altro da sé; dall’altro lato, all’interno
di questo contesto comune esiste poi un “pluralismo stilistico”, nel
senso che esistono tanti modi di scrivere poesia (stile lirico e stile
tragico), ciascuno dei quali è però legittimamente definibile come
poesia in quanto rispettoso della regola contemplativa che fonda la
poesia. Potendosi poi osservare anche come esista una sorta di
138
Roberto Bartoli
corrispondenza tra poesia lirica e maggiore indisciplina, da un lato, e
poesia tragica e maggiore disciplina, dall’altro lato.
Ed infatti, lo stile lirico tende ad avere leggi tendenzialmente
distoniche rispetto alla legge della contemplazione e quindi a farsi più
libero sia perché, essendo ancorato all’io, quest’ultimo costituisce la
fonte delle regole e dei princìpi del proprio lavoro, sia perché è
proprio dell’io interessarsi più al profilo di ciò che si dice (al
contenuto, al messaggio, al significato), che all’aspetto del come si
dice (alla forma, allo stile). Ed infatti, nel momento in cui la cosa è
colta nel suo legame con la propria dimensione individuale, il lavoro
che si compie finisce per essere connesso non tanto a quella tensione
volta a trovare le modalità per dire ciò che si ha davanti, quanto
piuttosto agli effetti che una certa realtà produce sul soggetto.
Diversamente, lo stile tragico tende ad esprimere al meglio la
funzione poetica contemplante, presentandosi così rigorosamente
disciplinato. Ed infatti, da un lato la cosa, in quanto altro dal soggetto,
presenta caratteri propri di cui il poeta si deve impossessare
“inseguendola” nel suo darsi e quindi subordinandosi ad essa.
Dall’altro lato, per questa costante inclinazione e orientazione verso la
cosa, le “problematiche” dello stile tragico si esauriscono nel “modo”
in cui si canta, nello stile, ovvero, utilizzando un termine forte, ma
inequivocabile, nella tecnica: muovendo all’interno di una dimensione
“liberata” dalla prospettiva soggettiva, l’oggetto viene contemplato,
più che “sentito”, e quindi il problema del proprio lavoro si risolve in
una questione di individuazione delle forme e delle maniere
espressive capaci di dire l’oggetto così com’è. Da qui lo studio e il
lavoro sulla tradizione, che rappresenta il veicolo principale per
appropriarsi delle regole della “creazione”.
Al contrario, la poesia che rompe il legame tra soggetto ed oggetto
conduce o a una sorta di “relativismo estetico” o, addirittura, ad
un’anarchia estetica oppure a un “assolutismo/autoritarismo estetico”.
Nella prima prospettiva l’assenza di leggi dissolve la poesia nel mero
soggettivismo e nelle sue esplicazioni (piacere, gusto etc.), e quindi
finisce per trovare il proprio fondamento nell’autore o nel destinatario,
vale a dire in realtà che sono del tutto arbitrarie e prive di fondamento.
Con la conseguenza che non solo non è possibile stabilire se una
poesia è bella o brutta, oppure se una poesia è migliore di un’altra, ma
addirittura risulta impossibile determinare se un determinato testo
costituisca o meno poesia. Nella seconda prospettiva “totalitaria”,
Poesia e legge
139
l’affermazione di una totale assenza di leggi comporta invece che alla
fin fine un criterio ci sia, ma che questo criterio sia stabilito dalla
legge del più forte, e cioè, spesso, dal soggetto che in un modo o in un
altro detiene il potere che può condizionare la critica, vale a dire il
potere editoriale. Con la conseguenza che la valutazione e la selezione
avviene in termini del tutto arbitrari, incontrollati e incontrollabili,
secondo il capriccio di chi di volta in volta è deputato a compiere
scelte.
B) Ma è soprattutto sul piano della visione che emergono le
maggiori differenze. La poesia autentica (basata su soggetto-oggetto)
adotta una visione governata da un’unica legge: non essere mai al
servizio di un valore, ovvero, detto diversamente, nel dire le cose non
mettersi mai nella prospettiva della valutazione di ciò che si vede,
nella distinzione tra bene e male, giusto o sbagliato, sperato o
indesiderato, ma guardare le cose così come sono, contemplarle,
lasciarle essere ed esistere. Poiché nella visione autenticamente
poetica ci si deve immergere nella realtà, occorre abbandonare ogni
prospettiva egoico-selettiva che impedirebbe questa immersione. Da
qui la circostanza che mentre la visione tragica, in quanto basata sulla
negazione dell’io, risulta consentanea a quella autentica, al contrario,
la visione lirica, proprio perché pone l’accento sull’io, finisce per
basarsi su leggi che in parte contraddicono la legge “strutturale”,
“costitutiva” e “costituzionale” che “impone” la contemplazione. In
sostanza, la visione lirica si pone in tensione rispetto alla regole
costituzionali dell’autentica poesia.
La poesia che rompe il rapporto soggetto-oggetto tende invece a
una visione che potremmo definire fortemente valoriale e selettiva,
che dissolve la stessa prospettiva contemplante. Proprio perché ci si
basa interamente sull’io, è inevitabile che la dimensione egoica, con
tutti i suoi elementi (credenze, speranze, volontà, desideri) e con tutte
le sue dicotomie valoriali e selettive (bene/male, giusto/ingiusto,
speranza/delusione, utile/inutile) prenda il sopravvento e si proietti
sulla realtà.
140
Roberto Bartoli
4. L’attuale tendenza a negare l’esistenza di leggi disciplinanti la
poesia: una riflessione sulle possibili cause
Come accennato al giorno d’oggi è dominante l’idea che la poesia
costituisca un’attività del tutto priva di regole, interamente rimessa
all’inventiva soggettiva di chi scrive, nella sostanza arbitraria, come
se il poeta stesso potesse ergersi al di sopra di tutto e di tutti
inventandosi di sana pianta le regole della propria attività.
Le ragioni di questa convinzione sono molteplici. A me interessa
mettere in evidenza le due più significative, anche perché è soprattutto
grazie al concorso di queste due ragioni che la convinzione di una
poesia indisciplinata ha finito per farsi così dominante. Da un lato, in
una prospettiva – per così dire – più immediata, affermare che la
poesia non abbia proprie leggi sembra essere il prodotto di una
strategia lucida e ben orchestrata, diretta a dissolvere la stessa poesia:
svincolare la poesia dalle sue leggi, infatti, significa in buona sostanza
darle la morte, e cioè farla essere ciò che più di ogni altra cosa non
dovrebbe essere, vale a dire una proiezione individualistico-egoica di
sé sul mondo. Di estremo interesse sarebbe indagare anche perché
esista una tale strategia. Sul punto mi sia permesso soltanto notare
come un attacco “immediato” alle leggi della poesia sia dovuto a due
ragioni. In parte alla volontà di alcuni di creare un clima di
“relativismo estetico” affinché tutto sia permesso e accettabile,
riconoscendo come poesia anche ciò che poeticamente ha scarso
valore, e ciò per una doppia finalità, e cioè o per “abbassare” lo
standard poetico e accontentare la massa indiscriminata dei poeti
dilettanti oppure per finalità meramente commerciali. In questo senso
sembra muoversi tutta una serie di poeti-critici, o meglio di critici sui
quali si adagia l’ombra inquietante di essere in realtà poeti mancati. In
altra parte, la poesia viene attaccata al fine di annientarla, essendo
un’arte molto pericolosa, pericolosa quanto il concetto di amore,
avendo caratteristiche essenziali che, come vedremo, confliggono
duramente con o comunque sono distoniche rispetto all’essenza della
maggior parte delle attività alle quali si riconosce oggi un valore
primario (politica-potere, economia, religione etc.): in sostanza, la
poesia, al contrario della politica, dell’economia, della religione etc., è
un’attività inutile e gratuita, ancorata alla verità dei fatti, partecipante
al pluralismo valoriale e quindi contraria alla visione utilitaristica e
selettiva e unilaterale oggi dominante.
Poesia e legge
141
Dall’altro lato, in una prospettiva di più ampio respiro, l’idea
secondo cui la poesia non avrebbe legge non è un’invenzione
moderna, ma costituisce l’esito finale di un lungo e complesso
processo storico, che va di pari passo con la trasformazione del
rapporto tra soggetto e oggetto che sta alla base di qualsiasi stile.
Detto in altri termini, più la filosofia di fondo sottesa alla poesia si è
allontanata dalla prospettiva oggettiva per orientarsi verso quella
soggettiva, più si è persa la dimensione “disciplinare” della poesia. In
sostanza, la ragione per cui è oggi dominante l’idea che la poesia è
priva di regole sta nel fatto che si è passati da una visione basata sulla
imitazione, sul vero, sulla natura, sull’artista come artefice e quindi
sulle regole esterne, ad una visione che valorizza l’immaginazione, il
bello, il sentimento, l’artista come creatore, e quindi le regole interne,
fino ad arrivare al punto di rottura determinatosi con passaggio alla
esaltazione dell’invenzione, del gusto, del piacere, del
destinatario/fruitore e quindi della più assoluta sregolatezza. Per usare
espressioni tratte dal diritto penale, si può dire che l’arte da attività
caratterizzata per le particolari modalità di condotta è divenuta un’arte
causalmente orientata alla produzione dell’evento effetto emozionalesuggestivo, dove ciò che interessa è che tale effetto si verifichi al di là
del modo in cui avviene, con conseguente passaggio in secondo piano
dello stile e delle sue regole. Per utilizzare espressioni tratte dal diritto
costituzionale, si può dire che c’è una corrispondenza tra
soggettivismo, lirismo, positivismo e assolutismo, da un lato, e
oggettivismo, tragicità, ermeneutica e costituzionalismo, dall’altro.
SEZIONE II: LA POLITICA DELLA POESIA
5. La questione della “poesia politica”
Ma se la poesia autentica implica la decisione di non decidersi per
alcun valore, quale rapporto potrà mai avere con la legge? Mentre
infatti la legge è tutela, affermazione, promozione di un valore,
nonché volere, quindi selezione, la poesia è contemplazione; se la
legge prescrive, al contrario la poesia “trascrive”; se la legge è il
dover essere, la poesia è l’essere; se la legge bandisce, la poesia
ospita. Andando ancora più a fondo, mentre la legge altro non è che il
mezzo più forte (violento!?) ed efficace per dominare la realtà e
142
Roberto Bartoli
trasformarla, al contrario la poesia si sottomette alla realtà, fa in modo
che essa abbia il dominio sull’uomo affinché possa modificarlo
facendogli avere una maggiore consapevolezza della propria
condizione.
Ebbene, quanto appena detto ci introduce nel tema del rapporto tra
legge e poesia, il quale si articola in tre problematiche ulteriori: se la
politica possa entrare nella poesia (v’è uno spazio per la “poesia
politica”?); se la poesia possa entrare nella politica (esiste una politica
della poesia?); quale relazione intercorre tra poesia e legge in senso
tecnico (poesia e legge).
Con riferimento alla prima questione, la concezione “tradizionale”
e maggiormente diffusa è nel senso della incompatibilità assoluta e
della totale estraneità tra poesia e politica: la politica non può entrare
nella poesia e la poesia non è in grado di entrare nella politica. In
particolare, se la politica entrasse nella poesia, se il poeta si facesse
politico, la politica non potrebbe che dissolvere la poesia, quindi
nessun artista può (deve!) immischiarsi nelle cose della politica. Sul
punto ha scritto molto bene George Orwell: “l’accettazione di
qualunque disciplina politica sembra essere incompatibile con
l’integrità letteraria (…). In realtà, il puro suono delle parole che
terminano in -ismo sembra portare con sé l’odore della propaganda.
Le lealtà di gruppo sono necessarie, e tuttavia sono veleno per la
letteratura, fin tanto che la letteratura è il prodotto degli individui”1.
Ed ancora: “io posso solo consigliare che dovremmo tirare una linea
di demarcazione molto più netta di quanto non facciamo ora tra le
nostre lealtà politiche e quelle letterarie, e dovremmo riconoscere che
la disponibilità a fare certe cose sgradevoli ma indispensabili non
comporta alcun obbligo di bersi le credenze che in genere lo
accompagnano. Quando uno scrittore si impegna in politica, dovrebbe
farlo come cittadino, come essere umano, ma non come scrittore. Io
non credo che abbia il diritto, solo a motivo della sua sensibilità, di
sottrarsi al normale lavoro sporco della politica. Quanto chiunque
altro, dovrebbe essere disposto a tenere discorsi in sale piene di
spifferi, a scrivere col gesso sui marciapiedi, a sollecitare voti, a
distribuire volantini, persino a combattere in una guerra civile se
1
G. ORWELL, Gli scrittori e il Leviatano, trad. it., in G. ZAGREBELSKY, Imparare
democrazia, Torino 2007, 172.
Poesia e legge
143
sembra necessario. Ma qualunque altra cosa faccia al servizio del suo
partito, non dovrebbe mai scrivere per questo”2.
In sostanza, come l’artista si affaccia alla politica è destinato a
perdere la sua vocazione, il suo sguardo contemplativo, la sua libertà
da intendersi come adesione necessaria alla realtà. In quest’ottica si
invita il poeta ad astenersi, a restare lontano dalla dimensione sociale
e politica, dalle questioni che riguardano la polis e le leggi che la
governano, dalla dimensione valoriale. Si finisce per parlare di una
verità del poeta (come anche del filosofo) contrapposta alla verità
della politica e della legge, verità quest’ultima che poi tanto verità non
è, considerato che Auctoritas, non veritas facit legem. Il poeta per
restare vicino alla realtà, e quindi imparziale, asettico, neutrale, non
può che tenersi lontano dalle questioni relative ai valori. Un suo
coinvolgimento all’interno del campo valoriale significherebbe
dismissione dei suoi panni veridici di poeta per assumere quelli
selettivi o addirittura menzogneri del politico.
L’opinione tradizionale non può che essere condivisa: la politica
non può entrare nella poesia. Se ciò accadesse, la poesia diverrebbe
parziale, selettiva. In questa prospettiva si deve pertanto ribadire che
la poesia cosiddetta civile, quella cioè che prende direttamente parte al
confronto politico difendendo valori, esprimendo valutazioni critiche,
prospettando realtà diverse da quelle esistenti, finisce inevitabilmente
per divenire una poesia meramente ideale.
Tuttavia, vero che la poesia non può fare politica, è anche vero che
la poesia non è estranea alla politica e ai valori, non è imparziale e
terza3 o addirittura anarchica4. L’idea della imparzialità, a dire il vero
molto più politica di quanto si possa credere, presenta un limite molto
consistente che addirittura contraddice l’obiettivo “politico” che si
vuole perseguire. Se infatti si muove dall’idea che occorre mantenere
vivo un qualcosa che rappresenta una sorta di argine all’arbitrarietà e
alla illimitatezza insite nella politica, si finisce poi per porre questo
argine fuori dalla realtà, con la conseguenza ultima che tale argine non
potrà mai costituire un limite effettivo alla realtà. Detto diversamente,
questa concezione tradizionale – per così dire – separazionista, al fine
di mantenere la poesia “incontaminata” finisce per affermare
2
3
Ivi, 173.
In questo senso sembra esprimersi H. ARENDT, Verità e politica, trad. it., Torino 2004,
76 s.
4
In questo senso A. CENI, Tra il vento e l’acqua, Firenze 2001, 67.
144
Roberto Bartoli
l’esistenza di un’incomunicabilità assoluta tra la poesia e la politica
che si vorrebbe arginare mediante la poesia. Ma anche l’idea della
poesia “anarchica”, non coglie nel segno. Se la poesia fosse
semplicemente altro, estranea, indifferente al mondo dei valori, la
poesia non sarebbe in grado di entrare in relazione con l’uomo nella
sua essenza, che è anche, e forse soprattutto, azione, ed in quanto
azione, se inserita in un contesto comunitario, non può che essere
valore. Il poeta, in sostanza, finirebbe per essere separato dall’uomo
che ha in sé la componente valoriale. Inoltre, nel momento in cui
anche il poeta assume una decisione rispetto al mondo dei valori, egli
finisce per compiere una scelta politica. In sostanza, la stessa poesia
diviene azione e quindi politica, nel momento in cui ha al suo interno
una decisione rispetto al mondo dei valori. Infine, la prospettiva
anarchica rischia di portare a una prospettiva nichilista, per cui una
cosa equivale all’altra.
Ma eccoci al punto: qual è la decisione per i valori compiuta dal
poeta? La concezione tradizionale necessita se non di un correttivo,
quanto meno di una fondamentale precisazione. A me pare che non si
debba parlare di terzietà ed imparzialità del poeta o di anarchia, ma di
partecipazione totale a tutti i valori. La contemplazione stessa, infatti,
non è autonomia, distacco, ma per essere autenticamente tale, non può
che passare dalla partecipazione e quindi dalla conflittualità e dal
confronto. La contemplazione è un attraversamento, un farsi carico,
un’assunzione su di sé della realtà quale essa è e non quale si vuole e
si desidera che essa sia. Ecco allora che se il politico si decide per un
valore, se la scienza si decide per la comprensione della lotta tra
valori, senza prendere parte ad alcuni di essi, se il giudice si pone
terzo rispetto alla dinamica conflittuale, la poesia si deve decidere per
tutti i valori, nel senso che deve essere in grado di farsi carico della
pluralità delle istanze che vengono espresse, nessuna esclusa. In
questa diversa prospettiva il poeta continua ad essere senza dubbio
avaloriale secondo il significato in negativo che abbiamo più volte
accennato, e cioè incapace perché impossibilitato a decidersi per un
solo valore, tuttavia, senza aderire totalmente ad alcun valore, il poeta
è capace di prenderli tutti in considerazione, di mettersi dalla parte di
ciascuno e comprenderlo, con la conseguenza che in questa diversa
prospettiva poesia e politica sono due mondi comunicanti.
Andando ancora più a fondo, si può dire che soltanto la poesia
tragica, in quanto poesia marcatamente orientata alla complessità e
Poesia e legge
145
alla totalità della realtà, è in grado di porsi come interprete e voce
della pluralità valoriale. Per comprendere questo decisivo passaggio
dello stile tragico si consideri l’opera di Omero, Sofocle, Shakespeare
e Dostoevskij. Credere che nell’Iliade Omero non stia dalla parte di
nessuno è errato. Il punto è che Omero non sta né sopra i due popoli,
né dalla parte di un popolo, dei troiani o degli achei, ma dalla parte di
entrambi5. Nell’Iliade Omero contempla la dinamica relazionale tra
vincitori e vinti. A Omero non interessa la causa (il valore
legittimante/delegittimante), ma l’effetto, il dolore. Anche perché
l’azione umana non può che determinare dolore e soltanto la
consapevolezza di questa condizione umana apre alla possibilità di un
modo diverso di concepire l’uomo generando l’altissimo sentimento
della compassione (ecco il profilo della politica della poesia che
esamineremo tra poco).
Alla stessa stregua l’Antigone di Sofocle non può essere letta né
come la contrapposizione tra la ragione di Antigone e il torto di
Creonte, né come l’asettica descrizione di un conflitto insolubile tra la
legge positiva (lex) e legge naturale (ius) oppure tra leggi frutto di una
divisione dell’originaria armonia naturale. Di conflitto insolubile si
tratta, ma di conflitto tra posizioni entrambe legittime6. La questione è
il modo in cui Antigore e Creonte vivono e gestiscono questo
conflitto, vale a dire affermando la propria posizione in termini
assoluti, senza alcuna relazione, senza alcun confronto e dialogo,
esaurendo nella propria ragione l’intera dimensione della polis. Ecco
allora l’effetto che produce la tragedia, la quale non muove da un
valore, ma da entrambi i valori, per indicare come l’assenza di un
dialogo sia alla base della distruzione e della morte.
Ma si pensi anche a Shakespeare, in termini stavolta un po’ diversi,
più stilistici che di visione, e alle modalità con cui si dà voce autentica
e perfetta alla posizione che di volta in volta viene in gioco Così, ad
esempio, le parole con cui Bruto rifiuta l’invito di Cassio a giurare
sulla decisione di uccidere Cesare, avrebbero potuto essere
esattamente l’opposto ed esaltare la necessità del giuramento: lo stile
tragico fonda la realtà, perché non ha alcun fondamento valoriale, e
5
In argomento, cfr. H. Arendt e S. Weil, su cui in termini sistematici v. R. ESPOSITO,
L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?, Roma 1996.
6
In argomento cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto di Antigone e la legge di Creonte, in
AA.VV., La legge sovrana, a cura di I. Dionigi, Milano 2006, 21 ss.
146
Roberto Bartoli
l’asserzione poetica finisce per trovare la propria giustificazione nello
stile stesso.
Infine, si consideri la voce di Dostoevskij nel paragrafo del Grande
inquisitore del libro i fratelli Karamazov7. Se Dostoevskij avesse
parteggiato o per Cristo o per l’Inquisitore, va da sé che il dialogo tra
di loro non sarebbe mai stato scritto nei termini che conosciamo. Così
come se Dostoevskij si fosse posto in una posizione di imparzialità,
non solo l’efficacia espressiva dei personaggi sarebbe stata assai
diversa, ma lo stesso risultato finale della rappresentazione avrebbe
lasciato spazio alle proiezioni soggettive del lettore guidate dalle
convinzioni personali che avrebbe fatto parteggiare di volta in volta o
per Cristo, nel nome dell’amore che porta ad amare anche il nemico, o
per l’Inquisitore, nel nome della valore che marca l’illegittimità
dell’altro. In verità, in virtù della adesione di Dostoevskij alle due
dimensioni, finisce per essere univoco e implacabile l’esito dell’opera,
consistente non solo nella incommensurabilità dei piani (amore e
valore non possono conciliarsi), ma anche nella unitaria dolorosità
della condizione, per cui dolente è l’Inquisitore che non può liberarsi
dalla logica implacabilmente assoluta della sua posizione, ma dolente
è anche il Cristo nel momento in cui si unisce tacendo e baciandolo al
dolore dell’Inquisitore, con un dominio finale della compassione.
6. Se la poesia possa avere una funzione in politica
Per quanto riguarda il tema della funzione della poesia in politica,
ancora una volta la concezione tradizionale è nel senso che l’ingresso
della poesia nella politica non abbia alcuna rilevanza, come dare
acqua fresca ad un malato. Come potrà un’attività basata sulle parole,
sulla realtà, sulla metafora incidere sulla decisione e sulla scelta, visto
che proprio Auctoritas non veritas facit legem? Davanti al politico che
si fa poeta, si apriranno due alternative che lo porteranno comunque
rapidamente fuori dalla dimensione politica. Da un lato, il poeta
prospetterà la sua posizione nata dall’isolamento, la quale tuttavia non
ha nulla a che vedere con la dimensione collettiva dell’umanità.
Dall’altro lato, il politico-poeta diverrà il “bastian contrario”, il grillo
7
Sul tema v. ancora G. ZAGREBELSKY, Il grande Inquisitore. Il segreto del potere, Napoli
2009.
Poesia e legge
147
parlante, o addirittura il giudice che si erge al di sopra e al di fuori
delle parti. In entrambe le ipotesi, la moltitudine respingerà questa
posizione che risulterà estranea all’ambito “dinamico” degli affari
umani e della collettività, caratterizzandosi nella sostanza per un’etica
della convinzione affermata ad oltranza, del tutto incompatibile con la
realtà politica che implica anche effettiva capacità di incidere sulle
cose.
Tuttavia anche questa concezione tradizionale necessita di alcuni
correttivi. Da un lato, vero che il politico, soprattutto se si esalta il
profilo della sua lotta per il potere, tenderà a non farsi influenzare
dalla logica del limite e quindi anche dalla prospettiva della poesia,
tuttavia è anche vero che il politico-poeta esprime una visione della
politica molto diversa non orientata al potere, ma ai valori. Quindi
rispetto alla politica per il potere, la poesia forgia un’altra politica
fondata sui valori.
Dall’altro lato, anche in un contesto valoriale, la poesia può offrire
un contributo peculiare. Vero che il politico valoriale tenderà ad
esprimersi in termini maggioritari, positivistici, assoluti e selettivi,
tuttavia è anche vero che il politico-poeta, in quanto ispirato dalla
contemplazione, esprime una politica pluralista, ermeneutica,
relazionista. In sostanza, la poesia può contribuire a condizionare la
politica nel senso della democrazia costituzionale.
Più precisamente, la poesia può contribuire a condizionare la
politica in tre modi diversi: come limite al potere e fondazione di una
convivenza pacifica (prospettiva costituzionale) e come linfa di
un’autentica democrazia che conferma e rinnova quotidianamente il
patto costituzionale (prospettiva democratica).
A) Per quanto riguarda la prospettiva costituzionale, anzitutto la
poesia contribuisce a contenere la tendenza ad eccedere della
dimensione politica mediante la sua adesione alla verità dei fatti, che
si ottiene sia sul piano della visione, sia da un punto di vista – per così
dire – tecnico.
a) Sul piano della visione, se la politica, e soprattutto lo strumento
del partito, è propaganda, e quindi tende fisiologicamente alla
alterazione della verità, fino anche alla menzogna, la poesia è verità,
non verità dogmatica, valoriale, bensì verità dei fatti, visto che cerca
di nominare le cose così come sono, ma anche verità in ordine al
pluralismo valoriale. Il suo sguardo sul mondo e sulla realtà,
148
Roberto Bartoli
“costringe” gli uomini a confrontarsi con essa smascherando la
menzogna e l’assolutezza di cui la politica tende a fare uso.
Inoltre, si deve notare come la poesia svolga una funzione politica
tanto più, quanto più la politica diventi illimitata, quindi menzogna,
quindi autoritarismo/totalitarismo: suo malgrado, la poesia diviene
strumento politico per combattere la menzogna, non tanto perché
prende posizione rispetto al totalitarismo, quanto piuttosto perché
difende “naturalmente” la verità contrastata dall’autoritarismo.
Infine, l’aspetto decisamente più problematico riguarda il rapporto
tra poesia e partito. A ben vedere, si tratta del rapporto più
problematico di tutti, perché se in relazione alla politica, intesa come
convivenza, ha senso prospettare la forza contemplativa e
compartecipativa della poesia, rispetto al partito, che di per sé
significa parte, fazione, scelta, sembra che la poesia nulla possa.
Come ha scritto Simone Weil: “i partiti sono organismi
pubblicamente, ufficialmente costituiti in maniera tale da uccidere
nelle anime il senso della verità e della giustizia” ovvero “ogni partito
è totalitario in nuce e nelle aspirazioni”8. Ed infatti un partito vuole
crescere all’infinito; un partito tende all’oligarchia; un partito tende
alla parzialità e alla faziosità; un partito tende alla menzogna; un
partito tende alla propaganda; un partito tende alla manipolazione dei
fatti, dei concetti e delle parole; un partito antepone il proprio
interesse a quello pubblico-istituzionale.
D’altra parte, ancora una volta si deve ritenere che sia proprio la
poesia uno degli antidoti per tutti questi inconvenienti che minano al
cuore la convivenza, prospettando una adesione che tuttavia non
diviene mai appartenenza. Anzitutto, la poesia valorizza non solo il
parlare come azione, ma anche la coerenza tra parlare ed agire. In
secondo luogo, la poesia porta ad avere coraggio, ad assumere un
atteggiamento di critica nei confronti di ciò che proviene dalla forma
partitica. Poiché consiste nel gettare uno sguardo ben oltre i luoghi
comuni e di assuefazione, essa porta a mettere in discussione i
proclami faziosi e partitici. Senza considerare che essa contribuisce a
superare il vincolo di mandato e la disciplina di partito. E si badi,
soggetti che assumono questi comportamenti non solo devono essere
difesi o tollerati all’interno delle dimensione partitiche, ma il loro
8
S. WEIL, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, trad. it., Roma 2008,
rispettivamente 36 e 32.
Poesia e legge
149
comportamento deve costituire il modello a cui ispirarsi al fine di
correggere tutti quei difetti che spesso sono alla base delle maggiori
critiche rivolte alla politica dei partiti.
b) Il contributo della poesia alla verità dei fatti come limite al
potere è anche di tipo – per così dire – tecnico9. Là dove il linguaggio
si impoverisce e si fa omologante, assai minore diviene la capacità di
aderire alla realtà e quindi alla verità dei fatti e al suo pluralismo. La
verità dei fatti può essere detta soltanto se si è attrezzati di un
linguaggio ricco, articolato, differenziato, capace di nominare
specificamente ogni piccolo frammento di cui la realtà si compone.
Inoltre, là dove il linguaggio viene manipolato in termini strumentali,
determinando un rovesciamento dei concetti, la poesia riafferma la
gratuità e il disinteresse della parola, asservita non alle finalità ed
utilità selettive di gruppi dominanti di uomini, ma alla complessità e
alla complessività del reale. Ed ancora, là dove il linguaggio si fa
illusione, al fine spesso di mascherare la segretezza dell’esercizio del
potere, la poesia reclama trasparenza, perché induce ad andare al di là
del proclama.
B) Sempre in prospettiva costituzionale, la poesia contribuisce
anche alla fondazione della convivenza pacifica.
a) In particolare, la poesia costituisce un antidoto nei confronti del
principio di equivalenza per cui una cosa equivale all’altra, e quindi
nei confronti del nichilismo. Questo atteggiamento di fondo porta a
due comportamenti molto pericolosi, e cioè o all’indifferenza
valoriale
oppure
all’imposizione
dell’assenza
valoriale,
comportamenti che hanno in sé la capacità di disgregare e minare gli
stessi presupposti per una convivenza comunitaria, perché in entrambi
i casi è la forza, la violenza nuda, cieca, priva di argomentazione, che
governa. Nel caso dell’indifferenza, alla proclamazione verbale di
neutralità non potrà che seguire nella realtà una affermazione reale di
valore con conseguente imposizione di questi. Nel caso della
imposizione neutrale, la forza che impone l’assenza di valori
annienterà i valori. Quindi in sostanza dal principio di equivalenza
scaturisce apparente indifferenza, vale a dire decisione valoriale
contrabbandata per neutra, o nichilismo forzato. La poesia intesa
come contemplazione partecipativa (non adesiva) spinge ad affermare
che le cose hanno un valore, non possono non averlo.
9
Sul punto cfr. G. ZAGREBELSKY, Dieci punti, in ID., Imparare democrazia, cit., 35 s.
150
Roberto Bartoli
b) In secondo luogo, e soprattutto, la poesia consente di prendere
consapevolezza del cuore del patto costituzionale. Il patto
costituzionale necessita di una predisposizione alla accettazione del
patto e a farlo vivere, predisposizione che si assume solo se si ha
consapevolezza della tragicità della condizione umana intesa come
sua dolorosa solitudine e responsabilità: soltanto la consapevolezza
della sventura che accomuna tutti gli uomini può portare a quel
sentimento di compassione e condivisione che porta a restare uniti. In
sostanza, il patto costituzionale si regge su un forte sentimento di
compassione che soltanto la rappresentazione poetica è in grado di
dare, proprio perché esprime le ragioni di tutti e il pericolo di
affermare in termini assoluti soltanto la propria ragione.
C) Infine, la poesia ha una vocazione – per così dire –
compiutamente democratica.
a) Anzitutto, dal momento che la poesia si fa carico di tutti i valori,
la poesia contribuisce a creare una visione non solo pluralista, ma
addirittura relazionista. Da un lato, la poesia contribuisce a prendere
consapevolezza della pluralità delle visioni e del conflitto che
intercorre tra di esse: in quanto contemplazione partecipativa (non
asettica), essa indica e custodisce le ragioni che sono alla base di
ciascuna prospettiva, aiutando a creare in ogni soggetto una
dimensione volta a riconoscere la pluralità delle visioni. Dall’altro
lato, la poesia permette di smorzare la tirannia dei valore, vale a dire
la vocazione del valore ad imporsi in termini assoluti. I valori tendono
alla tirannia nel senso che il loro promotore e difensore tende a vedere
in ciò che è diverso e contro il proprio valore un disvalore che non
può essere accettato. Il valore per il quale ci si è decisi, non può,
proprio in quanto valore, non valere anche per l’altro. Ebbene, la
poesia si adopera per il temperamento di questo assolutismo valoriale:
grazie alla sua capacità di prendere in carico tutti i valori, afferma che
tutte le cose hanno valore e che ogni valore è di per sé legittimo.
Inoltre, nel momento in cui si assumono su di sé le contrapposte
istanze valoriali, la poesia aiuta ad affermare la relatività di ciascuna,
o meglio ancora la relazionabilità di ciascuna: i valori essendo tutti
legittimi, devono essere messi in relazione, confrontati, fatti dialogare.
b) La poesia abbatte la forza soggettiva dell’identità, spingendo
verso l’altro e quindi verso il dialogo; ma la poesia offre anche gli
strumenti per strutturare personalità che non siano omologate e
massificate, ma aventi un forte senso critico. Sotto il primo profilo si
Poesia e legge
151
deve considerare che la poesia esercita a una costante fuori uscita
dall’io, dal sé, abituando ad aprirsi verso una dimensione altra. Sotto
il secondo profilo, il carattere non tanto originale, ma originario della
poesia, spinge i soggetti ad abbandonare i porti sicuri della
convenzione e della assuefazione, per imboccare il mare inesplorato e
rinnovante del nuovo inizio, del vedere ancora una volta la cosa
affinché essa si riveli liberata da ogni abitudine e ripetizione.
c) Ma soprattutto è la visione poetica e tragica che consente di
comprendere a fondo lo stesso concetto della democrazia che si rivela
nella sostanza contraddittorio. Mentre il totalitarismo è risoluzione di
qualsiasi contraddizione, superamento di ogni conflitto e quindi
affermazione di sé, al contrario la democrazia è lasciare in vita le
contraddizioni ed i conflitti e quindi nella sostanza disponibilità a
trovare limiti alla propria visione. Non solo, ma mentre il totalitarismo
è tale da superare ogni limite della democrazia, dissolvendo tuttavia la
possibilità di una convivenza pacifica, al contrario la democrazia vive
dei suoi stessi limiti e vive in quanto tali limiti non siano mai del tutto
superati. Soltanto una visione poetica è in grado di disvelare questa
componente poetica della democrazia.
7. Il rapporto “tecnico” tra poesia e legge
L’ultimo profilo che si deve indagare, riguarda il rapporto tra
poesia e legge da un punto di vista – per così dire – tecnico.
1) In particolare, per quanto riguarda il rapporto tra poesia e
momento di formulazione della legge, si devono considerare due
profili.
A) Anzitutto, la poesia contribuisce ad un atteggiamento
antimaggioritario ed antidecisionista del legislatore. Sotto il primo
profilo, la poesia si pone in contrasto con una legislazione assolutista
e unilaterale, andando a favore di una legislazione basata sul
bilanciamento e la ponderazione dei diversi interessi. Anzi, proprio
grazie alla partecipazione a tutti i valori, la poesia si prende cura di
tutti i valori che fanno parte del conflitto. La componente
contemplativa della poesia spinge verso una legislazione che si fa
carico degli interessi diversi e contrapposti. Alla poesia sta
decisamente stretta una logica maggioritaria, vale a dire una logica
identitaria, selettiva e monologante. Al contrario, un atteggiamento
152
Roberto Bartoli
poetico spinge verso il confronto con la minoranza e le sue ragioni. La
minoranza viene vista come portatrice di istanze legittime a cui non si
può non dare ascolto. Sotto il secondo profilo, si deve osservare come
la decisione del legislatore condizionato da una visione poetica tende
ad essere l’esito finale di un procedimento che muove il più possibile
dalla conoscenza effettiva della realtà nella sua complessità. Ad un
atteggiamento disinvoltamente decisionista, la poesia contrappone un
atteggiamento responsabilmente e prudentemente tale. Ciò non
significa che la poesia porta a immobilizzare il legislatore e ad
impedire la sua scelta. Se così fosse, la poesia non sarebbe tale, in
quanto incapace di farsi carico anche delle esigenze del legislatore
(Creonte!). Significa piuttosto contribuire ad un atteggiamento
spirituale di fondo che fa della decisione un atto finale, non tanto nel
senso di atto conclusivo, quanto piuttosto nel senso di atto che arriva
alla fine di un percorso dialogico.
B) In secondo luogo, poesia e legge al momento della formulazione
hanno come punto in comune il fatto che entrambe tendono a
racchiudere attraverso il linguaggio un momento della vita. Tuttavia,
molti sono i profili di diversità. La legge tipizza una situazione
devitalizzandola, tant’è vero che la lettera morta della legge potrà
tornare a vivere solo mediante l’interpretazione; la poesia racchiude
uno spaccato di vita che invece resta vivo all’interno del linguaggio.
La legge astrae, la poesia estrae. La legge incombe, la poesia
soccombe. La legge è comunicativa, la poesia disvelativa. La legge
dice il fatto che non si deve commettere, la poesia accoglie
l’accadimento nella lingua.
2) Per quanto riguarda il rapporto tra poesia e momento applicativo
della legge, preliminarmente si deve chiarire che oggetto di questa
indagine non è tanto la relazione tra interpretazione della poesia ed
interpretazione della legge, al fine di mettere in evidenza le eventuali
analogie e differenze, quanto piuttosto la capacità della poesia come
visione di influire sull’attività giurisdizionale del giudice. Occorre
distinguere tra una giurisdizione costituzionale, che sta sopra alla
legge, ed una giurisdizione ordinaria che invece sta, in parte, sotto.
A) Per quanto riguarda la giurisdizione costituzionale, la
prospettiva poetica porta alla giurisdizione della ragionevolezza e del
bilanciamento. Per ragionevolezza si deve intendere una sorta di
atteggiamento spirituale che porta ad abbandonare la radicalità ed
assolutezza della propria posizione per fare spazio alle istanze
Poesia e legge
153
dell’altra parte. Ragionevolezza e pluralismo rappresentano due
medaglie della stessa faccia, per cui non ci può essere pluralismo
senza ragionevolezza, così come la ragionevolezza è lo strumento per
realizzare il pluralismo. Per bilanciamento non si deve intendere né il
compromesso, né la mediazione. Compromesso è un concetto avente
carattere politico e attiene più all’equilibrio tra le forze che a quello
tra i valori ed i principi. Mediazione significa trovare un punto di
equilibrio tra interessi diversi, uscendo dalla dimensione della terzietà,
ma anche senza rimettere il tutto nelle mani immediate dei soggetti, in
una prospettiva che si colloca a metà strada tra la giurisdizione e la
dimensione privatistica. Bilanciamento significa invece mettere in
relazione i valori e cercare un equilibrio, nella consapevolezza che a
volte però il conflitto può essere risolto affermando la prevalenza di
un valore rispetto ad un altro e quindi esercitando una funzione terza e
di garanzia, che significa nella sostanza ammettere una separazione10.
Altro discorso ancora, come vedremo nel prossimo paragrafo, merita
il rapporto tra poesia e riconciliazione.
Ecco allora che ancora una volta è la poesia che può contribuire a
comprendere il paradosso e la contraddittorietà di una giurisdizione
come quella costituzionale, che è politica, senza esserlo, che bilancia
gli interessi, senza tuttavia abdicare alla sua funzione di garanzia.
C) Per quanto riguarda la giurisdizione ordinaria, il rapporto tra
poesia e legge finisce per essere molto più complesso, dovendosi
distinguere a seconda che il giudice sia interamente subordinato alla
legge (prospettiva legalista) oppure sia subordinato alla legge
conforme alla Costituzione (prospettiva costituzionale).
a) Sotto il primo profilo, poesia e legge sono in parte estranee, in
parte comunicanti. Da un lato, v’è estraneità, anzitutto perché la
giurisdizione è terzietà e imparzialità (o comunque adesione al valore
espresso dalla legge), mentre la poesia è contemplazione da intendersi
come partecipazione alle diverse istanze. In secondo luogo, si deve
osservare come la giurisdizione, in quanto decisione, da intendersi
non solo come valutazione, ma anche come presa di posizione, alla fin
fine sia separazione, sacrificio di una parte, mentre la poesia, in
quanto contemplazione e partecipazione a tutti i valori, sia unione.
Negare la separazione significherebbe negare la giurisdizione. Infine,
l’interpretazione e l’argomentazione giuridiche e il dire poetico non
10
G. ZAGREBELSKY, La legge e la sua giustizia, Bologna 2008, 286 s.
154
Roberto Bartoli
hanno alcuna relazione, perché mentre l’interpretazione e
l’argomentazione si fanno carico di entrambe le parti mediante la
verbosità giustificatrice e diversificatrice, al contrario il dire poetico
nella sostanza indica in forma sintetica senza giustificare. In sostanza,
mentre esiste una differenza tra interpretazione, decisione e
argomentazione, per cui anche se la decisione è frutto di una
interpretazione, l’argomentazione è comunque un qualcosa di diverso
dalla mera decisione e interpretazione, al contrario all’interno della
poesia il procedimento “creativo” (“interpretativo”) finisce per entrare
all’interno della dizione poetica non necessitando di una spiegazione
argomentativa.
Dall’altro lato, però, la poesia può offrire un importante contributo
anche alla giurisdizione subordinata alla legge. Anzitutto,
l’interpretazione e l’argomentazione possono essere considerate gli
atti poetici della applicazione della legge, in quanto si fanno carico
della complessità del reale rivitalizzandola. Inoltre la poesia dà un
fondamentale contributo allo sviluppo della prospettiva ermeneutica.
La poesia, in quanto costante incontro con la realtà, in quanto
persistente fuoriuscita da sé verso la cosa, rafforza la tendenza ad
aprire il testo della legge allo scacco dato dal singolo caso concreto.
La poesia, quindi, induce l’interprete a svilire il testo e a valorizzare il
contesto, o meglio a vitalizzare il testo alla luce del contesto. Detto in
altri termini, la poesia non sta dalla parte della legge, ma del diritto, e
quindi del procedimento ermeneutico che si crea tra fatto e norma,
molto simile a quello della creazione poetica. Ed ancora, la poesia può
offrire un contributo all’attività interpretativa facendone apprendere il
suo segreto. Ed infatti interpretazione giuridica e metafora poetica si
basano su un giudizio di analogia che implica l’assunzione di un
criterio alla luce del quale valutare somiglianze e dissomiglianze.
Infine, la poesia offre un contributo alla responsabilità individuale e
soggettiva del giudice al momento dell’atto di giudicare11. Come ha
scritto Canetti “il piacere di esprimere una sentenza negativa è sempre
inconfondibile. È un piacere duro e crudele, che non si lascia sviare da
nulla”12. Come antidoto, si tratta sia di sapere che noi stessi falliamo,
consapevolezza che si raggiunge attraverso una sorta di atto di
immedesimazione con l’autore dell’illecito che porta alla
11
12
G. ZAGREBELSKY, Intorno alla legge, Torino 2009, 371 ss.
E. CANETTI, Massa e potere, trad. it., in ID., Opere. 1932-1973, Milano1990, 1340 ss.
Poesia e legge
155
comprensione e condivisione del suo dolore; sia di sentirsi in parte
responsabili di quanto commesso dall’autore dell’illecito; sia, e
soprattutto, da un punto di vista poetico, di assumere la prospettiva
valoriale dell’altro e quindi di collocarsi al suo pari senza credere che
la sua posizione sia migliore della nostra, nella consapevolezza che il
mondo non si riduce a una lotta tra le forze del bene e quelle del male,
ma ad un conflitto tra valori tutti legittimi, che colloca colui che sta
giudicando in una posizione non così sopraelevata come si vorrebbe.
b) Diversamente, è in presenza di una interpretazione subordinata
alla legge conforme alla Costituzione che tornano “direttamente” ad
aprirsi ampi spazi per una relazione autenticamente dialettica tra
poesia e legge. Da un lato, infatti, la dimensione costituzionale
attribuisce alla giurisdizione un ruolo completamente diverso, di vera
e propria concorrente nella elaborazione del diritto, potendosi
affermare che essa consente di recuperare a valle, cioè al momento
applicativo, ciò che a monte, da parte del legislatore, è stato trascurato
(o violato), con importanti riflessi anche sullo stesso concetto di
democrazia, da intendersi non più come dominio del legislatore e
della sua volontà maggioritaria, ma come concorso di tutti i poteri,
compreso quello giurisdizionale alla produzione del diritto che deve
essere conforme a Costituzione. Ecco allora che la giurisdizione deve
necessariamente farsi poetica, in quanto deve farsi carico anche delle
istanze diverse che non sono espresse nella legge e che possono avere
rilevanza alla luce della Costituzione.
Dall’altro lato, la dimensione costituzionale attribuisce alla
giurisdizione un ruolo di garanzia, di pluralismo come anche di
unione e di inclusione. Con la conseguenza che quella separazione che
caratterizza inevitabilmente l’atto di giudicare viene “corretta”
attraverso una visione che in un contesto costituzionale si fa
necessariamente inclusiva. L’atto della separazione non può mai
costituire espulsione del soggetto dal contesto sociale, dovendo
sempre preservare un contesto di riconoscimento e accoglimento.
Concludendo si può dire che la poesia non sta dalla parte della
legge, né dalla parte del diritto, ma concorre a determinare un
equilibrio tra queste due prospettive. E proprio questo equilibrio
finisce per essere paradossale poesia. Ed ancora una volta è la poesia
che consente di comprendere questo profilo. Si leggano questi versi di
Paul Celan tratti dalla poesia Parla anche tu:
156
Roberto Bartoli
“Parla anche tu,
parla per ultimo,
dì il tuo verdetto.
Parla.
Ma non dividere il Sì dal No.
Dai anche senso al tuo verdetto:
dagli ombra.
Dagli ombra abbastanza,
dagliene tanta,
quanto tu sai ripartita intorno a te tra
mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte.
Guardati attorno:
vedi come diventa vivo in giro.
Per la morte! Vivo!
Dice il vero, chi dice ombra”.
Narrazione e finzione
nella scienza giuridica moderna
ANTONIO CANTARO
SOMMARIO: 1. Il “fatto”, la norma, il processo. – 2. Tra narrazione e “antinarrazione”. – 3.
“Prima lezione di diritto”. – 4. Le “grandi narrazioni” della scienza giuridica.
1. Il “fatto”, la norma, il processo
1.1. Il diritto ha continuamente a che fare con i “fatti”. I fatti sono
l’abc del mestiere del legislatore e del giurista: il loro pane quotidiano.
Le norme giuridiche sono regole di condotta della vita sociale,
regole che disciplinano i fatti della vita sociale. La loro conoscenza è
il presupposto necessario per l’attività dei legislatori e di tutti coloro
che sono chiamati ad applicare ed interpretare le norme: per
riconoscere e far valere un diritto, per attivare un potere, per essere
sottoposti ad un obbligo, per irrogare una sanzione.
A questo livello elementare i fatti hanno rilievo nella loro “nudità”.
I “discorsi”della scienza giuridica non hanno, tuttavia, ad oggetto solo
i “nudi fatti”. Ma anche, soprattutto, il racconto dei fatti, la loro
rappresentazione e qualificazione: l’abito, insomma, di cui i fatti sono
rivestiti.
Degli esempi, tutt’altro che esaustivi, aiutano ad entrare meglio nel
tema.
1.2. Per la teoria istituzionalista sono i fatti della Storia con la S
maiuscola a produrre le norme dell’ordinamento.
Non tutti i fatti. Ma solo quelli che la teoria rappresenta e qualifica
come fatti normativi. L’instaurazione di un nuovo ordinamento, una
rivoluzione, l’affermarsi di una consuetudine: fatti fondativi.
158
Antonio Cantaro
La Costituzione italiana che pure regola in posizione di supremazia
la vita di tutto il nostro ordinamento è essa stessa il prodotto di fatti
normativi: la caduta del regime fascista, la Resistenza, la
ricostituzione dei partiti politici, la decisione di eleggere una
Assemblea costituente, la scelta della Repubblica con il referendum
del 2 giugno 1946.
1.3. Per il nostro codice civile i danni risarcibili sono
essenzialmente quelli patrimoniali. Una giurisprudenza largamente
affermatasi negli ultimi decenni ha, invece, statuito che va risarcito
anche il danno esistenziale, malgrado esso si riferisca a fatti lesivi
della persona non monetizzabili e astrattamente, quindi, non
qualificabili come patrimoniali.
In questi casi non è la previsione normativa del fatto a
determinarne la rilevanza giuridica. Bensì la rilevanza sociale,
economica e morale che le lesioni al bene dell’esistenza hanno
assunto nell’immaginario collettivo. I giudici fanno, cioè, ricorso a
criteri di valore extranormativi per qualificare un fatto come
giuridicamente rilevante e solo in un secondo momento procedono ad
attribuire un significato nuovo ad una norma presente
nell’ordinamento (art. 2043 del codice civile).
1.4. Gli operatori del diritto hanno quotidianamente a che fare con
l’accertamento della verità dei fatti. Con il racconto che nel processo
viene di essi proposto da pubblici ministeri, avvocati, imputati,
testimoni, giudici. Una pluralità di racconti dello stesso fatto, una
pluralità di abiti che arricchisce e complica il punto di vista con il
quale si guarda al fatto. Ne relativizza la nudità, esaltandone la
dimensione narrativa: il conflitto tra diverse narrazioni del fatto.
L’analogia tra narrazioni immaginarie e narrazioni giudiziali è
tutt’altro che esteriore. Essa attiene alla genesi della storia e al suo
telos.
Sia il racconto letterario che quello giudiziario prendono avvio
dalla violazione di un ordine canonico delle cose1. I protagonisti
dell’uno e dell’altro sono inseriti in una trama ‘destinata’ a porvi
rimedio. Con la sentenza, ripristinando materialmente e/o
1
F. DI DONATO, Una postilla a Conversing in the garden on psychology, culture, law and
narration: an interview with Jerome Bruner, in ISLL Papers-Reviews.
Narrazione e finzione nella scienza giuridica moderna
159
simbolicamente l’ordine giuridico violato. Con il finale dell’opera,
ove l’autore propone al lettore la sua soluzione del “caso”.
1.5. Gli autori di testi letterari, teatrali, cinematografici, sono ben
consapevoli dell’alto tasso di narratività delle storie giudiziarie. E vi
attingono a larghe mani.
Perché non accade l’inverso? Perché la letteratura giuridica
ignora l’alto tasso di normatività dei romanzi, dei racconti teatrali e
cinematografici? Perché nelle Facoltà di Giurisprudenza non si studia
abitualmente letteratura?
La risposta che dà il narrativismo radicale è che i giuristi
sbagliano. Non vedono che anche nel processo ciò che conta non è la
“verità” dei fatti, ma la “bontà” della storia raccontata, la sua
plausibilità, credibilità e persuasività2.
Il narrativista non sbaglia. Dal suo punto di vista, “non esistono
fatti, ma solo “narrazioni”: narrazioni “buone”, quelle persuasive, e
narrazioni “cattive”, quelle non persuasive. Ma anche il giurista
positivista non sbaglia. Dal suo punto di vista, “non esistono
narrazioni buone in sé, ma solo narrazioni fattuali e norme”:
narrazioni veritiere dei casi in discussione e loro riconduzione –
“sussunzione” – alle norme che regolano il caso.
1.6. Le narrazioni letterarie non devono essere costituite da
proposizioni vere, verificabili. La trama immaginaria dei fatti
raccontati ne accresce, anzi, la finalità persuasiva.
Nel processo, al contrario, interessano le narrazione “buone”
soltanto se vere. Le narrazioni “buone”, se false, non servono: anche
una “cattiva” narrazione è accettabile purché i fatti si siano davvero
verificati nella realtà. Il processo non è un concorso letterario che
termina con la scelta, da parte del giudice, della storia narrativamente
migliore, retoricamente più efficace, coerente, credibile3.
La pretesa veritativa delle narrazioni giudiziali è legata ad un
sentimento profondamente radicato nella cultura occidentale. La verità
come condizione necessaria della giustizia, la convinzione che una
2
M. TARUFFO, Il fatto e l’interpretazione, in Rev. Fac. Dir Sul de Minas, 26, 2/2010, 195-
208.
3
Ibidem.
160
Antonio Cantaro
decisione giudiziale basata su una falsa ricostruzione dei fatti sia
profondamente ingiusta4.
Da questo punto di vista, la scienza giuridica in quanto scienza
pratica è assai più esigente con la dimensione narrativa di quanto non
lo sia la letteratura.
I fatti, se non si accede ad una interpretazione ingenua del
sillogismo giudiziale, vengono prima della norma da applicare. Il
cuore del processo è il conflitto tra diverse narrazioni dei fatti, come
dimostra la cruciale funzione epistemica che svolgono le prove nei
“discorsi”e nelle “storie” delle diverse parti.
1.7. Fissiamo una prima linea da questo frammentario excursus sul
rapporto tra “fatti”, norme, storie. Una linea che terrò ferma nel corso
della mia esposizione.
I “discorsi” del diritto sono un mix di “normativo” e “narrativo”.
La pretesa di ridurre il giuridico ad una sola di queste due dimensioni
rischia di impoverirne la funzione e la ricchezza.
La dialettica tra dimensione normativa e dimensione narrativa
caratterizza l’intera esperienza giuridica moderna. La madre di tutte le
questioni è l’equilibrio tra queste due dimensioni.
Il merito del movimento Law and Literature è di aver
esplicitamente tematizzato che il diritto, moderno e postmoderno, vive
in e di questa dialettica. Ma che dire della perentoria affermazione che
‘qualifica’ la letteratura come specchio e metafora superiore del
mondo del diritto?
2. Tra narrazione e “antinarrazione”
2.1. È difficile sottrarsi al fascino di questa suggestione. Il
drammaturgo americano Albert Gurney mette, ad un certo punto, in
bocca al protagonista del suo Love Letters5 queste semplici parole:
“Che cosa sono, in definitiva, le Leggi se non lettere che la società
scrive a se stessa?”.
4
G. TUZET, Diritto e letteratura: finzioni a confronto, in ISSL Papers-Essays.
A.R. GURNEY, Love Letters and two other plays: The golden age and what I did last
summer, New York 1990.
5
Narrazione e finzione nella scienza giuridica moderna
161
C’è del vero dietro questa immagine e dietro la ricorrente
affermazione che il diritto è, in fin dei conti, una storia come le altre.
L’interpretazione del significato veicolato dai segni linguistici6 è la
felice ossessione che accomuna uomini di legge e letterati. E nella
prosa giuridica gli elementi narrativi e retorici giocano un ruolo
tutt’altro che secondario.
Ma c’è di più. C’è che le Leggi per eccellenza dell’età moderna, le
Costituzioni, sono narrazioni all’ennesima potenza. Più che semplici
lettere. Vere e proprie auto-rappresentazioni con le quali ciascuna
comunità politica si racconta e si riconosce come tale.
2.2. Le Carte costituzionali – direbbe Paola Mittica – sono “frutto
di narrazioni al pari di ogni altro prodotto culturale”7.
Dal mio punto di vista esse sono anche qualcos’altro. Sono simboli
e miti di fondazione: “racconti” sulle origini e il destino della polis.
Quando leggiamo una Carta costituzionale noi non pensiamo di
trovarci di fronte ad una legge qualsiasi, ad un regolamento. Una
Costituzione non è un semaforo che meccanicamente ci ordina quando
rallentare, arrestarci, ripartire.
Basta leggere una qualsivoglia Carta costituzionale. Non ci
troveremo mai di fronte ad una architettura esclusivamente tecnica.
Ogni Costituzione avanza sempre la pretesa di progettare il futuro di
una comunità, propone imperativi “etici” diretti a renderla giusta (ad
esempio, quando dice “tutti gli uomini sono uguali”), prescrive come
debbano essere organizzati i rapporti tra i suoi componenti (ad
esempio, quando dice “la sovranità appartiene al popolo”).
La Costituzione è anche un documento giuridico che detta regole,
impone di seguire determinate procedure, attribuisce competenze. Ma
non è solo questo. La Costituzione, prima di essere tutto questo, è un
atto espressivo di valori e miti fondativi che gli appartenenti ad una
comunità vivono come una preziosissima risorsa simbolica, un
tassello decisivo della loro identità collettiva.
2.3. Anche la Costituzione italiana contiene, sin dal suo incipit, un
suo cogente “dover essere”. Ciò che la nostra comunità è
6
R.H. WEISBERG, Diritto e letteratura, in Enciclopedia delle Scienze sociali, Treccani.it.
M.P. MITTICA, Diritto e costruzione narrativa. La connessione tra diritto e letteratura:
spunti per una riflessione, in Tigor. Rivista di scienze della comunicazione, A. II, 1/2010, 14
ss.
7
162
Antonio Cantaro
giuridicamente obbligata ad essere: una Repubblica democratica
fondata sul lavoro.
Ma la nostra Costituzione non si limita a nominare il “dover
essere”. Ancor prima essa nomina sia il soggetto narrante, l’Italia, sia
il presente e il futuro repubblicano, democratico, laburista a cui lo
stesso soggetto narrante si impegna ad ancorare la vita della comunità.
Non solo, dunque, il “dover essere”. Ma ancor prima “l’essere” e il
“poter essere”, avrebbe detto il costituzionalista nord-americano
Robert Cover8.
La formula “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul
lavoro” ha per noi la stessa forza narrativo-normativa del we the
people della Costituzione statunitense. Quella forza di legittimazione,
quasi sacrale, contenuta nel raccontarsi del popolo fondatore,
l’autorità creatrice dell’ordinamento: “Noi, il Popolo degli Stati Uniti
al fine di formare una più perfetta unione, stabilire la giustizia,
assicurare la tranquillità domestica, provvedere alla difesa comune,
promuovere il benessere generale, e assicurare le benedizioni della
libertà a noi stessi e alla nostra prosperità, ordiniamo e istituiamo
questa Costituzione (…)”.
2.4. Questa struttura densamente narrativa dei testi costituzionali è
stata a lungo confinata dalla scienza giuridica nel campo del
“politico”, del “metagiuridico”, del giuridicamente irrilevante9.
Tutto ciò che è “narrativo” è guardato con sospetto e va espulso dal
campo del “normativo”. Un postulato forte, potente, al quale non si
sono sottratte nemmeno le teorie antiformaliste del diritto.
Negli acuti e preziosi Frammenti di un dizionario giuridico, Santi
Romano ha inserito una voce dedicata alla Mitologia giuridica.
L’illustre padre dell’istituzionalismo italiano riconosce alle narrazioni
mitico-costituzionali dell’epoca moderna – libertà, eguaglianza,
8
R. COVER, Nomos e narrazione. Una concezione ebraica del diritto, Torino 2008, 24.
Se per il mondo greco le fonti letterarie – da Omero a Esiodo, dai poemi lirici alla
storiografia, dalle tragedie alle commedie – sono considerate anche – seppur non in modo
esclusivo – fonti giuridiche, per la più ‘evoluta’ civiltà greco-romana si è proceduto a
separare puntigliosamente le ‘fonti’ giuridiche (qualificate come ‘tecniche’) da quelle ‘non
giuridiche’ (significativamente qualificate come ‘atecniche’ o ‘letterarie’). A segnalare
plasticamente una chiarissima gerarchia tra documenti tecnici, considerati attendibili, sicuri,
fondamentali per il mestiere del giurista, e quelli atecnici. Accessori, utili, ma non
indispensabili: e, comunque, da maneggiare con cautela. (E. CANTARELLA, Premessa in AA.
VV., Diritto e teatro in Grecia e a Roma, a cura di E. Cantarella, L. Gagliardi, Milano 2007.
9
Narrazione e finzione nella scienza giuridica moderna
163
nazione, popolo, sovranità, potere costituente – lo “statuto” di concetti
che possono interessare il campo del diritto. Tuttavia, egli avverte
immediatamente il lettore che tali narrazioni vanno considerate alla
stregua di “concetti non ragionati”.
Concetti – precisa Santi Romano – che nascono “dal bisogno di
intendere ciò che non si intende e di esprimerlo con immagini, non
potendo in termini propri”10. Concetti la cui genesi è da ricondurre
interamente alla “politica” e, segnatamente, alla politica delle fasi
rivoluzionarie e costituenti. Concetti destinati, pertanto, ad avere una
limitata influenza nella vita concreta degli ordinamenti ove il “freddo
rigore dei ragionamenti” è destinato a prendere il sopravvento sulle
“suggestioni” e sulle credenze a carattere fideistico11.
3. “Prima lezione di diritto”
3.1. L’espulsione del “narrativo” dal campo del “normativo” è
ancor più marcata quando il discorso si tinge dei “colori” della
10
S. ROMANO, Mitologia giuridica, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano
1993, 127 s.
11
L’espulsione del “narrativo” dal campo del “normativo” non è circoscritta ai miti
costituzionali. A quelli che Romano definiva “universali fantastici” e “immaginazione
favolosa”; Massimo Severo Giannini “concetti inutili”; Hans Kelsen “finzioni giuridiche” e
“illusioni meta politiche” (miti, insomma, nel significato originario di favola e in quello
svalutativo di “non verità” ed “errore” che il termine ha assunto nel linguaggio comune, in
quello ‘adulto’ e ‘razionale’). Un campo altresì paradigmatico di espulsione del “narrativo”
dal campo del “normativo” è quello Dichiarazioni dei Diritti e dei Preamboli che talvolta
precedono il testo delle Carte costituzionali (l’articolato normativo in senso proprio) e nei
quali vengono enunciati i principi-cardine dell’ordinamento, nonché fondamentali criteri
ermeneutici. Nessuno ha, naturalmente, mai contestato la forza narrativa del più noto dei
preamboli, quello sopra richiamato nel testo, della Costituzione americana del 1787. Né lo
straordinario valore simbolico della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789. Larga parte della scienza giuridica europea ha, tuttavia, a lungo
considerato le affermazioni contenute nelle Dichiarazioni dei diritti e nei Preamboli il frutto
di mere opzioni ideologiche e di concezioni filosofico-politiche. Meri proclami privi, in
quanto tali, di valore precettivo. La Francia, in particolare, è stata teatro di una secolare
controversia dottrinaria tra coloro (Carrè de Malberg, Esmein) che negavano il valore
giuridico della Dichiarazione del 1789 e coloro (Duguit, Hauriou) che ritenevano facesse
parte integrante della costituzione e che, pertanto, avesse un valore vincolante per il
legislatore. Mentre per quanto concerne il Preambolo della Costituzione del 1958, il Conseil
constitutionell ne ha riconosciuto la natura precettiva solo nel 1971, facendo rientrare a pieno
titolo nel bloc de constitutionnalitè i principi in esso contenuti, compresi quelli di carattere
sociale.
164
Antonio Cantaro
dogmatica e dell’ermeneutica giuridica. La jurisprudence, in questa
declinazione12, non è una narrazione tra le altre. Non ama confondersi
con le altre narrazioni.
Il suo linguaggio non è quello descrittivo, né quello espressivo,
proprio dell’arte13. Il linguaggio del diritto è quello esclusivamente
prescrittivo del “dover essere”. Il diritto “comanda”. “Dice” quello
che si deve fare e quello che non si può fare nella vita sociale, nelle
relazioni tra gli uomini.
3.2. Gli studenti di primo anno delle Facoltà di Giurisprudenza ne
vengono informati subito. Sin dalla Prima lezione di diritto, come
suggerisce il titolo di un fortunato pamphlet dello storico del diritto
Paolo Grossi14.
Le pagine introduttive di qualsivoglia manuale sono quanto mai
eloquenti. Il diritto è regola di condotta, norma di comportamento. Il
proprium del giuridico è la normalità.
La sua precipua funzione è ripristinare la ‘norma’, la situazione
normale quando essa è stata violata. Ricomponendo, materialmente
e/o simbolicamente, l’ordine infranto, facendo rivivere il “dover
essere”: con un’azione possessoria, con una azione risarcitoria, con
un’azione di annullamento, con l’azione penale.
Anche quando il discorso dei giuristi dogmatici sembra farsi più
arioso, meno arido e angusto, la sostanza del messaggio non cambia.
Cambia la scala del ragionamento, ma lo spartito è lo stesso. Le norme
nel loro insieme – l’ordinamento giuridico – si occupano e si
preoccupano, pur sempre, dell’ordine: di garantire l’ordinata
convivenza della vita sociale nel suo complesso.
3.3. Ora, come sappiamo, nell’ordine non si dà narrazione.
L’incipit di una “buona” narrazione letteraria, teatrale,
cinematografica è, quasi sempre, la violazione di un qualche ordine
canonico delle cose. L’irruzione nella scena dell’imprevisto,
dell’impensato, di qualche elemento di disordine.
12
Per una visione di insieme dei diversi significati di “giurisprudenza” vedi M. TARUFFO,
Giurisprudenza, in Enciclopedia delle Scienze sociali, Treccani.it.
13
A. BARBERA, C. FUSARO, Corso di di diritto pubblico, Bologna 2008, 17.
14
P. GROSSI, Prima lezione di diritto, Bari 2003.
Narrazione e finzione nella scienza giuridica moderna
165
Laddove per la narrazione letteraria l’interruzione di un andamento
regolare delle cose è linfa vitale, per il diritto è esattamente il
contrario. Il diritto moderno vive, assolve la sua funzione e missione,
mettendo fine al disordine.
Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. La normalità, il
tempo del diritto, ha inizio quando la situazione straordinaria è
rimossa, troncata.
3.4. L’ordine nasce dalla paura dell’anarchia, dal disordine. Si
chiami stato di natura, stato di eccezione, il disordine va rimosso.
La lapidaria e fulminante asserzione schmittiana rivela l’acuta e
tragica consapevolezza della grande scienza giuridica circa la natura
assolutamente infondata del diritto moderno. L’ordine politicogiuridico, a partire dall’opera di Thomas Hobbes, non può più fare
appello ad alcun fondamento sostanziale: si chiami esso religione,
tradizione, etica. Auctoritas, non veritas facit legem.
L’espulsione del “narrativo” dal “normativo”, prima ancora di
incardinarsi nella dogmatica, ha la sua genesi più remota e potente nel
‘cielo’ della grande filosofia politica e giuridica, della teoria generale
del diritto.
4. Le “grandi narrazioni” della scienza giuridica
4.1. La vocazione antinarrativa del diritto moderno è sublimata
nelle teorie positiviste e, in particolare, nella teoria normativista di
Hans Kelsen.
La costruzione kelseniana prende esplicitamente le mosse dalla
convinzione che le grandi narrazioni politico-costituzionali della
modernità, introducano una sostanzializzazione dell’ordinamento
strutturalmente incompatibile con il postulato dell’assenza di qualsiasi
fondamento del diritto moderno: “forma pura che nella propria
immediatezza non richiede di essere mediata con alcunché di
extragiuridico”15.
Kelsen vuole emancipare la scienza giuridica dalla “metafisica” e
da ogni residuo teologico e ritiene che solo l’idea del diritto come
pura forma risponda adeguatamente al progetto emancipatorio e
15
G. GALLI, Genealogia della politica, Bologna 1991, 298 ss.
166
Antonio Cantaro
liberatorio della modernità. Il diritto è puro “dover essere”, è puro
comando che in quanto interno ad un ordinamento non esige altra
‘verità’ da sé. Tutto ciò che è fuori dalla norma giuridica è “orrore”,
irrazionalismo, arcaismo, magia, totemismo primitivo.
Paradigmatico, in tal senso, è il “processo” che Kelsen intenta al
“mito” della sovranità. Un processo che si conclude con una sentenza
senza appello: “il concetto di sovranità – dice il giurista della scuola di
Vienna – deve essere radicalmente rimosso, non limitato o
armonizzato o democratizzato”.
4.2. Ma il positivismo giuridico e la teoria normativista sono
veramente immuni dall’horror vacui dell’infondatezza del diritto
moderno? Riescono a pensare e dire il diritto completamente fuori da
ogni narrazione?
In realtà, il positivismo giuridico non kelseniano, pur rifiutando
l’idea che il diritto debba incorporare una morale determinata, non
nega affatto la necessità di una dimensione fondativa, di un “punto di
Archimede” extranormativo incaricato di far vivere il diritto come
forma “giusta” dell’agire sociale.
Questo “punto di Archimede” è il legislatore politico che il
positivismo ha rivestito, a suo modo, di qualità mitiche e sacre.
Rappresentandolo come autore di norme “generali e astratte”, idonee,
per definizione, a fondare ordinamenti giuridici universali, completi,
coerenti, autosufficienti.
La legge come narrazione continua16, come un ‘romanzo’ dal
quale il giurista tecnicamente attrezzato può attingere tutti i significati
necessari alla qualificazione dei fatti della vita sociale. Così come il
lettore attento di una opera è in grado di cogliere le plurali verità dei
grandi testi letterari.
4.3. Il regno della sovranità narrativa del legislatore non è,
certamente, quello del positivismo kelseniano.
La dottrina pura del diritto non ammette narrazioni sovrane
nemmeno nella forma della legge generale e astratta. Il normativismo
vuol troncare ogni residuo rapporto tra “dover essere” (sollen) ed
16
M. MANZIN, L’ordine infranto. Ambiguità e limiti delle narrazioni formali nel diritto
dell’età post-moderna, in Tigor: rivista di scienze della comunicazione, A I, 1/2009, 32.
Narrazione e finzione nella scienza giuridica moderna
167
“essere” (sein) ed elevare la coerenza espressa dal diritto come pura
forma a criterio di esclusiva validità.
Non c’è soggetto narrante nell’ordinamento kelseniano.
L’ordinamento non è necessariamente, come per il positivismo
ottocentesco, l’ordinamento legislativo. L’ordinamento è composto
dalle prescrizioni normative vigenti in un determinato spazio
territoriale e che sono valide in quanto riconosciute tali
dall’ordinamento stesso: le uniche oggettivamente verificabili e con le
quali deve lavorare una scienza empirica come la scienza giuridica.
L’espulsione del “narrativo” dal “normativo” sembra, insomma,
essere totale. La domanda sulle origini del diritto è una domanda
metodologicamente sbagliata per chi ha a cuore l’autonomia della
scienza giuridica e il valore della certezza del diritto al cui servizio
tale autonomia è posta.
4.4. Ma il giurista della scuola di Vienna riesce veramente ad
espellere del tutto dalla sua costruzione la dimensione narrativa?
A ben vedere, neanche Kelsen, può alla fine a fare a meno di un
“punto di Archimede”. L’horror vacui dell’infondatezza del diritto
moderno non risparmia nemmeno la dottrina pura del diritto.
Tramite quella sorta di deus ex machina che è la Grundnorm,
Kelsen reintroduce, infatti, sia pur nella veste di un’ipotesi logicotrascendentale, di una “finzione”, che ricorda quella giusnaturalista
del contratto sociale, un oltre metagiuridico a fondamento della
normatività dell’ordinamento. Un sostituto funzionale dei grandi miti
politico-costituzionali della modernità.
Un sovrano onnipotente e indivisibile – la Grundnorm – che regge
l’intera ‘narrazione? dell’ordinamento a gradi. Ancora una volta,
come è stato detto, un ‘romanzo’. Un romanzo, in questo caso, in
forma di sistema.
La dimensione narrativa cacciata dalla porta rientra dalla finestra.
4.5. La dimensione narrativa del diritto è più nitidamente nominata
nelle due altri grandi teorie che hanno dominato il campo della
scienza giuridica del novecento. L’istituzionalismo e il decisionismo
schmittiano.
La prima, capovolgendo logicamente il paradigma kelseniano
secondo cui è il diritto a fondare la vita sociale, ha individuato nella
società organizzata il fondamento dell’ordinamento. La seconda,
168
Antonio Cantaro
spostando il terreno della ricerca del fondamento sul piano
genealogico, ha individuato nella decisione dell’appropriazione
originaria della Terra – nel nomos – la fonte di legittimazione di ogni
successiva legge e regolamentazione.
Narrazioni, indubbiamente, meno astratte di quella kelseniana, più
in sintonia con l’istintiva percezione che ciascuno di noi ha delle
origini dell’esperienza giuridica. Narrazioni anch’esse controverse e
opinabili, ma che segnalano, comunque, il bisogno profondo di
ancorare i ‘discorsi’ della scienza giuridica a qualche mito fondativo
di carattere ‘sostanziale’, sociologico e genealogico, e non meramente
logico.
4.6. Un’istanza che condivido e che mi fa apparire limitata la
rappresentazione della Costituzione proposta da Luhmann. La
Costituzione come “forma (…) che tronca il regresso infinito della
fondazione”, come forma che “trasforma l’idea secondo cui tutto il
diritto potrebbe essere legittimo o illegittimo nell’idea che tutto il
diritto corrisponda a – o contrasta con – la Costituzione”17.
Il diritto nella sua dimensione dogmatica, ermeneutica e di scienza
pratica può e deve fermarsi a questo livello. A garanzia, innanzitutto,
della legalità e della certezza dell’ordinamento.
Il diritto nella sua dimensione teoretica può e deve andare oltre. La
rappresentazione di un “rapporto con l’originario”, con una “archè”
che fondi l’ordine politico-giuridico, è altrettanto vitale per la ‘salute’
della comunità. Senza la narrazione di un comune destino non si dà
comunicazione e legame sociale.
17
N. LHUMANN, La costituzione come acquisizione evolutiva, in AA. VV., Il Futuro della
costituzione, a cura di G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther, Torino 1996, 83-127.
Ensaio sobre a cegueira.
L’analogia come misura del giuridico
DONATO CARUSI
Uno dei personaggi del romanziere portoghese António Lobo
Antunes così ricorda la Lisbona dei tempi della dittatura:
non ho mai incontrato tanti ciechi come in quell’epoca penosa, ciechi
accostati ai palazzi, ciechi tentennanti sui marciapiedi con la fisarmonica
sulle spalle, ciechi tragici all’uscita dalle quarantore, (…) ciechi minacciosi
che vendevano cianfrusaglie sul sagrato, ciechi orgogliosi, col mento
altezzoso, agli incroci delle strade, donne cieche con in braccio figli ciechi
che non piangevano mai (…).
Attraverso i secoli ed i generi espressivi, la cecità si ripropone
come un’ovvia metafora di insensibilità, di ottusità morale, quindi
anche di arbitrio, di irragionevole sopruso ed ingiustizia. La
ritroviamo in questa chiave, solo per fare un altro esempio, nel
pirotecnico episodio dell’uditore maistre Florian:
avendo dunque ben ruminato il processo contro Quasimodo, rovesciò
indietro la testa e socchiuse gli occhi per apparire più maestoso e imparziale,
col risultato che, in quel momento, era non solo sordo ma anche cieco:
condizione ideale per un giudice perfetto. E diede inizio all’interrogatorio
(…).
Occorre allora domandarsi: perché l’immagine della Giustizia è
spesso, nell’iconografia tradizionale, quella di una dea – o comunque
di una figura – bendata? Non è la cecità indotta da quella benda
piuttosto l’attributo della Fortuna, che con la Giustizia, notoriamente,
intrattiene rapporti difficili? E non sono quegli occhi coperti l’esatta
antitesi dello strumento di precisione che la stessa divinità – talvolta
170
Donato Carusi
perfino in quelle stesse rappresentazioni! – da tempo immemorabile
regge nelle mani?
Può darsi che la benda compaia a titolo caricaturale, per mettere in
berlina – come nella pagina di Hugo – l’esercizio della iuris prudentia
in un certo contesto ambientale oppure – molto più profondamente –
per esprimere l’eterno grido del Trasimaco della Repubblica: la
Giustizia non esiste. Non v’è chi non veda in effetti che l’uomo giusto
– quanto meno colui che si sforza o s’illude d’essere tale –, tanto più
se funzionario della polis, deve vedere: precisamente pre-vedere, se fa
il legislatore; poi riconoscere ciò che è conforme ad un’immagine
(facti species); in generale percepire ciò che qualifica e distingue.
Edìpo si acceca per punirsi di non avere visto. Eppure Tiresia, che
vede molto più lontano, è notoriamente cieco! Nel romanzo di
Saramago1 la cecità è un’immane tragedia, ed anche una tragedia
contagiosa, collettiva, il che è indizio della sua natura metaforica; e
però essa è insieme occasione di segnali di riconoscimento, di episodi
di solidarietà, e a buon titolo il lettore si domanda se dietro l’epilogo
felice – la fine dell’epidemia – non si celi il più pessimistico dei
presagi. Non poche volte, nell’iconografia della Giustizia, la benda
viene in scena senza alcuna ironia. Ciò è perché l’uomo giusto, e a
fortiori il pubblico ufficiale, deve anche essere cieco: non accorgersi
se il precetto o la sentenza che sta pronunziando dia torto a un
familiare e avvantaggi un rivale o un nemico; non sapere se le
ricchezze da riallocare secondo un’istanza di giustizia siano per
avventura, in base ad un iniquo status quo, le proprie ricchezze.
Si direbbe sia esattamente questo il senso del velo d’ignoranza di
kantiana e rawlsiana memoria. Ma forse c’è di più: l’operatore della
giustizia umana deve rivolgersi all’oggetto della propria deliberazione
e insieme sapersene distaccare: se lo considera in tutte le sue
peculiarità, se si fa avvincere dalla sua assoluta individualità, non
potrà mai deciderlo. La giustizia del caso singolo – la pretesa di
svincolare il trattamento del caso concreto da quello di casi simili – è
una pia e pericolosa illusione. Ogni verdetto presuppone che l’oggetto
sia osservato fino a un certo punto, e poi si smetta di guardarlo: il solo
modo di pronunciarsi è proclamare il massimo di ciò che il caso ha in
comune con altri casi, rinunziando ad esplorarlo ulteriormente. Non
1
J. SARAMAGO, Ensaio sobre a cegueira, Lisboa 1995, trad. it. di R. Desti, Cecità, Torino
1996.
Ensaio sobre a cegueira. L’analogia come misura del giuridico
171
l’onniveggenza o l’onniscienza, ma l’analogia è ciò che qualifica il
diritto – la misura del giuridico.
Vedere dunque, e insieme non vedere. Ciò che in quelle
raffigurazioni con benda e bilancia può sembrarci incongruo o
scandaloso, ciò che ci ferisce per l’urto inconcepibile col principio di
non contraddizione, corrisponde a una profonda verità. Vedere e non
vedere, per dire in altro modo pesare e non guardare. Trattare – come
insegna l’Etica a Nicomaco – in modo eguale i simili e diverso i
diversi: il che significa riconoscere nel diverso l’eguale e viceversa.
Dobbiamo astrarre, e però insieme dettagliare: separare mentre
annodiamo, dividere ciò che uniamo, distinguere nell’associare.
La legge – in particolare – è o dovrebbe essere pre-visione:
un’attività in cui noi umani siamo di gran lunga più versati degli altri
animali, e nella quale tuttavia non smettiamo di incontrarci alla nostra
fallibilità e debolezza. Per dover prevedere, per voler prevedere, la
disposizione di legge è uguagliamento di tanti fatti in una fattispecie,
riferimento di un precetto all’immagine di un fatto: per questa via
formulazione – attraverso la parola, e con la certezza dello scritto – di
un pubblico giudizio di valore o disvalore su classi di interessi, quindi
espressione di una scelta politica determinata, cui ben si addice il
nome di sua ratio.
Le parole che servono a tale scopo sono – non si è mai chiarito se
si debba dire: sfortunatamente o grazie al cielo – vaghe. La vaghezza,
plausibile candidata a spiegare ogni forza creativa del linguaggio2, è
un carattere intrinseco, non occasionale, di tutti i segni linguistici:
perciò anche della legge che di segni linguistici è fatta. Non si tratta
solo della vaghezza come polisemìa, propria di larga parte del lessico,
che può essere ridotta da molti accorgimenti disambiguanti; ma anche
e soprattutto della vaghezza relativa ai confini del concetto indicato
dalla parola, i quali in alcun contesto sono mai completamente
determinati. Ciò è piuttosto evidente già per la maggioranza dei
concetti “materiali”: come i linguisti attestano con precise rilevazioni
empiriche, ogni parlante attribuisce confini diversi agli insiemi di
2
Al riguardo è da vedere J.B. WHITE, When Words Loose their Meaning. Constitutions
and Reconstitutions of Language, Character, and Community, Chicago 1984, ora in
traduzione italiana di R. Casertano, Quando le parole perdono il loro significato, Milano
2010 (nostra recensione in Riv. crit. dir. priv., 2010, 499 ss.).
172
Donato Carusi
oggetti denotati dalle parole “tazza”, “veicolo”, “edificio” e così via3.
Questo spiega che si dia ai margini – per così dire – di ogni fattispecie
legale qualche inevitabile zona di incertezza: e questa è la radice di
ciò cui in senso stretto ci si riferisce con le espressioni
“interpretazione estensiva” o “restrittiva”.
L’interprete, peraltro, non si limita ad intendere in senso più o
meno lato parole e fattispecie legali, ma talvolta – molto più spesso di
quanto non si creda – applica precetti al di là della relativa fattispecie,
riferisce precetti a fatti superando (il che non significa ignorando) le
parole della legge. Una lunga scuola di asservimento a ciò che Paolo
Grossi chiama l’idolatria della legge ha educato i giudici di civil law a
dissimulare questo loro ruolo sotto uno spesso strato di sovrastrutture:
a cominciare – ma solo a cominciare – dalle nette opposizioni tra
interpretazione analogica ed “estensiva”, tra norma eccezionale e
“speciale”. Sotto questa bardatura la giurisprudenza ordinaria non si
limita a ius-dicere ma partecipa, con variabile senso di vertigine e
mutevoli atteggiamenti di self-restraint, all’attività di ius-facere. Essa
svolge attività valutativa: valuta differenze in base alla fondamentale
istanza d’eguaglianza – la quale è spinta non solo all’eguagliamento
dei simili, ma alla giustificata distinzione dei diversi; verifica se
fattispecie incluse e escluse da una previsione testuale appaiano uguali
non in assoluto, ma rispetto alla funzione, alla ratio della norma di
legge. La giurisprudenza e la dottrina che ne prepara l’opera si
dedicano in tal modo a ciò che può chiamarsi assimilazione razionale:
sono gli occhi sensibili al nuovo, al particolare e circostanziato, che il
legislatore bendato non aveva potuto o saputo prevedere4.
