La Trilogia di Lilac Libro Primo PERFETTO Alessia Esse

Transcript

La Trilogia di Lilac Libro Primo PERFETTO Alessia Esse
La Trilogia di Lilac
Libro Primo
PERFETTO
Alessia Esse
Testo: ©2012 Alessia Esse. Tutti i diritti riservati.
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta con alcun mezzo o trasmessa ad altri, né in
formato cartaceo né elettronico, né per denaro né a titolo gratuito, senza l’autorizzazione scritta di
Alessia Esse.
Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi, gli avvenimenti e i luoghi – ad eccezione
di ciò che è da tutti riconoscibile - sono un prodotto dell’immaginazione dell’autrice.
Nessuno dei personaggi del libro è esistente. Ogni somiglianza
a persone viventi o defunte è puramente casuale.
Immagine in copertina: ©2012 Bahman Farzad
Elaborazione grafica: Valentina Cormaci
Ideazione e testi: Alessia Esse
A mia madre,
per avermi insegnato le due cose
più importanti per una donna:
leggere e scrivere.
“Chi controlla il passato controlla il futuro.
Chi controlla il presente controlla il passato.”
George Orwell, 1984
1
Inizio
“Baguette, mi ascolti?”
In piedi, di fronte al letto su cui la mia migliore amica è sdraiata a guardare il soffitto, cerco di
attirare di nuovo la sua attenzione.
“Sì, Lilac. Ti ascolto.”
Sbatte le palpebre due volte prima di sollevarsi, dapprima sui gomiti e poi per intero. Ha i capelli
biondi e gli occhi azzurri di sua madre. E’ alta e magra come uno sfilatino di pane, da qui il suo soprannome.
E’ stata lei stessa ad affibbiarselo in prima elementare. Eravamo compagne di banco, ma fino alla
lezione sui cibi non più in uso non avevamo ancora legato e ricordo ancora perché: lei era terribil mente disordinata. Quel giorno, però, durante la lezione dedicata al pane e alla pasta, Margot (è
questo il suo vero nome) indicò il suo tablet con il dito indice e, sussurrando, mi disse: “Questo pezzo di pane mi somiglia. E’ sottile, francese e simpatico, come me. Da oggi mi farò chiamare Baguette.” Il suo tono serio e solenne mi fece ridere. Da quel giorno tutti esaudirono il suo desiderio e,
soprattutto, noi diventammo amiche.
“Hai tutta la mia attenzione,” dice ora Baguette. “Non vedo l’ora di ascoltare il tuo discorso. Dopotutto quante volte l’hai già riletto: cinquecento? Cinquecentonovanta?”
“Sai che per me è importante,” rispondo. “Si tratta del diploma. E poi ho apportato delle modifiche. Voglio il tuo parere.”
“D’accordo, d’accordo. Hai solo mezzora, però. La Vecchia mi aspetta alle cinque.”
“Va bene. Mettiti comoda. Comincio.” Faccio un grosso respiro e abbasso gli occhi sul tablet.
“Insegnanti. Colleghe. Famiglie. Presidentessa Vega. E’ a voi che mi rivolgo oggi, in un giorno importante per tutte noi. E’ a voi che voglio dire grazie. Quando ho scelto di studiare Storia Moderna,
l’ho fatto in nome di quella curiosità che mi ha guidata fin da bambina, una curiosità che mia nonna
ha incoraggiato e nutrito. In questi cinque anni ho avuto modo di ampliare le mie conoscenze con la
stessa sete di sapere che avevo da piccola, quando me ne stavo sulle panchine del parco a sfogliare
libri di Storia invece di giocare con le altre bambine. In un certo senso mi dispiace essere arrivata
alla fine del mio percorso. Sono felice di aver raggiunto questo importante traguardo, ma oggi, assieme alla gioia, avverto anche un pizzico di nostalgia. So che questo diploma è un nuovo inizio,
una nuova avventura, e sono pronta ad affrontare ciò che il futuro ha in serbo per me. Non posso
fare a meno di ripensare a ciò che ero cinque anni fa e a ciò che sono oggi. Il liceo di Malorai mi ha
permesso di arricchirmi non solo da un punto di vista culturale, ma anche umano, morale. Sono cresciuta grazie ai libri, alle mappe, agli esami. Il mio primo Grazie, quindi, va alle mie insegnanti e
alle mie colleghe. Ero una bambina piena di domande quando mi avete accolta nelle vostre classi:
grazie a voi sono diventata una donna.”
Alzo gli occhi dal tablet e incrocio quelli di Baguette. La sua espressione è molto eloquente.
“Hai detto di aver apportato delle modifiche. Questo pezzo è uguale all’ultima volta che me l’hai
letto, ovvero ieri pomeriggio.”
“Le modifiche arrivano ora. Ho dovuto leggere anche questa parte per farti entrare in sintonia
con l’argomento.”
“Oh, certo. E’ proprio quello che ti avevo chiesto.”
“Sii felice per me!” esclamo, picchiando la mano sui fianchi con esasperazione.
Baguette mi sorride. “Lo sono, Lilac. Lo sarei di più se fossimo alla fine del discorso invece che
all’inizio,” dice sollevando le sopracciglia sottili. Il suo viso si distende quando aggiunge: “Avanti,
continua.”
Fingo un inchino di ringraziamento prima di riprendere.
“Grazie a te, nonna, per avermi regalato non le risposte bensì le domande. Ho studiato e continuerò a studiare per rispondere ai quesiti più belli che tu mi hai dato, usando la Storia Moderna
come bussola. Sono di parte, è vero, ma sei la famiglia migliore che potesse capitarmi di avere.”
Stavolta, quando alzo gli occhi sul viso della mia amica, la trovo sorridente. “Ti piace questa parte?
Ho cambiato il ringraziamento per la nonna. Ho pensato che-”
“Ho notato,” risponde subito. “Francesca piangerà.”
“Chi, mia nonna? Impossibile.”
“Sei la sua unica nipote, ti ha fatto da madre. Ti adora, e domani si commuoverà quando la ringrazierai davanti a tutti con quelle parole. Fidati.”
Per un attimo mi sembra di avvertire nelle sue parole un velo di tristezza. Baguette ha scelto di
non diplomarsi, limitandosi ai corsi di Cultura Generale dopo le Scuole di Base, e iniziando a lavorare subito dopo. Sua madre è morta quando ha provato ad avere una seconda figlia, sei anni fa. Ora
Baguette si occupa delle donne anziane di Malorai. Le assiste materialmente, facendo per loro commissioni o lavori in casa.
“Avresti potuto esserci anche tu, domani, su quel palco,” dico. “Se solo avessi deciso di continuare a studiare.”
Baguette alza gli occhi al cielo. “Ecco la predica. Pensavo non arrivasse più.” Sospira e si alza in
piedi. “Studiare non avrebbe cambiato nulla, lo sai. Mia madre è morta, e io devo lavorare per vivere. E poi la scuola è noiosa. Tutte quelle lezioni, tutti quegli esami. A me piace apprendere sul campo, studiare dai libri. Quelli veri,” aggiunge indicando il mio tablet. “Non quelli elettronici.” Mi
passa accanto e va all’armadio. Ne apre le ante e inizia a rovistare fra i vestiti. “Lo sai che una volta
si usavano gli alberi per fare i libri? Era un processo così affascinante; immagina come-”
“Baguette.”
“Va bene, va bene. Fammi sentire il resto,” dice, sollevando le mani in un gesto esasperato. “Non
vedo l’ora che arrivi la parte in cui dichiari il tuo amore per Vega G.” Si volta verso di me e sospira
con fare teatrale.
“Smettila,” dico allargando gli occhi. “Perché devi sempre prenderla in giro? E’ la Presidentessa,
e ci onorerà della sua presenza.”
Un altro sospiro teatrale. “Sarà anche la nostra Presidentessa, ma io non la sopporto. Sembra una
statua, e neppure una di quelle vecchie statue italiane, hai presente? Le statue italiane erano le migliori, con tutto quel marmo, tutta quella perfezione nei dettagli. Vega G sembra una brutta statua
insopportabile fabbricata con materiale scadente. A volte mi chiedo cosa ci trovi di tanto bello la
gente in lei.”
Stavolta sono io ad alzare gli occhi al cielo. “Se ascoltassi il mio ultimo ringraziamento potresti
capirlo. L’ho dedicato a lei.”