L’occultamento di questo fondamentale processo sotto le coltri del
concettualismo – ai privatisti si possono ricordare la teoria della causa
“mista” ed il “metodo tipologico”, modi ellittici per giustificare
3
Cfr. da ultimo D. ANTELMI, Vaghezza, definizioni e ideologia nel linguaggio giuridico,
in Il linguaggio giuridico. Prospettive interdisciplinari, a cura di G. Garzone, F. Santulli,
Milano 2008, 89 ss., specialmente 92 s., e sulle “tazze di Labov” F. CASADEI, Significato ed
esperienza. Linguaggio, cognizione, realtà, in Semantica, a cura di D. Gambarara, Roma
1999.
4
A Nicomaco viene insegnato che, mentre “ogni legge è universale”, “non è possibile in
universale prescrivere intorno ad alcune cose particolari”; “quando dunque la legge parli in
generale, ma in concreto avvenga qualcosa che non rientri nell’universale, allora è cosa retta
correggere la lacuna là dove il legislatore ha omesso ed errato”; “e ciò direbbe anche il
legislatore se fosse presente colà, e se avesse prevista la cosa l’avrebbe regolata nella legge”
(Nic., 1137 b 13 ss.).
Ensaio sobre a cegueira. L’analogia come misura del giuridico
173
l’applicazione di norme dettate in riferimento ad uno o più contratti
nominati a contratti atipici – ha luogo per l’eterna suggestione del
diritto come oggetto di conoscenza pura, di rinvenimento e non di
decisione, e non è privo a lungo andare di inconvenienti.
Con gesto liberatorio è ora di prender atto che il dissimulato gioco
dell’analogia ha luogo in perfetta conformità col paradigma moderno,
illuminista, democratico della legge. L’art. 12 delle “Disposizioni
sulla legge in generale”, dopo avere affermato il vincolo
dell’interprete alla lettera del testo, aggiunge che egli deve anche por
mente all’“intenzione del legislatore” e sforzarsi di darvi attuazione.
Ora si dà il caso che la legge sia di fatto – e a molto maggior ragione
nel filone di pensiero gius-politico da cui la formula dell’art. 12 è
mutuata – il prodotto di procedure mirate a realizzare tra tanti giudizi
di opportunità e di valore una forma di sintesi per selezione e
mediazione, dunque l’individuo artefice delle sue disposizioni una
figura mitica e fittizia. Non potendo stare per alcuna effettiva,
psicologica “volontà”, l’espressione “intenzione del legislatore”
assume il senso obbligato di una metafora. In base all’art. 12 l’opera
dell’interprete è vincolata per l’appunto al valore dell’eguaglianza,
alla supposizione di un “legislatore ragionevole”, dalla cui volontà
esulino disparità di trattamento fini a se stesse. In termini meno
ingenuamente volontaristici, è richiesto al giudice di figurarsi e
amministrare il complesso delle disposizioni legislative vigenti come
immune da discriminazioni che non appaiano, in base ad obiettive
differenze tra fattispecie, giustificabili.
Cade dunque – per dire sempre con Grossi – un primo idolo: non è
affatto vero che il presupposto obbligato del ragionamento analogico
sia la lacuna in senso formale, cui si riferisce il comma 2 dell’art. 12.
Si potrebbe riassumere in questo modo (e così riassumendo, tra le
altre cose, mettere in questione la netta contrapposizione tra civil law
e common law): secondo il paradigma della legge le scelte politiche
“primarie”, sostantive, spettano al legislatore, e l’interprete non ha
legittimazione a sovrapporre ad esse scelte proprie; l’affermazione
della primazìa della legge resta però coerente con la propria funzione
isonomica, democratica, solo in virtù di un compromesso, in base al
quale la iuris-dictio non è, né ha da essere, mera sussunzione, bensì
174
Donato Carusi
attività valutativa disciplinata: avvinta a una traccia, a un “binario”
argomentativo obbligato, che precisamente consiste nell’eguaglianza5.
L’argomento analogico, per essere portato a conseguenze
operative, richiede oltre alla conoscenza delle norme un “supplemento
di intenzionalità”, e diciamo pure di volontà (ius-facere appunto, e
non soltanto ius-dicere). Questo supplemento si fa tanto più
avvertibile quanto l’analogia sia stabilita a un livello elevato di
generalizzazione: al crescere di tal livello – senonché – diventa più
agevole il rinvenimento di argomenti capaci di giustificare – anziché
la generalizzazione – la distinzione, e per questo più remote le
probabilità che l’assimilazione proposta abbia successo tra i giudici, o
anche tra i legislatori del futuro. Che la differenza tra argomentazioni
analogiche ricevibili o irricevibili si sveli largamente come una
differenza di grado può non piacere ai custodi del normativismo
legalistico, ma autorizza a dire con eco di Habermas che i sistemi
giuridici basati sul paradigma della legge veramente si presentano
idealmente, e sempre più dovrebbero di fatto atteggiarsi, come un
esercizio collettivo, progressivo e continuo, della ragione discorsiva.
Nulla di meno, e nulla più di questo: un esercizio organizzato secondo
modalità convenzionali, che la storia ha selezionate in forme non
esattamente coincidenti, e però affini nella gran parte dei Paesi
europei. Del modo italiano fa parte la sovrapposizione al canale
diffuso della giurisprudenza ordinaria di uno accentrato, nel quale alle
applicazioni estensiva e restrittiva – in senso lato – della legge fanno
riscontro le decisioni manipolative della Corte costituzionale, basate
su un giudizio dalla struttura identica e solo dotate di effetti più
incisivi.
Della massima importanza è ancora aggiungere che ogni
disposizione di legge – in quanto generale ed astratta, e istituente
insomma connessione tra una fattispecie ed un precetto – condivide la
predisposizione allo sviluppo per assimilazione razionale, e la
necessità di tale sviluppo al cospetto delle mille occorrenze del reale:
il che non è men vero per le disposizioni deroganti ad altre. Anche
5
Su tutto ciò più diffusamente D. CARUSI, L’ordine naturale delle cose, Torino 2011, 339
ss.; ID., Principio di differenziazione e categorie giuridiche (l’Unione europea, l’eguaglianza,
il paradigma della legge), in Rass. dir. civ., 2010 e in AA. VV., Diritto comunitario e sistemi
nazionali: pluralità delle fonti e unitarietà degli ordinamenti, Atti del IV Convegno
Nazionale S.I.S.Di.C., Napoli 2010, 147 ss.
Ensaio sobre a cegueira. L’analogia come misura del giuridico
175
questo, a saper leggere, si trova scritto nella legge, e con ciò crolla un
altro mito: non è vero che della norma che fa eccezione – come tale –
sia vietato lo svolgimento per analogia6. C’è infatti un solo modo di
riconoscere l’espressione dell’art. 14 delle Preleggi “oltre i casi ed i
tempi in esse previsti” come non pleonastica ma specificamente
funzionale, ed esso consiste nell’attribuirle il ruolo di selezionare,
come oggetto del riferimento alle “leggi eccezionali”, disposizioni
legali preordinate a rilevanza temporanea, cioè ad essere applicate ad
uno o anche a molti casi specificamente determinati: insomma, a
disposizioni più o meno palesemente prive dei caratteri di generalità
ed astrattezza, formulate con la tecnica del privilegio o – direbbe un
logico – della definizione estensiva. Disposizioni di tal fatta sono per
loro natura “opache” quanto alla giustificazione proprio perché non
enunciano i caratteri comuni dei casi cui pretendono d’essere
applicate. In queste ipotesi è come se il legislatore puntasse il dito
verso alcuni casi: la disposizione non rivela perché il dito è stato
puntato in una direzione anziché in un’altra: essa è perciò
strutturalmente inidonea a esprimere una ratio, dunque insuscettibile
di alimentare i circuiti istituzionali dell’assimilazione razionale ed in
6
Emblematica al riguardo una vecchia pronuncia della nostra Corte costituzionale (6
luglio 2001, n. 227, in Giur. cost., 2001, 2026 ss., con nota di R. Guastini), concernente
l’esenzione degli atti processuali relativi a controversie individuali di lavoro – e di tutti gli atti
e documenti relativi all’esecuzione di decisioni emesse nelle stesse controversie – dal
pagamento di ogni “tassa o diritto” di “qualsiasi specie e natura”. Un Tribunale solleva
questione di legittimità della relativa disposizione in relazione all’art. 3 Cost., per non
prevedere essa il medesimo regime di favore in relazione ai giudizi aventi ad oggetto azioni
revocatorie promosse a tutela di crediti di lavoro. La Corte dichiara la questione infondata
non già perché assimilare, ai fini dell’esenzione fiscale, l’azione revocatoria a tutela di crediti
di lavoro a quelle menzionate dalla norma le paia poco convincente, ma al contrario perché
ritiene che tale assimilazione si imponga con evidenza palmare. Con dispositivo
relativamente inconsueto, la Corte afferma dunque che l’art. 10 della legge 553/1973 deve
essere interpretato estensivamente, “sì da fare rientrare nell’ambito dell’esenzione anche
procedimenti non formalmente contemplati ma pur sempre finalizzati alla tutela del credito di
lavoro”: poiché “una diversa lettura (…) rivelerebbe (…) una radicale incoerenza interna alla
norma, fonte di irragionevoli disparità di trattamento”. Uno dei molti motivi di interesse di
questa sentenza consiste nel fatto che l’operazione che il giudice a quo e tutti gli altri giudici
sono chiamati a compiere vi è chiamata interpretazione estensiva pur consistendo non nella
scelta – tra due possibili significati di una stessa espressione – del più ampio, ma in un
superamento della lettera della legge: poiché, con ogni insopprimibile margine di ambiguità
delle parole, in alcun modo “controversia di lavoro” e “azione esecutiva” possono significare
“azione revocatoria”. Quel che poi qui più direttamente interessa è che la sentenza predichi –
con tutta evidenza – la necessità di interpretazione ultra litteram di una norma di legge
derogante ad altra.
176
Donato Carusi
tal senso incapace di riduzione, con le leggi in senso proprio, a
sistema.
Tutto questo è ciò che risulta dalla legge vigente. Soffermiamoci
adesso per un momento su ciò che vediamo, anche per effetto del
lungo asservimento all’idolatria della legge, nella realtà fattuale che ci
circonda. I nostri legislatori moltiplicano le norme con struttura di
privilegio, o peggio ancora – travestendo il privilegio da norma
generale – offendono ogni senso di consequenzialità della legge,
recano oltraggio sistematico al suo ideale paradigma. Essi
moltiplicano per altro verso le disposizioni evasive, generiche,
elastiche. Dopo il diritto mite, la dottrina teorizza quello liquido, poi
quello arbitrario, senza unità, del tutto indifferente ai contenuti. Non
mostrando il più vago sentore del fatto che la discrezionalità
giudiziaria è di regola vincolata all’eguaglianza, cioè all’analogia, si
indica il proprium delle clausole generali – invece che nell’assegnare
al giudice un qualche criterio di decisione sostantivo, come tale
diverso dall’eguaglianza –, nel consentire il ricorso a più parametri di
giudizio tra loro alternativi! Più che di pluralismo è qui questione di
totale incertezza e imprevedibilità dei responsa, va in fumo la
fondamentale unità del soggetto di diritto e del sistema di regole che
qualifica i suoi comportamenti: non esattamente ciò di cui abbiamo
bisogno nelle odierne società plurali. Se i giudici del nostro tempo si
sentono – talvolta con superbia, più spesso con disagio – chiamati a
scegliere valori sostantivi; se va di moda – più che il nichilismo, che è
parola spesso mal compresa – il più assoluto cinismo; se i diritti
assumono le sembianze di briscole, carte vincenti sulle regole del
gioco; se la rappresentanza democratica versa in crisi gravissima: tutto
ciò è possibile per la precisa ragione che nella polis odierna l’analogia
è in disarmo, infiacchita la nostra capacità di creare nessi e
argomentare distinzioni.
I grandi mezzi di comunicazione di massa pongono al giorno
d’oggi tutti gli oggetti sotto il nostro sguardo: grazie al satellite e al
computer, siamo in grado di vedere ogni cosa fino nei minimi dettagli.
Per converso però, più che in qualunque epoca storica, noi stentiamo
ad attribuire alle cose un significato che ci riguardi, a inserire ciò che
vediamo nella nostra rete di fini ed interessi. Siamo bombardati da
immagini che passano – questo è l’appropriato tecnicismo degli
editors televisivi – non per darci accesso alla realtà, ma al preciso fine
Ensaio sobre a cegueira. L’analogia come misura del giuridico
177
di farci schermo da essa. Sempre più spesso si tratta, e si tratterà in
futuro, di immagini non analogiche, ma virtuali: i nostri figli si
commuovono poco per le vittime dello tsunami, moltissimo per la
morte dei tamagochi. La crisi della politica e della cultura della legge
è certo un portato di fenomeni fatali, come il travaglio e il
ridimensionamento della forma-Stato nell’era della globalizzazione.
Ma insieme a questo ed al di là di questo è anche questione di
illanguidimento delle nostre facoltà combinatorie, della nostra
capacità di creare significati, di investire di senso le cose che ci
circondano – quelle che ci aggradano e quelle che non ci aggradano.
L’uomo di governo di gran lunga più influente degli ultimi
vent’anni di storia patria ha parlato più volte ed ancora recentemente
degli avversari politici come di soggetti “antropologicamente
differenti”. V’è tutto all’opposto chi costruisce le proprie fortune
mediatiche sul disarmante slogan che “tutti i politici sono uguali”. Noi
rischiamo di non saper più riconoscere l’eguale a noi nel diverso, né
distinguere il diverso nel calderone dell’eguale. Tutto questo sarà
anche nell’ordine delle cose: ma si può farvi fronte, se lo si vuole, a
costo di un impegno diffuso su molti livelli. Ad esempio con la difesa
e la promozione della cultura umanistica – che è senso critico e
capacità di ragionare – nella formazione scolastica e universitaria7;
quindi con la pratica e con la fruizione della narrativa, di per sé volta
alla comprensione dell’altro, all’esercizio dell’immaginazione, e con
ciò anche alla costante revisione dei modelli di comportamento
tramandati8; e ancora rivolgendo ai tecnici del giure l’invito a non
cullarsi nelle lusinghe di autoconsistenza delle loro discipline, a
paventare gli eccessi del formalismo, dello specialismo, del
concettualismo – a stare insomma “più vicini ai fatti”.
“Diritto e letteratura” significa – per conto nostro – soprattutto
questo: impegno a non perdere il contatto con la struttura
essenzialmente analogica, come d’ogni processo conoscitivo, anche
della morale, del diritto, delle istanze di giustizia; un’insegna del
contrasto al pensiero facile, alla banalizzazione ed omologazione delle
7
Sul punto è da vedere ora M.C. NUSSBAUM, Not for Profit. Why Democracy Needs the
Humanities, Princeton 2010, trad. it. di R. Falcioni, Non per profitto, Bologna 2011.
8
Cfr. M.C. NUSSBAUM, Poetic Justice: the Literary Imagination and Public Life, Boston
1995, trad. it. di G. Bettini, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile,
Milano 1996; W.C. BOOTH, The Company We Keep: An Ethics of Fiction, Berkeley 1988.
178
Donato Carusi
rappresentazioni e delle idee, ed insomma a tutto quanto fa gioco al
potere, con le sue perenni ambizioni d’autoconservazione e di
autoreferenzialità. Abdicando a tale impegno finiremo presto o tardi
per sorprenderci della somiglianza tra la nostra e la città descritta da
Lobo Antunes:
“(…) ciechi ubriachi che barcollavano fra le piccole palme delle osterie, ciechi
che si bloccavano nell’aria, come angeli, appesi ai parapioggia aperti, ciechi,
mendicanti e zingari su carri usurati dai mille cammini del mondo, in cerca di un
terreno dove piantare la tenda, ma soprattutto ciechi che fissavano il nulla con la
bruma delle pupille, migliaia di ciechi nei vicoli, nelle traverse, nelle piazze, nei
cortili di casette basse con botteghe di calzolai e fabbri, ciechi che bevevano acqua
negli abbeveratoi delle mule, ciechi che parlavano tra loro del proprio mondo di
ombre, (…) ciechi che ci suonavano al portone o vagavano nell’erba, sbagliando
direzione (…)”9.
9
A. LOBO ANTUNES, A ordem natural das coisas, Lisboa 1992, trad. it. di R. Desti,
L’ordine naturale delle cose, Milano 2001, 45 s.
“La verità, vi prego, sull’amore”.
A proposito dell’educazione giuridica
FELICE CASUCCI
“Ho bisogno degli uomini, del loro giudizio
ma non mi consegno ad essi
perché la mia condizione è libera”
I. Il diritto, come noi oggi lo conosciamo, è destinato ad
un’emorragia di senso compiuto, ed è destinato a vedere questo stato
di malferma salute aggravarsi considerevolmente. Il rischio più acuto
è quello di scorgere questa costruzione umana muoversi su versanti di
drammatica disumanizzazione. Le ragioni di tale allarmante stato di
cose sono ascrivibili a tre ordini di fattori (che qui si indicano nella
loro “estremità”): 1) il formalismo concettuale e anaffettivo della
legge; 2) il burocratismo ideologizzato e professionalizzato, che cerca
e trova alleati sul fronte giurisdizionale; 3) il culturalismo insolvente
della dottrina.
Tra le sfrenatezze del libero mercato e i simboli impellenti e vuoti
del potere autoritario vi è pieno e indisturbato consenso. La
cittadinanza è l’anello debole, ma necessario, della catena. La sua
lingua, costituente la democrazia originaria, attende un riscatto che
non riceve, perché le parole e i segni del vivere, che da sempre le
appartengono, sono espunti dal linguaggio convenzionale e
conservativo, ossia da quello che è diventato il linguaggio stilizzato e
inerte del diritto, sempre come noi oggi (ahimè!) lo conosciamo: un
diritto eluso dalla diseducazione ad esso.
Non resta che un ritorno alla realtà metaforizzata della letteratura
per cogliere, se non comprendere, il labirinto di simboli nel quale
siamo finiti e lo sfruttamento di cui siamo, per ragioni occasionali, le
vittime prescelte. La spallata da dare deve essere forte per abbattere il
muro d’indifferenza che ha isolato gli uomini dal proprio destino. Va
data voce ai muti e vista ai ciechi. Dove trovare gli strumenti per una
così ardita sfida? Nel miracolo, ancora integro, del silenzio giuridico,
ossia in tutto ciò che è taciuto, in tutti coloro che tacciono. Stupore,
180
Felice Casucci
ammirazione, cura di elementi difformi e dispersi, rifiuti organici,
shock. E ciò per non subire il trito e ritrito di un’abitudine edulcorata
alla sopraffazione. Il diritto è letteratura in azione; quest’ultima,
svelando gli alibi del diritto, lo consegna nelle mani del “popolo”, a
cui appartiene per nascita (in argomento, soprattutto, il bellissimo
libro di un magistrato e scrittore irpino, Dante Troisi (1920-1989),
Diario di un giudice, del 1962, che fu al centro di un clamoroso caso
giudiziario).
Il poeta Josif Brodskij (1940-1996) – che nel decennale della morte
del poeta inglese Wystan Hugh Auden (1907-1973), la prima persona
che cercò in occidente dopo l’abbandono della Russia nel giugno
1972, pronunciò la mirabile orazione funebre “per compiacere
un’ombra” – è stato cantore di un’Europa riflessa nel clima
alessandrino della sua Pietroburgo, campione con Puškin e
Mandel’štam di quel che si è correttamente definito un mondo
straniato, un “classicismo allucinatorio” (Giovanni Buttafava): il suo
luogo-non luogo non lascia adito a dubbi, è l’esilio (in cui ha già fatto
qualche incursione, nel 2008, il nostro: Etica Letteratura Diritto),
quadrato esistenziale nel quale il linguaggio trasfigurante e omissivo
della letteratura tenta di ritrovare quel che la fuga da se stessi ha
abbandonato. Scriveva il poeta russo nel 1972, a proposito di una
“farfalla”: “Così la penna va / sopra la carta liscia / di un quaderno, e
non sa / come finisce / ogni sua riga, / dove si mescolano / saggezza
ed idiozia / ma si fida dei moti della mano, / nelle cui dita batte la
parola / del tutto muta, / senza togliere polline dai fiori, / ma facendo
più lieve il cuore”. Nel generale non senso degli automatismi giuridici
– i chiavistelli della norma, denunciati da interpreti disorientanti di
opposta estrazione – la pretesa “mitezza” del diritto conduce, senza
neppure grandi tappe intermedie, alla violenza schmittiana, e nutre la
bestia che lo divora. Sia fatta salva, almeno, un po’ di leggerezza!
Leggerezza strappata al cuore e silenzio della parola, per attraversare
il ponte assai stretto della realtà. Si tratta di un’unica storia, che (solo)
apparentemente ha poco a che vedere con il diritto, e che accomuna
Brodskij alla Achmatova (1889-1966), di cui egli era il delfino, e alla
Cvetaeva (1892-1941). Quest’ultima, la celebre moscovita peregrina,
è colei che conobbe il Tartaro (recte, la Repubblica Tartara, in cui
morì suicida il 31 agosto del 1941, e il luogo-non luogo mitologico,
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
181
origine e destinazione profondissima del mondo, posto al di sotto
degli stessi Inferi) quando Brodskij era da poco nato e che scrisse,
nell’aprile del 1923, del “poeta” che lega i “dispersi anelli della
casualità” e non sa cosa fare “in un mondo dove il più nero è grigio”,
dove “conservano l’ispirazione come in un thermos”: il “poeta”,
personalità interrogante e sempre inadeguata, con la sua “smisuratezza
in un mondo di misure”. La “misura” della perdita che tocca l’uomo
resta incolmabile, anche se per Brodskij “le poesie di Auden rendono
più accettabile questa vita”, ponendosi apertamente contro la
“disonestà” intellettuale, che concilia l’inconciliabile, aiutando il
lettore – a cui viene generosamente incontro in ognuno dei suoi versi
– a sentire quanto egli è “umano”, fino a che punto egli può farcela; e,
per compiere un tale miracolo (silenzioso) di stile e di misericordia,
“il più grande poeta inglese” del XX secolo (sempre secondo
Brodskij, il cui giudizio ci vede del tutto concordi) chiede, negli anni
trenta dello scorso secolo, con tono severo (neppure accorato) “La
verità, vi prego, sull’amore”, nonostante che i “manuali di storia” ce
ne parlino soltanto “in qualche noticina misteriosa”. In fondo, per
Brodskij, una “buona lirica è l’unica assicurazione che un
soccombente riesce a riscuotere”, il risarcimento di una pietra per un
muro distrutto dalla Storia, scritta per lo più da interpreti infedeli alla
“verità sull’amore”. La poesia serve a questo, a immaginare tasselli
immateriali nel vuoto materiale, sospinta dalla forza di Amore,
mitologicamente inteso. L’amore è un Dio è il titolo di un’opera
recente di Eva Cantarella, una forza suprema che scopre le membra
della vita. Dalla finestra del “classicismo allucinatorio”, alla quale ci
siamo solo accostati, è possibile scorgere l’incolmabile “misura” della
perdita del mondo proprio, l’esilio, come l’amaro frutto dell’albero
della vita: quel che conquistiamo, nel vivere, è perdita continua di noi
stessi, della nostra autentica natura, della nostra possibilità d’essere
felici. La “verità sull’amore”, alla quale ci induce la migliore
letteratura, ristora il nostro cuore esiliato per la perdita, senza misura,
di un’origine solo intravista. Restituisce al “bene”, al fare il “bene”,
gli uni per gli altri, il nostro compito di uomini.
“Noi” giuristi, che della “misura” facciamo, o dovremmo fare, un
mestiere (si pensi alla recente lezione magistrale tenuta il 15 marzo
2010 presso l’Accademia Pontaniana da Antonio Gambaro dal titolo
182
Felice Casucci
Misurare il diritto?), guidati dalla febbrile attenzione poetica di
Auden, derogando alle regole della Storia, ossia ad uno degli archetipi
della comparazione giuridica, cerchiamo di risalire controcorrente
(l’Amore, come ci insegna lo scrittore belga Georges Simenon (19031989), può sprigionare gas venefici nel chiuso delle stanze del diritto:
il diritto non sa “misurare” né capire l’amore, che pur condanna, come
nel delitto passionale di Lettera al mio giudice, del 1951) all’etimo
(dal greco étymon, neutro sostantivato dell’aggettivo étymos, “vero”)
della parola Amore, nella veste personificata e divinizzata dalla
mitologia classica, per scoprire la “pietra bruta” dell’invocata verità
poetica. Eros è il dio dell’Amore, uscito, nelle più risalenti teogonie,
dal Caos primitivo, dall’Uovo primordiale, che crepita di sangue sulle
pareti interne dell’arteria universale. Eros, secondo la sacerdotessa
Diotima, nel Convito di Platone, non è uno degli dèi relegati
nell’altrove sensitivo, ma un “demone”, intermediario tra gli dèi e gli
uomini, nato dall’unione di Poro (L’Espediente) e di Penia (la
Povertà), sempre alla ricerca del suo oggetto, come Povertà, e capace
di giungere con ogni mezzo al suo scopo, come Espediente. Eros è,
dunque, per Platone, una forza “insoddisfatta e inquieta” (Pierre
Grimal), ma è anche una forza smisurata e ubiqua. I poeti (si pensi a
quelli alessandrini) lo descrivono come un bambino, spesso alato,
apparentemente innocuo, che “gioca con le noci” o “viene a disputa”
con altri fanciulli divini, seppure capace di infiammare con la torcia e
di ferire con le frecce, al punto da essere temuto da tutti, uomini e dei,
anche dalla propria stessa madre. Nella famosa leggenda di Psiche
(eroina di cui ci parla Apuleio nelle Metamorfosi), il lieto fine non
toglie spessore alle oscure evoluzioni del racconto, per quella
presenza assente di Amore nel palazzo pieno di voci nel quale Psiche,
di giorno, è sempre sola, mentre, di notte, gode di una compagnia che
le è preclusa alla vista. Amore, lo “smisurato” Amore, è rito segreto di
ogni uomo, da quell’ombra fa tesoro del suo fermento,
avvantaggiandosi sul diritto, che trascina con sé per breve tratto,
prima d’esserne sopraffatto.
Nelle sue Lettere a un giovane poeta Rainer Maria Rilke (18751926) scrive a Parigi, nel febbraio 1903: “la maggior parte degli
avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola
ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
183
esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce perdura”; e
ancora, a Viareggio, nell’aprile dello stesso anno: “nelle cose più
profonde e importanti noi siamo indicibilmente soli”; e, in un’altra
lettera dello stesso mese, scritta nello stesso luogo: “Le opere d’arte
sono di un’indicibile solitudine e nulla le può raggiungere poco
quanto la critica. Solo l’amore le può abbracciare e tenere ed essere
giusto verso di esse”. Per essere all’altezza di questo Amore, che tutto
comprende e ricomprende, Rilke ci invita a penetrare in noi stessi,
nell’ora più silenziosa della notte, scavarci dentro una più profonda
risposta. E ci ammonisce a non dare la colpa alla vita quotidiana, se ci
sembra misera, ma ad accusare noi stessi che non riusciamo a vederne
la ricchezza: “per un creatore – ndr., il giurista lo è, sia pure a fini
eminentemente pratici – non esiste povertà né luoghi poveri e
indifferenti”. Ogni occasione può aprirlo, temprarlo e trasformarlo,
per fare della solitudine della conoscenza e di quella, altrettanto
dolorosa, dell’esperienza “una dimora avvolta in un lume di
crepuscolo”. Penetrare in se stessi comporterà, per il giurista come per
il poeta, l’accoglienza di un suono nuovo, prima che la ragione lo
interpreti e lo modifichi. Così si studia, così si apprende, calando nel
nostro “più intimo sentimento” l’ora della “verità sull’amore”. La
domanda ultima del giurista che auspichiamo, in cerca di questa
“verità”, trova quel che cerca, come sostiene Auden, “persino
scribacchiato sul retro degli orari ferroviari”, perché la sua sottile
sagoma, a dispetto di certa scolastica, ricalca, intende ricalcare
emozioni e passioni, che non si possono tirar via, come i colori
dall’iride: egli suona l’armonica improvvisa che il cuore gli detta, ma
nessuno può ascoltarlo se non è educato a farlo. Johann Wolfgang
Goethe (1749-1832) scandisce il “monito” di un ben temperato
silenzio: “Il giorno del giudizio, quando le trombe squilleranno / e non
resterà traccia di vita terrena, / saremo tenuti a render conto d’ogni /
parola che ci sia sfuggita invano”. Il poeta educa il giurista al silenzio
delle parole, al grido delle coscienze. Si tratta di figure omologhe
operanti su versanti diversi nel mondo della creatività culturale: non
possono rimanere disgiunte dopo la fine della razionalità lineare e del
sapere cumulativo. “La realtà può essere compresa solo a partire dai
suoi estremi” (Gli impiegati, del 1929). Con queste parole dello
scrittore tedesco Siegfried Kracauer (1889-1966), il tema “estremo”,
184
Felice Casucci
anche se “sotto gli occhi di tutti”, diviene “invisibile” e sfugge
all’osservazione diretta, come nella versione datane da Edgar Allan
Poe (1809-1849) in La lettera rubata (1845), il terzo racconto
poliziesco dello scrittore americano, citato da Leonardo Sciascia
(1921-1989) nel romanzo Todo modo, del 1974, dove ugualmente si
ricostruisce una verità “sotto gli occhi di tutti”, alla quale, proprio per
questo, nessuno crede. Così ha inizio il libro di Franco Rella, Il
silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, del 1981, nel
quale filosofia e poesia svelano segreti inconfessabili ai giuristi. Il
silenzio del diritto non è omertà, ma il seggio su cui l’Amore
“smisurato” siede in forma di regale continenza e trova le parole della
Giustizia.
Lo scrittore algerino Albert Camus (1913-1960), nella sua
celeberrima opera del 1951, L’uomo in rivolta, quella che determinò
la rottura dei rapporti di amicizia con Jean-Paul Sartre (1905-1980), ci
mette in guardia contro un amore per l’uomo che giustifica i massacri,
contro una libertà sotto i cui vessilli sfilano gli schiavi dei campi,
contro un sogno di “super-umanità”. Egli afferma: “Il giorno in cui il
delitto si adorna delle spoglie dell’innocenza, quella cui viene
intimato di fornire le proprie giustificazioni, per una curiosa
inversione propria al nostro tempo, è l’innocenza stessa”. Di questo
dobbiamo tener conto. Tuttavia, non possiamo cadere – per il timore
di aprirci troppo, da giuristi, ad un sistema di valori tenuti insieme dal
sentimento d’Amore, che corrisponde, in termini giuridici, al
sentimento di Giustizia (senza voler giungere ad evocare l’esperienza
delle Corti d’amore della poesia medievale, specialmente provenzale)
– nel nichilismo morale di un Trasimaco, il contraddittore di Socrate
nella Repubblica di Platone, ovvero dar troppo credito all’utilitarismo
del “maggior numero” di Jeremy Bentham (Introduzione ai principi
della morale e della legislazione, del 1789), di cui aveva già parlato in
Italia Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, del 1764), o addirittura
credere ad una “immoralità necessaria” (Massimo Nobili), sia pure
giustificata dal citazionismo letterario, linguistico e delle arti
figurative: la denuncia di un male non può fornire argomenti in suo
favore. Nel pieno della nostra tradizione culturale c’è Agostino di
Ippona (354-430), che nel suo La Città di Dio (composto tra il 413 e il
426-427) già ci avvertiva che l’assenza di emozioni costituisce nella
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
185
nostra vita qualcosa di sbagliato: “L’assoluta impermeabilità al
dolore, finché ci troviamo in questo luogo di miseria, come capì e
disse anche un letterato profano, certamente si ottiene a caro prezzo,
l’inumanità dell’animo e l’inerzia del corpo (…) se la corretta
definizione di apàtheia è l’immunità totale dell’anima da qualsiasi
sentimento, chi non giudicherà questa inerzia il peggiore di tutti i
difetti?”. Gustavo Zagrebesky, notissimo giurista contemporaneo
(ideatore del “diritto mite”), sostiene nel suo saggio Sulla giustizia
(contenuto nel volume Intorno alla legge. Il diritto come dimensione
del vivere comune, del 2009) che: “Con sentimento, si può intendere e
qui si intende il consolidamento di emozioni o, detto diversamente, la
struttura emozionale consolidata di un individuo o di un gruppo di
individui”. Più avanti: “Le reazioni emotive hanno valore cognitivo e
valutativo. Sono un modo di giudicare…esse costituiscono certamente
un modo diretto, immediato e intenso di prendere posizione di fronte
agli eventi, esterni e interni, della nostra esistenza, separandoli gli uni
dagli altri”. Ancora: “le emozioni, consolidate in un sentimento
costituiscono una base di stabilità nell’esistenza morale”. In aggiunta:
“La ragione che disputa sui fini e sui valori è distruttiva di concordia
(…) Per questo, è tanto più necessaria una comune e solida base
emozionale, come condizione per l’esistenza stessa di uno spirito
pubblico e, quindi, perfino di una società. E tanto più sana essa sarà,
tanto più sarà sano quello spirito (…). In assenza di reazioni
emozionali, si è pronti a subire qualsiasi cosa. E non solo a subire, ma
anche a fare. Senza emozioni consolidate in sentimenti collettivi,
siamo privi di radici profonde e senza radici è possibile il male” (e la
sua “banale” epidemia: qui la citazione della filosofa tedesca Hannah
Arendt (1906-1975) è d’obbligo). Per Zagrebelsky, ragione e
sentimento sono intimamente connessi, “possono applicarsi ai
medesimi eventi, pur cogliendone lati diversi”, presentano un
“minimo fondamento” che vincola l’una all’altro. Egli si chiede: “La
sofferenza dell’innocente, la lacrima di un bambino, possono stare in
bilancia con il bene dell’umanità?”. La risposta che egli offre
“naturalmente, è no. Il bene non può consapevolmente fondarsi sul
male”. Ciò che non ci vede concordi con l’Autore da ultimo citato è,
tuttavia, che siamo ancora al di qua del limite, non siamo già nella
fase del disfacimento delle coscienze e della indifferenza verso il
186
Felice Casucci
dolore altrui: egli fa fatica a immaginare che il “potere”, nei nostri
tempi, si faccia “bello di questa sofferenza”, la produca
“consapevolmente per offrirla come dono all’opinione pubblica”.
Insegnamenti come quello di “Diritto e Letteratura”, dialoghi
interdisciplinari sempre più allargati come quelli qui proposti, si
rendono indispensabili per tenere vivo “un discorso sulla giustizia”
(memore degli insegnamenti della Scuola di Francoforte), che si
spegne progressivamente, perché si perde, in nome della scienza della
burocratizzazione e della spettacolarizzazione servile (si consulti, sul
punto, l’ottima pubblicazione di Aglaia McClintock, Servi della pena,
del 2010), la nozione di “bene comune”, facendo guadagnar terreno al
male assoluto come “assenza di pensiero” (Hannah Arendt). Invece, la
patria tanto agognata della dignità umana, che ha richiesto il sacrificio
di nobili cuori, compassione autentica e prese di posizione non
negoziabili né rinviabili, invoca il perimetro della sua nuova azione,
pesi e contrappesi, e una grande vigilanza etica. L’Amore che
auspichiamo nel mondo del diritto non è contro il giudizio ma prima
di esso, è il sentimento che ci rende uguali sia pure diversi, singolari e
plurali, e ci attribuisce in tal senso diritti inalienabili, dei quali non
possiamo essere solo informati, ma dobbiamo essere educati. Il
sentimento che ha spinto la giornalista e storica austriaca Gitta Sereny
ad intervistare Franz Stangl, comandante di Treblinka, detenuto nel
carcere di Düsseldorf, per raffrontare, smontare e rimontare, assorbire,
sollevando la coscienza individuale alle soglie di una verità collettiva.
Le conclusioni cui giunge la Sereny sono che “l’individualità e la
differenza non sono dovute soltanto alle qualità che ci capita di avere
dalla nascita. Dipendono altrettanto dalla misura nella quale abbiamo
potuto liberamente svilupparci. V’è un nucleo essenziale del nostro
essere, ancora mal definito e mal compreso, che, godendo di questa
libertà, sorge e si sviluppa, quasi come il nascere, e che ci libera e ci
separa da influenze intrinseche, e in seguito determina la nostra
condotta e il nostro sviluppo morale (…). La moralità sociale dipende
dalla capacità dell’individuo di prendere decisioni responsabili, di fare
la scelta fondamentale tra il giusto e l’ingiusto; questa capacità deriva
da questo misterioso nucleo – che è l’essenza stessa della persona
umana (…). Il fatto stesso che essa esista – il fatto stesso che noi
esistiamo come individui validi – è prova della nostra interdipendenza
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
187
e della nostra responsabilità reciproca” (In quelle tenebre, pubblicato
a New York nel 1974). Il tema dell’Amore si coniuga, attraverso un
passaggio di grande significato etico, con quello della responsabilità
(sul punto, lo scritto di Hans Jonas, Il principio responsabilità.
Un’etica per la civiltà tecnologica, del 1979, dove “singolare” e
“plurale”, nel senso di “sociale”, che in letteratura rispondono ai nomi
di “individuale” e “corale” (Dante Maffia), stanno indissolubilmente
insieme).
II. Il diritto è proteiforme: soft, hard, locale, globale, nazionale,
sovranazionale, internazionale. Ma è sempre se stesso, ovunque si
meni la danza. Lascia discutere di “letteratura” come un diversivo. La
mente umana, che lo ha partorito, cambia sempre il modo di chiamare
i propri incubi. E di dar forma ad essi. Così il diritto si parcellizza in
innumerevoli interessi di parte e/o corporativi, si universalizza,
sospinto dagli orizzonti normalmente estesi del pensiero (non solo
“costituzionale”). Il diritto è molte forme. Dunque, il diritto è forma.
Pura forma. E non cambia pelle. Resta un modo, molto articolato
nello spazio-tempo, per accompagnare i conflitti e sedarli (a volte,
alimentarli), con spirito razionale di completezza e di conformità. La
forma, ben allestita, salva tutti e tutto (si pensi al giurista abruzzese
Natalino Irti, Il salvagente della forma, del 2007). Dove non c’è forma
non c’è diritto. Dalla forma al formalismo (le pagine del mio Maestro
Pietro Perlingieri sul punto sono un vaticinio pieno di rivelazioni
confermate dal tempo) il passo è breve (come dal testo al dogma).
Così breve che, pur criticando certo formalismo giuridico, non
conviene far lezioni d’innocenza. La forma del diritto è al servizio del
potere costituito ed è finalizzata alla conservazione di esso. Come
ogni forma, il diritto ha il suo linguaggio: quello della distinzione, del
limite e della misura. Il diritto è un’arte, che possiede un’estetica e
una grammatica (non sempre decifrabile). Eppure, come ogni
creazione, non preesiste al suo creatore, ma gli sopravvive.
Se il diritto è di tutti, come l’aria che respiriamo, il diritto è tutti.
Tutti noi. “Noi” siamo il diritto. Il diritto diviene, nella sua quotidiana
e incessante applicazione, una pluralità concentrica in ciascuno di
“noi”, ma anche un gorgo di astrattezza concettuale nel quel è
possibile scomparire. La sovranità che il singolo giudice esercita,
188
Felice Casucci
pronunciando sentenza, appartiene al popolo, a tutti “noi”. La formula
di proclamazione che il presidente della commissione di laurea recita
alla fine della seduta chiama a raccolta i “poteri conferiti” al singolo
nientedimeno che dalla “legge” stessa, che dal suo empireo discende
tra gli uomini per indirizzarli all’azione che le assomiglia. Il diritto è
un magma che si consolida dove il suo incedere casuale ne indirizza il
cammino. Ogni azione esecutiva del diritto è complice, tradisce il
mandato ricevuto e lo compie. Il diritto non può essere condannato,
ma in suo nome condanna, con la pretesa di conoscere i segreti
sospiri, le nascoste speranze degli uomini. Il singolo atto è
concatenato ad una moltitudine di atti, che integralmente, indivisi,
rappresentano il diritto. Quel che lega l’uno agli altri è la “fiducia”
che stare insieme è il solo modo di essere. I consociati confidano che
gli interpreti del diritto sappiano “interpretare” il compito assai
delicato che spetta loro: quello di commettere ogni volta, per una volta
soltanto, il “delitto” di alto tradimento alla propria genesi
“costituente”, senza farsi contaminare dalla “colpa” che ne discende.
Gli sciamani del diritto sembrano sottratti ai suoi obblighi,
protendendo alle parole, sempre diverse, dell’occulto giuridico, da cui
traggono forza per se stessi e credito tra i consociati. Per ben operare,
occorre operare per il bene, nel senso di perseguire il “bene comune”.
Ma per farlo, occorre essere stati educati ad esso, muovendo dal
delicato utilizzo di quegli strumenti di “fiducia” e di “colpa” di cui si
è detto.
La forma suprema del diritto predilige il silenzio, l’empatia,
l’Amore. I simboli dell’autorità costituita gonfiano il petto di
sentimenti positivi e negativi, dalla solidarietà alla soggezione. La
letteratura s’insinua in questi silenzi, con le sue parole irrituali
scompone il frammento opaco, l’impronunciabile del diritto, denuncia
il denunciante, proclama il perdente, dichiara senza mezzi termini la
natura “servente” del diritto e di coloro che scelgono di onorarne la
funzione. Poi c’è il mercato e i privilegi che mischiano le carte. Il
giurista colto è ben educato, sensibile e alieno dal mercimonio. Più
che formare il giurista bisogna educarlo. Togliergli dalle mani l’alibi
dei codici deontologici e schierarlo sulle trincee della vita. E vedere,
dopo una rigorosa selezione, quale doloroso aspetto è in grado di
cogliere, cosa è in grado di sopportare per Amore di verità.
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
189
Il capitolo conclusivo del libro di Albert Camus, menzionato in
precedenza, L’uomo in rivolta, ha un titolo decisivo per la nostra
riflessione: “Misura e dismisura”. Il limite è “inseparabile dalla natura
umana”. La rivolta lo “rivela”. Di più. “Nell’atto stesso di suggerire
una natura comune agli uomini, la rivolta mette in luce la misura e il
limite che stanno al principio di questa natura. Oggi questa riflessione,
nichilista o positiva, talvolta senza saperlo, fa nascere questa misura
delle cose che la scienza stessa conferma”. E qui Camus cita Lazare
Bickel e i suoi studi di conformità tra fisica e filosofia e le parole
dello stesso quando dice: “L’intelligenza è la nostra facoltà di non
spingere al limite quanto pensiamo, per poter credere ancora nella
realtà”. E aggiunge: “Solo il pensiero approssimativo è generatore di
realtà”. Sempre Camus, in un articolo del 1948 (L’esilio di Elena),
sostiene: “Già all’aurora del pensiero greco, Eraclito immaginava che
la giustizia ponga limiti allo stesso universo fisico: ‘Il sole non
oltrepasserà i suoi limiti, altrimenti le Erinni, custodi della giustizia,
sapranno scoprirlo’” (la citazione è tratta da Valeria Turra, Albert
Camus: la natura e il tempo, in I percorsi di Griselda, 16 marzo
2011). In tema, sempre nel capitolo conclusivo de L’uomo in rivolta,
Camus scrive: “Il mondo non consiste in una fissità pura; ma non è
soltanto movimento. È movimento e fissità. La dialettica storica, per
esempio, non fugge indefinitamente verso un valore ignoto. Gira
intorno al limite, primo valore. Eraclito, inventore del divenire, dava
tuttavia un confine a questo perpetuo scorrere. Questo limite era
simboleggiato da Nemesi, dea della misura, fatale ai di dismisurati”. E
persevera: “la misura c’insegna che occorre ad ogni morale una parte
di realismo: la virtù pura è omicida; e che occorre una parte di morale
ad ogni realismo: il cinismo è omicida. Per questo le ciance
umanitarie non hanno maggior fondamento della provocazione
cinica”. E infine, nel segno a noi più congeniale: “Su questo limite, il
‘Noi siamo’ definisce paradossalmente un nuovo individualismo”. La
rivolta declina, al contempo, il singolare e il plurale: “Mi rivolto,
dunque siamo”. La rivolta individuale proclama, attraverso il limite e
la misura, “la dignità comune a tutti gli uomini” – Amore di verità,
sentimento di giustizia, argilla superindividuale che li modella
londonianamente e li consolida –, “una tessitura comune, la solidarietà
della catena, una comunicazione tra essere ed essere che rende gli
190
Felice Casucci
uomini somiglianti e alleati”. Niente più del diritto, posto alla foce
delle inquietudini esistenziali, è in grado di capirlo e tradurlo in azione
legittimante. Il diritto ha molto a che fare con la rivolta (moto
originario) e con l’affermazione di un “noi siamo”, al quale abbiamo
dedicato alcune pagine inquiete e interrogative sul giornale
dell’Università degli Studi del Sannio alcuni anni addietro. “‘Noi
siamo’ davanti alla storia, e la storia deve fare i conti con questo. ‘Noi
siamo’ che, a sua volta, deve mantenersi nella storia. Io ho bisogno
degli altri, che hanno bisogno di me e di ciascuno. Ogni azione
collettiva, ogni società presuppongono una disciplina; e l’individuo,
senza questa legge, è soltanto uno straniero che piega sotto il peso di
una collettività nemica. Ma società e disciplina perdono ogni
direzione se negano il ‘Noi siamo’”. Ma chi siamo “noi”?. “Gettati
nell’ignobile Europa ove muore, priva di bellezza e d’amicizia, la più
orgogliosa tra le razze, noi mediterranei viviamo sempre della stessa
luce. In cuore alla notte europea, il pensiero solare, la civiltà dal
duplice volto, attende la sua aurora. Ma già questa rischiara le vie di
una vera signoria”. “Noi” di certo non siamo i “piccoli europei che ci
mostrano una faccia avara, se non hanno più forza di sorridere”. Le
nostre tradizioni lo dicono con fermezza (sul punto, il nostro volume,
Circolo minimo, del 1999). Scagliato il “pensiero meridiano”,
l’epilogo di Camus è lapidario: “Tutti portiamo in noi il nostro
ergastolo, i nostri delitti e le nostre devastazioni. Ma il nostro compito
non è quello di scatenarli attraverso il mondo; sta nel combatterli in
noi e negli altri. La rivolta, la secolare volontà di non subire, di cui
parlava Barrès, ancor oggi è al principio di questo combattimento.
Madre delle forme, sorgente di vita vera, ci tiene sempre ritti nel moto
informe e furioso della storia”. Bisogna credere, tendere a qualcosa,
come ci spinge a fare il senso della “misura”, e della poesia (si pensi
alla ricerca mistica di verità assoluta del poeta francese Pierre
Reverdy (1899-1960), contemporaneo di Camus, che a poco meno di
trent’anni si ritirò dalle mode letterarie parigine, in particolar modo
dal surrealismo, ritirandosi nella meditazione e nella preghiera
dell’Abbazia di Solesmes), bisogna riscattare, nel dare slancio ai
grandi esempi del passato, “un pensiero cui il mondo di oggi non
potrà più a lungo rinunciare”, quel “pensiero solare” di cui si diceva,
“nel quale, dai Greci in poi, la natura è sempre stata equilibrata al
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
191
divenire”. Vanno ricomposti, nella “controra” (una nostra iniziativa
associativa d’impronta culturale recava la promessa di questo “riposo”
appagante) del “pensiero meridiano”, i lembi ancor più lacerati del
pensiero giuridico, come pensiero umano e umanistico, immaginario,
lentissimo e pensoso, lungamente profetizzato, scolpito, dipinto e
cantato, il pensiero della ricerca della misura, educativo per
eccellenza, frutto di una tradizione multidisciplinare. Un pensiero mai
pago, perennemente in viaggio, come nello slow travel di Andrea
Bocconi e Claudio Visentin (In viaggio con l’asino, del 2009). E ciò
per non confondersi, per non indietreggiare senza meta, ma per
guardare con calda determinazione dritto innanzi a sé,
pasolinianamente, con coraggio, verso un futuro scabro, senza
illusioni, libero dai lucori mistificanti di un progresso ad ogni costo e
dallo sviluppo come iperbole e necessità di un reddito da capitale.
Camus pone la domanda retorica e stabilisce un vertice inequivoco al
proprio ragionamento, al quale non ci sentiamo in alcun modo
estranei: “Prometeo avrebbe mai avuto questa faccia da ilota e da
pubblico ministero? No, la nostra civiltà sopravvive a se stessa nella
compiacenza d’animi vili e astiosi, pervicace vanagloriuzza di vecchi
adolescenti. Lucifero è morto con Dio e, dalle sue ceneri, è sorto un
demone meschino che non vede nemmeno più dove s’avventuri”.
Il “pensiero meridiano”, ripreso da Franco Cassano nell’omonimo
volume del 1996, presuppone il “noi siamo” di cui si è detto, che non
arriva “da un’improvvisa passione identitaria, ma dalla categoria
dell’‘altro’, da una riflessione sul lato d’ombra di ogni identità”.
Contro un “universalismo borioso” e di maniera, il “pensiero
meridiano” difende il “pluralismo” e la “molteplicità delle
prospettive”, un’idea di “misura” come “un criterio di equilibrio che
sottrae il pensiero alla mitologia del progresso”; esso “accumula e
custodisce tutte le forme di vita in cui qualcosa ci permette di
difenderci da quella secolarizzazione infinita che recide tutti i legami,
cerca con Pasolini anche nel sacro la capacità di resistenza alla
mercificazione come legge inarrestabile del nostro futuro”. Questo
“pensiero” lo si può trovare – sempre con Cassano – “nei sentimenti
dove vivono più patrie, dove alla semplicità del sì e del no si
sostituiscono i molti veli della verità, dove la bellezza torna ad essere
un premio per chi l’ha cercata a lungo e non un diritto di tutti per cui
192
Felice Casucci
basta pagare”. Al “pensiero meridiano” spetta di mostrare “questa
continuità tra il passato e il futuro senza nessun disprezzo o
risentimento per il presente”. Bisogna educare i giovani al “pensiero
meridiano”, facendo tesoro degli insegnamenti morali di Epitteto, il
filosofo greco stoico nato nella Frigia meridionale una cinquantina
d’anni dopo Cristo (studiato da Camus negli anni liceali di Algeri,
sotto la guida del filosofo e saggista Jean Grenier (1898-1971), al
quale è dedicato L’uomo in rivolta), della sua lezione di autonomia e
di responsabilità, che prende ad esempio il modo di educare i giovani
da parte di Socrate per mezzo dell’elenchos, cioè “attraverso una
sollecitazione continua al ragionamento con l’interrogazione e con il
dialogo” (F. Alesse).
A proposito delle considerazioni svolte sul punto, un rinvio va fatto
al bel volume di Corrado Rosso, Illuminismo, felicità e dolore, del
1971, che riserva interessanti approfondimenti su “Luisa Ackermann e
Camus: la rivolta”. Ackermann e Camus: due straordinari autori di
poesia filosofica, due rivoltosi. In particolar modo, alla poetessa
francese (1813-1890) Rosso riserva acute riflessioni sul tema del
dolore, come esperienza di isolamento a cui si contrappone l’Amore, e
la memoria, “una trama della vita che non è più esposta alla
corrosione del dolore e del tempo”. La Ackermann, “esempio della
comune condizione umana”, leva un grido di protesta contro il cielo
che ha sorriso senza pietà sui degradati destini umani. In una lirica, tra
i morti chiamati alla resurrezione ve ne sono alcuni che restano
immobili dinanzi allo squillo di tromba del giudizio universale, che
non si muovono neppure quando l’angelo li sospinge: essi
preferiscono la notte eterna e così invocano la morte, facendo pensare
al “virgineo seno” leopardiano. Il moto di rivolta riscuote dal dolore il
suo prezzo impagabile e attribuisce senso alla vita, quasi un lieto
rincasare nel posto che ci è sottratto per una nuova assegnazione.
Virgilio, Lucrezio vivono in lei. Dinanzi alla morte, Luisa innalza un
vibrante canto d’Amore. Un Amore si sente infinito come intensità.
Amore e rivolta sono parti di una “dottrina della pura tensione”,
compongono un’idea dialettica che si può trovare ovunque nella
cultura occidentale, dai Greci in poi. Si sente l’eco della
Fenomenologia dello spirito di Georg Wilhelm Friedrich Hegel
(1770-1831) in questi versi e la sua “magica forza che volge il
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
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negativo nell’essere”. La Ackermann, secondo Rosso, finisce per dirci
che “la realtà dell’amore umano, povero nel tempo, ma
immensamente ricco della sua stessa precarietà”, è “infinito perché
effimero”. Il limite partorisce il suo doppio, non il suo avversario. La
capacità e la dignità umana costipate nelle pieghe del dolore
costituiscono l’anello originario del messaggio educativo, perché in
“un mondo, il nostro, incapace di prendersi cura di se stesso, alla
rincorsa di cose futili e banali”, va perduto solo quel che rifulge
inutilmente (Un giorno questo dolore ti sarà utile di Peter Cameron,
un romanzo del 2007, apparso in parte, inizialmente, sul sito
www.nerve.com).
In argomento, anche il bel saggio di Alain Finkielkraut su Il primo
uomo di Camus (romanzo pubblicato postumo e incompleto da
Gallimard nel 1994), contenuto in Il cuore intelligente, del 2009, dove
il filosofo e giornalista francese ci ricorda che Camus, quando ritirò
nel 1957 a Stoccolma il premio Nobel per la letteratura, incalzato
dalle domande sulla guerra d’Algeria, dichiarò: “Amo la giustizia, ma
prima della giustizia difenderò mia madre”. Commenta Finkielkraut:
“il primo uomo rifiuta di servirsi dell’abbagliante termine ‘giustizia’
per ratificare il sacrificio dei familiari sull’altare dei rigori della
Storia”. Il grande umanista Albert Camus, che tributa, attraverso il
“primo uomo”, un deferente omaggio al suo primo maestro, celebra la
“potente poesia della scuola”, come forma di evasione ed investitura:
la sua educazione è fondata sul principio che “un uomo si trattiene”,
non si lascia andare, e deve imparare a farlo per poter educare altri
uomini, fra tutti i più giovani, al valore etico della rivolta, come
scaturigine del diritto stesso, misura di una dismisura, che
accompagna
il
muovere
consapevolmente,
criticamente,
sistematicamente verso il mondo. E per un uomo il trattenersi è
aristotelicamente l’essenza, come limite, della conoscenza. Direbbe lo
scrittore californiano Jack London (1876-1916), con i pensieri
primitivi di Zanna Bianca, che in presenza delle “intricate
complicazioni della civiltà” occidentale il valore è dato da
“l’equilibrio, il freno, il dominio di sé delicato come il fluttuare delle
ragnatele nelle belle giornate d’autunno, e allo stesso tempo rigido
come l’acciaio”.
194
Felice Casucci
E se il “trattenersi” è decisivo in un discorso giuridico, altrettanto
lo è il passaggio dal dolore alla gioia, dalla privazione alla grazia,
dalla necessità alla libertà, perché “le verità schiaccianti soccombono
per il fatto stesso che vengono conosciute”. Lo scrive Albert Camus in
un libro del 1942, Il mito di Sisifo. E cita Edipo, che presa
consapevolezza della immane tragedia in cui è caduto, suo malgrado,
“nonostante le prove” giudica che “tutto sia bene”. Sofocle e
Dostoevskij insieme: “La saggezza antica che si ricollega all’eroismo
moderno”. L’ultimo capoverso del libro di Camus è splendido. Lo
rileggiamo con voce grata: “Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si
ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà
superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che
tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare
sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale
di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo.
Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo.
Bisogna immaginare Sisifo felice”.
Il diritto è gran parte di quel che ingombra la vita, e anche se il
diritto è una cosa ben precisa, una scienza ben collaudata, non v’è chi
non veda nella sua ridondanza un pericolo per la vita stessa. I
neoformalisti (il termine non contiene alcun accento negativo) sanno
che le strutture in cui si articola il diritto hanno necessità proprie da
soddisfare. Il sistema si compone di norme, ossia di testi significanti,
che si spingono fin dove è consentito alla devozione degli interpreti.
Tutto vi si contiene, lo si diceva, erigendo occupazioni maestose e
fortilizi a difesa di confini di volta in volta stabiliti. Il profilo rude del
diritto viene mascherato da fattezze gentili, che suggeriscono la
confidenza e sollecitano la speranza. Ecco un bel tema: “la speranza”!
Un tema d’Amore! I letterati ne discutono in maniera diversa da quel
che fanno (o meglio non fanno) i giuristi, e quando ne discutono non
si allontanano dai problemi reali che li spinge a discuterne (la
Palestina, il cancro e quant’altro). La speranza è presente nel diritto,
come vi è presente, anche nelle versioni più inclini al rigore e alla
sperimentazione dei suoi estremi, l’enigma (si pensi al pensiero
neoformalista, avverso all’interdisciplinarietà prêt-à-porter, del
giurista, filosofo e letterato austriaco Otto Pfersmann sugli enigmi del
costituzionalismo occidentale, che non giunge a conclusioni molto
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
195
diverse dalle nostre, pur se, le nostre, sono attratte a nuove tentazioni
giusnaturalistiche), ossia il racconto, la storia da raccontare per
seguirne il tracciato e svelarne il segreto (dalla maledizione di Pelope
nascono gli enigmi della Sfinge, divoratrice di passanti, risolti infine
da colui, Edipo, che ne sarebbe divenuto, vittorioso, la principale
vittima; inoltre, come la Sfinge si precipita dall’alto della roccia
perdendo la vita, così il diritto che vede risolti i propri enigmi perde
per sempre se stesso). Tuttavia, il diritto, che non può permettersi di
sciogliere gli enigmi che lo compongono (e lo sacralizzano), non
alimenta (quasi mai) la speranza, ma la stringe in una morsa, rovescia
il vuoto o la discontinuità nel suo contrario, in una soluzione data
comunque, in nome della coerenza logica del sistema o della
statuizione evidente. La previsione giuridica, valevole per infiniti casi,
non assiste nessuno di essi con ferma magnanimità. Dunque, a quale
fonte di speranza devono abbeverarsi i giuristi? Vale la pena di
avvicinarsi ed ascoltare le parole dei loro ideali compagni di viaggio: i
poeti (impossibile non citare qui Martha C. Nussbaum, Il giudizio del
poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, del 1995, e non farvi
rinvio, anche se la critica della pseudoscienza del ragionamento
pubblico, in nome del ruolo etico della letteratura, temo che dispiaccia
più d’uno dei miei numi tutelari), cantori di/con Amore, meglio
ancora i cantastorie. Come discutono costoro di speranza? Lo hanno
fatto il critico d’arte, scrittore e pittore inglese John Berger e la
scrittrice e attivista indiana Arundhati Roy, accomunati dalla passione
per il mestiere di storyteller, in un incontro il 15 settembre 2009 al
Teatro Carignano di Torino, dal titolo affine ai nostri interessi,
“Soprattutto osservare. Riflessioni sul raccontare” (il titolo del
volume, pubblicato in Italia nel 2010, è La speranza, nel frattempo),
che aveva come sottotitolo una citazione bergeriana: “La sola cosa che
devi sapere è se stai mentendo o cercando di dire la verità, non puoi
più permetterti di fare confusione” (la citazione è tratta dallo
splendido romanzo, Qui, dove ci incontriamo, del 2005). Dice Berger
nella menzionata conversazione: “Una regola molto, molto importante
a proposito della scrittura – non si tratta esattamente di una regola,
quanto piuttosto di un impulso – è quella dell’ospitalità, ospitalità nei
confronti di quel lettore immaginario”. Precisa la Roy: “L’ospitalità
implica un’enorme dose di generosità. Ed è quello che a volte gli
196
Felice Casucci
scrittori più anziani hanno da offrire ai più giovani”. La giornalista e
saggista italiana Maria Nadotti, coordinatrice della conversazione
torinese, ricorda un brano scritto da Berger nel 1986, nel suo Una
storia per Esopo, dove egli parla “dell’enigma della vita”, per il quale
è possibile trovare solo “risposte parziali”: “Ogni storia che racconta è
una storia parziale. Eppure, ogni risposta, ogni storia, porta alla luce
un nuovo interrogativo. E così egli fallisce di continuo e l’insuccesso
mantiene viva la sua curiosità. Senza mistero, senza curiosità e senza
la forma imposta da una risposta parziale, non possono esserci storie”.
Aggiunge Berger nel dialogo torinese: “le storie sono assolutamente
essenziali: non per via della letteratura, ma perché sono una parte
fondamentale della vita, di ogni vita…i racconti sono parte integrante
della vita – individuale e collettiva – nel suo farsi”. Quando
raccontiamo, per Berger, lo facciamo a noi stessi, esplorando una
sorta d’idea di coesione (cara ai lessici giuridici costituenti), ci
raccontiamo in qualche modo “la storia della nostra vita”, cerchiamo
di orientarci tra gli enigmi della nostra vita, ci offriamo delle risposte
parziali da concatenare tra loro. E ci serviamo dell’attitudine narrativa
per montare un caso sul quale concentrare la nostra attenzione, per
“giudicare”, come dice la Roy: non sono solo i giudici a farlo, l’intera
collettività, lungo i paradigmi individuali (la pluralità singolare),
diventa lo scenario esplicito o implicito del giudizio, a volte (mi sento
di aggiungere) in forme subdole, incontrollabili, pericolose per il
singolo individuo, esposto alla natura mimetica delle forme
comunicative. Ma anche, in certi casi, per “non giudicare”, a
differenza dei giudici, che sono obbligati a farlo. La conversazione va
avanti e i due scrittori, come in un movimento ritmico e corale, si
alleano, dipanando il filo delle figure concettuali sottese: l’enorme
minaccia del “capitalismo delle grandi imprese” e il “fascismo
incipiente”, con il suo carico “incredibile” di “disposizione umana alla
crudeltà”, che è “un’attitudine insita in ognuno di noi”. E qui il “noi”
assume le caratteristiche di un’arma da taglio, che divide, esclude
rispetto al “loro”, neppure esseri umani o tali a malapena. Le storie
letterarie servono a “confutare” il già scritto dai giochi di potere, a
contestare le formulazioni eugenetiche delle barriere tra gli uomini,
oppure (come spesso accade) ci aiutano a “rendere più arduo
crederci”. Nel mondo della letteratura il diverso non finge, non si
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
197
omologa, bensì esalta la consapevolezza individuale, e il “noi” non
discrimina, bensì avvicina nella separatezza, con tonalità plurime e
coerenti, pur nel pieno della disomogeneità. La letteratura soddisfa il
bisogno sociale di un “coraggio”, presente negli esempi dei grandi
umanisti (alcuni di essi giuristi: si pensi ad Alessandro Levi) che ci
ispirano, e consente di “praticare l’arte dell’orientamento”, ritrovando
i limiti temporali (in via di estinzione) legati al passato ed al futuro.
“Fari” sono i Maestri o, più semplicemente, “perlustratori che cercano
la strada provando e riprovando” (Nadotti). Dichiarare la scelta di
“diritto e letteratura” equivale a porre con forza “la vita” (“La vita non
è uno scherzo. / Prendila sul serio / come fa lo scoiattolo, ad esempio,
/ senza aspettarti nulla / dal di fuori o nell’aldilà. / Non avrai altro da
fare che vivere. / …nulla è più bello, più vero della vita”, scriveva nel
1948 il poeta turco Nazim Hikmet (1902-1963)) al centro delle nostre
preoccupazioni, una vita che non dobbiamo “reincarnare” perché già
“esiste”; equivale, come si anticipava, a “parlare di speranza – anche
se speranza è una parola che va completamente risanata, perché è fin
troppo facile utilizzarla –”. Per trovare la speranza non si può fare a
meno della “verità”: per coglierla, in tutta la sua fragilità, “bisogna
ammettere la propria incertezza, la propria insicurezza, andare a
tentoni nell’oscurità” (Nadotti), che aiuta ad “avere un’altra
prospettiva temporale” (Berger), bisogna “vivere l’ombra” (come ho
scritto di recente) se vogliamo ritrovare l’istinto, il sogno (nel limite,
nella “controra”) della luce rischiarante (non la luce in sé, ontologica,
finita chissà dove, tantomeno quella abbagliante che ci è messa a
disposizione dalle leggi del mercato: “soffriamo” già “un eccesso di
illuminazione”, secondo la Roy, “siamo accecati” dalla
“informazione”, ossia da una cosa profondamente differente dalla
verità). Le emozioni d’Amore sono la bussola per l’istinto, per quel
sogno di luce, che la civilizzazione, come ci insegna Jack London, ci
ha educato a controllare in pubblico e a mettere nel cesto del disvalore
sociale. Non ritroveremo del tutto l’istinto/sogno di luce, ma almeno
avremo la possibilità di intuire e di scegliere, se non di fare “scelte
pulite”, perché la “purezza non è più alla nostra portata” (Roy). Il
segreto annunciato da John Berger all’inizio della serata torinese si
arrende nelle mani degli ascoltatori alla fine della stessa: “quando le
parole sono ospitali, la speranza si fa meno fragile e reciprocità e
198
Felice Casucci
ascolto cancellano la linea di demarcazione che crea un noi
contrapposto a un loro” (Nadotti), una pluralità singolare contrapposta
ad un’altra, una contrapposizione troppo spesso riflessa, ove non
deformata, nello specchio del diritto.
Di tutto questo i bambini non sanno niente, si mantengono sul
confine della vita, presidiato da minacce e pericoli, intenti al gioco,
come il loro modo, la loro misura dello stare insieme. Mio figlio Carlo
ha otto anni. Alla fine del terzo anno di scuola primaria ha svolto, con
la sua classe, un lavoro di gruppo dal titolo: “Raccontare, raccontarsi.
Incontri di parole, suoni, movimenti, pensando alle donne, agli
uomini, ai bambini nella storia del mondo”. Carlo ha partecipato con i
compagni di classe ad una recita nel Parco dei Camaldoli, a Napoli, il
7 giugno 2011. Vi ho assistito. Il loro impegno è stato commuovente,
mi ha profondamente coinvolto. Ho sentito la grande forza creativa
che si consumava in loro e con loro: a parte i genitori interessati per
forza di cose all’evento, ed a parte qualcuno, come me, interessato alle
emozioni artistiche in sé, di là dall’orgoglio genitoriale, che i bambini
erano in grado di suscitare, non credo che il contesto istituzionale nel
quale si andava a collocare l’iniziativa scolastica fosse in grado di
accoglierla e di mantenerne le promesse. Il lavoro dei piccoli artisti si
concludeva con due brevi rappresentazioni dedicate al “raccontare” ed
al “bisogno di stare insieme” (si badi bene che trattasi di pensieri
scritti dai bambini stessi e raccolti dagli insegnanti). La prima
rappresentazione termina così: “Ancora oggi abbiamo bisogno di
raccontare, perché raccontando si allontanano tutti i brutti pensieri, si
trovano, magari, altre vie e nella mente si distendono paesaggi
fantastici”. La seconda rappresentazione pronuncia, in epilogo
all’opera, queste parole: “Stare insieme è molto bello, si possono
raccontare le storie accadute nella vita. Conservare il bisogno di stare
insieme potrebbe essere bellissimo per far vivere gli uomini
felicemente”. I bambini, a modo loro, hanno posto un’esigenza, che
Omero ben conosceva, una domanda alla quale gli adulti del
postmoderno continuano a non dare risposta. La domanda è la stessa
che poniamo con i nostri studi di “diritto e letteratura”. Che fare della
nostra vita individuale nella complessità relazionale? Come preservare
l’una valorizzando l’altra? I bambini, nella circostanza da me
illustrata, ci hanno raccontato una storia, aperto un mondo, nel quale
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
199
era possibile, anzi direi piacevole abitare, non un altro mondo ma
questo in cui già abitiamo, che siamo abituati a vedere senza i loro
occhi.
Mi fermo qui, anche se ci sarebbe molto da poter dire e
approfondire (si pensi, tra molto altro, alla letteratura come “alibi e
decorazione”, “consumo più o meno chic e status symbol”, “repertorio
di citazioni squisite per ogni occasione”, “spettacolo che nobilita se
stesso e i suoi fruitori”, “sostituto cartaceo della realtà e illusione che
tutto sia manipolabile con le parole”, descritta da Filippo La Porta con
il suo Meno letteratura, per favore!, del 2010). Torniamo ora alla
“verità”, come la misura per eccellenza della poesia (massimamente
quella filosofica), e del (suo omologo creativo nel mondo sensibile, il)
diritto (bocche d’un medesimo respiro). Vi è una differenza netta tra
poesia e diritto: la poesia cerca la verità e stende i suoi versi nella
direzione della scoperta, anche se costa al poeta una trasfigurazione
carnale, la vita stessa; il diritto, invece, non può consentirsi di
praticarla a lungo, accontentandosi di un succedaneo, la
verosimiglianza, più funzionale alla logica dell’apparato produttivo
del diritto (si pensi alla distinzione tra eventum ed inventum, così ben
delineata dal filosofo del diritto calabrese Domenico Corradini H.
Broussard). Se vogliamo esplorare la Verità della poesia non
possiamo non far riferimento alla relazione tenuta dal poeta rumeno
ebreo, di madrelingua tedesco, Paul Celan (1920-1970), in occasione
del conferimento a Darmstadt, il 22 ottobre 1960, del Premio Georg
Büchner. Vi si legge, a proposito dell’arte (che ha capacità
metamorfica e il dono dell’ubiquità), e della poesia (che deve
percorrere la strada di un “ritorno” per “continuare a essere
interrogazione”): “È come un porsi fuori dell’umano, un trasferirsi,
uscendo da se stessi, in un dominio che converge sull’umano ed è
arcano”. L’arte, e la poesia, dopo averlo sondato, allontanano dall’io,
esigono “una direzione ben determinata, una determinata distanza, un
determinato cammino”, un vagabondaggio, come nel caso dello
scrittore tedesco Jacob Michael Reinhold Lenz (1751-1792), uno dei
maggiori rappresentanti dello Sturm und Drang. Gli argomenti trattati
da Celan nella sua relazione sono per noi di straordinaria importanza:
l’oscurità della poesia (“in vista di un incontro che muove da una
distanza o estraneità che essa stessa, forse, ha inteso progettare”); la
200
Felice Casucci
natura creaturale della speranza di “parlare per conto di un Altro –
chissà, magari di tutt’Altro”, pur declinandosi “rigorosamente in
prima persona”; la “forte inclinazione” della poesia “ad ammutolire”,
la sua solitudine dinamica, il “mistero dell’incontro” a cui conduce,
“l’attenzione” (che richiama il filosofo e scrittore tedesco Walter
Benjamin (1892-1940) nel suo saggio su Kafka) che richiede
(emblematica la frase del filosofo e scienziato francese Nicolas
Malebranche (1638-1715): “L’attenzione è la preghiera spontanea
dell’anima”), il colloquio disperato (quasi un messaggio nella
bottiglia) che propone, la ricerca di se stessi e la “sorta di rimpatrio” a
cui conduce, il ritrovamento di un’unione che seduce (“qualcosa che è
– come la lingua – immateriale, eppure è terrestre, planetario,
qualcosa di circolare, che ritorna a se stesso attraverso entrambi i poli
e facendo questo interseca – è divertente – persino i tropici”, trovando
“un Meridiano”). Se ci si pone, invece, nell’ottica del rapporto tra
Diritto e verità, non si può non fare riferimento al costituzionalista e
filosofo del diritto tedesco Peter Häberle (sostenitore delle dottrine
“integrazioniste”), al suo volume del 1995, uscito in edizione italiana
nel 2000, che contiene spunti utili alla nostra sintetica esplorazione:
quello sui “classici della teologia e della filosofia” (dal libro dei
Proverbi che misura la giustizia con la verità, al Vangelo secondo
Giovanni che conosce la verità per la libertà, alla natura etica del vero
contenuta in Aristotele); quello su “poeti, pittori e musicisti” (dallo
scrittore e filosofo tedesco Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781),
che inneggia allo “spirito di verifica della controversia” che tiene
“sotto costante pressione pregiudizio e apparenza” per impedire “ai
trucchi della non verità di usurparne il posto”, al Flauto magico del
notissimo compositore austriaco Wolfgang Amadeus Mozart (17561791), all’interesse per “le verità” e la relatività delle stesse del
pianista austriaco Alfred Brendel, al pittore svizzero Ferdinand Hodler
(1853-1918) a proposito del caso Dreyfuss, al Verismo italiano, alla
poetessa austriaca Ingeborg Bachmann (1926-1973), al filosofo
(algerino, ancor prima che) francese Jacques Derrida (1930-2004) e al
suo saggio su La verità nella pittura, del 1978, allo scrittore e pittore
tedesco Wolfgang Hidescheimer (1916-1991) e al suo discorso, L’arte
serve ad inventare la poesia, del 1955), dove è contenuta, in nota,
l’acuta considerazione che la rassegna di citazioni poetiche offerte alla
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
201
lettura “si ispira alla convinzione che tali testi si avvicinano ai
problemi (giuridici) spesso più di quanto non accade per talune
trattazioni giuridiche”; quelli dedicati al poeta, scrittore e
drammaturgo tedesco Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) e al
poeta e drammaturgo inglese William Shakespeare (1564-1616). Nel
capitolo terzo dell’opera di Häberle (“Verità come ‘concetto
connesso’ con libertà, giustizia e bene comune nello stato
costituzionale”, che esordisce con la famosa poesia del tedesco
Friedrich von Schiller (1759-1805) Demetrio, ed è enunciativo del
tema della “verità al plurale”) si declina appieno il nesso di “verità e
giustizia” e “verità e salus publica”, in termini di “valori umanistici” e
di “obiettivi educativi” (in particolare, l’autore ci sottopone le chiare
lettere delle disposizioni costituzionali, del 1947, di alcune delle
repubbliche che compongono la federazione tedesca, come quella di
Brema, che parla di “educazione a un’etica comunitaria”, quella
dell’Assia, che parla di educazione alla “legalità e alla veridicità”, o
quella della Renania-Palatinato che pure parla di “legalità e
veridicità”. Con riferimento a Brema, sembra utile segnalare un dato
storico-artistico: in una sala della Rathaus gotica della città anseatica
troneggia l’affresco, realizzato nel 1532 da un pittore tedesco di
origine olandese, operante nel periodo rinascimentale, Bartholomäus
Bruyn (1493-1555), che raffigura il “Giudizio di Salomone”. Il
dipinto ricorda ai membri del Senato locale la moderazione con cui si
opera nell'amministrazione della giustizia. Lo stesso principio indicato
nella più antica iscrizione tuttora sopravvissuta all'interno
dell'edificio, nella quale si invita gli amministratori della città a
“servire il bene comune, difendere la giustizia, equanimamente verso
il ricco e verso il povero, mantenere le buone leggi e rigettare quelle
cattive”. Il riconoscimento di un ruolo di tale rilievo esercitato dal
diritto cittadino si comprende risalendo alle origini dell'autonomia.
L'indipendenza di Brema, infatti, non fu conquistata sui campi di
battaglia, come è il caso dei Comuni lombardi della Lega, bensì
maturò attraverso una graduale evoluzione delle norme che in età
medioevale definivano i limiti e i poteri dell'autorità locale, in
affrancamento dal potere ecclesiastico e da quello imperiale). Il
secondo paragrafo del menzionato capitolo tratta del seguente
argomento: “L’‘autonomo’ dibattito sulla verità dei giuristi”. Il
202
Felice Casucci
paragrafo muove dalle opinioni del filosofo tedesco Rudiger Safranski
– noto in Italia per il volume Il male, pubblicato nel 2006 – e
distingue tra due “regioni della verità”, quella “culturale”
(“immaginaria”, dove “diritto e letteratura” la fanno da padroni: cfr.
François Ost, Mosè, Eschilo, Sofocle. All’origine dell’immaginario
giuridico, del 2004) e quella “politica” (“razionale”, dove impera
indisturbato e annoiato un diritto lasciato solo con se stesso), per
criticare la distinzione tra un mondo della cultura (anch’esso aspira
alla “pace”) e un mondo della politica (anch’esso abbisogna di
“passione”) e per concludere che “le ‘invenzioni di verità’ da parte dei
poeti e dei filosofi sono necessarie allo sviluppo dello stato
costituzionale”. Certo che la proposta di Häberle deve essere
sottoposta alla continua verifica delle circostanze reali su cui
s’innesta, non può essere presa per buona a prescindere dal contesto in
cui essa va a tradursi, soprattutto se tale contesto è giuridico. Non
esiste, in altre parole, una “verità” forzosamente pretesa, ma il
concetto di dignità di Schiller (“ognuno formi in sé l’umanità”) o
quello kantiano (“verità trascendentale”) non sembrano distanziarsi
troppo dal bisogno di veder riconosciute “verità assolute”, quali
“dignità dell’uomo, libertà, tolleranza”, che agiscono come
“condizioni di verità” nel senso reso esplicito dal filosofo tedesco
Hans-Georg Gadamer (1900-2002). Solo un cenno può essere reso, in
questa sede, alla dicotomia tra il divieto filosofico di mentire e il
diritto di farlo (processualmente ideato e abbondantemente praticato
nel solco di quella “verosimiglianza” alla quale si faceva cenno), che
appare difficilmente sanabile (già in astratto), come provano le
polemiche infuriate tra il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804)
e lo scrittore e politico svizzero Henri Benjamin Constant (17671830), riportate ora in La verità e la menzogna (Milano, 1996). Un
cenno altrettanto fugace si può spendere per le questioni poste da
Gustavo Zagrebelsky, Contro l’etica della verità (2008), che segue il
lavoro precedente dello stesso autore su La virtù del dubbio (2007), e
da Natalino Irti, Diritto senza verità (2011), di cui abbiamo avuto
occasione di discutere altrove, facendovi in questa sede rinvio. Sul
valore semantico della verità nell’incastro politico della Storia dei
popoli, lo straordinario lavoro della Commissione per la verità e la
riconciliazione, istituita in Sud Africa dopo la fine dell’apartheid,
“La verità vi prego sull’amore”. A proposito dell’educazione giuridica
203
lascia una traccia indelebile (sul punto: Marcello Flores, Verità senza
vendetta, del 1999; e i nostri commenti a La lingua del perdono di
Bruno Moroncini, del 2007, contenuti nella Relazione al primo
Convegno milanese della SIRD).
III. Ai giuristi vanno indirizzate con forza parole intransigenti e
dimenticate: “Amate la verità più della gloria, più della pace, più della
vita. Fate di essa la vostra spada e il vostro scudo”. Così scriveva il
poeta catanese Mario Rapisardi (1844-1912), autore della celebre
raccolta di poesie, Giustizia (1883). La storia della pedagogia civica
s’illustra di molti esempi. Si tratta di biografie di giuristi, oppure di
figure, più o meno note, che hanno dato eco alle parole del silenzio,
facendole risuonare oltre i loro minuscoli cuori: poeti, filosofi, artisti
visionari, innamorati della vita. Persone, ovunque e comunque, che
anelavano ad un’invisibile “pluralità”, pur con “l’evidente povertà dei
mezzi” (Piero Del Giudice, 1979) della loro “singolarità” materiale.
Molti hanno sacrificato, per quell’ideale di “comunità”, ciò a cui
tenevano maggiormente, donando al diritto (anche quando lo
avversavano nelle sue forme “ufficiali”), come patria di valori non
transigibili, i momenti più cari ed esaltanti della propria esistenza,
addirittura la propria stessa esistenza (la verità del sangue è la verità
“estrema”, l’unica verità fondativa). Altrettanti, invece, hanno
rinunciato alla corsa, si sono fermati prima del traguardo, lasciando
“una goccia di splendore” (Fabrizio De André) nella polvere degli
anni perduti. Alcuni, infine, la parte più esigua, sono stati consacrati, e
sono stati dichiarati Maestri in vita. A tutti loro si intende dedicare
questa ricostruzione “silenziosa”, sia per quel che dice, sia per quel
che omette di dire, in parte anticipata dal nostro lavoro sul Diritto di
parola, del 2009 (si pensi al contributo di Giovanni Rossetti, per
“un’etica a dismisura d’uomo”). Da qui ha origine il “racconto”, in
presa diretta, che ci impegna da alcuni anni e che, si teme, non potrà
lasciare scritto alcun finale (si chiede il poeta Claudio Moica: “Esiste
il confine delle parole?”). Il futuro è oscuro, la dimenticanza
l’opprime. L’esemplarità di una scuola di uomini fecondi, portatori
del “pensiero meridiano”, tuttavia, bussa alle nostre porte. Ci parla
sottovoce. Basta ascoltare l’inattualità per scoprirne l’irrinunciabile
presenza. Ogni occasione è buona: quella di una fila all’ufficio postale
204
Felice Casucci
o quella che contempla il tramonto. Ci educa quel che urge in “noi”,
così umani, così diversi.