Baguette mi fa segno di procedere, iniziando a spogliarsi per indossare un paio di pantaloni e una
camicetta.
Vega G, la Presidentessa dell’USP, non è solita partecipare alle cerimonie di consegna dei diplomi. Ha deciso di presenziare alla mia solo due giorni fa, ed è per questo che ho sentito il bisogno di
cambiare parte del discorso. Ho scelto le mie parole per lei con estrema cura.
“Il mio ultimo ringraziamento,” dico, riprendendo a leggere, “è per la nostra Presidentessa, che
ha scelto di farci visita in questo giorno così importante. Averla qui oggi non è soltanto un onore,
ma anche un piacere immenso. Voglio approfittare di quest’occasione, infatti, per riassumere il pensiero delle donne presenti. L’USP ha permesso al mondo di risorgere e lei, Presidentessa, con la sua
tenacia e la sua forza, ha reso il nostro pianeta un luogo felice dopo l’abisso causato dalla Sindrome.”
“Vuoi parlare della Sindrome?” chiede Baguette. Mi guarda con gli occhi pieni di meraviglia
mentre infila i piedi nelle scarpe. “Tu, Lilac Zinna, paladina delle regole, sei pronta a citare la Sindrome? Ne sei sicura?”
“Voglio farlo solo per arrivare al punto,” rispondo. “Non intendo scendere nel dettaglio.” Parlare
di quei tre mesi è proibito, e violare una delle direttive in presenza di Vega G equivale a commettere
un reato. So di correre un rischio nel portare a galla la Sindrome, ma si tratta di una sola frase, di
una sola parola.
“D’accordo,” risponde Baguette, scrollando le spalle. “Sei tu l'esperta delle regole. Continua,”
aggiunge. “Hai soltanto dieci minuti.”
“Voglio ringraziarla, Presidentessa, per aver guidato la Terra, e in particolare l’Europa. Per aver
dato speranza e conforto a chi li aveva persi. Per aver lenito il dolore con la luce, con il benessere e
con il progresso. Per aver lasciato aperte le porte di quella meravigliosa casa il cui nome è Scienza,
senza la quale noi tutte non saremmo qui, adesso. Grazie, Presidentessa, per avere ancora oggi, il
desiderio di guidarci e assisterci. Grazie a lei, e grazie all’USP.” Cerco subito gli occhi di Baguette
dopo aver letto l'ultima parola. “Cosa ne pensi?” chiedo, stringendo il tablet al petto. “Sii spietata,
ho bisogno del tuo parere.”
“E’ un bel discorso,” dice mentre chiude le ante dell'armadio. “Il ringraziamento a Vega G rientra
perfettamente in ciò che lei e le insegnanti si aspettano dall’oratrice ufficiale della cerimonia: un’acclamazione alla divina salvatrice di noi povere anime in pena.” Mi passa accanto, scompigliandomi
i capelli quando le lancio un’occhiata. “Non prendertela. E’ un bel discorso, davvero, ma sai bene
cosa penso di quella donna.”
“Secondo me passi troppo tempo con la Vecchia,” borbotto. “Le sue idee sovversive ti danno al
cervello.”
Nell'ultimo anno Baguette è diventata molto polemica nei confronti di Vega G. Lì dove io vedo
una donna coraggiosa, lei vede una donna fredda e priva di emozioni. Credo che le sue convinzioni
siano influenzate dalle parole di Rose Johnson, una delle anziane di cui si prende cura, che detesta
la Presidentessa e tutte le donne che fanno parte del governo.
“Rose non ha idee sovversive,” dice Baguette, uscendo dalla stanza. Le vado dietro dopo aver infilato il tablet nello zaino.
Il suo appartamento è lo stesso in cui sua madre ha vissuto fino a sei anni fa. E’ grazioso, anche
se piccolo, e Baguette se ne occupa con dedizione. La morte di Juliette ha azzerato il suo senso del
disordine.
“Le sue sono idee diverse da quelle degli altri, tutto qui,” dice quando ci infiliamo nella mia biposto.
“Ora la chiami Rose,” scherzo. “Siete diventate amiche.” Metto in moto, guardo Baguette sorridere. Tiriamo fuori la lingua per farci una smorfia nello stesso momento.
La casa della signora Johnson si trova nella parte orientale di Malorai, ed è poco lontana dalla
mia. Nonostante siamo in montagna, l’aria è tiepida, anche in inverno. I colori che ci circondano
sono il verde dei prati, l’azzurro del cielo e il rosa e l’arancione dei fiori. Malorai conta poche centinaia di donne, ed è un luogo sicuro e tranquillo.
La casa di Rose è simile alle altre che popolano il largo viale del nostro quartiere. Due piani, un
piccolo giardino immacolato, il vialetto di cemento e un garage pieno di oggetti proibiti tanto cari a
Baguette. E proprio uno degli oggetti in questione si trova ora fra le sue mani. Me ne rendo conto
quando parcheggio nel vialetto e spengo il motore della biposto. Si tratta di un lettore mp3. Una
volta si usavano per ascoltare musica.
“Non guardarmi in quel modo,” dice Baguette, infilando gli auricolari bianchi nelle orecchie.
Muove le dita sull'aggeggio, e il display prende vita. Non ho idea di come funzioni. Potrei chiederglielo, ma il timore di violare le regole mi frena.
“Che cosa stai ascoltando?” chiedo in un sussurro. Il viale è vuoto, nessuno può vederci, ma mi
sento ugualmente ansiosa.
Baguette prende uno degli auricolari e me lo porge. “Frank Sinatra,” risponde tranquilla. “Tieni.”
“No,” esclamo. “E' vietato. Non puoi ascoltare un cantante, per di più utilizzando un oggetto
proibito!” Mi guardo attorno rapidamente, come se le guardie potessero arrivare da un momento all’altro. “Mettilo via, ti prego.”
Baguette non si scompone. Infila nell'orecchio l’auricolare che voleva dare a me. “Calmati, Lilac, o ti verrà una crisi. Si tratta solo di musica. Dovresti ascoltarla, ogni tanto.”
“Io ascolto parecchia musica. Ogni settimana vado da Jeanette, al Musica Per Tutte. Dovresti venirci anche tu, invece di-”
“Quella da Jeanette non è musica,” ribatte lei facendo una smorfia. “Questa è vera musica.” Agita il lettore mp3 sotto il mio naso. “Puoi ascoltarla come e quando vuoi, e ti rende felice, a differen za delle canzoni monotone di Jeanette. Le canta tutte lei! Qual è la differenza fra un brano e l’altro?
Ascolta questa, invece.” Si libera dell’auricolare e prova a passarmelo di nuovo, ma non ci riesce.
Chiudo i palmi delle mani sulle orecchie e scuoto il capo.
“Non voglio violare le regole, lo sai. Non ho mai detto a nessuno delle tue violazioni, però non
costringermi a partecipare.”
Baguette deve rendersi conto del mio timore, perché il suo sguardo cambia. Da divertito, diventa
serio. Preme un tasto sul lettore e si libera delle piccole cuffie. Abbassa gli occhi e resta in silenzio
per un lungo momento.
Poi mi guarda. “Ci pensi mai?” chiede. “Ci pensi mai a com’era prima il mondo, quando esistevano anche i maschi?”
“C’erano sette miliardi di persone,” è la prima cosa che dico. “Sette miliardi.”
Il numero mi ha sempre fatto girare la testa. Oggi il mondo è popolato da un miliardo di donne,
secondo le stime più ottimiste. In Francia ne vivono poco più di otto milioni.
“Gran parte della popolazione era concentrata ad est, in Cina e in India. Si parlava addirittura del
pericolo di sovrappopolazione.” Penso ai dati sull'evoluzione che ho studiato negli ultimi cinque
anni e agli esami di Storia Pre-Moderna.
Baguette scuote il capo. “Non parlo di questo. Non parlo dei numeri e delle statistiche. Ci pensi
mai a come si viveva? Alla vita, intendo. La vita quotidiana. Pensi mai a com'era una giornata-tipo
cinquant'anni fa?”
“No,” rispondo senza guardarla negli occhi. “Non riesco a pensarci, perché non c’ero. Non so
nulla di quei tempi.” Tranne ciò che ho letto sui libri, ovvero poco, visto che tanti argomenti sono
stati censurati dall'USP perché strettamente legati al sesso maschile. Le mie conoscenze si limitano
ai dati e alle informazioni che ho appreso a scuola. Non ho molte testimonianze dirette di quei tempi, e Baguette sa perché.