Bruno Piccinini conclude la poesia, Nell’ora chiara, con i versi:
“Non si dà senso – dice una voce – / se non per desiderio, identità /
con l’essere e le cose / complicità segrete: / sguardo con sguardo,
respiro con respiro, / dolore con dolore, perdita con perdita / nella
sostanza oscura di ogni vita. / Solo così nella città del vivere e cercare,
/ dell’uomo che porta solitudini / e non conosce la sua profezia, / del
ragazzo che possiede il fuoco e ne fa sogno // – nella città degli alberi
e del vento / del dolore e del tempo / delle finestre che celano
vecchiaie / degli angoli in cui crescono le lacrime – solo così / puoi
leggere i codici di luce / di ogni vita / e consonanze – l’avventura / del
guardare e camminare / sulla terra strabiliante del giorno” (Carta
d’identità, del 2009).
Ombra e luce sono l’identità di un uomo, che il diritto non coglie
se non controverte con se stesso, abbandonando i sicuri approdi nei
quali cerca riparo. Le mani libere lasciano l’uomo inerme dinanzi alle
sconfitte della sua libertà. Ma nessuna forma di superficie è
perfettamente liscia. L’uomo ha solo ciò che ama da poter raccontare,
l’unico motivo di difesa. Oltre quel limite, il silenzio regna sul mondo
delle cose. Vi cade la lingua muta del diritto.
Le lettere sepolte d’una poesia sono preghiere nell’ora sospesa in
cui l’uomo subisce (da un altro uomo) la minaccia e l’esecuzione della
condanna. È con quel terribile istante che il diritto deve fare i conti,
perché sulla bocca del condannato il diritto, che lo contempla rapito, il
diritto “smisurato”, il diritto invincibile si arrende, e prega con le
parole di una poesia sepolta nella mente di un uomo. Dunque, lì vive
la grandezza e la miseria del diritto, a quel silenzio “singolare” esso
deve fare ritorno, riducendo la pretesa del suo clamore. Dinanzi a
quell’istante, il diritto, come un confessore (dinanzi a Zenone), deve
ritrarsi, ma si ha la sensazione che, già prima di farlo, abbia perso per
sempre qualcosa, forse la ragione stessa del giudicare. Se la concordia
tra l’uno e i più muore, se l’unisono si spegne c’è da chiedersi se il
diritto abbia vinto. Nessun dio è più umano del diritto: un dio mortale
che muore tante volte quante volte muore ogni sua vittima. Nessun
dio è più grande di Amore. Paul Celan, nelle sue Tenebrae, le tenebre
del genocidio, incita il nome sacro: “Prega, Signore / siamo vicini”.
…Il diritto nella letteratura
Infrangere i limiti con la parola:
la donna nella letteratura araba
VALENTINA COLOMBO
SOMMARIO: 1. La letteratura preislamica: antilopi, gazzelle e lamenti funebri. – 2. La donna
nella letteratura dell’epoca omayyade (661-750). – 3. Il periodo abbaside: la poesia della
corte di Baghdad (750-1258). – 4. La rivoluzione “shahrazadiana” e la prosa abbaside. –
5. Uomini e donne d’Andalusia. – 6. L’epoca moderna: poeti romantici e poetesse
“attiviste”. – 7. Il primo romanzo arabo: Muhammad Haykal versus Zaynab Fawwaz. – 8.
L’emancipazione della donna in Egitto: Qasim Amin, Malik Hifni Nasif e Huda
Shaarawi. – 9. Una intellettuale di inizio Novecento: Mayy Ziyada. – 10. I romanzi al
femminile: Layla Baalbaki e Sahar Khalifeh. – 11. Le donne di Naghib Mahfuz. – 12. Il
caso letterario “Ragazze di Riad”.
“Febo, guida dei canti, non ha voluto donare
alla nostra mente il canto divino della lira:
giacché avrei fatto risuonare un canto
contro la razza dei maschi”
(EURIPIDE, Medea)
Se in un contesto occidentale l’espressione “infrangere il limite”
può essere sinonimo di ribellione, in un contesto arabo islamico
assume un significo ben più profondo. Il termine “limite”, in arabo
hadd, nel Corano e nel diritto islamico indica la punizione stabilita da
Dio per certi delitti come il furto, l’adulterio e la calunnia di una
donna onesta. Qui l’esercizio dei diritti soggettivi ha per il musulmano
dei limiti posti da Dio, la cui trasgressione costituisce una sorta di
abuso del diritto1. Per la donna araba la letteratura è diventata nel
corso dei secoli uno dei modi più efficaci per opporsi ai limiti imposti
1
Si veda D. SANTILLANA, Istituzioni di diritto musulmano malichita, I, Roma 1938, 93.
208
Valentina Colombo
dalla tradizione e dal diritto islamico2. Come si evincerà dagli esempi
qui offerti, la donna araba emergerà dapprima come oggetto poi come
soggetto di scrittura, e curiosamente in entrambi i casi non
mancheranno mai i riferimenti ai “limiti” imposti dal diritto islamico,
sia nell’ambito del diritto di famiglia sia nell’ambito del diritto penale.
Non a caso in epoca contemporanea le scrittrici più “ribelli” saranno
persino accusate dall’estremismo islamico di oltrepassare i limiti
imposte dalle leggi e di oltraggio alla religione. Come ha sottolineato
Naziyya Abu Nidhal nel suo saggio La ribellione della femminilità “in
sociologia la ribellione è un tentativo del singolo di cambiare la realtà
sociale, ma proprio per il fatto di essere uno sforzo singolo è destinato
a fallire, poiché questo cambiamento esige una rivoluzione della
società o di un lungo periodo di tempo, in filosofia ribellione
corrisponde a un gesto di sfida che il singolo compie contro forze che
non si riescono a sconfiggere”3. La ribellione delle scrittrici arabe è
quindi sia sociologica che filosofica: il loro scopo è quello di
esercitare, o per lo meno cercare di esercitare, attraverso l’arte quella
libertà di espressione, di giurisdizione e non da ultimo quella libertà
sessuale di cui sono state private nei loro paesi. Un dato è comunque
certo e inconfutabile: le autrici sono in costante aumento e
rappresentano la produzione più innovativa nel panorama letterario
arabo.
Nel 1999 lo studioso Joseph Zeidan ha pubblicato una preziosa
Bibliografia della letteratura femminile nel mondo arabo moderno
(1800-1996) contenente ben 1271 voci, ovvero 1271 scrittrici. A
partire da quella data il loro numero e in primo luogo il loro impatto
sociale e culturale è aumentato in modo esponenziale4.
Non esiste purtroppo a oggi una storia della donna nella letteratura
araba, che, come si è già avuto modo di affermare, la vede
inizialmente più come oggetto e solo in epoca più recente come
soggetto di scrittura. L’arabista Fedwa Malti-Douglas nel saggio
2
Si veda C. DE LA PUENTE, Juridical Sources for the Study of Women: Limitations of the
Female’s Capacity to Act According to Maliki Law, in Writing the Feminine. Women in Arab
Sources, a cura di Manuela Marin e Randi Deguilhem, Londra 2002, 95-110.
3
Tamarrud al-untha fi riwayat al-mar’a al-‘arabiyya wa bibliugrafiya al-riwaya alnisawiyya al-‘arabiyya (1885-2004), al-Mu’assasa al-‘arabiyya li-al-dirasat wa-al-nashr,
Beirut 2004, 25.
4
Masadir al-adab al-nisa’i fi al-‘alam al-‘arabi al-hadith (1800-1996), al-Mu’assasa al‘arabiyya li-al-dirasat wa-al-nashr, Beirut 1999; si veda anche la bibliografia in Tamarrud aluntha, op.cit., 281-327.
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
209
Corpo di donna, parola di donna. Genere e discorso nella scrittura
arabo-islamica5 ha individuato due periodi: il primo del “corpo di
donna”, ovvero della letteratura scritta essenzialmente da uomini e
dove la donna è passiva ed è prevalentemente un corpo, un oggetto da
descrivere, talvolta da adorare, talvolta da maledire, ma pur sempre un
mero oggetto; il secondo della rivincita, della riscossa femminile,
della “parola di donna”6. In altri termini, se la donna nel periodo
classico della letteratura araba parlava, attraverso un megafono
maschile e attraverso il proprio corpo descritto da altri, la donna del
periodo moderno e contemporaneo riesce a trasformare il corpo-realtà
in un’arma letteraria per impadronirsi del discorso. È questo il motivo
per cui per meglio comprendere la rivoluzione che stanno attuando le
donne arabe in generale e le scrittrici arabe contemporanee in
particolare dando “corpo alla parola” e “parola al corpo” è necessario
delineare l’evoluzione e la trasformazione dell’immagine e della
parola della donna nella letteratura araba nel corso dei secoli.
1. La letteratura preislamica: antilopi, gazzelle e lamenti funebri
Le prime testimonianze della letteratura araba risalgono al periodo
preislamico: qui le donne se da un lato vengono descritte, lodate ed
esaltate nelle odi composte da uomini, dall’altro sono esse stesse
autrici di alcuni componimenti. In un’epoca in cui le donne venivano
sepolte vive alla nascita, in cui le donne non avevano alcun diritto in
fatto di eredità, potrebbe sembrare un successo la semplice presenza
femminile. Tuttavia alle donne, intese come autrici, è riservato un
unico genere letterario: il lamento funebre. Già da quest’epoca si può
osservare la differenza, la netta separazione, nei temi e nei ruoli, tra
uomini e donne impegnati nella scrittura.
Il più importante poeta preislamico, Imru’ al-Qays (prima metà del
VI secolo), nella composizione poetica nota come la mu’allaqa,
ovvero uno dei sette componimenti che secondo la tradizione erano
“appesi” – questo per l’appunto il significato del termine mu’allaqa –
5
Woman’s Body Woman’s Word. Gender and Discourses in Arabo-Islamic Writing,
Princeton 1992.
6
Si veda anche l’antologia a cura di Valentina Colombo, Parola di donna, corpo di
donna, Milano 2005.
210
Valentina Colombo
all’interno della Caaba meccana, dedica alcuni versi al corpo
seducente dell’amata:
Slanciata, bianca, dalle giuste forme.
E con il seno levigato come uno specchio.
Si volge mostrando una guancia liscia e si difende.
Con uno sguardo da antilope di Wagra,
mostra un collo simile a quello della bianca gazzella,
non troppo lungo né sciupato quando lo alza verso l’alto,
e una capigliatura nera come carbone lungo la schiena,
folta come un grappolo di datteri che pende dalla palma,
mentre le trecce sono ripiegate verso l’alto
i riccioli si perdono in pieghe e onde,
e una vita sottile come una fine redine
e gambe, fusti irrigati e irrorati7.
Nei componimenti preislamici le amate descritte appartengono
solitamente a un’altra tribù, spesso alla tribù rivale. Quando la poesia
viene composta e recitata, queste donne solitamente non sono più
accanto al poeta, ma se sono già andate. La loro mirabile e
incomparabile bellezza è sempre descritta in funzione dell’orgoglio
maschile, ovverosia dell’uomo che è stato capace di conquistarla e ne
va fiero8.
Non abbiamo a disposizione descrizioni del corpo femminile da
parte di poetesse poiché all’epoca il loro compito esclusivo era cantare
elegie, in modo particolare comporre lamentazioni funebri. In altre
parole, alle donne era riservato quel genere letterario che non si
addiceva agli uomini forti e coraggiosi di una tribù del deserto
arabico. Le poetesse godevano comunque di una sezione speciale
nelle competizioni poetiche, la più nota delle quali era quella di Ukaz,
ultima città carovaniera prima di raggiungere da nord La Mecca. Tra
la fine del VI e i primi decenni del VII secolo visse Khansà, la più
celebre poetessa della jahiliyya. contemporanea di Maometto, che era
una donna indipendente che rifiutò di sposarsi fino a quando trovò
l’uomo di suo gradimento e che pare si sia sposata ben tre volte,
contravvenendo ai costumi dell’epoca preislamica che vedevano la
7
Le Mu’allaqat. Alle origini della poesia araba, a cura di Daniela Amaldi, Venezia 1991,
5. Per una storia della letteratura araba classica si veda il prezioso volume Daniela Amaldi,
Storia della letteratura araba classica, Bologna 2004.
8
Si veda T. GARULO, Women in Medieval Classical Arabic Poetry, in Writing the
Feminine. Women in Arab Sources, cit., 25-40.
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
211
donna come un mero oggetto che non aveva diritto di ereditare e
talvolta nemmeno il diritto di vivere. Secondo alcune tradizioni si
sarebbe convertita all’islam, ma a prescindere da questo particolare è
certo che il Maometto, nonostante la sua rinomata ostilità nei
confronti dei poeti, amasse molto le poesie di Khansà9. Famose sono
le elegie di quest’ultima, cariche di dolore e struggimento, in ricordo
dei suoi due fratelli, Mu’awiya e Sakhr, morti nel corso di alcune
razzie:
Chi ha sentito o veduto i miei fratelli, pari a due rami.
Due fratelli come falchi, di cui occhio non vide il simigliante.
Due prodi senza macchia, la cui protezione non venne mai meno.
Io piango sui miei due fratelli, e sul sepolcro che li nasconde.
Non v’era fra gli adulti pari al mio adulto, né giovane come il giovane tra loro10.
2. La donna nella letteratura dell’epoca omayyade (661-750)
Non mancheranno altre poetesse nella letteratura araba dei primi
secoli dell’islam, ma la voce dominante rimarrà sempre quella
maschile. Jarir (653-728), il più importante poeta del periodo
omayyade, compose una commovente elegia in occasione della morte
della moglie Khalida. Troviamo qui l’uomo perdutamente innamorato
che ha perso la donna ideale:
Senza pudore il pianto ritornerà, ed io visiterò la tua dimora, come l’amato visita
l’amata!
Vi sono già andato, e quale piacere ho provato guardando la tomba ove la zappa
si è insediata.
Il mio cuore, quando l’avanzata età già mi maltrattava, e i tuoi figlioletti ancora
recavano gli amuleti, hai fatto ammaliare.
Erro tra le stelle, ai baratri della terra destinate, stelle che simili ad antilopi si
vedono sfrecciare.
Dolce compagna! Un oggetto prezioso eri, gelosamente custodito, ma ora nella
valle di Bulayya sotto i ciottoli da chi sei avvertita?
Ha vissuto onorata e rispettata, e senza essere sfiorata né da presunzione né da
angustie se n’è dipartita.
Ti rivedo, delle più belle grazie vestita, con la tua serena e dignitosa bellezza.
9
La traduzione italiana dell’opera di Khansà è a cura di Giuseppe Gabrieli, I tempi, la
vita e il canzoniere della poetessa al-Hansà, Roma 1944.
10
F. GABRIELI, La letteratura araba, Firenze 1967, 47.
212
Valentina Colombo
L’aria accogliendoti si profumava, mai conobbe il tuo onore macchia e
incompiutezza
Quando nella notte sopraggiungevo, il tuo bagliore che illuminava un volto dal
candido pallore, ancora più splendente perché senza velo, andavo rimirando
Su di te le preghiere degli angeli, degli eletti, dei puri e dei virtuosi si vadano
riversando!
Sii benedetta dal Signore, quando i pellegrini dai capelli lisci si riuniranno, dalla
calura meridiana estenuati11.
È un canto disperato. È l’esaltazione della moglie fedele e virtuosa,
che ha allevato i figli e che con la sua bellezza e la sua rettitudine ha
rasserenato la vita del coniuge. Ai tempi solo pronunciare il nome di
una donna in pubblico poteva suscitare uno scandalo. Per Jarir, e altri
poeti dell’epoca, le donne erano considerate le depositarie dell’onore
della famiglia, e morire da donna rispettata e onorate era ritenuto il
loro unico destino possibile per lei.
Toni e situazioni diversi si trovano in Farazdaq (641-730), l’eterno
rivale di Jarir. Argomento del componimento qui tradotto è un altro
aspetto della vita matrimoniale arabo-islamica: il ripudio. Qui la
situazione diventa paradossale. Il marito si pente di avere ripudiato
l’oggetto del suo amore:
Sono pentito come Kusa’i quando il suo arco spezzò, ora che Nawar ho
ripudiato.
Era il mio paradiso, ed ora io l’ho perduto.
Come Adamo quando al comando del Signore è contravvenuto.
Sono colui cui la luce splendente del giorno buia apparirà, e di propria volontà si
è accecato12.
Farazdaq, che pare si sia sposato almeno sette volte, sembra volere
ricordare che il ripudio, secondo il diritto islamico classico ad
esclusivo appannaggio dell’uomo, può dimostrarsi un’arma a doppio
taglio e corrispondere a una sorta di suicidio per chi lo pronuncia. La
libertà decisionale del marito è quindi densa di responsabilità e
conseguenze. Farazdaq comunque non è certamente definibile un
romantico. Al contrario, alla morte della moglie Hadra non si
scompone e si giustifica dicendo che la morte di una donna è
comunque la perdita più facile da sopportare.
11
Diwan Jarir, edizione critica di Nouman Mohammad Taha, Dar al-Maarif, Il Cairo
1986, 2 voll., 862-864. Ove non segnalato le traduzioni sono dell’autrice.
12
AL-MUBARRAD, al-Kamil, Beirut 2000, 70.
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
213
Da non dimenticare è il cantore dell’amore dell’epoca omayyade,
Jamil, meglio conosciuto come Jamil di ButhaYna, che è l’unica
protagonista delle sue poesie. I loro due nomi sono inseparabili come
quelli di Tristano e Isotta, Paolo e Francesca. È curioso che, come
spiega lo studioso della letteratura marocchino Abdelfattah Kilito, la
tradizione narri che lui non abbia mai posseduto Buthayna, ma ne
abbia semplicemente posseduto il nome; il nome di una donna, non la
donna13. Con Jamil, Buthayna diventa il simbolo della femminilità
nella letteratura e nell’immaginario popolare:
O fosse ancor fresco il fiore di gioventù, e potesse tornare, o Buthaina, un tempo
ormai fuggito!
Abitassimo ancora come allora, quando tu mi eri amica, e ciò che concedevi era
così poco (…).
Io ho spesa la vita in attesa del suo dono, ho consumato l’età di giovinezza
quando era ancora novella14.
È un amore al di là delle convenzioni della società del tempo, una
sorta di ribellione alla poligamia, un elogio dell’amore unico, una
deificazione della donna contro una religione che vieta ogni genere di
santificazione. Non è un sentimento artificiale creato appositamente
per rispondere ai canoni della poesia amatoria, bensì è un sentimento
reale, è esperienza vissuta. Soprattutto segna un primo, importante
cambiamento.
Poche invece sono le tracce rimaste di poetesse del periodo
omayyade, ciononostante sono degne di essere menzionate in quanto
molto significative. Brani che si devono ricavare all’interno di opere
ben più vaste, nella maggior parte dei casi nelle antologie. A
differenza dei poeti già citati, le poetesse non hanno avuto l’onore di
raggiungere la posterità attraverso il loro diwan, la loro raccolta di
poesie, bensì attraverso brevi frammenti sparsi, difficilmente
reperibili. È curioso come in una letteratura che per oltre quindici
secoli ha vissuto quasi esclusivamente di poesia, i nomi di poetesse
siano così scarsi. È quindi evidente, e sintomatico, che la maggior
parte della “poesia di donna” o non sia stata messa per iscritto oppure
sia andata perduta oppure sia stata “velata”. Quel poco che è giunto
fino a noi, non va comunque sottovalutato. Sono molto forti, ad
13
14
A. KILITO, L’autore e i suoi doppi, Torino 1988, 69.
Diwan Jarir Buthayna, Dar Bayrut, Beirut 1988, 57.
214
Valentina Colombo
esempio, i versi della poetessa Bint al-Hubab che confessa al marito,
con tono di sfida, di avere commesso adulterio:
Perché, marito mio, stai impazzendo solo perché un altro uomo ho amato?
Suvvia, flagellami, ogni ferita sul mio corpo mostrerà il dolore da me causato15.
La donna qui non supplica il perdono, non piange in cerca di
comprensione e pietà, anzi deride e aizza in modo quasi brutale il
marito. Quasi a ricordargli che potrebbe ben presto pentirsi della
propria reazione istintiva, proprio come era accaduto a Farazdaq.
3. Il periodo abbaside: la poesia della corte di Baghdad (7501258)
Quest’epoca, definita l’epoca dell’oro della letteratura araba,
assiste alla formazione di una società liberale, aperta, in grado e
desiderosa di godere di tutti i piaceri della vita terrena.
La poesia vive la sua epoca “moderna”, con poeti innovatori nello
stile e nei contenuti. Il poeta più rappresentativo è l’iniziatore della
poesia araba “moderna” Abu Nuwas (m. 815), cantore del vino,
dell’amore omosessuale, fervente sostenitore del carpe diem, non
trascura di dedicare alcune poesie alle donne. I toni da lui usati sono
sempre sfacciati e provocatori, la donna non è più la moglie defunta o
ripudiata, bensì la donna che desidera l’uomo al di là delle
convenzioni e dei limiti posti dalla società e dalla religione. La
ragazza dei narcisi è un esempio dell’atteggiamento di Abu Nuwas
nei confronti della vita in generale e della donna in particolare:
Narcisi aveva in man la sfacciatella:
le dissi, mentre ci passava a lato,
“È brutto essere avari! Su, largiscici
quel che a ogni petto ridarebbe fiato!”
Piena di spocchia ridacchiò e rispose:
“Ancor più brutto è un amante spiantato!”16
15
A. AL-UDHARI, Classical Poems by Arab Women. A Bilingual Anthology, Saqi Books,
Londra 1999, 88.
16
A. NUWAS, La vergine nella coppa, a cura di Michele Vallaro, Roma 1992, 45.
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
215
Il rivoluzionario Abu Nuwas se da un lato attacca la “sfacciatella”,
alla fine si schiera dalla sua parte concedendole persino la rivincita
nella lapidaria e ironica battuta finale.
Anche nel caso della poesia abbaside possediamo alcuni esempi di
componimenti per mano di donne. ‘Ulayya (777-825), figlia del
califfo al-Mahdi, è una celebre e raffinata poetessa che pare abbia
composto più di duecento versi, la maggior parte dei quali cantano
l’amore cortese e, come Abu Nuwas, il vino:
Signore, non è un peccato desiderare Ra’ib che carezza il mio cuore con amore e
pianger mi fa.
Possa Dio maledire quel che Ra’ib non mi concede anche se digiuna e prega17.
‘Ulayya quindi “osa” al pari di Abu Nuwas. E questa somiglianza
nei temi trattati da ‘Ulayya e Abu Nuwas non fa che deporre a favore
dell’atmosfera che regnava in epoca abbaside alla corte di Bagdad
dove i “limiti” oltrepassati dalla letteratura venivano non solo tollerati,
ma anche sostenuti dai califfi-mecenati.
Tra le protagoniste femminili delle poesie di quest’epoca non
figurano comunque solo le mogli o le amanti in generale, ma anche le
donne che assicurano la posterità alle famiglie, che sono il porto
sicuro nella vita di ogni uomo: le madri. Uno dei ritratti più
commoventi e toccanti è quello tracciato da Abu Firas al-Hamdani (m.
968), cugino dell’emiro di Aleppo, Sayf al-Dawla, che partecipò in
prima persona alle guerre contro i bizantini e che, caduto nelle mani
del nemico, compose numerose elegie in onore della patria e dei suoi
cari. Spicca la figura madre del prigioniero, con molta probabilità sua
madre:
Madre del prigioniero, che la pioggia ti irrori, difendendoti dalla fatalità.
Madre del prigioniero, che la pioggia ti irrori, egli è titubante né dove abitare né
dove andare sa.
Madre del prigioniero, che la pioggia ti irrori, la buona nuova del riscatto da chi
riceverai?
Madre del prigioniero, ora che sei morta, le ciocche e i riccioli a chi sistemerai?
Tuo figlio è lontano, al confine tra mare e terra, chi pregherà per lui, chi lo
soccorrerà?
Trascorrere la notte in modo lieto è proibito, meschino trastullarsi nella
giocondità.
17
A. AL-UDHARI, op.cit., 116.
216
Valentina Colombo
Dalle avversità e dalla sorte consumata, del figlio e del compagno orbata, la
persona amata del tuo cuore ha lasciato il luogo, ma laggiù dagli angeli del cielo
sarà vegliata.
Piange ogni giorno in cui tu, paziente, del mezzogiorno sotto il sole cocente hai
digiunato.
Piange ogni sera in cui hai vegliato sino al sorgere dell’alba splendente18.
Sentimenti profondi e infinito rispetto nei confronti di colei che si è
sempre presa cura del figlio sin dalla nascita, che lo ha amato e per lui
si è disperata nei momenti difficili.
4. La rivoluzione “shahrazadiana” e la prosa abbaside
Finora si è fatto riferimento solo alla poesia, ovvero al genere
letterario arabo per eccellenza tanto da essere definita il “registro degli
arabi”. Tuttavia è risaputo quanto la poesia sia molto più legata alle
convezioni rispetto alla prosa che offre nella maggior parte dei casi
una visione più lucida, oserei dire più libera, della realtà. È proprio
nella prosa che, in quello che viene definito il periodo aureo della
letteratura araba – corrispondente all’incirca al IX-X secolo – si trova
un personaggio femminile a dir poco rivoluzionario: Shahrazad, la
protagonista/narratrice delle Mille e una notte. Sino a Shahrazad il
mondo della letteratura in generale, della prosa in particolare, è a
totale appannaggio degli uomini. Con lei la donna assume il controllo
della narrazione e prende parola. Shahrazad, con la complicità della
sorella Dunyazad, usa il proprio corpo e le proprie narrazioni per
salvare se stessa e altre giovani ragazze. Shahrazad parla, “ha letto i
libri, le storie e le gesta dei re antichi, e le notizie dei popoli passati,
tanto che si dice avesse raccolto mille libri di storie attinenti alle genti
antiche, ai re del tempo che fu, e ai poeti”19. Da questo momento la
voce di una donna non è più una facoltà fisiologica, bensì uno
strumento narrativo che le consente di contribuire in prima persona
all’ambito letterario. Shahrazad, così come le scrittrici della presente
antologia, dimostra agli uomini e alle donne, per le quali diventa un
mirabile modello, che è fondamentale un’intima connessione tra
scrittura e corpo. Non è un caso che la protagonista del romanzo La
18
19
Diwan Abi Firas al-Hamdani, commento di Khalil al-Duwayhi, Beirut 1994, 161-162.
Le Mille e una notte, a cura di Francesco Gabrieli, Torino 1984, I, 7.
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
217
terrazza proibita, della sociologa marocchina Fatima Mernissi,
riprenda e sottolinei l’importanza della parola per la donna che si
vuole emancipare:
Quando mia madre finì di raccontare la storia di Shahrazad, io le chiesi: “Ma
come si impara a raccontare le storie che piacciono ai re?”. Mia madre mormorò,
come parlando tra sé e sé, che le donne non facevano altro per tutta la vita. Questa
risposta non mi fu di grande aiuto, naturalmente, ma poi lei aggiunse che le mie
opportunità di essere felice dipendevano tutte dal grado di abilità che avrei acquisito
nell’uso delle parole.20
Shahrazad è una pietra miliare, un punto di svolta. Questo non vuol
dire che nella letteratura ante Mille e una notte la donna non esiste,
ma significa che fino a quel momento era stata un personaggio come
tanti altri, uno strumento all’interno dell’immenso ingranaggio del
prodotto letterario. Basti come esempio il grande poligrafo arabo Jahiz
(m. 869), che nella sua opera più famosa, l’imponente Libro degli
animali, meglio Libro degli esseri viventi, dedica alcune pagine alla
satira degli uomini verso le donne e viceversa, riportando, come sua
abitudine, per entrambi i casi alcuni esempi:
Al-Aqra’ figlio di Mu’adh al-Qushairi ha detto: “Per la mia vita! Il semplice
fatto di toccare Umm Khalid mi ripugna, anche se condividiamo lo stesso letto. I
suoi vestiti, quando vengono sollevati, sembrano percorsi da formiche e zanzare
piene di virulenza”.21
Per par condicio simili frecciate sono riservate dalle donne agli
uomini:
Una donna dei Banu Dabba, parlando del marito, lo ha deriso in questo modo:
“È orribile a vedersi e ha una costituzione maledetta, la sua andatura è quella di un
finto zoppo. Ogni volta che lo maledico lo sento dire: Amen! Ah! Se solo potesse
andarsene a vivere in terra infedele e io potessi precederlo in Cina!”22
Riassumendo si può affermare che nella prosa al maschile
abbaside, ante Shahrazad, il cui maggior esponente è Jahiz, i due sessi
vengono presentati e descritti indistintamente e trattati in maniera
20
F. MERNISSI, La terrazza proibita. Vita nell’harem, Firenze 1996, 17.
JAHIZ, Kitab al-Hayawan, edizione a cura di ‘Abd al-Salam Muhammad Harun, VII, Il
Cairo s.d., 160-161.
22
Ivi, 162.
21
218
Valentina Colombo
neutrale con l’unico scopo di ottenere un testo piacevole da leggere,
un prodotto che fa rilassare e divertire il lettore, nella migliore
tradizione dei testi adab.
5. Uomini e donne d’Andalusia
Nella Cordoba del califfato omayyade di Spagna (756-1013), i temi
dominanti della letteratura araba dei paesi centrali vengono rielaborati
per dare vita a quella che è meglio nota come la letteratura araboandalusa23. Ma la figura dell’amata, protagonista universale, permane.
Un vero inno alla donna è quello dell’andaluso Ibn Zaydun (10031071), aristocratico di Cordoba, che conobbe la prigione, l’esilio e
anche la cocente delusione amorosa:
Ella è un ramoscello di mirto, fiorisce con la luna piena,
i suoi sguardi tracimano magia,
il broccato delle sue guance parla degli splendori del vino,
le sue parole nel momento in cui vengono pronunciate sono come perle
disseminate lungo il cammino,
la sua saliva che assaporavo sulle sue labbra, ebbrezza24.
Non è da escludere che questi versi siano dedicati alla poetessa
prediletta di Ibn Zaydun, Wallada figlia di al-Mustakfi (994-1091) con
la quale visse una tormentata relazione.
Dopo l’assassinio del padre, Wallada rifiuta ogni genere di tutela,
prevista dalla legge islamica, e fonda un circolo letterario. Della sua
produzione ci sono pervenute otto poesie, di cui due in cui vengono
descritte la sua gelosia e il suo desiderio dell’amato. Nella prima
rimprovera Ibn Zaydun per essersi innamorato della domestica,
mentre nella seconda il sentimento e la nostalgia hanno il
sopravvento:
Dopo la separazione, potremo ritrovarci ancora?
Ah, gli amanti, tutti delle loro pene si lamentano.
D’inverno trascorro le ore che dall’incontro mi separano
sulle acque ardenti del desiderio,
23
S.K. AL-JAYYUSI, The Legacy of Muslim Spain, Leiden 1992.
M.R. MENOCAL, R.P. SCHEINDLIN, M. SELLS, The Literature of al-Andalus, Cambridge
2000, 308-312.
24
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
219
e come altrimenti se siamo distanti.
Ben presto il destino mi ha recato
quel che temevo. Le notti passano,
la separazione non finisce, la pazienza
non mi libera dalla morsa dello struggimento.
Che Dio irrori la terra dove tu dimori
con piogge abbondanti e copiose!25
6. L’epoca moderna: poeti romantici e poetesse “attiviste”
Facendo un salto di quasi un millennio si arriva all’egiziano
Ahmad Shawqi (1868-1932), “principe dei poeti moderni”, che canta,
con toni molto vicini a quelli del Romanticismo occidentale, un amore
finito:
Ingannatela e ditele: Sei bella! Gli apprezzamenti seducono le ragazze graziose.
Non vedi che ha dimenticato il mio nome quando sono aumentati i nomi della
passione.
Quando mi vedeva si allontanava come se tra me e lei non vi fosse stato un
legame,
Uno sguardo un sorriso, un saluto, una parola, un appuntamento, un incontro.
Un giorno eravamo, non si chiede come procedevamo nell’amore.
Su di noi il custode della castità, la passione si è indebolita.
Ha tirato il mio abito e ha detto: Voi persone (…) poeti!
Temete Dio nel cuore delle vergini, perché i cuori delle vergini sono come
l’aria26.
Pare qui di ritrovare il tema della donna come fonte di confusione,
di distrazione per il cuore e la mente degli uomini. La donna intesa
come fitna, sedizione, termine tanto caro agli integralisti islamici.
Ai versi di Shawqi fa da contraltare la voce dell’irachena Nazik alMala’ika (1923-1995), la più importante e innovativa poetessa araba
del ventesimo secolo, iniziatrice del verso libero nella letteratura
araba. In alcuni saggi, in particolare in Donne tra due estremi:
passività e scelta etica, denuncia senza mezzi termini che alle donne
arabe non è consentito diventare esseri etici, poiché questo
presupporrebbe una certa libertà intellettuale e morale, la possibilità di
25
A. AL-UDHARI, op.cit., 184-195.
Si veda la traduzione di Valentina Colombo in La poesia del mondo. Lirica
d’Occidente e d’Oriente, a cura di Giuseppe Conte, Parma 2003, 618-619.
26
220
Valentina Colombo
prendere decisioni autonome, di guadagnare, di studiare e di scegliersi
un marito27. Idee che condensa nei disperati versi nel suo Lamento per
una donna senza valore:
Se n’è andata, le sue guance non sono impallidite, le sue labbra non hanno
tremato.
Le porte la storia della sua morte non hanno udito.
Nessuna cortina in segno di dolore e tristezza il volo ha spiccato.
Per seguire la tomba sino alla sua scomparsa.
La notizia è precipitata sulla strada, la sua eco senza un riparo.
In qualche anfratto dimenticata, mentre la sua depressione la luna lamenta28.
Il poeta siriano Nizar Qabbani è il poeta d’amore, il cantore della
donna per eccellenza della letteratura araba del Novecento. La sua
donna non solo sale sul piedistallo, come è già capitato con altri
autori, ma addirittura trova un complice che la aiuta a oltrepassare
ogni limite. Una delle sue raccolte di poesie più famose ha per titolo
Professo che non v’è altra donna al di fuori di te29 – ricalcando parola
per parola la professione di fede islamica “Non v’è altro dio al di fuori
di Allah” – e dimostra quanto Qabbani sia un uomo libero che sente
solo prepotenti in sé i vincoli che questa millenaria parola, amore,
dolcemente gli impone. L’apoftegma shakespeariano “Fragilità, il tuo
nome è donna” si muta in Qabbani in “Amore, il tuo nome è donna” e
così il verso “Non v’è altra donna al di fuori di te” può trasfigurarsi in
“Non esiste altro amore al di fuori di te”, intendendo conferire la più
alta collocazione nell’universo umano alla figura femminile, la
domina medievale, l’amorosa visione dantesca e pure quella
“vergine” che Qabbani riprende dal Vangelo e dal Corano.
La donna dei suoi versi lo colonizza e, al contempo, lo affranca, lo
vizia e lo devasta, che è “nobile come il mare/insigne come la poesia”,
che muta le leggi del mondo e che “eleva l’amore a livello della
preghiera”, e che infine è “la” legge:
Ogni femminea figura nella cui voce
l’argento si mescola con il vino e con le piogge
e dagli specchi delle sue ginocchia sgorga la luce
27
Si veda S. STEVENS, Nazik al-Malaika (1923-2007) “Iraqi Woman’s Journey Changes
Map of Arabic Poetry”, in Al Jadid 13/14, nn. 58/59 (2007/2008).
28
Diwan Nazik al-Mala’ika, II, Dar al-‘Awda, Beirut 1997, 283-284.
29
N. QABBANI, Ashhadu an la imra’ta illa anti, in al-‘A’mal al-shi’riyya al-kamila, vol.2,
Manshurat Nizar Qabbani, Beirut 1983, 737-807.
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
221
e la vita si prepara a salpare.
Ogni femminea creatura nei cui occhi con l’oliva si amalgama il mare.
O mia rosa, mio astro, mio diadema
forse sono
un sovversivo, un anarchico, un folle.
Se fossi un folle – e questo è possibile – tu, mia signora, di questa follia saresti
responsabile.
Se fossi maledetto – e questo è possibile – allora chiunque, mia signora, facesse
l’amore senza permesso
nel terzo mondo sarebbe maledetto.
Perdonami ancora una volta!
Quando sono uscito dai limiti della legge
che cosa ho fatto mai, mia pianta aromatica?
Ogni donna che ho amato
è diventata la legge30.
Questa visione dell’eterno femminino è qualcosa di nuovo e di
rivoluzionario, nella poesia e nell’universo arabi. Se accanto a lei il
poeta si sente un uomo libero, ciò lascia intendere che la donna è
libera, la donna anzi è la libertà.
Professo che non v’è altra donna
accanto al cui seno destro si è trattenuto il tempo al di fuori di te
e ai piedi del cui seno sinistro son deflagrate le rivoluzioni al di fuori di te.
Professo che non v’è altra donna
che ha mutato le leggi del mondo al di fuori di te
e la mappa del lecito e dell’illecito ha modificato al di fuori di te31.
La maestria di Qabbani immedesimarsi nei sentimenti e nella vita
della donna è tale che molte sue poesie sono diventate tra le canzoni
arabe più famose, cantate non a caso da donne, tra cui la celebre
cantante libanese Magda Rumi.
7. Il primo romanzo arabo: Muhammad Haykal versus Zaynab
Fawwaz
Nel difficile passaggio dalla prosa classica alle forme letterarie del
ventesimo secolo nascono, all’interno della letteratura araba, nuovi
generi accanto ai generi preesistenti che vengono ripresi e adattati alle
30
31
N. QABBANI, op.cit., 756-757.
Ivi, 741-752.
222
Valentina Colombo
nuove esigenze. La grande novità è il romanzo. La nascita del
romanzo nel mondo arabo viene solitamente attribuita all’egiziano
Muhammad Husayn Haykal (1888-1956) che nel 1914 pubblica
Zaynab. Tuttavia la studiosa Buthaina Shaaban nel suo
interessantissimo saggio Cent’anni di romanzo arabo al femminile32
sottolinea che alcune scrittrici arabe “dimenticate” avevano preceduto
Haykal. La prima autrice di un romanzo in lingua araba è stata la
libanese Zaynab Fawwaz (1846-1914) con il suo Le migliori
conseguenze33, stampato al Cairo nel 1899, ovvero quindici anni
prima di Zaynab34. Prima del libro di Haikal sono apparsi almeno
tredici romanzi tra i quali Il cuore dell’uomo della libanese, residente
in Egitto, Labiba Hashim (1882-1952), pubblicato nel 190435, e Le
belle di Salonicco della libanese Labiba Mikhail Sawayya (18761916)36.
La Shaaban sconvolge anche un altro primato, in precedenza
attribuito a un uomo, quello del primo romanzo che affronta il tema
scottante del rapporto tra Oriente e Occidente. Ebbene la scrittrice
libanese Afifa Karam (1883-1924) con il suo Badi’a e Fu’ad precede
di ben quarant’anni Un passero dall’Oriente dell’egiziano Tawfiq alHakim, pubblicato nel 193837. Il libro della Karam narra di una storia
d’amore sbocciata su una nave in viaggio dal Libano agli Stati Uniti e
analizza le preoccupazioni della donna, ma anche questioni come la
modernità e l’identità.
In breve anche la storia della letteratura araba quando ripercorsa da
una donna assume un aspetto totalmente diverso, dove le protagoniste
femminili emergono come da un lungo letargo, infrangendo i limiti di
una tradizione, anche in ambito accademico, che ha cercato di mettere
in disparte l’apporto femminile alla cultura araba.
32
Mi’at ‘amm min al-riwāyat al-nisa’iyya al-‘arabiyya: 1899-1999, Dar al-adab, Beirut
1999.
33
Z. AL-FAWWAZ, Husn al-‘awaqib aw al-ghada al-zahira, Il Cairo 1899.
Si veda J. ZEIDAN, Arab Women Novelists: The Formative Years and Beyond, New
York 1995, 64-67.
35
L. HASHIM, Qalb al-rajul, Il Cairo 1904. Si veda JOSEPH ZEIDAN, op. cit., 67-69.
36
L.M. SAWAYA, Hasnà Salunik, Damasco 1909. Si veda MATTI MOOSA, The Origins of
Modern Arabic Fiction, Lynne Rienner Publishers, Londra 1997, 280.
37
‘A. KARAM, Badi’a wa-Fu’ad, Il Cairo 1906.
34
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
223
8. L’emancipazione della donna in Egitto: Qasim Amin, Malik
Hifni Nasif e Huda Shaarawi
Se si può riscontrare una certa continuità tra la letteratura araba
classica e quella moderna quando gli autori sono uomini, drammatica
invece è la differenza quando i testi sono opera di scrittrici che
mettono in atto nuovi meccanismi per svelare e sollevare altre
questioni. La risposta femminista alla mentalità tradizionale
dominante è dovuta essenzialmente a due circostanze: al maggiore
accesso alla stampa delle donne arabe e all’ascesa del femminismo
che consente alla scrittrice moderna di potere combattere le visioni
sessiste classiche.
Come nel caso del romanzo, la nascita dell’emancipazione
femminile nel mondo arabo viene attribuita a un uomo,
all’intellettuale egiziano Qasim Amin (1863-1908) e al suo saggio
L’emancipazione della donna38. Questo fatto potrebbe non stupire.
D’altronde anche in Occidente uno dei principali testi
sull’emancipazione femminile è quello pubblicato nel 1851 da John
Stuart Mill, non a caso citato come fonte da Qasim Amin nel suo La
donna nuova39. Nel pensiero di Qasim Amin la donna se non è solo un
corpo, è pur sempre uno strumento, un mezzo per raggiungere un
secondo fine. La donna deve essere adeguatamente istruita, essere una
buona moglie e una buona educatrice, deve saper leggere e far di
conto. Solo così la nazione egiziana potrà migliorare ed emanciparsi
dalla potenza straniera occupante, la Gran Bretagna. Non a caso se nel
saggio si sostituisce la parola donna con Egitto, e la parola uomo con
potenza occupante, nulla cambia. Addirittura si ha un capitolo
intitolato “Donna e nazione” dove la donna viene citata solo
casualmente mentre il discorso è totalmente incentrato sull’anticolonialismo. Nonostante si possa sospettare un uso strumentale della
condizione femminile, non si può negare che L’emancipazione della
donna occupi una posizione di tutto rilievo per chiunque voglia
affrontare la storia dell’emancipazione della donna non solo in Egitto,
ma in senso più lato nel mondo arabo. Vi sono alcuni punti del primo
saggio di Qasim Amin che non sono indicativi del mondo che lo
38
39
Q. AMIN, Tahrir al-mar’a, Il Cairo 1899.
ID., al-mar’a al-jadida, Il Cairo 1900.
224
Valentina Colombo
circondava. L’autore si sente addirittura in dovere di dare una
definizione del termine “donna”:
Che cosa credete che sia una donna? Come un uomo è un essere umano. Il suo
corpo e le sue funzioni, i suoi sentimenti e le sue capacità di intendere sono le stesse
di un uomo40.
Il libro suscita scalpore e riceve aspre critiche da parte degli
ambienti religiosi conservatori egiziani, mentre viene accolto
favorevolmente dagli ambienti nazionalisti egiziani. Molte idee
avanzate da Qasim Amin vengono riprese, in epoca più recente, da
altri intellettuali, ma l’influsso più diretto è quello esercitato sul
pensiero della scrittrice femminista egiziana, Malak Hifni Nasif
(1886-1918) meglio nota con lo pseudonimo di Bahithat al-Badiyya.
È evidente che quando le donne prendono parola il registro cambia,
muta il punto di vista e mutano le priorità. Riguardo alla questione del
velo, che Amin aveva proposto di abolire, la Nasif ritiene che gli
intellettuali non abbiano invece il diritto di consigliare alle donne
come debbano vestirsi. Nella sua celebre conferenza al Circolo del
Partito Umma afferma:
La maggior parte di noi donne continua adessere oppressa dall’ingiustizia
dell’uomo, che col suo dispotismo decide quel che dobbiamo fare e non fare, per cui
oggi non possiamo avere neppure un’opinione su noi stesse. (...) Se ci ordina di
portare il velo, noi obbediamo. Se ci chiede di toglierlo, facciamo altrettanto41.
Anche la tematica del velo quando affrontata da una donna mostra
una la complessità che pare sfuggire a un intellettuale come Amin.
Per la Nasif la questione più importante rimane l’accesso
all’istruzione delle donne e “poi lasciate che sia la donna a decidere
ciò che convenga di più a lei stessa e alla nazione”. Pare di leggere
l’inglese Harriet Taylor che nel 1851 scriveva:
Il movimento che ha preso avvio non consiste in un patrocinio esercitato da
scrittori e oratori maschi in favore delle donne (…) è un movimento non meramente
in favore delle donne, ma fatto dalle donne42.
40
ID., Tahrir al-mar’a in Qasim Amin al-a’mal al-kamila, Il Cairo 1989, 329.
MALAK HIFNI NASIF, Nisa’iyyat, 2 voll., Il Cairo 1925. Per il testo completo in inglese
della conferenza si veda Opening the Gates. An Anthology of Arab Feminist Writing, a cura di
M. Badran, M. Cook, Bloomington 2004, 228-238.
42
J.S. MILL, H. TAYLOR, Sull’eguaglianza e l’emancipazione femminile, Torino 2001, 35.
41
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
225
Opposta a quella della Nasif è la corrente femminista
rappresentata, nello stesso secolo, da Huda al-Shaarawi (1879- 1947).
Il femminismo della Shaarawi è legato alle tendenze occidentalizzanti
e laiche, tipiche delle classi medio-alte e alte, e propugna il progresso
verso una società di tipo occidentale. Diversa è altresì la vita della
Shaarawi43. Aveva perso suo padre all’età di cinque anni e trascorse
quindi l’infanzia in una casa abitata da sole donne, un harem senza
padrone, dove gli unici uomini erano il fratello minore Omar e un
eunuco.All’età di tredici anni era stata obbligata a sposare il suo
cugino e tutore, Ali Shaarawi Pasha, per sottrarsi a un pretendente
candidato dal Khedivé. Poco tempo dopo le nozze, come era da
aspettarsi data la grande differenza d’età tra i due coniugi, fece ritorno
per qualche tempo nella grande casa di sua madre, dove rimase sette
anni a studiare, con l’aiuto del fratello e di un’amica francese; riuscì
in questo modo ad acquisire una doppia educazione, francese ed
araba. Consapevole della vastità delle proprie conoscenze affermò in
diverse occasioni che la sua mente valeva “quelle di dieci uomini
messi insieme”.Tornata dopo sette anni dal marito, ebbe due figli nel
1903 e nel 1906. Fu gradualmente coinvolta nella lotta contro
l’occupazione britannica e, poiché i soldati inglesi sparavano sugli
uomini e sugli studenti durante le manifestazioni, organizzò nel 1919
una marcia di donne, pur sempre velate, per le strade del Cairo, per
protestare contro l’arresto e l’esilio dei quattro capi principali della
resistenza egiziana.Questa marcia divenne la pietra miliare di una
lunga successione di gesti politici clamorosi. Le signore
dell’Alleanza Internazionale per il Suffragio Femminile la invitarono
a partecipare alla conferenza che si sarebbe tenuta a Roma nel 1923.
La Shaarawi si recò quindi a Roma con due collaboratrici. Di ritorno
al Cairo, scendendo dal treno, le tre donne si tolsero il velo e furono
spontaneamente imitate da tutte le signore che erano andate loro
incontro.Fondò il 16 marzo 1923 l’Unione Femminista Egiziana –
affiliata all’Alleanza Internazionale – insieme a una scuola, un asilo e
una bottega dove le bambine imparavano la sartoria ed il
ricamo.Inoltre, dopo aver letto Jus Suffragi, la gazzetta dell’Alleanza
43
H. SHAARAWI, Harem-Years. The Memoirs of an Egyptian Feminist 1879-1924, New
York 1987.
226
Valentina Colombo
Internazionale, decise di fondare una rivista egiziana in lingua
francese, L’Egyptienne, destinata a fungere da “messaggera di pace tra
l’Oriente e l’Occidente”, un vero e proprio contenitore di informazioni
attendibili dalle due parti del mondo.L’Unione Femminista Egiziana,
fulcro delle attività femministe in Oriente, divenne la sede di
numerosi eventi politici, economici, sociali e di iniziative legali e
culturali. Fra queste battaglie si ricorda l’azione sostenuta per affidare
la tutela dei figli, non prevista dal diritto islamico, alla madre in caso
di divorzio, e l’aver trasformato in legge l’obbligo per le donne di non
sposarsi prima dei sedici anni. Riuscì inoltre a promuovere, offrendo
un consistente contributo e raccogliendo altri fondi, la fondazione di
una banca gestita da egiziani con capitale egiziano, sotto la direzione
di Talaat Harb Pasha. Decise infine di fare della propria magnifica
dimora un punto d’incontro per i personaggi coinvolti nella scena
culturale e politica globale. Inoltre, fece issare quotidianamente la
bandiera egiziana sul terrazzo, poiché la bandiera dell’Impero
Britannico sventolava sopra la caserma vicina delle forze occupanti.
La casa fu allora battezzata La Maison de l’Egyptienne.44
9. Una intellettuale di inizio Novecento: Mayy Ziyada
Una donna che è riuscita nel tentativo di conciliare impegno
femminista e letteratura è stata Mayy Ziyada (1895-1941), nota al
pubblico occidentale per l’intenso rapporto epistolare con il libanese
Kahlil Gibran, l’autore de Il Profeta45. Mayy Ziyada fonda al Cairo,
un circolo letterario frequentato all’epoca dall’élite intellettuale
dell’epoca e aperto a uomini e donne di varia cultura ed estrazione
sociale. Si tratta di un gesto significativo e coraggioso che si prepone
di usare la cultura per valicare i limiti e per favorire l’incontro tra i
due sessi anche se in ambienti riservati ed élitari. La scrittrice egiziana
a proposito della condizione della donna scrive:
Se l’uomo è schiavo una volta, la donna lo è molto di più. I pittori di solito
simboleggiano la schiavitù, rappresentando un uomo infelice e incatenato, ma se
44
Per la biografia della Shaarawi si veda S. SHARAWI LANFRANCHI, Casting Off The Veil:
The Life of Huda Shaarawi, Egypt’s First Feminist, Londra 2012.
45
Per l’edizione italiana delle lettere di GIBRAN alla Ziyada si veda Lettere d’amore, a
cura di Valentina Colombo, Milano 1996.
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
227
volessero rendere questo simbolo più esplicito, lo potrebbero fare con una donna
(…). Gli uomini hanno preso l’abitudine a renderla schiava non solo con il sopruso,
le pressioni e la sofferenza, ma anche con la cortesia, le lusinghe e il corteggiamento
(…). Le donne povere escogitano mille moine per essere desiderate, ma se potessero
riflettere, capirebbero che in fondo a tutto c’è solo il disprezzo per loro stesse e per
la loro femminilità46.
A differenza di Malik Hifni Nasif e Huda al-Shaarawi, quello di
Mayy Ziyada non è un impegno sociale in prima linea, ma un
impegno dalla scrivania di casa di una grande scrittrice.
10. I romanzi al femminile: Layla Baalbaki e Sahar Khalifeh
La letteratura femminista nel vero senso della parola, ovvero quella
che mira alla denuncia della condizione della donna nei paesi arabi,
prende avvio solo negli anni Cinquanta con la libanese Layla Baalbaki
(n. 1938) che nel 1958 pubblica il romanzo, dal titolo significativo, Io
sono viva47. È la storia dei vani tentativi di una ragazza di conquistare
la propria libertà. Lina, la protagonista, disprezza sia il padre che si è
arricchito tramite dubbi commerci sia la madre che subisce il ruolo di
oggetto per la riproduzione al servizio dei piaceri del marito. Si
assicura l’indipendenza economica con un lavoro part-time come
segretaria e s’iscrive all’università di Beirut. S’innamora, abbandona
gli studi e il lavoro per dedicarsi all’amato che invece la ricambia con
la sua durezza e poco amore. Tenta di suicidarsi, ma viene salvata. Le
ultime battute del romanzo racchiudono tutta l’amarezza e la tristezza
della protagonista:
Ritornai a casa, come se fossi obbligata a farlo. Sono sempre dovuta tornare a
casa, ho sempre dovuto dormire in questa casa, mangiare in questa casa, mangiare in
questa casa, lavarmi in questa casa, lavarmi in questa casa e il mio destino ti ama in
questa casa.
La scrittrice che viene considerata la più intransigente e la più
impegnata è l’egiziana Nawal al-Saadawi, il cui interesse principale,
essendo lei stessa un medico, è il corpo femminile usato e abusato. Il
46
Citazione tratta da I. CAMERA D’AFFLITTO, Letteratura araba contemporanea, Roma
1998, 192.
47
LAYLA BAALBAKI, Ana haya, Beirut 2010.
228
Valentina Colombo
suo primo romanzo, quasi un’autobiografia, Memorie di una donna
medico vuole essere la risposta femminile alla vasta letteratura scritta
da uomini che dimenticano, chiusi come sono nella loro torre
d’avorio, la donna e la sua realtà. I toni della Saadawi sono sempre
molto forti, colpiscono nel profondo:
Il conflitto tra me e il mio essere donna iniziò molto presto. Ancora prima che
sbocciasse la mia femminilità, ancora prima che conoscessi qualcosa di me, del mio
sesso e delle mie origini. Ancora prima di conoscere quel vuoto che mi abitava,
prima di rivolgere parola a questo immenso mondo.
Tutto quel che sapevo a quel tempo era di essere una bambina, come sentivo
spesso da mia madre. Bambina!
La parola bambina aveva per me un unico significato (…) ovvero che non ero un
bambino (…) non ero come mio fratello!
Nawal al-Saadawi non hai mai smesso di denunciare i problemi
della condizione femminile, soprattutto quelli delle aree rurali
egiziane non raggiunte dall’alfabetizzazione e dal progresso, come
ben dimostra il suo saggio più famoso Il volto nascosto di Eva48.
Quest’ultimo libro è stato oggetto di numerose critiche, tra cui la più
celebre, quella dell’intellettuale siriano Georges Tarabishi, è confluita
in Una donna contro il suo sesso49. Qui Tarabishi sostiene che tutte le
eroine dei romanzi della Saadawi, ben lungi dall’essere esempi
dell’emancipazione femminile, hanno assorbito appieno l’ideologia
maschilista. La loro ribellione mancata non sarebbe il risultato
dell’oppressione maschile, bensì della loro connivenza con
l’oppressore. Le critiche di Tarabishi sono eccessive e permeate di
pregiudizi maschilisti. Ciò non toglie che le critiche principali mosse
alla produzione letteraria della Saadawi sono quelle provenienti da
altre scrittrici arabe, da donne che giudicano un’altra donna.
L’irachena Alia Mamduh (1944-) a riguardo sostiene che la Saadawi
non rappresenti la vera immagine della creatività delle donne arabe
perché trasforma la creatività, che è immaginazione e ricordi, in una
sorta di laboratorio che vuole mostrare esempi solo malati e deformati
che vengono rappresentati come tipi sociali generici. Un’altra
scrittrice, l’egiziana Ahdaf Soueif (1950-), concorda con il giudizio
della Mamduh e sottolinea che la produzione scientifica della Saadawi
48
49
Edizione inglese N. AL-SAADAWI, The Hidden Face of Eve, Londra 1980.
G. TARABISHI, A Woman Against Her Sex, Londra 1988.
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
229
è di buona qualità, mentre i suoi romanzi sono pessimi e che è
ingiusto che l’Occidente pensi che quel che lei scrive sia
rappresentativo della creatività letteraria della donna araba50. I giudizi
della Mamdouh e della Soueif rispecchiano la realtà dei fatti51. Se si
dovesse scegliere un romanzo di denuncia sulla condizione femminile
nel mondo arabo, la scelta cadrebbe non tanto sulla attivista egiziana,
quanto su Ricordi di una donna inesistente della palestinese Sahar
Khalifeh (1941-) il cui incipit è un lapidario e coraggioso atto
d’accusa nei confronti di una società che vuole la cancellazione della
donna e che quindi la fa esistere solo in funzione di un uomo:
Ero la figlia dell’ispettore. Tale rimasi fino a quando non mi sposai e divenni la
moglie del commerciante. A volte ero l’una e l’altra. Quando mio marito mi
prendeva in giro mi diceva: “Ehi, figlia dell’ispettore”. Quando mio padre si
arrabbiava, mi chiamava “moglie del commerciante”52.
11. Le donne di Naghib Mahfuz
Il premio Nobel Naghib Mahfuz, l’innovatore della letteratura
araba più che nello stile nei contenuti, nei suoi romanzi e nei suoi
racconti descrive numerose donne, molte delle quali superano i
“limiti” dettati dalla tradizione e dalla religione53. Esemplificative
dell’ideale di donna di Mahfuz sono due personaggi che si ritrovano
ne Il nostro quartiere54: la giovane Fathiyya e l’anziana Sett
Naghiyya. Fathiyya viene descritta sin dall’inizio come una ragazza
tranquilla, dolce ed equilibrata che accetta con remissione il marito
sceltole dal padre. È a tal punto fedele alla parola data che descrive la
sua vita coniugale, coronata dalla nascita delle figlie, “ben riuscita”.
Fathiyya, anche dopo la morte del marito, continua nella sua
solitudine, fedele a quel destino che ha sempre accettato con profonda
dignità. Una vita di amarezza, tristezza e sottomissione. Accanto a lei,
50
Al Hayat, 20 maggio 1996.
Si veda A. AMIREH, Publishing in the West: Problems and Prospects for Arab Women
Writers, in Al Jadid, vol. 2, num. 10 (1996).
52
S. KHALIFEH, Mudhakirrat imra’ti ghayr waqi’iyya, Beirut 1986 (traduzione italiana La
svergognata, Firenze 1989).
53
Si veda F. AL-ASHMAWI-ABOUZEID, La femme et l’Egypte moderne dans l’oeuvre de
Naguib Mahfuz, 1939-1967, Parigi 1985.
54
N. MAHFUZ, Hikayat haritna, in Nagib Mahfuz al-a’mal al-kamila, vol.7, Il Cairo,
2006, 7-116 (traduzione italiana a cura di Valentina Colombo, Milano 1989).
51
230
Valentina Colombo
anche nel romanzo, la scelta di vita di Sett Naghiyya. Un’altra donna
sola. Una donna dall’aspetto poco piacevole, ma amabile e
autoironica. Sett Naghiyya è l’anticonformismo fatto persona: una
donna sola per scelta dove la donna esiste esclusivamente, come si è
appena visto in Sahar Khalifeh, in funzione di un uomo, padre o
marito che sia. Una donna felice che ha come compagni di vita cani,
gatti e uno spiritello. Una donna comunque rispettata e amata per quel
che è. Fathiyya e Sett Naghiyya, e qui risiede la grandezza di Mahfuz,
possono essere considerate i simboli della condizione femminile nel
mondo arabo: ci sono donne che accettano spontaneamente e
serenamente la loro condizione, anche se sottomesse, ed altre che
altrettanto serenamente vivono, per libera scelta, una vita al di là di
ogni schema. Questa dicotomia è del tutto attuale.
12. Il caso letterario “Ragazze di Riad”
Bisogna attendere però il 2005 per avere un vero caso letterario. Si
tratta di Ragazze di Riad dell’allora venticinquenne saudita Rajaa al
Sanea55. Dal paese dove le donne non hanno ancora ottenuto il diritto
di guidare, dove le donne non godono di alcuna autonomia, dove le
donne si possono muovere solo previo consenso del loro “guardiano”
maschio, si leva la voce di una studentessa della ceto medio-alto per
descrivere quel che nessuno ha il coraggio di raccontare. Non solo ma
riesce in pochissimo tempo a vendere più di duecentomila copie nel
mondo arabo, cifra mai raggiunta nemmeno dal premio Nobel
Mahfuz, ma soprattutto riesce a sorpassare e evitare ogni limite posto
dalla censura islamica del proprio paese. In primo luogo grazie alla
sua diffusione via internet attraverso i blog, in seconda istanza il
romanzo, pubblicato a Beirut e inizialmente bandito in Arabia
Saudita, viene nel 2006 autorizzato a partecipare alla fiera del libro di
Riad. In quest’ultima occasione si assiste però alla misteriosa
scomparsa delle copie del romanzo dagli scaffali dell’evento
letterario56.
55
R. AL-SANEA, Banat al-Riyadh, Saqi Books, Beirut 2005 (traduzione italiana a cura di
Valentina Colombo, Ragazze di Riad, Milano 2007).
56
Si veda S. ABU TALEB, Saudi Arabia: Copies of “Girls of Riyadh” Novel Mysteriously
Disappear from Book Fair, in Asharq al-awsat” 28 febbraio 2006.
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
231
Il libro della Sanea narra le gesta di quattro eroine Sadim, Qamra,
Mashael e Lamis, e ridicolizza gli uomini: hanno tutto il potere ma lo
usano – appena sposati – per girare per casa ostentando indecenti
mutande bianche, piuttosto che per cambiare le cose nell’oscurantista
Arabia Saudita. Il valore letterario di Ragazze di Riad è mediocre, ma
non è questo il punto: le centinaia di migliaia di copie vendute in due
anni in Libano e in Bahrein, dove molti sauditi sono andati a comprare
il libro bandito in patria, le fotocopie diffuse al mercato nero a Riad e
le email spedite per aggirare la censura, hanno offerto ai sauditi
l’inedito piacere di leggere storie – finora tabù – di corteggiamenti,
feste a base di Dom Perignon, omosessualità e ingiusto odio contro gli
sciiti.
Dal punto vista occidentale, Ragazze di Riad è una testimonianza
dall’interno di uno dei luoghi più chiusi agli osservatori esterni,
raccontata con gli occhi della generazione che avrebbe il compito di
farlo progredire. Non c’è molto che incoraggi l’ottimismo. Qamra è
costretta a sposare Rashid dopo un matrimonio combinato. I due non
si conoscono, dopo molti imbarazzi lei si toglie il velo e lui la prega di
rimetterselo: non la trova attraente, e poi si innamora di una
giapponese. La abbandonerà, non prima di averla messa incinta.
Sadim invece si fidanza con Walid, e gli si concede poco prima della
festa di nozze. Errore imperdonabile: Walid è entusiasta, ma poi la
giudica troppo disinibita, sospetta che abbia avuto altre relazioni
sessuali, la lascia. Mashael, di padre saudita e madre americana, si
imbatte in Faysal un giovedì sera, all’ingresso di un centro
commerciale. La polizia religiosa vieta l’ingresso ai ragazzi, ma
l’intraprendente Faysal offre a Mashael mille rial per spacciarsi come
sua sorella facendolo entrare. È l’inizio di una grande storia d’amore,
che finirà quando i genitori di lui si oppongono al matrimonio perché
Mashael non è pura saudita. L’unica storia a lieto fine è quella di
Lamis, che ama Nizar dopo l’impossibile sbandata per Ali, colpevole
di essere sciita. Lamis si innamora a prima vista del suo collega alla
Scuola medica, ma decide di non ripetere gli errori delle amiche e si
adopera con determinazione per farlo cadere nella rete. Le sue arti
hanno successo, Lamis e Nizar si sposano e vivono felici in Canada.
Le quattro ragazze si vedono spesso a casa del quinto personaggio
importante del libro, una kuwaitiana sulla quarantina abbandonata dal
marito. Il figlio Nuri è omosessuale, tutti lo deridono chiamandolo
con il femminile Nuwayir, ma lei ha la forza di non vergognarsene e
232
Valentina Colombo
anzi porta con orgoglio il nome di Umm Nuwayir, “madre di
Nuwayir”.
Sebbene Rajaa al-Sanea non avrà altri successi letterari dopo
Ragazze di Riad è indubbio che il suo romanzo abbia segnato una
svolta non solo nella letteratura, ma anche nella società araba. Ha
dimostrato che i limiti si possono e si devono superare, che le donne
arabe quando riprendono possesso della parola, della scrittura,
possono sfidare anche i governi che in nome della religione
pretendono di annullare la donna in quanto persona. Il caso Sanea è il
più eclatante e maggiormente noto, ma non va dimenticato che è stata
preceduta da scrittrici del calibro della kuwaitiana Layla ‘Uthman
(1945-) che nel 2000 è stata condannata a due anni di carcere per
“affermazioni che violano la sacralità del divino, affermazioni
indecenti e oscene”. La scrittrice, che è una delle autrici più care al
pubblico arabo, ha nello stesso anno pubblicato in Libano la
narrazione dell’accaduto nel romanzo autobiografico Il processo57. La
lotta della ‘Uthman contro l’oscurantismo religioso, che giudicava
“osceni” i suoi romanzi, non si è limitata alla scrittura58. La ‘Uthman è
stata una delle principali attiviste che, con scritti e azioni, ha portato le
donne kuwaitiane a ottenere il diritto di voto nel 2007.
La Sanea è stata preceduta anche dalla libanese cristiana Joumana
Haddad (1970-), giornalista e poetessa, che nel 2008 fonda la rivista
patinata dal titolo emblematico Jasad (“Corpo”). Nel manifesto di
Jasad la Haddad, dopo le minacce anonime ricevute quando ha
cominciato il progetto, sottolinea che la rivista non ha nulla di
pornografico, bensì è un “serio progetto culturale, intellettuale,
letterario”. Molti sono gli scrittori e gli intellettuali arabi che vi
collaborano poiché credono nella necessità di fare progredire la
società araba attraverso la promozione dei diritti fondamentali della
donna, primo fra tutti il diritto di parlare e scrivere del proprio corpo.
Per descrivere il nesso fra la censura islamica e la sessualità, e quindi
la necessità di superare i limiti, la scrittrice cita un vecchio proverbio
libanese: “Desiderare qualcosa e sputarci dentro”. Una contraddizione
dalla quale si è emancipata attraverso le letture di De Sade, Anaïs Nin
e Nabokov e grazie all’immaginazione: “Le mie ambizioni hanno
57
L. AL-‘UTHMAN, al.Muhakama. Maqta’ min sirat al-waqi’, Beirut 2000.
In italiano è disponibile Il messaggio segreto delle farfalle, traduzione a cura di
Valentina Colombo, Roma 2011.
58
Infrangere i limiti con la parola: la donna nella letteratura araba
233
rafforzato la mia identità femminile. Non è vero che le donne sono
vittime, che non hanno capacità, e che questa regola è un dogma. Io
non parlo mai di femminismo, ma di femminilità: una visione
egualitaria del rapporto fra uomo e donna, una polarizzazione che si
costruisce nel rispetto. Le donne non devono comportarsi come gli
uomini per dimostrare la loro forza”. Una consapevolezza della
diversità, ma soprattutto della necessità di affermare anche con forza
un’immagine positiva e propositiva della donna araba che, per
parafrasare un recente saggio della Haddad, deve uccidere Shahrazad,
il mito per entrare a pieno diritto e in prima persona nella vita
contemporanea59.
Dal panorama sin qui delineato risulta evidente che le scrittrici del
mondo arabo si sono riappropriate della parola come strumento per
oltrepassare i limiti, per sfidare le barriere di ogni genere sociali,
religiose, politiche e per denunciare le tematiche più scottanti e
problematiche mettendosi in prima linea e accettandone le
conseguenze anche a livello legale. Sembrano condividere appieno
l’atteggiamento dell’intellettuale yemenita, residente in Svizzera,
Elham Manea che nel 2009 ha pubblicato un saggio sul rapporto tra
islam, occidente e diritti umani dal titolo significativo, soprattutto
perché pronunciato da una donna, Non tacerò più60 all’interno del
quale una delle tematiche principali sono i diritti della donna in
quanto diritti umani universali che devono essere anteposti a ogni
legge, a ogni limite in nome di qualsiasi religione.
59
J. HADDAD, Ho ucciso Shahrazad, Milano 2011.
E. MANEA, Ich will nicht mehr schweigen. Der Islam, der Westen und die
Menschenrechte, Friburgo 2009.
60
Verità e certezza nel diritto e nella letteratura
FRANCISCO BALAGUER CALLEJÓN
SOMMARIO:1. Introduzione. – 2. La diversa geometria di certezza e verità. – 3. La tensione tra
verità e certezza nel diritto. – 4. La verità nella letteratura. – Conclusioni.
1. Introduzione
Mi piacerebbe prendere le mosse da una domanda, che nasce
dall’osservazione udita poco tempo fa da un professore di Teoria della
letteratura1 a proposito di un professore di diritto – comune amico –
che tende a monopolizzare ogni conversazione, lasciando poco spazio
agli interlocutori: “parla così tanto”, mi diceva il collega di Teoria
della letteratura, “che ogni tanto è costretto a mentire, perché la verità
si esaurisce”. La domanda che nasce da questa osservazione è la
seguente: “la verità possiede limiti?”; la risposta mi sembra debba
essere chiaramente affermativa. Sì, la verità è limitata, in ciò
differenziandosi tanto dalla menzogna, quanto dall’immaginazione o
dalla creatività che caratterizzano l’opera letteraria. Dovremmo perciò
concludere che il diritto favorisce la verità in modo maggiore rispetto
alla letteratura, poiché rinvia ad un discorso più rigoroso, che non può
e non deve allontanarsi dalla realtà?
Probabilmente è questa la prima impressione che possiamo
ricavare dall’osservazione del rapporto tra verità, diritto e letteratura.
E tuttavia, siamo solo all’inizio di questo “racconto” ed è ben
1
Desidero ringraziare Francisco Linares per le riflessioni che ha voluto condividere con
me – dal punto di vista della teoria della letteratura – durante la redazione di questo scritto,
come anche i molti colleghi giuristi con i quali mi sono confrontato. Ho cercato di seguire, in
particolare, i consigli di Miguel Azpitarte, Tomás Requena, Angelo Schillaci ed Enrique
Guillén, modificando il testo originale, presentato come relazione nell’ottimo Convegno
organizzato dalla Prof.ssa Agata Amato Mangiameli nell’Università di Roma Tor Vergata.
236
Francisco Balaguer Callejón
possibile che il finale – come suole accadere tanto nel diritto quanto
nella letteratura – ci riservi un risultato inaspettato.
In ogni caso, dal carattere limitato della verità discende una prima
importante conseguenza: nonostante gli approcci relativistici e
nonostante le critiche – da me condivise – all’idea di una verità
assoluta e dogmatica2, esiste una dimensione oggettiva della verità che
rende possibile, in quanto tale, l’esistenza di un discorso sulla verità e
la ricerca della verità stessa.
Certo, si può ricordare il noto proverbio arabo: la verità è come un
enorme specchio che, cadendo al suolo, si frantuma in molteplici
frammenti, ciascuno dei quali ci restituisce una diversa immagine
della verità. A tale proverbio, tuttavia, mi permetto di aggiungere che
solo ricomposizione di tutti quei frammenti attraverso un processo
pubblico (giuridico, politico e forse anche letterario) rende possibile la
determinazione di una verità tendenzialmente obiettiva. Peraltro, è
possibile che non si riesca mai a ricomporre tutti i frammenti: questo è
senz’altro un aspetto di debolezza della dimensione obiettiva della
verità, ma ciò non significa che essa non esiste. Quanti più frammenti
riusciranno ad essere incorporati nel processo pubblico, tanto
maggiori saranno le possibilità di ricostruire o chiarire la verità3.
La relazione tra diritto e letteratura – come tematica generale –
permette di affrontare una grande varietà di questioni, che vanno dalla
struttura narrativa del diritto e della letteratura come discorsi alla
funzione sociale di entrambe le discipline. Si tratta di aspetti
2
Cfr. ad esempio, G. ZAGREBELSKY, Contro l’etica della verità, Bari 2009. L’etica del
dubbio, che l’A. contrappone all’etica della verità, contiene “un elogio della verità, ma di una
veritá che ha sempre e di nuovo da essere esaminata e riscoperta. Così, l’etica del dubbio non
è contro la verità ma contro la verità dogmatica” (VIII). La verità assoluta e dogmatica è
incompatibile con la democrazia poiché “il terreno de la democrazia è quello delle res dubiae,
cioè delle questioni che possono essere legittimamente decise in un modo o in un altro. Solo
questa possibilità giustifica il confronto delle idee, la competizione politica, la difesa delle
minoranze e le libere elezioni: in breve, tutte le istituzioni democratiche. Dove invece non vi
siano res dubiae ma res certae non si può deliberare che in un unico modo e solo chi aderisce
alla verità ha diritto di cittadinanza” (163).
3
Come indica PETER HÄBERLE, lo Stato costituzionale e la democrazia pluralista si
contrappongono agli Stati totalitari e alle pretese fondamentaliste poiché essi si caratterizzano
“per la consapevolezza di non essere in possesso di precostituite verità eterne, ma di essere
invece destinat(i) ad una mera ricerca della verità”. Di conseguenza, “l’immagine dell´uomo
dello stato costituzionale sottintende un cittadino che necessita di verità e che è in possesso
degli strumenti per ricercarla e ‘conquistarla’”, (Wahrheitsprobleme im Verfassungsstaat,
1995, versione italiana a cura di Gustavo Zagrebelsky e Jörg Luther, Diritto e verità, Torino
2000, 85 e 110).
Verità e certezza nel diritto e nella letteratura
237
fortemente interconnessi tra loro, giacché la funzione sociale
condiziona la struttura stessa del discorso. Tuttavia, l’obiettivo di
questo lavoro non è quello di analizzare il rapporto tra diritto e
letteratura in generale, ma – più concretamente – il problema della
verità tanto nel diritto quanto nella letteratura, cercando di
comprendere analogie e differenze che emergono dall’analisi
comparata dei due ambiti4.
Il problema della verità si manifesta già nella stessa struttura del
discorso giuridico e di quello letterario come, ad esempio, per ciò che
riguarda la ricostruzione dei fatti in sede processuale, un tipo di
“racconto” che si avvicina certamente all’ambito letterario; si pensi
anche, a tale proposito, all’individuazione della normativa applicabile,
in quanto processo ermeneutico che si basa sull’analisi testuale e sulla
determinazione del senso dei termini contenuti nei precetti giuridici.
Le similitudini, allo stesso tempo, non restano limitate agli aspetti
narrativi, dal momento che il diritto presenta aspetti che lo avvicinano
alle arti sceniche, come evidente nell’uso frequente del tòpos del
processo nel cinema e nel teatro. Peraltro, nella rappresentazione
scenica del processo è implicata una attività processuale fortemente
impegnata in una ricerca della verità – dei fatti e del diritto applicabile
– che fa appello alle risorse della persuasione retorica dei partecipanti.
In tal senso, si presuppone – come vuole una lunghissima tradizione –
che la verità risieda nella posizione di chi ha argomenti migliori e
maggiore capacità di persuasione: si può essere o meno d’accordo,
ovviamente, ma resta certo che la stessa rappresentazione scenica del
processo giurisdizionale è profondamente legata alla ricerca della
verità.
D’altro canto, la letteratura non contrappone la verità alla
menzogna – come accade in ambito giuridico – bensì la realtà alla
finzione. In questa prospettiva essa può collocarsi, in quanto discorso
narrativo, su un piano distinto rispetto a quello del problema della
verità, dal momento che finzione non equivale a menzogna,
opponendosi non alla verità, ma alla realtà. In letteratura non si pone
4
Restano fuori dal presente lavoro numerose delle questioni legate al problema della
verità nello Stato costituzionale: su queste, rinvio all’opera di P. HÄBERLE,
Wahrheitsprobleme im Verfassungsstaat, cit. Come indica l’Autore nella sua prefazione
all’edizione italiana “Lo Stato costituzionale in quanto ordine e quadro della società aperta
conosce la verità al plurale, le verità intese come condizioni culturali che connnettono libertà,
democrazia, giustizia e bene comune” (XVI).
238
Francisco Balaguer Callejón
il problema della verità della narrazione, in contrasto con la falsità, ma
quello della sua verosimiglianza rispetto al contesto fittizio in cui
opera.
Anche nel diritto, tuttavia, si incontra la contrapposizione tra realtà
e finzione: in ambito giuridico, infatti, esistono finzioni e presunzioni
destinate a garantire la certezza del diritto, che non corrispondono
necessariamente alla realtà, limitando la portata della verità o
addirittura risultando contrarie ad essa. Ad esempio, il divieto di
reformatio in pejus mira ad impedire che la ricostruzione della verità
nell’ambito di un procedimento amministrativo o giurisdizionale
possa avere effetti sfavorevoli per il ricorrente: qualora, infatti, per
effetto di un ricorso, si giunga ad una ricostruzione della verità
sfavorevole al ricorrente – e che non era stato possibile conoscere
anteriormente – il divieto di reformatio in pejus blocca gli effetti
sfavorevoli di quella verità, impedendo di adottare un provvedimento
che aggravi la situazione creata o dichiarata nell’atto impugnato5.
2. La diversa geometria di certezza e verità
Iniziamo il paragrafo con l’intento non già di definire, ma
quantomeno di tracciare i caratteri fondamentali dei concetti che
verranno utilizzati. Preliminarmente, è tuttavia necessario chiarire
l’obiettivo di questo lavoro in relazione al problema della verità nel
diritto e nella letteratura. La prospettiva di analisi adottata è limitata
all’idea di verità legata alla determinazione dei fatti nell’esperienza
giuridica. Non si tratta, pertanto, di analizzare il problema della verità
in una prospettiva ampia che comprenda, ad esempio, la proiezione
ideologica delle differenti “verità” in relazione ai molteplici discorsi
che, nel processo pubblico, animano le posizioni politiche,
ideologiche, religiose, morali, ecc. Allo stesso modo, non verranno
prese in considerazione le dimensioni dell’esperienza giuridica che
non sono legate all’idea – centrale in questo lavoro –
dell’accertamento dei fatti, vale a dire alla verità nella sua più comune
5
Cfr. A. PÉREZ GALIMBERTI, Una aproximación a la teoría de las ficciones, in:
http://defensachubut.gov.ar/userfiles/file/Publicaciones/ficcion_discurso_narrativo_y_juridico
.pdf. Cfr. altresì, I. BARRIENTOS PARDO, Prohibición de la reformatio in peius y la realización
de un nuevo juicio, in Revista de Estudios de la Justicia, 9/2007.
Verità e certezza nel diritto e nella letteratura
239
accezione. Per questo motivo, non si farà riferimento a processi
politici o legislativi di varia natura (incluso quello costituente), al di là
di quegli ambiti più strettamente connessi alla determinazione della
verità o alle conseguenze – predeterminate dall’ordinamento –
dell’accertamento di fatti determinati (si pensi, ad esempio, alle leggi
di amnistia).
Ciononostante, appare evidente che i fatti non sono una materia
inerte, nè inerte è la verità stessa. Pertanto, la riflessione sulla verità
rivela una dimensione ideologica già nel momento decisivo della
determinazione dei fatti, tanto nel diritto quanto nella letteratura. Ora,
proprio per la rilevanza specifica della questione e per la coloritura
ideologica che presenta sin dal principio (e che si amplia
progressivamente nel dibattito pubblico, giuridico o letterario), appare
particolarmente importante muovere da concetti chiari per organizzare
la riflessione in termini che, pur se inevitabilmente soggetti a
contestazione e polemica, rendano possibile la discussione.
Tra questi concetti, vale menzionare, in primo luogo, quello di
“certezza”: essa può essere considerata la convinzione, personale o
sociale, riguardo alla verità di una proposizione6, che non
necessariamente è vera, posto che la certezza implica, appunto, una
convinzione. Ad esempio, gran parte della società americana aveva la
certezza che il motivo della guerra in Iraq fosse la fabbricazione e il
possesso di armi di distruzione di massa da parte del governo di quel
paese. Solo in un secondo momento si venne a sapere che tale motivo
era stato costruito ad arte e non corrispondeva a realtà. Ad una
certezza, in altre parole, non corrispondeva una verità7. Un esempio
analogo si è avuto da poco in Cile. Fin dal colpo di Stato dell’11
6
Nel Dizionario della Real Academia Española, si definisce “certezza” la “conoscenza
sicura o chiara di qualcosa” (“conocimiento seguro y claro de algo”) o la “ferma adesione
della mente a qualcosa di conoscibile, senza timore di errare” (“firme adhesión de la mente a
algo conocible, sin temor de errar”).
7
Ciò che, d’altra parte, è avvenuto di frequente nella storia: è possibile concordare, a tale
proposito, con U. ECO e parlare di una “forza del falso”, che si contrappone alla forza della
verità che, attraverso la menzogna o all’errore, è stata il motore di numerosi avvenimenti
storici (La forza del falso, nella raccolta di scritti dello STESSO Sulla Letteratura, Milano
2003, 292 ss.). Secondo ECO, “il riconoscere che la nostra storia è stata mossa da molti
racconti che ora riconosciamo come falsi deve renderci attenti, capaci di rimettere
continuamente in questione gli stessi racconti che ora teniamo per veri, poiché il criterio della
saggezza della comunità si fonda sulla vigilanza continua nei confronti della fallibilità del
nostro sapere” (322).