“Perché Francesca non ti racconta mai nulla?” mi chiede, facendo una domanda vecchia come il
Sole.
“Lo sai,” mormoro. “La nonna ha perso tutta la sua famiglia a causa della Sindrome. Non ama
parlarne. Mi ha sempre detto che riferirsi a quei giorni è sconsigliato, oltre che proibito.”
“La Vecchia ne parla sempre,” dice Baguette, spostando una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Mi parla della musica, dei film. Mi parla degli sport praticati dai maschi. Lo sai che ne esisteva
uno chiamato boxe? Due uomini si davano a pugni in un recinto fino a che uno di loro non cadeva a
terra.”
“Mi sembra assurdo.”
“E’ vero. La Vecchia mi ha mostrato un video. Mi ha anche fatto vedere un concerto. Lo sapevi
che prima i cantanti si riunivano in un luogo all’aperto e chi voleva ascoltarli poteva farlo in quel
modo? La chiamavano musica dal vivo. Senza fare la fila da Jeanette, senza infilare quello stupido
casco e rimanere seduti. Durante i concerti la gente ballava e cantava. Ho visto un video in cui-”
“Baguette, basta,” dico a voce alta. Talmente alta che lei allarga gli occhi. “E’ inutile parlarne. E’
inutile ricordare il passato che non c’è più. E’ doloroso e vietato. Dovresti fare più attenzione.”
“Non c’è nulla di male nel ricordare, Lilac. Tu più di tutti dovresti saperlo. Hai studiato Storia,
accidenti. Non è quello che fate, voi studiosi di storia? Parlare del passato, parlare delle cose che
non esistono più.”
“Parlare dei maschi è vietato per legge.”
“D’accordo, d’accordo,” dice sospirando. “Lungi da me volerti trasformare in una fuorilegge.”
Infila il lettore nella borsa e si prepara a scendere dalla biposto. Prima di aprire la portiera, però, si
gira verso di me e sorride. “Sono ancora la tua Baguette, vero? Anche se ascolto musica vietata?”
“Certo che lo sei. Lo sei e lo sarai sempre, ed è per questo che vorrei fossi più attenta. Le guardie
potrebbero scoprirti e-”
“Tranquilla,” dice, liquidando le mie parole con un gesto della mano. “Nessuno mi scoprirà.”
2
Un Giorno Importante
A separare la casa della signora Johnson da quella in cui io e la nonna viviamo ci sono solo due
grandi ville, quella del sindaco di Malorai, la signora Jamal, e quella dell’unica avvocatessa della
città, Marina Monroe.
La nostra casa conta due piani, un grande giardino che affaccia sulla strada e uno più piccolo sul
retro, un garage spazioso che contiene le nostre due auto, e un locale adiacente al garage che per
quasi trent’anni è stato la farmacia della nonna. Quando lei ha deciso di ritirarsi, la nuova farmacia
di Malorai ha aperto accanto alla casa della dottoressa Juri.
Il nostro quartiere, come ogni quartiere di ogni città al mondo, è molto tranquillo. Una volta, nelle strade si potevano ascoltare diversi rumori: clacson, voci, cartelloni pubblicitari parlanti. Esistevano persone che si sedevano sui marciapiedi e chiedevano denaro ai pedoni, oppure si esibivano
cantando, ballando, suonando uno strumento. Oggi le strade sono popolate dalle biposto, dalle donne che camminano e da quelle che corrono per tenersi in forma con lo sport, invece che con le pillole. Non c’è traffico, non ci sono incidenti, non ci sono lavori stradali.
Parcheggio la biposto nel vialetto, davanti al garage. La nonna se ne sta in ginocchio davanti ad
una delle aiuole, e alza la testa quando apro lo sportello.
Le piace occuparsi del giardino. Dice che la rilassa. Più volte ha cercato di trascinarmi nella sua
passione, ma non ci è mai riuscita. A me piace studiare. Perdermi nella Storia Moderna, nelle Lingue Dimenticate, nelle mappe dei paesi che non esistono più. La cura del giardino non ha mai attirato la mia attenzione, forse perché nella maggior parte dei casi si tratta di maneggiare piante e fiori
artificiali. La nonna è una delle poche, qui a Malorai, ad usare fiori veri, naturali. Il resto delle donne che coltiva un giardino non fa altro che infilare nel terreno piante finte che non dovranno mai essere innaffiate, concimate, potate.
“Bambina, bentornata. Giusto in tempo per aiutarmi con queste calendule.”
“Devo proprio?” chiedo, fingendomi annoiata.
“Non hai scelta,” risponde con un ghigno divertito.
Ci somigliamo, noi due. Gli stessi capelli rossi, lisci e sottili; i suoi, però, sono più corti dei miei,
e una frangia disordinata le nasconde la fronte. Le stesse lentiggini sul viso, anche se le sue iniziano
ad appassire a causa dell’età. Lo stesso fisico asciutto e scattante. L’unica differenza sta nel colore
degli occhi. I suoi sono verdi. I miei, invece, sono marroni, simili alla terra bagnata. Sono gli occhi
di mia madre.
“Voglio provare questi semi. Sono arrivati oggi,” dice, mostrandomi una bustina bianca. “Ho già
mescolato la terra al terriccio artificiale, non dobbiamo fare altro che procedere con la semina.”
“E quanti anni passeranno prima di veder sbocciare qualcosa?” chiedo mentre la nonna fa cadere
nel mio palmo i semi.
“Solo pochi mesi, spiritosetta. Non devi fare altro che sistemarli come sto facendo io e coprirli
col terreno.”
Imito i suoi movimenti, rispettando la distanza che lei mi indica.
“La calendula non è solo un bel fiore,” dice mentre copre i semi con precisione. “Il suo decotto è
molto utile per rendere la pelle liscia e tonica.”
“Per quello ci sono le pillole,” ribatto, e quando lei scuote il capo aggiungo: “Mi dispiace, nonna.
So che adori il giardinaggio, ma io proprio non riesco a farmelo piacere. Che senso ha piantare un
seme e aspettare che cresca, quando puoi ottenere lo stesso risultato con una pianta artificiale?”
La nonna resta in silenzio per qualche istante. Pulisce le mani sporche di terra strofinandole su
un panno. Quando lo passa a me, il sorriso sul suo viso è quello di chi sa qualcosa che io non so.
“Seminare un fiore equivale a seminare una vita, Lilac. Attendere che nasca, dare l'acqua al terreno, togliere le erbacce che possono pregiudicarne la crescita: tutte queste accortezze vogliono dire
occuparsi di quella vita. Veder sbocciare il fiore, poi, è il momento più bello, il momento in cui la
vita sorge dalla terra. Il giardinaggio è qualcosa che va oltre la semplice estetica, bambina. E i fiori
artificiali sono privi di tutta la poesia che ti ho appena descritto.”
Rifletto sulle sue parole per qualche secondo, e forse posso comprendere un po' di più la sua passione. Forse.
“Vieni,” dice. “Passiamo a quest'altra aiuola.”
L'aiuto a spostare gli attrezzi, e mi inginocchio di nuovo per continuare la semina.
“Ti ho vista accompagnare Baguette a casa della signora Johnson,” dice mentre sistema il terreno. “Si trova bene con lei?”
“Molto,” rispondo. “Credo che le piaccia fin troppo lavorare per Rose.”
La nonna unisce le labbra in una linea sottile, ma non smette di guardare il terreno. “Baguette dovrebbe stare attenta,” dice sottovoce. “Lavorare per quella donna potrebbe rivelarsi pericoloso se,
oltre a prendersi cura di lei, iniziasse a prendersi cura anche dei suoi oggetti proibiti.”
Ogni donna di Malorai sa che La Vecchia possiede un museo dell'illegale. Nessuna sa, però, perché le guardie non le abbiano mai requisito tutto.
“Non preoccuparti, nonna. Cercherò di farle capire che deve rispettare le direttive. Almeno in
pubblico.”
“Brava,” dice con un sorriso. “Ma dimmi: hai ripetuto il discorso? Baguette cosa ne pensa?”
“Secondo lei è un buon discorso,” rispondo. “Anche la parte dedicata a Vega G.”
“Passami quella paletta, Lilac. Qui il terreno non è mescolato bene.”
“Secondo te me la caverò?” domando, dopo averle dato l'attrezzo. “Domani, intendo. Andrà
bene?”
“Perché non dovrebbe?” dice, dandomi uno sguardo veloce. Ma quando nota l'espressione sul
mio viso si ferma e lascia andare la paletta. “Quello di domani è un giorno importante, bambina.
Non avere paura. Hai studiato duramente per cinque anni, hai ottenuto risultati brillanti. Per quanto
mi riguarda, ce l’hai già fatta. E domani, con le tue amiche e le tue insegnanti, celebrerai il tuo successo, com’è giusto che sia. Ti sei impegnata così tanto per il discorso, e se è piaciuto a Baguette
sono certa che piacerà a tutte.”
“Anche a Vega G?” chiedo. “Non voglio fare brutta figura con la Presidentessa. Ci tengo a fare
una buona impressione.”
La nonna inclina il capo verso destra e sorride. “Dimmi una cosa. Sei certa di aver dato il massimo? In questi cinque anni, durante gli esami finali, nella preparazione del discorso: sei certa di aver
fatto tutto ciò che potevi fare?”
“Sì, però-”
“Non c’è un però, bambina. Hai dato il massimo, ed è questa l’unica cosa che conta. Non lasciarti intimorire da una donna. Le tue convinzioni e il tuo impegno: sono queste le uniche cose che contano.”
“Ma è la nostra Presidentessa.” La immagino, Vega G, alta nei suoi tacchi ed elegante in uno dei
suoi vestiti geometrici, seduta in prima fila ad ascoltare le mie parole. “Non posso fare a meno di temere il suo giudizio.”
“E io sono tua nonna,” ribatte lei con veemenza. “E non starò a guardare mentre trascorri il giorno prima del diploma torturandoti in questo modo, Lilac. Anche se si tratta di Vega G. Sei una ragazza stupenda,” dice, accarezzandomi la guancia con il dorso della mano, per evitare di sporcarmi.
“Intelligente, generosa, nobile. Sei il mio orgoglio, bambina. Non voglio vederti in pena. Sarai fantastica. Non riesco a dubitarne, non riesco neppure ad immaginare che tu possa fare una brutta figura.”
Mi sorride prima di andare avanti.
“Anch’io ero molto nervosa prima del diploma,” dice, tornando ad occuparsi dell'aiuola. “Ai
miei tempi non c’erano le cerimonie ufficiali di oggi. Facevamo un mucchio di esami, scritti e orali,
e aspettavamo che la commissione decidesse il nostro destino: promossi o non promossi. Quelli erano giorni pieni di ansia. Trascorrevo le notti ad immaginare cosa avrebbero scritto accanto al mio
nome: promossa o bocciata? Non riuscivo a dormire, non riuscivo neanche a mangiare.”
Ho quasi paura di interromperla. E' così raro che parli del suo passato.
“Il giorno in cui i risultati vennero pubblicati, io e le mie amiche ci fiondammo a scuola alla ve-
locità della luce. Quando seppi che tutto era andato bene, le mie gambe si trasformarono in gelatina.
La tensione di quei mesi, le notti passate sui libri a studiare, a ripetere, a risolvere equazioni. Tutta
l’ansia si sciolse quando lessi 'Promossa' sul tabellone dei risultati.” Alza gli occhi su di me, regalandomi uno dei sorrisi più belli degli ultimi tempi. “Sarà così anche per te domani, quando le insegnanti ti dichiareranno diplomata. Sarà l’inizio della tua nuova vita, sarà uno dei momenti che ricorderai per sempre. Non rovinarlo con la paura. Promettimelo.”
“Te lo prometto,” dico immediatamente, chiudendo le braccia attorno al suo collo per darle un
bacio. “A quei tempi, però, dovevi continuare a studiare, giusto? Non potevi insegnare solo con un
diploma, come farò io da Settembre.” E’ un tentativo, il mio. Un piccolo tentativo per cercare di
aprire uno spiraglio nella sua vita passata. Penso alle parole di Baguette: ‘La Vecchia ne parla sempre’.
“Esatto,” risponde la nonna, sciogliendo l’abbraccio. “Allora bisognava iscriversi all’università,
scegliere una facoltà, fare altri esami. Era molto più difficile di oggi.”
“E tu hai scelto di studiare per diventare una farmacista.”
I suoi occhi rimangono tranquilli quando annuisce.
“Com’era?” domando. “Cosa dovevi fare? Com’era la tua università? Era a Torino, vero? Qual
era la tua materia preferita?” Elenco le domande senza prendere fiato, senza notare il suo viso che,
di domanda in domanda, cambia fino a diventare di pietra. Me ne rendo conto solo alla fine, quando
la guardo e capisco di aver osato troppo. Di nuovo.
“Scusa,” dico prima che lei parli. “So che non ti piace raccontare quegli anni. Mi dispiace, nonna. Non volevo-”
“Non è colpa tua,” mormora lei, accarezzandomi i capelli. Lo fa per un lungo minuto, in silenzio.
“La Sindrome ha ucciso tutto ciò che avevo. La mia famiglia, i miei amici. La mia città. Per molto
tempo abbiamo creduto che la Sindrome avesse ucciso anche il nostro futuro. Ricordare quei giorni
equivale a ricordare ciò che non esiste più. Ciò che non esisterà mai più,” aggiunge abbassando gli
occhi. “So che hai tante domande, tesoro. So che sei curiosa. Ma io non posso soddisfare la tua curiosità. Io non posso rispondere alle tue domande. Non senza soffrire. Non senza riaprire una ferita
troppo grande, troppo dolorosa.” I suoi occhi sono velati di lacrime quando aggiunge: “Puoi comprendermi?”
Dopo la Sindrome, le donne rimaste sul pianeta hanno attraversato il periodo che nei miei libri
viene definito come Periodo Buio. Avevano perso i propri figli, i propri mariti, i propri fratelli. Le
donne incinte partorivano maschietti morti, o maschietti che sarebbero morti dopo poche ore. La riproduzione femminile era ancora sperimentale, allora: pensavano che fosse arrivata la fine del mondo. Molte impazzirono, e iniziarono ad uccidersi. Lo facevano in gruppo. Centinaia, migliaia di
donne si lanciavano dai grattacieli tenendosi per mano oppure premevano il grilletto di una pistola
l'una contro l'altra.
Fino al momento in cui Vega G ha creato l’USP e ha preso in mano il governo delle donne ancora in vita, il mondo era in pieno caos. Molte di quelle che hanno superato il Periodo Buio hanno vissuto il resto della loro vita in solitudine, depresse o ad un passo dalla follia. La Vecchia, anche se
Baguette nega i suoi problemi mentali, è una di quelle. In poche sono riuscite a rialzarsi; in poche
hanno imparato a vivere senza pensare al passato.
E’ per questo che ogni riferimento al genere maschile è proibito. E’ per questo che è vietato
ascoltare musica cantata e suonata dagli uomini, o leggere racconti che parlano degli uomini o che
sono stati scritti da un uomo. Non possiamo rischiare che le ferite così dolorosamente chiuse si riaprano. Non possiamo rischiare un nuovo Periodo Buio.
“Sì,” rispondo con un filo di voce. “Posso comprendere.”
Il sorriso della nonna è debole, quasi forzato. “Grazie,” sussurra, prima di darmi un bacio sulla
fronte.
Darei tutto pur di sapere cosa le passa per la mente. Darei tutto pur di conoscere il suo passato, la
sua gioventù.
Il suo paese, l'Italia, è stato spezzato dalla guerra ancor prima che dalla Sindrome. L'ho studiata
sui libri, ma da lei non ho saputo mai nulla.
“Adesso fila nella tua camera a preparare tutto per domani,” dice quando torna ad occuparsi dei
fiori. “Ho visto che non hai ancora creato il vestito. Hai bisogno di qualche idea? Non sono più una
ragazzina, ma potrei aiutarti,” aggiunge, facendomi l’occhiolino.
“Ho tutto sotto controllo,” rispondo mentre mi alzo. “E poi conosco i tuoi gusti eccentrici, non
potrei mai farmi consigliare da te.”
La nonna allarga le labbra in una O di meraviglia. “Lilac Zinna, sono offesa,” dice, lasciando la
paletta per incrociare le braccia sul petto. “Vorresti dire che il vestito di tulle multicolore che ho
creato per me potrebbe causarti qualche problema?”