240
Francisco Balaguer Callejón
settembre 1973 si aveva la certezza del fatto che Salvador Allende si
fosse tolto la vita per non consegnarsi ai golpisti. Nel corso del 2011, i
suoi resti vennero analizzati per verificare le circostanze della morte e
fu possibile confermare le precedenti convinzioni sull’esatto
andamento dei fatti storici8.
La verità non presenta sempre caratteri obiettivi che permettano di
qualificare una proposizione come vera o falsa senza sfumature.
Anche per questo motivo, la scoperta della verità è sovente un’opera
collettiva, che prende corpo in modo spesso difficoltoso ed arduo,
come accade ad esempio nell’opera “La parola ai giurati” (Twelve
angry men) di Reginald Rose. Ed è proprio la letteratura, di norma, a
mostrare l’estrema fragilità della ricostruzione della verità nei processi
giudiziari, dal momento che essa dipende molto spesso da prove o
testimonianze acquisite all’ultimo momento. Nella costruzione
letteraria, come ovvio, tale fragilità dei percorsi di accertamento della
verità rinviene la propria giustificazione nel fatto che la tensione
narrativa è finalizzata a suscitare l’interesse del lettore. Allo stesso
tempo, tuttavia, ben può accadere che sia la stessa disciplina del
processo, pur orientata alla ricostruzione della verità, ad impedire che
essa venga alla luce.
Se muoviamo dall’idea che la verità, al di là della sua percezione
soggettiva, possa essere definita in termini di obiettività, appare chiaro
che questo concetto e quello di certezza non sono coincidenti. Al
contrario, benché sussistano punti di contatto, è certo che esiste tra i
due concetti una tensione fondamentale che può renderli antitetici.
Così, in ambito giuridico, la certezza del diritto può entrare in
conflitto con la determinazione della verità e, viceversa,
l’accertamento della verità può implicare la rottura della certezza del
diritto.
Di regola, non esiste, negli ordinamenti giuridici, un diritto
formalmente riconosciuto “alla verità”; al contrario, è frequente che
venga riconosciuto il diritto “a non dire la verità” se non addirittura a
mentire. Ad esempio, l’art. 16, comma 2, della Costituzione spagnola
dispone che “nessuno potrà essere obbligato a rendere dichiarazioni
8
Cfr. la notizia sul quotidiano El País, Un nuevo informe forense confirma que Salvador
Allende
se
suicidó:
http://internacional.elpais.com/internacional/2011/07/19/actualidad/1311026408_850215.htm
l.
Verità e certezza nel diritto e nella letteratura
241
relative alla propria ideologia, religione o personale convincimento”:
si tratta di un diritto senza dubbio necessario alla garanzia della sfera
giuridica propria e degli altri ma è indubbio, allo stesso tempo, che
esso implica la possibilità – costituzionalmente riconosciuta – di non
dire la verità, come avviene anche in relazione ai diritti nella sfera
processuale di cui all’art. 24, comma 2 della stessa Costituzione, a
mente del quale sono riconosciuti il diritto “a non rendere
dichiarazioni contro se stessi”, il diritto “a non riconoscersi colpevoli”
o l’esonero dall’obbligo di testimoniare su fatti delittuosi “per ragioni
di parentela o di segreto professionale”.
Tutto ciò non implica, certo, l’impossibilità di ricostruire – su altre
basi di principio – un diritto alla verità, dal momento che la menzogna
può condizionare, limitare o addirittura impedire l’esercizio della
libertà della persona e di molti altri diritti e libertà9. In ultima analisi,
è possibile altresì riconoscere un nesso fondamentale tra la stessa
dignità umana e la verità intesa – in senso kantiano – come imperativo
morale. Secondo Kant, infatti, la verità è un dovere morale cui l’essere
umano è tenuto nei confronti di se stesso, perché la menzogna implica
rifiuto ed annichilimento della propria dignità10. L’obbligo di verità,
peraltro, non può essere condizionato dalle circostanze o dalle
conseguenze11.
La verità, dunque, svolge un ruolo fondamentale nel diritto, nella
scienza giuridica e nelle relazioni umane che vengono plasmate nello
specchio della letteratura. Essa è così importante nelle relazioni
sociali, perché solo attraverso la verità viene garantita la realizzazione
del principio di uguaglianza, che a sua volta incide su molti altri diritti
e principi. Molte sono infatti le prospettive di analisi dalle quali
9
In questo senso, nella polemica di B. CONSTANT nei confronti di Kant, il primo
riconosce la sussistenza dell’obbligo di verità solo in quei casi in cui qualcun altro ha il diritto
a conoscere la verità: “Es un deber decir la verdad. El concepto de deber es inseparable del
concepto de derecho. Un deber es aquello que corresponde en un ser a los derechos del otro.
Donde no hay ningún derecho, no hay ningún deber. Por consiguiente, decir la verdad es un
deber, pero solamente en relación a quien tiene el derecho a la verdad. Ningún hombre, por
tanto, tiene derecho a la verdad que perjudica a otros”. Cfr. Des réactions politiques, 1796,
ora nel volume I. KANT, B. CONSTANT, ¿Hay derecho a mentir?, a cura di Eloy García,
Madrid 2012, 20.
10
Cfr. il passo da I. KANT, Metaphysik der Sitten, 1797, in ivi, 38-39.
11
Cfr. il passo da I. KANT, Über ein vermeintes Recht aus Menschenliebe zu lügen, 1797,
in ivi, 30: “Es por tanto un sagrado mandato de la razón, que ordena incondicionalmente y
no admite limitación, por cualquier especie de conveniencia, lo siguiente: ser
verdadero/verídico (honesto) en todas nuestras declaraciones”.
242
Francisco Balaguer Callejón
emerge il rilievo centrale della verità12, ma la più importante, dal
punto di vista giuridico e sociale, è probabilmente quella incentrata
sulla situazione di disuguaglianza che si produce quando la verità
stessa non si realizza pienamente, con tutte le conseguenze che ciò
può dispiegare in relazione ad altri diritti e principi. La menzogna
colloca chi ne fa uso in una posizione di superiorità poiché preclude la
piena conoscenza della verità a coloro che partecipano alla medesima
relazione sociale. Di qui l’affermazione secondo cui la conoscenza
della verità è una condizione preliminare per garantire l’uguaglianza e
dunque un principio fondamentale a livello sociale e giuridico: senza
verità, in altre parole, non c’è uguaglianza13.
D’altro canto, anche la certezza è molto importante affinché i
soggetti di una relazione sociale concreta possano conoscere le
condizioni in cui agire. Se dunque la verità appare intimamente
collegata con il principio di uguaglianza e con la realizzazione della
giustizia, la certezza è essenziale per la sicurezza e la stabilità delle
valutazioni giuridiche. In ambito giuridico, più specificamente, la
certezza è un principio fondamentale, perché se non è data la previa
conoscenza delle norme applicabili non è possibile orientare le
condotte umane al quadro giuridico. Nella misura in cui il diritto
gestisce il conflitto sociale, esso deve fornire agli esseri umani le
regole essenziali del loro comportamento sociale.
12
Che, come afferma correttamente S. PÉREZ CORTÉS, hanno conosciuto variazioni nel
corso della storia, in quanto il divieto di mentire “descansa en aquello que cada momento
civilizatorio considera como lo más valioso” (La prohibición de mentir, Espiral, Vol. II, n.
6/1996, 21). Come sostiene l’A. la libertà e l’autonomia politica e morale delle persone
introducono nell’ordine politico un’esigenza di verità (39). Il lavoro citato si può consultare
in http://148.202.18.157/sitios/publicacionesite/pperiod/espiral/espiralpdf/Espiral6/21-44.pdf.
13
La rottura dell’uguaglianza può produrre conseguenze sfavorevoli per chi subisca la
menzogna, benché questa non possa essere l’unica motivazione per promuovere, a livello
sociale, il rispetto della verità. Tuttavia, è indubbio che, come afferma NIETZSCHE, sono
proprio queste conseguenze sfavorevoli a radicare il ripudio della menzogna “los hombres no
rehúyen tanto el ser engañados como el ser perjudicados por el embuste; en el fondo odian
ellos, también en esta etapa, no el engaño, sino las consecuencias perniciosas, adversas, de
ciertos géneros de engaño. Y sólo en un sentido parecidamente limitado quiere también el
hombre la verdad: anhela las consecuencias agradables de la verdad, las que conservan la
vida; frente al conocimiento puro y sin consecuencias es indiferente, y aun está
enemistosamente dispuesto contra las verdades que pueden dañar y destruir”, (Über
Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinn, 1873, 2-3, nella traduzione spagnola di Pablo
Oyarzun:
http://www.philosophia.cl/biblioteca/nietzsche/Nietzsche%20Verdad%20y%20Mentira.pdf).
Verità e certezza nel diritto e nella letteratura
243
3. La tensione tra verità e certezza nel diritto
La diversa funzione di verità e certezza (garanzia dell’uguaglianza
di condizioni nelle relazioni sociali, incorporando così un principio di
giustizia/garanzia della certezza del diritto) è all’origine di una
tensione – dovuta alla loro non coincidenza – che spesso si risolve, in
ambito giuridico, a favore della certezza e contro la verità. Si pensi, ad
esempio, a quegli strumenti specificamente finalizzati a garantire la
certezza giuridica come la prescrizione, la decadenza o la stessa
funzionalizzazione dei processi al rispetto della verità (solo) formale;
ancora, si pensi alle amnistie, alla conservazione degli effetti delle
norme annullate14.
Nella misura in cui, infatti, il diritto è – o ha la pretesa di essere –
ordinamento delle condotte umane, la sua effettività dipende dalla
previa conoscenza delle norme giuridiche da parte dei cittadini e
dunque dalla prevedibilità delle conseguenze delle proprie azioni,
quando queste siano oggetto di disciplina giuridica. La certezza del
diritto costituisce così premessa necessaria di ogni ordinamento
giuridico15, anche a prescindere dai criteri materiali ai quali si ispira.
Della certezza del diritto, come principio di struttura
dell’ordinamento, possono essere isolati i seguenti tratti fondamentali:
1. Possibilità, per i cittadini, di conoscere le norme sulla base delle
quali verranno giuridicamente valutate le loro azioni.
2. Coscienza, da parte della persona, del fatto che la sua
interpretazione del diritto applicabile coincide con quella socialmente
prevalente.
14
La conservazione degli effetti della norma annullata si produce, come indica A.
MERKL, per effetto di disposizioni integrative che mitigano le condizioni stabilite dalle norme
sulla produzione giuridica. Si tratta del fenomeno che l’A. definisce calcolo dei vizi o delle
falle dell’ordinamento (cfr. Prolegomena einer Theorie des rechtlichen Stufenbaues, pubblicato
inizialmente nel 1931, tradotto in italiano nella raccolta di scritti dello stesso A., Il duplice voto
del diritto. Il sistema kelseniano e altri saggiMilano 1987, 63-64). Esiste, online, una traduzione
spagnola, a cura di Miguel Azpitarte Sánchez e Juan L. Fuentes Osorio: A. MERKL,
Prolegómenos a una teoría de la estructura jurídica escalonada del ordenamiento, in Revista de
Derecho Constitucional Europeo, 2-3/2004-2005, http://www.ugr.es/~redce/.
15
Un elemento costitutivodel Diritto. Cfr. F. LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto,
(1942), Milano 1968, 51.
244
Francisco Balaguer Callejón
3. Fiducia nell’effettività dell’ordinamento, e dunque nell’adesione
allo stesso da parte dei cittadini così come nell’applicazione coerente
delle sue norme16.
Questi tratti confluiscono nella prevedibilità, da parte del soggetto,
delle conseguenze giuridiche delle azioni proprie e altrui17. La
certezza del diritto si traduce, così, nella possibilità di fare
affidamento sul diritto, con riferimento alla valutazione delle condotte
sociali da parte dell’ordinamento giuridico18.
I meccanismi che ridimensionano la conoscenza della verità o che
modulano gli effetti giuridici ascrivibili alla verità già accertata,
mostrano che, in ambito giuridico, la verità può in determinate
occasioni cedere il passo alla certezza o ad altri valori, principi o
diritti. Ciononostante, il diritto mantiene la capacità formale di
stabilire la verità, di determinarla socialmente in ultima istanza, con la
conseguenza che la verità così accertata e stabilita è l’unica
considerata valida dall’ordinamento giuridico.
Anche la scienza giuridica ha affrontato il problema della verità.
Come affermato da Peter Häberle, per la scienza giuridica il problema
della verità coincide con quello della giustizia, poiché “la giustizia è la
16
Cfr. in questo senso M. CORSALE, Certezza del diritto e crisi di legittimità, Milano
1979, 34.
17
“La legge fa sapere a ciascuno ciò che egli può volere: proprio in questo si realizza il
beneficio che è reso possibile dalla sua certezza. La prevedibilità dei comportamenti, cioè della
loro valutazione, è il motivo per il quale la legge non ragiona di cose particolari e presenti,
secondo la geniale intuizione di Aristotele” (F. LOPEZ DE OÑATE, op. cit., 50).
18
Ad essa contribuisce anche la scienza del diritto. A tale proposito, possono richiamarsi
le parole di CALAMANDREI: “La scienza giuridica deve servire a rendere più agevole e più
facile l’applicazione della norma al caso pratico, ad aumentare, con le sue sistemazione
razionali, il grado di certezza del diritto, cioè a rendere sempre più intelligibile la portata delle
regole prestabilite dal legislatore all’agire umano ed a mettere il singolo in condizione di
calcolare in anticipo, con previsioni sempre più sicure, le conseguenze giuridiche delle proprie
azioni” (La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina”, (1942), ora in ID., Il dibattito
sulla certezza, nel volume di LOPEZ DE OÑATEgià citato, a pagina 174. Prima di Calamandrei,
anche TRIEPEL aveva indicato che tutte le forme storiche di scienza del diritto costruttiva,
nonostante le differenze, avevano alla base una concezione professionale del giurista: “El
método constructivo pretende subvenir a la necesidad del teórico y del práctico, crear certeza
sobre las proposiciones jurídicas por las que ha de regirse la vida social. Certeza jurídica es
necesaria tanto para la tranquilidad del ciudadano afectado en sus intereses por el Derecho
como por la conciencia del estudioso y de la autoridad judicial”, in Staatsrecht und Politik,
discorso di insediamento come Rettore dell’Università di Berlino 1926, trad. spagnola di J.L.
Carro, 1974, 66.
Verità e certezza nel diritto e nella letteratura
245
verità in diritto”19. In tal senso, la determinazione della verità consiste
nella realizzazione della giustizia. Allo stesso tempo, tuttavia, va
osservato in chiave problematica che gli ordinamenti giuridici non
riconoscono nella verità e nella giustizia principi di carattere
assoluto20, ma ammettono eccezioni, anteponendo la certezza alla
verità o lasciando da parte quest’ultima a favore della stabilità delle
valutazioni giuridiche.
D’altro canto, come indicato da Kelsen, la pretesa di individuare
una soluzione univoca ai conflitti corrisponde ad una finzione,
destinata a garantire la certezza del diritto21. Non esiste pertanto, nella
soluzione dei conflitti giuridici, una “verità assoluta” ed il discorso
giuridico si caratterizza così, più che per i risultati o le conclusioni,
per i percorsi argomentativi nei quali si articola. È la correttezza
formale, la solidità dell’argomentazione a fornire al diritto quella
fondamentale capacità di persuasione che è fondamentale nella
concezione contemporanea del diritto stesso. L’autorità del diritto
risiede nella forza argomentativa, non in una attribuzione da parte
degli organi giudiziari. L’istituto dell’opinione dissenziente - che
consente di mantenere aperto il conflitto anche al di là della sua
definizione formale nel caso concreto per il tramite del passaggio in
giudicato – dimostra con efficacia la recezione del principio del
19
Come ricorda P. HÄBERLE, nei testi classici di W. V. HUMBOLDT la scienza si
caratterizza per la ricerca continua della verità. Il costituzionalista tedesco ha riformulato tale
affermazione di v. Humboldt, con riferimento specificio alla scienza giuridica: “la ciencia del
Derecho es la búsqueda permanente de la Justicia porque la Justicia es la Verdad del
Derecho”. Cfr.: Un Jurista universal nacido en Europa, intervista a Peter Häberle, di
Francisco Balaguer Callejón, in Revista de Derecho Constitucional Europeo, n. 13/2010,
anche online all’indirizzo: http://www.ugr.es/~redce/. Cfr. altresì Diritto e verità, cit., 110.
20
Come afferma lo stesso HÄBERLE, l’ordinamento pone limiti all’accertamento della
verità, che possono essere fondati, ad esempio, sul principio del rispetto della dignità della
persona: Cfr. Diritto e verità, cit., 92.
21
Secondo H. KELSEN la pretesa di individuare un significato univoco e corretto per ogni
norma giuridica è, infatti, una mera finzione destinata a preservare l’ideale della certezza del
diritto. Di fronte a tale pretesa, la scienza giuridica deve esporre, nell’interpretazione delle
norme, i diversi significati che si possono estrarre da esse, lasciando agli organi competenti
ad applicare il diritto la scelta sul senso da attribuire alla norma medesima: cfr. Reine
Rechtslehre, II Ed. (1960), Vienna 1967, 353.
246
Francisco Balaguer Callejón
pluralismo giurisdizionale22, assieme alle concezioni di Peter Häberle
sulla società aperta degli interpreti della Costituzione23.
Dunque, è proprio la funzione sociale di gestione e alleggerimento
della conflittualità che – obbligando il diritto a risolvere i conflitti –
determina il passaggio in secondo piano del problema della verità con
riferimento ad un gran numero di istituti giuridici che antepongono ad
essa la certezza, proprio al fine di garantire la soluzione dei conflitti e
la sicurezza delle valutazioni giuridiche: si pensi, solo per fare alcuni
esempio, all’autorità di cosa giudicata o all’annullamento non
retroattivo di una norma, che mantiene ferma la validità della norma
illegittima per i rapporti sorti anteriormente all’annullamento. Si pensi
poi alle presunzioni iuris et de iure, alle finzioni giuridiche o ancora
all’inutilizzabilità nel processo delle prove illegittimamente acquisite,
esempio paradigmatico di come il diritto possa impedire la piena
conoscenza della verità e i suoi effetti per garantire principi e diritti
costituzionali legati alla certezza del diritto.
4. La verità nella letteratura
Al contrario di quanto accade in ambito giuridico, nella letteratura
non si registra tensione tra certezza e verità. Benché infatti la
letteratura non sia vincolata ad un obbligo di verità, ma alla
verosimiglianza nella costruzione di un discorso che per sua natura è
fittizio – anche se basato su fatti realmente accaduti – essa implica
anche una riflessione che ogni autore compie su se stesso e sulla
società in cui vive, e dunque sulla verità. La polemica sulla fedeltà
agli accadimenti reali da parte dell’opera letteraria o cinematografica,
22
Cfr. G. CÁMARA VILLAR, Votos particulares y derechos fundamentales en la práctica
del Tribunal Constitucional español (1981-1991), Madrid 1993.
23
P. HÄBERLEDie offene Gesellschaft der Verfassungsinterpreten (1975) e
Verfassungsinterpretation als öffentlicher Prozeß -ein Pluralismuskonzept (1978), ora nella
raccolta di scritti dello STESSO Die Verfassung des Pluralismus, Königstein/Ts. 1980,
rispettivamente alle 79 e 45. Cfr. altresì, Methoden und Prinzipien der
Verfassungsinterpretation: ein Problemkatalog, trad. spagnola di Francisco Balaguer Callejón,
Métodos y principios de interpretación constitucional. Un catálogo de problemas, in Revista de
Derecho Constitucional Europeo, 13 /2010, 379 ss., disponible anche online all‘indirizzo:
http://www.ugr.es/~redce/REDCE13/articulos/Haeberle.htm
Verità e certezza nel diritto e nella letteratura
247
senz’altro pertinente, non sempre coglie nel segno24. A differenza del
diritto, che si attiene ai fatti per determinare la verità in senso formale,
la letteratura e il cinema possono trascendere i fatti per chiarire e
mettere in evidenza una verità che non deve essere solo descritta, ma
soprattutto compresa25.
In ogni caso, il discorso letterario è molto diverso da quello
giuridico in quanto, non avendo la funzione di risolvere un conflitto
non è orientato ad una finalità pratica che ne condiziona la struttura.
Così, non avendo finalità normativa o sanzionatoria, la letteratura non
ha la pretesa, propria invece del diritto, di fissare una verità unica, in
quanto formalmente riconosciuta come tale, ma ammette una pluralità
di discorsi che possono illuminare la medesima questione anche in
termini contraddittori.
Nell’attuale articolazione dell’esperienza giuridica, come si è visto,
si riscontra un simile pluralismo, tanto dal punto di vista ermeneutico
quanto dal punto di vista della molteplicità delle giurisdizioni.
Tuttavia, la pluralità viene ricondotta ad unità, anche se solo
provvisoriamente, attraverso le decisioni giudiziarie che risolvono i
conflitti e le modifiche normative che innovano il quadro di disciplina
delle condotte.
In letteratura, tuttavia, tale pretesa di riconduzione ad unità non si
riscontra, mancando quella funzione sociale di pacificazione
comunemente ascritta al diritto. Allo stesso modo, in letteratura non
esiste pretesa alcuna di certezza26 intesa come promozione e tutela
24
Come indica molto bene ENRIQUE GUILLÉN, nelle sue riflessioni sul presente lavoro
(cfr. supra, n. 1), “la verità sul crack del ’29 si ritrova in Furore di John Steinbeck: magari
non ci sono tutti i fatti, ma la finzione narrativa alimenta in ognuno una verità interiore,
imponendo il confronto con i propri demoni, aiutando a neutralizzarli”.
25
Come segnalano il produttore ed il regista del film Romanzo di una strage, la forza di
una autentica opera creativa (in questo caso, il cinema) consiste nel fatto che essa “parla
all´inconscio anche quando vuole parlare alla mente, trasmette una conoscenza in modo più
ampio e profondo di qualsiasi altro strumento” (M.T. GIORDANA, R. TOZZI, La nostra Piazza
Fontana, Il Manifesto, 04 Aprile 2012, disponibile online all’indirizzo:
www.dirittiglobali.it/home/categorie/44-storia-a-memoria/30891-la-nostra-piazza
fontanahtml).
26
Così, la vocazione ad accertare la verità in letteratura non appare necessariamente
vincolata ad una necessità pratica, anche se, effettivamente, può rappresentare la motivazione
principale dell’opera letteraria stessa. Ad esempio, rispondendo alle critiche alla sua opera
Anatomía de un instante, romanzo sul tentativo di colpo di Stato militare avvenuto in Spagna
il 23 febbraio 1981, JAVIER CERCAS ha affermato che “la historia y la literatura persiguen
objetivos distintos; ambas buscan la verdad, pero sus verdades son opuestas: según sabemos
desde Aristóteles, la verdad de la historia es una verdad factual, concreta, particular, una
248
Francisco Balaguer Callejón
della sicurezza e della stabilità delle valutazioni perché, anzi, la
letteratura si nutre del dubbio27. Come affermava Saramago a
proposito della sua opera, la letteratura può generare inquietudine e
sconcerto – il contrario stesso della sicurezza – e può generare il
dubbio, che è un elemento fondamentale nel processo di ricerca della
verità.
Il diritto, al contrario, in quanto strumento di soluzione delle
controversie e di pacificazione sociale, ha bisogno di determinare, ad
un certo punto, una verità almeno formalmente ferma ed indiscutibile
per evitare che i conflitti sociali si perpetuino indefinitamente. Di qui
il principio dell’autorità di cosa giudicata, che solo in casi eccezionali
consente la revisione della verità formalmente accertata in giudizio.
La letteratura non possiede tale funzione di pacificazione sociale (a
prescindere dal fatto che, al di là delle pretese, tale pacificazione
riesca a realizzare). In altre parole, il diritto stabilisce una verità ma
non necessariamente accerta la verità e addirittura può rinunciare
all’accertamento della verità materiale a favore di una verità formale
da essa pacificamente riconosciuta difforme.
Nel caso della letteratura, il processo di ricerca della verità resta
sempre aperto, dal momento che la letteratura non stabilisce una verità
in senso formale, né conosce la differenza tra verità materiale e verità
verdad que busca fijar lo ocurrido a determinadas personas en determinado momento y
lugar; por el contrario, la verdad de la literatura (o de la poesía, que es como llamaba a la
literatura Aristóteles) es una verdad moral, abstracta, universal, una verdad que busca fijar
lo que les pasa a todos los hombres en cualquier momento y lugar. Pero, al mismo tiempo, el
autor intenta, en realidad, construir una novela para determinar la verdad, para reconstruir
una realidad histórica, porque parte de la base de que ‘el golpe del 23 de febrero es en
España una ficción, una gran ficción colectiva construida durante los últimos 30 años a base
de especulaciones noveleras, recuerdos inventados, leyendas, medias verdades y simples
mentiras’”. Secondo J. CERCAS la verità letteraria e quella storica sono in contraddizione,
anche se egli cerca di integrarle nel suo romanzo: “Anatomía persigue al mismo tiempo esas
dos verdades antagónicas, porque busca una verdad factual, que atañe sobre todo a
determinados hombres de la España de los años setenta y ochenta, pero también busca una
verdad moral, una verdad que atañe sobre todo a quienes, con un oxímoron, el libro
denomina
héroes
de
la
transición”
(La
tercera
verdad,
in:
http://elpais.com/diario/2011/06/25/babelia/1308960747_850215.html). In realtà, una tale
contrapposizione è più che discutibile, poiché nella tradizionale conformazione del romanzo
storico come genere letterario si tenta di ricostruire verità generali attraverso la ricostruzione
della verità di un’epoca determinata, in relazione a personaggi concreti.
27
Come segnala ZAGREBELSKY (op. cit., VII) “solo chi crede nella verità può dubitare”,
giacché il dubbio presuppone “la consapevolezza del carattere necessariamente fallibile o mai
completamente perfetto della conoscenza umana”.
Verità e certezza nel diritto e nella letteratura
249
formale. La letteratura consente di mantenere aperto un discorso
pluralistico sulla verità, che in ambito giuridico non può perpetuarsi
indefinitamente, se non in ambito dottrinale, scientifico, letterario:
solo in tale ambito, infatti, il dibattito sulla verità può dispiegarsi in
tutta la sua vastità e libertà e prolungare il confronto sul conflitto
sociale ben al di là della sua risoluzione formale.
Conclusioni
Nell’analisi del problema della verità in diritto ed in letteratura, si è
affrontata, in primo luogo, la proiezione della verità nell’esperienza
giuridica. Il diritto, infatti, contempla procedimenti specifici per
l’accertamento della verità, in linea con l’importanza della verità nella
realizzazione di principi fondamentali come l’eguaglianza e la
giustizia. E tuttavia, nonostante tale importanza, non sempre il diritto
accorda la precedenza alla verità; al contrario, si registra una tensione
fondamentale tra verità e certezza del diritto a causa della quale, in
molte occasioni e attraverso diversi istituti giuridici, il diritto mira ad
accertare la verità formale, e non quella reale, per garantire la
certezza. In tal modo, l’ordinamento giuridico subordina la verità
materiale alla verità formale attraverso tecniche specifiche che
rendono difficile la conoscenza della verità o che, una volta che la
verità venga accertata, impediscono la realizzazione della giustizia o
condizionano la verità alla certezza per garantire la sicurezza delle
valutazioni giuridiche o altri principi o diritti. È la stessa funzione
sociale del diritto, la sua funzione pratica di soluzione dei conflitti a
condurre il diritto ad individuare una verità formale che non
necessariamente corrisponde a quella materiale.
In letteratura non esistono procedimenti orientati ad accertare la
verità poiché il discorso narrativo si colloca su un piano differente: in
tale ambito, l’opposizione fondamentale riguarda realtà e finzione,
non già verità e menzogna. In questa prospettiva, in letteratura non si
pone il problema della verità, ma quello della verosimiglianza. Per lo
stesso motivo, in letteratura non si registra la tensione tra verità e
certezza: la verità materiale resta sempre disponibile ad un processo di
ricerca aperto. D’altro canto, lo stesso impegno nei confronti della
verità resta libero e dipende dalla tensione di ogni autore
250
Francisco Balaguer Callejón
all’autenticità, dal momento che non esistono procedimenti o tecniche
vincolanti: in letteratura non esistono procedimenti regolati per
determinare la verità perché essa non ha una funzione sociale di
pacificazione e ciò le consente di proiettare su orizzonti più vasti
rispetto al diritto la ricerca della verità.
In definitiva, mentre il diritto tende a ripiegare sulla verità formale
per gestire il conflitto e chiuderlo, almeno provvisoriamente, per
garantire la certezza del diritto – anche se ciò rende arduo, e talora
impedisce l’accertamento della verità, con ricadute pesanti sulla
realizzazione della giustizia e di altri principi fondamentali per la
convivenza – la letteratura può prolungare il conflitto mantenendo
aperta la tensione sociale alla ricerca della verità. Naturalmente, la
letteratura non potrà mai stabilire una verità “ufficiale”, né, a ben
vedere, pretende di farlo. E tuttavia, in maniera indiretta, attraverso la
riproduzione letteraria degli avvenimenti e la caratterizzazione dei
personaggi, può consentire di comprendere – molto meglio del diritto
– la verità su un momento storico, di avvenimenti e situazioni
realmente verificatesi e riguardo ai quali il diritto già abbia dato una
formale risposta, almeno in relazione ai relativi conflitti sociali.
Diritti e contratto sociale
nella Tempesta di Shakespeare
GIUSEPPINA RESTIVO
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La tempesta e il True Reportory di Strachey. – 3. Charters
storiche e ribellioni in scena. – 4. Caliban e la Plantation of Ulster. – 5. Montaigne vs.
James I.
1. Premessa
La consapevolezza della competenza giuridica e costituzionale
diffusa nel teatro di Shakespeare, avviatasi nell’Ottocento ma a lungo
ignorata dalla critica letteraria, è divenuta sempre più rilevante anche
per l’imporsi di uno specifico settore internazionale di studi su
Shakespeare and the Law, distinto da quello più ampio di Law and
Literature. Ma la coscienza di tale aspetto ha riacceso la polemica
sulla authorship del canone shakespeariano: le scarse notizie sul man
from Stratford, come oggi alcuni chiamano Shakespeare,
implicherebbero un’educazione e un’esperienza sociale inadeguate al
livello delle sue opere. Di qui la ripresa dell’ipotesi che dietro il nome
di Shakespeare si celi un autore con una formazione giuridicoculturale, una conoscenza del nord Italia (evidente in molti drammi
shakespeariani) e una collocazione sociale che giustifichino le
competenze riflesse nel canone dell’autore. Tra gli anti-stratfordians
il candidato alla authorship oggi dominante è il conte di Oxford, con
adeguati studi, viaggi in Italia ed elevata collocazione sociale, oltre
che notoria passione per il teatro. L’ostacolo della sua morte nel 1604,
ben prima delle ricostruite date di nascita di una congrua parte delle
opere shakespeariane, viene aggirato dagli Oxfordians gettando dubbi
sulla datazione delle opere del canone successive al 1604 e
supponendo che il conte morendo abbia affidato le opere residue da
252
Giuseppina Restivo
lui scritte all’uomo di teatro William Shakespeare, che le avrebbe
inscenate distribuendole nel tempo.
Il maggior ostacolo a tali retrodatazioni è costituito dalla Tempesta,
in cui elementi interni al testo lo vincolano al 1610. Fare luce sulla
natura di questi elementi non inseribili a posteriori, connaturati al
testo che su di essi si costruisce, e fitti di rinvii giuridici, finora
trascurati, è oggi doppiamente rilevante, oltre che possibile anche
grazie alla rinnovata ricostruzione storica del periodo, avviata negli
anni ’70 del ’900 da Lawrence Stone (1972) e accelerata tra fine ’900
e primo decennio del 2000 (cfr. ad es. Ian Ward 1996, Patrick
Collinson, 2003, Andrew Hadfield 2004, Paul Raffield 2008).
Un’attenta analisi consente infatti di escludere la authorship del conte
di Oxford per la Tempesta e quindi per il canone shakespeariano, e
insieme di rileggere uno dei testi più controversi di Shakespeare,
spesso riduttivamene inteso come romance play (così classificato
nell’edizione italiana dei Meridiani Mondadori), oppure sospettato,
nella prospettiva postcoloniale, di esprimere l’ideologia colonialista
del “white man’s burden”. Al centro dei rinvii giuridici della
Tempesta affiora invece, come vedremo, un cruciale problema di
misura del diritto tra corona e colonie, che non investe solo dettagli
testuali, ma l’intera significazione del dramma. Cogliervi questo
problema, nel quadro dell’emergente ridefinizione del ruolo sociopolitico dei patroni di Shakespeare, rivela un orizzonte in cui
situazioni storiche di fondo e testualità si rinviano tra loro e il testo si
colma di un pregnante senso coerente che era andato smarrito.
Questo smarrimento non è casuale: nasce da vuoti sorprendenti. Se
Frances Yates notava nel 1968, nella prefazione alla sua biografia di
John Florio, che nonostante l’importanza del periodo storico, “the
lives of most Elizabethans are yet to be written”1, questa osservazione
rimane in buona parte valida ancora oggi. Ad esempio, dopo la prima
buona ma parziale ricostruzione storica di Hammer del 19992, manca
ancora un’aggiornata biografia completa di un personaggio-chiave
come il conte di Essex, patrono di Shakespeare come il suo più
giovane amico, il conte di Southampton. Annunciata per il marzo
1
F. YATES, John Florio, The Life of an Italian in Shakespeare’s England, New York
1968, Preface, I.
2
P. HAMMER, The Polarisation of Elizabethan Policy. The Political Career of Robert
Devereux 2nd Earl of Essex, 1585-1597, Cambridge 1999.
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
253
2012 dalla Oxford University Press ad opera di Alexandra Gajda,
preceduta da promettenti saggi preparatori3, questa biografia aiuterà a
cogliere un filone di pensiero a lungo ignorato e che certo coinvolse
Shakespeare. Svilito come ambizioso gigolò della regina Elisabetta, il
cui mito non andava scalfito dal pensiero di un’opposizione, Essex
giocò invece, in quegli anni difficili della ‘early modernity’, un ardito
ruolo ideologico antiassolutista, che nel 1601 pagò infine con la vita.
Tale ruolo, espressione di un intenso dibattito politico recentemente
sempre meglio ricostruito, proseguì sotto James I, raccolto da
Southampton e da settori dell’opposizione parlamentare,
parallelamente filtrato ed elaborato nel teatro di Shakespeare fino a
riverberare nella Tempesta, parte di quei “prerequisites” che
nell’argomentazione di Lawrence Stone andavano preparando la
rivoluzione del 16424.
La Tempesta5 spicca comunque nel teatro di Shakespeare per
alcuni tratti che la distinguono in modo peculiare: è l’unico dramma
del canone che non usi intrecci preesistenti; è l’ultima opera completa
dell’autore che, fino ad allora così prolifico, dopo di essa, a 46 anni,
cessa sorprendentemente di scrivere per i successivi sei anni, fino alla
morte nel 1616; è il primo testo che apre l’In-folio dell’opera
completa di Shakespeare curato da Miles e Condell nel 1623; contiene
la più lunga e vistosa citazione shakespeariana dai Saggi di
Montaigne, dieci anni dopo la loro traduzione in inglese di John
Florio; e infine chiude con l’unico Epilogo nel canone shakespeariano
che sia rivolto al pubblico per chiederne il consenso, non per un attore
o il suo drammaturgo a recita finita, ma per il ruolo stesso del principe
che è stato inscenato.
La concomitanza di queste cinque peculiarità per lo stesso testo,
rappresentato in scena a corte davanti a James I nel 1611 e di nuovo
nel 1613, non può non colpire. In particolare l’originalità o
indipendenza dell’intreccio suggerisce un impegno del messaggio tale
3
Cfr. ad esempio A. GAJDA, The state of Christendom: History, political thought and the
Essex circle, Historical Research, 213/2008, 423-446, in cui affiora un pensiero
monarchomach impegnato contro la tirannia e l’assolutismo.
4
L. STONE, The Causes of the English Revolution 1529-1642, London 1972, distingue tre
livelli di causazione storica, prerequisites, precipitants e triggers, che rispettivamente
rendono possibile, inevitabile o innescano la rivoluzione del 1642.
5
L’edizione di riferimento sarà quella della Oxford University Press del 1987 curata da S.
Orgel.
254
Giuseppina Restivo
da richiedere una libertà compositiva maggiore del solito, e il
successivo silenzio di Shakespeare pone la domanda sulle sue
possibili cause6.
2. La tempesta e il True Reportory di Strachey
Due passi del dramma shakespeariano, il riferimento di Ariel a una
missione per il suo padrone Prospero alle isole Bermude in 1,2,229
(“thou calld’st me up at midnight to fetch dew/From the still-vexed
Bermudas”), e la descrizione iniziale di una nave nella tempesta,
hanno fatto del True Reportory of the Wreck and Redemption of Sir
Thomas Gates di William Strachey una fonte evidente e riconosciuta
non dell’intreccio ma del contesto della Tempesta. Strachey descrive il
naufragio nel 1609 su un’isola delle Bermude, a causa di una violenta
tempesta, della nave inglese Sea Venture, diretta a Jamestown, la
prima colonia inglese da poco fondata nel 1607. I 150 naufraghi
sopravvivono sull’isola senza difficoltà grazie all’abbondanza di
risorse naturali, prima di raggiungere un anno dopo, su due lance nel
frattempo costruite, la colonia di Jamestown, che trovano ridotta allo
stremo da penuria, fame e malattie.
Scritto come lettera a una Lady (si suppone Lady Pembroke),
datata 15 luglio 1610 e pubblicata solo nel 1625 (anno della morte di
James I), il Reportory fu subito diffuso a Londra. Fu certamente noto
a Shakespeare e in tutto l’entourage del suo patrono, il conte di
Southampton, promotore di riferimento della Virginia Company, che
aveva fondato la colonia e finanziato la spedizione di soccorso a
Jamestown del convoglio di sette navi di cui la Sea Venture era
l’ammiraglia.
Ma quale incidenza ha sulla Tempesta l’allusione al rapporto di
Strachey? La domanda è centrale per cogliere nel testo
shakespeariano, con le allusioni ovvie per i contemporanei, la
prospettiva ideologica veicolata nel dramma, coprendo con il velo
favolistico della magia una materia fin troppo reale e scottante. Il
6
Nel mio saggio La Tempesta e la storia: prospettive pre-illuministe in Strehler e oltre: il
“Galileo” di Brecht e “La tempesta” di Shakespeare, a cura di G. RESTIVO, R. CRIVELLI, A.
ANZI, Bologna 2010, 219-268, ho già delineato, nell’ambito di una più generale analisi
testuale, una prima versione di una parte delle tesi qui sviluppate con più ampie implicazioni
specifiche e più ampia documentazione storica.
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
255
Reportory viene spesso a torto citato solo per la drammatica tempesta
iniziale e per l’associazione con la colonizzazione americana, ma
spostando l’attenzione alla più tarda dominazione bianca su schiavi
neri che inizierà a Jamestown solo nel 1619. Il nesso del Reportory
con il testo shakespeariano, ancorato al 1610, appare ben più
complesso e significativo se attentamente studiato.
Il rinvio al Reportory è imprenscindibile per La tempesta, non solo
per la diretta allusione alle Bermude e a una tempesta cui tutti i
naufraghi bene sopravvivono, ma per i molti dettagli “prestati” al
dramma, troppo numerosi per essere casuali. Essi provano uno stretto
“rapporto genetico” e suggeriscono un importante piano di
riferimento, sottinteso per il pubblico competente del tempo.
Il testo di Strachey implica una duplice polemica, che emerge fin
dal suo lungo titolo, solitamente abbreviato: A True Reportory of the
Wreck and Redemption of Sir Thomas Gates, Knight, upon and from
the Islands of the Bermudas: His Coming to Virginia and the Estate of
that Colony Then and After under the Government of the Lord La
Warr, July 15, 1610, written by William Strachey, Esquire. Nella sua
integrità questo titolo sottintende tensioni e contrapposizioni non
vistose ma riconoscibili se si considera il contesto. I due dettagli
polemici che subito spiccano sono che il Reportory si definisce true,
con sottintesa opposizione a voci correnti o altri resoconti non “true”,
e che fin dal titolo si sottolinea come Thomas Gates non sia mai stato
governor di Jamestown. La colonia, “then and after”, è stata infatti
“under the government of the Lord La Warr”, secondo quanto stabilito
dalla charter di James I del 1609. Nominato deputy governor in attesa
di La Warr, Gates non aveva potuto esercitare nemmeno tale ruolo di
vice-governatore, perchè trattenuto per tutto l’anno sulle Bermude,
eccetto che per lo spazio di una settimana nel 1610 prima dell’arrivo
di La Warr. E in quella settimana a Jamestown aveva preso decisioni
poi immediatamente rovesciate, al suo arrivo, da La Warr. Come si
vedrà, vi è un sottinteso polemico, perché la charter reale del 1609
radicalmente alterava stato giuridico e diritti dei coloni rispetto alla
prima charter del 1606 istitutiva della colonia.
La lettera di Strachey7 descrive, scandita in quattro parti, la vicenda
iniziata il 2 giugno 1609, con la partenza da Plymouth per Jamestown,
7
V. http://www.virtualjamestown.org/TR%20modern.doc, a cura di T. Reedy, 2006, last
visit 4-2-2012.
256
Giuseppina Restivo
di una flotta di sette navi e due lance (pinnaces). Il 24 luglio una
violenta tempesta di tre giorni separa la nave ammiraglia dal resto
della flotta (di cui una nave affonda): ma la dettagliata descrizione
della tempesta è in realtà forse il tratto del Reportory meno influente
nel dramma. La tempesta provoca infatti in Shakespeare una
contrapposizione sociale tra i marinai impegnati nelle manovre per
affrontare l’emergenza e un sovrano a bordo con i suoi cortigiani,
sprezzanti e di intralcio nel contesto, mentre nel Reportory la tempesta
provoca nella Sea Venture la collaborazione di tutti, anche di coloro
che “in all their lifetimes had never before done hour’s work”8. Il
contesto di Strachey è quindi antitetico rispetto a quello di
Shakespeare: in assenza di sovrani e cortigiani, sotto l’esempio delle
massime autorità a bordo, Thomas Gates e l’ammiraglio Sir George
Somers, la cooperazione di tutti, “joining in the public safety” per tre
giorni e quattro notti, non conosce, sottolinea Strachey, distinzioni
sociali.
Ma si accavallano nel Reportory altri numerosi significativi
dettagli che ritornano nel testo shakespeariano. Strachey dichiara di
aver già visto simili tempeste “at the coast of Barbary and Algiers” e
“in the Adriatic Gulf” (I,2): è qui selezionato sia l’ambiente da cui
proviene nella Tempesta la strega Sycorax, di Algeri, che
quell’Adriatico in cui finiscono abbandonati alla deriva e
fortunosamente giungono su una non specificata isola Prospero e
Miranda, che il testo descrive imbarcati a Milano, dalla cui darsena un
sistema di vie d’acqua navigabili immetteva allora nel Po e quindi
nell’Adriatico.
Un altro dettaglio ripreso dal Reportory in Shakespeare sono i
fuochi fatui sulla nave nella tempesta in 1, 2, 198-206: fenomeno
menzionato da Strachey come noto nell’Adriatico e nel Tirreno con il
nome di “corpo sancto” per gli italiani e di “fuochi di St. Elmo” per
gli spagnoli.
Quando il 28 luglio la Sea Venture naufraga su un’isola delle
Bermude, tutti i 150 uomini, donne e bambini, sopravvivono senza
danni come i naufraghi nella Tempesta. Sbarcando, scoprono un
ambiente ancora non sfruttato dall’uomo e ricco di risorse naturali, in
cui abbondano pesci, uccelli, tartarughe, animali selvatici e frutti.
8
Sezione I, 3. Le prossime citazioni da W. STRACKEY riporteranno tra parentesi
riferimento a sezione e pagina.
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
257
L’area era già stata descritta, riporta Strachey, in un rapporto
all’imperatore Carlo V di Spagna dall’autore di una breve History of
the West Indies, di nome Gonzalus Ferdinandus Oviedus: ecco i nomi
ispano-napoletani di Gonzalo e Ferdinand nella Tempesta.
Il 28 agosto una lancia, costruita con i residui della nave
naufragata, parte per la non lontana Jamestown, con i messaggi di
Thomas Gates, preoccupato per la conduzione della colonia in crisi, a
cui lui era stato inviato in soccorso. Ma la lancia va dispersa e Gates
insiste per farne costruire un’altra per raggiungere Jamestown,
incontrando tuttavia l’ostilità di molti, desiderosi di rimanere come
coloni in un luogo così attraente, anzichè proseguire per Jamestown.
La prima importante ribellione è quella di Stephen Hopkins, “who had
much knowledge of the Scriptures” e argomenta che l’emergenza della
tempesta aveva liberato tutti dal contratto con la Virginia Company da
cui era stato finanziato il loro viaggio e dall’obbedienza a Thomas
Gates, nominato vice-governatore di Jamestown ma non delle
Bermude. I naufraghi erano dunque liberi di rimanere sull’isola,
anziché proseguire per la Virginia, dove Hopkins temeva ora di
perdere la sua libertà e venire asservito a vita: “they might well fear to
be detained in that country by the authority of the commander thereof,
and their whole life to serve the turns of the adventurers with their
travails and labors” (II, 11).
L’allusione – che, come vedremo, troverà nella Tempesta un
ironico riscontro, solitamente non riconosciuto, in una delle tre
ribellioni in scena – è qui ad uno degli aspetti più drammatici
dell’avventura coloniale: i contratti di servitù a termine o indentured
servitude. Il viaggio e l’insediamento nella colonia erano molto
costosi, richiedevano almeno 20 sterline a persona, ma molti che non
potevano pagare si impegnavano a servire per un certo numero di
anni, tipicamente da cinque a sette, per restituire con il loro lavoro il
denaro anticipato dagli adventurers o investitori della Virginia
Company. Il contratto che così stipulavano faceva di loro dei servi a
termine: ma, se impediti da stenti o malattie, non riuscivano a ripagare
il denaro anticipato e la servitù si prolungava. Gli indentured servants
(e eventualmente i loro figli) venivano trattati come merce-lavoro, di
fatto schiavi che nelle condizioni delle colonie spesso non vivevano
abbastanza per riscattarsi. Il fenomeno cessò solo quando vennero
sostituiti da grandi numeri di schiavi neri importati dall’Africa, ma per
258
Giuseppina Restivo
alcuni anni indentured servants per contratto e schiavi per cattura e
costrizione lavorarono fianco a fianco nelle stesse condizioni. A
spingere a tali forme di lavoro era la disoccupazione in patria di molti,
che vedevano nel contratto di servitù a termine un’occasione per
potersi riscattare con il loro lavoro e ottenere infine della terra in
proprietà nella nuova colonia. A ogni colono o planter e quindi a un
indentured servant riscattato veniva infatti riconosciuto il diritto a 50
o 100 acri di terra pro capite a seconda del periodo. Ma nel rapporto
contrattuale molti indentured servants venivano di fatto ingannati:
quando alla fine tornavano liberi, la terra andava invece a chi ne aveva
nel frattempo ricomprato i diritti e molti non avevano nemmeno un
vero contratto.
Quanto questa situazione potesse divenire tragica lo testimonia la
terza ed ultima charter per la colonia di James I, di solo un anno
successiva alla lettera di Strachey, in data 12 marzo 1611. Oltre ad
annettere alla colonia le isole Bermude, a concedere il ricorso alle
lotterie per finanziare i rifornimenti alla colonia, e ad aggiungere una
lista di nuovi membri della Virginia Company (modificandone gli
equilibri politici), la charter stabiliva che quanti fuggivano da
Jamestown per tornare in patria e sottrarsi alla legge marziale imposta
nella colonia fossero restituiti alla colonia stessa e alla giurisdizione
del suo governor.
Le paure di Hopkins non erano dunque infondate, ma, in ansia per
Jamestown, Gates, che considerava la forzata sosta sull’isola come
parte del non terminato viaggio in mare, condanna Hopkins per
ammutinamento, anche se presto lo perdona perché pentito. Più
pericolosa è la successiva ribellione, che minaccia la vita stessa delle
autorità che ricusa. Opera non di un ignorante villano, ma di un colto
gentiluomo, Henry Paine, questa nuova ribellione non si risolve con
una pacificazione: Paine viene condannato a morte e ottiene solo la
grazia di essere più onorevolmente fucilato anzichè impiccato. Altri
fuggono nei boschi come fuorilegge.
Gates intanto, apprestata la lancia per raggiungere Jamestown,
ribadisce che tutti sono tenuti a rispettare il contratto con i
sottoscrittori dell’impresa: un ragionamento economico da cui
dipendevano non tanto profitti, che mai ci furono, quanto il
vettovagliamento, la sopravvivenza e la ripopolazione della colonia di
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
259
Jamestown, che Gates riesce finalmente a raggiungere con la nuova
lancia il 23 maggio del 1610, insieme a Somers su una seconda lancia.
Ma la situazione a Jamestown, un anno dopo la partenza delle sette
navi inviate in soccorso, è ormai disperata, e i coloni sono ridotti alla
fame. Le navi sopravvissute alla tempesta erano arrivate a Jamestown,
ma solo per accrescerne la popolazione bisognosa di tutto, perché le
loro provviste erano andate disperse con il naufragio, buttate a mare
per affrontare la tempesta, o rimaste a bordo della Sea Venture, la
nave di maggiore stazza, perduta alle Bermude. Di qui un inverno
nella colonia noto come “the Great Starvation”, al termine del quale
solo un’ottantina di persone erano sopravvissute, di cui una sessantina
a Jamestown.
Gates promette subito, tra la generale acclamazione, che, se non
potrà procurare vettovaglie, caricherà tutti sulle lance a disposizione
per portarli a Newfoundland, da dove le grandi navi inglesi di
passaggio li riporteranno in patria. Resosi conto dell’incuria e
dell’inefficienza di governo della colonia, rimasta senza guida per
tutto l’anno in cui lui era stato costretto a sostare alle Bermude, Gates
assume dunque poteri assoluti, come previsto dalla charter del 1609,
ma antepone l’interesse dei coloni alla sopravvivenza della colonia,
dichiarandosi, se necessario, pronto ad evacuarla.
Nella sua descrizione/testimonianza Strachey insiste sulla cattiva
conduzione della colonia e sulla necessità del buon esempio egalitario
di chi governa, tenuto a condividere da vicino le fatiche di tutti, “when
men of rank and quality assist and set on their labors”, “when such
worthy and noble gentlemen go in and out before them and no less
help them with their hand” (III,17). Dopo qualche tentativo di
risolvere la crisi, Gates si convince che non si può sperare in aiuti
dagli indiani e il 7 giugno mette in atto l’evacuazione della colonia:
dispone di quattro lance, su cui carica tutti con i beni disponibili e
inizia il viaggio. Ma a Mulberry Island l’8 giugno viene raggiunto
dalla notizia dell’arrivo a Jamestown, con le sue navi, di Lord La
Warr, governatore a vita di Jamestown che, constatata l’evacuazione,
ha mandato l’ordine di immediato rientro nella colonia, cui Gates
deve obbedire.
Strachey descrive quindi i tratti caratteristici della colonia, citando
l’Enea virgiliano e la regina Didone di Cartagine, vistosamente
260
Giuseppina Restivo
evocati nella Tempesta shakespeariana9. Insiste inoltre sulla presenza
di una palude vicino a Jamestown, che trova riscontro nell’isola di
Prospero, ma qui intrecciandosi con l’abbondanza di frutti e cibo che
caratterizza invece l’isola delle Bermude, sebbene, rileva Strachey,
quell’isola fosse stata in passato considerata inospitale e chiamata
dagli spagnoli “l’isola del diavolo”: una denominazione che sembra
aver suggerito l’insistita convinzione del Prospero shakespeariano che
sia stato il diavolo il padre di Caliban, nato sull’isola su cui egli è
naufragato.
Descrivendo la desolazione della colonia di Jamestown all’arrivo
di Gates, Strachey la attribuisce da una parte all’assenza forzata di
Gates e dall’altra alla spontanea tendenza antropologica a ricusare
l’assoggettamento e a dissentire:
The ground of all those miseries was the permissive Providence of God, Who
in the forementioned violent storm separated the head from the body, all the
vital powers of regiment being exiled with Sir Thomas Gates in those
infortunate (yet fortunate) islands. The broken reminder of those supplies
made a great shipwreck in the continent of Virginia by the tempest of
dissension: every man, overvaluing his own worth, would be a commander,
every man, underprizing another’s value, denied to be commanded (IV,23).
Affiora quindi netto nel Reportory il problema dell’ordine sociale e
della subordinazione, di quella che viene definita la “tempest of
dissension”, che sembra aver dato il titolo stesso a The Tempest di
Shakespeare. Il dramma, come vedremo, è infatti attraversato dal
problema del rifiuto della subordinazione, servitù o schiavitù, da
un’insofferenza della sudditanza disseminata dalla prima all’ultima
scena.
Se è evidente che Shakespeare attinge a numerosi elementi del
Reportory, non sono solo dettagli quelli che passano dal testo di
Strachey alla Tempesta. Segnalato dal ricorrere di nomi e particolari
comuni, è sottinteso un dialogo di fondo del dramma sia con il
Reportory che con lo sfondo storico cui esso rinvia, che investe
cruciali problemi giuridici e antropologici connessi alla vicenda della
colonizzazione di Jamestown.
9
Oggetto di lunghi allusivi scambi dialogici in 2,1,73-99, da me commentati in G.
RESTIVO, Ironie anticlassiche nella Tempesta di Shakespeare, in Il confronto letterario, 1,
1984, 53-85.
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
261
3. Charters storiche e ribellioni in scena
Nella prima charter del 10 aprile 1606, suddivisa in venti articoli,
con cui James I aveva autorizzato Thomas Gates, George Somers,
Richard Hakluyt e pochi altri a fondare la colonia della Virginia, il re
aveva autorizzato la nascita non di una ma di due compagnie cui
affidare l’onere economico e organizzativo dell’impresa. Una aveva
sede a Londra e l’altra a Plymouth, ma solo la prima sopravvisse, nota
come Virginia Company, sostenuta dai capitali dei coloni o planters, e
degli adventurers, disposti a investire nell’avventura solo denaro. Alle
due compagnie dovevano corrispondere due insediamenti distinti nella
stessa area territoriale disponibile in America, ma solo l’insediamento
della compagnia di Londra a Jamestown si rivelò durevole.
L’investimento aveva sostegni di diversa natura a causa delle
molteplici motivazioni di questa emigrazione: l’eccesso demografico
in patria aggravato dalle enclosures, il problema economico dei figli
non primogeniti della nobiltà e della gentry, come tali privi di eredità
e di terre (di qui la presenza sulla Sea Venture e a Jamestown di molti
gentlemen poco abituati al lavoro manuale), ma anche una dissidenza
religiosa varia, cattolica, brownista, puritana, insieme anche politica,
scomoda in patria per la corona, ma utilizzabile in una colonia che
potesse consentire all’Inghilterra di competere con la colonizzazione
spagnola nel Nuovo Mondo. A differenza che per le altre coeve
compagnie mercantili inglesi in cerca di traffici e profitti, si
combinavano qui motivi religiosi e tensioni sociali in cerca di
soluzione in un incipiente American Dream. Ma l’impresa richiedeva
grandi finanziamenti di avvio e doveva potersi continuamente
rifinanziare. Nel 1605 Southampton aveva già tentato, insieme al suo
cattolico genero Thomas Arundell, di fondare una colonia in Virginia,
dove potessero rifugiarsi i cattolici inglesi, e aveva organizzato una
spedizione al comando di George Waymouth. Dopo la scoperta della
congiura cattolica del 1605, nota come the Gunpowder plot contro il
re e il parlamento, l’atmosfera si era fatta più pesante in Inghilterra dal
punto di vista politico-religioso. Ma per organizzare una colonia
bisognava attirare un sufficiente numero di coloni e ingenti capitali, e
ottenere il consenso del re, anche alimentando la speranza (infondata)
di trovare oro, argento o il mitico passaggio di nord-ovest.
262
Giuseppina Restivo
La forma di governo istituita dalla prima charter di James I
prevedeva un Council di tredici persone presso la colonia stessa,
investito di tutti i poteri, cui doveva corrispondere in Inghilterra il
Council of Virginia, anch’esso di tredici persone, a sostegno
economico e organizzativo della colonizzazione. A entrambi i Council
veniva conferito un sigillo reale perché operassero in nome di James I,
al quale sarebbe spettato un quinto dell’oro e dell’argento che fosse
stato rinvenuto. Veniva concessa un’esenzione fiscale per sette anni e
venivano conferite “all Liberties, Franchises and Immunities” vigenti
“within this our Realm of England” (articolo XV).
Ma nel 1609 James I, in data 23 maggio, emette una seconda
charter per la colonia della Virginia, in cui conferma l’affidamento
della colonia alla compagnia londinese, elencando tutti i nomi dei
planters o degli adventurers, e tra questi il conte di Southampton e il
conte di Pembroke sono rispettivamente il terzo e il quarto, oltre a
essere i primi due membri del Council di Londra per la colonia. Ma
l’organo collettivo del Council della colonia viene ora sostituito da un
dittatoriale Governor. Tutte le precedenti “laws and constitutions”
coloniali vengono soppresse (“shall utterly cease”), e al governatore
vengono ora conferiti “full and absolute Power and Authority” e gli
viene dato mandato di applicare a Jamestown la legge marziale, cui in
Inghilterra si ricorreva solo in caso di ribellione o ammutinamento.
Viene anche specificato che il re non intendeva consentire nella
colonia le “Superstitions of the Church of Rome”, di cui James I
dichiara di sospettare la presenza, e si impone quindi che tutti i coloni,
sotto legge marziale, accettino “the Oath of Allegiance and
Supremacy”, il giuramento con il quale i sudditi dovevano riconoscere
nel re la loro autorità insieme politica e religiosa, disconoscendo il
primato del papa di Roma e il suo potere di scomunicare un sovrano
sciogliendo i sudditi dal dovere di obbedienza. Veniva così imposta la
religione anglicana, con totale integrazione tra potere politico e
religioso. L’incipiente American Dream si trasformava per molti in
incubo.
La charter del 1609 aveva alterato profondamente stato giuridico e
diritti dei coloni nella “plantation in Virginia”, di fatto dichiarandoli
ribelli cui imporre il codice marziale e imponendo il rigido controllo
di un governatore a vita, “lord governor and captain general during
his life”, con pieni poteri come un sovrano assoluto. Non a caso
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
263
Strachey descrive con precisione l’insediamento a Jamestown di Lord
La Warr: ogni particolare diviene significativo alla luce delle novità
della seconda charter coloniale. Viene data pubblica lettura della
“commission” reale a La Warr, perchè venga chiarito il nuovo regime,
mentre Gates, esautorato, è ora, sottolinea Strachey, “styled”
“lieutenant general”. Si descrive in dettaglio il passaggio pubblico a
La Warr delle consegne da parte di Gates, che restituisce le sue
deleghe “rendered up unto his lordship his own commission, both
patents and the council seal” (IV, 24). Ai rimproveri di La Warr ai
coloni per le loro cattive condizioni, segue il 12 giugno l’imposizione
dell’Oath of Allegiance and Supremacy to His Majesty, contro ogni
velleità cattolica o dissidente. Gates diviene uno dei sei membri del
Council di sostegno a La Warr, ma il 15 luglio si imbarca per
l’Inghilterra, dove, nello stesso anno, la Virginia Company pubblica la
sua relazione, A True Declaration of Virginia. Ad essa fa riferimento
lo stesso Strachey per il suo analogamente “true” Reportory, di
conferma e sostegno al testo di Gates.
Il contesto è drammaticamente polemico, anche perché i membri
della Virginia Company facevano per lo più parte dell’opposizione
parlamentare a James I, di cui Southampton divenne man mano un
leader: come tale nel 1621 finirà agli arresti insieme al treasurer o
presidente della Virginia Company di quegli anni, Edwin Sandys, cui
il re rifiutò di confermare la carica per l’ostinata opposizione nel terzo
parlamento, revocando anche la licenza per le lotterie con cui la
Virginia Company si finanziava10.
È a questo complesso quadro coloniale e ai suoi nessi con la
politica interna inglese che rinvia l’apparentemente astratto quadro
favolistico della Tempesta, in cui la tempest of dissension è esibita fin
dalla prima scena di apertura e il cui sottinteso, su questo sfondo
politico, era per i contemporanei informati prorompente.
La prima scena del dramma è insieme fortemente realistica e
ideologicamene calcolata. Esibisce, con una precisione nautica che è
stata rilevata con sorpresa11, le manovre a bordo di una nave nella
10
Cfr. G.P.V. AKRIGG, Shakespeare and the Earl of Southampton, London 1968, 157 e
162.
11
S. ORGEL riporta nella sua edizione della Tempesta (207-8) un passo significativo di
A.F. FALCONER, Shakespeare and the Sea (1964), in cui si spiega in dettaglio la precisione
tecnica delle manovre menzionate nella scena della tempesta e la precisione del linguaggio
264
Giuseppina Restivo
tempesta e, con altrettanta precisione sul piano della dottrina dello
stato, una rivolta costituzionale, abilmente gestita come bozzetto
umano in un confronto diretto fra un nostromo e un sovrano, il re di
Napoli Alonso, con i suoi cortigiani e il suo consigliere di stato
Gonzalo. La sedizione è solo potenziale, ma bene rilevata nelle
implicazioni teoriche, ponendo al suo centro un’ardita ricusazione
dell’assolutismo regio. Delinea la prima di tre vistose ribellioni che si
succedono nel testo, su uno sfondo di insistita insofferenza alla
soggezione.
Al re che gli chiede di chiamargli il comandante impegnato nelle
manovre d’emergenza perchè gli riferisca della situazione, il
nostromo, altrettanto strenuamente impegnato, risponde sempre più
bruscamente intimando a lui e ai suoi cortigiani di tornare in cabina,
in un crescendo di denuncia della loro pretesa di preminenza,
commentato da Gonzalo. Secondo la teoria dell’assolutismo regio,
ridefinita dallo stesso James I, il sovrano era God’s lieutenant on
earth12 e gli era quindi dovuta soggezione assoluta come a Dio: un
disconoscimento di tale soggezione equivaleva a un delitto insieme
politico e religioso. Ma il nostromo rivendica una gerarchia della
competenza navale (egli risponde solo al comandante della nave), e
denuncia la vanità di tale divine right theory di fronte a un re che
ostacola il suo lavoro senza essere in grado, con la sua pretesa
divinità, di placare la tempesta: “What cares these roarers for the
name of king?” (1,1,16-17).
La realtà naturale contrasta con la pretesa regale, annichilita dalla
furia del mare, come lo è l’autorità del consigliere del re, neanch’essa
in grado di controllare gli elementi naturali. All’esortazione di
Gonzalo di considerare il rango dei passeggeri a bordo, “remember
whom thou hast aboard”, il nostromo risponde deciso con un’altra
“opposizione naturale”: “None that I love more than myself”. Diritto
individuale alla propria salvezza e una dimensione o “misura
naturale” per la figura del sovrano si scontrano con la misura religiosa
e assoluta della sovranità, in rapporto alla quale Sebastian, fratello del
re, definisce il nostromo “blasphemous, incharitable dog!”. Il
nautico usato negli ordini, non ricavabile all’epoca da libri nautici, né, va aggiunto, dal
Reportory di Strachey.
12
Nei suoi saggi Basilikon doron, del 1599, in cui il dono dei re menzionato nel titolo
greco è il potere assoluto di provenienza divina, e The True Law of Free Monarchies (1598),
in cui la libertà è quella del re di comandare.
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
265
nostromo è “blasfemo ed empio” per aver rinnegato la supposta
sacralità della regalità. La sua ribellione, esecrata con forza dai
cortigiani, è quindi sul piano costituzionale “da forca”, come nota da
uomo di stato Gonzalo, perché tocca insieme il nevralgico problema
delle gerarchie sociali e l’assetto teorico della monarchia.
A tempesta felicemente superata e sulla terraferma dell’isola il
nostromo tornerà nei ranghi, omaggiando il sovrano e pentito come un
Hopkins, né sarà punito. Ma i suoi argomenti ribelli sono stati esibiti
con forza in una cornice di forte impatto emotivo. Il loro fondamento,
pre-illuministicamente ‘naturale’, rinnega la sacralità del re e
implicitamente i connessi diritti dell’ascrizione regale e nobiliare, per
esaltare quelli acquisitivi della competenza e del merito: a bordo conta
il sapere del marinaio, non la gerarchia di corte, la concretezza del
fare per la comune salvezza, non il rituale sociale, il diritto alla
sopravvivenza di ognuno, non il dovere all’omaggio reverente. E
l’incommensurabile pretesa della divine right theory dell’assolutismo
è ridimensionata dalla misura umana del fare, come dalla misura della
naturalità.
Ma a questa prima vistosa ribellione ne seguono nella Tempesta
altre due di spicco, dopo il naufragio della nave di Alonso sull’isola di
Prospero.
Già duca di Milano e mago-sapiente noto per i suoi studi, Prospero
è stato costretto all’esilio insieme alla figlia Miranda dal fratello
usurpatore Antonio, impadronitosi del ducato con l’aiuto del re di
Napoli Alonso, con il quale viaggiava sulla nave colta dalla tempesta.
Solo apparentemente distruttiva, la tempesta è stata scatenata dalla
magia di Prospero per acquisire il controllo sui suoi nemici facendoli
naufragare sulla sua isola. Qui i soli due sudditi di Prospero, Ariel e
Caliban, sono tuttavia entrambi, pur se in modo diverso, poco inclini
all’ubbidienza. La seconda ribellione in scena è quella di Ariel.
Ariel è uno spirito al servizio di Prospero, che alla sua prima
apparizione si rivela l’agente magico della tempesta appena esibita,
orgoglioso della precisione con cui ha eseguito gli ordini del padrone
per far naufragare la nave senza danni fisici nè alle persone né alla
nave. Ma subito dopo il rapporto sul suo operato, di fronte a nuovi
incalzanti ordini, Ariel si ribella, ansioso di essere liberato da una
servitù che sembra protrarsi oltre gli accordi.
266
Giuseppina Restivo
In una lunga scena in 1,2,189-300, Ariel rivendica l’esaurirsi di un
“contratto a termine” impostogli da Prospero come prezzo per averlo
liberato da una precedente magia punitiva della strega Sycorax, di cui
era stato servo, e che lo aveva imprigionato in un tronco di pino per
aver ricusato un suo ordine. Stanco per il troppo lavoro, Ariel ricorda
a Prospero la promessa di liberazione non ancora mantenuta, ma la
sua protesta provoca l’ira del mago, che lo minaccia di imprigionarlo
in un tronco di quercia per punire la sua insubordinazione. Solo la
rinnovata garanzia della vicina liberazione dalla servitù e la promessa
che il contratto fra loro non si trasformi in rapporto di schiavitù senza
fine rasserena Ariel, anche se apprendiamo da Prospero che
recriminazioni analoghe continuano a ripetersi con cadenza mensile:
“I must once in a month recount what thou hast been, which thou
forget’st” (1,2,262-3).
Questo contrasto è stato a lungo trascurato, soprattutto perché si è
data per scontata la totale positività di Prospero e quindi della sua
dominanza. Ma è evidente l’analogia delle ansie di Ariel con quelle di
Hopkins, che nel Reportory di Strachey teme con altri che a
Jamestown si possa essere costretti “their whole life to serve”.
L’allusione all’indentured servant era subito riconoscibile per il
pubblico contemporaneo. Ma spicca anche una doppia ironia che
accompagna, ‘commentandolo’, il passaggio di mano da un padrone
all’altro dell’indentured servant.
Si suggerisce infatti il confronto tra la prima servitù di Ariel con
Sycorax, che per una disobbedienza aveva crudelmente punito Ariel
con le sue arti magiche imprigionandolo in un tronco di pino, e la
seconda servitù con Prospero, similmente pronto a punirlo
imprigionandolo con le sue arti magiche in un tronco di quercia.
Spicca una possibile amara allusione alle migrazioni dall’Inghilterra
di tanti indentured servants che, sperando di migliorare una
precedente condizione di soggezione in patria, si ritrovavano in
situazioni di analoga costrizione e sfruttamento, quando non di
emergenza e fame.
Ma una seconda ironia sembra rimandare al Reportory, in cui i
coloni di Jamestown sono ripetutamente accusati di idleness, ignavia
o scarsa produttività, e di “neglect and sensual surfeit” (III,16). A
queste accuse sembra fare da contrappunto il risentimento padronale
di Prospero, avido di servizi, insaziabile nonostante il carattere
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
267
d’eccezione del servo, ‘puro’ spirito e come tale non accusabile di
sensual surfeit, di indulgere ai sensi. Più volte nel testo si sottolinea
che Ariel non soggiace alle debolezze umane ed è capace di volare e
muoversi veloce per tutto il globo e in tutti gli elementi, dal
Mediterraneo alle Bermude, per rifornire il padrone di quanto gli
occorre. E tuttavia nemmeno Ariel sembra lavorare abbastanza per il
padrone: l’ironia del servo puro spirito, solerte e senza limiti fisici, di
buon carattere e disposizione, e tuttavia rimproverato e aspramente
minacciato, come i ‘sensuali’ coloni di Jamestown, sembra davvero
calcolata con acuto wit se collocata nel suo contesto allusivo.
Ma oltre alla “protesta sindacale” ante litteram, il rapporto di Ariel
con Prospero consente di inscenare una significativa lezione di psicoantropologia. Ariel dà a Prospero vere e proprie lezioni di umanità
almeno due volte: non solo, come solitamente notato, quando in
5,1,17-20 esorta il padrone a perdonare i nemici, ormai inermi in suo
potere, anziché vendicarsi, ma anche quando in 4,1,48 chiede a
Prospero esplicitamente “Do you love me, master? No?”. Mentre
Prospero ha con lui tentato, come s’è visto, la via della minaccia e del
terrore, è piuttosto la via della motivazione, dell’orgoglio del proprio
operato, della partecipazione affettiva e dell’apprezzamento del datore
di lavoro, che Ariel suggerisce. Quest’indiretta risposta di Ariel
all’opposta ideologia implicita di Prospero è un commento sulla
conduzione di Jamestown.
Informato delle vicende della Virginia Company, Shakespeare
sembra dunque dialogare col Reportory non senza ironie e
provocazioni, con un bilancio sul quale torneremo alla fine,
certamente non volto a favorire proventi ai finanziatori della Virginia
Company. Non sceglie, come avrebbe potuto negli anni subito
successivi, di inscenare vicende di successo come quella di John
Rolfe, che era sulla Sea Venture e farà poi fortuna sposando la famosa
principessa indiana-pellerossa Pocahontas (materia per un ottimo
soggetto da spettacolo, come noto) e avviando a Jamestown la
coltivazione del tabacco che farà fiorire l’economia della colonia.
Esibisce piuttosto l’indentured servant, mettendone in discussione
condizione e misura del vincolo giuridico del contratto. E arditamente
incrementa il gioco ideologico con una terza più veemente figura di
ribellione, anch’essa ma diversamente coloniale: quella di Caliban,
spinta, pur in chiave grottesca, sull’orlo dell’assassinio.
268
Giuseppina Restivo
4. Caliban e la Plantation of Ulster
Con il secondo suddito di Prospero, Caliban, l’opposizione
servo/padrone raggiunge la massima asprezza. Dapprima bambino
orfano solo sull’isola, da Prospero educato insieme a sua figlia
Miranda come un figlio adottivo, Caliban è stato poi ridotto in
schiavitù per aver tentato di possedere Miranda, unica donna
sull’isola. Privato della libertà, è insieme disprezzato, sfruttato per
lavori servili e punito per il suo risentimento. Tipica l’allocuzione con
cui Prospero lo chiama alla sua prima apparizione in scena, come
“poisonous slave, got by the devil himself/Upon thy wicked dam” (1,
2, 319-20), “velenoso schiavo” figlio del demonio e di una perfida
bestiale strega (“wicked dam”).
Ma al padrone che lo convoca Caliban risponde anzitutto “I must
eat my dinner” (1, 2, 330), “devo mangiare”, ricordando che anche
uno schiavo ha diritti naturali insopprimibili. Poi rivendica il possesso
dell’isola che Prospero ha usurpato: “This island’s mine by Sycorax
my mother,/Which thou tak’st from me” (1, 2, 331-32). Si appella così
al duplice principio con cui inglesi ed europei si regolavano per il
possesso delle nuove terre: il primo ad abitarle aveva diritto a
rivendicarne la proprietà, che a sua volta era ereditaria. Poiché
Sycorax era stata la prima abitante dell’isola, su cui aveva dominato
con le sue arti magiche, Caliban, suo unico figlio, ne è il legittimo
erede e Prospero è un usurpatore, come il fratello Antonio lo è del suo
ducato milanese.
Caliban ricorda che da bambino aveva accolto con affetto
Prospero, mostrandogli le qualità dell’isola, e Prospero gli aveva
insegnato a parlare. Ma poi Prospero lo aveva spossessato della sua
isola e di se stesso. Reso schiavo per supposta inferiorità e indegnità
congenita per la sua ipotetica mostruosa “vile race” (1, 2, 357),
Caliban viene continuamente punito per il suo spirito ribelle con
tormenti fisici inflittigli dagli spiriti al servizio di Prospero, ed è
esecrato come ineducabile: “Abhorred slave/Which any print of
goodness wilt not take/Being capable of all ill” (1, 2, 350-52).
La violenza del rapporto, che lo ha privato della sua dignità umana,
spinge Caliban a congiurare contro la vita del padrone con due dei
naufraghi della nave napoletana, Stephano e Trinculo, il cui uso
dell’alcol, a lui sconosciuto, lo spinge a ritenerli esseri superiori. Offre
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
269
a Stephano di aiutarlo a farsi re dell’isola di cui è stato spossessato, se
ne ucciderà il tiranno che lo opprime, “the tyrant I serve” (2, 2, 156).
Aggiunge così alla motivazione della sua illegittima espropriazione
l’argumentum contra tyrannos, cruciale agli occhi del pubblico nel
dibattito ideologico contemporaneo, in cui la tirannia era la sola
motivazione che potesse giustificare la ribellione. Pur reso grottesco
dall’effetto dell’alcol che Stephano gli ha fatto bere, il canto
liberatorio di Caliban “freedom, high-day! High-day, freedom!”,
inneggia a “a new master”, che farebbe di lui “a new man” (2, 2, 180),
riecheggiando l’insubordinazione del nostromo contro il suo re
Alonso, per “proseguirne” in modo radicale la ribellione. L’omaggio
che Caliban è pronto a tributare a Stephano in 3, 2, 21-2,
dichiarandosi pronto a “leccare le sue scarpe”, esprime, sia pure
comicamente, la sua ansia di liberarsi dal tiranno per recuperare la
propria dignità umana, come bene inteso da Stephano, che subito
difende Caliban dall’irrisione di Trinculo, dichiarando che il suo
suddito Caliban “shall not suffer indignity” (3, 2, 34). Caliban insiste
quindi poco dopo in 3, 2, 40 sulla sua determinazione a non essere
“subject to a tyrant”, ma Stephano e Trinculo non sono capaci di
eseguire il piano di Caliban e il loro tentativo finisce in un grottesco
fallimento, che “scherma” appena il sottinteso ideologico.
Quando Prospero, sventata la congiura, si accinge a lasciare l’isola
a Caliban per tornare a Milano, è Caliban a risolvere e superare
unilateralmente la violenza psicologica del loro rapporto. Mentre
Prospero, sprezzante fino alla fine, lo considera irrecuperabile per
inferiorità razziale, Caliban lo smentisce, rivelandosi al contrario
capace di uscire dal circolo vizioso del dominio e dell’odio che lo
accompagna. Appare deciso a recuperare per sè una dimensione di
saggezza e grace, un equilibrio psichico ed etico che smentiscono
ogni ipotesi rabbiosamente razzista scagliatagli addosso dal rancore di
Prospero: “I’ll be wise hereafter,/And seek for grace” (5, 1, 294-95)
sono le sorprendenti parole di un personaggio da Prospero definito
concepito dal diavolo con la strega Sycorax. L’aspirazione alla
saggezza e alla “grazia” di Caliban, una volta che ha recuperato
l’indispensabile libertà, rimette infine in discussione ruoli e punti di
vista, smentendo ancora l’inattaccabilità del prestigio di Prospero, già
compromesso dalle proteste di Ariel e dalla ‘curiosa’ analogia delle
sue minacciate scelte punitive con quelle dell’esecrata strega Sycorax.
270
Giuseppina Restivo
Icasticamente e ironicamente Harold Bloom ha definito il rapporto
del mago-sapiente Prospero con Caliban come un caso di “failed
adoption”13: ma questa ribellione, sommandosi alle altre due già
inscenate, va oltre la sfera del privato domestico, rinvia a un comun
denominatore politico e antropologico di fondo del dramma, in cui
Prospero è più che un padre, è un principe. L’insistente recursività e
qualità delle ribellioni segnala infatti nuovamente il problema centrale
del testo: il problema della sudditanza e del contratto sociale,
connesso a quello dell’assolutismo regio emerso fin dalla prima scena
della tempesta e a quello giuridico-politico dei diritti individuali
cancellati a Jamestown evocato con Ariel. Ma chi è Caliban? Può
come Ariel polemicamente alludere a precise realtà contemporanee?
Con buona pace di chi l’ha immaginato come un negro,
apprendiamo dal testo in 1, 2, 283 che Caliban ha le lentiggini,
“freckles”, e che sua madre Sycorax aveva occhi azzurri (era “blueeyed”: 1, 2, 269), tratti non compatibili con l’ipotesi di un nero, ma
spesso combinati, magari con i capelli rossi, negli irlandesi14. Cui
infatti rimanda, non solo per l’espropriazione della sua isola e per aver
dovuto imparare la lingua del suo dominatore, ma per un tratto
specificamente ancor più distintivo e solitamente trascurato. Pur
parlando un ottimo inglese appreso da Prospero e Miranda, nel passo
in cui maledice l’apprendimento della lingua impostagli, Caliban usa
intercambiabilmente il verbo teach con il verbo learn: “You taught me
language, and my profit on’t/Is I know how to curse. The red plague
rid you/ For learning me your language” (1, 2, 362-64, sottolineature
mie). Non si tratta dell’errore di uno schiavo ignorante: per tutto il
dramma Caliban parla, come è stato notato dalla critica, un ottimo
inglese, come Prospero o Miranda, e talvolta con maggiore ispirazione
poetica (celebrato il passo in 3, 2, 133-41). Lo scambio tra i due verbi
era piuttosto un tratto distintivo degli irlandesi, che immediatamente
qualificava Caliban davanti al pubblico. Lo scambio teach/learn o
quello analogo take/bring caratterizzavano infatti all’epoca l’inglese
degli irlandesi anche colti, come rileva il noto linguista Raymond
13
H. BLOOM, Shakespeare, the Invention of the Human, London 1998, 672.
Cfr. G. RESTIVO, “La tempesta e la storia: prospettive pre-illuministe”, cit., 236.
Infastiditi da questo ‘scomodo’ dettaglio, i curatori del testo hanno solitamente cercato di
‘neutralizzarlo’ interpretando il chiaro attributo “blue-eyed” come piuttosto allusivo a
“occhiaie livide” e bluastre di Sycorax incinta di Caliban, al tempo stesso ignorando le
lentiggini.
14
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
271
Hickey15. Affiora evidente in Caliban, coerente per tutta una serie di
dettagli qualificanti, un’identità che la critica ha trascurato, come ha
ignorato i sottintesi coloniali-contrattuali di Ariel, e la reciproca
integrazione dei due rinvii nel complesso gioco allusivo del dramma.
La nuova charter del 1609 imposta a Jamestown dal re riprendeva
infatti la charter con cui nello stesso anno James aveva istituito in
Irlanda la Plantation of Ulster, che a sua volta aveva ripreso l’idea
della colonia o plantation dall’esempio di Jamestown, fondata nel
1607. La tempesta allude quindi al tempo stesso sia alla colonia di
Jamestown che, arditamente, alla questione irlandese, completando un
gioco di rispecchiamento dei cruciali problemi coloniali dell’epoca.
Entrambi i patroni di Shakespeare, il conte di Essex e il conte di
Southampton, erano stati coinvolti nelle aspre vicende della
colonizzazione inglese dell’Irlanda, insolito caso di colonizzazione in
Europa di “bianchi” con “bianchi”.
Il primo tentativo di colonizzazione in Irlanda era stato affidato
negli anni ’70 del ’500 al primo conte di Essex, Walter Devereux, e
l’impresa era finita con la sua morte in Irlanda per malattia e il
dissesto economico della sua famiglia. Ma anche suo figlio Robert
Devereux, secondo conte di Essex e patrono di Shakespeare, pagò con
la vita la successiva impresa inglese in Irlanda.
Nel 1599-1601 la regina Elisabetta affidò a lui il comando di una
campagna militare contro i ribelli irlandesi guidati dal conte di
Tyrone, e Essex conferì a Southampton il comando della cavalleria.