“Tulle multicolore? Sul serio?”
La mia sorpresa è la molla che fa scattare la sua risata. “Stavo scherzando, bambina. Sai bene
che non potrei osare così tanto, soprattutto per un’occasione importante. Corri a creare un modello,
forza. La stoffa che ho preso è meravigliosa, non vedo l’ora di sapere come la userai. E non dimenticare le scarpe.”
“Non vuoi che continui ad aiutarti?” chiedo, guardandomi attorno. “Quell'aiuola deve essere ancora seminata.”
“Tranquilla,” risponde. “Occuparmi delle piante mi rilassa.”
Prima di entrare in casa, mi fermo davanti alla porta, e la osservo mentre mescola il terriccio. A
volte credo che si annoi, che le manchi la farmacia, che le manchi terribilmente la vita di prima. Ma
non ho il coraggio di parlargliene.
***
Quando la luce del cilindro diventa verde, apro lo sportello e lascio che le mie narici si riempiano dell’odore fresco e sterile del tessuto.
Il vestito è pronto.
Lo prendo fra le mani con delicatezza, ammirandolo prima di appoggiarlo sul manichino accanto
alla finestra. La nonna aveva ragione: questa stoffa è meravigliosa.
Quando ho programmato il tablet con le mie misure e i miei gusti, non immaginavo che il cilindro avrebbe centrato in pieno la mia idea. Ancora una volta, però, sono rimasta a bocca aperta.
Oggi è così che si creano i vestiti: un pezzo di stoffa nel cilindro, la descrizione del capo inviata
via tablet, un’ora di tempo e il gioco è fatto. Quando la nonna aveva la mia età esistevano negozi
che vendevano abbigliamento creato dai cosiddetti stilisti. Uomini e donne sceglievano ciò che altri
uomini e altre donne avrebbero indossato. Esistevano anche i sarti, persone specializzate nel creare
abiti su misura, ma erano una rarità.
Oggi, invece, ogni donna crea il proprio guardaroba a casa, attraverso cilindro e tablet. Non esistono due gonne uguali, o due paia di sandali dello stesso colore. E non esistono più gli stilisti. Oggi
si va nei negozi che vendono la stoffa bianca, o i modelli-base per borse, scarpe e cappelli, e una
volta a casa si dà voce alla propria fantasia, al proprio gusto.
L’unica eccezione è Baguette. Da quando ha scoperto che La Vecchia sa cucire ha imparato a
creare modelli con vecchi pezzi di stoffa e ha deciso di mandare il cilindro in pensione. I suoi vestiti
sono creati a mano, con il filo e gli spilli. Impiega giorni interi per mettere insieme un paio di pantaloni. Quando ha deciso di farsi un cappotto, a Febbraio, non ho avuto sue notizie per due settimane.
Il vestito che indosserò domani è lungo fino al ginocchio, ma stretto in vita. Privo di maniche e
di bretelle, lascia la schiena per metà scoperta. E’ bianco, un bianco lucido rispetto a quello della
stoffa, e ai piedi della gonna è arricchito con una fantasia floreale viola. Il corpetto, all’altezza del
seno, è decorato con un fiore, anch’esso viola. Al centro del fiore c'è un minuscolo bottone dorato a
cui appenderò la stola. Le scarpe sono già pronte assieme alla borsa.
Il sole è sparito dietro le montagne quando scendo al piano di sotto. Sistemare le mie cose per
domani, rileggere per l’ennesima volta il discorso - apportando una lieve modifica - e pulire il cilin dro per liberarlo dai residui di stoffa mi ha portato via un più del previsto.
La nonna è nel salone, seduta su una delle due poltrone sistemate accanto alla grande vetrata che
affaccia sul giardino del retro. Questo è il suo rituale quotidiano: leggere un libro fino a che non è
stanca, appoggiare il tablet sul tavolino, darmi un bacio sui capelli e ritirarsi per la notte. Quando
entro nella stanza, la nonna alza gli occhi dal libro e mi sorride. “E’ tutto pronto per domani?”
“Sì. Il vestito è meraviglioso. Vuoi vederlo?”
“Domani,” risponde. “Voglio ammirarti alla luce del sole, quando sarai pronta per andare a scuola.” Allunga una mano per accarezzarmi il viso. “Sei tranquilla rispetto a qualche ora fa?”
Annuisco subito. “Grazie per le tue parole, nonna. Mi hanno aiutata molto.”
“Bene,” dice, prima di appoggiare il tablet sul tavolino alla sua sinistra. Dallo stesso tavolino afferra una piccola capsula bianca e un bicchiere d’acqua. “Buon appetito.”
A seguito della Sindrome, la scarsità di materie prime e l’assenza di persone sufficienti a produrre cibo per le donne sopravvissute hanno fatto sì che la scienza trovasse il modo per continuare a
nutrire la popolazione con un costo e un impiego di energie inferiori. Le capsule sono il risultato di
quello sforzo scientifico. I cibi di una volta sono molto rari. I terreni non vengono più coltivati e gli
animali (i pochi ancora in vita) non vengono più uccisi. Uova, frutta, pasta, caffè, formaggio: ogni
alimento è diventato molto costoso, e difficile da produrre. I supermercati di una volta sono diventati depositi in cui acquistare le pillole. I gusti e i sapori più svariati sono ricreati in laboratorio, artifi cialmente. Adesso, mentre la capsula si scioglie sulla lingua, avverto il sapore della lasagna. O meglio, di quella che una volta era la lasagna. La verità è che non ho mai assaggiato un piatto di pasta
in tutta la mia vita.
“Hai già preso la tua?” chiedo alla nonna dopo aver bevuto l’ultimo sorso d’acqua.
“Sì. Poco fa.”
“Leggi qualcosa di bello?” Indico il tablet sul tavolino.
“Come? Ah, sì. E’ un libro di Rosemary Jones, la scrittrice inglese,” risponde lei.
“Allora dovrai prestarmelo.”
La lettura, a differenza del giardinaggio, è una passione che condividiamo.
“Volentieri, bambina.”
Rimaniamo insieme per un'ora. Lei legge il suo libro, io leggo il mio. Ed è lei a congedarsi per
prima, dandomi un bacio sui capelli prima di salire al piano di sopra.
Solo quando sento la porta della sua camera chiudersi e alzo gli occhi dal mio tablet, mi accorgo
che il suo non è, come ogni sera, sul tavolino.
***
Il giorno dopo, la nonna ed io siamo le prime ad arrivare al liceo di Malorai, che sorge al centro
della città, in una piazza rettangolare. Di fronte ad esso c'è il palazzo delle Scuole di Base, mentre
su uno dei lati lunghi del rettangolo si trova l'edificio comunale. Il liceo può ospitare al massimo
cento studentesse. La mia classe, quella che oggi si diplomerà in Storia Moderna, conta ventotto allieve.
La nonna ferma la sua biposto nel parcheggio al centro della piazza. Quando mi ha vista uscire
dalla mia camera, questa mattina, col vestito nuovo di zecca, il trucco leggero e i capelli sollevati, i
suoi occhi sono diventati lucidi. La stessa emozione appare ora mentre, con estrema delicatezza,
scosta uno dei boccoli dal mio viso.
“Sei bellissima, Lilac. Somigli così tanto a tua madre.”
Irene è morta dandomi alla luce. Sono passati diciassette anni e undici mesi da quel giorno. Aveva diciotto anni e insegnava lingue pre-moderne nel liceo in cui ho studiato negli ultimi cinque anni.
Di lei mi rimangono le foto, qualche vestito, e il ciondolo che indosso, come portafortuna, in tutte le occasioni importanti, inclusa quella di oggi. E' una piccola sfera di vetro trasparente, all'interno
della quale sono custoditi due fiori di lillà. Fu lei a scegliere il mio nome, ancor prima che nascessi.
Lilac, come l’amore che provava per me.
“Sarebbe felice?” chiedo commossa. “Se mi vedesse qui, se sapesse che sto per diplomarmi.”
“Puoi giurarci, bambina. Irene sarebbe la prima a fare il tifo per te.”
Non sono poche le complicazioni derivanti dal nuovo tipo di procreazione. Usare il proprio midollo osseo è ciò che ha permesso alle donne di non estinguersi, ma spesso la gravidanza sfocia nella morte della madre e, a volte, in quella della figlia. Io sono sopravvissuta. La sorella di Baguette,
assieme a Juliette, non ce l’ha fatta.
Negli ultimi anni la mortalità è diminuita, ma essa rimane comunque una possibilità con cui tutte
le donne imparano a convivere fin dall'infanzia. Vuoi procreare? Dovrai farlo da sola, perché gli uomini non esistono più, e durante il parto ci sono buone probabilità che tu e tua figlia moriate.
Io sono cresciuta con la nonna, e grazie a lei ho vissuto nel benessere, nella serena Malorai. A
volte, però, mi fermo a pensare a come sarebbe stata la mia vita se avessi avuto anch’io una madre,
come Baguette ha avuto la sua per dodici anni. Sarei la persona che sono adesso? Avrei fatto le stesse scelte? E la nonna si sarebbe sentita meno sola?
La Sindrome le ha portato via tutto. Anche la figlia che aveva dato alla luce nel primo mese del
Periodo Buio.
“Andiamo,” dice, risvegliandomi dai miei pensieri. “Fra un po’ arriveranno anche le tue amiche.
Voglio salutare le insegnanti e conquistarmi un posto in prima fila.”
“Sono certa che una sedia col tuo nome è già pronta” dico mentre camminiamo verso l’edificio.
“Sei o non sei la nonna dell’oratrice ufficiale della cerimonia?”
All'ingresso della scuola troviamo la professoressa Kilstrom, preside della scuola, nonché responsabile generale del corso di Storia Moderna. E' una donna di mezza età, bassa ed esile. Al suo
fianco, con addosso un vaporoso vestito color nocciola, la sua compagna da una vita, la professoressa Sener, insegnante nel corso di Scienze Applicate.
La Kilstrom ci viene incontro sorridendo. “Lilac, Francesca.”
“Maya.” Mia nonna e la Kilstrom - io non sono mai stata a mio agio nel chiamarla per nome - si
salutano con un bacio sulla guancia. “Siamo in anticipo, vero?”
“Sì, ma credo che abbiate fatto bene ad arrivare presto. Ho appena avuto notizia dal corteo di sicurezza della Presidentessa. E' a quaranta km da Malorai, per cui arriverà proprio pochi minuti prima dell'inizio della cerimonia. Sarebbe un peccato perdersi il suo arrivo, non credete?”
“Il corteo conta quattro auto,” dice la professoressa Sener. “Probabilmente chiuderanno la piazza.
Alla Presidentessa non piace la folla.”
La Kilstrom appoggia una mano alla base della schiena di sua moglie. La introduce alla nonna, e
mentre le due parlano io ripenso alle parole della Sener: alla Presidentessa non piace la folla. E'
così, infatti: Vega G rifiuta sempre di partecipare alle manifestazioni pubbliche a cui viene invitata,
limitandosi a visitare i luoghi in cui si tengono solo le celebrazioni più importanti. L'anniversario
dalla nascita dell'USP, la costituzione di una città, la presentazione di un nuovo medicinale migliora-vita: sono queste le occasioni a disposizione della gente per vederla da vicino.
Nel resto del tempo, la Presidentessa viaggia per discutere della gestione dei governi con le rappresentanti dell'USP sparse nei quattro continenti, e si occupa di mantenere salde le redini del nostro
mondo. E' vero, non ama la folla. Non ama apparire in pubblico. E, nonostante mai nessuno le abbia
fatto del male, ama farsi accompagnare da una decina di guardie personali.
E ha deciso che oggi sarà qui, nella mia piccola Malorai.
“Lilac, bambina.” La nonna mi scuote con garbo, appoggiando una mano sulla mia spalla. La
Kilstrom e la Sener sono scomparse; ci siamo solo noi nell'atrio del liceo. “Le tue insegnanti sono
andate ad accogliere le altre ragazze. Sono molto orgogliose di te, sai?” Si avvicina per darmi un
bacio sulla guancia. Le sue braccia morbide mi avvolgono come se fossi una bambina di pochi
mesi, bisognosa di protezione.
“C'è spazio anche per me in questo abbraccio?”
La voce di Baguette mi sorprende alle spalle. Mi giro per accoglierla e rimango a bocca aperta.
Non l'ho mai vista così elegante. Indossa un paio di pantaloni aderenti, neri e lucidi, e una camicia a
maniche corte, arricciata in corrispondenza del collo e delle spalle. Il tessuto semi trasparente è un
rosa pallido, uno dei suoi colori preferiti. I capelli, perennemente sciolti, sono legati in una coda alta
che mette in risalto il suo viso tondo.
“Certo che sì.” L'abbraccio con forza, riempiendomi le narici del suo profumo frizzante. “Sei ve-
nuta, Baguette.”
“Pensavi davvero che ti dessi buca?” Mi indica con il pollice, voltandosi verso la nonna. “Scarsa
fiducia, questa qui. Scarsa fiducia.” La nonna ride di gusto mentre l'abbraccia, facendole i complimenti per il suo completo. “Fatto a mano,” dice Baguette, sorridendo estasiata. Fa un doppio giro su
se stessa prima di improvvisare un inchino. “Sia i pantaloni che la camicia. La borsa e le scarpe erano di mia madre: Juliette Riford aveva stile.”
“Tua madre aveva stile da vendere,” dice la nonna, prendendola per mano. “E sarebbe stata felice
di saperti qui con Lilac, oggi. Diplomata,” aggiunge, ponendo l'accento sull'ultima parola.
Baguette lancia gli occhi al cielo, sapendo che nei prossimi minuti la nonna cercherà di convincerla a riprendere gli studi, premendo sull'importanza della cultura e sulle poche opportunità felici
che il suo lavoro di assistente alle anziane potrà darle in futuro.
Quando il battibecco fra le due arriva al termine - con la nonna che si arrende al sarcasmo di Baguette, come al solito - l'atrio del liceo è pieno per metà. Le mie compagne di corso sono arrivate
assieme alle rispettive famiglie: l'intera città è qui, e chi non festeggia una delle ragazze ha raggiun to la piazza per l'altro avvenimento della giornata, la visita della Presidentessa.
“Sei emozionata?” chiede Baguette, intrecciando le dita della mano con le mie.
“Un po'.”
“Bugiarda. Sei terrorizzata. Vedrai che andrà bene,” dice con convinzione. La stessa convinzione
che vorrei avere io. “Vedila in questo modo: il 90% delle donne presenti è qui per Vega G. Tu sarai
solo una ragazza che legge il discorso. Nulla di più.”
“E questo dovrebbe darmi sicurezza?”
“In teoria sì,” risponde. “In pratica, se una volta sul palco dovessi dimenticare le parole o perdere
la voce, resta calma e guarda me.”
“Te?”
Baguette annuisce. “Grazie al tuo costante e, diciamocelo, noioso bisogno di ripetere, ripetere e
ripetere, ho memorizzato l'intero discorso. E' tutto qui,” dice, picchiettandosi la tempia destra. “Incluse le modifiche di cui mi hai parlato ieri. Potrei recitarlo al tuo posto, volendo.”
Dietro il suo sorriso scherzoso c'è la verità. Dietro i suoi occhi azzurri, luminosi e sinceri, c'è la
mia migliore amica. L'unica persona in grado di tranquillizzarmi. Forse più della nonna.
“Nel caso in cui ti deconcentrassi, o nel caso in cui la faccia di Vega G ti facesse un brutto effet to, guarda me. Sarò in prima fila ad aiutarti.”
“Grazie,” è tutto ciò che riesco a dirle. Vorrei aggiungere altro. Vorrei dirle che sono felice di
condividere questo giorno così importante con lei. Vorrei dirle, anzi chiederle, di continuare a stringermi la mano.
Ma il frastuono che proviene dall'esterno interrompe sia i miei pensieri che le voci delle presenti.
La Presidentessa è arrivata.
3
Il Discorso
Il corteo di Vega G consiste in quattro auto, proprio come aveva annunciato la moglie della Kilstrom. Si tratta di vetture nere e grandi, quadriposto, più alte del normale e con i vetri oscurati.
Le auto si posizionano al centro della piazza, fermandosi una accanto all'altra. Gli sportelli si
aprono nello stesso momento, come se fossero collegati ad un interruttore. Da ogni vettura escono
tre donne, per un totale di dodici guardie personali. Indossano un vestito nero e aderente, lungo fino
al ginocchio, e un cappuccio-cuffia dello stesso colore.