Ma questo provocò l’ira della regina, ostile a Southampton, che l’anno
prima aveva sposato per amore e senza suo permesso, una sua
damigella, Elizabeth Vernon, socialmente inadeguata per il conte.
Essex aveva allora formalmente avocato a sé il comando della
cavalleria, per lasciarlo di fatto a Southampton; poi, consapevole di
non avere le forze per battere Tyrone, aveva trattato con il ribelle,
irritando ulteriormente la regina, che gli aveva ingiunto di non tornare
prima di una vittoria senza condizioni. Convinto del cattivo influsso
15
R. HICKEY, Irish English. History and present day forms, Cambridge 2007, 261 e 298.
Hickey rileva in Shakespeare strutture “which have been regarded as exclusively Irish in
provenance” e spiega che “many nonstandard features of Irish English can be attributed” a
un “English input to Ireland at the beginning of the early modern period”. Cita come
esempio “verb pairs distinguished by direction such as bring, take; rent, let; learn, teach” e
per l’ultima coppia, in cui learn è usato al posto di teach, cita appunto le parole di Caliban qui
menzionate.
272
Giuseppina Restivo
su Elizabeth dei suoi nemici a corte, i Cecil e i loro alleati, Essex
tornò invece improvvisamente in Inghilterra, non senza intenti ribelli,
che portarono al suo imprigionamento e decapitazione nel 1601,
mentre Southampton, imprigionato alla Torre di Londra con lui, fu poi
salvato e liberato grazie alla successione di James I alla morte di
Elizabeth nel 1603. La guerra in Irlanda proseguì, affamando e
sterminando la popolazione irlandese, fino alla vittoria inglese del
1603.
Ma nel 1607 i nobili irlandesi cercarono aiuto in Spagna: la
cosidetta Flight of the Earls, Fuga dei conti, offrì agli inglesi
un’occasione per confiscarne le terre e farne una plantation, ampliata
da altri terreni di ribelli: nacque così la Plantation of Ulster, venduta a
James I, che, rivendendo il terreno in appezzamenti e stimolando ampi
investimenti di compagnie londinesi, anche per la costruzione della
città di Londonderry, vi insediò come coloni molti presbiteriani
scozzesi, da tempo fonte di disordini lungo i confini tra Scozia e
Inghilterra. L’operazione, parallela alla colonizzazione di Jamestown
avviata nello stesso 1607, fu molto apprezzata dal re, che aveva così
insieme ‘stabilizzato’ la situazione irlandese e risolto con
l’emigrazione il problema del confine scozzese. Ma l’espansione degli
Ulster-Scots e degli altri coloni protestanti in Irlanda comportava la
rimozione della popolazione cattolica residente. Spesso ridotti alla
fame e decimati, espropriati come Caliban delle loro terre, gli
irlandesi furono ridotti a una situazione prossima alla schiavitù,
assoggettati alla legge inglese e costretti a sostituire il gaelico con
l’inglese. Se Ariel, con il suo timore di passare da un contratto a
termine a una servitù perpetua, bene riflette nella Tempesta le paure
dei coloni inglesi di Jamestown, il Caliban shakespeariano, che
sottolinea appunto di essere stato espropriato della sua isola, reso
schiavo e costretto a imparare l’inglese, con il quale maledire il suo
assoggettamento, bene rappresenta la condizione irlandese nella
Plantation of Ulster.
In Irlanda gli abitanti cattolici erano visti dagli inglesi con lo stesso
sprezzo con cui Caliban è considerato subumano e mostruoso figlio
del diavolo (papa romano e credo cattolico erano dagli anglicani
associati al demonio) e anche l’alleanza che Caliban tenta con i
napoletani Stephano e Trinculo sembra bene alludere in chiave
comica alle ansie inglesi per possibili alleanze dei cattolici irlandesi
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
273
con gli spagnoli per tramare contro la corona inglese. Dettagli
liguistici come quello in cui Caliban, nonostante il suo ottimo inglese,
scambia il verbo teach con learn può ora apparire in tutta la sua
pregnanza allusiva e il suo azzardo politico, evocando anche la
memoria del conte di Essex, che in Irlanda aveva, come suo padre,
trovato causa di morte prematura. Se Essex era morto da tempo,
Southampton ne era l’erede, politicamente più prudente, che negli
anni successivi farà opposizione al re in parlamento, insieme al terzo
conte di Essex16.
Queste ardite allusioni, evidenti per i contemporanei, sono state
cancellate prima da una tradizione critica romantica inconsapevole
dello sfondo storico, e poi celate dal senso di colpa del
postcolonialismo europeo o da pregiudizi su una supposta ‘ambiguità
shakespeariana’ eretta a valore estetico, persino paradossalmente
insinuando una collusione di Shakespeare con la prospettiva di
dominio della figura di Prospero. Ma chi è dunque Prospero? Nel
quadro di allusioni alle disperate deformazioni della ‘misura del
diritto’ nelle situazioni coloniali, a chi o a cosa poteva alludere il suo
personaggio, cui si ribellano sia Ariel che Caliban?
Sono molti i tratti di James I, positivi e negativi, che affiorano
dietro il volto complesso di Prospero. Sovrano intellettuale e
ambizioso scrittore di saggi, collerico ma orgoglioso di ammettere il
dibattito, ansioso di raggiungere un accordo con il parlamento che mai
ottenne (nessuno dei quattro parlamenti da lui convocati esaudì le sue
richieste), James appare per molti tratti evocato in Prospero, studioso
di prestigio calibrato per poterlo compiacere ma anche criticare,
insieme sollevando interrogativi su alcuni tra i problemi cruciali
dell’epoca.
Andrew Hadfield ha bene rilevato nel 2004 un dettaglio
significativo che apre un orizzonte interpretativo in tal senso: il
riferimento ai cani da caccia che Prospero lancia con le sue arti
magiche contro Caliban, Stephano e Trinculo, mentre invano
attentano alla sua vita in 4,1,257-64, non poteva non richiamare
immediatamente al pubblico i famosi greyhounds di James. Di essi il
re si occupava personalmente, preferendo la caccia e le ore nei boschi
alla vita di corte17. Mi sono già soffermata altrove sul significato
16
17
G.P.V. AKRIGG, op. cit., 154-157.
A. HADFIELD, Shakespeare and Renaissance Politics, London 2004, 200-203.
274
Giuseppina Restivo
allusivo dei nomi da Shakespeare attribuiti a questi cani, di cui uno in
particolare, con ironia provocatoria, si chiama Tyrant, nome
inconsueto per un cane, ma gravido di sottintesi in un contesto in cui
Prospero è stato da Caliban definito per l’appunto “tiranno”. Il
dettaglio è reso ancor più sospetto dal fatto che gli interventi magici di
Prospero non hanno mai natura fisica concreta, ma sembrano
irraggiare direttamente dalla sua mente, attraverso la mediazione degli
spiriti dominati dalla sua magia, in un gioco di proiezione psichica
avvertita come realtà, ma essenzialmente specchio della volontà di
Pospero. Se Prospero rinvia a James, si sta nel dramma suggerendo
che ha una mente tirannica. Ma oltre alla passione per i cani, anche
molti altri tratti già emersi di Prospero bene si attagliano a James.
Sia l’orgoglio di educatore di James, espresso nel suo saggio dal
titolo greco Basilikon Doron del 1599, dedicato all’educazione del
figlio, che la sua attenzione per la magia (cui aveva dedicato nel 1597
il saggio Of Daemonology), trovano riflesso nella Tempesta: Prospero,
potente mago, dichiara infatti che l’educazione che ha impartito a
Miranda sull’isola è molto migliore di quella di tanti principi cresciuti
a corte (1,2,169-74). Anche la nota irascibilità del re, spesso oggetto
di autocorrezione, appare riflessa in quella di Prospero in 4,1,139-45 e
in 4,1,158-63. Analogamente nell’ansia di Prospero per il matrimonio
di Miranda sembra rispecchiarsi quella del re per la figlia Elizabeth,
sedicenne come Miranda. Rinvii alla politica di James di pacificazione
con la Spagna, oggetto di molte controversie politiche, sembrano
calzare con i luoghi di riferimento nella Tempesta, Napoli e Milano,
allora sotto dominazione spagnola.
Si compone così nel testo un calcolato quadro di allusioni alla
politica di James I, in cui si inserisce il rinvio ai due colonialismi di
Jamestown e della Plantation of Ulster, regolati dalle charters del re,
in un momento particolarmente delicato sia per le vicende della
Virginia Company che per quelle del dissenso politico interno, che
stava facendo naufragare il primo lungo parlamento di James del
1604-11, e con esso quel Great Contract che il re aveva proposto al
parlamento per risolvere i problemi economici della corona.
Falliranno anche gli altri tre parlamenti di James, del 1614, 1620-2 e
1623-5.
In questa luce l’apparente contraddizione fra tratti positivi e
negativi di Prospero, come fra tratti negativi e positivi di Caliban
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
275
appare motivata quanto decifrabile per il pubblico cui si volgeva.
Cogliere questo contesto consente di comprendere il testo. E buona
parte del contesto si sostanziava di problemi giuridici.
In particolare le due charters del 1609 per le due colonie creavano
nuovi acuti problemi giuridico-costituzionali. Quali erano i diritti del
suddito inglese nelle plantations fuori dal territorio metropolitano?
Non va dimenticato che gli irlandesi erano formalmente sudditi della
corona inglese al pari degli altri sudditi inglesi: Enrico VIII si era
proclamato re di Irlanda, oltre che d’Inghilterra, e molti ‘ribelli
irlandesi’ come Tyrone non erano che inglesi di una precedente
generazione fusisi con le popolazioni locali. A Jamestown e in Irlanda
il problema era la riduzione o cancellazione dei diritti alla libertà
individuale o alla proprietà, che tradizione, parlamento e
un’opposizione troppo forte per essere cancellata difendevano in
patria con ben diversa misura di salvaguardia. La forzata restituzione
dei coloni transfughi in patria alla giurisdizione coloniale sancita da
James nella terza charter per Jamestown ne è chiaro segno.
5. Montaigne vs. James I
L’insofferenza della sudditanza espressa in modo acuto dal
nostromo, da Ariel e da Caliban, nelle tre diverse ribellioni –
“costituzionale”, contrattuale e schiavile – non è ristretta nel dramma
a casi acuti o d’eccezione, ma si riaffaccia diffusa in una costante
disseminazione, anche minuta, di rifiuti della soggezione, rivelandosi
costante antropologica.
Subito dopo la scena del nostromo ad esempio, alla sua prima
apparizione in scena, Miranda, che ha assistito al naufragio della nave,
affronta il padre, che con la sua magia ha provocato la tempesta, con
un rifiuto del suo potere di distruzione (che crede di aver
testimoniato), opponendo una fantasia di onnipotenza compensatoria:
“Had I been any god of power, I would/Have sunk the sea within the
earth or ere/It should the good ship so have swallowed, and/The
fraughting souls within her” (1,2,10-13). Se l’intento è pietoso e
caritatevole, tuttavia il linguaggio proietta un antagonismo psichico
violento da opporre al potere magico del padre: il desiderio di
identificarsi con un dio possente, “a god of power”, in grado di
276
Giuseppina Restivo
opporre potere a potere, di sprofondare il mare dentro la terra per
contrastare la potenza paterna con un’immagine ancor più
apocalittica. Non è questo il linguaggio della sottomissione, e
nonostante l’affetto che lega padre e figlia, alla sua prima esibizione il
potere di Prospero suscita insofferenza.
Ma le manifestazioni di rifiuto del dominio si incalzano nella
tempesta nei più diversi contesti. Nel racconto di Prospero alla figlia
che subito segue, sull’antefatto della loro vicenda di esilio sull’isola,
un altro esempio, di nuovo tra consanguinei, è offerto da Antonio, il
fratello di Prospero. Il mago narra di aver lasciato al fratello il
governo reale del suo ducato di Milano, per amore dei suoi prestigiosi
studi che lo avevano reso famoso. Solo un’insofferenza psichica della
subordinazione pubblica e formale sembra aver spinto Antonio,
divenuto di fatto potente, a sbarazzarsi di un inoffensivo studioso
chiuso in biblioteca come Prospero, tradendone affetto, legami di
consanguineità e fiducia, per tramare un duplice delitto: il fratricidio e
l’uccisione della figlia ed erede del fratello, Miranda.
Nella prima scena del secondo atto Antonio spinge poi Sebastian,
fratello del re di Napoli, a seguire il suo esempio, e Sebastian si lascia
persuadere a quella che sembra una ‘facile liberazione’, e solo
l’intervento di Ariel impedisce il delitto.
Anche la proposta di Caliban a Stephano di farsi re dell’isola
uccidendo Prospero rivela in Stephano l’irresistibile tentazione di
sottrarsi alla sua condizione di suddito napoletano, per farsi lui stesso
re, sia pure in un contesto grottesco e con un unico suddito, lo stesso
Caliban. Significativamente Stephano si preoccupa di non
assoggettare/umiliare l’amico Trinculo, cui comicamente propone un
ruolo di viceré. Caliban, come s’è visto, è invece disponibile alla sua
nuova sudditanza solo perché sostitutiva della più degradante
schiavitù tirannica sotto Prospero, e a Stephano chiede che difenda la
sua dignità di suddito contro le offensive ironie di Trinculo.
Lo stesso Gonzalo, saggio consigliere di Alonso, ansioso di
aiutarlo quando è in difficoltà, si è in passato di fatto ribellato agli
ordini del re, per sottintesa insofferenza etica: invece di abbandonare,
secondo gli ordini ricevuti, Prospero e la figlioletta Miranda su una
barca alla deriva e senza scorte, per procurarne morte certa, aveva
fornito loro il necessario per la sopravvivenza.
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
277
Sottile poi il caso della disobbedienza di Miranda agli ordini del
padre nei confronti di Ferdinand, di cui è innamorata: disobbedienza
in segreto desiderata dallo stesso Prospero, come prova
dell’innamoramento di lei, mentre, non a caso, l’innamoramento di
Ferdinand è a sua volta messo alla prova con un assoggettamento
servile che Prospero gli impone, accettato dal principe solo perché gli
consente la vicinanza a Miranda. Solo l’amore può essere più forte del
rifiuto dell’assoggettamento, rileva Ferdinand, che si dichiara attratto
da Miranda con la stessa intensità con cui l’asservimento cerca libertà,
“with a heart as willing / As bondage e’er of freedom” (3, 1, 88-9). È
dunque lo stesso futuro re di Napoli ad asserire il fondamentale,
primario desiderio umano della libertà e l’antropologico rifiuto del
“bondage”. L’asservimento non è condizione accetta e la parola
libertà, liberty o freedom, e l’aggettivo free, ritornano martellanti nel
testo almeno una dozzina di volte, a sostegno e commento delle tre
principali ribellioni che mettono in discussione l’ordine monarchico
nella madrepatria come nelle colonie americana e irlandese.
Ma la gamma delle insofferenze all’assoggettamento non è solo
ampia e insistita esemplificazione: fonda la giustificazione filosoficoantropologica del lungo passo “Had I a plantation”, che Shakespeare
mette in bocca a Gonzalo, uomo di stato e consigliere del re di Napoli,
trasferendolo dal saggio sui Cannibali di Montaigne, e segnalando,
con quelle parole introduttive, che problema di fondo del dramma è
appunto la politica e la gestione delle plantations.
Gonzalo descrive la società o colonia ideale che realizzerebbe se
potesse disporre come sua dell’isola in cui è naufragato, la cui
situazione ambientale sembra offrire i mezzi per la sopravvivenza
senza richiedere l’organizzazione del lavoro, come nell’esempio dei
Cannibali Tupinamba descritti da Montaigne, ma anche come sulle
isole Bermuda: dieci anni dopo la prima diffusione degli Essays di
Montaigne in inglese il Reportory di Strachey rendeva nel 1610 di
improvvisa attualità le tesi del filosofo francese. Di qui l’ardita
evocazione nella Tempesta del modello ideale di riferimento di
Montaigne, in cui un’assenza totale di subordinazione sociale –
subordinazione che inevitabilmente comporta gerarchie e contratti,
costrizioni e leggi, armi e violenza – garantisce a tutti un’assoluta
uguaglianza e fraternità:
278
Giuseppina Restivo
GONZALO: “Had I a plantation of this isle, my lord,
And were the king on’t, what would I do?
I’th’ commonwealth I would by contraries
Execute all things, for no kind of traffic
Would I admit; no name of magistrate;
Letters should not be known; riches, poverty,
And use of service, none; contract, succession,
Bourn, bound of land, tilth, vineyard, none;
No use of metal, corn, or wine, or oil;
No occupation, all men idle, all
And women too, but innocent and pure;
No sovereignty
All things in common nature should produce
Without sweat or endeavor. Treason, felony,
Sword, pike, knife, gun, or need of any engine
Would I not have, but nature should bring forth
Of it own kind all foison, all abundance
To feed my innocent people” (2,1,141-62).
Il quadro euristico descritto da Montaigne, a costo di azzerare lo
stesso processo di civilizzazione, ha tradizionalmente sconcertato i
critici, che pur non osando attaccare il passo in Montaigne18, lo hanno
tuttavia irriso con fastidio nel dramma, come eccesso utopico da
romance, senza connetterlo con il gioco di allusione ai due
colonialismi qui identificato e solitamente ignorato. Ma questo lungo
passo è affermazione ideologica importante nella costruzione
argomentativa soggiacente al testo: innesta infatti nel discorso un
significato teorico fondativo opposto al principio della ‘soggezione
necessaria’, su cui si regge ad esempio il Leviathan di Hobbes, come
ogni forma di assolutismo regio. Poiché il ‘sogno comunitario’ in
assenza totale di penuria è condizione limite, di norma inattuale, il suo
senso diviene di riferimento antropologico teorico, su cui basare una
concezione di tipo democratico della convivenza sociale, che
18
Il corrispondente passo nella versione inglese di J. FLORIO (Of the Canniballes, the First
Book, chapter XXX, 220) in cui MONTAIGNE significativamente immagina di dialogare sul
tema con PLATONE, è “It is a nation, would I answer Plato, that hath no kinde of traffike, no
knowledge of Letters, no intelligence of numbers, no name of magistrate, nor of politike
superioritie; no use of service, of riches or of povertie; no contracts, no successions, no
partitions, no occupation but idle; no respect of kinred, but common, no apparel but naturall,
no manuring of lands, no use of wine, corne, or mettle. The very words that import lying,
falshood, treason, dissimulations, covetousness, envie, detraction, and pardon, were never
heard of amongst them. How dissonant would hee finde his imaginarie commonwealth from
this perfection!”.
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
279
riconosca i più ampi spazi possibili di libertà con i minori attriti
possibili, in opposizione al controllo monarchico assoluto predicato
dalla divine right theory. L’ansia di libertà è un dato umano su cui uno
statista come Gonzalo, eticamente orientato, attira l’attenzione per una
dottrina dello stato agli inizi della modernità. È da questa base che
ripartirà la rivoluzione illuminista, attraverso le analoghe premesse di
Rousseau. In mezzo si avrà in Inghilterra nel 1642 la prima
rivoluzione antimonarchica dell’Europa moderna, in cui un
combinarsi di spinte ideologiche diverse, dominato dalla spinta
religiosa del puritanesimo, specularmente si opporrà alla divine right
theory dell’assolutismo regio19. Analogamente rafforzata dal sostegno
religioso puritano sarà la seconda colonizzazione americana del New
England e con essa il suo American Dream fondativo della
democrazia americana. Per tornare alla laicità antropologica di
Shakespeare occorrerà aspettare l’illuminismo francese, che
Montaigne aveva cominciato a ‘disseminare’.
Ma il passo di Montaigne citato nella Tempesta stabilisce un acuto
contrasto con le charters di James I, in particolare con la seconda e la
terza per Jamestown, come con quella istitutiva della Plantation of
Ulster. Sostenuto da un “grido universale” contro la sudditanza che
affiora nella Tempesta e a cui il principe ereditario Ferdinand allude
consapevole, implicitamente promettendo un più illuminato governo,
questo passo completa il gioco critico-intellettuale con cui
Shakespeare si rivolge al sovrano, contrapponendo al “rimedio” della
legge marziale scelto dal re il pensiero di Montaigne.
Alla luce della lettura della Tempesta qui emersa appaiono quindi
insostenibili i dubbi ideologici ‘colonialisti’ confermati da Stephen
Greenblatt nel 1988 nel capitolo “Martial Law in the Land of
Cockaigne” del celebre Shakespearian Negotiations20.
Convinto di un’inevitabile grado di connivenza di Shakespeare con
la corona e degli intenti da capitalismo moderno della Virginia
Company, Greenblatt accusa quest’ultima di “durezza capitalistic”
nella colonia di Jamestown e ritiene Shakespeare partecipe di tali
interessi economici, mentre ignora, come del resto la critica corrente
19
L. STONE, cit., identifica quattro filoni ideologici di opposizione alla corona: il
puritanesimo, la common law, l’ideologia country e lo scetticismo.
20
S. GREENBLATT, Shakespearian Negotiations, Berkeley, Los Angeles 1988.
280
Giuseppina Restivo
ancora oggi, il parallelo problema coloniale irlandese adombrato in
Caliban.
Greenblatt giustamente sottolinea i rapporti di Strachey con il
mondo dei teatri londinesi, in particolare con il Blackfriars, e con
l’ambiente di Shakespeare, cui vanno aggiunti i legami di
Southampton con l’impresa di Jamestown della Virginia Company.
Ma per tal via colloca Shakespeare in una prospettiva capitalisticocolonialista attribuita alla Virginia Company, che in realtà mai ebbe
un profitto d’impresa e per questo entrò in conflitto con la corona,
interessata, come appare nelle charters, a ricevere la sua ipotetica
parte, e contrariata in questo come dal contrasto ideologico con i
coloni. Dopo battaglie che passarono per il parlamento e per le
nomine dei governatori della colonia, la Virginia Company fu dal re
portata in tribunale per fallimento nel 1623 (la data dell’In-folio che si
apre con La tempesta) e l’anno dopo, persa la causa, fu espropriata
della colonia, che passò alla corona. Il sottinteso di questa lunga
tensione, sfociata nel processo di James I versus la Virginia Company,
sta sullo sfondo della scrittura della Tempesta, come poi della sua
posizione privilegiata nell’In-folio del 1623 e probabilmente della
stessa pubblicazione dell’In-folio.
Scorgendo una “absolute patriarchal rule” riflessa nella magia di
Prospero, Greenblatt ne coglie il riferimento implicito a James I, ma
non in senso oppositivo. In tal modo la magia di Prospero gli appare
“the romance equivalent of martial law”21. Riconosce tuttavia
contraddittoriamente che nei sermoni londinesi del 1610 ai coloni in
partenza per la Virginia il teatro e gli attori venivano descritti, ad
esempio da William Crashaw, come alleati del diavolo: giustamente,
dal punto di vista di un ministro anglicano al servizio della corona, il
teatro, di cui Shakespeare era l’autore di maggior successo, era
ideologicamente pericoloso. Ma non erano certo trasposizioni
“romantiche” dell’assolutismo anglicano del re che potevano
adombrare un Crashaw. Questo teatro appariva invece non soltanto
una distrazione dall’impegno religioso, ma una contro-predicazione
pericolosamente schierata su un altro fronte, come il pubblico bene
avvertiva, soprattutto quella parte del pubblico che in Hamlet lo stesso
Shakespeare aveva definito “the judicious”22, eleggendola a sua
21
22
Ivi, 156.
Hamlet, 3,2,25.
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
281
audience di riferimento, da preferire a una “full house” di
inconsapevoli. Per sanare questa contraddizione e poter rileggere la
Tempesta occorreva tuttavia quel riconoscimento dell’opposizione alla
corona che si è fatto strada solo recentemente nella ricostruzione
storica del periodo, mentre una vera consapevolezza del gioco politico
dell’entourage in cui operava Shakespeare si è solo da poco avviata.
Testo di grande impatto internazionale per il suo “lancio” del “new
historicism”, che ha preparato quell’attenzione alla storia sulla cui scia
si pone questo stesso saggio, Shakespearian Negotiations ha di fatto
avvalorato un’accusa alla Tempesta, poi tornata pervicace, ad esempio
nel primo capitolo di un libro come Many-headed Hydra, Sailors,
Slaves, Commons and the Hidden History of the Revolutionary
Atlantic, di Peter Linebaugh e Marcus Rediker, del 2000 e ristampato
nel 2007, in cui è data per scontata una negativa responsabilità
ideologica “colonialista” di Shakespeare, del resto già ripresa in tutto
un filone di studi postcoloniali. Ma questo pregiudizio ha alterato il
profilo ideologico e la comprensibilità della Tempesta come del
canone shakespeariano. Occorre dunque che la critica prenda atto del
ricostruito quadro di riferimento epocale, ben più ricco e ‘moderno’ di
quanto a lungo riduttivamente ritenuto.
È evidente che mentre componeva La tempesta Shakespeare
doveva avere sulla scrivania sia i Saggi di Montaigne, da cui Gonzalo
cita il lungo passo, che il Reportory di Strachey, da cui trae tanti
elementi. Più che “negoziare” con la corona, Shakespeare sta
pericolosamente fiancheggiandone l’opposizione: lo scontro, passato a
lungo per la nomina reale dei governatori della colonia di Jamestown,
finirà solo, come s’è visto, con il procedimento contro la Virginia
Company aperto dal re in tribunale nel 1623.
Alla luce di tutto questo le cinque peculiarità della Tempesta qui
evocate all’inizio sembrano ora trovare risposta. Riassumendo, il
dramma non attinge a una trama preesistente per poter rispecchiare
piuttosto il dibattito sulle due plantations, americana e irlandese, ed
esprimere i più pressanti problemi contemporanei23; per questo
23
Se tanti dettagli della Tempesta puntano a una denuncia dei problemi coloniali connessi
alla concezione stessa della monarchia e dello stato, anche l’intreccio della vicenda, che
combina la storia di usurpazione del ducato di Milano con la vicenda della coppia FerdinandMiranda, bene evoca James I e la sua politica estera. La componente ‘romantica’ di Ferdinand
e Miranda, come già accennato, evoca le ansie di James, che in quegli anni stava affrontando
il problema del matrimonio dei primi due figli, Henry e Elizabeth, di inevitabile importanza
282
Giuseppina Restivo
diviene anche l’ultimo dramma del suo autore, che probabilmente
aveva troppo osato, anche per un sovrano intellettuale che lo
apprezzava. La popolarità e l’appartenenza ideologica di Shakespeare
sconsigliavano punizioni o esclusioni troppo vistose, ma non
impedivano coercizioni al silenzio dopo ‘eccessi’ libertari, come
accadde in parte con lo stesso Southampton24. Come già suggerito,
l’aprirsi del processo alla Virginia Company nel 1623 coincide con la
collocazione del dramma come primo dell’In-Folio, finanziato tra il
1621 e quell’anno, primo caso in Inghilterra di In-Folio dedicato solo
a opere di teatro, con dedica a William e Philip, figli del conte di
Pembroke, e a Mary Sidney Herbert, contessa di Pembroke (sorella di
Philip Sidney, intimo amico e ammirato modello di Essex).
Il lungo rinvio a Montaigne difende il senso costituzionale e preilluminista dell’argomentazione politico-antropologica soggiacente al
dramma. L’epilogo messo in bocca a un sovrano, Prospero/James, che
chiede consenso all’opinione pubblica sembra poi gesto non meno
ardito: suggerimento o ammonimento al re sul suo bisogno di chiedere
e ottenere consenso sociale, proprio mentre l’ambito Great Contract
di James falliva in parlamento, dopo sei anni di inutili trattative, per
politica. Considerandosi rex pacificus, intenzionato a mantenere un equilibrio nei rapporti con
potenze cattoliche e protestanti, James inclinava a ‘distribuire’ nelle due opposte aree,
spagnola e nordico-protestante, i due matrimoni. Per la figlia Elizabeth una delle ipotesi fu,
proprio nel 1610, Emanuele Filiberto, terzo figlio di Carlo Emanuele duca di Savoia, a
condizione che il re di Spagna gli cedesse Milano, condizione che non si verificò, mentre
l’avvenente Elizabeth infine sposò nel 1611 Frederick V, Elettore del Palatinato, secondo
fama con vero amore. L’intreccio di usurpazione in cui si iscrive Prospero, come spesso
notato, presenta invece analogie con la vicenda dell’imperatore Rudolf II, che, appassionato
studioso attratto dalla magia come Prospero, si sottraeva alle cure dell’impero e venne
deposto dal fratello Matthias. Nel 1610 Rudolf sperava, come Prospero, di vendicarsi sul
fratello usurpatore, ma non riuscì nel suo intento e morì nel 1612. L’associazione di Prospero
con Rudolf, il più intellettuale dei principi europei dell’epoca, poteva ricondurre a James
perché nel 1609 James dedicò a Rudolf II la Premonition al suo saggio An Apology for the
Oath of Allegiance (a difesa dell’Oath of Allegiance inserito, come s’è visto, nella seconda
charter per Jamestown). Si trattava della seconda edizione in inglese del testo, scritto nel
1608 personalmente dal re in latino, con il titolo Triplici nodo, triplex cuneus, e pubblicato in
prima edizione con un nome d’autore fittizio. Preso, come Rudolf II, nella rete delle
contrapposizioni religiose, che in Germania stavano per avviare la Guerra dei Trent’anni,
James scatenò con il suo saggio una lunga polemica internazionale, cui rispose anche, per il
papa, il cardinale Bellarmino. La posizione di Rudolf era per alcuni tratti simile a quella di
James: circondato da protestanti, incline ad accordi con i cattolici, come alla tolleranza. Di
qui la particolare dedica di James a Rudolf del saggio, peraltro rivolto a tutti i principi
europei, per contrastare la pretesa papale di poter deporre un sovrano. Se Prospero non
‘coincide’ con James, tutto in lui attira lo sguardo su James e la sua politica.
24
G.P. V. AKRIGG, op. cit., 154, 158, 162.
Diritti e contratto sociale nella Tempesta di Shakespeare
283
sfiducia del paese verso un re deciso a considerare il parlamento solo
come “advisory body” e non come fonte di diritto. Centrale era quella
supremazia monarchica da James già descritta nel suo saggio The
True Law of Free Monarchies, in cui la libertà auspicata è quella della
volontà assoluta del sovrano e non dei sudditi.
La tempesta apriva scenari troppo prorompenti anche per le difese
dei protettori di Shakespeare: di qui probabilmente il silenzio
successivo dell’autore. Alla Tempesta non fece seguito, come noto,
nessuna sua nuova opera completa, sebbene Shakespeare sia morto
solo sei anni dopo a 52 anni. Se dunque Shakespeare, come Hadfield
ritiene, fin dall’avvento al trono di James aveva mostrato nel suo
teatro di aspirare a “help set the political agenda for the new king’s
reign”25, e aveva a lungo contribuito al dibattito sui rischi della
tirannia fin dal suo poemetto The Rape of Lucrece del 1594 –
evocazione della cacciata di Tarquinio il Superbo da Roma e del
passaggio dall’antica monarchia alla repubblica26 – appare evidente la
continutà ideologica shakespeariana fino all’ardito ultimo messaggio
della Tempesta.
Dopo la quale “The rest is silence” (Hamlet, 5,2,311).
25
26
A. HADFIELD, op. cit., 199.
Ivi, capitolo III, “Republicanism and Constitutionalism”, 110-149.
PARTE TERZA
Diritto e arti figurative
Tra antico…
L’idea di giustizia
nelle arti figurative del medioevo
FRANCESCO GANDOLFO
Il trittico (fig. 1) che il pittore veneziano Jacobello del Fiore firma
e data nel 1421 sintetizza bene, con il morbido e sinuoso fantasticare
delle linee, i termini iconografici entro i quali l’idea rappresentativa
della Giustizia, intesa come astratta virtù cardinale, si era sedimentata,
nel corso del medioevo, in una dimensione cristiana. La scena è
dominata al centro da una figura femminile che dobbiamo immaginare
seduta sul dorso di due leoni affiancati per le terga. Sul capo ha una
corona e indossa una veste dalla ricca decorazione d’oro. Nella mano
destra impugna una spada e nella sinistra una bilancia, due attributi
che le erano stati concessi da molto tempo, nell’immaginario
collettivo, e che sarebbero rimasti tali per sempre. Ancora agli inizi
del Seicento Cesare Ripa, nella sua Iconologia, ci dà conto di queste
scelte, definendo l’immagine come quella della Giustizia divina e
precisando che “si veste d’oro, per mostrare con la nobiltà del suo
metallo, et con il suo splendore l’eccellenza, et sublimità della detta
Giustizia”, che indossa la corona d’oro “per mostrare ch’ell’ha
potenza sopra tutte le pote(n)ze del mondo”, e aggiunge che “le
bilancie significano, che la Giustizia divina dà regola à tutte le attioni,
et la spada le pene de’ delinquenti”1.
Che quella dipinta da Jacobello del Fiore sia proprio una astratta o
assoluta Giustizia divina, negli stessi termini suggeriti da Cesare Ripa,
lo conferma il fatto che essa è accompagnata, nei pannelli laterali,
dagli arcangeli Michele e Gabriele i quali le si rivolgono tramite dei
cartigli. A sinistra Michele è colto nell’atto tradizionale di calpestare
il drago demoniaco, sul quale sta per abbattere un colpo con la spada,
1
C. RIPA, Iconologia, Roma 1603, 188.
290
Francesco Gandolfo
mentre con la mano sinistra regge la bilancia con la quale pesa le
anime dei defunti. È a questa sua funzione che fa riferimento il
cartiglio che lo accompagna, in quanto con esso si rivolge alla
Giustizia divina perché, a seguito del giudizio espresso dalla bilancia,
essa dia il supplizio alle anime dannate e il giusto premio a quelle
libere dal peccato. Dalla parte opposta Gabriele, colto in una posa
levitante e con l’attributo del giglio in una mano che rimandano
all’episodio chiave che, nella vicenda cristiana, lo ha visto
protagonista, l’Annuncio della nascita di Cristo, attraverso il suo
cartiglio si riallaccia proprio a quell’avvenimento, dicendo che la sua
voce che era stata annunciatrice del parto virginale chiede di farsi
guida, nella oscurità dei fatti umani, a quella che, nello specifico,
appare essere una sorta di Vergine-Giustizia. A queste voci risponde il
cartiglio che sta alle spalle della Giustizia e che commenta come gli
ammonimenti angelici risultino delicati per gli uomini pii e violenti
per i malvagi.
Il dipinto di Jacobello del Fiore sintetizza in maniera ottimale
l’idea rarefatta e assoluta della Giustizia come virtù regolatrice, in
termini morali, dei comportamenti umani. Ciò malgrado il carattere
astratto e convenzionale di una soluzione iconografica di questo tipo
balza evidente se poniamo a confronto la porzione centrale della
tavola quattrocentesca con un’altra immagine della Giustizia (fig. 2),
realizzata da un anonimo miniatore, sempre in ambiente veneziano,
sul frontespizio del volumetto della cosiddetta Commissione, ossia i
comportamenti da tenere nella esecuzione del proprio mandato, che il
doge Gerolamo Priuli, nel 1561, consegna al patrizio Melchiorre
Salomon, nel momento in cui questi si avvia a prendere possesso della
sede podestarile di Este2. Come è ovvio cambia la ragione stilistica,
ma la distanza nel tempo non muta la comunanza iconografica di
fondo che si sostanzia nella presenza degli stessi attributi.
Del resto che, come astratta rappresentazione della virtù che deve
essere esercitata da coloro che sono chiamati a giudicare in terra,
come recita la didascalia che accompagna la miniatura, l’immagine
della Giustizia sia sempre stata soggetta a una ferrea canonizzazione
iconografica lo mostra bene il confronto tra due opere lontanissime tra
loro nel tempo e nelle forme. Nel 1552 (fig. 3) nella bottega del
2
Il Buono e il Cattivo Governo. Rappresentazioni nelle Arti dal Medioevo al Novecento,
Venezia 2004, 199 ss.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
291
pittore veronese Bonifacio de’ Pitati viene realizzato un dipinto che
oggi è conservato a Venezia, nella Galleria dell’Accademia, ma che
proviene dalla stanza dei governatori alle Entrate nel palazzo dei
Camerlenghi3. In un clima formale ancora marcatamente
giorgionesco, il dipinto raffigura san Marco che unisce la Giustizia
con la Pace. La dimensione iconografica delle due allegorie è quella
consueta, con la Giustizia dotata di corona, spada, bilancia e
affiancata da un leone e con la Pace caratterizzata dal tradizionale
ramo di ulivo.
Ma non è tanto questo a doverci interessare, quanto il fatto che una
figurazione di analoga sostanza, sia pure esplicitata in forme diverse,
compare già in una scultura all’esterno del Battistero di Parma la cui
costruzione è iniziata nel 1196, dunque molti secoli prima rispetto alla
realizzazione del dipinto. In questo caso (fig. 4) è una virtù teologale,
la Fede, rappresentata come figura femminile coronata e seduta su un
faldistorio, a reggere con la mani alzate due corone vegetali al cui
interno compaiono i busti a sinistra della Giustizia e a destra della
Pace. La corretta lettura iconografica dell’immagine è garantita dalla
didascalia che corre al di sopra e che consente di individuare le tre
protagoniste4. Nella sostanza dei fatti figurativi la Fede svolge la
stessa funzione di san Marco nel dipinto cinquecentesco, nel senso
che, con la sua azione, lega in un unico insieme la Giustizia e la Pace.
L’involontario rapporto tra le due opere è bene sintetizzato dal fatto
che entrambe, per unire tra loro i protagonisti, fanno ricorso a uno
schema ad Y, il che mostra come certe soluzioni interpretative si
mantengano inalterate nel tempo, pur nel variare delle ragioni formali
e delle scelte iconografiche, fossilizzando l’idea rappresentativa della
Giustizia in una sorta di canone astratto e immutabile.
3
Ivi, 197.
A mio giudizio l’iscrizione recita: “(H)ac Habraam Chr(ist)o placuit/(vi)rtute p(ro)batus
leve Iustici/a Pax dextre consolatur”: anche se nel corso del tempo ne sono state date anche
altre letture da M. LOPEZ, Il Battistero di Parma, Parma 1864, 184; A.K. PORTER, Lombard
Architecture, III, New Haven-London-Oxford 1916, 146; G. DE FRANCOVICH, Benedetto
Antelami architetto e scultore e l’arte del suo tempo, Milano-Firenze 1952, 174; C. FRUGONI,
La decorazione plastica. Il programma del complesso antelamico, in Battistero di Parma,
Milano 1992, 140; A. DIETL, La decorazione plastica del battistero e il suo programma, in
Benedetto Antelami e il Battistero di Parma, a cura di C. Frugoni, Torino 1995, 96; A.
ROVETTA, S. COLOMBO, Analisi iconografica del ciclo antelamico, in Il Battistero di Parma.
Iconografia, iconologia, fonti letterarie, a cura di G. Schianchi, Milano 1999, 157.
4
292
Francesco Gandolfo
Come suggeriscono, in maniera molto esplicita, le opere veneziane
che abbiamo preso in considerazione, il tema della Giustizia si lega
strettamente a quello del governo della cosa pubblica. Nel dipinto
della bottega di Bonifacio de’ Pitati (fig. 3) non può sfuggire il fatto
che sullo sfondo, al di là delle rovine classiche che fanno da sostegno
visivo alla scena, si distende la veduta di un fondaco che richiama le
caratteristiche urbane della città di Venezia. Soprattutto significativo è
che l’abitato sia scavalcato da un arcobaleno di cui è evidente la
funzione simbolica, espressiva degli effetti rasserenanti che derivano
dalla unione della Giustizia e della Pace. Anche questo però, il
rapporto della Giustizia con l’esercizio del potere politico, è un tema
che ha alle spalle una lunga e articolata tradizione iconografica
medievale. Per ricostruirne il percorso si può partire da un manoscritto
beneventano delle Leges Langobardorum conservato nella badia di
Cava dei Tirreni e risalente a un momento immediatamente
successivo al 10045. L’apparato decorativo è composto da una serie di
miniature che ritraggono i sovrani la cui legislazione è riportata nella
carte successive, seguendo dei canoni abbastanza omogenei e
ripetitivi.
Una prima soluzione è fornita dal tipo del sovrano seduto su un
faldistorio, accompagnato dai dignitari di corte come lo spatario che
gli si dispone alle spalle. Sono questi i casi dei ritratti del re Rotari
(fig. 5) e del duca beneventano Arechi (fig. 6) che, se messi a
confronto, mostrano bene la loro comunanza di impostazione. Sia il re
sia il duca stanno colloquiando con un dignitario posto all’impiedi che
si rivolge loro con un gesto interlocutorio. Fin qui i punti in comune,
al di là dei quali però emergono delle differenze. Rotari tiene un dito
puntato della mano destra verso il suo interlocutore, come per ribadire
il concetto che sta esprimendo, mentre questi accoglie le parole del
sovrano con la mano destra spalancata e la sinistra appoggiata al
fianco. Subito sotto a questo personaggio uno scriba sta registrando su
un rotulo i concetti espressi dal sovrano. A definire la sostanza reale
della scena è però chiamata la parola lex scritta sia sul dorso della
mano del re sia sul rotulo di pergamena. Dunque quello che viene
rappresentato è il momento in cui Rotari detta il suo celebre editto.
5
Si tratta del ms. 4 della Biblioteca della Badia di Cava dei Tirreni: M. ROTILI, La
miniatura nella Badia di Cava. Volume secondo. La raccolta di miniature italiane e straniere,
Cava dei Tirreni 1978, 58-70 e 156-158.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
293
Come si è già detto, sul piano strettamente compositivo, il ritratto
di Arechi (fig. 6) propone una situazione tutto sommato analoga.
Cambiano però i gesti perché il duca tiene la mano sinistra spalancata
e rivolta verso il suo interlocutore il quale a sua volta punta l’indice
della mano destra verso l’alto e quello della mano sinistra verso un
volume aperto, sospeso per aria in basso, in una posizione che ricorda
quella del rotulo dello scriba nell’altra scena. Anche in questo caso la
parola lex compare scritta sul palmo della mano del duca, mentre sulle
carte del volume compaiono delle lettere che fingono la presenza di
una scrittura ma che, di per sé, non costruiscono un significato
compiuto. La situazione dunque è diversa rispetto a quella dell’altra
scena, nel senso che la gesticolazione dell’interlocutore indica che egli
sta facendo riferimento al testo scritto ma che, sulla interpretazione
dei suoi contenuti, prevale il dettato del duca dalla cui persona
origina, in termini quasi fisici, la interpretazione della legge. La
conferma a questo stato di cose viene dal ritratto del re Rachis (fig. 7).
In questo caso il sovrano viene rappresentato all’impiedi, con a fianco
il solito spatario e due interlocutori di cui quello in primo piano tiene
la mano destra sollevata verso l’alto, nel solito gesto interlocutorio,
mentre con l’indice della sinistra indica verso il basso. In questo caso
manca qualunque riferimento alla presenza di un testo scritto, ma
ancora una volta la parola lex compare sulla mano sinistra del sovrano
che, con l’indice puntato verso il suo interlocutore, sta dando delle
disposizioni che dobbiamo supporre siano di ordine legale. Sul piano
culturale il dato significativo è rappresentato dal fatto che, in questo
modo, è come se la legge promanasse fisicamente dal corpo del
sovrano, un aspetto che è implicito anche nelle altre immagini presenti
nello stesso manoscritto.
Delle Leges Langobardorum è conservato a Madrid un altro
manoscritto, anch’esso di origine beneventana come quello cavense e
più o meno contemporaneo ad esso, decorato con due miniature
intercalate al testo e altre due a piena pagina6. Anche nel caso di
questo manoscritto, nelle miniature sono ritratti i sovrani le cui leggi
vengono esposte nel testo scritto che segue. Il confronto del ritratto
del re Rachis (fig. 8) con quello dello stesso sovrano presente nel
codice cavense (fig. 7) è assai significativo. In entrambi i casi infatti il
6
Si tratta del ms. 413 della Biblioteca Nacional di Madrid: Monumenta Germaniae
Historica. Leges, IV, prefazione di F. Bluhme, Hannover 1868, XXVII-XXIX.
294
Francesco Gandolfo
sovrano è rappresentato all’impiedi nell’atto di interloquire con un
astante che gli si rivolge con un ampio gesto della mano destra, il che
mette in evidenza la comunanza di cultura rappresentativa che
coinvolge le due immagini. Nel caso del codice madrileno, se manca
la parola lex scritta sulla mano del sovrano dall’indice puntato verso il
suo interlocutore, interviene però, all’interno della scena, un terzo
protagonista, altrettanto significativo, un angelo che scende in volo
andando incontro al re con un gesto benedicente. La sua presenza è
importante perché sottolinea l’ispirazione divina del sovrano nel
momento in cui svolge la funzione legiferante. Questo aspetto viene
ribadito anche dalle altre miniature del manoscritto madrileno nelle
quali il tema della sacralità del sovrano, come fonte delle leggi e di
conseguenza dell’esercizio della giustizia, si afferma con più evidente
chiarezza.
Particolarmente significativo in questo senso è il ritratto del re
Rotari (fig. 9), specie se lo si confronta con quello del codice cavense
(fig. 5). In entrambi il sovrano è colto in un ambiente di corte,
nell’atto di dettare il testo dell’editto, ma le implicazioni nel codice
madrileno vanno ben al di là di questo semplice aspetto. Intanto,
approfittando di una astratta intelaiatura architettonica che vuole
fingere la reggia, il miniatore ha creato nella scena due zone spaziali
separate. Al centro di quella superiore sta il sovrano, seduto in trono
in posizione frontale e affiancato da due angeli che ne ispirano
l’azione, mentre dalla linea che chiude verso il basso questa sezione
dell’architettura emergono le figurette a mezzo busto di un dignitario
e di uno scriba che sta trascrivendo il dettato legale. La porzione
architettonica sottostante si organizza sulla base di due arcate rette da
colonne all’interno delle quali si sviluppa quella che potremmo
definire come una delle conseguenze dell’opera di legislatore svolta
dal sovrano e cioè un giudizio. L’editto di Rotari prevede la possibilità
di soluzione delle contese giuridiche tramite un duello che si deve
svolgere tra campioni espressi dai contendenti. Tanto è vero che un
capitolare specifico stabilisce che i campioni scelti per tali scontri non
possono avere su di sé erbe malefiche o altri talismani e che il giudice
che presenzia all’operazione ha il diritto di farli perquisire per
verificare il rispetto di questa disposizione7. Questo ci permette di
7
Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C.
Azzara e S. Gasparri, Roma 2005, 106-107.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
295
capire che la figura seduta su un faldistorio sulla sinistra, con un
bastone a tau in mano, è il giudice che assiste al duello tra campioni di
parte che si sta svolgendo al di sotto dell’arcata di destra. In altri
termini, alla presenza anche di un vescovo e di un monaco e di due
gruppi di astanti che è da presumere che rappresentino le parti in
causa, abbiamo il concretizzarsi, nella realtà umana, della giustizia
divina che prende corpo attraverso la ispirazione del sovrano.
Sempre nel codice di Madrid (fig. 10), una analoga ragione
compositiva anima il ritratto del re longobardo Astolfo. In questo caso
la struttura architettonica di inquadramento è più semplice e si rifà
certamente a rappresentazioni imperiali tardoantiche come quella
testimoniata dal missorium in argento (fig. 11) del 388 raffigurante
l’imperatore Teodosio I con la quale vi sono molti punti di contatto8.
Come in quel caso, il sovrano domina la scena con la sua figura di
proporzioni maggiori rispetto a tutte le altre ed è accompagnato, ai lati
del capo, da due figurette angeliche a mezzo busto che riprendono il
motivo presente sul frontone di tipo siriaco che inquadra la figura di
Teodosio, dove i putti alati si confondono in un giuoco di ambiguità
tra realtà e ornato. Ancora una volta dunque entra in campo l’idea
della sacralità del sovrano come fattore determinante nel momento in
cui egli opera come creatore della legge. Che anche Astolfo sia colto
nell’atto di svolgere tale funzione lo suggerisce il fatto che, al di sotto
di lui, compaiono le figure di un vescovo, di un diacono e di un
monaco, ma soprattutto, più in basso ancora, quelle di un funzionario
di corte e di uno scriba che registra il dettato del sovrano. Altrettanto
significativo è che questa prerogativa non venga invece riconosciuta
al duca beneventano Arechi (fig. 12), nella quarta miniatura del
manoscritto madrileno che lo vede sì al centro della scena, seduto in
trono, ma semplicemente affiancato da un vescovo e da un giudice,
riconoscibile in questa sua prerogativa in virtù del bastone a tau e del
copricapo conico che lo assimilano all’omologo personaggio che
sovrintende al duello nel ritratto del re Rotari (fig. 9). Al suo ruolo
dunque non viene riconosciuta una capacità legislativa analoga a
quella di un re e questo può spiegare le reali intenzioni della scelta
iconografica fatta nel suo ritratto all’interno del codice cavense (fig.
6), con il dignitario che discute con lui i contenuti del codice con la
raccolta delle leggi che egli dunque non sta redigendo ma
8
W.F. VOLBACH, M. HIRMER, Arte paleocristiana, Firenze 1958, 68.
296
Francesco Gandolfo
interpretando, con una condizione di supremazia nei confronti del suo
interlocutore che è sottolineata dal fatto che la parola lex compare
scritta sulla sua mano, alla stessa stregua di quanto accade a proposito
dei ritratti dei sovrani.
Agli inizi dell’XI secolo, epoca alla quale risale la redazione dei
due manoscritti delle Leges Langobardorum, l’idea che, a proposito di
giustizia, il sovrano non sia altro che l’interprete delle intenzioni
divine e che questa condizione sia connaturata al suo ruolo trova una
ulteriore esplicitazione visiva in un testo assai significativo: il libro
dei Vangeli (fig. 13) realizzato nello scriptorium di Ratisbona e
donato dall’imperatore Enrico II alla abbazia di Montecassino in
occasione della sua discesa in Italia nel 1022, oggi conservato nella
Biblioteca Vaticana9. In esso, al posto del ritratto dell’evangelista
Giovanni ne è stato inserito uno dello stesso imperatore, con una
operazione che, già in questo, appare significativa, perché ribadisce il
concetto che la parola del sovrano, come quella degli evangelisti, è
ispirata da Dio. Il confronto tra il ritratto del re Astolfo (fig. 10) nella
versione madrilena delle Leges Langobardorum e quello di Enrico II
mette bene in evidenza le comuni intenzioni che animano ambienti
tanto lontani e diversi tra loro, dal momento che, in entrambi, il
sovrano in trono campeggia dominante al centro ed è accompagnato
da figure a mezzo busto funzionali a non intaccare il senso di severa e
distaccata maestà che la sua immagine deve esprimere nell’atto in cui
si fa interprete della volontà divina, attraverso la legge e la
conseguente applicazione della giustizia.
Riprendendo una abitudine compositiva tipica dello scriptorium di
Ratisbona la miniatura è articolata sulla base di un telaio geometrico
che diventa anche contenitore di didascalie che creano un percorso
esplicativo dei contenuti figurati. Ai quattro angoli formati
dall’intelaiatura rettangolare, all’interno di edicole, si dispongono le
immagini allegoriche di quelle che potremmo definire le virtù “civili”
che debbono animare l’azione del sovrano, visto che di esse, a
rientrare nel novero tradizionale, è soltanto la Giustizia, disposta in
9
P.E. SCHRAMM, Die deutschen Kaiser und Könige in Bildern ihrer Zeit, I, Leipzig 1928,
112-114; E.H. KANTOROWICZ, The King’s Two Bodies. A Study in Medieval Political
Theology, Princeton 1981, 113-115; H. BLOCH, Monte Cassino in the Middle Ages, I, Roma
1985, 19-30; J.T. WOLLESEN, A pictorial Speculum Principis: the image of Henry II in Cod.
Bibl. Vat. Ottobonensis lat. 74, fol. 139v, in Word and Image, 5/1989, I, 85-110; G. SUCKALEREDFELSEN, Prachtvolle Bücher, in Kaiser Heinrich II. 1002-1024, Augsburg 2002, 275-277.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
297
alto a sinistra e raffigurata come una donna, con in mano la solita
bilancia e con lunghi capelli sparsi sulle spalle, un motivo che ancora
agli inizi del Seicento Ripa registra come indicativo delle “gratie, che
scendono dalla bontà del cielo senza offensione della divina Giustizia,
anzi sono proprij effetti d’essa”10. A destra Pietas è rappresentata
anch’essa come una figura femminile, con la mano destra appoggiata
al petto in un gesto magniloquente e un po’ retorico che vuole indicare
la capacità di comprensione delle colpe altrui. In basso a sinistra Lex è
una figura maschile, giovanile e abbigliata all’antica, con tunica e
pallio, che regge nella mano sinistra un volume aperto, evidentemente
la raccolta delle leggi, mentre il gesto interlocutorio fatto con la destra
sottolinea che ne sta esponendo il contenuto. La quarta figura è Ius,
anch’egli un uomo, ma anziano e vestito diversamente, con quelli che
potremmo definire abiti propri del tempo in cui l’immagine fu
realizzata, nel senso che indossa una corta tunica e un mantello, quasi
che, attraverso questa differenza, si sia voluta implicitamente creare
una contrapposizione visiva tra i tempi propri della legge e quelli della
sua applicazione. L’attributo più significativo però è rappresentato dal
bastone a tau sul quale Ius si appoggia, mentre con le mani aperte
esprime la propria sentenza, in quanto ha le stesse caratteristiche del
bastone impugnato dai giudici rappresentati in due delle miniature
(figg. 9 e 12) del codice madrileno delle Leges Langobardorum,
definendosi in questo modo più come un attributo della funzione che
come un fattore di caratterizzazione dell’aspetto anziano del
personaggio.
Altre due virtù che l’imperatore, nel suo ruolo di giudice, deve
esercitare sono disposte nei semicerchi ai lati della sua figura.
Malgrado si tratti di virtù dal nome femminile, vengono entrambe
rappresentate come figure maschili trabeate che tengono in mano il
libro delle leggi, una situazione che sembra caratterizzarle piuttosto
come giudici. A sinistra Sapientia è accompagnata da una didascalia
che recita “Consiliis sacris apta est sapientia regis”, mentre a destra
quella relativa a Prudentia dice “Suggerit hinc cautam causis
prudentia norma(m)”, ribadendo ancora una volta come quei
comportamenti debbano fare parte dell’habitus mentale
dell’imperatore, nella sua funzione di fonte del diritto. Nel
semicerchio superiore la colomba dello Spirito Santo scende in volo
10
C. RIPA, Iconologia, cit., 188.
298
Francesco Gandolfo
su di lui e la didascalia che la circonda, “Spiritus alme deus regem
benedicito clemens”, ribadisce l’investitura divina in virtù della quale
quel compito viene esercitato. Nel tondo centrale Enrico è
rappresentato con tutti gli attributi imperiali e con in più una lunga
trabea che gli si avvolge attorno alla spalla sinistra e all’avambraccio
destro con la quale si intende sottolineare il suo pieno diritto a sedere
sul trono dei suoi avi, grazie anche alla didascalia che corre lungo la
cornice esterna: “Imperii solio fulget Heinricus avito/Caesar et
Augustus trabeali munere dignus”.
Questo richiamo alle ragioni e ai diritti della continuità dinastica è
conseguente a ciò che compare nel semicerchio in basso dove si
svolge quella che è da intendere come la scena che porta sul vivo la
funzione, da parte dell’imperatore, di depositario della legge e di
responsabile della sua applicazione. A sinistra un uomo inginocchiato
volge lo sguardo verso di lui e con le mani solleva verso l’alto, come
per mostragliela, una catena che gli circonda il collo, invoca dunque la
propria liberazione, mentre a destra un uomo in piedi guarda anch’egli
verso l’imperatore, pronto a estrarre la spada dal fodero, in attesa
dell’ordine di esecuzione del prigioniero. La didascalia che circonda
l’immagine “Caesaris ad nutum dampnant Lex Iusq(ue) tyrannum”
chiarisce quale sarà l’esito del giudizio, ma contribuisce anche a
storicizzare l’intera immagine e la ragione del suo inserimento
all’interno del libro dei Vangeli, perché la discesa in Italia
dell’imperatore era stata determinata dalla ribellione nei suoi
confronti, tra gli altri, del principe capuano Pandolfo IV con il quale si
deve identificare il tyrannus della didascalia il cui operato viene
condannato da Lex e Ius, dunque dalle due personificazioni che
compaiono nei riquadri ai lati. Un’ultima didascalia corre lungo il
margine inferiore della pagina e provvede a unire a queste anche le
due personificazioni poste nella parte alta: “Discernant leges Pietas
Iustitia mites”, sottolineando come quel giudizio capitale sia stato
emesso da parte dell’imperatore dopo avere valutato tutte le possibili
attenuanti.
La miniatura del codice vaticano rappresenta il più argomentato e
compiuto riconoscimento in figura dell’imperatore come depositario
della giustizia per ispirazione divina e il suo senso risulta pienamente
comprensibile se si riflette che essa fu realizzata nel momento di
massima esaltazione ideologica del ruolo imperiale, prima che lo
scontro con il papato, nel corso della seconda metà dell’XI secolo,
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
299
portasse a un progressivo affievolimento dell’idea di quella investitura
sovrannaturale che invece sarebbe stata rivendicata dall’antagonista
come sua principale prerogativa. Noi non siamo in grado di
determinare se, per via della sua presenza a Montecassino, il
manoscritto potè svolgere una funzione di riferimento, sta di fatto che
è nell’Italia meridionale e nella realtà storica del regno prima
normanno e poi svevo che si propongono alcune situazioni che
sembrano riallacciarsi direttamente allo spirito e ai modi espressi da
quella immagine.
Un primo esempio è fornito dal capitello (fig. 14) del chiostro della
cattedrale di Monreale con il quale, nel corso degli anni Ottanta del
XII secolo, venne esaltato il ruolo di committente del re Guglielmo
II11. Da questo punto di vista il nucleo centrale è rappresentato dalla
scena in cui il sovrano, aiutato nell’operazione da un angelo, offre il
modello della cattedrale al Cristo Bambino. Fin qui nulla di insolito,
perché si tratta di un tradizionale meccanismo iconografico di
definizione della committenza. Gli elementi significativi emergono
semmai da alcuni particolari come la presenza al di sopra della testa
della Madonna di una grande stella a sei punte. Per cogliere la ragione
di questo motivo occorre accostare all’altro lato lungo del capitello
(fig. 15) quello che è stato il monumento che ne ha ispirato la
composizione: la lunetta del portale della cattedrale di Verona (fig.
16), realizzata dalla bottega dello scultore Niccolò intorno al 114012. Il
nesso tra le due opere, decisamente lontane tra loro nel tempo e nel
modo di fare, è squisitamente iconografico e si fissa nella presenza
dell’identico verso leonino che corre lungo il bordo esterno della
lunetta e lungo il plinto del capitello: “Hic Dominus magnus leo
Christus cernitur agnus”.
11
Una attenta descrizione del capitello è offerta da W. KRÖNIG, Il Duomo di Monreale e
l’architettura normanna in Sicilia, Palermo 1965, 67-69 e da R. SALVINI, Il chiostro di
Monreale e la scultura romanica in Sicilia, Palermo 1962, 139-140.
12
Risale a C.D. SHEPPARD, JR., Iconography of the Cloister of Monreale, in The Art
Bulletin, 31/1949, 168 l’indicazione del rapporto tra questo capitello e il portale veronese per
il quale rinvio, oltre al classico A.K. PORTER, Lombard Architecture, III, cit., 474-478, a E.
KAIN, The Sculpture of Nicholaus and the Development of a North Italian Romanesque
Workshop, Wien-Köln-Graz 1986, 127-158. B. BRENK, Zur Programmatik der Kapitelle im
Kreuzgang von Monreale. Rhethorik der varietas als herrscherliches Anspruchsdenken, in
Opere e giorni: studi su mille anni di arte europea dedicati a Max Seidel, Venezia 2001, 45-46
ritiene giustamente che il rapporto tra le due opere si sia configurato come quello di una guida
iconografica.
300
Francesco Gandolfo
A Verona il verso si adatta alle scene dell’Annuncio ai pastori e
dell’Adorazione dei Magi che si dispongono ai lati della Madonna con
il Bambino e vuole sottolineare la condizione infantile di colui che
diverrà il leone della tribù di Giuda. Nel capitello invece si lega a una
effettiva rappresentazione del Cristo come Agnus Dei. A guidare il
viaggio dei Magi compare a Verona la stessa stella presente al di
sopra della Vergine sull’altro lato del capitello di Monreale ed è
dunque evidente che chi ha programmato quest’ultimo, avendo in
mente il portale veronese, ha introdotto quell’elemento come fattore
magnificante del sovrano committente, rappresentato come un novello
re mago. Da quel punto di riferimento è derivata al capitello anche
l’idea di accompagnare l’immagine dell’Agnus Dei con una
rappresentazione delle stesse Virtù che nel portale veronese si
dispongono entro tondi lungo il sottostante architrave. Nel capitello
l’Agnus Dei è affiancato dalla Speranza e dalla Fede, identificate da
due iscrizioni, e la ragione iconografica che le caratterizza è
sostanzialmente la stessa presente nel portale veronese: si tratta infatti
di figure femminili con in capo una semplice corona a cerchio. La
Virtù teologale mancante (fig. 17) è rappresentata su uno dei lati brevi
del capitello e ripropone la stessa soluzione iconografica, con semmai
l’aggiunta chiarificatrice del gesto di donare la veste a un ignudo la
cui figuretta, posta sull’angolo, è scomparsa e di una iscrizione che
sottolinea come Dio sia Carità.
Sull’altro lato breve viene introdotta la Giustizia (fig. 18), una virtù
assente a Verona e la cui presenza viene sottolineata dalla ambigua
iscrizione “Iustitia Domini” che le corre immediatamente sopra. È
verosimile che con il termine dominus si sia voluta sottolineare
l’origine divina della Giustizia, tuttavia nella sua rappresentazione
entrano alcuni fattori che sembrano volerlo riferire anche alla figura
del sovrano. La Giustizia impugna con la mano destra una spada di
cui, malgrado sia stata spezzata, si riconoscono ancora l’elsa e la
punta. Fin qui niente di strano perché, come abbiamo già visto, la
spada è un suo attributo consueto. Gli aspetti significativi sono dati
dal fatto che la virtù abbia sul capo una corona a cresta simile a quella
indossata dal sovrano committente e regga nella mano destra, al posto
della consueta bilancia, uno scettro dalla terminazione fiorita.
L’angelo che aiuta il sovrano nel trasporto del modellino della
cattedrale impugna, con la mano sinistra, uno scettro di forma identica
a questa ed è inevitabile pensare che la soluzione non sia affatto
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
301
dovuta al caso, ma attentamente calcolata al fine di esprimere il
concetto che il sovrano è l’interprete della giustizia divina in terra. Ci
aiuta in questa direzione constatare che nel ritratto del re Astolfo (fig.
10), all’interno del manoscritto madrileno delle Leges
Langobardorum, lo stesso tipo di scettro, con il compito di
conservarlo per conto del sovrano, è affidato nelle mani del dignitario
rappresentato a mezzo busto in basso a sinistra, accanto allo scriba
intento a stendere il testo delle leggi. È verosimile dunque che
esistesse una tradizione meridionale che riconosceva in quella insegna
l’indicatore della funzione del sovrano come interprete della Giustizia
divina in terra, un aspetto che nel ritratto di Guglielmo II è
sottolineato anche dalla presenza della colomba dello Spirito Santo
che scende in volo al di sopra del suo capo, a indicare che è Dio a
ispirarne e guidarne l’azione.
Che nel regno normanno la funzione del sovrano come interprete
della Giustizia fosse entrata a fare parte integrante delle prerogative
che dovevano essere sottolineate in ragione magnificatoria, lo mostra
bene la miniatura (fig. 19) con il ritratto dell’imperatore Enrico VI
contenuta nel codice bernese del Liber ad honorem Augusti sive de
rebus siculis composto da Pietro da Eboli alla conclusione della
campagna militare con la quale, tra il 1191 e il 1193, il sovrano aveva
conquistato il regno, rivendicando i diritti di successione della moglie
Costanza, figlia legittima di Ruggero II, rispetto a Tancredi, conte di
Lecce e figlio illegittimo dello stesso sovrano, il quale, alla morte di
Guglielmo II, era stato acclamato re dai baroni13. Identificato dalla
didascalia “Henricus VI magn(us) Romanor(um) imp(er)ator”, il
sovrano vi appare seduto in trono, con in capo una corona con i
pendilia simile a quella che Guglielmo II indossa nella scena di
investitura (fig. 20) contenuta nel ciclo musivo all’interno della
cattedrale di Monreale14. In quel caso all’azione del Cristo di
13
Si tratta del ms 120 II della Burgerbibliothek di Berna per il quale vedi PETRUS DE
EBULO, Liber ad honorem Augusti sive de rebus siculis. Codex 120 II der Burgerbibliothek
Bern. Eine Bilderchronik der Stauferzeit, herausgegeben von Th. Kölzer und M. Stähli,
Sigmaringen 1994. Sulla vicenda di Tancredi vedi P.F. PALUMBO, Tancredi conte di Lecce e
re di Sicilia e il tramonto dell’età normanna, Roma 1991; C. REISINGER, Tankred von Lecce.
Normannischer König von Sizilien 1190-1194, Köln-Weimar-Wien 1992; H. HOUBEN,
L’elezione di Tancredi di Lecce a re di Sicilia: basi giuridiche e circostanze politiche, in
Tancredi Conte di Lecce Re di Sicilia, a cura di H. Houben e B. Vetere, Galatina 2004, 45-64.
14
Su pannello musivo del duomo di Monreale vedi O. DEMUS, The Mosaics of Norman
Sicily, London 1949, 123-125; E. KITZINGER, I mosaici di Monreale, Palermo 1960, 16; E.
302
Francesco Gandolfo
assicurare al sovrano la propria protezione, ponendogli sul capo
coronato la mano destra, corrisponde la discesa di due angeli che
portano le insegne del potere, lo scettro e il globo. Sono le stesse
insegne che Enrico VI impugna nella miniatura. Il globo denuncia
apertamente il suo valore simbolico grazie alla scritta “mund(us)” che
gli è posta sopra. Altro è il caso dello scettro perché ha la stessa forma
fiorita presente nel capitello monrealese analizzato in precedenza e si
differenzia rispetto a quello del mosaico che termina con una tabella
rettangolare. Questa osservazione va collegata al fatto che il sovrano è
affiancato da sette figure femminili, tre alla sua destra e quattro alla
sua sinistra che una didascalia ripetuta due volte riconosce come
“virtutes”. Questo ci autorizza a pensare che quelle sulla sinistra siano
le teologali e quelle sulla destra le cardinali.
Alle virtù (fig. 19) è affidato il compito di portare le armi del
sovrano. È questa la ragione che ne vede una sulla sinistra impugnare
la spada e una sulla destra la lancia, mentre la Fortezza regge lo scudo
e l’elmo. Al contrario delle altre che restano anonime, questa virtù è
identificata con una didascalia il che è abbastanza ragionevole, in
relazione a un sovrano che ha conquistato il regno con le armi. Più
intrigante è il fatto che la sola altra virtù individuata da una didascalia
sia la Giustizia che si dispone sul margine destro della scena, con un
attributo insolito per quel che riguarda la sua caratterizzazione, un
codice che tiene stretto al petto, una soluzione che richiama il ruolo
attivo che la presenza fisica della raccolta delle leggi svolgeva nei
ritratti dei sovrani delle Leges Langobardorum cavensi e in quello di
Enrico II nel libro dei vangeli vaticano. Se si collega il rilievo dato
alla Giustizia, nel novero delle virtù, con lo scettro fiorito impugnato
dal sovrano appare evidente come, ancora una volta, venga esaltata la
sua prerogativa di interprete in terra di tale virtù cardinale. Non è
certamente un caso che, con una voluta asimmetria nella
organizzazione complessiva dell’immagine, al si sotto della Giustizia
sia stata rappresentata la ruota della Fortuna la quale è vista come una
figura femminile coronata che si rivolge con le mani supplici verso
l’alto. Una didascalia provvede a chiarirci la situazione: “Fortuna
rogat virtutes e(ss)e in (con)sorcio ear(um) set repulsam passa est”,
BORSOOK, The Royal Programmes of Norman Sicily (1130-1187), Oxford 1990, 67-68; TH.
DITTELBACH, Rex imago Christi. Der Dom von Monreale. Bildsprachen und Zeremoniell in
Mosaikkunst und Architektur, Wiesbaden 2003, 295-319.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
303
dunque la Fortuna vorrebbe entrare nel novero delle virtù ma respinta
è vinta, così come è vinto Tancredi che ad essa si è totalmente affidato
per la conquista del regno e che adesso viene rappresentato mentre
cade a precipizio dalla ruota15. Enrico dunque è colui che, attraverso
la forza delle armi, è stato chiamato, prima di tutto, a ristabilire la
Giustizia, di contro a chi aveva affidato le sorti proprie e del regno
alla Fortuna.
Confrontata con le testimonianze precedenti di analogo contenuto,
nella contrapposizione tra Giustizia e Fortuna, la miniatura del Liber
ad honorem Augusti presenta come sostanziale novità la rinuncia a
qualunque richiamo cristiano nella ricerca delle ragioni che portano il
sovrano a essere l’attore per eccellenza di quella virtù, una
dimensione laica che del resto investe l’intera opera, anche nei suoi
contenuti letterari, e non solo la ragione iconografica di questa
specifica circostanza. È verosimile che la scelta si radichi nella lunga
e contrastata vicenda del rapporto tra papato e impero che da tempo
costituiva uno dei nodi centrali della realtà politica del tempo. In ogni
caso l’immagine fornisce una premessa indispensabile per capire lo
spirito che, nel pieno dello scontro con il papato, animò il figlio di
Enrico VI, l’imperatore Federico II, nel fare realizzare, tra il 1234 e il
1239, la porta posta all’imboccatura del ponte che, scavalcando il
Volturno, immette ancora oggi nell’abitato di Capua16. Di quell’opera
è scomparsa da tempo la porzione intermedia, la più significativa
perché, chiusa tra le due torri che la affiancavano e di cui
sopravvivono ancora i basamenti, proponeva la parte figurata del
complesso e dunque la sostanza del suo programma decorativo.
Del monumento conserviamo delle testimonianze grafiche (fig. 21)
che ci permettono di constatare che l’insieme sviluppava la sua
dimensione figurativa su tre livelli17. Il primo, quello inferiore,
15
Sul valore didascalico dei ritratti di Tancredi presenti nel Liber ad honorem Augusti
vedi L. SPECIALE, Un’immagine bifronte. Tancredi nel Liber ad honorem Augusti e nei sigilli,
in Tancredi Conte di Lecce Re di Sicilia, cit., 287-325.
16
C. SHEARER, The Renaissance of Architecture in Southern Italy. A Study of Frederick
II of Hohenstaufen and the Capua Triumphator Archway and Towers, Cambridge 1935; C. A.
WILLEMSEN, Kaiser Friedrichs II. Triumphtor zu Capua. Ein Denkmal Hohenstaufischer
Kunst in Süditalien, Wiesbaden 1953.
17
La testimonianza più antica è il disegno ms. 333/A conservato a Firenze agli Uffizi e
realizzato da Francesco di Giorgio Martini intorno al 1480, durante il suo soggiorno
napoletano: cfr. G. SCAGLIA, La ‘Porta delle Torri’ di Federico II a Capua in un disegno di
Francesco di Giorgio, in Napoli Nobilissima, 20/1981, 203-222 e 21/1982, 123-134. L’altra,
risalente ai primi anni del Cinquecento, è fornita da un disegno conservato a Vienna alla
304
Francesco Gandolfo
disposto al di sopra del passaggio, prevedeva tre figure a mezzo busto
racchiuse all’interno di tondi e scalate intorno all’arco. Il secondo
livello, distribuite al di sotto di tre arcate, vedeva al centro la figura in
trono dell’imperatore con ai lati due statue, mentre altre statue si
disponevano al livello superiore, ancora una volta racchiuse al di sotto
di arcate. Dell’insieme sopravvivono soltanto sparsi frammenti che
tuttavia permettono di ricomporre quello che era lo spirito
dimostrativo che lo animava. Al centro di tutto si collocava il ritratto
all’antica dell’imperatore di cui oggi conserviamo soltanto il corpo,
ma le cui forme possiamo evocare al meglio attraverso una incisione
(fig. 22), realizzata entro il 1823 per Séroux d’Agincourt18. La
posizione dei due tronconi delle braccia ci permette di constatare che
il ritratto dell’imperatore proponeva nell’insieme una situazione
iconografica vicina a quella del padre nella miniatura (fig. 19) del
Liber ad honorem Augusti. Ovviamente sarebbe del tutto
sconveniente, a causa della labilità delle testimonianze, andare al di là
di questa considerazione ed entrare nel dettaglio di quale potesse
essere l’insegna che egli impugnava nella sola mano sinistra e il suo
significato simbolico, visto che una fonte antica ne definisce la posa
come “extensis brachiis duobusque digitis”, dunque con la mano
destra occupata in un gesto di comando19.
Il senso di ciò che quella eventuale insegna sarebbe comunque
stata chiamata a interpretare lo si può ricavare dalla ricomposizione
dei contenuti della porzione sottostante della porta (fig. 21), quella a
ridosso dell’arcata, per la quale abbiamo una serie di testimonianze
abbastanza concrete. Nel clipeo centrale, quello che il disegno
propone come di proporzioni maggiori, campeggiava una figura
femminile a mezzo busto di cui sopravvive solo la testa (fig. 23), con i
capelli scriminati e raccolti dietro la nuca, intrecciati con un pampino.
Una scritta la accompagnava nella porzione superiore del tondo:
Österreichische Nationalbibliothek, cod. 3528, f. 51 segnalato da G. DE NICOLA, Un disegno
della Porta di Capua, in L’Arte. 9/1908, 384-385. Su queste testimonianze e sul problema
ricostruttivo dell’insieme cfr. S. TOMEI, La Porta di Capua: nuova ipotesi di ricostruzione, in
Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, 57/2002, 259-278.
18
P.C. CLAUSSEN, Die Statue Friedrichs II. vom Brückentor in Capua (1234-1239). Der
Befund, die Quellen und eine Zeichnung aus dem Nachlass von Séroux d’Agincourt, in
Festschrift von Hartmut Biermann, herausgegeben von C. Andreas, M. Bückling, R. Dorn,
Weinheim 1990, 19-39.
19
ANDREI UNGARI Descriptio victoriae Karolo Provinciae comite reportatae, in
Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, XXVI, 571.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
305
“Cesaris imperio regni custodia fio”, dunque la sua funzione era
quella di custodire il regno per ordine dell’imperatore e questo suo
ruolo di custode era esaltato in termini quasi fisici, oltre che dal vitale
classicismo che ne anima le forme, dal fatto che le orbite oculari, che
noi oggi percepiamo vuote e profondamente incavate nel marmo,
erano riempite con materiali che dovevano renderne particolarmente
vigili e vitali gli occhi e lo sguardo20. Che la donna fosse una allegoria
della Giustizia, piuttosto che una affermazione della fedeltà della città
di Capua, lo confermano le due figure a mezzo busto (fig. 24),
anch’esse improntate a un severo classicismo, che si collocavano nei
più piccoli tondi sottostanti e che la tradizione locale ha identificato
con due giureconsulti vissuti alla corte di Federico II, Taddeo da Sessa
e Pier delle Vigne, anche se è più verosimile pensare che si trattasse
genericamente di due giudici, come conferma la testimonianza in
questo senso, non di molto posteriore, di Luca da Penne21.
L’anonimato dei due giudici doveva inoltre soddisfare a un concetto
che lo stesso Federico II ribadisce nel Liber Augustalis, la raccolta di
leggi promulgata nel 1231, immediatamente prima della costruzione
della porta: al fatto che la sua unicità corporea gli impedisca di essere
onnipresente nel regno, si può ovviare con una sua presenza
potenziale, attraverso l’azione svolta dai suoi rappresentanti22.
Il valore assoluto della funzione svolta dai due giudici era ribadito
da due iscrizioni che si disponevano sulla porzione superiore della
cornice esterna dei due tondi. La prima, quella alla destra rispetto alla
statua dell’imperatore, recitava: “Intrent securi qui querunt vivere
puri”. L’altra: “Invidus excludi timeat vel carcere trudi”. Nell’indicare
che il governo si fonda sulla giustizia, i due moniti acquistano
particolare significato se si considera che la porta si apriva ai confini
20
Così riferisce la presenza dell’iscrizione S. SANNELLI, Annali della Città di Capua,
Capua, Biblioteca Comunale, ms. f. 96: “Nella parte inferiore, sopra la volta della porta era
una donna che rappresentava la fedeltà di Capua, e stracciandosi il petto dimostrava un’aquila
dentro; ove in su la testa era tale motto: Cesaris imperio regni custodia fio”.
21
L. DA PENNE, Commentaria in tres posteriores Libros Codicis Justiniani, XI, 40, 4,
Lugduni 1582, 446: “Item sub eadem statua hinc et hinc imagines erant duorum iudicum”.
22
Liber Augustalis, I, 17 in Constitutiones regum regni utriusque Siciliae mandante
Friderico II. imperatore per Petrum de Vinea capuanum praetorio praefectum, et cancellarium
concinnatae, Napoli 1786, 17: “Et si nos etiam, qui prohibente individuitate personae ubique
praesentialiter esse non possumus, ubique potentialiter adesse credamur”. Su tutte le questioni
attinenti all’uso simbolico della giustizia da parte di Federico II vedi E.H. KANTOROWICZ,
The King’s Two Bodies, cit., 97-143.
306
Francesco Gandolfo
del regno23. La logica della messa in scena era dunque quella dei
giudici che assolvono o condannano nella applicazione della giustizia
di cui l’imperatore, come recita il Liber Augustalis, è insieme padre e
figlio24. Questo spiega perché la sua statua dominasse, subito al di
sopra di quelle figurazioni, nel ruolo appunto di fonte e di custode del
diritto.
L’aspetto significativo e nuovo però non è tanto questo, visto che
concetti analoghi erano già presenti nel ritratto di Enrico II (fig. 13)
contenuto nel libro dei vangeli donato alla abbazia di Montecassino,
quanto nel fatto che non vi sono né notizie né testimonianze che
indichino che quella grande messa in scena si collocasse in un’orbita
cristiana, adeguandosi alla considerazione che il ruolo
dell’imperatore, come fonte del diritto, originava da una investitura
divina, come veniva affermato nel caso di quel manoscritto, ma come
accadeva già nel codice madrileno delle Leges Langobardorum. Noi
non sappiamo cosa rappresentassero le statue che accompagnavano la
figura dell’imperatore. Soltanto di una di esse (fig. 25) conserviamo la
testa, ma non siamo in grado di riconoscerle una puntuale
collocazione nel complesso. In ogni caso si tratta di un’opera di
grandiosa e severa impronta classicheggiante, con una ragione
iconografica che è stata variamente interpretata, proprio sulla base del
confronto con modelli antichi, facendone ora un Giove ora un Silvano,
per via della corona di spighe e di pigne che ne circonda il capo. Il
dato significativo però è che la presenza di questa figura,
ambiguamente pagana, esclude che in quel contesto potesse essere
presente una intenzione cristiana. Tutt’al più il riferimento poteva
essere alla Roma imperiale e ai suoi rituali di investitura, con un
cambiamento epocale, nella caratterizzazione del sovrano interprete
della giustizia, che si fissa soprattutto nella identificazione della sua
23
S. SANNELLI, Annali della Città di Capua, cit., 96: “Dalla destra di Federico era la
statua di Pietro delle Vigne di Capua e sopra era scritto: ‘Intrent securi qui vivere querunt
puri’. Dalla sinistra era la statua di Roffredo, legista di Benevento, con quest’inscrittione:
‘Invidus excludi timeat vel carcere trudi’”. ANDREI UNGARI Descriptio victoriae Karolo
Provinciae comite reportatae, cit., 571 riporta i tre versi con alcune non sostanziali varianti e
ne aggiunge un quarto dello stesso tenore: “Cesaris imperio regni custodia fio, / Quam
miseros facio quos variare scio; / Intrent securi qui querunt vivere puri, / Infidus excludi
timeat vel carcere trudi.”
24
Liber Augustalis, I, 31 in Constitutiones regum regni utriusque Siciliae, cit, 30:
“Oportet igitur Caesarem fore iustitiae patrem et filium, dominum et ministrum: Patrem et
dominum in edendo iustitiam et editam conservando, sic et in venerando iustitiam sit filius, et
in ipsius copiam ministrando minister.”
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
307
persona, in termini assolutamente fisici e terreni, come fonte prima del
diritto25.
Il messaggio lanciato dalla Porta di Capua era troppo violento e di
parte, soprattutto troppo legato alla vicenda umana e politica di
Federico II perché potesse essere ripreso altrove. Già ai primi del
Trecento con Giotto, nella padovana Cappella degli Scrovegni, nei
monocromi alla base delle pareti laterali, con le immagini delle virtù
contrapposte ai loro contrari, la rappresentazione della Giustizia (fig.