Si dice che nessuna donna abbia mai visto i capelli delle guardie di Vega G. Si dice che sia stata
proprio la Presidentessa a progettare la divisa.
Dieci guardie si sparpagliano nella piazza, mentre due restano accanto alla quadriposto che mostra, sugli sportelli, il simbolo dell'USP, la fiamma rosa.
E' l'auto di Vega G.
Le due guardie restano ferme mentre lo sportello posteriore si apre. Quando il clic del metallo
riecheggia nella piazza mi rendo conto che l'intera scuola sta trattenendo il fiato in attesa dell'apparizione della Presidentessa.
La nonna è al mio fianco, gli occhi puntati sull'auto e la mano sinistra sulla mia spalla. Perfino
Baguette è attenta e silenziosa.
Ancor prima di vedere il volto di Vega G, vedo le sue lunghe gambe. Appoggia i piedi sul gradino prima di allungare la mano verso una guardia che, prontamente, l'aiuta a scendere. Le donne
esplodono in un applauso gioioso. Alcune chiamano il suo nome, altre si sbracciano per salutarla.
La nostra Presidentessa non è più giovane, ma il suo aspetto è quello di una donna che potrebbe
avere al massimo quarant'anni. La chirurgia estetica e le pillole l'hanno sicuramente aiutata a nascondere le rughe, i capelli bianchi e i vari decenni che, altrimenti, la farebbero somigliare a mia
nonna, invece che ad una delle mie giovani insegnanti. Nessuno conosce la sua età. Nei libri in cui
ho studiato la sua storia si ipotizza che sia nata intorno agli anni Novanta, ma non esistono certezze
al riguardo. Vega G è una donna molto riservata.
Con accanto le due guardie, la Presidentessa cammina verso il liceo. Saluta le allieve e le insegnanti agitando le mani. Indossa un vestito verde acido, con le spalline appuntite e un piccolo spacco sul davanti. Non ha una borsa, non la usa mai, e le mani sono coperte da piccoli guanti neri. Ai
piedi ha un paio di stivaletti che arrivano fino alla caviglia. Sono rossi come il rossetto che ha sulle
labbra. I capelli, biondi fin quasi a sembrare trasparenti, sono pettinati in un caschetto immobile.
Il vento leggero che accompagna il tiepido sole di Giugno muove gli alberi finti, ma non l'acconciatura di Vega G.
“Non riesce neppure a sorridere,” dice Baguette. “E' di plastica.”
“Margot.” La nonna le lancia un'occhiataccia delle sue per riportarla all'ordine. Baguette raddrizza le spalle e prende ad agitare la mano come fanno tutte. Il suo sorriso è finto e, anche se non dovrei, lo trovo divertente.
Vega G raggiunge la preside e le stringe la mano. Continua ad indossare gli occhiali scuri che le
fasciano metà del viso mentre parla alla Kilstrom e ad alcune insegnanti che si sono avvicinate.
Le guardie sono immobili. A vederle così, sembrano tutte uguali. Oggi non esistono più poiché
non ci sono più guerre, ma le guardie della Presidentessa sono la cosa più vicina ai soldati che ab biamo a questo mondo. Non indossano armi, ma c'è chi dice che portino con loro una pistola, o un
coltello.
La Vecchia sostiene che siano loro stesse un'arma.
Vega G si libera degli occhiali scuri e si guarda attorno mentre la Kilstrom continua a parlare. E'
in quel momento che i suoi occhi neri si fermano su di me. La preside segue il suo sguardo e sorride
quando capisce cosa, o meglio chi, sta guardando.
La Presidentessa inizia a camminare verso di me con la preside. Gli occhi di tutte le ragazze si
girano nella mia direzione.
“Lilac Zinna.”
Vega G si ferma a pochi passi da me. Sorride. I denti sono bianchi come la neve. Gli occhi neri
sono cerchiati dal trucco rosso. “L'oratrice ufficiale.”
Autorità, rigore, fermezza. Ecco cosa mi trasmette la sua voce.
“Proprio così,” dice la Kilstrom con un sorriso orgoglioso. “Lilac ha preparato il discorso per la
celebrazione di oggi. E' una delle nostre migliori allieve, siamo tutte emozionate all'idea di ascoltare
le sue parole.”
La preside mi guarda come per dire 'Beh, Lilac, aggiungi qualcosa', ma io non riesco neppure a
muovere le labbra. E' il gesto invisibile della nonna, la sua mano che mi stringe la spalla, a ricordarmi come si fa a parlare.
“Presidentessa Vega, è un'onore conoscerla.” Allungo la mano per stringere la sua, e con un gesto
rapido il guanto nero si chiude attorno alle mie dita gelide.
“L'onore è mio, Lilac. So già che il tuo discorso sarà importante. Lo leggo nei tuoi occhi.”
Le donne attorno a noi sono in silenzio. Osservano me, ma soprattutto osservano lei, alta e regale
nel suo vestito geometrico. Dal mio viso, gli occhi di Vega G si spostano alla mia destra, verso la
nonna.
“Francesca Zinna.” Vega G lascia la mia mano per prendere quella della nonna, che si fa trovare
pronta in una delle sue strette d'acciaio.
“Presidentessa. Grazie per essere qui.”
“La dottoressa Zinna è uno dei pilastri di Malorai,” dice la preside. “Lilac non avrebbe potuto
avere radici migliori.”
La Presidentessa sembra ignorare le sue parole. Continua a guardare la nonna prima di voltarsi
verso di me. “Tua madre non è con noi, Lilac. Irene era il suo nome, vero?”
Vorrei sapere come fa a conoscere tutte queste cose sul mio conto. Vorrei sapere se conosce nomi
e storie di ogni ragazza presente. Vorrei chiedere alla nonna di smetterla di stringermi la spalla come
sta facendo.
“Sì,” rispondo. “Si chiamava Irene. E' morta quando sono nata.”
Vega G annuisce, abbassando lo sguardo e prendendo di nuovo la mia mano. E' un gesto insolito,
il suo. La nostra presidentessa è conosciuta per i suoi atteggiamenti posati, quasi distaccati. Adesso,
però, stringe la mia mano con un calore che mi sorprende.
“Andiamo a renderla orgogliosa,” dice guardandomi negli occhi. “Fammi strada, Lilac Zinna.
Non vedo l'ora di vedervi tutte diplomate.”
***
“...e la forza di guidarci e assisterci. Grazie, Presidentessa. Grazie a lei, e grazie all’USP.”
Alzo gli occhi dal leggio nel momento in cui la platea che riempie l'aula magna inizia ad applau dire. La prima a farlo è la nonna, seguita da Baguette e da Vega G.
Ce l'ho fatta. Sono arrivata alla fine del discorso senza inciampare, senza sbagliare, senza dimenticare nulla.
Le donne hanno ascoltato le mie parole e hanno annuito, anche quando ho nominato la Sindrome. Alcune si sono girate verso Vega G, in attesa che mi interrompesse. Ciò non è accaduto, però. Il
volto della Presidentessa è rimasto impassibile dietro gli occhiali fascianti.
E ora continuano ad applaudire. Alcune si abbracciano, tante mamme baciano le proprie figlie.
Dopo qualche istante, la Presidentessa lascia il suo posto in prima fila e sale sul palco. La Kilstrom le va incontro, ma Vega G le dice di rimanere seduta. Mi raggiunge accanto al leggio, toglie
gli occhiali. Si avvicina fino a darmi un bacio sulla guancia e a cingermi le spalle con un braccio.
La mia sorpresa è la sorpresa delle donne che ci osservano: Vega G non ha mai baciato nessuna
donna in pubblico. La sala esplode in un applauso ancora più fragoroso. Le mie compagne gridano
il mio nome. Vega G riprende a battere le mani per me.
“Grazie,” dico in un sussurro. “Grazie, Presidentessa.” Cerco gli occhi della nonna, e li trovo
pieni di lacrime. Al suo fianco, Baguette la indica con il pollice e mima con le labbra: 'Te l'avevo
detto'.
La Presidentessa si china sul microfono. “Donne di Malorai,” dice, e le sue parole ottengono l'effetto desiderato: gli occhi di tutte sono puntati su di lei.
“Donne di Malorai,” ripete. “Sapevo che quella di oggi sarebbe stata una giornata importante.