26) trova nuovamente le ragioni per una sacralizzazione. Grazie alle
scene di genere rappresentate al di sotto, si ribadisce il concetto che se
la Giustizia è presente le attività dell’uomo si svolgono serenamente,
al contrario di ciò che accade là dove regna l’Ingiustizia (fig. 27),
posta in un castello dalle mura cadenti e accompagnata da immagini
di delittuosa violenza26. Sistemata all’interno di uno spazio
prospettico creato da una armonica architettura, la Giustizia è vista
nuovamente come una donna coronata. La novità iconografica è data
dal fatto che essa regge con le mani i due piatti di una bilancia e non
la bilancia stessa, la cui asta è appesa a una catena metallica che
attraversa l’arcata di fondo dell’architettura, dove è stata dipinta con
la precisa intenzione di farle assolvere questo scopo. Il fatto che la
Giustizia regga in simmetrico equilibrio i piatti della bilancia è
funzionale alla ripresa nell’immagine della indicazione del suo doppio
compito, di premiare e di condannare, che nella porta di Capua veniva
espresso attraverso le iscrizioni che accompagnavano le figure dei
giudici. Solo che in questo caso, a eseguire gli ordini della Giustizia,
non sono più gli emissari dell’imperatore, ma due angeli i quali
riportano il tema in una dimensione di astratta sacralità. Malgrado la
lacuna presente nell’affresco, è ancora possibile intuire che l’angelo
che poggia sul piatto della bilancia alla destra della Giustizia sta
ricompensando con il dono di una corona la figura seduta dietro al
piccolo tavolo, mentre quello che occupa il piatto alla sinistra si sta
apprestando a eseguire la condanna di un colpevole27.
25
E.H. KANTOROWICZ, The King’s Two Bodies, cit., 97-143.
J.B. RIESS, Justice and Common Good in Giotto’s Arena Chapel Frescoes, in Arte
cristiana, 72/1984, 69-80.
27
Le idee che animano la figura della Giustizia sono ribadite da una lunga iscrizione che,
con qualche lacuna, corre alla base dell’affresco: “Equa lance cuncta librat perfecta Iustistia /
coronando bono vibrat ensem contra vicia / cuncta gaudent libertate ipsa si regnaverit / agit
cum iocunditate quisque quidquid volverit / miles propter hanc venatur comitatur truditur /
mercatores iam…proditur”. Per la trascrizione vedi Giotto. Gli affreschi della Cappella degli
26
308
Francesco Gandolfo
Da Giotto derivano molti degli elementi che, tra il 1338 e il 1339,
Ambrogio Lorenzetti introduce nella rappresentazione della Giustizia
(fig. 28) che domina, all’interno del tema più ampio del Buon
Governo, nella Sala dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena,
precisando ancora meglio la dimensione assoluta e sovrannaturale
della sua origine28. Anche in questo caso la Giustizia è una fanciulla
coronata e seduta in trono, con lo sguardo rivolto verso l’alto, verso la
soprastante figura della Sapienza che le ali connotano come
astrattamente sovrannaturale. La scritta “Diligite Iustitiam qui
iudicatis terram” che le crea un arco al di sopra del capo ribadisce
significativamente il suo distacco dalla realtà terrena, il suo valore
sacrale e assoluto. È infatti alla Sapienza divina che è demandato il
compito di reggere l’asta della bilancia, con una soluzione che, se da
un lato riprende quella giottesca, dall’altro trova modo di enfatizzare e
precisare l’origine soprannaturale della Giustizia la quale, anche in
questo caso, tiene in bilico con i pollici i due piatti della bilancia, con
una ulteriore precisazione dei suoi compiti. Come in Giotto, due
angeli si dispongono sui piatti della bilancia, ma le loro azioni si
diversificano. Quello sulla sinistra accompagnato dalla scritta
“Distributiva” esegue con una mano una condanna capitale, mentre
con l’altra assolve un innocente. L’angelo sulla destra, con accanto la
scritta “Comutativa”, provvede a consegnare a due mercanti strumenti
utili alla vita dei commerci, uno staio e delle unità di misura lineari. In
altri termini, volendo usare una definizione moderna, vengono
riconosciuti come propri della Giustizia i due filoni del diritto penale e
di quello civile. Ed è significativo che sia dal piatto della bilancia che
compete al diritto civile, che scende la corda che finisce in mano alla
figura femminile che siede in trono al di sotto della Giustizia. La sua
funzione allegorica è fissata dalla parola “Concordia” scritta sulla
pialla che regge in grembo e questo spiega perché la corda passi dalle
sue mani a quelle dei cittadini che, reggendosi ad essa, dunque “in
Scrovegni a Padova, a cura di G. Basile, Milano 2002, 389. La corrispondente iscrizione al di
sotto dell’immagine dell’Ingiustizia è ormai illeggibile.
28
Sul testo pittorico originario dell’affresco, antecedendente ai restauri verificatisi nel
corso del tempo, vedi R. GIBBS, In search of Ambrogio Lorenzetti’s Allegory of Justice:
Changes to the Frescoes in the Palazzo Pubblico, in Apollo, 149/1999, 11-16.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
309
concordia”, in virtù della corretta applicazione delle leggi, avanzano
verso l’Allegoria del Buon Governo29.
Negli stessi anni, nella Sala dell’Udienza del Palazzo dell’Arte
della Lana a Firenze, un’intera parete viene occupata da un affresco
(fig. 29) realizzato da un anonimo pittore che definisce, con la schietta
icasticità propria delle immagini, quali debbano essere le
caratteristiche del buon giudice, colte attraverso le virtù al cui
esercizio egli si deve votare. Al centro della scena, Lucio Giunio
Bruto, il fondatore della repubblica romana, con un evidente richiamo
alle doti morali degli antichi, è colto in una posizione volutamente
frontale e isolata che vuole ribadirne il distacco rispetto alla realtà
circostante che è metafora visiva della sua incorruttibilità. Il corto
scettro che regge nella mano destra ne sottolinea il ruolo di giudice,
situazione che del resto è ribadita anche dai cartigli che, in maniera
forse un po’ ingenua, delle mani dotate di ali tengono dispiegati nella
parte alta del dipinto. Le scritte forniscono il senso di ciò che accade
ai margini della scena dove le quattro virtù cardinali respingono i
tentativi di altrettanti cittadini di interferire con l’attività del giudice.
La Giustizia in alto a destra sventa con la minaccia della spada un
tentativo di corruzione ed è significativo che, al contrario di ciò che
accade per le altre virtù, viste come di consueto come figure
femminili, il tipo scelto per rappresentarla sia quello dell’angelo,
introdotto da Giotto a Padova e ripreso da Ambrogio Lorenzetti a
Siena, come esecutore delle sentenze che discendono dalla astratta
soprannaturalità del diritto30.
Che nella mentalità medievale sia stata questa la linea vincente,
rispetto alla laica e razionale interpretazione proposta da Federico II e
dai suoi giuristi, sempre negli stessi anni, intorno al 1340, lo mostra
bene la Allegoria del diritto (fig. 30) contenuta in un manoscritto
29
Sul tema vedi M.M. DONATO, Il pittore del Buon Governo: le opere “politiche” di
Ambrogio in Palazzo Pubblico, in Pietro e Ambrogio Lorenzetti, a cura di C. Frugoni, Firenze
2002, 217-222; ID, “Quando i contrari son posti da presso…”. Breve itinerario intorno al
Buon Governo, tra Siena e Firenze, in Il Buono e il Cattivo Governo, cit., 21-44; R. GIBBS,
“Sober as a judge”: Ambrogio Lorenzetti’s “Allegory of Justice in the good comune”’ under
the influence’ of the Digest and other Bolognese illuminated law manuscripts, in Under the
influence: the concept of influence and the study of illuminated manuscripts, Turnhout 2007,
121-138.
30
G. RÜCK, Brutus als Modell des guten Richters. Bild und Rhetorik in einem Florentiner
Zunftgebaüde, in Malerei und Stadtkultur in der Dantezeit. Die Argumentation der Bilder, a
cura di H. Belting e D. Blume, München 1989, 115-131.
310
Francesco Gandolfo
bolognese del Digesto giustinianeo31. La scena è dominata al centro
dalla figura della Giustizia, coronata e con in mano la tradizionale
spada e un meno usuale astrolabio, a sottolineare il carattere assoluto e
universale del suo potere. La sua dimensione sovrannaturale ancora
una volta è sottolineata dagli angeli che sono al suo servizio. Quello
sulla destra le porge rispettoso il codice frutto del lavoro di raccolta e
di edizione dei testi giuridici svolto dai dotti e descritto nel riquadro a
fianco e in quelli sottostanti. Sulla sinistra due angeli provvedono alla
consegna a Giustiniano della corona e della spada come segno non
solo di ringraziamento per l’opera promossa, ma della investitura
divina in virtù della quale gli viene demandato il compito di applicare
quelle leggi che egli stesso ha provveduto a far raccogliere e
riordinare, ma che non si identificano con la sua persona, intesa come
fonte del diritto, come era stato laicamente affermato dai giuristi di
Federico II.
31
Si tratta della miniatura del cosiddetto “Maestro del 1328” posta a c. 4 del ms. E. I. 1
della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino: vedi A. CONTI, La miniatura bolognese.
Scuole e botteghe. 1270-1340, Bologna 1981, 84-85.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
311
ILLUSTRAZIONI
Fig. 1 – Venezia, Gallerie dell’Accademia, Jacobello del Fiore, La Giustizia.
Fig. 2 – Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Maestro ‘To. Ve’ e bottega,
Commissione del doge Girolamo Priuli a Melchiorre Salomon podestà di Este.
312
Francesco Gandolfo
Fig. 3 – Venezia, Gallerie dell’Accademia (in deposito alla Fondazione Giorgio
Cini), Bonifacio de’ Pitati (bottega di), San Marco unisce la Pace e la Giustizia.
Fig. 4 – Parma, Battistero, La Fede unisce la Giustizia e la Pace.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
313
Fig. 5 – Cava dei Tirreni, Biblioteca della Abbazia, ms. 4, f. 15v, Re Rotari.
Fig. 6 – Cava dei Tirreni, Biblioteca della Abbazia, ms. 4, f. 182r, Il duca di
Benevento Arechi.
314
Francesco Gandolfo
Fig. 7 – Cava dei Tirreni, Biblioteca della Abbazia, ms. 4, f. 150v, Re Rachis.
Fig. 8 – Madrid, Biblioteca Nacional, ms. 413, f. 141 v, Re Rachis.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
Fig. 9 – Madrid, Biblioteca Nacional, ms. 413, f. 16 r, Re Rotari.
Fig. 10 – Madrid, Biblioteca Nacional, ms. 413, f. 148v, Re Astolfo.
315
316
Francesco Gandolfo
Fig. 11 – Madrid, Academia Real, «Missorium» dell’imperatore Teodosio I.
Fig. 12 – Madrid, Biblioteca Nacional, ms. 413, f. 157r, Il duca di Benevento
Arechi.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
317
Fig. 13 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Ottobon.
Lat. 74, f. 193v, L’imperatore Enrico II.
Fig. 14 – Monreale, Cattedrale, Chiostro, corsia occidentale, capitello n. 8, Il re
Guglielmo II dona la cattedrale alla Madonna con il Bambino.
318
Francesco Gandolfo
Fig. 15 – Monreale, Cattedrale, Chiostro, corsia occidentale, capitello n. 8,
L’Agnus Dei tra la Speranza e la Fede.
Fig. 16 – Verona, Cattedrale, Niccolò, lunetta del portale di facciata, La
Madonna con il Bambino tra l’Annuncio ai pastori e l’Arrivo dei Magi.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
319
Fig. 17 – Monreale, Cattedrale, Chiostro, corsia occidentale, capitello n. 8, La
Carità.
Fig. 18 – Monreale, Cattedrale, Chiostro, corsia occidentale, capitello n. 8, La
Giustizia.
320
Francesco Gandolfo
Fig. 19 – Bern, Burgerbibliothek, Codex 120 II, f. 146r, L’imperatore Enrico VI.
Fig. 20 – Monreale, Cattedrale, pannello musivo con Cristo e il re Guglielmo II.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
321
Fig. 21 – Wien, Österreichische Nationalbibliothek, Cod. 3528, f. 51v, Disegno
riproducente la porzione centrale della Porta di Capua.
Fig. 22 – da J.B. SEROUX D’AGINCOURT, Histoire de l’art par les monuments.
Sculpture, Paris 1823, IVe partie, Planches XXXVII, Nr. 4, La statua dell’imperatore
Federico II prima della parziale distruzione.
322
Francesco Gandolfo
Fig. 23 – Capua, Museo Provinciale Campano, Testa della Giustizia.
Fig. 24 – Capua, Museo Provinciale Campano, Busto del cosiddetto Taddeo da
Sessa.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
Fig. 25 – Capua, Museo Provinciale Campano, Testa del cosiddetto Giove.
Fig. 26 – Padova, Cappella degli Scrovegni, Giotto, La Giustizia.
323
324
Francesco Gandolfo
Fig. 27 – Padova, Cappella degli Scrovegni, Giotto, L’Ingiustizia.
Fig. 28 – Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove, Ambrogio Lorenzetti, La
Giustizia.
L’idea di giustizia nelle arti figurative del medioevo
325
Fig. 29 – Firenze, Palazzo dell’Arte della Lana, Sala dell’Udienza, Bruto buon
giudice difeso dalle virtù cardinali.
Fig. 30 – Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, ms. E. I. 1, f. 4r, Allegoria
del diritto.
…e contemporaneo
Misure del diritto per l’arte nei luoghi pubblici
ALESSANDRA DONATI
SOMMARIO: 1. Misure del contemporaneo e limiti del diritto. – 2. L’arte rigettata. – 3. Le
nuove categorie dell’arte nei luoghi pubblici: site specific e arte temporanea. – 4. Sistemi
di finanziamento dell’arte pubblica. – 5. Nuove misure per l’arte nei luoghi pubblici: linee
guida di riforma.
1. Misure del contemporaneo e limiti del diritto
L’arte contemporanea contribuisce a rappresentare e definire
l’identità sociale e culturale del nostro tempo.
Il diritto, nazionale e sopranazionale, rappresenta e definisce le regole per la gestione dei rapporti sociali, nei diversi luoghi in cui
agiamo.
L’arte non conosce limiti. Il diritto pone regole e limiti.
Perché allora accostare al diritto l’arte contemporanea? Perché
proporre di trovare nuove misure del diritto per l’arte contemporanea
nei luoghi pubblici?
La risposta è in quell’aggettivo, contemporanea, che distingue
l’azione artistica di oggi, sia essa rivolta al mercato privato o destinata
al luogo pubblico, dal patrimonio che si è accumulato nel tempo.
Il diritto conosce bene l’arte classica e moderna, fatta di oggetti,
statue, quadri. Di “cose”, prodotte e poi esposte, vendute,
collezionate. Fatta di ornamenti e monumenti celebrativi per la città.
L’arte contemporanea negli ultimi decenni ha mischiato i generi,
contaminando e confondendo con intenzione pittura e scultura, e
innovando nei modi dell’espressione, in una ricerca sempre più
motivata verso la smaterializzazione dell’opera, verso l’opera effimera
e verso l’apertura della partecipazione del pubblico alla realizzazione
dell’opera stessa.
330
Alessandra Donati
L’affermazione di questa molteplicità di mezzi espressivi
coinvolge anche il diritto e il suo necessario adeguamento alle novità:
la contemporaneità sfida le tradizionali categorie che il diritto ha
utilizzato per secoli – dell’artista-soggetto e dell’opera-oggetto – di
fronte alle multiformi ed eterogenee espressioni dell’artista
contemporaneo.
Riferendoci all’arte contemporanea in generale, si può serenamente
affermare che, di fronte a tali e tante trasformazioni, il diritto ha già a
disposizione gli strumenti per comprendere le manifestazioni del
contemporaneo: l’ampia definizione proposta dal nostro diritto
d’autore – che riproduce quella adottata dalla convenzione di Berna
del 1886 – sancisce che “l’espressione ‘opere letterarie e artistiche’
comprende tutte le produzioni nel campo letterario, scientifico e
artistico, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione”. Questa
apertura accoglie nell’ambito di applicazione del diritto d’autore
davvero ogni tipo di manifestazione artistica: dalla scultura
all’happening, dalla body art alle “parole” di Lawrence Weiner, alle
conversazioni di Jan Wilson o agli incontri di Tino Sehgal… dal
manufatto all’opera effimera.
Il diritto si percepisce invece in ritardo e in imbarazzo quando si
tratta di organizzare e far valere gli strumenti di tutela a difesa delle
nuove forme di espressione delle arti visive1: la tutela dell’arte
effimera mal si concilia con l’onere della prova quando manca la
concreta materialità dell’oggetto. Ecco pertanto che un’analisi della
relazione tra arte contemporanea e diritto mostra una lacuna situata
non a livello definitorio, ma a livello di effettiva tutelabilità dell’opera
d’arte, dovendo essa fare i conti con un sistema di tutela fondato sulla
materialità – il manufatto – dell’opera da proteggere.
Da queste considerazioni sulla relazione diritto-arte contemporanea
in genere, seppur qui solo accennate, è possibile spostare e focalizzare
l’osservazione su di una particolare espressione di arte
contemporanea: l’arte nei luoghi pubblici.
Il cambiamento di prospettiva esige anche un discorso più radicale.
1
G. AJANI e A. DONATI, Diritto classico e arte contemporanea, in G. AJANI e A. DONATI,
I diritti dell’arte contemporanea, Torino 2011, 11 ss. Ove vengono delineate e approfondite
le problematiche relative alle misure del diritto in rapporto alla tutela delle nuove forme
espressive dell’arte contemporanea – sempre più effimere.
Misure del diritto per l’arte nei luoghi pubblici
331
Posto di fronte al sistema dell’arte contemporanea nei luoghi
pubblici, l’imbarazzo del giurista rispetto all’inadeguatezza delle
categorie legislative non può trovare soluzione semplicemente con
una riflessione tecnica, o con il ricorso ai meccanismi tradizionali
dell’interpretazione, che sono gli strumenti che rendono possibile
l’adeguamento della norma alla evoluzione sociale.
Volendo anticipare quello che sarà il risultato di una attenta
osservazione del modo in cui oggi si fa arte nei luoghi pubblici e del
significato sociale da essa assunto, osserviamo che la nova categoria
“arte pubblica” richiede al giurista la formulazione di una proposta più
profonda che ponga in evidenza il problema dell’identità dell’opera
d’arte nei luoghi pubblici, della sua riconoscibilità, dei suoi criteri di
finanziamento.
L’arte nei luoghi pubblici ha acquisito una nuova funzione scendendo dal piedistallo della celebrazione del potere politico e modificando le proprie icone. La recente biennale di Carrara intitolata “PostMonument” ha ben ricordato questo passaggio2.
Tuttavia, la reazione dei cittadini ai nuovi “Post-Monumenti” è
spesso negativa, di rifiuto. Oggi avviene sempre più spesso che sia il
giudice ad essere chiamato a decidere del destino di queste opere: si è
venuta a creare una tensione tra diritto e arte nei luoghi pubblici.
Questa tensione tra Post-Monumento e cittadino deve condurre il
giurista a chiedersi se le regole che disciplinano la scelta delle opere
d’arte nei luoghi pubblici siano adeguate al nuovo tipo di arte pubblica: quelle regole che, schematizzando, prevedono che il monumento o
la scultura, scelti dalla pubblica amministrazione per abbellire un luogo pubblico, vengano imposti al cittadino che vive quello spazio pubblico.
Il cattivo rapporto tra arte nei luoghi pubblici e pubblico è dovuto
anche all’inadeguatezza del diritto che si trova in ritardo non solo rispetto alla veloce evoluzione dell’arte, ma anche ad una sua rinnovata
funzione. In altri termini, in questo contesto, non si tratta tanto di verificare che il diritto abbia gli strumenti per essere applicato alla realtà
di un’opera effimera; si tratta piuttosto di rivedere e riscrivere la nozione stessa di arte nei luoghi pubblici e di ripensare ai criteri che ne
2
Post Monument, XIV Biennale Internazionale di Scultura di Carrara, a cura di F.
Cavallucci, Cinisello Balsamo 2010.
332
Alessandra Donati
legittimano la realizzazione, si tratta di allestire una nuova regolamentazione che recepisca e dia voce alla più attuale e coerente con la temperie contemporanea funzione sociale dell’arte nel luogo pubblico3.
E allora ci si deve chiedere quali devono essere le nuove “misure”
che il diritto deve indicare perché gli abitanti di un luogo, come fruitori dello spazio urbano, riescano ad appropriarsi di un’opera e riconoscano che una nuova identità è stata creata al “loro spazio”.
Accade sovente, infatti, che il nuovo assetto, il nuovo postmonumento, sia percepito dai cittadini come imposto per l’assenza di
informazione, di partecipazione e coinvolgimento, quando invece
l’artista, nell’ideare l’opera, ha puntato il suo intento creativo direttamente nel luogo pubblico in cui interviene.
2. L’arte rigettata
Molti sono i casi di arte pubblica rigettata e per i più disparati motivi: etici, estetici e pratici.
Il più noto e paradigmatico è il caso dell’opera Tilted Arc
dell’artista Richard Serra: nel 1989 quasi 10 anni dopo l’installazione
la Corte d’appello di New York decide la rimozione dell’opera dalla
Federal Plaza di Manhattan4. Sul caso si era scatenato una dibattito
importante, che aveva coinvolto e diviso l’opinione pubblica. La Federal Plaza rappresenta il centro dell’amm-inistrazione della città: vi
si affacciano alcuni tra i più importanti edifici sedi di tribunali, uffici e
3
Cfr. A. DETHERIDGE, Quali diritti per l’arte contemporanea, in G. AJANI e A. DONATI, I
diritti dell’arte contemporanea, cit., 25 ss.: Cfr. altresì il dibattito italiano documentato nei
volumi: Paesaggio con figura. Arte sfera pubblica e trasformazione sociale, a cura di G.
Scardi, Torino 2011; L’arte pubblica nello spazio urbano, committenti, artisti, fruitori, a cura
di C. Birrozzi e M. Pugliese, Milano 2007; Creazione contemporanea. Arte società e
territorio tra pubblico e privato, a cura di M. De Luca, F. Gennari Santori, B. Pietromarchi,
M. Trimarchi, Roma 2004.
4
Serra v. General Services Administration, 847 F.2d 1045 (2d Cir 1988); Per il punto di
vista dell’artista Richard Serra cfr. R. SERRA, The Tilted Arc Controversy, in Cardozo Arts
and Entertainment Law Journal, 2001, 39. Tra i molti commenti alla sentenza cfr. J.H. MERRYMAN, Law, Ethics and Visual Arts, in Kluwer Law, 2007, 778 ss.; J. BRESLE, Serra v. USA
and its Aftermath: Mandate fot Moral Right in America?, in D. McCLEAN, The Trials of Arts,
London 2007, 195 ss.; M. KWON, One Place after Another, Site Specific Art and Locational
Identity, London Cambridge-Massachusset 2001, 56 ss.; W.J.T. HARRIET, F. SENIE, Tilted Arc
Controversy: Dangerous Precedent?, Minneapolis 2001; G.M. HOROWITZ, Public Art/Public
Space: The Spectacle of the Tilted Arc Controversy, in The Journal of Aesthetics and Art
Criticism, 1996, 54, 1, 113 ss.; B. HOFFMAN, Law for Art’s Sake in yhe Public Realm, in Art
in the Public Shere, 1991, 113 ss.
Misure del diritto per l’arte nei luoghi pubblici
333
banche. Richard Serra aveva ideato un lunghissimo muro di ferro per
installarlo al centro della piazza, come un enorme ostacolo, per intralciare il lineare cammino dei funzionari abituati ad attraversare l’ampio
spazio per recarsi al lavoro. Un paravento volutamente ostile, realizzato in ferro e destinato ad arrugginirsi e a segnarsi con il passare del
tempo – traccia che rappresenta la cifra emblematica di molte sculture
dell’artista.
Ripercorrendo alcuni dei più importanti casi di arte rigettata, si ricorda che nel 1991, sempre a New York, 5 giorni dopo
l’inaugurazione, le statue di John Ahearn5, raffiguranti quattro ragazzi
di colore con skate, con radio sotto braccio e cuffie, in pattini, e che
erano state poste davanti alla Police Station nel Bronx vengono tolte a
seguito della protesta dei cittadini che le avevano percepite come caricature irrispettose e provocatorie dello stereotipo del “nero di Harlem”.
Una diversa motivazione, fondata su ragioni etiche, piuttosto che
estetiche o pratiche, conduce l’amministrazione di Rotterdam, nel
2005, a spostare la statua dell’artista Paul Mc Carty, Santa Claus6,
dalla piazza del teatro municipale e a collocarla in un museo.
Simile il destino dell’opera Arco di Trionfo del collettivo austriaco
Gelitin a Salisburgo7, che viene nascosta da una copertura.
In entrambi i casi si trattava di sculture nelle quali risultavano in
evidenza organi sessuali maschili o perversioni, ma caratterizzanti,
tuttavia, lo stile degli artisti prescelti dal bando e la loro teoricizzazione della contemporaneità.
Diverso, poi, è il caso dell’arte demolita o dismessa per iniziativa
della pubblica amministrazione, generalmente per questioni pratiche:
si pensi alla recente decisione del City Council di Phoenix UK di demolire l’opera “Time Clock Zone” dell’artista Françoise Schein, per
far posto ad un magaschermo televisivo in vista dei giochi olimpici
del 2012. L’opera, che occupa la superficie della Millenium Place della città, è composta da un sistema di led posti nel suolo a disegnare le
linee che riproducono i confini dei diversi fusi orari tracciati sulla terra. L’atmosfera creata da questa illuminazione di colore blu ha reso
5
M. KWON, One Place after Another, Site Specific Art and Locational Identity, cit., 83 ss.
6
E.J.H. SCHRAGE, Art, Society and Law, Introduction, in B. DEMARIN, E.J.H. SCHRAGE,
B. TILLEMANN, A. VERBEKE, Art & Law, Brugge 2008, 29 ss.
7
Ivi, 34.
334
Alessandra Donati
particolarmente attraente la piazza, divenuta punto di ritrovo per giovani. Fortunatamente l’artista si è opposta alla decisione
dell’amministrazione e il giudice, accogliendo la sua richiesta, si è
pronunciato per la conservazione dell’opera8.
Ma non rari sono i casi con diverso esito: recentemente l’opera di
Mustapha Benfodil, installata per la biennale di Dubai, è stata rifiutata
dalla manifestazione e lo stesso direttore della biennale è stato rimosso dall’incarico con l’addebito di aver accettato l’opera9.
Questa breve rassegna dimostra la fragilità degli equilibri sui quali
si regge l’arte nei luoghi pubblici per molteplici cause.
D’altra parte, in certi casi, il tempo ha avvalorato la scelta
dell’amministrazione: a Parigi, dopo un periodo di chiusura per restauro, le colonne di Daniel Buren, poste nella corte del Palais Royal,
sono state riaperte al pubblico che le aveva fortemente criticate al
tempo della loro installazione; oggi i parigini sentono le colonne a righe bianche e nere parte integrante dell’ambiente in cui sono state installate.
Ma il più recente e il più vicino a noi è il caso del seme d’arancia
di Emilio Isgrò. L’artista siciliano dona nel 1998 una grande scultura
bianca raffigurante un seme dell’agrume coltivato nelle terre della sua
città natale. L’opera viene ideata per essere posta al centro della piazza della stazione da qui partivano diretti ai mercati del nord i convogli
carichi di arance. Il cambio di amministrazione e l’approvazione di un
nuovo progetto di riqualificazione della zone ha decretato lo spostamento dell’opera dalla piazza. Il destino della scultura dipende ora
dalla decisione del magistrato, che dovrebbe essere resa per dicembre
2011. In questo caso anche i cittadini sono scesi in piazza a difendere
il loro monumento, cioè il monumento evocativo e celebrativo della
perspicua morfologia del territorio di cui i cittadini stessi sentono di
appartenere.
Da quanto sopra esposto scaturisce una riflessione generale: la tensione che oggi connota il rapporto tra artista, diritto d’autore, opera
8
Una descrizione del progetto è pubblicata sul sito dell’Assocazione inglese
Modusoperandi che ne ha curato la realizzazione Cfr. http://www.modusoperandiart.com/docs/commission.php?id=7:1:56:30:0; Sulla decisione del City Council cfr. altresì
http://www.bbc.co.uk/news/uk-england-coventry-warwickshire-12451798.
9
Cfr. Artinfo consultabile sul sito: http://www.artinfo.com/news/story/37461/censoredalgerian-artist-mustapha-benfodil-on-his-part-in-the-sharjah-biennial-controversy/.
Misure del diritto per l’arte nei luoghi pubblici
335
d’arte pubblica, pubblico, spazio pubblico e committente, impone
l’individuazione di una nuova generale “misura del diritto”, senza necessità, per ora, di una indagine dei meandri tecnici, lacunosi e frammentari delle disposizioni che disciplinano l’arte pubblica.
3. Le nuove categorie dell’arte nei luoghi pubblici: site specific e
arte temporanea
L’artista è tutelato dal diritto d’autore. Il diritto d’autore è unico,
ovunque l’opera sia situata e qualunque sia la destinazione e funzione
dell’opera. Il diritto d’autore non prende in considerazione la diversa
situazione che si ha, se l’opera è scelta dal collezionista e posta in uno
spazio privato, piuttosto che collocata sulla piazza. Dopo il declino del
monumento come celebrativo della vita pubblica o del potere politico,
si afferma la concezione del monumento come celebrazione di un artista – si pensi ad esempio al programma nato nel 1967 negli Usa di
“Art in the Public Places” del National Endowment for the arts
(NEA) che si era dato come obbiettivo quello di consentire al pubblico l’accesso alla migliore arte del nostro tempo fuori della enciclopedica rassegna classificatoria dei musei: le opere da collocare nelle
piazze venivano scelte tra quelle di importanti artisti scultori: esempi
ancor oggi ne sono la grande scultura di Picasso a Chicago o quella di
Calder a Grand Rapids nel Michigan10.
Oggi il modello si è ulteriormente modificato e ha acquistato una
nuova valenza sociale: l’opera d’arte nel luogo pubblico, concepita
come creazione di un oggetto nello spazio urbano diventa oggi creazione di un agire artistico nel luogo pubblico, il quale muta e diviene
“spazio d’interazione”11.
E allora si tratta di verificare se il modello legale organizzato per la
scultura celebrativa sia efficace per il nuovo tipo di intervento artistico
nel luogo pubblico.
Spazio privato e spazio pubblico sono due categorie che il diritto
considera in modo diverso.
L’arte pubblica si colloca al di fuori dei luoghi tradizionali e istituzionalmente preposti ad ospitare le opere d’arte, fuori dal white cube
10
Cfr., M. KWON, One Place after Another, Site Specific Art and Locational Identity, cit.,
6; cfr. L. PERELLI, Public Art, Arte interazione e progetto urbano, Milano 2006, 45.
11
S. LACY, Mapping the Terrein, A new genre of Public Art, Seattle 1995, 30 ss.
336
Alessandra Donati
della galleria ed è un oggetto che il pubblico non “guarda” per scelta,
ma che “incontra”.
Un incontro che in certi casi diventa richiesta di coinvolgimento,
relazione, partecipazione.
D’altra parte, come ricordato poc’anzi, il diritto non ha mai costretto in una definizione rigida l’opera d’arte, limitandosi da sempre a
parlare di soggetto-artista (individuato all’esterno del diritto) e di oggetto-materia-opera.
Il diritto ha creato distinzioni tra le differenti forme d’arte come
l’arte visiva la musica, l’architettura senza imporre definizioni.
Tuttavia l’arte oggi è continua interferenza di tali categorie. È spesso un Ibrido e ciò può creare confusione di identità.
Il diritto d’autore tradizionale riconosce che la proprietà dell’opera
anche nel pubblico rimane necessariamente nella esclusiva disponibilità dell’autore. L’autore è sempre il titolare unico ed esclusivo di questo diritto, il diritto morale.
Pare allora una legittima provocazione quella di chiedersi se una
tale rigidità del diritto d’autore valga ancora oggi, quando l’opera, invece, sollecita spesso la collaborazione del pubblico per completarsi.
Pensiamo a quelle opere che oggi sono poste in spazi pubblici, vie o
piazze, e che necessitano dell’azione dei passanti utenti dello spazio
pubblico per completarsi: oltre all’idea e all’opera dell’artista anche i
contributi del pubblico divengono parti della creazione12.
Ciò diventa ancor più evidente se consideriamo che nell’epoca del
Post-Monument esistono nuove forme all’interno dell’arte pubblica,
che l’hanno completamente modificata e che il diritto non contempla:
il site specific e l’arte temporanea.
Queste opere d’arte hanno caratteristiche giuridiche peculiari in
quanto o sono legate intimamente al luogo nel quale sono poste, inglobando nell’opera il luogo, o hanno carattere temporaneo.
In altre parole oggi il diritto resta sconcertato di fronte alla radicale
inversione delle categorie di spazio e tempo così come proposte
dall’arte classica al diritto anch’esso classico: l’opera in un tempo illimitato e in uno spazio indifferente. Ora invece si propone alla consi12
Cfr., E. HEARTNEY, The dematerialization of Public Art, in Sculptures, marzo-aprile
1993, 44-49; M. DE LUCA, Dal monumento allo spazio delle relazioni: riflessioni intorno al
tema arte e città, in Creazione contemporanea. Arte società e territorio tra pubblico e
privato, cit., 89 ss., in particolare 98.
Misure del diritto per l’arte nei luoghi pubblici
337
derazione: l’opera in uno spazio che rileva, anzi che è con esso in relazione necessaria, e, a volte, per un tempo limitato.
Questa forma di arte contemporanea, ed in particolare il site specific, nasce come strettamente legata al luogo – pubblico – e strettamente legata all’artista, ed è anche legata al pubblico che ne fruisce e che
trova il proprio spazio da essa modificato. E da ciò nasce sovrapposizione e tensione tra pubblico e privato. Tutti i soggetti, l’artista, il
committente pubblico e il pubblico, sono interessati allo stesso luogo
e contitolari di un diritto sull’opera in quel luogo.
L’opera d’arte site specific suscita un’ulteriore riflessione. Se, infatti, anche in questo contesto il diritto d’autore è punto fermo, ci si
deve nuovamente riproporre la questione se di fronte alla nuova funzione che assume l’arte pubblica su impulso delle ricerche di arte contemporanea ed in particolare nella prospettiva dell’opera site specific,
questo diritto “immutato” sia ancora adeguato.
L’artista ha diritto pieno, anche morale, sull’opera. Diritto morale
che comprende il divieto di alterazione dell’opera senza il consenso
dell’artista. Se questo assetto ben si adattava all’opera chiusa nella sua
cornice, o al monumento classico, ciò non vale più per le opere site
specific, siano esse temporanee o permanenti. Si crea, infatti, un rapporto di necessario collegamento fra opera e spazio, tale da far si che
la dislocazione dell’opera in sede diversa ne alteri la natura e leda il
diritto morale dell’autore. La questione del Tilted Arc ricordata come
esempio di arte pubblica rifiutata, ha particolare importanza essendo
la questione sorta prima dell’adozione da parte dell’ordinamento nord
americano del VARA13 esso offre la possibilità di comparare un ambiente “asettico” – agnostico – rispetto alla diversa situazione in cui,
come nel nostro caso, il diritto morale gode di un’assoluta tutela.
La tensione vissuta con il caso del Tilted Arc nella relazione tra il
diritto dell’autore dell’opera ideata per essere installata in un luogo
specifico e il proprietario del luogo, ha segnato a tal punto la realtà
giuridica da far si che la tutela del diritto morale d’autore in Usa oggi
esclude dal proprio ambito l’arte site specific14: le opere site specific
13
Il Visual Artists Rights Act è del 1990.
14
Cfr. Phillips v. Pembroke Real Estate, Inc, 459 F 3d 128, 143 (1st Cir 2006); Da ultimo
Kelley v. Chicago Park District, No 04-C-07715, Distric. Court. ND Illinois, 2008, WL
4449886; Cfr. anche Board of Managers of Soho Interational Arts Condominium v. City of
New York, 2003, WL 21403333, S.D. N Y. 2003.
338
Alessandra Donati
non godono della tutela del diritto d’autore per quanto concerne, in
particolare, la tutela della loro relazione con il luogo per il quale sono
state create15. Nessuna “misura” del diritto qui, solo esclusione.
Il diritto, peraltro, nella sua inadeguatezza, regolamenta due aspetti
della vita di questa arte: il primo, di diritto pubblico, attiene alle regole di impatto urbanistico e alla destinazione di risorse, ponendo
all’artista criteri per la elaborazione dell’opera, il secondo, di diritto
privato, è il diritto d’autore.
Si tratta di due aspetti in contraddizione interna in quanto il primo
pone dei limiti, che chiamiamo di diritto pubblico, il secondo assegna
un potere “assoluto” all’autore, in un contesto che chiamiamo di diritto privato.
4. Sistemi di finanziamento dell’arte pubblica
In generale, e considerando anche legislazioni estere, estendendo
l’analisi non solo alle soluzioni proposte dai principali paesi extra europei, si può affermare che le norme aventi ad oggetto regole di diritto
pubblico sono disorganiche ed occasionali in quanto dettate dalla esigenza di dare risposta a problemi di regolamentazione puntuale, mancando di principi ordinanti relativi a ruolo e responsabilità; mancando,
in altri termini, di un chiaro proposito di bilanciamento degli interessi
in gioco.
Nel perseguimento dell’obbiettivo di dotare i luoghi pubblici di
opere d’arte e al fine di soddisfare anche bisogni reali oltreché materiali, è assai diffusa nelle legislazioni vigenti la previsione che una
percentuale del costo totale di realizzazione di opere pubbliche sia
esplicitamente destinata ad opere artistiche a corredo o ornamento
dell’opera pubblica stessa16.
In Italia, una norma del 1949 ha fissato al 2% del costo dell’opera
la percentuale destinata ad opera d’arte17. Nei paesi che riconoscono
una percentuale all’arte, solitamente viene destinato l’1%18.
15
Cfr. F. HARRIET e F SEINE, The Tilted Arc Controversy: a Dangerous Precedent?,
Minneapolis 2002.
16
H. LYDIATE, Gouvernment polices and the arts. Percentage for art, in
www.artquest.org.uk.
17
L. 717 del 29 luglio 1949 recante le norme per l’arte negli edifici pubblici, così come
modificata con Legge 3 marzo 1960, n.237 e con Legge 8 ottobre 1997, n.352.
Misure del diritto per l’arte nei luoghi pubblici
339
Tali destinazioni sono governate da criteri, che possono essere “Linee guida” generali (in Italia le indicazioni che integrano la Legge del
1949 sono del 200619), o “Guidelines for public art” della grandi città
americane e asiatiche.
Da tali regolamentazioni emerge l’evidenza, innanzitutto, che, anche a livello teorico, viene mantenuta la distinzione tra arte e architettura – poiché l’intervento dell’artista presuppone il progetto
dell’immobile; Si nota, inoltre, che, solo in alcuni ordinamenti, si recepisce in modo pratico – in assenza di parametri generali più di sistema – la distinzione fra arte pubblica temporanea e permanente,
quando si opera la distinzione di destinazione dei fondi fra arte permanente e temporanea.
Queste linee guida, in senso più generale, evidenziano che la definizione della funzione dell’arte pubblica varia sia in relazione al momento di adozione di tali documenti sia in relazione alle condizioni
del luogo in cui queste operano.
Così, ad esempio, la normativa italiana, risalente al 1949, concepisce l’opera d’arte pubblica come “abbellimento di edifici pubblici”,
mentre la più recente normativa francese consiglia “à faire coincider
la durée de l’oeuvre choisie et celle de la construction considerée. Les
oeuvres éphémères apparaissent donc à déconseiller dans un tel dispositif”20.
L’esportazione del modello 1% a paesi a rapido sviluppo economico, poi, provoca casi quasi paradossali di sovraffollamento do opere
d’arte: a Seoul, dove grazie a questa normativa, in pochi anni sono
state installate 6.000 sculture, 1.200 quadri, dozzine di murales, e centinaia di altri manufatti, tanto da richiedere una riforma della legge.
Il sistema nel Nord America è delocalizzato, e affidato a comitati
cittadini, che confermano nelle regulations le loro concezioni dell’arte
e il grado di accettazione dell’arte pubblica. Importante è sottolineare
la diversità di impostazione fra la canadese città di Vancouver, promotrice di una funzione sociale dell’arte pubblica, per un riassetto del
18
Così ad esempio in Francia, in quasi tutte le città dell’America del Nord e del Canada,
in Corea, in Cina etc.
19
Linee guida all’applicazione della Legge, supplemento GU 29 gennaio 2007, S.G. n. 23
14 ss.
20
Circulaire del 16 agosto 2006 Relativa all’applicazione del Décret n. 2002-677 del 29
aprile 2002, modificato con Décret n. 2005-90 del 4 febbraio 2005; in J.O. 30 settembre 2006
Texte 37.
340
Alessandra Donati
tessuto urbano21, e le Guidelines del National Endowment of Arts
(NEA), che impongono all’artista un rispetto del Canon of American
Art, e soprattutto la considerazione del valore della decenza22.
Ora, è vero che esiste una branca del diritto che regola gli interventi in luogo pubblico, si tratta del diritto dell’urbanistica. Questo però
non va nel senso di riconoscere all’opera la sua aura di opera d’arte,
comunque essa sia, ma piuttosto tratta l’oggetto opera d’arte come un
qualsiasi altro immobile, distinguendolo dagli immobili “comuni” sulla base delle dimensioni che l’opera occupa nello spazio urbano e dal
fatto che si voglia qualificare come opera d’arte. E questo è un limite
che potremmo ritenere quantitativo, entro il quale l’artista deve muoversi.
È evidente che la predeterminazione di criteri quantitativi preclude
l’ipotesi di conflitto, se questi vengono rispettati.
Nasce invece conflitto in modo acuto quando si verte nell’ambito
dei parametri estetici ed etici che l’arte non sopporta. O almeno, non
dovrebbe sopportare perché l’arte sfugge da clausole generali quali
“pubblica decenza”, “decoro”, “senso del pudore”.
Questo è un ambito del diritto che predetermina quali devono essere i criteri generali di impatto pubblico dell’opera e che si trova nelle
linee guida ora menzionate
È invece sulla base dei casi giudiziari che dagli anni ’60 in poi si
sono proposti al giudice, che si è articolata una serie di criteri volti a
formulare i principi di base che l’arte pubblica deve rispettare.
Questi parametri vengono individuati ex post sulla base dei risultati
dei singoli conflitti.
Il conflitto che si apre qui segue due percorsi: un per
l’affermazione di criteri di accettazione estetica e un’altro per quelli di
accettazione etica.
L’accumularsi di interventi ex post per la soluzione di conflitti, –
dunque l’accumulo di criteri nelle guide lines – molto diversificati a
seconda delle sensibilità locali, e del coraggio del committente, e che
ha determinato, come detto, l’inserimento di questi criteri fra i parametri di accettazione dell’opera, ha avuto come effetto quello di dise21
Le Guide Lines delle più importanti città Nord Americane e Canadesi, come anche di
alcune città di paesi asiatici sono pubblicati per esteso su internet sul sito ufficiale
dell’amministrazione cittadina.
22
Cfr. A. YOUNG, Judging the Image: Art, Value, Law, London 2005, 22.
Misure del diritto per l’arte nei luoghi pubblici
341
gnare un nuovo regime normativo dell’arte pubblica separato e diverso rispetto all’arte libera nei luoghi ove tradizionalmente l’arte si
esprime.
Ciò non significa che non si siano verificati oggi casi di opere ritirate da mostre o di mostre sospese o vietate ai minori per motivi di
pubblica decenza23.
Si tratta, per ora, tuttavia, di casi limite e comunque sempre incentrati sul problema etico.
Ben diversamente nel caso del’arte pubblica, ove l’impatto estetico
genera tensioni pari a quelle etiche24.
Se volgiamo l’attenzione al contenzioso giudiziario in questo campo, che ci dà la misura della conflittualità, notiamo che le contestazioni si verificano in buona misura quando il committente è pubblico:
non soltanto più l’opera è aperta al pubblico, cioè quanto maggiore è
la fruibilità pubblica, tanto più frequenti sono i conflitti, il che è ovvio, ma più il committente è di natura pubblica, più il cittadino è sensibile all’irritazione e propenso alla severità critica, in quanto aumenta
il senso di proprietà dell’opera; tale sensibilità che volge alla recriminazione finisce per incidere sul gradi di identificazione del fruitore –
tax payer con l’opera.
5. Nuove misure per l’arte nei luoghi pubblici: linee guida di riforma
L’opera d’arte posta in luogo pubblico genera una tensione fra il
diritto d’autore tradizionale e il sistema rappresentato dalle pressioni
della committenza (in relazione al rispetto dei requisiti di bando) e
dall’opinione pubblica (in relazione all’impatto dell’opera).
La soluzione a questa intensa e crescente tensione si trova non tanto in una riformulazione del diritto privato dell’autore che operi nello
spazio pubblico, piuttosto in un concetto, quello di informazione del
pubblico, unito alla responsabilità dell’artista e del committente. È significativo che gli stessi artisti individuino nelle due parole “informa23
Cfr. Finley v. Nartional Endowment for the Arts: 795 F. Supp. 1457 ( C.D.Cal. 1992);
National Endowment for the Arts, et Al. v. Karen Finley, et Al.; Supreme Court of the United
States, 524 U.S. 569, June 25, 1998.
24
Si ricorda come esempio il noto caso di Phoenix, Freeway Squaw Peak Pots, 1980.
342
Alessandra Donati
zione e responsabilità”, la nuova misura del diritto che regolamenta
l’arte pubblica e dunque la via di soluzione dell’impasse.
Scrive Alberto Garutti, artista il cui lavoro è riconosciuto all’estero
anche per il suo modo di concepire intervento nel luogo pubblico: “Le
leggi e i regolamenti con i quali ogni intervento nello spazio urbano si
deve confrontare non sono per me limitazioni o impedimenti (…) i
vincoli ed i limiti mi interessano moltissimo perché contengono delle
sfide, e le costrizioni sono spesso motivo di sperimentazioni ed avanzamenti. (…) Mentre nella città l’artista deve andare verso lo spettatore, nello spazio specializzato dell’arte chiedo allo spettatore di assumersi la responsabilità critica del suo stesso sguardo. L’opera (…)
nello spazio pubblico, si deve necessariamente integrare con il paesaggio sociale e fisico delle città e del territorio così come quello immateriale delle leggi e delle norme che regolano le relazioni tra la politica, le istituzioni e le persone25”.
Vi è un rilevante punto di vista del quale si deve tener conto nella
proposta di nuove misure del diritto per l’arte nei luoghi pubblici:
quello del pubblico. Il pubblico vive l’arte pubblica, che gli si presenta quotidianamente, secondo due diverse modalità: legale e illegale.
La questione della arte illegale e degli attriti che genera non ci interessa qui, anche se, solo restando alla realtà di Milano, è interessante ricordare il caso di Bros, writer accolto in un museo pubblico, e che ha
però anche subito un processo promosso dal Comune di Milano per i
suoi interventi di street art. Le misure del diritto non tengono conto
qui dell’accettazione dell’arte da parte dei cittadini26.
Riguardo all’arte pubblica ufficiale, il pubblico si appropria di
un’opera d’arte spesso in un modo che sfugge all’intenzione del suo
autore e del committente.
In ogni caso il diritto lascia il pubblico o meglio la sensibilità del
pubblico, abbandonato a se stesso. Il che è singolare, se si pensa che
da decenni sia in Europa, sia negli Stati Uniti le norme privilegiano il
diritto del cittadino consumatore ad essere informato, sia per quanto
riguarda le transazioni private, che l’uso di servizi pubblici (trasporti,
sanità), carta dei diritti dei consumatori etc.
25
A. GARUTTI, Arte negli spazi pubblici: la responsabilità dell’artista, in G. AJANI, D.
DONATI, I diritti dell’arte contemporanea, cit., 37 ss.
26
Cfr. A. CHIANALE, Diritto e identità dell’opera d’arte contemporanea, in G. AJANI, A.
DONATI, I diritti dell’arte contemporanea, cit., 57 ss.
Misure del diritto per l’arte nei luoghi pubblici
343
È sul tema del diritto del pubblico ad essere informato che si risolve la tensione tra arte nei luoghi pubblici e pubblico: certo non moltiplicando i parametri, le rigidità e le censure contenute nei criteri di
aggiudicazione dei bandi per l’assegnazione delle opere, o peggio,
elevando tali requisiti a sistema; la decisione case to case produce infatti solo un accumularsi di divieti che nel lungo periodo porterebbero
all’aggiudicazione di lavori allineati su uno standard prevedibile e poco innovativo.
In sostanza, il controllo dell’arte pubblica non può avvenire attraverso un rafforzamento dei limiti di accesso ai bandi, perché ciò porterebbe alla negazione della stessa idea di arte, che non sopporta limiti o
prescrizioni, sia essa privata o posta in un luogo pubblico.
E allora le nuove misure che il diritto deve individuare perché
l’arte pubblica diventi arte nello spazio sociale e perché i cittadini
possano accettare e appropriarsi del nuovo monumento, devono essere
ricercate osservando quelle realtà in questi ultimi anni hanno svolto un
ruolo chiave: sono associazioni di artisti e curatori che operano, partecipando ai bandi o raccogliendo fondi per offrire al pubblico opere
d’arte, principalmente attraverso un lavoro di coinvolgimento e informazione della comunità alla quale l’opera è destinata27.
La nuova misura della disciplina della arte contemporanea nei luoghi pubblici deve essere definita dal ruolo svolto da una Mediatore
culturale-artistico, costituito anche da un organo rappresentativo. Una
riflessione che ne consegue è quella relativa alla scelta del tipo di rappresentatività e coinvolgimento del pubblico così come il necessario
riconoscimento di incentivi alle associazioni che svolgono questa funzione
È a questo livello che deve intervenire una nuova disciplina che indichi le nuove misure nei rapporti tra artista-opera-pubblico e diritto28.
Inoltre il diritto, senza chiuderle entro una serie rigida di definizioni, deve riconoscere le peculiarità dell’arte temporanea, dell’arte site
specific e off-site.
27
Si pensi all’ Associazione Nouveaux Commanditaires francese che ha un
corrispondente nell’italiana Nuovi Committenti; così come all’inglese Modus Operandi Art
Consultant di Vivien Lovell.
28
Cfr. C. CALIANDRO e P.L. SACCO, Italia Reloaded, Ripartire con la cultura, Bologna
2011, in paricolare 106 e 107.
344
Alessandra Donati
È, questa, una proposta di riforma di non poco peso perché interessa i molti aspetti del diritto pubblico sulla gestione del patrimonio,
perché interferisce con l’idea “classica” secondo la quale il bene acquisito dal soggetto pubblico deve permanere nel tempo, essere solido
ed inventariabile.
Categorie queste, come sappiamo ormai alle spalle dell’arte contemporanea.
Passando dal generale al particolare, ma non per questo meno importante, molte altre sono le regole da riformare per riconoscere
all’arte pubblica il suo giusto valore sociale: diventa imprescindibile
infatti una nuova pianificazione e il riconoscimento della responsabilità del committente per un’effettiva destinazione dei fondi al percent
for art, è importante rivedere la composizione delle commissioni di
aggiudicazione dei bandi nelle quali dovrebbe affermarsi un ruolo
centrale agli stessi artisti, importante poi stabilire criteri perché le gare
siano effettivamente pubblicizzate. Occorre che gli artisti siano formati e preparati alla fase di presentazione dei propri progetti; occorre rivedere il testo dei bandi in modo che non si trovino clausole capestro
come quelle che impongono garanzie a copertura del finanziamento a
carico dell’artista.
Queste considerazioni sono proposte nella prospettiva della centralità dell’arte nella vita del cittadino; ed è sulla base di queste considerazioni, e per ristabilire un giusto ruolo nel rapporto fra diritto ed arte,
lasciata troppo spesso sola di fronte agli interventi episodici dei regolamenti, che si propone un documento, intitolato “Manifesto per i diritti dell’arte contemporanea”, nel quale è affermata la utilità di un sistema di relazioni fra tutte le parti coinvolte nel processo di produzione e fruizione dell’arte contemporanea. Quali sono, nell’arte pubblica,
l’artista, il committente il pubblico e, oggi, la nuova figura del mediatore artistico culturale29.
29
Per il testo del manifesto si rinvia a G. AJANI, D. DONATI, I diritti dell’arte contemporanea, cit., 6. Il Manifesto è stato redatto da Gianmaria Ajani e Alessandra Donati insieme a
Anna Detheridge – storica d’arte – Gianni Bolongaro – Collezionista La marrana Arteambientale – e sette artisti: Luca Bertolo, Chiara Camoni, Ettore Favini, Maddalena Fragnito,
Linda Fregni, Alessandro Nassiri, Antonio Rovaldi.
Il carcere e la dis-misura della pena.
Una ricerca sulle locandine cinematografiche
dei prison movies
CLAUDIO SARZOTTI, GUGLIELMO SINISCALCHI1
SOMMARIO: 1. La dis-misura della pena. – 2. Il prison movie e la locandina come fonte di conoscenza della cultura giuridica esterna. – 3. Non definizioni, ma strategie. – 4. La locandina come “icona” della costruzione dell’immaginario sul carcere. Immedesimazioni e
contaminazioni. – 5. Due casi paradigmatici: Forza bruta e La grande prigione. – 6. Il
conflitto tra valori di genere e valori socio-culturali dominanti.
1. La dis-misura della pena
Nella sua teoria generale del diritto Norberto Bobbio indica tra i
criteri di preferibilità della sanzione giuridica quello della misura e
della proporzionalità che essa garantirebbe tra gravità dell’illecito e
gravità della sanzione stessa2. Gli stessi riformatori illuministi auspicavano l’introduzione della pena detentiva perché essa sarebbe stata
capace di graduare esattamente l’afflittività della pena in termini di
tempo sottratto alla libertà dell’individuo3.
1
I paragrafi 1, 2 e 6 sono stati scritti da Claudio Sarzotti, quelli 3, 4 e 5 da Guglielmo Siniscalchi.
2
Come noto, Bobbio considera i caratteri dell’esteriorità e dell’istituzionalizzazione come
quelli distintivi della sanzione giuridica; quest’ultimo carattere consente appunto di garantire,
oltre ai valori della certezza e dell’imparzialità, quello della proporzionalità tra gravità della
violazione commessa ed entità della sanzione (cfr. ID., Teoria generale del diritto, Torino
1993, 128 ss.).
3
È noto come il principio di proporzionalità della pena si sia affermato solamente alla fine del ’700 con le pene astratte e convenzionali, in primis il carcere, che consentivano una
precisa quantificazione della misura afflittiva della pena in termini di tempo o di denaro (cfr.
per tutti, L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari 1990,
395 ss.).
346
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
Nell’immaginario collettivo riguardante il carcere questa misura
della sanzione penale rispetto alla colpa del condannato sembra perdere i suoi nitidi contorni in due direzioni diverse: a) la dis-misura della
colpa del condannato, quando il male prodotto dal crimine appare di
natura tale da essere incommensurabile rispetto alla sofferenza inflitta
alla vittima e alla società4; b) il capovolgimento dei ruoli di vittima/carnefice, quando nella concreta realtà della vita carceraria, crudamente rappresentata nelle opere cinematografiche che vanno sotto il
nome di prison movies, il carnefice diventa vittima egli stesso del sistema carcerario5.
Il percorso di ricerca, di cui si delineano in queste pagine i contenuti generali, muove da una constatazione preliminare: nella filmografia dei prison movie e nell'iconografia pubblicitaria delle locandine ad
essa legata è presente esclusivamente l’aspetto (b), ovvero l'inversione
del rapporto vittima/carnefice sia a livello “diegetico” – nelle strutture
narrative dei film – che a livello “iconico” – nelle rappresentazioni visive prodotte dalle locandine. Di regola, il tema (a) viene affrontato
molto raramente, in quanto lo schema narrativo dei prison movies non
prevede la rappresentazione della vicenda criminale che ha condotto
in carcere, se non quando il reato per il quale il detenuto è stato condannato non sussiste, nella prospettiva di enfatizzare l’ingiustizia della
condanna stessa6. Il recluso, infatti, può essere rappresentato come vittima proprio perché poco o nulla si conosce del reato che ha commesso, né compare nella trama la figura della vittima. È solamente nei
film sulla pena di morte (un sotto-genere molto particolare dei prison
movies) che la questione della misura e della dis-misura tra il male
provocato dal delitto e la sofferenza del condannato viene affrontata in
tutta la sua tragicità e nelle sue implicazioni etiche e giuridiche.
4
È il caso di quei delitti così efferati da non poter trovare una sanzione che ne eguagli la
gravità. Quale pena può essere commensurabile ad eventi, di cui la cronaca ci ha reso impotenti spettatori: una strage di cittadini innocenti come quella recentemente avvenuta in Norvegia, l’omicidio premeditato e crudele di vittime inermi da parte dei c.d. serial killer?
5
Vedremo come sia possibile sostenere che la mera scelta narrativa di rappresentare la vita carceraria, senza ricostruire le vicende che hanno condotto in carcere, delinei in qualche
misura la figura del prigioniero in ogni caso come la vittima di un’ingiustizia.
6
Si pensi a film come Le ali della libertà (1994) in cui il protagonista deve lottare a lungo
per provare la propria innocenza contro la stessa volontà perversa della struttura carceraria
che rende difficile tale lotta, o come In nome del padre (1993), in cui la strategia di repressione del terrorismo irlandese da parte della polizia inglese travolge ogni limite giuridico posto
dal sistema giudiziario a garanzia dell’imputato.
Il carcere e la dis-misura della pena
347
Gli interrogativi da cui ha preso le mosse tale lavoro sono dunque i
seguenti. L’inversione vittima-carnefice proposta dai prison movies
che valore possiede nella costruzione dell’immaginario collettivo sul
carcere? Tale inversione contribuisce a formare una coscienza collettiva “critica” sulla funzione e sul ruolo dell’istituzione penitenziaria?
Oppure, le regole produttive, assecondando desideri ed aspettative del
pubblico, non fanno che costruire un magnifico “gioco” percettivo
dove il carcere è uno dei tanti spazi di evasione organizzati dal cinema
hollywoodiano?
Non è questa la sede dove si possa rispondere in modo esauriente a
queste domande; l’obiettivo del presente lavoro è semplicemente quello di porre le basi teoriche per ricerche empiriche che intendano approfondire questi temi. Per far questo, tuttavia, dobbiamo preliminarmente chiarire gli oggetti della nostra indagine: il genere cinematografico prison movie ed il ruolo che le locandine cinematografiche possono rappresentare nella ricostruzione dell’immaginario collettivo relativo al penitenziario e alla giustizia penale.
2. Il prison movie e la locandina come fonte di conoscenza della
cultura giuridica esterna
Prima di affrontare il tema se sia possibile e in che termini definire
un genere cinematografico denominato prison movies e quindi analizzare le locandine che li presentano al pubblico7, occorre interrogarsi
sulla relazione tra questi due tipi di materiale di ricerca empirica e su
che cosa essi rimandino in termini di referente socio-culturale. Occorre, infatti, premettere che l’impostazione che qui viene adottata rispetto all’oggetto della ricerca è inscrivibile entro l’ambito generale della
sociologia del diritto e non deve quindi confondersi con la prospettiva
estetica della critica cinematografica.
Assumendo una prospettiva socio-giuridica, si può affermare in
primo luogo che film e locandina rappresentano due oggetti di ricerca
diversi, ma profondamente relati. Il film rinvia immediatamente al
7
Occorre ricordare che esistono anche locandine cinematografiche che fanno riferimento
al carcere pur non presentando film che siano definibili prison movies in senso stretto (si veda
infra par. 4). Tale fenomeno non fa che ribadire l’ampio spazio evocato dal penitenziario
nell’immaginario collettivo delle società occidentali.
348
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
“genere”, al filone dei film carcerari che ha visto la produzione di
molti blockbuster più o meno recenti da parte degli studios hollywoodiani. La locandina, ponendosi come “medium” fra la produzione del
film ed il suo pubblico, si rivela uno strumento molto prezioso per capire che tipo di immagine del carcere e del diritto penale sia desiderabile per un pubblico di “consumatori” cinematografici. La locandina
ha una funzione “commerciale” ben precisa: invogliare lo spettatore
ad entrare in sala e pagare il biglietto. Ed uno spettatore risponde positivamente a tale invito soprattutto quando percepisce la possibilità di
godere di un paio d’ore di “evasione”, almeno per quel che riguarda il
cinema hollywoodiano prodotto dalle major.
È questa la ragione per la quale la locandina rappresenta un documento, per certi aspetti, sociologicamente ancora più interessante del
contenuto del film, in quanto attraverso di essa possiamo ricostruire la
strategia di comunicazione del produttore finalizzata, in via principale,
ad attirare il pubblico. Per costruire tale strategia, il produttore deve
cercare di prevedere quanto il pubblico si aspetta sul tema oggetto del
film e deve operare quindi una ricognizione delle aspettative e delle
rappresentazioni sociali che riguardano un universo particolare quale
quello penitenziario. Se questa premessa è vera, l’immediata conseguenza è che studiare le locandine significa accedere ad un immenso
deposito di rappresentazioni, simboli iconici e stereotipi visuali che
fanno riferimento a quello che è stata definita la cultura giuridica
esterna8 limitatamente al tema del penitenziario e della giustizia penale.
Le case di produzione operano, in tal senso, un’attività di ricerca
sulla percezione che il pubblico possiede del mondo carcerario; spesso
non si tratta solamente di una ricostruzione meramente impressionistica, ma di un’attività conoscitiva che si avvale di vere e proprie indagini sociologiche che sondano la reazione degli spettatori rispetto a
determinate scelte narrative. Rick Altman ha opportunamente sottoli8
Riprendo qui la nota distinzione tra cultura giuridica interna, propria dei giuristi, e quella esterna dei soggetti che non si occupano professionalmente di diritto, distinzione elaborata
da Lawrence W. Friedman ed in seguito ampiamente dibattuta nell’ambito della sociologia
del diritto (cfr. per tutti, D. NELKEN (ed.), Comparing Legal Cultures, Dartmouth 1997). Al di
là di ogni possibile critica alla praticabilità empirica e alla stessa possibilità teorica di tale distinzione, la riprendo qui come semplice richiamo al fatto che evidentemente quando parliamo di cinema e diritto il referente empirico è al pubblico indistinto degli spettatori non esperti
di diritto.
Il carcere e la dis-misura della pena
349
neato che, mentre le strategie comunicative di Hollywood nell’era
classica si limitavano a classificare il pubblico secondo le categorie di
genere (quindi uomini, donne e il c.d. tertium quid), “l’approccio più
recente riconosce molte più variabili (non solo età e sesso, ma anche
razza, etnia, classe sociale, attività preferite, collocazione geografica e
livello di reddito) e le segmenta in categorie ancora più piccole”9.
Non solo. Come vedremo, le strategie comunicative delle major
preferiscono costruire il prodotto film non come rappresentante di un
unico genere cinematografico, il che escluderebbe tutto il pubblico
che di quel genere non è appassionato, ma preferiscono seguire
l’ideale romantico della commistione dei generi; di un film si cercano
di presentare tutti i possibili agganci che esso può avere con molteplici generi cinematografici. In tal modo, lo studio delle locandine dei
prison movies consente di riferirsi non solamente all’immaginario collettivo sul penitenziario, ma anche a quello relativo ai temi che vengono correlati con esso, primo tra tutti ovviamente quelli della criminalità e della giustizia penale nella sua più ampia accezione10.
Per altro verso, lo studio delle locandine potrebbe essere affine a
quel filone di studi della c.d. Law and Literature che ha cercato di
comprendere i nessi tra il diritto e i prodotti culturali rappresentati dalle opere letterarie, prodotti che, in particolare nelle loro versioni più
attente ai desideri del pubblico, fanno riferimento appunto alla cultura
popolare11. Anche i c.d. best seller della letteratura di consumo12, infatti, sono diventati un prodotto culturale frutto non solamente della
creatività artistica dello scrittore, ma anche di complesse strategie di
marketing in cui il ruolo dell’editore non è dissimile da quello delle
major hollywoodiane. Ci troviamo quindi di fronte a sofisticate strategie comunicative che, proprio per l’entità economica degli investimenti necessari ad implementarle, richiedono una approfondita conoscenza della cultura popolare al fine di ottenere un’audience sufficien9
R. ALTMAN, Film/Genere, Milano 2004, 192.
È noto l’ampio spazio che i temi della criminalità, del processo penale, dei giudici, degli avvocati hanno assunto nella produzione cinematografica sin dalla sua nascita. Lo stesso
prison movies, secondo molti autori, è nato come sottogenere del genere più ampio delle
gangster story (cfr. per tutti, B. CROWTHER, Captured On Film. The Prison Movie, London
1989).
11
Faccio qui riferimento ad una delle molteplici coniugazioni di tale movimento che è
stata individuata da Gary Minda (cfr. Teorie postmoderne del diritto, Bologna 2001, 274 ss.)
12
Si pensi, per rimanere al tema del diritto, ad un fenomeno letterario come i legal thriller
di autori come John Grisham e Scott Turow.
10
350
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
temente ampia da ripagare il capitale investito. Analizzare tali strategie, quindi, fornisce informazioni rilevanti sia su come la cultura popolare ricostruisce e comprende i fenomeni giuridici (cultura giuridica
esterna), sia su come tale cultura viene percepita dai gruppi sociali
dominanti.
Volendo in questo lavoro presentare solamente dei possibili percorsi di ricerca, delle semplici suggestioni e prospettive d’analisi che
andranno avvalorate con indagini empiriche analitiche ed approfondite, non possiamo addentrarci nell’analisi specifica, ma risulta sin d’ora
evidente anche la valenza diacronica del materiale documentale rappresentato dalle locandine cinematografiche. Lo studio della genesi e
dell’evoluzione del genere prison movies, e dei generi cinematografici
ad esso connessi, potrebbe servire, infatti, anche come supporto alla
ricostruzione dei mutamenti sociali e culturali che hanno interessato la
cultura giuridica esterna su questi temi, adottando un metodo che rispetti l’autonomia relativa del sistema delle produzioni culturali di
massa. Occorre, infatti, sottolineare come la creazione di un genere
cinematografico non sia quasi mai unicamente il frutto della strategia
di uno o più case produttrici, ma sia invece la risultante di una molteplicità di finalità comunicative ed espressive che vedono come coprotagonisti sia la critica cinematografica che gli autori delle pellicole13; tutte queste strategie possono, a loro volta, essere misurate in base alla loro capacità di catturare l’attenzione del pubblico. Ricomporre
tale intreccio di finalità e di percezioni dei fenomeni sociali consente
di ricostruire la matrice culturale di un intero periodo storico.
In tale prospettiva, sarebbe possibile cercare di descrivere
l’evoluzione del genere prison movies in relazione con i mutamenti
sociali ed istituzionali che si sono verificati nel corso del tempo nel
contesto del sistema penale e penitenziario. Si rendono praticabili, in
tal modo, promettenti percorsi di ricerca. A titolo puramente esemplificativo: la svolta securitaria delle politiche c.d. della tolleranza zero e
dello Stato penale che si sono manifestate nel contesto anglosassone a
partire dagli anni ’80 come è stata tradotta nell’ambito della produzione cinematografica e delle strategie comunicative delle major? Quali,
13
Riprendiamo, anche in questo caso, l’acuta analisi di Rick Altman che ha sottolineato la
natura “retrospettiva” del concetto di genere e come esso sia la risultante, spesso coglibile solamente ex post, del complesso intrecciarsi del Gioco del Produttore, del Gioco del Critico e
del Gioco dello Spettatore.
Il carcere e la dis-misura della pena
351
invece, le caratteristiche di tali strategie all’epoca della critica al carcere come istituzione totale, epoca che ebbe il massimo fulgore negli
anni ’60 e ’70 del secolo scorso e che probabilmente ebbe in un film
del 1980 come Brubaker il termine conclusivo?
Ulteriori questioni si porranno per un’analisi più dettagliata della
produzione cinematografica nella prospettiva socio-giuridica. Un primo elemento, che emerge anche da un’analisi sommaria dei prison
movies, è quello relativo alle rilevanti differenze tra produzione delle
major statunitensi e produzione europea. Si apre la possibilità di studiare quali siano state le principali variazioni europee al genere prison
movies e come tali variazioni abbiano rispecchiato una realtà penitenziaria, come noto, alquanto diversa da quella statunitense. E per converso: qual è stata l’influenza della produzione cinematografica americana dei prison movies sulla percezione del problema carcerario in
Europa? In questa prospettiva, le locandine risultano un ulteriore documento di studio che va oltre lo stesso contenuto dei film, in quanto
nella loro preparazione per il pubblico europeo14 possiamo scorgere
come gli americani pensano a tale pubblico e alla realtà sociale e culturale sottostante. E ancora: come si articola la dialettica tra cinema
d’autore e cinema della grandi produzioni hollywodiane? In che misura grandi autori hanno saputo rielaborare le regole del cinema di genere per veicolare i loro messaggi spesso critici verso l’establishment e
il superamento degli stereotipi che innervano la cultura popolare? Vedremo, in conclusione di questo lavoro, come tale domanda possa fornire ulteriori chiavi di lettura alla questione dell’impatto dei prison
movie sulla cultura giuridica esterna del pubblico.
3. Non definizioni, ma strategie
Prima di passare all’analisi delle locandine come “documenti” visivi, occorre chiarire cosa sia un prison movie per comprendere meglio il rapporto che lega il film al messaggio pubblicitario veicolato
dalla locandina.
14
Come noto, le campagne pubblicitarie delle major, offrendo un prodotto che è ormai interamente globalizzato, vengono articolate a seconda del contesto geografico a cui sono rivolte.
352
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
Con una premessa metodologica: piuttosto che tentare di ricostruire
una possibile definizione di un “genere” cinematografico sfuggente e
mutevole (ma si tratta poi di un “genere”?) come il prison-movie, proveremo a comprendere quale sia la strategia produttiva che innerva il
cinema cosiddetto “carcerario”, quali effetti produce sul pubblico, e
che tipo di immaginario sociale tende a costruire.
Anche perché considerare il prison movie come un genere cinematografico implicherebbe rispondere a domande più complesse su cosa
sia un “genere”, non solo cinematografico ma anche letterario; su quali siano gli eventuali tratti costitutivi15 e le progressive metamorfosi
che il prison movie ha attraversato nel dibattito “storico-critico” anglo-europeo; per poi magari rendersi conto che, dietro questa abusata
definizione, si nascondono solo “somiglianze di famiglia” tra prodotti
filmici diversi tra loro e di difficile classificazione16.
Senza dimenticare che ragionare sui prison movie significa misurarsi con le esigenze di un cinema, nella maggior parte dei casi, dichiaratamente commerciale, destinato ad un grande pubblico, sospeso
fra grandi produzioni hollywoodiane e B-movies realizzati per spettatori in cerca soprattutto di sussulti ed emozioni. Ecco perché è più utile ragionare in termini di strategia produttiva: tenere ben presente le
esigenze commerciali di queste produzioni – soprattutto di quelle realizzate dagli studios americani – è determinante per capire come si sia
potuto ritenere “attraente” un set poco invitante come il carcere, con il
suo corollario di personaggi “sgradevoli” come secondini, detenuti,
direttori più o meno “illuminati” o sadici.
In quest’ottica non ha tanto senso interrogarsi su cosa sia un prison
movie quanto chiedersi più semplicemente: perché Hollywood ha con15
L’idea che i “generi” cinematografici siano particolari oggetti costituti da regole suggerisce in prospettiva interessanti “cortocircuiti” teoretici fra teoria del cinema e filosofia del diritto intesa come semiotica del linguaggio normativo. Sul punto sarebbe interessante confrontare l’analisi svolta da un autore come Rick Altman con le riflessioni su regole e “generalizzazioni” proposte da un filosofo del diritto come Frederick Schauer in: Le regole del gioco.
Un’analisi filosofica delle decisioni prese secondo le regole nel diritto e nella vita quotidiana, Bologna 2000; e in Di ogni erba un fascio. Generalizzazioni, profili, stereotipi nel mondo
della giustizia, Bologna 2008.
16
Come suggerisce Rick Altman, quando un filone di film raggiunge un livello tale di codificazione da potersi definire un “genere” inevitabilmente si avvia verso il declino. La cristallizzazione, e la conseguente decodificazione delle regole costitutive del “genere”, implicano anche la fine di una certa esperienza visiva; mentre i film carcerari sono costantemente
riproposti da Hollywood e, nel corso degli anni, hanno dato origine a numerosi sotto-generi e
contaminazioni cinematografiche.
Il carcere e la dis-misura della pena
353
siderato, e continua a considerare, il carcere come set privilegiato per
ambientare film ad alto potenziale commerciale? Quale “alchimia”
trasforma un luogo tradizionalmente “oscuro” e socialmente “invisibile” in uno spazio filmico di indubbio fascino17?
Due le possibili risposte. In primo luogo, come già detto, la messa
in scena di una ingiusta detenzione, che segna quasi tutti i prison movie hollywoodiani, innesca un sottile ma potente meccanismo di immedesimazione empatica fra spettatore e protagonista: il pubblico è
attratto dalla narrazione perché condivide il sentimento di profonda
ingiustizia che attraversa le vicende di un eroe ingiustamente detenuto
e, magari, perseguitato dalle istituzioni carcerarie. E questo immediato
procedimento di immedesimazione rende il prison movie un prodotto
filmico di successo al botteghino.
In secondo luogo, il fascino del set carcerario è garantito anche dalla “contaminazione” con altri “generi” filmici, come il western, il
gangster movie o il comico, solo per citarne alcuni. Così, spesso, il
carcere è solo la “cornice” visiva dove ambientare storie che non mirano a costruire un immaginario collettivo “critico”, ma solo a sfruttare le eventuali potenzialità commerciali di uno spazio “misterioso” e
segreto. Ecco perché, raramente, il meccanismo di immedesimazione
fra pubblico e detenuto trasporta lo spettatore in una dimensione realistica dell’ambiente carcerario; piuttosto lo spazio carcerario diviene
un luogo ad alta tensione emotiva ed a costante rischio di una “rilettura” cinematografica segnata da filtri e semplificazioni narrative.
17
Rispetto al controverso e dibattuto concetto di “genere”, in queste pagine si adotta una
prospettiva teorica “anti-essenzialista”, ovvero, come anticipato, non si cerca di individuare
un nucleo concettuale sematicamente “forte” in grado di spiegarci cosa sia un prison movie
ma si ragiona di strategie produttive e pubblicitarie in relazione alla percezione del prodotto
filmico da parte del pubblico. Per una ricostruzione del dibattito fra teorie “essenzialiste” e
teorie “anti-essenzialiste” nell’ambito dei generi cinematografici e letterari cfr.: R. ALTMAN,
op. cit., specialmente 3-123. Fra gli studiosi più interessanti che, in questi ultimi anni, hanno
proposto un approccio “anti-essenzialista” di chiara ispirazione wittgensteiniana alla teoria
del cinema ricordiamo soprattutto Noël Carroll, Richard Allen e Malcolm Turvey. Per una
collocazione della teoria dei “generi” nella più ampia cornice delle teorie cinematografiche
del secondo Novecento cfr.: F. CASETTI, Teorie del cinema. 1945-1990, Bompiani, Milano
2002. Per un recente approccio “emotivista” e “cognitivista” al “genere” cinematografico che
potrebbe risultare particolarmente fecondo per lo studio dei rapporti strategici fra prodotti e
percezione del pubblico vedi: T. GRODAL, Moving Pictures: A New Theory of Film Genres,
Feelings, and Cognition, New York 1999; e ID., Embodied Visions: Evolution, Emotion, Culture, and Film, New York 2009.
354
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
Sia il processo di immedesimazione che la contaminazione con altri “generi” cinematografici appaiono evidenti dall’analisi
dell’iconografia delle locandine dei prison movies: in questo caso
proprio la finalità squisitamente commerciale delle immagini rappresentate evidenzia con maggiore enfasi i punti focali della strategia
produttiva e comunicativa delle major statunitensi. E tale strategia si
rivela determinante per comprendere che tipo di carcere il cinema ha
rappresentato nell’arco temporale del secolo scorso.
4. La locandina come “icona” della costruzione dell’immaginario
sul carcere. Immedesimazioni e contaminazioni
La ricerca, i cui primi risultati vengono qui presentati, nasce da una
lunga e meticolosa analisi empirica svolta su un fondo di oltre 35.000
esemplari di locandine cinematografiche conservato presso la Mediateca della Regione Puglia che copre un arco temporale compreso fra le
origini del cinema muto e la fine degli anni ’90. In particolare, per la
nostra analisi, abbiamo selezionato ed esaminato nell’archivio non solo tutti i manifesti di film che hanno per tema specificamente il carcere (i cosiddetti prison movies); ma anche le locandine di titoli non
specificamente “carcerari” ma che presentano elementi visivi che rinviano comunque all’immaginario carcerario (si tratta, solo per fare
qualche esempio, di commedie, western, film d’avventura, drammi
sentimentali che “richiamano” il carcere nello sviluppo della narrazione). Anzi, come vedremo, sono soprattutto le locandine di film non
immediatamente riconducibili al filone dei prison movies a rivelarsi
ancora più interessanti per comprendere strategie comunicative e forme di rappresentazione filmica dello spazio carcerario.
Ma procediamo con ordine. Consideriamo innanzitutto il procedimento di immedesimazione fra pubblico e protagonista. Chiediamoci
subito: Quali sono gli elementi narrativi e visivi che assicurano la perfetta riuscita del processo di immedesimazione fra pubblico e schermo? Generalmente possiamo “isolare” tre componenti che ricorrono
in quasi tutti i prison movies hollywoodiani: (i) l’organizzazione dello
Il carcere e la dis-misura della pena
355
spazio; (ii) lo schema narrativo; e (iii) la costruzione del punto di vista18.
Vediamoli analiticamente.
(i) L’organizzazione dello spazio. La localizzazione spaziale del set
rigorosamente “racchiuso” fra le mura di un penitenziario di massima
sicurezza è un elemento costante in ogni prison movie che si rispetti e
si rivela essenziale per “rinchiudere” anche lo sguardo del pubblico in
un set chiuso e claustrofobico dove la tensione aumenta progressivamente, sequenza dopo sequenza. Sia detto per inciso: questo esclude
dal filone dei prison movies in senso stretto quei film che hanno una
parte della trama che si svolge in carcere, ma non hanno come tema
principale la vita detentiva. Anche se, spesso, proprio queste opere cinematografiche si rivelano di particolare interesse ai fini della ricostruzione dell’immaginario collettivo carcerario.
(ii) Lo schema narrativo. Il secondo elemento riguarda lo svolgimento della trama caratterizzato da tempi serrati finalizzati ad un unico evento finale: l’evasione del protagonista o la rivolta dei detenuti.
Questo elemento caratterizza soprattutto il modello hollywodiano,
mentre sembra essere molto meno preponderante nel cinema europeo.
(iii) La costruzione del punto di vista. Il terzo elemento tocca la
prospettiva da cui si osserva la storia: gli eventi raccontati sono filtrati
dagli occhi di un eroe-detenuto, possibilmente innocente, pronto ad
identificarsi con lo sguardo dello spettatore ed a contrapporsi ad altri
personaggi dai tratti solitamente negativi (dai compagni di detenzione
ai secondini fino al direttore del carcere).
I tre elementi sono decisivi per realizzare l’identificazione fra spettatore e protagonista del film creando un’empatia fra aspettative del
pubblico e dinamiche della narrazione. Da un lato si tende ad identificare lo spettatore con un eroe ingiustamente accusato e detenuto, dunque vittima di una grave ingiustizia; dall’altro si coinvolge emotivamente lo spettatore in una struttura narrativa dal gran ritmo costituita
18
Per una ricostruzione storico-filmica dei prison movies nel cinema americano risulta
ancora fondamentale, nonostante una filmografia datata alla fine degli anni ’80: B.
CROWTHER, Captured On Film. The Prison Movie, London 1989. Con una prospettiva orientata prevalentemente ai serial televisivi americani cfr. il più recente: D. WILSON, S.
O’SULLIVAN (eds.), Images of Incarceration: Representations of Prison in Film and Television Drama, Hampshire 2004; e, con un “taglio” decisamente più storico e sociologico, S.
COX, The Big House: Image and Reality of American Prison, New Haven 2009.
356
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
dalla messa in atto di un piano di evasione dal carcere19. Ed è bene
anche ricordare come i processi di immedesimazione empatica fra la
figura concettuale dello spettatore ed i meccanismi di produzione
normativa siano oggi cruciali, in alcune recenti ricerche di filosofia
del diritto, per comprendere nuove forme di soggettività giuridica20.
Questi elementi si riflettono nella locandina di uno dei prison movie hollywoodiani più celebri nella storia del cinema: Fuga da Alcatraz (1978) di Don Siegel. Qui l’identificazione fra spettatore e film
appare subito evidente dalla composizione del disegno della locandina
19
Per l’esposizione degli elementi che permettono l’identificazione fra spettatore e detenuto protagonista del prison movie, con riferimento sopratutto ai serial televisivi americani,
mi permetto di rinviare a: G. SINISCALCHI, Oz: variazioni sul paradigma del prison movie, in
Antigone. Quadrimestrale di critica del sistema penale e penitenziario, I, 1, 2006, 151-156.
20
Sul punto mi permetto di rinviare a: GUGLIELMO SINISCALCHI, Punti di vista.
Dall’osservatore allo spettatore giuridico, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Taranto, III, 2011.
Il carcere e la dis-misura della pena
357
che ritrae l’attore protagonista (Clint Eastwood) intento a rompere il
muro della prigione metaforicamente rappresentato dalla locandina
stessa. Non solo: lo sguardo dell’evaso guarda dritto negli occhi di
ogni possibile spettatore che si fermi a guardare la locandina, quasi
“mimando” il celebre manifesto dello Zio Sam che invitava i giovani
americani ad arruolarsi durante la Prima guerra mondiale. Mentre la
claustrofobia dell’ambiente carcerario è magnificamente resa da uno
sfondo nero che “incornicia” il muro del carcere squarciato dal protagonista. L’eroe fugge dalla prigione ed “entra” nel nostro mondo perché in definitiva è uno di noi e chiunque fra noi si sarebbe comportato
come lui pur di sfuggire ad una ingiusta detenzione21.
Così, la strategia dell’immedesimazione empatica trova piena
espressione nella costruzione visiva della locandina: c’è un uomo comune, ingiustamente detenuto, che tenta di evadere da uno spazio di
segregazione cui non è dato sapere di più e che ci guarda come per invitarci a condividere il suo tragico destino. Probabilmente una foto di
scena non avrebbe avuto la stessa efficacia; invece un disegno così
concepito riesce a trasmettere allo spettatore un messaggio dal forte
valore simbolico e dal sicuro impatto commerciale.
A questo punto resta da capire in che tipo di immaginario filmico
viene “trasportato” lo spettatore attraverso il processo di immedesimazione. Come già detto, il prison movie si è sempre lasciato contaminare da altri “generi” cercando di incontrare i gusti di un pubblico
più sensibile ad altre tematiche che ad una dettagliata e realistica rappresentazione della vita carceraria. Anzi: l’impressione che si ha, soprattutto guardando le locandine, è che le grandi case di produzione
abbiano sempre “drogato” ogni possibile rappresentazione della realtà
penitenziaria inserendo elementi “esotici” (scenari d’avventura, di
guerra, scene di drammi sentimentali, o sequenze erotiche) probabilmente per distogliere l’attenzione del pubblico da un tema ritenuto socialmente appetibile, ma problematico dal punto di vista squisitamente
commerciale e distributivo. Ecco perché, ancora una volta, comprendere la strategia produttiva dei prison movie significa capire il sottile
rapporto che lega istituzioni penitenziarie e meccanismi di rappresentazione cinematografica. Rapporto che trova un felice punto di sintesi
21
La mia analisi riprende le pagine di A. INCAMPO Miserere. Aesthetics of terror, in
Avant. The Journal of the Philosophical-Interdisciplinary Vanguard, 2/2011, 111-118.
358
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
proprio nell’iconografia delle locandine dove esigenze commerciali ed
artistiche si devono necessariamente fondere in un’unica immagine
dal forte valore simbolico.
Passiamo all’analisi delle locandine. La contaminazione del prison
movie con altri “generi” decisamente più famosi ed affermati appare
evidente già dai manifesti di quello che viene considerato come uno
dei primi film carcerari prodotti da Hollywood: Io sono un evaso
(1932) di Mervyn LeRoy che associa l’universo carcerario al mondo
della criminalità organizzata, ed in particolare al fenomeno delle
Chain Gangs americane negli anni ’30. Gli incroci narrativi fra prison
movie e gangster movie appaiono evidenti dalla costruzione visiva
delle locandine: qui un disegno, che ritrae un uomo con la classica divisa da detenuto, funge da “cornice” ad alcune foto di scena che rappresentano inquadrature di sparatorie e conflitti a fuoco fra gangsters e
forze dell’ordine. Il tema carcerario incontra l’immaginario filmico,
allora già popolare, rappresentato da altri capolavori dell’epoca come i
gangster movies Little Ceaser, Scarface e Public Enemy.
In tempi più recenti il cinema carcerario si è incrociato con il filone
dei film di mafia, evoluzione recente dei “classici” gangster movies.
Significativa in tal senso è una locandina di Joe Valachi – I segreti di
Cosa Nostra (1972) che è composta da due immagini: nel riquadro
superiore una scena di tentata evasione dal carcere, nel riquadro inferiore un tipico colloquio fra mafiosi. Anche in questo caso il carcere
non sembra rappresentato come luogo “critico”, ma solo come set
ideale per rendere più intrigante la narrazione filmica.
Un’altra contaminazione che emerge dalla visione dei manifesti riguarda i film carcerari ed il cinema di ambientazione bellica. Basta
osservare la locandina di una pellicola come Furyo (1983) di Nagisa
Oshima, con i volti dei due protagonisti rispettivamente carceriere e
carcerato in primo piano separati da una spada giapponese, per rendersi conto di come questi film privilegino il rapporto custode/custodito rispetto ad altre logiche narrative e descrittive. Così come
il carcere può assumere la forma cinematografica di un lager in film
come lo stesso Furyo o come il celebre Fuga per la vittoria (1981) di
John Houston dove l’immagine della locandina ritrae i protagonisti
della fuga da un campo di concentramento nazista “strizzando”
l’occhio all’iconografia dei super eroi dei fumetti Marvel o DC Comics. Senza dimenticare anche la locandina di un cartoon “carcerario”
Il carcere e la dis-misura della pena
359
come Galline in fuga (2000) che mostra in primo piano due galline
che scappano dal pollaio/lager presente sullo sfondo, mentre in secondo piano appaiono i due aguzzini/carcerieri dalle sembianze umane.
Anche in questi casi la locandina racchiude in una sola immagine
il senso della strategia filmica che anima queste produzioni: puntare
con decisione sulla messa in scena di una fuga rocambolesca organizzata da detenuti/eroi con i quali il pubblico può facilmente immedesimarsi. L’ambientazione carceraria è solo lo sfondo ideale per rendere
le vicende narrate più avvincenti.
Ma il rapporto carcerieri/carcerati contraddistingue anche altri due
frequenti casi di contaminazioni del prison movie: il filone di pellicole
che è tradizionalmente denominato women in prison e quello dove la
fuga del detenuto si trasforma in una rivolta dei carcerati verso le istituzioni carcerarie.
Nel primo filone l’accento delle illustrazioni nelle locandine di film
come La rivolta delle recluse (1955), N.N. Vigilata speciale (1952) o
Rivolta al braccio D (1962) si posa sulle dinamiche intersoggettive fra
le recluse e fra recluse e guardie carcerarie (di sesso maschile e femminile). Le locandine di questi film, fin dagli anni ’50, rivelano come
il corpo femminile divenga centrale nella strategia produttiva: sia le
foto di scena che le illustrazioni sono tutte orientate a mettere in risalto la femminilità delle protagoniste ed il loro desiderio di costituire il
“fuoco centrale” della messa in scena. La scelta di puntare sulla figura
della detenuta, piuttosto che su quella più stereotipata del recluso di
sesso maschile, testimonia la volontà degli studios di rendere ancora
più appetibile il film carcerario: la figura della detenuta permette una
più facile identificazione con il pubblico femminile, tradizionalmente
poco attratto dai prison movies, ed una maggiore “curiosità”, a volte
morbosa, nello spettatore di sesso maschile. Non a caso, la locandina
di N.N. Vigilata speciale contrappone i corpi delle detenute, illustrati
con colori vivi ed accesi, alle figure dei poliziotti e delle guardie carcerarie maschili raffigurate come sagome in chiaroscuro; o, ancora, la
locandina di Rivolta al braccio D mostra i corpi di spalle di tre donne
vestite con tacchi a spillo ed abiti scollati rinchiuse in una cella di detenzione. Siamo all’inizio degli anni ’60 e proprio quest’ultimo manifesto può essere considerato un precursore di quella che potremmo definire una “sotto contaminazione” del filone women in prison tipico
del decennio successivo: il sotto-filone porno o sadico che utilizza il
360
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
corpo incarcerato della donna come oggetto di piacere sessuale in una
perversa commistione tra violenza maschilista e assoggettamento istituzionale del genere femminile.
Parallelamente al filone women in prison, a cavallo fra gli anni ’70
e ’80, il film carcerario sembra “personalizzare” ancor più il conflitto
fra custodi e custoditi attraverso pellicole che raccontano di rivolte ed
ingiustizie mostrando, almeno nelle intenzioni, un “taglio” più critico
verso le istituzioni carcerarie. Tutto questo appare evidente dalle locandine di due film diretti entrambi da Stuart Rosenberg: Brubaker
(1980), interamente costruita sull’espressione del volto del protagonista Robert Redford metaforicamente attraversata da un filo spinato
spezzato, e Nick Mano Fredda (1967) che “celebra” il viso sprezzante
di una star dell’epoca come Paul Newman. Nonostante le annunciate
intenzioni più critiche di questi due film, le locandine presentano le
due pellicole come veri e propri action-movie carcerari rigidamente
costruiti seguendo i tre elementi da noi evidenziati in precedenza.
Infine, un ultimo sguardo lo rivolgiamo ad alcune locandine di film
carcerari girati in Italia. È singolare vedere come anche il cinema italiano abbia rappresentato il carcere utilizzando quasi sempre registri
narrativi più “accomodanti” verso il pubblico. Dalla commedia
all’italiana ampiamente testimoniata da locandine di pellicole come
Due evasi a Sing Sing (1964), Accadde al penitenziario (1955) o, il
più recente, Così è la vita (1998), al melodramma racchiuso nelle tragiche espressioni dei visi di Mario Merola ed Alberto Sordi, protagonisti assoluti delle locandine di due film come Carcerato (1981) e Detenuto in attesa di giudizio (1971), il cinema italiano, almeno fino agli
anni ’80, tradisce la paura di rappresentare l’istituzione carceraria in
maniera realistica e “critica”. Anche il manifesto di un film dai toni
drammatici e dai chiari intenti di “denuncia” dell’istituzione carceraria
come Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy si affida, nella locandina, all’espressione tragicomica di un attore simbolo della commedia all’italiana come, appunto, Alberto Sordi.
Ma v’è di più. Come afferma Rick Altman, infatti, le locandine non
richiamano mai un unico genere di film, “ma quasi sempre evocano
una molteplicità di generi”22, “in modo tale da poter beneficiare
dell’aumentato interesse che questa strategia suscita nei diversi gruppi
22
R. ALTMAN, op. cit., 86.
Il carcere e la dis-misura della pena
361
demografici”23. Anche il filone carcerario non sfugge a questa logica:
alcune locandine, ad esempio, alludono soltanto all’ambientazione
carceraria, per poi cercare di colpire l’immaginario di un pubblico più
vasto – sia maschile che femminile – con l’introduzione di altri elementi visivi che richiamano più “generi” e “sotto-generi” contemporaneamente. “Non raccontar niente riguardo al film, ma assicurati che
tutti possano immaginare qualcosa che li condurrà nella sala cinematografica”: le parole di Altman ben sintetizzano la strategie comunicative di molte locandine di prison movies.
Vediamo due casi paradigmatici.
5. Due casi paradigmatici: Forza bruta e La grande prigione
Le locandine di Forza bruta (1947) di Jules Dassin sono esemplari
da questo punto di vista in quanto rievocano più generi. Il pubblico
femminile è attirato dal petto villoso di Burt Lancaster e dalla locandina che rievoca il genere commedia sentimentale dove una coppia
vestita elegantemente si guarda allo specchio.
Il genere di guerra viene rievocato nella parte in basso a sinistra
delle locandine dove viene rappresentata una rivolta carceraria di tale
violenza da assomigliare ad una scena di una battaglia (vedi anche la
locandina in cui ci sono corpi a terra presumibilmente cadaveri). Il
23
Ivi, 87.
362
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
prison movies è più direttamente evocato con le locandine in cui sono
rappresentate scene di interni carcerari (la mensa con i secondini che
controllano o la cella anche qui con la presenza di custodi e custoditi).
In generale sembra che, attraverso questa strategia comunicativa,
l’ambiente carcerario in senso stretto sia evocato ancora una volta solo
di sfuggita e quindi occorre analizzare le immagini delle locandine
non solo per quello che mostrano, ma per quello che nascondono o celano allo sguardo dello spettatore.
In quest’ottica appare paradigmatica anche l’analisi di una locandina di un film americano degli anni ’50 La grande prigione (1955) di
Abner Biberman: l’immagine del manifesto mostra una sequenza di
“vita domestica” con un uomo ed una donna che conversano seduti ad
un tavolo in una tipica cucina della middle class americana dell’epoca.
Solo lo sguardo inquieto della donna sembra suggerire terribili segreti
o inquietanti rivelazioni; nulla, invece, suggerisce visivamente la presenza del carcere nella trama del film se non la piccola scritta sulla
parte alta della locandina che, nella versione italiana, recita: “Drammatiche rivelazioni sui misteri delle prigioni”.
Così, l’iconografia pubblicitaria mescola elementi del prison movie
all’immaginario dei classici drammi familiari alla moda in quegli anni
– soprattutto nel pubblico femminile – firmati da grandi autori come
Douglas Sirk, William Wellmann o Elia Kazan. Si tratta evidentemente di una pura strategia commerciale della casa di produzione come
Il carcere e la dis-misura della pena
363
suggerito anche da altri due particolari: il nome del regista in piccolo e
il marchio degli studios di produzioni in bella vista “Universal International”, quasi a “siglare” l’idea che siamo davanti ad un prodotto
commerciale e non ad un’opera d’autore. Non solo: anche qui, come
nelle locandine di Forza bruta, il “non visto” dice molto più del visibile. Il carcere è solo annunciato attraverso le parole della didascalia,
è evocato come universo misterioso, e dunque affascinante, per invitare alla visione il grande pubblico statunitense ed europeo: è uno spazio “assente” che libera l’immaginazione dello spettatore allontanando
ogni forma di rappresentazione realistica o “veritiera”. Così, l’assenza
dalla locandina di ogni riferimento visivo alla realtà carceraria si rivela un elemento chiave nella costruzione della strategia pubblicitaria
del film.
6. Il conflitto tra valori di genere e valori socio culturali dominanti
Dopo aver esaminato alcuni aspetti che emergono da un’analisi ancora necessariamente sommaria del materiale iconografico delle locandine, occorre concludere questo lavoro specificando alcune precauzioni che a nostro parere vanno adottate in tale analisi, soprattutto
quando si desideri passare a qualche inferenza relativa ai possibili effetti prodotti dai prison movies sull’evoluzione della cultura giuridica
esterna.
Per far ciò, occorre, a nostro parere, riprendere ancora una volta
l’analisi di Altman al fine di avere ben presente il meccanismo di funzionamento del rapporto tra prodotto cinematografico e fruitore. Il
piacere dello spettatore dei film di genere consiste, infatti, nel poter
sospendere nello spazio temporale dedicato alla visione del film i valori culturali vigenti nel contesto sociale di riferimento; si crea in tal
modo, “un’opposizione crescente tra il piacere di genere e i divieti
culturali che lo limitano”24; le trame dei film sono spesso strutturate
secondo una serie di situazioni nelle quali lo spettatore è chiamato a
scegliere tra alternative che mettono in conflitto le regole sociali con
le regole del genere cinematografico. “Ogni volta che gli spettatori
24
R. ALTMAN, op. cit., 226.
364
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
scelgono il percorso di genere piuttosto che la via della legge provano
piacere in una misura che dipende dalla distanza che separa le aspettative culturali dalla trasgressione di genere (…). Con ogni incrocio di
genere aumenta la distanza fra il livello degli standard sociali e le attività contro-culturali necessarie ad assicurare il piacere di genere. (…)
Man mano che cresce la posta, cresce il piacere dell’attività di genere.
Non stiamo più marinando la scuola; adesso stiamo scegliendo il crimine contro la legge”25. In tale prospettiva, il cinema può essere assimilato ad altri fenomeni culturali (i parchi divertimenti, il carnevale,
gli eventi sportivi etc.) che costruiscono “luoghi speciali che offrono
delle occasioni legittimate per delle attività contro-culturali, sebbene
all’interno di un contesto creato dalla cultura stessa”26. Talora, il piacere della trasgressione viene lasciato allo spettatore nella sua dimensione meramente ludica, viene per così dire neutralizzato in uno spazio politicamente innocuo come può essere quello della visione di un
film, in altri casi i valori culturali vengono rilegittimati nello stesso
ambito cinematografico. Spesso, infatti, nella stessa opera cinematografica la tensione valori di genere/valori culturali dominanti si risolve
in extremis con finali che celebrano il trionfo di questi ultimi (il c.d.
lieto fine).
Se trasponiamo questa prospettiva teorica all’analisi dei prison movies, vediamo immediatamente che essa ci consente di riconsiderare
quell’inversione del ruolo vittima-carnefice che essi sembrano spesso
adottare nelle loro trame. Come detto, l’aspettativa sociale secondo la
quale il carcere dovrebbe essere governato da direttori e operatori penitenziari rispettosi della legge, mossi da spirito umanitario pur avendo a che fare con soggetti criminali, individui violenti che hanno dimostrato con la loro condotta di disprezzare la legge e i propri consimili27, viene spesso contraddetta dalla ricostruzione dell’ambiente
carcerario narrata nei prison movies. Se noi dovessimo analizzare,
25
Ivi, 227.
Ivi, 228.
27
Si tratta evidentemente di un’aspettativa del tutto teorica, in quanto è noto che anche
nella cultura popolare è ormai diffusa la convinzione che il mondo carcerario sia molto diverso da quello previsto dalla legge. Non esistono in Italia ricerche che abbiano analizzato
l’immagine del carcere nella cultura popolare, ma è nota la presenza, alquanto risalente nel
tempo, di detti popolari che pongono in una luce molto negativa sia l’istituzione penitenziaria
che la giustizia penale in generale (cfr. a titolo esemplificativo, in una prospettiva storica, A.
COTTINO, O. GHIGO, Conflitti contadini e giustizia penale nella provincia di Cuneo all’inizio
del secolo, in Notiziario Cuneo, 1992, 113-162).
26
Il carcere e la dis-misura della pena
365
senza filtri critici, la ricostruzione cinematografica dell’ambiente carcerario basandoci su questi film potremmo pensare che gli studi hollywoodiani siano un pericoloso covo di aderenti ai movimenti anarcoinsurrezionalisti28, in quanto molto spesso l’istituzione penitenziaria
viene da essi presentata come un ricettacolo di individui sadici, corrotti, violenti, insensibili alla sofferenza che viene inferto ai reclusi; sofferenza spesso fine a se stessa, priva di ogni valenza redentiva, non
essendo proiettata verso una prospettiva di reinserimento sociale del
condannato. Questo schema narrativo viene ancor più accentuato
quando il protagonista-carcerato viene ingiustamente condannato e lo
spettatore ne conosce l’estraneità rispetto al reato che lo ha condotto
in prigione29. In questo casi lo spettatore viene condotto a riflettere
non solamente sull’ingiustizia del sistema penitenziario, ma anche su
quella della giustizia penale nel suo complesso.
La descrizione del meccanismo della fruizione del film di genere ci
aiuta, peraltro, a ricalibrare gli effetti prevedibili che la visione dei
prison movies sono in grado di produrre rispetto al contenuto della
cultura giuridica esterna nella percezione del carcere e della giustizia
penale.
Per un verso, infatti, è possibile che la prospettiva critica verso
l’istituzione penitenziaria di molti prison movies venga stemperata da
quello che potremmo definire l’“effetto acquario” nella percezione
dell’opera cinematografica; in altri termini, i prison movies non
avrebbero l’obiettivo di coinvolgere pienamente lo spettatore
nell’esperienza della vita detentiva, ma si limiterebbero ad uno sguardo voyeuristico sullo spettacolo della prevaricazione e della violenza
delle relazioni intracarcerarie e la tensione che si crea nello spettatore
nell’assistere ai tentativi del protagonista di sfuggire a questo microcosmo annientante; spettacolo che può essere considerato attraente solamente nella misura in cui lo spettatore possa tenersene a debita distanza emotiva.
Per altro verso, in alcuni prison movies l’happy end riscatta i valori
culturali messi in pericolo dalle regole di genere all’interno dello stes28
Come noto, nel tempo attuale, sono proprio tali movimenti politico-culturali quelli
maggiormente critici nei confronti della stessa esistenza dell’istituzione totale carceraria.
29
In un film come Le ali della libertà (1994) addirittura il corrotto direttore del carcere
nega, facendo uccidere l’unico testimone, la possibilità al detenuto condannato di far riconoscere la propria innocenza per poter nascondere le proprie gravi violazioni della legge e per
potersi avvalere dell’abilità professionale del detenuto nel perpetuare tali violazioni.
366
Claudio Sarzotti, Guglielmo Siniscalchi
so spazio dell’intrattenimento. Il detenuto condannato ingiustamente
riesce a provare pubblicamente la sua innocenza30, i suoi tentativi di
fuga hanno effettivamente successo31, così come, talvolta, i suoi sforzi
per rifarsi una vita32; il direttore “illuminato” trova riconoscimento,
per lo meno morale, nei confronti delle sue istanze di riforma
dell’istituzione penitenziaria33; l’evaso accetta addirittura di tornare
nella comunità carceraria per l’impossibilità di assumersi la condizione di perenne fuggiasco e perché trova la società esterna così poco accogliente, e “falsa” nelle relazioni sociali, da preferire la sincera solidarietà dei compagni di sventura carcerati34.
Tutte queste precisazioni significano forse che la funzione dei prison movies sia inesorabilmente consegnata ad un ruolo di mera rilegittimazione e di conferma degli stereotipi relativi al carcere presenti
nella cultura giuridica esterna? Una conclusione di questo genere appare allo stato attuale della ricerca certamente troppo categorica e comunque potrebbe al più valere solamente per la parte più commerciale
della produzione cinematografica che si occupa del mondo carcerario.
30
Ne In nome del padre (1993) il complotto della polizia inglese nei confronti dei condannati (padre e figlio) viene smascherato e il protagonista viene scarcerato con il pubblico
riconoscimento della sua innocenza.
31
In Fuga da Alcatraz (1978) il regista Don Siegel lascia un dubbio sulla riuscita
dell’evasione rifacendosi, tra l’altro, alla storia vera di Frank Morris e due suoi compagni di
fuga, i quali riuscirono a fuggire dal penitenziario americano, lasciando peraltro nell’opinione
pubblica il dubbio della loro scomparsa nelle acque dell’isola nel tentativo di fuga. La situazione di incertezza rispetto al finale della storia del film è un tipico stratagemma narrativo degli autori per sfuggire alla banalizzazione dell’happy end.
32
Nel film Le ali della libertà (1994) il lieto fine è duplice, nel senso che, per un verso, il
protagonista riesce ad evadere e, per altro verso, anche il co-protagonista sfugge alla presa
dell’istituzione totale quando viene ritenuto, finalmente e dopo un’interminabile serie di anni,
non più socialmente pericoloso e quindi scarcerato. Il finale della trama fa intravedere la possibilità per entrambi di un’esistenza serena e lontana dal terribile passato concentrazionario.
33
Il riferimento è qui alla trama di Brubaker (1980) al termine della quale il protagonista
è costretto ad abbandonare il ruolo di direttore e il suo tentativo di cambiare l’istituzione
dall’interno; tuttavia, nell’ultima scena del film la sua figura assume i contorni dell’eroe sconfitto, ma non rassegnato, con l’applauso unanime dei detenuti che assistono con deferenza alla
sua uscita di scena.
34
In Così è la vita (1998), quando uno dei tre protagonisti si trova improvvisamente “liberato” dallo stesso ruolo di evaso e di sequestratore, in quanto il mondo lo crede morto in un
incidente d’auto, decide di far ritorno in carcere, in quanto prova nostalgia dell’amicizia autentica dei compagni di detenzione in contrapposizione all’ipocrisia delle relazioni sociali che
si manifesta nel tradimento subito dagli altri due co-protagonisti, anch’essi creduti morti
(l’uno vede il tradimento della moglie nelle braccia dell’amico poliziotto; l’altro quello dei
parenti che immediatamente riaffittano la sua stanza e gettano nella spazzatura i suoi oggetti
più cari).
Il carcere e la dis-misura della pena
367
Occorre, infatti, non trascurare, quando si desideri prendere in esame
in modo complessivo tale produzione, la presenza di veri e propri film
denuncia che ricostruiscono con maggior fedeltà al reale lo “scandalo”
dell’universo penitenziario. Penso, tanto per rimanere alla produzione
cinematografica più recente, ad un’opera come Il profeta (2009) di
Jacques Audiard, nella quale la diabolica capacità del carcere di svolgere la funzione di “scuola del crimine” nei confronti di giovani reclusi alla prima esperienza detentiva viene raccontata con grande realismo, nella fedele ricostruzione della tragicità di una condizione che
conduce alcuni di essi, pressoché inesorabilmente, nelle fauci della
criminalità organizzata. In mancanza di indagini ad hoc, non è facile
prevedere quali effetti possa produrre nel pubblico la visione di opere
cinematografiche di questo tipo. Certamente non si può escludere che
esse possano dare un contributo culturale di entità non trascurabile ad
un ripensamento critico dell’istituzione penitenziaria nelle forme da
essa assunte in questo primo scorcio di XXI secolo.
PARTE QUARTA
Qualche altro spunto…
Ius est iungere et decidere
VITTORIO CAPUZZA
SOMMARIO: 1. Il diritto unisce. – 2. Diritto e società come ordine e proporzione. – 3. La congiunzione del diritto nella sua simmetria. – 4. Il diritto come “sanzione”: applicazione della simmetria ed espressione della coesistenza. – 5. La scelta del legislatore e del giudice:
l’incisione nel mondo e la “scomposizione” della lite. – 6. La letteratura nella scelta giuridica.
1. Il diritto unisce
In un articolo in risposta a Giacomo Devoto1 e pubblicato nel
19492, Francesco Carnelutti ribadiva la propria convinzione che la parola ius per la sua parentela con iungere “esprime l’idea di un congiungimento. Il tedesco Recht, sotto questo aspetto, non è meno
espressivo poiché (…) richiama l’idea della linea (retta) e la linea
congiunge due punti. Qui sarebbe opportuno aggiungere che la linea, a
sua volta, è il simbolo dell’unità. (…) S’intende che quanto è detto per
il tedesco Recht, vale per l’italiano diritto”3.
D’altra parte, anche il termine lex suona armonicamente con la voce verbale legere: per dirla con il Carnelutti, lex legit. Legere est colligere, afferma il Forcellini: leggere è riunire. “Anche l’italiano leggere,
nel significato letterale, si risolve nel legare (…). Ora i giuristi accentuano anche troppo, al punto di convertire in identità, la contiguità delle due parole: ius e lex; e non (…) parrebbe dunque singolare che se
1
CARNELUTTI aveva scritto l’articolo dal titolo Di là dal diritto, in Rivista italiana per le
scienze giuridiche, 1947, 106; le osservazioni in risposta da parte del Devoto apparvero
nell’articolo Ius, Di là dalla grammatica, ivi, 1949, 414.
2
Ius iungit, in Rivista di diritto processuale, 2/1949, 3 ss.
3
Ivi, 5 e 6.
372
Vittorio Capuzza
legere e lex hanno in sé l’idea dello iungere, non debba averla anche
ius”4.
In ultimo, anche l’idea contenuta nella parola modo, nel significato
di misura, si risolve nella stessa valenza di congiungimento: la misura
immediatamente reca con sé il senso del taglio, della limitazione anziché quello dell’unione; eppure, osserva ancora il Carnelutti basandosi
ancora sul Lexicon del Forcellini, uno dei significati di modus è di fine, termine quem excedere minime licet, “e il confine (…) insieme distingue e congiunge”.
2. Diritto e società come ordine e proporzione
È noto che dal pensiero giuridico romano discende l’epigrafe Ciceroniana Ubi societas ibi ius, ubi ius ibi societas, che sta a significare la
strettissima relazione fra l’organizzazione del “gruppo” e il diritto, tale
da identificare, in un certo qual modo, i due aspetti.
Il diritto aspira alla pienezza della convivenza sociale, non nel senso convenzionale e spesso troppo inflazionato, ma nel senso più classico: homo sum et humani nihil a me alienum puto, cioè sono un uomo
e, di conseguenza, sono obbligato a tutti i doveri dell’umanità5.
Ma sul concetto di “società” occorre formulare alcune precisazioni.
Il giurista Francesco Carrara, professore di Diritto criminale
nell’Università di Pisa, nella Prolusione al corso di diritto e procedura
penale, pronunciata il 15 novembre 1879, rifletteva sul fatto che: “la
parola società esprime due configurazioni sostanzialmente diverse.
Esprime la mera consociazione, fondata sul principio della completa
uguaglianza, cioè una convivenza continua di un numero indefinito di
individui che associano le singole loro attività per un fine di mutuo
godimento e di soccorso reciproco. (…) Ben diverso però è l’altro
concetto che esprime la parola società; questo sì che è caratteristico ed
essenziale alla specie umana. Questa società che si specializza col
predicato di civile si costituisce di una autorità sovrastante a tutti i
consociati, e di leggi che la mantengano nell’ordine consentaneo ai bisogni ed al meglio di tutti i consociati; e della subiezione dei consocia4
Ivi, 7.
Fonte in Terenzio, Cicerone e Sant’Agostino nell’Epistola 155. Su questo tenore, si veda
anche l’incipit del Dialogo di Plotino e di Porfirio nelle Operette morali di Giacomo
Leopardi, in cui l’amicizia è celebrata nel sospiro che sostiene la vita.
5
Ius est iungere et decidere
373
ti a quella autorità ed a quelle leggi. (…) Se dunque lo stato di società
civile è realmente una condizione tutta propria della umanità ed alla
quale nessun bruto partecipò o potrà mai partecipare, si corra su questa linea, e si cerchi il concetto primitivo. Si cerchi cioè la cagione
primaria per la quale l’uomo è destinato a non appagarsi di una semplice consociazione fraterna, ma a vivere in una società civile, subordinato ad una autorità ed a leggi che entro certi confini dirigano
l’esercizio della sua libera attività. Ora questa ragione primaria a me
sembra facilissimo a riconoscersi quando si fermi il pensiero sopra la
qualità che esclusivamente da ogni altra specie appartiene all’uomo; la
qualità cioè di essere forniti di diritti, e della coscienza dei diritti che
possiede. Questa qualità specialissima conduce a quattro postulati: che
l’uomo è fornito di diritti; che questi diritti hanno per necessario contenuto la propria difesa; che la difesa del diritto individuale non può
sperarsi da un individuo che viva nello stato di isolamento; né da un
numero di individui che vivano in una consociazione fraterna fondata
sul principio della perfetta uguaglianza; che in conseguenza è una necessità della natura umana la società civile per il solo fine che il diritto
svolga effettivamente il contenuto della propria difesa”6.
Con la scoperta del diritto il “gruppo” diviene allora società e la
norma giuridica giungerà a dare concretezza all’idea di una certa misura, che congiunga e al contempo tenga a giusta distanza gli uomini e
le loro reciproche azioni. In piena armonia con l’idea di convivenza e
di ordine sta la definizione di diritto (e quindi di società) che compare
nella Monarchia (II, v) di Dante Alighieri: Ius est realis et personalis
hominis ad hominem proportio, quae servata hominum servat societatem, et corrupta corrumpit.
Alcune considerazioni utili si possono rintracciare da questa ricchissima definizione dantesca:
− riaffermazione dello stretto legame fra diritto e società;
− il diritto come “custode” dello Stato: la conservazione o la
corruzione della società dipende dal mantenimento e dal rispetto dello
ius;
− il diritto a sua volta assume la natura di proportio, cioè di
proporzione, equilibrio, uguaglianza. Questa natura affonda la sua
tradizione sin dagli albori della speculazione del pensiero nel mondo
6
F. CARRARA, Genesi antropologica del diritto criminale e penale, in Reminiscenze di
cattedra e foro, Parte prima Discorsi ed articoli, Bologna 2007, 31 ss.
374
Vittorio Capuzza
greco per passare ereditariamente al mondo latino e giungere,
attraverso le rielaborazioni delle Scuole di diritto basso medievali,
come capisaldi per le riflessioni dal Settecento in poi;
− questa idea di proporzione affonda le sue radici nelle
formulazioni degli studi aristotelici e tomistici,7 dunque vi si trova
innanzitutto la speculazione secolare che ha segnato il cammino di
civiltà;
− proporzione significa anche aequitas, che ha la stessa radice di
aequalitas. Tutta la storia del diritto si muoverà lungo le direttrici di
una perfetta dualità, che segnerà la vita giuridica come composizione
di due poli del circuito vivificante: il rigore della legge scritta e il suo
adattamento nei singoli casi concreti;
− l’aequitas8, nata nel diritto romano, dopo una gestazione
millenaria del concetto medesimo greco di epicheia, e utilizzata dal
praetor peregrinus nei procedimenti per formulas con lo scopo di
creare nuovi istituti giuridici che la prassi, soprattutto commerciale,
aveva necessità di vedere, nei secoli futuri rappresentò addirittura tutto
il diritto civile (ius civile). Anche questo concetto è di Cicerone, il
quale scrive: Aequitas costituta (cioè la legge elaborata dal
Legislatore) iis qui eiusdem civitatis sunt9; torna così l’identificazione
fra diritto e società. Va aggiunto però che quest’identificazione è
operata dall’equità, quindi dalla proporzione: la formula di Dante ci è
così utilissima per attraversare i secoli e giungere al nostro attuale
sistema, non lontano per questi aspetti dal mondo classico nel quale
esso affonda le sue radici più vere.
La proporzione, l’equità, l’uguaglianza sono concetti riassunti nel
termine di norma, che in latino, si sa, rappresentava la livella, lo strumento necessario per verificare con la constatazione empirica che non
vi fossero incrinature del piano su cui erigere la costruzione. Elaborando il concetto ed elevandolo a sistema, accadde che la norma giuri7
Cfr. ARISTOTELE, Ethica Nichomachea, V, 33, 1129 b, 25 ss.; TOMMASO D’AQUINO,
Summa totius theologiae secundae secundae partis volumen secundum, Lugduni, 1701, qu.
LVII, art. I, 16; qu. LVIII, art. II, 180; qu. LVIII, art. VIII, 197. Cfr. sull’intero argomento, P.
FEDELE, Dante e il diritto canonico, in Ephemerides Iuris Canonici, a. XXI (1965) – Num. 34.
8
Sull’argomento cfr: E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, vol. II, Roma 1995, 99
ss.; E. CORTESE, La norma giuridica, voll. I e II, Milano 1964; E. WOHLHAUPTER, Aequitas
canonica. Eine Studie aus dem Kanonischen Recht, Paderborn, 1931; V. CAPUZZA, Aequitas
canonica medievale, in Apollinaris 03/LXXVI/1-2, Città del Vaticano 2003, 423 ss.
9
CICERONE, Topica, 2.9.
Ius est iungere et decidere
375
dica significò equità e l’equità finì nel sistema del diritto comune a
identificare tutto il diritto civile.
3. La congiunzione del diritto nella sua simmetria
“Non si sarebbe mai potuto parlare di diritto, se non esistesse il torto”, infatti l’ingiustizia è “il concetto originario e positivo; il suo contrario, il diritto (…) non è che un concetto derivato e negativo”; così
scriveva il filosofo esistenzialista A. Schopenhauer10.
Lungo tale linea di pensiero, G. Radbruch riconosceva che:
“l’ingiustizia è più antica del diritto così come l’offesa lo è rispetto alla difesa”11.
Credo che sia fuorviante leggere il torto e il diritto come mera manifestazione empirica; di contro, affermerei che il diritto nel tempo
manifesta all’interno delle norme giuridiche i pensieri metafisici che
sorreggono la visione ontologica della vita in quel dato momento:
queste idee sono nella storia sempre il risultato di due poli vivificanti
la vita stessa, anche quella del diritto. Così, per supremas causas, la
giustizia è momento della volontà, quindi polo soggettivo – virtù, appunto – mentre l’equità è il momento oggettivo della norma, ciò che è
manifestazione del diritto. Pertanto, anche il torto è uno dei due poli
che sostanzia proprio il diritto e da cui questo desume il proprio metodo. In altri termini, il diritto è la positività di una rovesciata simmetria
e nasce appunto dall’ingiustizia, sempre in agguato per l’umana debolezza che nessuno può certo negare: ex humo homo, insegnano i latini
classici.
“Il settore del diritto” – scriveva Carnelutti – “(…) è come un disegno in chiaroscuro. In luce è il diritto di proprietà; ma la sua figura
si staglia sull’ombra del furto; e solo la somma algebrica dei sacrifici e
delle rivolte dei non domini di fronte al dominus esprime, dal lato del
rendimento, il suo valore”12.
Il diritto è allora espressione bivalente: Seneca (Consol. 36), insegnava che non sentire mala sua non est hominis, et non ferre, non viri,
10
Il Mondo come volontà e rappresentazione, Milano 1969, 380.
Juristen – bose Christen, in Die Argonauten – eine Monatszeitschrift, 9, 1916, 128. Cfr.
il bel testo di H. HOFMANN, Introduzione alla filosofia del diritto e della politica, Bari 2006,
78 e 79.
12
F. CARNELUTTI, Metodologia del diritto, Padova 1939, 50 e 51.
11
376
Vittorio Capuzza
non essere sensibile ai propri mali non è dell’uomo, mentre il non saperli sopportare non è dell’uomo forte; il diritto, da un lato, è espressione di quella sensibilità e, d’altra parte, è vero mezzo per sopportare.
4. Il diritto come “sanzione”: applicazione della simmetria ed
espressione della coesistenza
È noto che sanctio per i romani indica “impronta”, “timbratura” di
un fatto, atto, evento; “sancire” in italiano indica “prevedere”, e dunque si può sostenere che la distinzione concettuale, asserita nello studio della norma giuridica, tra i due elementi precetto e sanzione, sia
artificiale perché la norma “giuridica” in se è “sanzione”, la quale letteralmente, etimologicamente, significa appunto “precetto”. La norma
giuridica a differenza di ogni norma “non giuridica” è un imperativo
categorico connotato dalla previsione di un comando (precetto) e da
una rispettiva pena per la sua violazione (sanzione); concludendo: precetto e sanzione coincidono, in ciò sta l’“unitarietà” della norma giuridica. L’essenza dell’ordinamento giuridico è la coercitività, che si
esprime nella sanzione, la quale equivale a precetto e l’uno non può
sussistere senza l’altra. Tale rilevante premessa consente di negare che
l’ordinamento giuridico possa risolversi in petizioni di principio, in
mere regole di costume; ciò accadrebbe se non esistesse la sanzione
che lo caratterizza: la sanzione è l’espressione del dinamismo del diritto.
La sanzione giuridicamente si risolve nella più ampia accezione di
riconoscimento di un’azione (o di un’omissione, lì ove sussista il dovere giuridico di agire), “come coesistenziale, nella prospettiva globale di una coesistenzialità che non è un mero dato naturalistico, ma un
co-appartenersi come soggetti liberi e simmetrici; una coesistenzialità
che è un sistema dinamico (perché necessariamente soggetto alla legge
della temporalità) di equilibri, nel quale ogni soggettività garantisce se
stessa attraverso la garanzia che fornisce all’agire di ogni altro. Sanzionare un’azione significa riconoscerla produttiva di effetti (…), significa allora riconoscerla valida sul piano del diritto, produttiva cioè
di effetti in quell’ambito particolar della coesistenza che è l’ambito
della giuridicità”13.
13
F. D’AGOSTINO, La sanzione nell’esperienza giuridica, Torino 1999, 19.
Ius est iungere et decidere
377
Da tali riflessioni intorno al significato della sanzione, a livello di
paradigma logico torna la riflessione intorno al diritto come congiungimento, contenimento e proporzione che tramite esso si intende garantire: ius iungit. Dunque, la sanzione afferma in linea di principio e
conferma in linea di fatto l’ordinamento giuridico, che a sua volta è
l’espressione della proporzione nei rapporti umani, della stare insieme,
socialmente. L’ordinamento giuridico è, da un punto di vista umano,
lo strumento per attuare quanto l’alfabeto della natura ha posto con la
coesistenza; esso è la forma che, delimitando il contenuto dell’agire
umano, lo garantisce e assicura: lo garantisce perché la fattispecie
astratta delle norme indica un fare o un non-fare nell’interesse generale; lo assicura mediante la correzione dei comportamenti che hanno
deviato dalla simmetria tracciata dalla norma e che hanno intaccato
nel particolare la proporzione. La proporzione stessa, già come concetto matematico, non si esaurisce nell’aspetto quantitativo, ma trova la
sua origine concettuale e veritiera nella valenza qualitativa, che è un
paradigma mediante il quale ciò che è un minus è assimilabile a ciò
che si presenta come maius.
Così, la violazione particolare di un precetto, si risolve inevitabilmente come un riverbero, un’eco su tutto l’ordinamento giuridico.
Sicché, “La sanzione interviene a correggere la dissimetria, a ricostruire l’ordine violato”14.
La sanzione è uno dei due poli vivificanti la natura stessa del diritto; in altri termini, il diritto dispiega due primarie categorie di “effetti
giuridici” e uno di essi è la sanzione intesa come risposta alla violazione del precetto, finalizzata a mantenere l’ordinamento intatto, anche nelle manifestazioni particolari. L’altra speculare categoria, riconoscibile per “chiaroscuro”, contiene gli effetti giuridici positivi del
diritto. Infatti, la dialettica giuridica si risolve schematicamente in una
simmetria: un’azione umana o è rilevante per il diritto o non lo è; se lo
fosse, allora quel comportamento dispiegherebbe i suoi effetti giuridici, o nel senso positivo e nel senso negativo. Gli effetti positivi si hanno quando la singola e concreta azione ha determinato una realtà giuridica, sostanziale o processuale (si pensi, ad esempio, al perfezionamento di un negozio giuridico, ovvero ad un’azione processuale, ecc.);
14
Ivi, 21. Cfr. sul tema anche F. D’AGOSTINO, L’anima del reo. Note in margine alla
teoria hegeliana del diritto penale, in Riv. it. fil. dir., 60/1983, 150 ss. (ora in La sanzione,
cit., 129 ss.).
378
Vittorio Capuzza
se, invece, non viene rispettato a monte un precetto, ovvero nella realtà giuridica venuta in essere per effetto del rispetto di un paradigma
precettizio primario, venisse posto in essere un atto (materiale o giuridico) in violazione di norme che ne regolano la corretta sussistenza,
allora la sanzione sarà intesa nella sua definizione negativa: di punizione nel primo caso (sempre rivolta a ristabilire l’ordine sociale e, nel
caso penale, soprattutto la rieducazione e l’inserimento del reo), o,
nella seconda ipotesi, di invalidità (o irregolarità, o inammissibilità, o
inefficacia, ecc.) dell’atto.
5. La scelta del legislatore e del giudice: l’incisione nel mondo e la
“scomposizione” della lite
Ogni condotta umana compiuta in un contesto sociale presuppone
una regola, altrimenti, a monte, non sarebbe chiaro nemmeno l'obiettivo per il quale attuare quella condotta. Insegnava, infatti, Blaise Pascal: “quelli che giudicano di un'opera senza una regola sono, in confronto agli altri, come quelli che non hanno un orologio, in confronto a
quelli che l’hanno”15.
Come scegliere quelle regole è questione assai più complessa rispetto alla sua attuazione: scegliere di seguire o meno una regola non
ne inficia, infatti, né il significato né l’autorità; tutto risiede nella scelta ab ovo di fissare una determinata prescrizione, il che presuppone un
obiettivo, pre-visto. Scegliere un effetto anziché un altro è decisivo ai
fini dell’individuazione della regola con cui attuare quella “legge”.
Come e perché individuare una regola postula necessariamente un
giudizio, elaborato a sua volta alla luce di esperienze, comparazioni,
equilibri prudenti, fede, credenza, ecc. Tali giudizi si formano sul
campo del cd. “valore” e contribuiscono a rafforzare o modificare
l’etica stessa, matrice del valore.
Come ogni frutto di scelta, anche e soprattutto il contenuto di ogni
norma giuridica è un fatto valutato secondo una misura, “il mondo
delle norme non contiene nudi fatti”16.
15
Pensieri, n. 25, trad. it. A. Bausola e R. Tapella, Milano 2009, 41.
Per la citazione e sul concetto della misura, si veda F. CORDERO, Gli Osservanti.
Fenomenologia delle norme, Torino 2008, 138.
16
Ius est iungere et decidere
379
La norma, inoltre, racchiude sia a monte nella formazione delle
leggi (che sono il risultato depositatosi in fondo all’alambicco ove si
scontrano gli elementi chimici – come ripeteva spesso Piero Calamandrei), sia a valle quando il giudice emette una sentenza, il risultato di
una scelta, quindi il taglio dal mondo di qualcosa che interessi alla logica giuridica.
E ciò che interessa al diritto finisce per avere effetti giuridici, che
non si vedono nella realtà empirica, ma che comunque esistono nel
mondo in quanto esistono per la grammatica del diritto.
Ma, come obiettava Croce nel Saggio sullo Hegel, nella norma razionalmente formata non si possono ridurre tutti i sentimenti: trattando
l’arte come forme imperfetta di filosofia si confondono gli opposti con
i distinti; infatti, non deve sfuggire che “il vero non sta al falso nel
rapporto stesso in cui sta al buono”.
La norma giuridica vuole limitare nella forma più equa i sentimenti
in idee, pur sapendo che lo spirito allontana le classificazioni e rimane
qualitativamente al di sopra, cioè indirizzando, orientando verso una
ragion d’essere.
In ogni modo, la norma giuridica rimane come una scelta (del legislatore) e un’applicazione (del giudice).
Riguardo al legislatore, scrive Franco Cordero: “(…) Il comando è
discorso introspettivo: l’autore sente qualcosa e lo dichiara; (…) il
timbro va perso dove l’enunciato sia visibilmente falso (…). Lo sviluppo morale raffredda le viscere, testa, eloquio. I raptus imperativi
svaniscono sotto qualificatori impersonali: ‘N deve x’ ossia ogni condotta diversa da x cadrebbe sotto un segno negativo; questa frase condensa l’universo deontico. I sistemi evoluti valutano solo avvenimenti
umani; e la premessa è: risponde dei suoi atti chiunque percepisca lo
stimolo normativo”17. Questa riflessione, inevitabilmente ci ricollega a
quanto s’è potuto constatare a proposito della sanzione. Conclude
sempre Cordero: Bonum faciendum, malum vitandum, è formula incompleta, equivale a: “alcuni atti devono essere compiuti, altri omessi”; diventa norma appena sostituiamo le variabili immettendo termini
descrittivi quali “adulterio”, “furto”, “idolatria” ecc.18.
Passando dal piano dell’elaborazione a quello che vive nelle stanze
d’udienza, verità processuale è termini sul quale bisogna soffermarsi.
17
18
F. CORDERO, Fiabe d’entropia. L’uomo, Dio, il diavolo, Milano 2005, 538-539.
Ivi, 564.
380
Vittorio Capuzza
La forza del diritto si manifesta, infatti, nella sua capacità di rendere concreta “una giustizia” nel singolo caso in cui v’è una “controversia da comporre”. Dunque, è nelle aule giudiziarie che il gius-dicente
“sanziona”, cioè afferma il diritto. E lo fa “componendo” una lite fra
privati (nella giurisdizione ordinaria civile); fra cittadini e consociati
(nella giurisdizione ordinaria penale); fra privato e Pubblica Amministrazione (nella giurisdizione del giudice amministrativo).
Il “componimento” avviene mediante una “decisione”: decidere
“Est amputo, abscindo; et de iis (…) dicitur quae, si abscindantur,
deorsum cadunt”19, togliere qualcosa che eccede, “Ogni soperchianza
di peso, numero e misura”20.
Decidere significa amputare: ma cosa? Una delle due tesi contrapposte nel processo. La “composizione”, invero, è una “scomposizione” della lite, avvenuta mediante il riconoscimento del giudice a favore di una parte di ciò che si definisce “il vero” del diritto.
Dunque, soprattutto nella scelta espressa in un provvedimento giurisdizionale che affermerà la verità processuale si manifesta la più fiera delle verità di tutto il sistema hegeliano, e cioè “che il pensiero proceda con un va vieni di analisi e di sintesi, di distinzione e di unificazione, è la sua verità, e perché no? La sua grandezza”21.
Per tornare al quadro interpretativo avviato dal Carnelutti, si può
forse e ulteriormente sperimentare come nell’idea del congiungimento
risieda anche il momento della misura intesa come taglio, come amputazione: ius est decidere, vel abscindere.
6. La letteratura nella scelta giuridica
La letteratura come entra in questa vicenda giuridica di scelta, di
taglio, di opzione e poi di espressione di quanto giudicato come il meglio? Come può trovarsi contatto fra l’arte e la misura nel diritto, nel
19
FORCELLINI, Lexicon, II, 17 ss., sub voce.
N. NICOLINI, Procedura penale, 24 (I, 37). Cfr. per l’intero argomento e relative
citazioni di fonti, F. CORDERO, Procedura penale, Milano 1993, 795 ss. Si veda anche V.
CAPUZZA, Preavviso di violazione al Codice della Strada e comunicazione di avvio del
procedimento amministrativo. Esempio di una resistente bivalenza fra prassi amministrativa
e vis expansiva dei principi della Legge n. 241/90, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri,
Anno 2004, n. 1, Gennaio-Marzo.
21
F. CARNELUTTI, Morale e diritto, in La crisi dei valori, Riv. Archivio di filosofia, I,
1945, 30.
20
Ius est iungere et decidere
381
cui vaso traspaiono congiunte l’idea dell’unità e quella della scissione?
Il ruolo della letteratura non muta, sia assumendo come valore oggettivo, sia considerando soggettivo il contenuto della ragion d’essere
che qualitativamente orienta gli esseri viventi. Compito della letteratura (come dell’arte in genere) è scoprire, svelare e leggere i limiti
dell’uomo verso il mistero della vita: questa coscienza della propria
condizione, che passa all’uomo attraverso il bello e il piacevole, è capace di dire a chi compie scelte e limitazioni sia nella società sia per
se stesso, ciò che è importante o meno in quel momento, in quel
frammento di storia.
Sicché, l’arte può meglio cogliere la differenza necessaria e denunciare un male, fissare questo giudizio ontologico che è metafisico e
non cronologico; da questa valutazione, possono trarre orientamento
anche il legislatore nella propria scelta secondo misura, sia il giudice
in sentenza, attraverso la porta dei principi dell’ordinamento.
La parola è nel diritto, come per la letteratura, lo strumento della
scelta e dell’individuazione del meglio, inteso come limite rispetto a
ciò che è stato “tagliato”, e che può rimanere, comunque, nel campo
del sogno, della poesia, del sentimento relativo.
La parola quindi può in tutte e due i campi del sapere sia sollevare,
sia schiacciare. In tal senso, nella letteratura, come ha saputo efficacemente esprimere Luigi Pirandello, la parola ha saputo esprimere il
limite dell’uomo, per celebrarne le scelte o condannarne gli errori; ovvero, la parola dell’uomo è stata essa stessa il limite dell’uomo, pesando sul suo essere attraverso il giudizio, l’onore, la valutazione
dell’altro nella società in cui si sta.
La stanza in cui si manifesta e si vive la pazzia di un uomo che si
crede Enrico IV, che è tale perché gli altri lo hanno definito così, in
vero è lo spazio della società e delle sue leggi, in cui l’uomo rischia di
essere quel che le forme e le norme hanno deciso che egli sia, esprimendo una valutazione e un limite in nome del suo bene .
Quel limite delle leggi però può segnare una limitazione alla coscienza del singolo uomo: così, Adriano Meis non sarà mai tale per le
leggi, risultando solo dalla documentazione un certo Mattia Pascal,
defunto.
Ma, v’è altro in questo rapporto fra diritto e arte.
Pirandello nell’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, che fece
seguire il appendice a Il fu Mattia Pascal, prendendo spunto da un
382
Vittorio Capuzza
fatto tragico e inimmaginabile avvenuto a New York il 25 gennaio
1921, mostrava come le assurdità della vita “non hanno bisogno di parer verosimili perché son vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per
parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili. E allora, verosimili, non
sono più assurdità. Un caso della vita può essere assurdo; un’opera
d’arte, se è opera d’arte, no”.
Quindi, la realtà potrebbe non avere confini, non avere custodi che
garantiscano preventivamente che fatti assurdi, inverosimili, paradossali, disequilibrati trovino attuazione; l’arte, in sé reca l’idea della misura, del limite, perché risponde al dover-essere congenito nell’anima
di ciascun uomo in forza del quale possa dire se una scena sia verosimile, cioè sia ammissibile. La vita invece è una scena nella quale
ognuno potrebbe compiere liberamente la sua azione, (che sarebbe
comunque vera), se non ci fossero il diritto e la sua legge espressiva,
la quale, a ben vedere, contenendo in sé il dover-essere, si risolve nella stessa funzione che ha l’arte; soltanto, in questa il dover-essere che
ne misura la dignità artistica è una proposta, più o meno gridata,
all’uomo; la legge, invece, è la tenue ma incisiva voce che incide e
plasma l’idea della società nella materia del corpus sociale da cui è
nata e a cui destinata. D’altra parte, come s’è visto a proposito della
duplice aspetto del volto del diritto, i comandi normativi devono essere osservati nella loro azione, cioè come essi vengono obbediti e disobbediti: così il diritto è come un disegno in chiaroscuro (Carnelutti);
quanto a dire: il vero della vita, per evitare che ceda all’assurdo, è custodito dalla legge, la quale si realizza proprio quando la disobbedienza al suo comando accade, quando cioè accade il fatto assurdo che non
deve manifestarsi né per il diritto né per l’arte.
Arte e diritto, nell’idea complessa di unità e di misura, adempiono
alla stessa funzione, quella di essere surrogati della morale, a cui ogni
coscienza è chiamata ad obbedire.
Brevi parole per concludere.
La legge è in moto perpetuo; la sua essenza è nella dinamica, in
quanto il diritto è anche filosofia pratica. Solo i principi teoretici sono
fissi, ad indirizzare o meno l’attività dell’uomo. Nella sfera dello ius,
ricercando ciò che è onesto e non ciò che è utile, la lettera della legge
diviene allora aequitas, espressione della virtus, cioè della iustitia; al
contrario, si diffonde in concreto il manzoniano ius ex iniuria, che trasforma la simbolica toga di Azzecca-garbugli in livrea al servizio dei
potenti.
Ius est iungere et decidere
383
Nella nostra età contemporanea, sarebbe ancora necessario il monito di frà Cristoforo (Promessi Sposi, capitolo VI, 92-99), accompagnato dalla serena speranza che già il nome di Frà Macario consegna agli
animi inquieti e fragili di Lucia e di Agnese (Promessi Sposi, capitolo
III, 316 ss.).
All’opposto della cronaca, la storia continua il suo corso, insegnando ai posteri come tagliare i margini, le superficialità, i desideri vani,
le speranze solo economiche. La conseguenza sarebbe altrimenti quella di confluire in uno stato di confusione, di incertezza per le troppe
regole; scriveva Pascal: “Su che cosa potrà l’uomo fondare
l’economia del mondo che egli vuol governare? Sul capriccio di ciascuno? Che confusione! Sulla giustizia? Non la conosce” (Pensieri, n.
230).
La giustizia, d’altra parte, presuppone quel che Calamandrei definiva la “larghezza di idee”: infatti, la giustizia si risolve in una “comprensione”, intesa come “prendere insieme, e contemperarli, gli opposti interessi: la società di oggi e le speranze di domani; le ragioni di
chi le difende, e quelle di chi accusa”. Ma per far questo, è necessario
che ciascun giurista, e fra essi soprattutto il giudice, abbiano l’animo
esercitato a comprendere l’umanità: “la spregiudicata esperienza del
mondo, la cultura che permette di intendere i lieviti sociali che bollono
sotto le leggi, la letteratura e le arti, che aiutano a discendere nei misteri più profondi dello spirito umano. Sotto il ponte della giustizia
passano tutti i dolori, tutte le miserie, tutte le aberrazioni, tutte le opinioni politiche, tutti gli interessi sociali. E si vorrebbe che il giudice
fosse in grado di rivivere in sé, per comprenderli, ciascuno di questi
sentimenti”22.
Allora, l’applicazione del diritto, il dispiegamento di quelle energie
e di quegli ideali che in esso vengono “sanzionati”, non potrà che essere la scelta più equa, proprio perché considera attraverso sia
l’esperienza (che solo la letteratura e l’arte possono penetrare così profondamente), sia la sua teorizzazione metodologica, ciò che l’uomo è,
prima ancora di giudicare ciò che l’uomo ha fatto.
22
P. CALAMANDREI, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze 1999, 272.
Un genere di film, un paese oltre misura
LORENZO DEL ZOPPO
SOMMARIO: 1. Una piccola, e molto sommaria, introduzione storica. – 2. La nascita del
genere. – 3. Il poliziotto. – 4. Il criminale. – 5. Il cittadino. – 6. Qualche considerazione a
mo’ di conclusione.
“In buona sostanza, si può affermare senza ombra di dubbio che i poliziotteschi fossero il
termometro che misurava la febbre di una società ammalata e in crisi di crescita
democratica”1
(U. LENZI)
“(…) outside the horror films,
these action films are the most violent subgenre (…) ever!”2
(Q. TARANTINO)
1.
Una piccola, e molto sommaria, introduzione storica
È il giorno 12 dicembre 1969 e, alle ore 16:37, scoppia la Banca
Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano: diciassette
morti, ottantotto feriti; meno di venti minuti più tardi, a Roma, nel
passaggio sotterraneo che collega via Veneto con via San Basilio,
esplode un’altra bomba: diciassette feriti; a mezzora da questa
esplosione, altre due bombe brillano a Roma, davanti all’Altare della
Patria ed in piazza Venezia: quattro feriti.
Così, nell’arco di un’ora, con diciassette morti e centonove feriti
tra Milano e Roma, comincia in Italia quella che sarà chiamata la
“strategia della tensione”.
Una stagione complessa, e per certi versi contraddittoria, che si
chiuderà circa quindici anni più tardi con un’altra strage, quella del
1
2
D. MAGNI, S. GIOBBO, Cinici infami e violenti, Milano 2010, 23.
Ivi, 17.
386
Lorenzo Del Zoppo
treno rapido 904 in cui persero la vita nuovamente diciassette persone.
Nel corso di questi quindici anni molti furono gli sconvolgimenti del
nostro paese.
Si usciva dal boom economico post-bellico attraverso la
contestazione operaia, studentesca e femminista. Lavoratori, giovani e
donne, reclamavano a gran voce la rivoluzione di una società
sclerotizzata ed ingessata, fieramente risorta dal fascismo ma ora
ferocemente chiusa a qualsiasi istanza di rinnovamento.
Manifestazioni, occupazioni e scioperi sono all’ordine del giorno e
lo Stato non fa certo attendere la propria risposta fondata sulla
repressione. Proprio in relazione alla Strage di Piazza Fontana,
l’anarchico Giuseppe Pinelli precipita da una finestra della Questura
di Milano dove era trattenuto come indiziato del delitto. Pinelli era
sottoposto ad interrogatorio da parte del commissario Luigi Calabresi
e su quest’ultimo si condensano, da parte dei movimenti della sinistra
extraparlamentare ed anarchica, i sospetti d’esser, nei fatti, la causa
del “suicidio” del giovane anarchico. Ecco che all’inquietante
stragismo eversivo (“di Stato” o “nero”) si aggiungerà ben presto il
“terrorismo rosso”.
Alla contestazione si reagisce con la repressione e si sfocia nella
lotta armata, negli anni di piombo, con dietro le quinte l’ombra dei
servizi segreti e l’inquietudine per il colpo di stato3.
Ma la contestazione, oltre a rivendicazioni sociali, manifestava la
preoccupazione per una crisi economica sempre più grave. Dopo il
“miracolo economico” si affacciava nuovamente lo spettro della
disoccupazione e di conseguenza venivano a crearsi vasti ambienti di
sottoproletariato nelle sempre più grandi e degradate periferie urbane.
Accanto alla criminalità “politica”, quindi, vi fu un rapido
aumento, quantitativo e qualitativo, della delinquenza sia organizzata
sia “di strada”.
La criminalità “piccola” si intensifica nelle attività di rapine e
sequestri, in particolare nelle grandi metropoli dove si formano le cd.
3
L’8 dicembre 1970 si mette in opera il colpo di stato (tentato) detto “Golpe Borghese”,
dal nome del suo organizzatore Junio Valerio Borghese, ex comandante della X M.A.S.,
vicino ad ambienti neofascisti e sospettato d’esser legato ai servizi segreti americani. Il golpe,
mai del tutto chiarito nella sua articolazione, avrebbe avuto la funzione di evitare che in Italia
si verificasse una svolta comunista, stante le numerose manifestazioni ed i tumulti sociali
dell’ambiente operaio e studentesco.
Un genere di film, un paese oltre misura
387
“batterie”: bande per lo più formate da giovani agguerriti, cani sciolti
distanti dalla malavita organizzata4.
La mafia, di certo, non sta a guardare ed emigra dalla Sicilia verso
territori economicamente più sviluppati ed interessanti. Più
precisamente, lo stragismo politico e l’aumento della criminalità
organizzata sono temporalmente successivi all’incremento del giro
d’affari della malavita organizzata mafiosa.
In realtà, la diffusione della malavita organizzata nell’Italia
Settentrionale è questione dibattuta e incerta. Una delle molte ipotesi
riguarda gli effetti del provvedimento di soggiorno obbligatorio ed
interessa particolarmente la città di Milano.
Milano sarà proprio il centro di numerose pellicole poliziottesche
poiché nelle sue strade, alle sue periferie, nei suoi importanti traffici
finanziari, si incrociano, sullo sfondo dei poteri politici ed economici,
emarginati sottoproletari, delinquenti comuni e grandi boss.
Si può affermare che fu Giuseppe Doto, noto con il “nome d’arte”
Joe Adonis, ad importare il crimine mafioso ed organizzato a Milano.
Nei primi anni Cinquanta, Joe, italiano emigrato negli Stati Uniti e
qui divenuto il braccio destro di Lucky Luciano, viene espulso dal
territorio americano poiché scoperto privo della cittadinanza. Così,
dopo un soggiorno napoletano, sul finire degli anni Cinquanta, decide
di stabilirsi a Milano dove mette in piedi la bella vita milanese:
bische, night club e stupefacenti, costituiscono il suo ingentissimo
giro d’affari oltre ad essere le sue passioni preferite.
Negli stessi anni, numerosi boss siciliani, piccoli e medi, sono
oggetto del provvedimento di prevenzione dell’obbligo del soggiorno,
una sorta di confino, e spediti proprio nel milanese; ugualmente, altri
mafiosi, per sottrarsi alle prime serrate indagini siciliane antimafia,
fuggono dall’isola e si stabiliscono sempre in Lombardia. Qui tutti
trovano terreno fertile per le loro attività illegali.
Ben presto, nei primi anni Settanta, Milano diventa così la capitale
della mafia siciliana: luogo ideale e “neutro” per incontri
internazionali, base per la gestione del traffico degli stupefacenti, per
4
Per restare solo a Milano, nei primi anni Settanta fa la sua ascesa, criminale e mediatica,
la Banda della Comasina, capeggiata da Renato Vallanzasca.
388
Lorenzo Del Zoppo
l’organizzazione della prostituzione e per la pianificazione dei
sequestri di ricchi imprenditori5.
Ma in questo periodo, come si accennava, non c’è solamente la
delinquenza organizzata. Imperversano a Milano personalità come
Vallanzasca, Francis Turatello e il clan dei marsigliesi che, più o
meno come cani sciolti, si dedicano anch’essi alle rapine, sequestri,
traffico di stupefacenti.
In questo complesso clima sociale, tra crimini “di Stato”, “politici”,
organizzati ed individuali, tra rivendicazioni sociali e contestazione
giovanile, l’Italia, in particolare il Nord e specialmente Milano, si
trova in una sorta di “terra di nessuno”, dove il cittadino qualunque,
ormai privo di ogni sicurezza, si sente abbandonato a se stesso, senza
fiducia nella politica, nello Stato e, di conseguenza, nelle forze
dell’ordine.
Quest’ultime accusano fortemente l’impatto della situazione di
crescente criminalità. La reazione contro la contestazione è feroce, ma
altrettanto dura è la risposta terroristica e l’omicidio del commissario
Calabresi rimarrà a lungo impresso nella memoria degli italiani6.
Così l’opinione pubblica si frammenta su diverse posizioni: vi è chi
accusa di brutale fascismo la polizia che carica studenti indifesi, chi,
al contrario, difende le forze dell’ordine che rischiano la vita per un
misero stipendio, altri ancora invocano leggi più severe, ma più o
meno tutti vivono nell’incertezza totale di anni caotici.
Il poliziesco all’italiana, pur con i suoi limiti di genere
commerciale, porta sugli schermi della nazione (e proprio per la sua
essenza commerciale arriva a tutto il pubblico di massa) la situazione
reale.
Per l’appunto grazie alla sua commercialità intrinseca, il poliziesco
offre uno spaccato sociale “puro”: non vi sono intenti di “denuncia” o
“moralizzanti”, non vi sono argomenti da analizzare o ideologie da
propagandare. Si cerca di far intrigare lo spettatore per novanta minuti
e lo si fa prendendo a spunto vicende reali.
5
Specialista dei sequestri di persona fu Luciano Liggio che nei primi anni settanta diede
vita a quella che divenne conosciuta come la “stagione dei sequestri”, evento che per durata
ed intensità colpirà molto la memoria pubblica.
6
Molte pellicole poliziottesche del periodo mettono in scena la barbara uccisione del duro
commissario di turno; esplicitamente o no, fanno tutte riferimento all’uccisione di Calabresi
avvenuta in un agguato nel 1972.
Un genere di film, un paese oltre misura
389
È certo che non tutti i film afferenti al genere possono vantare
elevate qualità artistiche o tecniche, perciò, nel presente lavoro, la
scelta si è limitata all’esposizione delle prime pellicole (per ordine
cronologico), stante la convinzione che queste abbiano più fedelmente
condensato in sé gli umori sociali del momento. A tal proposito
conforta che, nel passare di pochi anni, il genere sia mutato nella
parodia di se stesso, come avvenne per il western, perdendo ogni
connotato realistico e lasciando spazio alla battuta pecoreccia ed al
cattivo gusto.
Idealmente, l’analisi qui compiuta è racchiudibile in un
significativo lustro che arriva al 1975. In questa data, si realizza da
parte dello Stato la (inutile, tardiva e meramente propagandistica se
non davvero pericolosa) risposta all’escalation di violenza con
l’emanazione della cd. Legge Reale che segna, almeno
simbolicamente, il rimedio a “la polizia ha le mani legate”7. Sempre
nel 1975 si consuma l’omicidio di Pier Paolo Pasolini; l’ingiusta, e
mai del tutto chiarita, tragica fine dell’intellettuale che meglio di ogni
altro ha scavato nelle profondità di quegli anni torbidi e che, proprio
poco prima d’esser ucciso – terribile monito – scrive: “Cos’è questo
golpe? Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene
chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a
sistema di protezione del potere). (…) Io so tutti questi nomi e so tutti
i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io
so. Ma non ho le prove”8.
2. La nascita del genere
Il genere poliziottesco9 non nasce per caso e dal nulla.
7
Infinite, impossibile qui darne conto dettagliatamente, le reazioni critiche nei confronti
della Legge Reale. Per lo più si parla di degenerazione dello Stato di diritto in Stato di
Polizia. Si veda, ad esempio, L. FERRAJOLI, Ordine Pubblico E Legislazione Eccezionale, in
La questione criminale 3/1977, 361-404.
8
P.P. PASOLINI, Cos’è questo golpe? Io so, in Corriere della Sera, 14 novembre 1974.
9
Questo termine è di conio giornalistico e fu usato, all’epoca, in tono dispregiativo; si
voleva così mettere in luce come questi film fossero polizieschi “all’italiana” da intendersi
come realizzati “alla buona”, fatti in fretta, superficiali, modellati e copiati dagli analoghi
americani. Attualmente, il termine è ben accettato dai cultori del genere in quanto denota in
maniera precisa il filone poliziesco italiano degli anni Settanta.
390
Lorenzo Del Zoppo
Tuttavia, è innegabile come la tradizione filmica italiana non abbia
mai affrontato temi inerenti le forze dell’ordine. Certo, vi sono state
negli anni precedenti pellicole con protagonisti poliziotti o
investigatori ma non si può parlare di un genere strutturato nei suoi
canoni10.
Sono gli anni della contestazione ad influenzare le produzioni
cinematografiche e queste iniziano a portare sullo schermo pellicole
con temi carichi di “impegno civile”.
Si tratta dei film del genere detto “di denuncia” che, tra i vari
argomenti affrontati, mette in scena anche il rapporto tra la società e le
forze di polizia, in particolare nella loro funzione di tutori dell’ordine
costituito. Ancor più nella seconda metà degli anni sessanta, si
afferma (sia come successo di critica sia come incassi al botteghino) il
cinema chiamato di impegno politico-civile. Questo genere è
costituito da pellicole che indagano a fondo l’attualità del paese a
partire da reali fatti di cronaca.
Il loro legame con l’attualità, come detto, è molto stretto e la loro
cifra si stilistica può esser condensata in una sorta di nuovo ed
interessante “realismo espressionista”. Dopo il neorealismo, sfociato
nella commedia, si recupera l’interesse per l’attualità, non certo per
descriverla, ma per criticarla.
I temi maggiormente affrontati sono, infatti, la collusione tra potere
e mafia e la situazione della protesta operaia con la connessa e
conseguente repressione poliziesca.
Con queste opere si realizza una ultra-attualità simbolica dello stato
delle cose tramite la quale denunciare con forza i meccanismi del
potere repressivo. Il film diventa la rappresentazione del “caso
limite”, o meglio di quello che dovrebbe essere un caso limite, ed
invece costituisce la normalità. Sono pellicole ideologiche e
moralizzanti, volte ad una presa di coscienza dello spettatore
attraverso la rappresentazione di istituzioni ormai irrimediabilmente
corrotte ed oppressive.
Ma nell’Italia dei Sessanta c’è un altro filone di film caratteristico
quello del western italiano, detto “spaghetti-western”11. In particolare
10
Al contrario, ad esempio, del noir americano o del polar francesce dai quali il
poliziesco italiano in parte riprende alcune tematiche.
11
Il termine pare che sia stato creato dalla critica americana in reazione alla visione del
loro genere nazionale per eccellenza, prodotto dagli italiani. In realtà, non ha un valore
Un genere di film, un paese oltre misura
391
le celebri pellicole di Sergio Leone, con la sua trilogia del dollaro12,
gettano le basi per un nuovo modo di raccontare le gesta epiche dei
pistoleri.
Non ci sono più cattivi ed incivili indiani da sconfiggere,
scompaiono le tematiche relative alla conquista della natura da parte
dell’uomo ed ugualmente la questione del codice dell’onore superiore
a quello della legge positiva viene sostituita con una morale
individualistica ed anarchica. Così, nello spaghetti-western le vicende
sono tutte storie individuali nelle quali i protagonisti, singoli e solitari,
sono personaggi caratterizzati da comportamenti moralmente dubbi:
agiscono esclusivamente per il loro tornaconto personale e se possono
sparano per primi; insomma, si passa dalla visione dicotomica e
manichea buoni-cattivi, alla prospettiva molto più reale di personaggi
sfumati e contrastati. Ed in questo essere troppo reali, ultra realistici, i
film western di Sergio Leone sono anche molto violenti. La violenza
non è sottesa ma esibita, mostrata per quel che è, senza fronzoli e
senza funzioni artistiche. In buona sostanza, si rappresenta un mondo
dominato dalla legge del più forte, del più veloce con il revolver.
Come nel passato era accaduto ad altri generi (si pensi allo
“storico” o al “cappa e spada”), agli inizi degli anni Settanta il western
volgeva verso l’esaurimento della vena creativa, tant’è che stava
ripiegando nella parodia di se stesso13.
Così molti produttori e registi di western decidono di non seguire la
parodia ma continuare a girare film d’azione i quali, comunque,
avrebbero dovuto attirare un pubblico numeroso14.
Come accennato l’ispirazione è duplice. Da una parte si attinge alle
tematiche dei film di denuncia (ottimi riscontri al botteghino),
negativo, volendo solamente marcare la nazionalità italiana di queste pellicole; ed anzi Leone
sarà molto apprezzato proprio negli Stati Uniti.
12
Si intendono le pellicole: Per un pugno di dollari (1963), Per qualche dollaro in più
(1964), Il buono, il brutto, il cattivo (1966), tutte di Sergio Leone. Non è un caso, e lo si
sottolinea, che protagonisti di questi film furono due attori i quali proseguirono la loro
carriera nei generi precursori del poliziottesco: Clint Eastwood diverrà l’ispettore Callaghan;
Gian Maria Volontè reciterà nelle migliori pellicole “di denuncia”.
13
La più nota e migliore parodia dello spaghetti-western è certamente Lo chiamavano
Trinità uscito nelle sale nel 1970 e campione di incassi.
14
“Sono nato con il western e mi sono consolidato con il poliziesco. (…) Il poliziesco mi
ha dato tante possibilità di espressione, forse più di qualsiasi altro genere”. Sono le parole di
Enzo G. Castellari nella prefazione al libro di A. BRUSCHINI, A. TENTORI, Italia a mano
armata, Roma 2011, 7.
392
Lorenzo Del Zoppo
dall’altra si prende ispirazione dal successo del primo Callaghan
(novità in Italia), che vede come protagonista Clint Eastwood, volto
ben conosciuto ed apprezzato dal pubblico italiano. Dall’alchimia di
questi due generi, contaminati proprio dall’esperienza spaghettiwestern, prenderà forma e contenuto il poliziottesco.
Ecco che l’industria filmica commerciale italiana (all’epoca
fiorente) abbandona i set spagnoli nel deserto e porta le macchine da
presa nelle periferie urbane; gli eroi della prateria, tolti i cinturoni e
scesi da cavallo, indossano fondine e si mettono alla guida di Giuliette
spericolate.
In particolare due sono i film appartenenti al genere di “denuncia”
che possono dirsi precursori diretti del poliziottesco.
Il primo è, probabilmente, il più noto tra i film di impegno, il
secondo è realmente anticipatore di molti degli stilemi del poliziesco
italiano.
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Elio Petri,
1970, uscito circa due mesi dopo Piazza Fontana, due miliardi e
duecento milioni di incasso) rappresenta l’epitome del genere di
denuncia.
Un brillante commissario di polizia della sezione “politica”,
avvezzo ai soprusi e dai modi assai sbrigativi verso i giovani
contestatori15 quanto debole e ossequioso nei confronti dei superiori,
nella furia di un inspiegato delirio sadico e schizofrenico uccide
l’amante.
Al commissario stesso sono affidate le investigazioni poiché si
sospetta che il delitto sia maturato negli ambienti della sinistra
extraparlamentare. Ma nel corso delle indagini, sprofondando sempre
più nel delirio, il commissario accuserà dell’omicidio un giovane
“capellone” (cercando di farlo confessare con metodi poco ortodossi)
ed, al contempo, fornirà ai superiori gli indizi per metterli sulle sue
stesse tracce. Sul finale, memorabile la confessione (forse solo
onirica?) del protagonista davanti ai più alti funzionari della polizia.
Nonostante ciò, i suoi superiori, in una sorta di intreccio kafkiano
15
“Sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale e sotto ogni criminale può
nascondersi un sovversivo! (…) Repressione è civiltà!” Celebre questo discorso pronunciato
dal protagonista commissario in occasione del suo insediamento a capo della sezione politica
della polizia.
Un genere di film, un paese oltre misura
393
(citato nel finale Il processo16), lo convincono d’esser innocente e che
il nemico non è lui ma quelli che là fuori vogliono sovvertire il mondo
(gli studenti ed i contestatori in genere) e perciò lo invitano nel
continuare a fare il suo lavoro, ed a farlo bene come finora fatto.
Seppur qui brevemente accennato, appare chiara la complessità di
questo film che mette in luce, tra i vari temi affrontati, la questione su
chi sia autorizzato a controllare i controllori. La polizia è – dovrebbe
essere – la garanzia dell’ordine costituito; ma chi può controllare che
questo potere, da principio indispensabile dello stato di diritto, non
trascenda in strumento di sopruso? Chi e come può sorvegliare i
sorveglianti? E soprattutto, quanto potere questi sorveglianti devono
avere?
Tutti questi interrogativi pone il grandissimo film di Petri.
Certamente la risposta non è palesata nel film ma traspare
implicitamente nella vicenda del protagonista: il commissario uccide e
rimane impunito in quanto appartiene alla classe degli impunibili, di
chi è sopra la legge; in ciò si condensa la “denuncia” e l’intento
ideologico è riassumibile nell’invito a diffidare del potere, dello strapotere e dell’arroganza di questo.
Nei successivi film polizieschi questo tema sarà ugualmente
affrontato ma da una prospettiva diversa: gli impunibili diventano
oscuri eversori che tramano nell’ombra, spesso aiutati anche dalla
polizia, ma i protagonisti, cioè poliziotti, ispettori e commissari,
impersonano proprio chi si confronta con questi poteri diffidandone
non per precise ragioni ideologiche ma per una sorta di sospetto
archetipico ed istintuale. Il poliziotto dei polizieschi si denota, quindi,
per essere l’ingranaggio sbagliato in un sistema di potere corrotto.
È così che prende forma la figura del commissario integerrimo,
“duro e puro”; non ossequioso dei codici, anzi critico della legge
positiva, ma piuttosto fedele ad un codice d’onore tutto interno ed
individuale, una specie di moralità e responsabilità interiore
impossibile da tradurre nelle leggi (incompatibile con queste) e
incomunicabile all’esterno (non comprensibile in una società
degradata).
Confessione di un Commissario di Polizia al Procuratore della
Repubblica (Damiano Damiani, 1971) fa sempre parte del genere di
16
“Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene
alla legge e sfugge al giudizio umano”.
394
Lorenzo Del Zoppo
impegno civile-politico ma con maggior forza rispetto al precedente
Indagine cominciano ad affacciarsi tematiche vicine al poliziesco, in
particolare con l’introduzione della figura del poliziotto ribelle ai
superiori ed al sistema delle leggi e per ciò deciso a farsi giustizia da
sé.
Il film si apre con lo scontro verbale tra il commissario Bonavia,
ormai disilluso dal contrastare la mafia con le inefficaci procedure
legali17, ed il procuratore Traini convinto che la lotta al potente
crimine organizzato mafioso possa esser condotta esclusivamente nel
rispetto dei codici. Da questo confronto dialettico, nessuno uscirà
vincitore. Il commissario, completamente sfiduciato dalla possibilità
di arrestare un boss mafioso secondo le procedure codicistiche, viene
sospeso dal servizio dai suoi superiori collusi con il potere mafioso e,
quindi, decide di fare giustizia da sé. Una volta scoperto, il
commissario sarà arrestato proprio dal procuratore suo avversario ed
in carcere giustiziato da chi aveva precedentemente arrestato. Al
termine della vicenda, il procuratore, presa coscienza della collusione
del sistema con la mafia e deciso a parlarne con un alto magistrato,
rimane impietrito di fronte alla risposta di quest’ultimo: “Qualcosa
che non va?”.
La giustizia individuale (ma non privata, poiché non si tratta quasi
mai di una vendetta personale) come extrema ratio, nella convinzione
di sopperire a dove le leggi non possono arrivare, sarà un leitmotiv del
genere poliziottesco nel quale la polizia si professerà spesso “con le
mani legate”, ora dalle leggi, ora da oscuri poteri.
Come accennato, molti canoni e temi del poliziottesco successivo
sono già presenti in questa pellicola: la città (Palermo) completamente
in mano alla criminalità organizzata ed in balia della violenza, la sfida
personale tra il commissario ed il boss e quella “valoriale” tra la
giustizia diretta del commissario e quella procedurale del diritto
positivo rappresentata dal procuratore, la connivenza del potere con il
crimine e, quindi, la decisione del poliziotto di realizzare la sua
giustizia.
Ad ogni modo, come si è avuto modo già di introdurre, non si può
affermare che il genere poliziottesco sia una filiazione del tutto
italiana. Difatti, il genere “di denuncia” incontra un film americano
17
Il commissario, pur di uccidere il boss al quale dà la caccia da molto tempo, fa uscire di
manicomio un pericoloso pregiudicato desideroso di vendetta contro il capo mafia.
Un genere di film, un paese oltre misura
395
che in qualche modo contribuisce a stabilire i canoni di quello che
sarà il poliziesco italiano della prima metà degli anni Settanta.
È l’Ispettore Callaghan (in originale Callahan) da San Francisco,
portato in scena da Clint Eastwood con la regia di Don Siegel, che
detterà il modo di agire dei futuri commissari italiani.
Callaghan-Eastwood è un cow-boy metropolitano, un lupo solitario
che mal concilia l’ascendenza individualista con il ruolo sociale di
tutore dell’ordine. È, in un certo senso, la continuazione del
personaggio della “trilogia del dollaro” ma ora costretto a fare lo
sceriffo e per di più in una società dove dilaga il degrado morale e
criminale. Inevitabile, quindi, che sia un poliziotto con i metodi del
bounty killer.
Ma in queste pellicole vi è qualcosa che le colora più a fondo della
classica tinta noir e i toni del western, pur presenti, sono virati in vari
e differenti cromatismi.
Il protagonista-poliziotto non è a-morale, non passa
indifferentemente da una parte all’altra (come accadeva nei western di
Leone, dove il cowboy agisce in maniera molto sfumata), ma sente
tutto il peso delle responsabilità d’esser colui che deve mantenere
l’ordine in una società ormai profondamente corrotta; per questo
motivo porta avanti il suo compito, la sua missione, con tutta la forza
che ha: contro il crimine ma anche contro superiori corrotti e
soprattutto contro un sistema di leggi e tutele giuridiche che sembrano
fatte più per proteggere i delinquenti che per tutelare la “brava gente”
(ammesso che questa esista ancora). Ma come si può agire per far
rispettare l’ordine se l’agente è il primo a muoversi con pratiche fuori
(contro) la legge?
Callaghan vive per primo questa dialettica e per primo la risolve
nel modo più duro: una volta ucciso il serial killer (freddato e
giustiziato in una sorta di duello western-metropolitano), getta il
distintivo in un fiume.
In questo gesto, alla fine del primo e migliore film della serie
dell’Ispettore Callaghan, è rappresentato lo stato d’animo dell’eterno
outsider, di colui che appartiene al sistema e cerca di far prevalere
proprio il sistema su gli out-laws (i fuori-legge) ma non può (più?)
riconoscersi nel sistema stesso. La strada è quella di chiamarsi fuori,
d’esser definitivamente out, di diventare out-law perché è il sistema a
396
Lorenzo Del Zoppo
non esser in grado di proteggersi. Da qui la necessità che ci pensi
“qualcuno” anche a costo che questo qualcuno sia proprio un out-law.
Callaghan cerca di salvare un sistema al quale è fedele ma che è
marcio in tutto; per cui la soluzione a ciò non può esser cercata
all’interno del sistema stesso (corrotto), ma deve provenire da fuori,
da chi è marginale, al limite del sistema stesso. La lotta di Callaghan è
quindi quella di colui che sul confine combatte verso i nemici esterni e
verso i falsi amici interni.
Certamente, è falso affermare che il poliziottesco sia una
riproposizione nostrana dell’Ispettore Callaghan. Ugualmente è vero
che registi, sceneggiatori e produttori realizzano un’operazione molto
simile a quella già fatta con il genere western: adattare il genere
straniero ai gusti casalinghi. Ma come interpretare i gusti nostrani di
quegli anni?
La risposta fu semplice e allo stesso modo geniale: si ibrida il
genere straniero (il poliziotto duro) con il genere che più vende ossia
il film di denuncia. E l’operazione non fu difficile, venne quasi
naturale, poiché di punti di contatto ve n’erano già a sufficienza.
Da questa contaminazione tra l’Ispettore Callaghan di San
Francisco ed il Commissario Bonavia di Palermo nasce il poliziesco
italiano che, quindi, di fatto arricchisce l’appena nato genere violento
americano con le questioni di attualità tutte italiane: la contestazione
studentesca ed operaia, la crescente delinquenza di strada,
l’insufficienza organica della polizia e la sensazione della gente
qualunque del “dove andremo a finire”, con sullo sfondo una politica
ombrata da oscuri poteri deviati.
Da questo mix di generi e di temi, con la scaltrezza degli abili
produttori del tempo, esce nelle sale nel 1972 La polizia ringrazia
ossia quello che per molti critici è il primo film del poliziesco italiano.
Nel periodo che abbiamo preso in riferimento, come si è già
accennato, la polizia non gode certo della fiducia della gente. Con la
contestazione le forze dell’ordine sono accusate di essere uno
strumento antidemocratico al servizio dell’autorità politica, una forza
repressiva al pari della magistratura. L’episodio della morte
dell’anarchico Giuseppe Pinelli18 non fa altro che rafforzare tale
convinzione.
18
Sospettato d’esser l’autore della Strage di Piazza Fontana, Pinelli è sottoposto ad
interrogatorio nella questura di Milano. Qui precipita dal sesto piano morendo. È il 1969 e il
Un genere di film, un paese oltre misura
397
Ma d’altra parte vi è anche un sentimento che striscia tra la gente,
un impulso che vedrebbe di buon occhio una dura reazione proprio da
parte della polizia contro genericamente tutti i contestatori.
3. Il poliziotto
La polizia ringrazia (1972, Stefano Vanzina, un miliardo e
settecento milioni di incasso) anticipa di qualche mese l’uscita di Una
44 magnum per l’ispettore Callaghan19 ed apre il genere che la critica
chiamerà in tono dispregiativo “poliziottesco”; in realtà, in questa
pellicola si nota quanto le radici del genere siano ancora affondate
pienamente nel cinema di denuncia.
Il commissario Bertone, capo della omicidi, inviso alla stampa ed
ai superiori per i metodi decisi e la tendenza ad agire individualmente,
si trova a contrastare un gruppo organizzato che ha deciso di
“ripulire” la città dalla feccia criminale ormai dilagante. Al termine
dell’indagine, contrastata dal procuratore che limita l’operato del
commissario nel rispetto della legalità, Bertone scopre che dietro
l’associazione “anonima anti-crimine” si nascondono ex colleghi ed
esponenti dell’alta società cittadina motivati da ulteriori intenzioni
eversive. Convinto ad arrestarne il capo, suo collega e questore ora in
pensione, Bertone viene ucciso con un colpo alle spalle dal suo
braccio destro, anch’egli membro dell’associazione.
In continuità con il precedente Confessione di un Commissario il
protagonista de La polizia ringrazia è un uomo del sistema, un tutore
dell’ordine costituito che vive la responsabilità del proprio ruolo e
l’impotenza di svolgere il proprio compito fino in fondo. Ma in questa
pellicola, ed è l’elemento di originalità del filone poliziesco,
l’ostacolo che incontra il protagonista non è la corruzione mafiosa ma
la mancanza di leggi e procedure adeguate. Il commissario Bertone
non si lamenta dei poteri eversivi, quelli sono i “nemici” e non ci si
lamenta del nemico, lo si affronta, critica quello che dovrebbe essergli
d’ausilio: lo Stato del tutto assente nel fornire mezzi adeguati e la
titolare delle indagini, il commissario Calabresi verrà ucciso in un agguato davanti la sua
abitazione nel 1972.
19
Il secondo episodio della saga di Callaghan racconta la vicenda dell’ispettore alle prese
con un’agguerrita banda di giustizieri composta da poliziotti.
398
Lorenzo Del Zoppo
politica non in grado di formulare leggi penali efficaci. È il sistema
stesso che non viene in aiuto alla polizia e Bertone non può che
affermare “abbiamo le mani legate”. In particolare negli esplosivi
scontri verbali con il procuratore emerge chiaramente la difficoltà
della polizia ad agire; ad effetto l’affermazione del commissario
Bertone direttamente rivolta al procuratore: “noi diamo la caccia ai
delinquenti e la procura dà la caccia a noi!”
Intanto, chi le mani le ha libere agisce.
Nella seconda parte del film si vede operare una misteriosa ed
inquietante “anonima anticrimine”: un gruppo ben organizzato che
uccide delinquenti, prostitute, omosessuali e contestatori. L’obiettivo
non è solo quello di eliminare il crimine ma “ripulire” la società da
tutti i tipi devianti. Quindi, non una banda di “giustizieri del crimine”,
ma una vera e propria “associazione sovversiva” con l’obiettivo di
sostituirsi allo Stato, instaurando una dittatura, e costituita da ex
funzionari di polizia ed importanti personaggi altolocati.
L’elemento più interessante di questa pellicola, infatti, è la
contraddizione che vive il commissario, contraddizione profonda,
insoluta ed insolubile.
Infatti, il protagonista è un commissario dai metodi sbrigativi, che
vorrebbe procedure più svelte e meno garantiste e codici molto più
duri; certo non ama prostitute e spacciatori e non è sicuramente
contento quando qualche delinquente viene rimesso in libertà per un
cavillo procedurale. Tuttavia, è proprio il suo nemico, l’“anonima
anticrimine” ad agire per arrivare là dove la legge non può, e dove
anche Bertone vorrebbe arrivare: una società finalmente più retta,
senza delinquenti e con un “sano” rispetto misto a timore per la legge.
E non a caso, alla fine del film, sarà il capo dell’anonima, l’ex
questore Stolfi, a proporre al commissario l’ingresso nell’associazione
poiché i fini sono comuni ad entrambi (sul cadavere del commissario,
dirà l’ex questore: “Peccato, mi dispiace! Un uomo giusto dalla parte
sbagliata”).
Bertone, paradossalmente, trova nei suoi nemici i suoi simili, i suoi
amici, addirittura ex colleghi, ma con loro non potrà mai nascere
alcun sodalizio. Quello che li differenzia sono le fondamenta: non si
mette in discussione la fedeltà al proprio ruolo, e pur di difenderlo si
agisce “contro” di esso. Ed il commissario è proprio il cardine di
questa dialettica dall’impossibile equilibrio; dialettica che trova
Un genere di film, un paese oltre misura
399
soluzione necessitata nell’uscita totale dell’uomo di Stato dallo Stato
stesso.
In questo film, quindi, emerge ed è ben evidente un topos
fondamentale del genere, in riferimento alla figura del poliziotto.
Si tratta di un uomo solo, inviso alla stampa20 ed ai superiori per i
metodi sbrigativi e poco ortodossi. Tuttavia, questo modus operandi
non si risolve mai in azioni contro le regole, ma semmai nella volontà
di cercare la verità anche contro i poteri forti. E perciò,
inevitabilmente, il commissario è solo, solitario, isolato: i sottoposti lo
temono per il rigore, i superiori lo tengono a distanza perché
“scomodo”. È sicuramente un “duro” e il suo stare nelle regole, anzi la
volontà di rispettare le regole a qualunque costo, lo pone fuori dalle
regole, dalle logiche, di una realtà difficile. E Bertone, che a
differenza dei suoi successori non è solo un uomo d’azione ma anche
di riflessione, vive questa tensione che si sostanzia nella critica di un
sistema penale troppo garantista in una realtà dominata dal crimine; a
ciò si contrappone un’entità troppo giustizialista, ed apertamente
nostalgica della pena di morte, che decide di agire per conto proprio.
In questo senso, va letta l’inevitabile ultima scelta di Bertone: per
conservare meglio l’ordine, poiché ad esso si è giurato fedeltà in ogni
caso, si esce dall’ordine stesso e si fa il proprio dovere, costi quel che
costi.
Questa pellicola, quindi, ancora risente molto dei precedenti film di
denuncia nella misura in cui la vicenda porta con sé una morale, ossia
il messaggio per cui nell’inefficienza della legge trovano terreno
fertile le derive eversive. Nei successivi polizieschi si perderà anche
quest’ultimo connotato di impegno in favore di una predominanza
totale dell’azione sui contenuti.
È infatti un film successivo a codificare il genere,
rappresentandone l’epitome perfetta. La polizia incrimina, la legge
assolve (Enzo G. Castellari, 1973, un miliardo e seicento milioni di
incasso).
In questa pellicola si sublimano i temi polizieschi già presenti nel
precedente La polizia ringrazia, filtrati però da qualsivoglia velleità di
impegno e di denuncia. Spazio, dunque, ad un poliziesco italiano
20
Dice il commissario Bertone con una frase di sicura presa: “Abbiamo le mani legate, i
delinquenti ci prendono per il sedere e i giornalisti ci inzuppano il pane”.
400
Lorenzo Del Zoppo
depurato dalle influenze del passato o condizionato dagli esempi
americani.
Una potente organizzazione criminale cerca di ottener il controllo
sul traffico della droga in città. A capo dell’indagine il commissario
Belli, con i suoi metodi duri, riesce ad infliggere pesanti arresti
all’organizzazione. Viene quindi minacciato ed in seguito sono uccisi
il commissario-capo e la figlia del commissario. Ciononostante, Belli
individua il capo dell’organizzazione in un ricco industriale protetto
da poteri forti, ma, pur arrestandone vari componenti, non riesce ad
arrivare al potente boss. Sul finale, una sorta di visione onirica, fa
intuire al commissario la sua prossima tragica fine.
Il protagonista, il commissario Belli, è un poliziotto d’azione, un
uomo che ha ben netta la distinzione tra bene e male.
I buoni sono la polizia, i cattivi quelli cui la polizia dà la caccia: e
se c’è un cattivo non si dovrebbe perder molto tempo tra codici e
procedure; pistole, manette e gattabuia, questa la ricetta. Solitudine,
isolamento, incapacità negli affetti privati ed ostilità dei superiori per
metodi di lavoro violenti sono gli stilemi dei commissari
poliziotteschi, in questo più simili ai pistoleri degli spaghetti western
rispetto ai poliziotti del cinema di denuncia.
Il commissario Belli non è investito dai dubbi e dagli scrupoli
come il suo predecessore Bertone. Belli è il primo commissario ad
esser violento tout court: non pensa se sia giusto e meno usare questi
metodi, se si possa arrivare alla soluzione del caso attraverso i normali
protocolli d’azione; si reca a casa di una prostituta per interrogarla e
questa gli chiede se ha un mandato. Domanda impertinente per il
commissario Belli che risponde: “No, ma ho questo!” e giù un bello
schiaffone.
Inoltre, se Bertone era un commissario d’indagine, riflessivo e per
questo critico ed autocritico, Belli rappresenta una sorta di
impenetrabile (ed inespressiva, va detto) barricata. Ben difficile per il
suo superiore spiegargli che prima di arrestare qualcuno ci vogliono le
prove e non mere congetture o una confessione “facilitata” da un po’
di camera di sicurezza. E se nei momenti d’azione nulla traspare di
Belli se non la volontà di catturare i criminali, nei momenti familiari
del film emerge un personaggio ancora una volta fuori dai canoni
della normalità. Il commissario ha una figlia che abita lontano con una
zia, e nulla si sa della madre ed è fidanzato con una ragazza che lo
Un genere di film, un paese oltre misura
401
chiama solo per cognome. Belli, oltre a non esser certo un poliziotto
modello, è anche fuori dallo schema del padre e del fidanzato; fuori
dai limiti, fuori misura, sicuramente più a suo agio con la delinquenza
che con gli affetti.
La polizia incrimina la legge assolve, dunque, pone gli stilemi del
genere mettendo in scena un paese caratterizzato dalla diffusione
senza controllo della malavita spietata e violenta contro la quale deve
lottare un poliziotto dai metodi poco ortodossi e ancor più reso
violento da superiori collusi o troppo rispettosi dei codici.
Sempre nel 1973 esce nelle sale Milano trema: la polizia vuole
giustizia (1973, Sergio Martino, un miliardo di incasso). Come nel
precedente film citato, anche in questa pellicola si presenta la figura
del poliziotto scomodo, inviso ai superiori per i modi diretti e spicci,
che non si ferma davanti a niente; la conclusione non può che essere
quella per cui è necessario uscire dal sistema-polizia per portare a
termine il dovere di giustizia.
Segnato dall’uccisione del padre, poliziotto freddato da alcuni
criminali cui aveva esitato a sparare, il commissario Caneparo è
certamente un violento.
Il film si apre con una spettacolare sequenza di evasione che si
conclude con l’uccisione dei fuggiaschi, nonostante si fossero arresi,
da parte del commissario. Da questo evento si apre l’indagine di
Caneparo che lo porterà ad infiltrarsi in una banda di rapinatori che
agiscono per fini eversivi. È una vera e propria metamorfosi quella di
Caneparo, realistica e credibile forse più del suo ruolo di poliziotto.
Da parte del protagonista si realizza una vera e propria uscita
dall’esser poliziotto per diventare criminale; certo nei modi di
Caneparo il confine non è ben tracciato tanto si trova a suo agio nella
malavita. Ed è, di fatto, indistinguibile, faticando a distinguere le sue
azioni nel nome della legge e nel nome della mala.
Ma sarà un’altra “uscita” quella che renderà merito all’ispettore.
Difatti, nelle indagini da infiltrato, Caneparo scopre che
nell’organizzazione di alcune cruente rapine si nasconde un
personaggio oscuro, in qualche modo legato alla politica, che agisce
per fini eversivi utilizzando sia piccoli criminali sia giovani
contestatori; quando poi verrà ucciso il commissario “progressista” e
“democratico” e si scoprirà che tra i mandanti vi è anche un fidato
collega, allora tocca a Caneparo la seconda metamorfosi, quella con
402
Lorenzo Del Zoppo
cui diventa, a modo suo, il difensore dello stato di diritto. Difatti, le
sue indagini sono bloccate dai superiori (in parte corrotti, in parte
ostili al suo stile di infiltrato, troppo infiltrato21) e per il commissario
si apre un’unica strada: fare di testa propria. Ucciderà il collega a capo
dell’organizzazione e, successivamente, abbandona la polizia. Ma
anche in queste vesti sarà un outsider perché se la sua missione è
quella di mantenere l’ordine delle leggi i suoi metodi sono
apertamente in contrasto con quelle stesse leggi. E questa dicotomia
conduce direttamente al finale del film dove Caneparo abbandona la
propria pistola sull’orlo di un precipizio.
Questa pellicola più di altre, seppur nella semplicità schematica di
film prodotti in pochissimo tempo per esigenze commerciali, cerca di
rappresentare il sentire dell’uomo qualunque, quello che non capisce
cosa sta succedendo nel paese. La criminalità dilaga, la contestazione
da una parte appare pacifica e dall’altra terreno fertile del terrorismo
ed in tutto questo lo Stato e le sue istituzioni sembrano inermi, se non
addirittura coinvolte.
Come già in La polizia ringrazia tutti i ruoli sono saltati: poliziotti
che agiscono come criminali, criminali insieme a poliziotti per
istituire un nuovo ordine, giovani pacifisti mescolati a violenti… è un
paese che sbanda, che appare senza guida e l’unico appiglio è
rappresentato da singoli individui, questi commissari d’azione, la cui
unica certezza è la fedeltà al loro servizio22.
Ma protagonisti dell’epoca non solo soltanto poliziotti. Dall’altra
parte ci sono i criminali: tra “cani sciolti” e malavita organizzata,
anche il mondo della delinquenza sembra vivere una situazione di
caos, nella quale tutti i ruoli sono instabili e nessuna regola è più
rispettata.
21
Così un collega “Caneparo, questa volta o ti davano l’ergastolo o la medaglia”.
Anche a Caneparo viene proposto da un collega di entrare a far parte
dell’organizzazione eversiva. “Ti voglio dalla mia parte Giorgio, è per il bene del paese che
dobbiamo essere forti. Lo so che anche tu la pensi come noi. C’è solo un modo per
combattere la violenza, esserlo di più come hai fatto tu”.
22
Un genere di film, un paese oltre misura
403
4. Il criminale
Milano Calibro 9 (Fernando Di Leo, 1971 ma uscito nelle sale nel
1972) mette in scena la vicenda di un delinquente qualunque che si
districa nell’avvicendamento tra la “vecchia” mafia e quella “nuova”.
Il protagonista, Ugo Piazza, è un uomo solo, freddo, lucido ed
inaccessibile; ha scontato la propria pena ed è appena uscito dal
carcere ed ora l’unica idea che ha in testa è quella di “mimetizzarsi”
per un po’ nella malavita per così avere il tempo di recuperare un
ingente bottino, frutto di una rapina, nascosto ai suoi stessi compagni
criminali.
È quindi un uomo che si è sottratto alle regole, quelle della
malavita, che ha fatto il furbo e si è tenuta per sé la parte di altri. Ma
nessuno lo sa con certezza e perciò tutti lo sospettano e attendono che
faccia la prima mossa per recuperare la somma nascosta.
In questo contesto, contemporaneamente, si svolge la guerra tra la
vecchia e nuova mafia, tra quella dell’onore e del rispetto e quella
della droga e del tradimento. Anche questa è una situazione dove le
regole sono saltate, non c’è più nessun codice capace di guidare le
azioni ed Ugo Piazza si trova nel ruolo dell’outsider, di colui che non
può prendere parte, non può nemmeno scegliere. Si trova nel posto
giusto, fuori dal carcere, ma nel momento sbagliato, nell’infuriare
della lotta tra i padroni della città. Ed infatti, Ugo non sceglie, agisce:
dei suoi pensieri si sa poco o nulla, per lui parlano i fatti. Cercando di
passare inosservato, di mantenere un profilo basso (anche nel
vestiario, è sempre avvolto da un cappotto blu), evita tutto e tutti per
cercare di arrivare a quella somma che finalmente potrebbe garantirgli
l’uscita di scena. Ma tutti gli occhi sono su di lui, e non è possibile
uscire da un passato così ricco di banconote.
È la vicenda di uomo che ha rifiutato le regole e che ora vorrebbe
uscire definitivamente da quel sistema che ha tradito e che non
riconosce più. Ma il destino del traditore è quello d’esser a sua volta
tradito, specie con le forme della femme fatale.
Difatti, è ancora l’assenza di regole che chiude il film e lo
caratterizza. Ugo è tradito dalla donna che ama, Nelly, ed ucciso
dall’amante di lei, Luca, un aiuto barista, con un colpo di pistola alla
schiena. Tutto è perduto e chi è saltato fuori dalle regole, allo stesso
modo è ucciso, senza regole né rispetto.
404
Lorenzo Del Zoppo
Solo nell’ultima famosa sequenza, improvvisa ed inaspettata, vi è
la riaffermazione dell’onore: sarà Rocco, ossia colui che per tutta la
pellicola ha dato la caccia ad Ugo cercando di fargli rivelare dove
tenesse nascosto il bottino, a vendicare il rivale uccidendo Luca e
recitando un epitaffio memorabile.
“Tu uno come Ugo Piazza non lo uccidi a tradimento! Tu uno
come Ugo Piazza non lo devi neanche toccare! Tu uno come Ugo
Piazza non lo devi neanche sfiorare! Tu quando vedi uno come Ugo
Piazza, il cappello ti devi levare!”
Figura simile è quella di Luca Canali ne La mala ordina (Fernando
Di Leo, 1972).
In questa pellicola, sempre dello stesso regista di Milano Calibro 9,
si rappresenta un confronto tutto interno alla malavita: tra la mafia
americana e quella milanese e tra quest’ultima e Luca Canali, un
pesce piccolo, protettore di qualche prostituta.
I “big boss” americani inviano a Milano due sicari per uccidere
Luca Canali, ritenuto responsabile d’essersi appropriato di una grossa
partita di droga. In realtà, artefice del colpo è il boss milanese, don
Vito Tressoldi, il quale usa Canali come capro espiatorio. Si apre,
quindi, una doppia caccia: i sicari americani vogliono uccidere Luca,
ma don Vito vuole ucciderlo prima, evitando che possa parlare e
convincere gli americani della propria innocenza, manifestando quindi
il coinvolgimento della mala milanese.
In questo intreccio tra i due continenti, tra chi comanda a New
York e chi a Milano, il protagonista è proprio Luca Canali, non un
gangster, ma un criminale qualunque anzi neanche un criminale vero,
poiché è un “uomo di casino” ossia il grado sociale più basso nella
malavita. Difatti, inizialmente, Luca non capisce, pensa ad un
malinteso e cerca di dialogare spiegando le proprie ragioni; ma nel
momento in cui gli vengono uccise moglie e figlia, capisce di esser la
vittima designata, il capro espiatorio, e non ci sta. Con un guizzo da
uomo d’onore inaspettato per chi come lui “non fa neanche un
mestiere da uomini”, si ribella alle regole (la mala ha ordinato la sua
morte e gli ordini del boss sono legge) e da preda si fa predatore.
L’uccisione della moglie e della figlioletta trasformano Luca in una
bestia furiosa che lotta con tutto (con la testa sfonda un parabrezza ed
uccide un uomo) e contro tutti. Inizia così la seconda parte del film in
cui la “bestia-Luca” lotta sia contro i sicari americani sia contro la
Un genere di film, un paese oltre misura
405
mala locale, arrivando ad uccidere don Vito. Infine, uccide anche i
sicari americani ma, allo stesso tempo, comprende anche che il suo
destino è ormai segnato: nuovi sicari arriveranno da New York e
cercheranno proprio lui perché, ormai, il nome di Luca Canali è stato
“ordinato” da uccidere.
Il suo è un rivoltoso assalto al potere, all’ordine mafioso. Una
ribellione disperata e folle di chi è uscito dal sistema di cui era,
inconsapevolmente prigioniero.
Dove tutti non possono che assecondare il semplice volere del
boss, Luca mette in discussione gli ordini, le regole appunto, e in una
escalation di violenza giunge a sconfiggere il vertice della piramide.
La sua è una reazione giusta, poiché è innocente, ma ingiustificata,
perché nel sistema di cui fa parte si dovrebbe, in ogni caso, accettare
gli ordini del boss. Ma se il boss è colui che per primo non ha
rispettato le regole (tradendo gli americani), allora qualsiasi legge non
è più valida, si aprono le porte dell’anarchia ed il furore di Luca si
colora di toni epici.
Tuttavia si impone una precisazione importante: in questo viaggio
in salita verso la fonte del potere, Luca perde tutto il poco che ha, il
“lavoro” e gli affetti (la moglie e la figlia gli vengono trucidati come
avvertimento, come sanzione), e, dunque, la sua scalata al potere non
rappresenta un’ambizione al comando; si tratta solo della furia cieca
di chi reagisce all’ingiustizia, di chi fa saltare tutte anche le ultime
regole perché ha perso anche qualsiasi ragione di vita.
Quella di Luca è, quindi, una metamorfosi paradossale che
nell’ambito del crimine lo fa assurgere da “uomo da nulla” ad epico
giustiziere, un eroe insieme furioso e tragico, il cui destino è lasciato
ad un mondo senza regole.
Di più difficile analisi è Milano odia: la polizia non può sparare
(1974, Umberto Lenzi), opera con sui si affronta l’essenza stessa della
violenza e dell’emarginazione.
Il protagonista, Giulio Sacchi (Tomas Milian), non è nemmeno un
sotto-criminale come Luca, è un perdigiorno, un buono a nulla, uno
che per darsi coraggio nelle sue piccole attività di ladruncolo deve o
bere o drogarsi. È certamente un outsider, un tagliato fuori da tutto,
uno che fa lo spaccone al bar ma sanno tutti che è un incapace.
Orbene, in questa situazione, Giulio decide di fare il salto di qualità,
impasticcato e drogato, rancoroso verso la società benestante e verso i
406
Lorenzo Del Zoppo
colleghi della malavita, vuole dimostrare a tutti che può essere per una
volta il migliore. Mette su una banda di sbandati a lui succubi e
rapisce la figlia di un ricco borghese. Ed in questa vicenda si consuma
la furia cieca di Giulio con una scia di efferati omicidi. Gli si mette
sulle orme il commissario Grassi che riesce ad arrestare Giulio ma
questi è immediatamente rilasciato perché ritenute le prove
insufficienti. Il commissario, allora, si dimette dalla polizia e
rintracciato Giulio lo uccide.
Peculiare la figura di Giulio Sacchi, non un semplice assassino, ma
un folle di rara repulsione. Il suo obiettivo non è lucido, non vuole
fare il colpo della vita per sistemarsi, il suo è un fine di vendetta. Non
ha interessa nell’accumulare ricchezza per vivere meglio, per salire
qualche gradino della scala sociale. La ricchezza cui brama dichiara di
volerla sperperare; è un profano della borghesia, un sottoproletario
folle ma autentico, una furia ribelle e caotica priva di qualsiasi
intenzionalità che non sia quella distruttiva.
Il risultato, è un film teso, aspro e lucido nella messa in scena della
violenza pura dove il protagonista da rifiuto della società si trasforma
in belva umana e nel finale è ricondotto alla sua “classe sociale”,
ucciso in cima ad un cumulo di spazzatura. E tale uccisione avviene in
forma liberatoria, non si può che ringraziare il commissario (excommissario) per aver eliminato un tale mostro, poco importa se per
la giustizia positiva vada ritenuto innocente. Ma l’ultima inquadratura
sulla periferia milanese lascia un terribile dubbio: quanti altri Giulio
Sacchi covano in una società sempre più avviata verso il degrado?
Il criminale, non il boss ma il delinquente di strada, è un
personaggio senza futuro e senza redenzione, violento e disperato, e
soffocato da un destino ineluttabile che lo condanna per aver cercato
d’uscire dalla sua condizione. È fuori dalle regole per eccellenza,
certamente fuori dalla legge, ma anche quando cerca d’uscire dal
sistema-criminale che lo vuole incardinato nel suo ruolo, il
delinquente trova tragica fine.
Un genere di film, un paese oltre misura
407
5. Il cittadino
Non c’è solo la contrapposizione tra polizia e criminali a porsi
fuori da ogni canone. Perché se la polizia ha le mani legate, se la
malavita dà gli ordini che vuole allora Il cittadino si ribella.
Proprio questa pellicola (Enzo G. Castellari, 1974, un miliardo ed
ottocento milioni di incasso) rappresenta il sottogenere del poliziesco
più osteggiato dalla critica.
Che i criminali fossero violenti lo si sapeva, che la polizia agisca
con metodi poco ortodossi lo si immaginava (e poi, comunque, il fine
giustifica i mezzi) ma che i cittadini si mettessero a fare i giustizieri
era troppo!
Il gioco è semplice: al posto del poliziotto si mette un cittadino
qualunque, medio-borghese, esasperato dal dilagare della criminalità e
pronto all’azione per arrivare dove la legge e la polizia non possono.
Se è vero che possono esser fondate le accuse di “fascismo”, o
meglio di qualunquismo violento, è fallace la stessa interpretazione
politica di queste pellicole. Non si tratta, infatti, di film di denuncia:
qui non si predica un’ipotetica morale per giustizieri urbani, né si
mostra una precisa ideologia; si rappresenta, enfatizzandolo,
l’inconscio collettivo che pervade il paese, ossia quello della classe
medio-borghese (la classe dominante emersa dal boom economico)
che, di fronte alla caotica situazione italiana dell’epoca, pensa, ma non
dice, “ora basta!”.
Il protagonista, l’ingegner Antonelli, è difatti un borghese che si
mette a dare la caccia a tre malviventi che lo hanno rapinato e
picchiato. Questo evento, assieme alla considerazione che la polizia
non sia in grado di rendergli giustizia, cambia radicalmente il
protagonista che da mite professionista si fa giustiziere. Ma certo non
è un eroe, un puro, un raddrizzatore di torti e difensore degli oppressi.
La sua ribellione è, infatti, privata e personale e la sua violenza
assolutamente totale.
Il personaggio è quindi una diretta filiazione del western più che
del poliziesco23: la rivendicazione di una dignità personale perduta, la
volontà di ristabilire l’equilibrio privato, sono i sentimenti che
23
Dice la moglie all’ingegner Antonelli: “Cosa credi, di essere nel west? I banditi
arrivano in città e tu ti metti la stella di latta e vai a prenderli a fucilate!”.
408
Lorenzo Del Zoppo
muovono un protagonista che incarna gli umori più istintuali dello
spettatore.
La polizia, invece, è rappresentata come inerme ed inefficiente,
difatti, di grande impatto è la sequenza finale dove l’ingegnere,
uscendo dal commissariato, sente un uomo inveire contro un
funzionario di polizia per l’inefficacia della repressione criminale;
l’ingegnere sorride, forse altri si ribelleranno.
Il film esce nelle sale poco prima de Il giustiziere della notte (regia
di Michael Winner con Charles Bronson) e pur affrontando lo stesso
argomento (un cittadino qualunque che diventa “giustiziere”), la
pellicola nostrana risulta più complessa. Bronson, dopo che alcuni
banditi gli hanno ammazzato la moglie e violentato la figlia, decide di
uccidere tutti i criminali; l’ingegner Antonelli, al contrario, non ha la
pretesa di scontrarsi con la criminalità; vuole solamente ristabilire
l’equilibrio della sua dignità violata, senza che gli interessi “ripulire”
la città, tant’è che si affianca ad un piccolo ladruncolo per individuare
i suoi aggressori.
È la storia di un cittadino qualsiasi, un borghese piccolo piccolo,
che nell’indifferenza della polizia per il suo caso, decide di agire per il
suo interesse. L’ingegnere rappresenta, quindi, la mentalità borghese
della proprietà applicata alla criminalità: è una sorta di furto quello
subito, un furto di dignità, e l’azione di Antonelli è la ricerca e la lotta
per rientrare nel possesso di quella dignità sottratta. Solamente alla
fine, dopo esser tornato proprietario, quando si accorge che altre
persone “derubate” come lui, manifestano l’intenzione di agire in
proprio per riappropriarsi di ciò che loro appartiene, prende (forse?)
coscienza (di classe?): la borghesia, la “brava gente”, deve reagire e
riprendere il controllo ed il potere di una società ormai completamente
degradata ed allo sbando.
6. Qualche considerazione a mo’ di conclusione
Con questo modesto lavoro si è voluto porre l’attenzione su un
genere di film certamente da non dimenticare. Non sono pellicole
“impegnate” né artisticamente raffinate eppure dicono ancora molto e
talvolta molto più di coevi prodotti culturalmente più elevati.
Un genere di film, un paese oltre misura
409
Il poliziottesco era, ed è, un genere commerciale poiché doveva,
innanzitutto, attirare il pubblico in sala e vendere tanti biglietti. Forse
in questo sta il valore di quelle pellicole. Sono uno spaccato degli anni
Settanta in un paese al collasso, in bilico tra rivolta e repressione,
spaccato tanto più realistico quanto più portato sugli schermi senza
alcuna velleità artistica.
Il poliziesco all’italiana, o “poliziottesco”, come si è cercato di far
emergere, riflette la realtà italiana del tempo caratterizzata dai tumulti
sociali e politici e dall’esplosione di violenza della criminalità
organizzata e del terrorismo. La risposta di questo genere sta nel
proporre “eroi-qualunque”. Sono personaggi e vicende estremamente
realistiche, immerse totalmente nella quotidianità e nella geografia
locale (frequenti le panoramiche sulle periferie cittadine), una sorta di
specchio sociale ma senza ambizioni sociologiche.
Le frequenti considerazioni antigarantiste, seppur schematicamente
proposte, si possono considerare come intento precipitato dal
precedente genere del film di denuncia. Ma più che di denuncia qui di
tratta di dare una eco ad una diffusa percezione sociale.
L’aumento della delinquenza di strada, assieme al terrorismo e
stragismo politico, infondono in molti cittadini un vasto senso di
insicurezza. È un sentimento di insofferenza crescente per i numerosi
casi di delinquenza non risolti che trova l’esito nel desiderio di
vendetta. Se Callaghan agisce in solitaria perché è fondamentalmente
convinto che da solo può far meglio (si trova in fondo una traccia
dell’ideologia individualista nord-americana), i poliziotti italiani sono
in qualche modo costretti a far da sé perché disillusi e frustrati dal
sistema che dovrebbe aiutarli (la stessa polizia e il sistema giudiziario
e giuridico).
L’ideologia del poliziottesco, ammesso che esista (e sempre che si
possa parlare di “ideologia”), è difficile da individuare. Se, come
detto, le radici sono nel genere di denuncia italiano e nel poliziesco
americano (su fondamenta western) allora è vero che vi è una
commistione tra sinistra e destra o, almeno, tra un certo impegno
sociale ed una visione del mondo e della società individualista e
reazionaria. Certo, l’antigarantismo e la predilezione per i metodi
violenti della polizia, nonché la tendenza a metter in scena la
“giustizia privata” ben valsero al genere l’accusa di fascismo.
410
Lorenzo Del Zoppo
Tuttavia, il poliziotto dall’ideologia reazionaria e destrorsa molto
spesso si ritrova a dover contrastare oscure cospirazioni eversive la
cui fonte è da ricercarsi negli ambienti interni alla politica ed alla
finanza e, quindi, più “nera” che “rossa”. È una delle costanti del
genere, la minaccia di un colpo di stato, di un golpe volto a sostituire
la democrazia con la dittatura. E il poliziotto, disilluso proprio da
quella democrazia che gli lega le mani con codici e procedure troppo
deboli, si trova a doverla difendere, da solo, per un senso del dovere e
dello Stato che travalica ogni considerazione.
Tutte queste considerazioni possono essere vere ma,
probabilmente, va detto, travalicano quello che era l’intendimento di
questi film.
Erano pellicole essenzialmente commerciali. La “denuncia” di
complotti oscuri ed eversivi (genericamente di “destra”) conferiva un
plot intrigante e la violenza trovava riscontro commerciale nel gusto
di un pubblico bisognoso di una catarsi redentrice. Ugualmente, la
scelta di inserire il nome di una città nel titolo, che inizialmente
connotava marcatamente la pellicola, diviene un elemento
commerciale che attirava nelle sale il pubblico locale.
Il paradosso del genere è che si tratta di film intrisi di realtà e di
attualità (ma non sempre di verità) e pur tuttavia la loro
rappresentazione è quanto meno ideologica. Forse in questo sta la loro
forza. Si mette in scena duramente l’Italia di un periodo buio, ma il
“puro” intento commerciale cancella velleità impegnate o
moralizzanti.
In buona sostanza, è il ritratto di un’Italia agitata da mille tensioni e
con poche soluzioni e certamente la violenza del poliziottesco non ha
mai costituito una risposta ma solamente una catarsi schermica delle
inquietudini sociali.
E visto che di film si tratta, l’invito non può che essere quello a
guardarseli liberamente per quello che sono: crime and action!
Le ragioni della mente e le ragioni del cuore:
suggestioni dalla lettura del libro
La custode di mia sorella di Jodie Picoult
VINCENZA MELE
SOMMARIO: 1. La storia della richiesta di emancipazione medica da parte di minore. – 2. Un
romanzo psicologico con importanti implicazioni etiche e giuridiche. – 3. La storia di un
donatore allogenico, “oggetto” di selezione genetica.
1. La storia della richiesta di emancipazione medica da parte di
minore
Alcuni testi letterari offrono argomenti importanti ai giuristi ed ai
giudici1. Un’autrice particolarmente significativa nel panorama
filosofico contemporaneo, Martha Nussbaum, parla propriamente di
una giustizia poetica, identificando la letteratura come un esercizio
dell’immaginazione, un “mettersi nei panni dell’altro”2. La letteratura
può offrire la possibilità di cogliere alcuni aspetti di rilevanza etica e
giuridica che, senza calarsi in “quella” particolare situazione e senza
indossare i panni di “quei” personaggi, facilmente sarebbero sfuggiti.
La letteratura, in altre parole, può fungere da telescopio per l’occhio
giuridico. Il romanzo La custode di mia sorella di Jodi Picoult3
permette di osservare a distanza ravvicinata alcune questioni rilevanti
di carattere giuridico ed etico. Anna è la figlia di Sara e Brian ed è
stata scelta da un gruppo dei loro embrioni fecondati in vitro, perché
geneticamente compatibile con Kate, l’altra figlia malata di leucemia.
La storia inizia, perché Kate ha bisogno di un rene. Anna, ormai
tredicenne, si rifiuta di donare l’organo e cita in giudizio i genitori per
1
R. WEISBERG, Il fallimento della parola, Bologna 1990.
M. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, Bologna 2004.
3
J. PICOULT, La custode di mia sorella, Milano 2005.
2
412
Vincenza Mele
chiedere l’emancipazione medica, sfidando la legge della California,
secondo cui il minore acquisisce l’emancipazione a quattordici anni.
Anna si reca dall’avvocato Campbell Alexander per essere assistita
legalmente. “‘Signor Alexander’, dico, ‘mia sorella ha la leucemia’.
‘Mi dispiace molto. Ma anche se volessi riprovare a litigare con Dio, e
non ho alcuna intenzione di farlo, tu non potresti intentare una causa
in difesa di qualcun altro’”. “Voglio intentare una causa contro i miei
genitori per riprendermi i diritti sul mio corpo”4. L’udienza al
Tribunale di Los Angeles vede da una parte l’avvocato con un cane
d’ausilio e dall’altra il giudice appena rientrato da sei mesi di
aspettativa a causa di un forte esaurimento nervoso (conseguenza
dell’uccisione della figlia da parte di un automobilista). Il legale
chiede una limitazione dei diritti parentali per evitare che la figlia
Anna sia usata come cavia; il giudice chiede di ascoltare in privato le
ragioni della ragazza. “‘Anna?’ Mi richiama alla realtà il giudice De
Salvo. Scoppio a piangere. ‘Non me la sento di dare un rene a mia
sorella. Proprio non me la sento’ (...) Per un po’ lui rimane in silenzio,
aspettando che riprenda fiato. Quando sollevo lo sguardo mi accorgo
che è lì in attesa. ‘Anna nessun ospedale di questo paese accetterà un
organo da un donatore non consenziente’”. “‘E secondo lei chi sarà a
firmare?’ domando ‘Non certo la bambina che viene portata in sala
operatoria sulla sedia a rotelle, ma i suoi genitori’. ‘Tu non sei più una
bambina piccola; le tue obiezioni verrebbero ascoltate’, replica. ‘Oh,
certo’ ribatto, mettendomi di nuovo a piangere. ‘Oggi si tratta di un
rene. Domani sarà qualcos’altro. C’è sempre qualcos’altro’”. La
lettura bioetica ci permette di individuare la fisionomia di un caso di
sperimentazione non terapeutica, con due peculiari aspetti: l’elevato
grado di invasività dell’intervento medico (asportazione di un rene) e
la minore età della protagonista. Ad un primo approccio di lettura
giuridica, la storia di Anna racconta un caso di richiesta di
emancipazione medica da parte di una minorenne.
4
Ivi, Racconta Anna, 25.
Le ragioni della mente e le ragioni del cuore
413
2. Un romanzo psicologico con importanti implicazioni etiche e
giuridiche
La custode di mia sorella è incentrato sulla dimensione domestica
di una famiglia che vive le ripercussioni della malattia oncologica di
uno dei figli. Lo afferma Jessie, il figlio maggiore, quando dice “La
nostra famiglia è sconnessa”5. E lo ribadisce Brian, il padre di Anna:
“Le cose sono cambiate per la famiglia da quando Kate si è malata.
Sara ha smesso di fare l’avvocato e Kelly (la sorella di Sara) si è
trasferita da noi per dare una mano (…). Avere un figlio malato è
un’occupazione a tempo pieno, certo uno si gode ancora le gioie della
vita familiare, una bella casa, dei bei figli, ma dietro la facciata ci
sono fratture, rancori che minacciano il fondamento stesso delle nostre
vite”6. Il conflitto non è vissuto soltanto nella relazione, ma anche a
livello intrapersonale ed intrapsichico. Sara, la madre di Anna e Kate,
da alcuni autori definita anche giustamente come l’icona
dell’accanimento terapeutico, è forse l’unica che sembra immune da
conflitti; Sara ha un solo scopo salvare la vita della figlia malata ad
ogni costo, contro tutto e tutti. Ma forse è proprio lì la forza ed
insieme la debolezza del suo essere madre: avere annullato
completamente se stessa per la figlia; aver annientato ogni altro senso
e scopo della propria esistenza, ogni desiderio, ogni aspirazione, al
punto tale da fare scomparire addirittura ogni barlume di conflitto dai
meandri del proprio cuore. Sara non è più “una donna”, non è più un
avvocato, non è più una madre di tre figli: Sara è soltanto “il
sostegno” della vita di Kate. E per diventare questo, ha cancellato
tutto il resto. Sara, prima ancora di essere un’icona dell’accanimento
terapeutico, è un’icona della rimozione, è colei che si è annientata a
tal punto da negare anche di fronte a se stessa il proprio
annientamento. Il personaggio di Sara non mette in luce conflitti
interiori, la lotta appare solo all’esterno, ed è la lotta contro la malattia
di Kate. Il mondo di Sara è bianco e nero: bianco è tutto ciò che si
oppone alla malattia, nero è tutto ciò che cede alla malattia. Al
contrario, un conflitto intrapsichico emerge in tutta la sua evidenza nel
personaggio di Anna, un conflitto fra le ragioni del cuore e le ragioni
della mente. Il giudice che si occupa del caso si rende conto del
5
6
Ivi, Racconta Jessie, 25.
Ivi, Racconta Brian, 149.
414
Vincenza Mele
conflitto e capisce che la questione è più complessa rispetto a quanto
sembrerebbe emergere ad un primo sguardo “‘Tua madre mi ha detto
che volevi lasciar cadere la questione’ dice ‘Mi ha mentito?’. ‘No’.
Deglutisco a fatica. ‘Ma allora (…) perché hai mentito a lei?’. Ci
sarebbero mille risposte. Scelgo la più facile ‘Perché le voglio bene’,
rispondo e ricomincio a piangere. ‘Mi dispiace mi dispiace
veramente’. Mi guarda fisso ‘Sai una cosa Anna? Ho intenzione di
designare qualcuno che aiuti il tuo avvocato a dirmi qual è la
soluzione migliore per te. Cosa ne pensi?’. I capelli mi spiovono sugli
occhi. Li raccolgo dietro le orecchie. Ho il volto così rosso che sembra
gonfio. “D’accordo”, rispondo”7. Il giudice designa un tutore ad litem,
Julia Romano: “Il tutore ad litem viene nominato da un tribunale
come difensore di un bambino durante procedimenti legali che
riguardano un minore. Non occorre essere avvocati per diventare
tutori ad litem, ma bisogna avere una moralità e un cuore”8. In prima
battuta, la questione di interesse giuridico che emerge dalla storia è
per l’appunto se un minore sia effettivamente in grado di prendere
decisioni di carattere autonomo, oppure se le sue decisioni vengano
inevitabilmente e pesantemente condizionate dal contesto familiare in
cui continua a vivere “Anna ha tredici anni. Anna vive con sua madre.
La madre di Anna è l’avvocato della parte avversa. Come può Anna
abitare nella stessa casa di Sara Fritzgerald e non lasciarsi influenzare
da essa?”9, oppure ancor di più dalla rete di relazioni vissute
all’interno del contesto familiare, in particolare, nel caso di Anna, con
la madre Sara: “Non puoi pretendere che Anna si comporti come un
normale cliente adulto. Dal punto di vista emotivo, non è in grado di
prendere delle decisioni indipendentemente dalla sua situazione
familiare (...). Hai parlato con lei di un modo legale che la liberasse
dalle pressioni: rinunciare alla causa. Ovviamente lei ci si è buttata
sopra. Ma pensi davvero che lei stesse considerando cosa poteva
significare? che ci sarebbe stato un genitore in meno in casa per
cucinare o portarla in giro o aiutarla a fare i compiti? Che non avrebbe
potuto dare il bacio della buona notte, che il resto della sua famiglia
sarebbe stato quanto meno arrabbiato con lei? Tutto quello che lei ha
sentito, quando ha parlato con te , sono state le parole basta con le
7
Ivi, Racconta Anna, 93-94.
Ivi, Racconta Julia, 114.
9
Ivi, Racconta Julia, 120.
8
Le ragioni della mente e le ragioni del cuore
415
pressioni. Non ha mai sentito dire separazione”10. Julia Romano, il
tutore ad litem, comprende che nel caso in questione ciò che è giusto
oggettivamente non è detto che lo sia anche soggettivamente. Sarebbe
oggettivamente giusto che Anna si emancipasse dal punto di vista
medico, ma è questo quello che Anna realmente vuole? “‘So quello
che è giusto per Anna’ mi dice Julia ‘ma non sono sicura che lei sia
abbastanza matura per prendere le sue decisioni’. ‘Se pensi che lei
abbia tutte le ragioni per presentare la petizione, dov’è il conflitto?’.
‘Responsabilità’, risponde asciutta Julia ‘Vuoi che te lo spieghi? (...).
Adesso ogni volta che sua madre discute con Anna, lei fa marcia
indietro. Ogni volta che succede qualcosa a Kate lei fa marcia
indietro. E nonostante quello in cui crede di essere capace, non ha mai
preso una decisione di questa importanza (…) non dobbiamo
dimenticare che le conseguenze si ripercuoteranno su sua sorella’”11.
Al processo Julia esprime a chiare lettere le difficoltà di tracciare un
terreno d’intersezione fra ciò che è oggettivamente giusto (ciò che
dovrebbe essere fatto, nell’ottica della terza persona, l’osservatore
esterno ) e ciò che è soggettivamente giusto (ciò che dovrebbe essere
fatto dal punto di vista di chi vive direttamente l’esperienza, ovvero
nell’ottica della prima persona). “‘E allora signora Romano’ chiede il
giudice De Salvo ‘Qual è la sua raccomandazione alla corte?’. ‘Non lo
so’ – risponde lei a bassa voce – ‘Mi dispiace Questa è la prima volta
che svolgo le funzioni di tutore ad litem e non sono in grado di dare
un’indicazione precisa, benché capisca che è inaccettabile. Ma da un
lato ho Brian e Sara Fritzgerald che non hanno fatto altro che prendere
decisioni dettate dall’affetto in ogni istante della vita delle loro figlie.
Da questo punto di vista, non sembrano decisioni sbagliate (…) anche
se non sono le decisioni più giuste per entrambe le figlie (…).
Dall’altro lato ho Anna, che dopo tredici anni ha deciso di difendere
se stessa (…) anche se questo può significare la perdita della sorella
che ama’. Julia scuote la testa ‘È come il giudizio di Salomone, vostro
onore. Ma lei non mi sta chiedendo di dividere un bambino in due. Mi
sta chiedendo di dividere in due una famiglia’”12. Suggestivamente,
Picoult evoca attraverso le parole di Julia il racconto biblico di re
Salomone, chiamato a giudicare chi fosse la vera madre fra le due
10
Ivi, Racconta Campbell, 191.
Ivi, Racconta Campbell, 214.
12
Ivi, Racconta Campbell, 374-375.
11
416
Vincenza Mele
donne contendenti. L’immagine di una “separazione” del bambino in
due parti che ne causa la morte vuole forse suggerire che nella storia
di Anna c’è qualcosa che non deve essere separato, secondo un
giudizio giusto? Ma che cosa deve rimanere unito? La famiglia? Le
sorti delle due sorelle, Anna e Kate? Oppure ancora i due volti del
desiderio di Anna? Anna sembra volere e al tempo stesso non volere
l’emancipazione dalla famiglia, ella vive un conflitto fra istanze di
separazione ed esigenze profonde ed inconsce di relazione ed unione
con essa. Il conflitto, che ad una prima occhiata appare come conflitto
familiare, assume nel personaggio di Anna la forma di un conflitto
intrapsichico. Dividere i due volti del desiderio di Anna (salvare o non
salvare Kate) implicherebbe forse una morte? Forse la morte
dell’identità di Anna, capace di autodefinirsi soltanto nell’unione
simbiotica con la sorella? “Sono un donatore allogenico, una sorella
perfettamente compatibile. Quando Kate ha bisogno di leucociti o di
cellule staminali o di midollo osseo per far credere al suo corpo di
essere sano, sono io a procurarglieli. Quasi tutte le volte che Kate va
in ospedale, io la seguo a ruota”13. “(…) Non sono venuta a trovare
Kate perché poi mi sentirò meglio. Sono venuta perché senza di lei è
difficile, per me, ricordare chi sono”14.
3. La storia di un donatore allogenico, “oggetto” di selezione
genetica
La storia di Anna mette in luce alcune delle fondamentali obiezioni
morali alla selezione genetica pre-impianto, descritte da Habermas.
Anna è infatti il frutto di una selezione genetica operata dai suoi
genitori al fine di scegliere l’embrione perfettamente
immunocompatibile con la primogenita Kate, malata di leucemia. Il
fatto di essere stata voluta e concepita come strumento di salvezza per
Kate, pone Anna al di fuori di un contesto comunicativo autentico,
che l’etica richiederebbe “I genitori, senza presupporre nessun
consenso, decidono in base alle loro preferenze, come se potessero
arbitrariamente disporre di una cosa. Dal momento però che quella
cosa diventa una persona, ecco che l’intervento egocentrico acquista il
13
14
Ivi, Racconta Anna, 16.
Ivi, 144.
Le ragioni della mente e le ragioni del cuore
417
senso di un’azione comunicativa, che potrebbe avere conseguenze
esistenziali per il giovane in crescita. Sennonché a richieste
geneticamente fissate egli non può dare nessuna vera risposta”15. “Nel
poter dire di no che caratterizza i partecipanti al discorso deve
prendere voce la spontanea comprensione del Sé e del mondo, che è
tipica di individui che non possono mai delegare altri a parlare in loro
vece. Quando ci concepiamo come persone morali, noi diamo
intuitivamente per certo che agiamo e giudichiamo per così dire in
prima persona, ossia in maniera non delegabile. Nessun altra voce se
non la nostra esce dalle nostre labbra. È anzitutto rispetto a questo
poter essere se stessi che l’intenzione estranea – influenzante tramite il
programma genetico la nostra storia di vita-potrebbe rivelarsi come
fattore di disturbo. Al poter-essere-sé-stessi è anche necessario che la
persona si senta coincidente con il proprio corpo”16. La selezione
genetica per il suo intrinseco significato rende impossibile
l’autodeterminazione nell’uso del corpo: la selezione infatti traccia
prima della nascita, in una sorta di pre-determinazione, “i confini
dell’uso del corpo”, confini che essendo già definiti da altri (eterodeterminati) non possono essere autonomamente definiti dalla persona
“titolare del corpo”. “L’incarnarsi della persona nel corpo non
consente soltanto di distinguere tra attivo e passivo, causare e
accadere, fare e trovare: esso ci costringe anche a differenziare tra le
azioni ascrivibili a noi e quelle imputabili ad altri. Ma le condizioni
perché l’esistenza corporea possa distinguere queste prospettive sta
nel fatto che la persona si identifichi con il proprio corpo. E affinché
la persona possa sentirsi tutt’uno con il proprio corpo sembra proprio
che questo debba venire esperito come spontaneo, ossia come
sviluppo di quella vita organica che – rigenerando se stessa – trae
fuori di sé la persona”17. Anna è condannata ad essere uno strumento
per mantenere in vita sua sorella Kate. Ci sono diverse cose che le
impediscono di decidere autonomamente: le pressioni della madre, la
separazione dalla famiglia, la paura di perdere una sorella, alla quale è
profondamente legata da un filo invisibile. Come può Anna decidere
liberamente in questo contesto? La fisionomia non ben delineata della
libertà di questa tredicenne rende impossibile conciliare i due volti del
15
J. HABERMAS, I rischi di una genetica liberale, trad. it., Torino 2002, 54.
Ivi, 59.
17
Ibidem.
16
418
Vincenza Mele
suo desiderio, Giano bifronte, che aspira contemporaneamente
all’unione e alla separazione. La domanda cruciale rimane: perché la
situazione di Anna appare così complessa? La risposta di Picoult ci
porta alle origini del concepimento e della nascita di questa sorella,
donatore allogenico. Sara e Brian l’hanno voluta e scelta fra i vari
embrioni fecondati, perché potesse essere la scialuppa di salvataggio
di Kate. “Sono un donatore allogenico, una sorella perfettamente
compatibile. Quando Kate ha bisogno di leucociti o di cellule
staminali o di midollo osseo per far credere al suo corpo di essere
sano, sono io a procurarglieli. Quasi tutte le volte che Kate va in
ospedale, io la seguo a ruota”18. La richiesta di emancipazione medica
di Anna all’inizio della storia è la manifestazione del suo dissenso alle
intenzioni di chi ha operato la sua selezione genetica, dissenso che
rivela secondo Habermas la dipendenza alienante19 del designer baby
da coloro che hanno scelto le sue caratteristiche genetiche. Il desiderio
dei genitori si è incarnato nel corpo di Anna e questo desiderio alieno
è diventato “il suo desiderio”, facendo prigioniero “il suo corpo”. Ma
Anna non solo è nata con questa identità è anche cresciuta, plasmata
da essa. Anche nel momento in cui ella rifiuta di donare il rene a
Kate paradossalmente lo fa per aiutarla in un modo ancor più radicale
“Non voglio che lei muoia, ma so che non vuole vivere così, e io sono
l’unica che può darle quello che vuole (…). Sono sempre stata l’unica
che poteva darle quello che voleva”20. Essere scialuppa di salvataggio
per Kate è l’imprinting che la selezione genetica ha operato sulla vita
di Anna. “Anna hai deciso da sola di presentare questa denuncia?”.
“Sono stata convinta da qualcuno”. “Anna” – mi dice Campbell – “chi
ti ha convinto?”. “Kate”21. Nelle parole del giudice alla fine del
processo si risolve la dicotomia fra le ragioni del diritto e quelle
dell’etica nell’esprimere un giudizio sul caso “La risposta è che non
c’è una buona risposta. In qualità di genitori, medici e anche giudici
tentiamo goffamente di prendere decisioni che ci consentano di
dormire la notte (…) perché la morale è più importante dell’etica e
l’amore è più importante della legge (…) Kate non vuole morire” –
dice con dolcezza – “ma non vuole nemmeno vivere così. Sapendo
18
J. PICOULT, op. cit., Racconta Anna, 16.
J. HABERMAS, op. cit., 89,
20
J. PICOULT, op. cit., Racconta Anna, 391.
21
Ivi, Racconta Anna, 380.
19
Le ragioni della mente e le ragioni del cuore
419
questo e conoscendo la legge c’è una sola decisione che posso
prendere. L’unica persona a cui dovrebbe essere consentito di fare
questa scelta è proprio quella che sta al cuore della questione (…). E
con questo non intendo Kate ma Anna. Alcuni adulti qui presenti
sembrano aver dimenticato la regola più semplice dell’infanzia: non si
può portar via qualcosa a qualcuno senza chiedere il suo permesso”22.
Attraverso le parole del giudice viene riconsegnata alla libertà il suo
giusto peso, sia nel campo del diritto che in quello dell’etica: la libertà
di Kate di rifiutare il trapianto, che ritiene in queste circostanze un
atto di accanimento terapeutico e la libertà di Anna di rifiutarsi di
continuare ad essere trattata come un mezzo a vantaggio di altri. Nelle
parole del giudice riecheggia il senso delle affermazioni di Habermas:
ogni intervento genetico sull’embrione è lecito soltanto se esiste la
ragionevole presunzione che il futuro nato darebbe il proprio
consenso, ovvero nel caso della cura di una malattia. Il processo si
conclude con l’emancipazione medica di Anna, ma la storia non si
conclude con il processo. Alla fine del libro, Anna dona il suo rene a
Kate, in circostanze tragiche “Anna ha battuto violentemente la testa
signora Friztgerald. Questo ha provocato una lesione fatale al cranio.
Un respiratore la tiene in vita ma non mostra alcun segno di attività
neurologica (…) è cerebralmente morta. Mi dispiace veramente (…).
So che in questo momento è l’ultima cosa a cui vorreste pensare, ma
c’è una piccolissima possibilità (…) prendereste in considerazione la
donazione di organi?”. È Campbell che risponde al medico: “‘In
quanto legale di Anna decido io per i suoi genitori’. Il suo sguardo
passa da me a Sara ‘E c’è una ragazza di sopra che ha bisogno di quel
rene’. Brian è dietro di me, mi viene vicino ‘Amore, lei non è qui. È la
macchina che tiene in vita il suo corpo. Ciò che rende Anna Anna se
n’è già andato’. Mi volto, seppellisco il volto contro il suo petto. ‘Ma
non era previsto’, singhiozzo. Poi ci stringiamo, sorreggendoci a
vicenda e quando trovo il coraggio mi volto a guardare l’involucro,
che una volta conteneva la più giovane delle mie figlie. Non è altro
che un guscio. Nessuna traccia di vita sul suo volto, i muscoli
abbandonati. Sotto la pelle le hanno strappato gli organi che andranno
a Kate e ad altri, gente senza nome, che avrà una seconda
possibilità”23. Anche attraverso il finale sconvolgente e del tutto
22
23
Ivi, Racconta Campbell, 411.
J. PICOULT, op. cit., 419.
420
Vincenza Mele
imprevedibile del libro, appare evidente che Jodi Picoult, non solo
voglia rendere partecipe il lettore delle difficoltà di armonizzare le
ragioni del cuore con quelle della mente, ma che intenda anche offrire
l’interpretazione di tale dicotomia nella storia di Anna, guardando
all’origine della sua nascita, origine che spiega il perché del suo
desiderio ambivalente e della sua tragica fine. Esiste un’aporia di
fondo fra la selezione genetica di un embrione e la sua libertà futura di
scegliere come vivere la propria vita, aporia che, nel caso della
selezione di un donatore allogenico immunocompatibile, determina
inesorabilmente il suo destino futuro.
Anamorfosi del mito.
Il dissacrante nichilismo di Friedrich Dürrenmatt
ANGELA VOTRICO
Non è semplice inserirsi nel nucleo tematico di questo incontro
perché, eredi come siamo della tradizione romantica, saremmo indotti
a proclamare di getto che l’arte non conosce e non può avere limiti e
che ogni espressione artistica che volutamente soggiace a canoni
predefiniti e restrittivi si riduce suo malgrado ad algido manierismo,
schiavo della sanzione della misura. D’altro canto, in un’ottica
genericamente classicista, è dall’assenza di misura che deriva la
sanzione più dura in cui può incorrere l’arte, l’incomunicabilità
causata dal suo essere autoreferenziale. Quindi se l’affermazione
limite dell’arte suona come un ossimoro, altro è esplorare la norma
interna che sovraintende ciascuna singola arte, che le dà una
configurazione ben precisa e riconoscibile tale da instaurare un
dialogo proficuo tra l’artefice e il suo pubblico, attraverso il
messaggio implicito nell’artefatto. Nell’orizzonte della nostra ricerca,
che assume il nomos come cifra ermeneutica, l’arte e il diritto si
affrontano e si confrontano continuamente dialogando, e l’una diventa
la voce narrante o la rappresentazione visiva dei contenuti e delle
dinamiche che l’altro sottintende, un’inesauribile miniera di spunti per
il racconto dell’uomo. Il nomos è regola e prescrizione, orienta
l’azione in vista del buon esito finale, è il principio informatore del
cosmo succeduto al caos. In sua assenza tutto si rimescola, causa ed
effetto non sono più legati da un nesso di necessità, qualsiasi
fenomeno può assumere sembianze le più svariate, poiché non c’è un
punto di osservazione univoco o privilegiato. Lo smarrimento che
deriva dalla perdita di un orizzonte netto e inamovibile è la storia del
nostro tempo, o più realisticamente di tutti i tempi, forse perché un
orizzonte così non è mai esistito, se non dove si incontrano cielo e
mare.
422
Angela Votrico
Alla luce di queste premesse uno scrittore come Friedrich
Dürrenmatt è, a mio avviso, una sintesi compiuta del legame che
unisce arte letteratura e diritto che qui si vuole porre in evidenza; con
intensa e uguale passione praticò infatti per tutta la vita pittura e
scrittura e l’una e l’altra arte ebbero nella sua vasta produzione uno
specifico ruolo di sostegno, di stimolo, di reciproca ispirazione.
Esplicita la sua dichiarazione:
“I miei disegni non sono lavori accessori rispetto alla mia attività letteraria, ma i
campi di battaglia, disegnati e dipinti, su cui si consumano le lotte, le avventure, gli
esperimenti e le sconfitte letterarie”.
E ancora:
“Sulla mia scrivania, vicino al manoscritto, c’è un cartoncino bianco…; la penna
prende a scorrervi fuggevole, in un attimo prende corpo lo schizzo di una città”1.
Per lui “l’arte è un confronto con il mondo”, il pensiero segue il
segno grafico e il tratto si tramuta in lettere e parole, in un’osmosi
continua di immagini e riflessioni. Se il primo, essenziale, comun
denominatore di letteratura e diritto non può che essere il linguaggio e
la sua struttura, Dürrenmatt vi sovrappone raffinate tecniche pittoriche
che oltre a conferire alla narrazione la dinamicità di un disegno
animato, sono funzionali al suo significato simbolico. Entra quindi in
gioco l’anamorfosi, che dà il titolo a queste brevi riflessioni, un
bizzarro gioco prospettico che della prospettiva classica inverte limiti
e principi, “un sotterfugio ottico nel quale l’apparenza eclissa la
realtà”2, di cui lo scrittore si serve per rendere al meglio l’atmosfera
1
Nelle Considerazioni personali sui miei quadri e disegni, F. DÜRRENMATT sottolinea
questa intima connessione tra scrittura e disegno, parlando sempre, anche a proposito di
quest’ultimo, di un senso drammaturgico che lo ispira. “È così che il mio pensiero
drammaturgico, quando scrivo, disegno o dipingo, si sforza ogni volta di trovare forme
figurativamente sempre più definite (…). Ripeto: non sono un pittore. Tecnicamente dipingo
come un bambino. Dipingo per la stessa ragione per cui scrivo: perché penso (…). Anche
quando scrivo non prendo le mosse da un problema ma da immagini, perché all’origine c’è
sempre l’immagine, la situazione – il mondo”.
2
J. BALTRUŠAITIS, Anamorfosi o Thaumaturgus opticus, Milano 1990, 15 e 16.
“L’anamorfosi – parola che compare nel Seicento, benché si riferisca a composizioni già note
da tempo – è un rebus, un mostro, un prodigio (…). Il sistema è articolato con estrema
sapienza: mentre le prospettive accelerate e rallentate squilibrano l’ordine naturale senza
distruggerlo, la prospettiva anamorfica lo annienta, applicando lo stesso principio fino alle
sue estreme conseguenze. Dal suo aspetto portentoso, dalla sua tecnica infallibile e dalla sua
Anamorfosi del mito
423
sospesa in cui operano i suoi personaggi, in continua tensione tra
l’onirico e l’assurdo.
Il paradosso e il grottesco, colorati da pennellate di nichilismo,
sono le tre fonti a cui attinge l’opera letteraria di Friedrich Dürrenmatt
e, come nel gioco delle tre carte egli, da navigato illusionista,
confonde il lettore mescolando gli elementi di continuo, scoprendo ora
l’uno ora l’altro, per cui difficilmente si può stabilire quale di essi
prevalga. Di certo c’è che la frequenza e l’insistenza con cui
Dürrenmatt fa ricorso a tematiche squisitamente giuridiche ne fa un
argomento forte e inoppugnabile per chi, come noi, ritiene che il
legame che unisce la letteratura al diritto non sia sporadico né
occasionale, ma costituisca il nucleo di un campo di interesse che
negli ultimi anni ha acquisito la dignità di una disciplina autonoma.
Basta scorrere titoli e trame delle opere dello scrittore svizzero per
vedere che non c’è romanzo o racconto o pièce teatrale in cui non
venga trattato un tema di giustizia, declinato in tutti i suoi casi. La
prova, il processo e la verità del processo; la pena, la detenzione e la
pena capitale; la vendetta e la giustizia sommaria; l’indagine, la
testimonianza, vera o falsa, la delazione e via via fino a lambire le
strutture giuridiche fondanti, quelle che comunemente sono indicate
come norme universali di diritto naturale che segnano il passaggio
dalla natura alla cultura, trasversali nel tempo e nello spazio: il tabù
dell’incesto, l’esogamia, l’esoclastia, e poi ancora l’omicidio
fondativo e il sacrificio del capro espiatorio.
Ma la Giustizia di Dürrenmatt è come la sua vecchia Pitia, bizzarra,
trasandata ed esausta, con un solo grande desiderio: morire, sparire,
essere dimenticata e, soprattutto, mandare tutto alla malora, senza più
pesi né responsabilità, che gli uomini, quei miserabili esseri appesi al
suo giudizio come foglie ingiallite tenacemente attaccate a rami
rinsecchiti, si arrangino finalmente da soli. Quando capiranno che la
apertura a ogni variazione filosofica e poetica nasce la perennità e la potenza del suo fascino.
Fra gli altri, Shakespeare, Galileo, Jefferson ed Edgar Poe ne attestano l’influenza e la
diffusione”. Anche Jacques Lacan nel saggio Lo sguardo come oggetto a, utilizza uno degli
esempi più celebri di prospettiva anamorfica, il quadro Gli ambasciatori di Holbein, per
concludere che “nel cuore stesso dell’epoca in cui si delinea il soggetto e si cerca l’ottica
geometrale, Holbein rende qui visibile qualcosa che non è altro che il soggetto come
annientato – annientato in una forma che, propriamente parlando, è l’incarnazione fatta
immagine del (-f) della castrazione, che per noi orienta tutta l’organizzazione dei desideri
attraverso il quadro delle pulsioni fondamentali” (cfr. J. LACAN, Il seminario. Libro XI,
Torino 2003, 87).
424
Angela Votrico
pacchia è finita perché nessuno sarà più disposto a prendersi in carico
le loro risibili questioni, varianti tutte le più articolate, dell’unico tema
portante del genere umano, la sete di potere, allora la necessità acuirà
il loro ingegno, di cui peraltro gli uomini non sono affatto privi.
Elaboreranno nuove strategie, percorreranno forse strade diverse
dall’unica regina viarum dell’incomunicabilità, smetteranno
comunque di reclamare vanamente giustizia, quasi questa fosse la
panacea di tutti i mali. Dal canto suo la Giustizia, sacerdotessa
custode del logos divino o, piuttosto, abile millantatrice di un ruolo
che non è alla sua altezza, abbandonerà il campo, stanca di lottare con
il suo alter ego, la Vendetta, stanca di pagare un tributo altissimo al
padre-padrone di tutte le cose, il Caso.
Dürrenmatt centra il problema; se il nostro mondo ha una regola è
quella di non avere regole, e il caso lo domina completamente. Nel
microcosmo, l’uomo singolo, fluttuante in balia di tyche. Nel
macrocosmo, la storia, il destino dell’umanità intera e perché no? gli
stessi dei. Basta una frase, un incontro, essere lì piuttosto che altrove,
perché una vita muti il suo corso, e la storia non sia più quella che
conosciamo. Ad esempio se l’ultimo imperatore di Roma, quel
Romolo Augustolo ribattezzato da Dürrenmatt Romolo il Grande,
anziché ergersi a giustiziere e perseguire con meticolosità il piano di
distruzione di un impero sanguinario e corrotto, fosse venuto a più
miti consigli accettando i consueti compromessi che sono alla base del
potere, la storia dell’Europa e dell’Occidente sarebbe stata forse
diversa. O forse anche no, perché ogni dominio, come quello di
Roma, sceglie la violenza e la tirannide disonorando se stesso e i
popoli che vi si affidano.
Ma è sul mito che lo scrittore svizzero costruisce di preferenza il
suo gioco prospettico, inventando anamorfosi letterarie che hanno il
gusto sapido della commedia dell’arte e quell’ironia dissacrante, di
chiara matrice socratica che, attraverso il metodo dialogico, permette
la compresenza di punti di vista opposti. Il mito ha un valore
archetipico, richiama alla mente figure ancestrali, è servito e serve
tuttora agli uomini per spiegare la natura e i sentimenti, il mistero
della vita e della morte. Atlante che regge sulle spalle il mondo, così
come ogni uomo è schiacciato sotto il peso del suo mondo; Sisifo che
spinge su per la montagna quel masso che immancabilmente rotolerà
giù di nuovo, per vendetta degli dei, o forse per vendicarsi lui stesso
degli dei. Il Minotauro che vive beato nel suo labirinto, la forma
Anamorfosi del mito
425
dell’insensato, confortato, coccolato e divertito da tanti, infiniti se
stesso che si riflettono negli specchi restituendogli l’illusione di
un’alterità indistinta3. E poi c’è Edipo, l’uomo che, al pari di Adamo,
determina la caduta condannando sé e la sua discendenza alla notte
eterna. Egli “viola la legge fondamentale, la legge primordiale, quella
in cui incomincia la cultura in quanto si contrappone alla natura, la
legge dell’interdizione dell’incesto” e “il divieto dell’incesto non è
altro che la condizione affinché la parola sussista”4. La colpa è
enorme, la responsabilità gravissima, le conseguenze inaudite e
inimmaginabili: ma se tutto fosse nato per gioco, o per semplice
incuria, Edipo sarebbe alla fine colpevole? E soprattutto, come si sono
svolti realmente i fatti? Ogni parte in causa nella vicenda ha la propria
verità da esporre e il fatto, quasi banale nella sua atrocità, uccisione
del padre e successivo incesto con la madre, può divenire un gioco a
incastro di menzogne, equivoci e smentite che rimettono tutto in
discussione per arrivare ad affermare l’unica verità certa, che la verità
non esiste e che tutti alla fine vengono assolti per mancanza di prove.
Ne La morte della Pizia, Dürrenmatt gioca con la legge naturale e con
il mito principe della post-modernità che fa soccombere l’uomo al suo
subconscio.
Come tutti i rampolli dell’aristocrazia greca il giovane Edipo affida
all’oracolo delfico la previsione del suo futuro, ma soprattutto la
conoscenza del suo passato che di quello è la causa diretta. Come di
consueto, Edipo arriva al tramonto, quando i battenti del tempio
stanno per chiudersi. Pannychis XI, l’anziana Pizia del momento,
accoglie di malumore quel ragazzo pallido e claudicante, irritata per
l’imprevisto lavoro fuori orario massimo. Ascolta annoiata le solite
domande, su chi come e quando ha dato luogo alla sua origine, poi per
liberarsi in fretta del seccatore e vendicarsi per la seccatura, dice la
3
J. LACAN ne L’amor cortese sotto forma di anamorfosi, a proposito della funzione dello
specchio, sottolinea come esso “può implicare i meccanismi del narcisismo (…). Ma svolge
anche un altro ruolo – un ruolo di limite. È ciò che non si può superare. E l’organizzazione
dell’inaccessibilità dell’oggetto è appunto l’unica a cui partecipa” (cfr. ID., Il seminario.
Libro VII, Torino 2008, 179).
4
J. LACAN, op.ult.cit.,78-81. “Il desiderio per la madre non può essere soddisfatto perché
sarebbe la fine, il termine, l’abolizione di tutto l’universo della domanda, che è quello che
struttura più profondamente l’inconscio dell’uomo. Proprio in quanto la funzione del
principio del piacere è di far sì che l’uomo cerchi sempre ciò che deve ritrovare, ma che non
può tuttavia raggiungere, l’essenziale sta proprio qui, in questo impulso, in questo rapporto
che si chiama legge dell’interdizione dell’incesto”.
426
Angela Votrico
prima cosa astrusa che le viene in mente, rendendosi conto lei stessa
di averla sparata davvero grossa questa volta, “perché nessuno al
mondo può ammazzare il proprio padre e andare a letto con la propria
madre”5. Tant’è, gli anni passano e quando Edipo e la Pizia si trovano
di nuovo uno di fronte all’altra, il destino si è ormai compiuto,
assurdamente identico a quella profezia da maga da quattro soldi da
lei pronunciata in un momento di stizza. Di nuovo siamo al tramonto,
del sole e delle vite dei protagonisti. Pannychis XI ha un solo
desiderio, morire con dignità e farla finalmente finita con tutte quelle
astruse vicende di dei, semidei ed eroi che servivano solo a ingannare
i babbei per favorire i furbi al potere, un meccanismo di corruzione
sempre più complessa e diffusa che faceva capo a Tiresia, l’indovino
finto-cieco vecchio di sette generazioni, ma di cui lei, poco più di una
pedina, era comunque connivente. Anche il caso di quell’Edipo
rientrava di sicuro in qualche trama politica di bassa lega, ma qui la
cosa straordinaria era che tutto aveva avuto origine da uno scherzo di
cattivo gusto, senza alcun mandante. E il fatto, in sé paradossale e
grottesco, doveva avere un’importanza particolare che non le era del
tutto chiara, ma che evidentemente in fondo le provocava inquietudine
tanto che, proprio in punto di morte, si vede scorrere davanti tutti i
protagonisti della vicenda, Creonte, Meneceo, Laio, Giocasta, lo
stesso Edipo e da ultima la Sfinge, ombre querule o furenti, ognuna
con una versione diversa della storia, contraddittoria ma convincente
se presa singolarmente, se osservata da quell’unico punto prospettico
che ne delinea i contorni6. “Meccanismo visionario, l’anamorfosi lo è
anche nel campo della ragione”7; a dimostrazione che in assenza di
5
F. DÜRRENMATT, La morte della Pizia, Milano 1989, 10.
A proposito di questo racconto Eugenio Spedicato osserva: “nella Morte della Pizia la
separatezza tra logica e verità si realizza nella paradossalità di un regressus ad infinitum, di
un affiorare continuo di possibilità di verità che nel medesimo istante possono essere
possibilità di menzogna, un meccanismo che riconosciamo anche in Kafka e Borges. Il
problema interpretativo che molti testi di questo grande scrittore pongono è proprio quello
della ricostruzione ermeneutica delle verità illogiche in essi disseminate. Il paradosso si rivela
così, con la sua vocazione a superare le rigide opposizioni, a preferire al ‘né, né’ il ‘sia, sia’,
come uno scandalo fecondo, capace di superare le strettoie del pensiero, invitandoci a
interrogare ragionamenti e comportamenti senza cadere in falsi superamenti, affini
pericolosamente al dogmatismo” (cfr. Friedrich Dürrenmatt e l’esperienza della
paradossalità, a cura di E. Spedicato, Pisa 2004, 9).
7
Ricorro ancora una volta alle parole di J BALTRUŠATIS per sottolineare il significato
estensivo dell’anamorfosi: “Tutte le combinazioni anamorfiche, che fanno apparire e
scomparire le figure mediante dilatazioni e correzioni ottiche, sono una dimostrazione
6
Anamorfosi del mito
427
regole anche la logica, quella euclidea o aristotelica che Dürrenmatt
palesemente non condivide, cede il passo davanti al caso e anche i
giudizi vero e falso non sono giudizi sulla realtà, ma solo su
collegamenti interni al sistema della lingua, per cui anche la lingua
può essere sorella della menzogna8.
Nel momento solenne della morte, pregustato dalla Pizia con
piacere, Tiresia le è accanto, anch’egli giunto alla fine
dell’interminabile esistenza. L’era dei maghi si chiude con Dedalo e
con il suo sogno di sfidare la legge di natura; l’indovino e la
profetessa sono stati entrambi protagonisti e testimoni di un tempo
che si è concluso. Per questo Tiresia invita Pannychis a non farsi più
domande:
“Lascia perdere, vecchia, non preoccuparti di ciò che può essere stato diverso da
come ce l’hanno raccontato e che non smetterà di cambiare faccia se noi
continueremo a indagare. Smettila di scervellarti su queste cose se non vuoi che
sorgano altre ombre a impedirti di morire”.
Consapevoli che un’unica verità non esiste, tuttavia si sono sempre
sforzati di cercarla9, anche se la ricerca si conclude con una resa. È
Tiresia a tirare le somme:
“La verità resiste in quanto tale soltanto se non la si tormenta. Dimentica le
vecchie storie, Pannychis, non hanno alcuna importanza, in questa grande babilonia
siamo noi i veri protagonisti. Noi due ci siamo trovati di fronte alla stessa mostruosa
realtà, la quale è impenetrabile non meno dell’essere umano che ne è l’artefice.
Forse gli dei, ammesso che esistano, potrebbero godere dall’alto di una certa visione
d’insieme, sia pure superficiale, di questo nodo immane di accadimenti inverosimili
che danno luogo, nelle loro intricatissime connessioni, alle coincidenze più
scellerate, mentre noi mortali che ci troviamo nel mezzo di un simile tremendo
scompiglio brancoliamo disperatamente nel buio. Con i nostri oracoli sia tu sia io
geometrica della loro falsità. Talvolta è semplicemente un gioco del’ingegno, che confina
però con la magia e con l’arte di evocare gli spettri” (op. cit., 130-131).
8
È quanto afferma lo stesso DÜRRENMATT nel saggio Fuga di pensieri.
9
Devo precisare, per amor di completezza, che nei panni del nichilista Dürrenmatt si è
sempre sentito stretto. D’altronde in suo continuo oscillare tra l’affermazione che non esiste
verità e la necessità di adoprarsi per trovarla, giustifica in parte il suo rifiuto della patente di
nichilista. Nella conferenza Questioni di teatro egli così si difendeva: “Noi scrittori ci
sentiamo spesso rimproverare che la nostra arte è nichilista. Ora, esiste effettivamente un’arte
nichilista oggi, ma non è nichilista tutto quello che ne ha l’apparenza. La vera letteratura
nichilista non ne ha proprio l’aria, anzi, in genere gode fama di essere particolarmente umana
e viene caldamente raccomandata al lettore. Un nichilista che si faccia riconoscere come tale
deve essere proprio un inetto. Per nichilista passa invece ciò che è scomodo”.
428
Angela Votrico
abbiamo sperato di portare la timida parvenza di un ordine, il tenue presagio di una
qualche legittimità nel truce, lussurioso e spesso sanguinoso flusso di eventi dai
quali siamo stati travolti proprio perché ci sforzavamo di arginarli, sia pure soltanto
un poco”10.
10
F. DÜRRENMATT, La morte della Pizia, cit., 65.
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