Sapevo che il mio cuore si sarebbe riempito di gioia e di orgoglio. Lilac Zinna ci ha ricordato qualcosa di fondamentale,” dice, appoggiando un pugno sul petto. “La passione e l'amore per il nostro
nuovo mondo. La passione e l'amore per la nostra nuova vita. Conosciamo bene le nostre difficoltà,
donne di Malorai. Conosciamo bene i nostri limiti, conosciamo bene i nostri problemi. Ma non dobbiamo mai perdere di vista la cosa più importante, la cosa che Lilac ci ha ricordato nel suo meraviglioso discorso.” Mi sorride. Sento il cuore scoppiare nel petto, tanta è l'emozione. “La cosa più importante è che noi ci siamo!” esclama, sotto gli occhi adoranti delle donne che l'ascoltano. “L'USP è
con voi, sempre! Una Sola Persona, è questo il nostro motto. Siamo tante, ma allo stesso tempo siamo una sola persona. Nasciamo, studiamo, ci riproduciamo, miglioriamo la nostra vita, il nostro
mondo. Insieme, come un'unica donna!”
L'applauso, stavolta, è ancora più grande di quello che ha accompagnato la fine del mio discorso.
Osservo lo suo sguardo determinato della Presidentessa, mentre batto le mani; osservo il suo corpo
protratto in avanti, e l'ammiro.
“Grazie, Vega G!” grida una donna anziana dal centro della sala.
“Grazie, Presidentessa! Grazie, USP!”
“Lilac ci ha ricordato l'importanza della nostra esistenza, e lo ha fatto parlando del momento più
doloroso,” continua Vega G. La sua voce si spezza quando aggiunge: “La Sindrome.”
Mi guarda, e ho paura che lo faccia per riprendermi, per ricordarmi che della Sindrome è vietato
parlare, soprattutto in pubblico. “Avevamo paura di non farcela,” dice quasi in un sussurro. “Ma ci
siamo rialzate. Avevamo paura di estinguerci, ma abbiamo trovato il modo per continuare a vivere,”
continua, a voce più alta. “Abbiamo preso fra le mani il mondo piegato su se stesso e l'abbiamo fatto rifiorire! Noi, insieme. Tutte noi, donne di Malorai. Insieme. Fra di voi ci sono tante ragazze che
non hanno conosciuto le impavide madri che le hanno messe al mondo. Molte di voi, da domani, intraprenderanno il processo della riproduzione, sapendo che ciò comporterà un grande pericolo. Eppure andrete avanti, donne. Eppure rischierete. Perché siete forti, perché siete unite. Perché vi amate, perché amate il bene più sacro, ovvero la vita. E io sono qui, oggi, per dirvi ancora una volta che
Vega G non vi abbandonerà mai. Io e l'USP saremo con tutte le donne di questo pianeta. Siamo il
vostro governo, siamo il vostro mondo. Siamo Una Sola Persona.”
Batte un pugno sul leggio nel momento in cui le donne si alzano per applaudire la loro approvazione e la loro adorazione. “Io rimarrò con voi, donne di Malorai, donne di Francia, donne del mon do intero. Vega G continuerà a lavorare per voi e con voi, sempre!”
“Grazie,” dico a bassa voce mentre applaudo. “Grazie, Vega G.”
“Grazie a te, Lilac Zinna.” Il suo sorriso è caldo, sincero. “Grazie per avermi ricordato ciò che è
importante.”
La preside Kilstrom si avvicina alla Presidentessa per stringerle la mano, e io ne approfitto per
scendere dal palco.
La nonna mi viene incontro per attirarmi fra le braccia.
“Bambina,” dice commossa. “La mia bambina.” Si scosta quel tanto che basta per guardarmi negli occhi e sorridere. “Sei stata eccezionale.”
Baguette non piange, ma è ugualmente emozionata quando mi abbraccia. “Vega G parla in terza
persona di se stessa,” sussurra. “Vega G è inquietante.”
“Smettila,” dico sorridendo. “E' stata grandiosa.”
“Tu sei stata grandiosa,” ribatte lei, cercando e trovando la mia mano.
La folla inizia a disperdersi quando le insegnanti richiamano l'attenzione verso il buffet allestito
nel giardino che si trova sul retro del liceo. E' un buffet privo di cibo, ma ricco di bevande alla frutta
ottenute, come il resto delle cose commestibili, in laboratorio.
La nonna viene attorniata immediatamente da alcune madri che si congratulano con lei per il mio
discorso, e Baguette si lancia verso il buffet con un unico obiettivo: creare una nuova bevanda mescolando quelle a disposizione.
Io mi fermo con alcune compagne di corso, raccogliendo i loro complimenti e facendo loro gli
auguri per il diploma. Molte viaggeranno fino a Settembre, prima di ritornare a Malorai e iniziare a
lavorare.
Sylvia e Jen partiranno per Londra prima di iniziare a procreare.
“Dopodomani andremo all'ospedale per ottenere i permessi, e al nostro rientro inizieremo la procreazione,” dice Sylvia. Jen è al settimo cielo al pensiero di diventare madre. La sua è la famiglia
più numerosa di Malorai, con ben quattro sorelle.
“Sono davvero felice per voi,” dico ad entrambe.
“E tu, Lilac? Quando procreerai? Prima o dopo l'inizio del lavoro?”
“Dopo,” rispondo subito. “Intendo aspettare almeno sei mesi dall'inizio delle lezioni. Sapete, per
abituarmi al nuovo ritmo.”
“Certo,” dice Jen. “Fai bene. Anche perché sarai da sola, e quindi avrai bisogno del doppio delle
energie.” Sylvia annuisce, appoggiando la testa sulla spalla della sua compagna.
Quel gesto, assieme a quelle parole - sarai da sola - ha un effetto strano su di me. Un effetto che
cozza con la gioia che ancora provo dopo aver ascoltato le parole di Vega G. Un effetto che mi lascia temporaneamente senza parole e senza sorriso.
Ma non ho tempo di elaborare ciò che provo, perché una voce attira la mia attenzione e quella
delle mie amiche.
E' la voce di Baguette.
Mi volto verso il buffet, e la vedo lì, con accanto due guardie di Vega G.
“E' ridicolo, ridicolo,” dice, agitando le mani. “E' solo un lettore mp3, ne avete mai visto uno?
Potete usarlo, se volete: sono certa che vi renderà felici.” Il suo viso è rosso di rabbia, mentre quello
delle guardie è di pietra. Una delle due ha fra le mani l'oggetto proibito da cui la mia amica non si
separa mai. Tutte le donne presenti osservano la scena.
“Serve ad ascoltare la musica,” continua Baguette. “Sapete almeno cos'è la musica? Dalle vostre
facce di cera direi di no.”
Una guardia le dice qualcosa a voce bassa, talmente bassa che solo Baguette riesce a sentirla.
L'altra si volta verso la Presidentessa, che sta osservando la scena dal lato opposto del giardino.
Cerco la nonna con gli occhi, e la trovo accanto al sindaco Jamal. Il suo sguardo è fermo su di
me e, anche se non posso leggere nella mente, so cosa sta cercando di dirmi.
Non interferire, Lilac. Non avvicinarti alle guardie. Restane fuori.
Le donne trovate in possesso di oggetti proibiti rischiano una pena che va dai tre giorni ai tre
anni di isolamento nel carcere di Parigi. Una volta scontata la pena, nessuna delle donne incarcerate
fa ritorno nella propria comunità. E' l'USP a scegliere, per lei, una nuova residenza, un nuovo lavoro, una nuova vita.
L'atteggiamento di Baguette nei confronti delle guardie non fa altro che peggiorare la situazione.
E gli occhi dipinti di rosso della Presidentessa sembrano emanare fuoco quando si posano su di lei.
La nonna scuote il capo. Restane fuori. Non interferire.
Ma si tratta di Baguette. Si tratta della mia migliore amica. Non posso restare a guardare.
Quando Vega G inizia a camminare verso di lei, non esito: mi muovo anch'io.
4
Il Coraggio Di Lilac
“Celeno, Elettra. Qual è il problema?”
Con pochi passi, la Presidentessa è accanto a Baguette e alle guardie.
Ci sono anch'io accanto a lei. Arriviamo nello stesso istante, anche se Vega G non si accorge della mia presenza.
“Violazione della direttiva 761,” dice una delle guardie. Non so se sia Celeno o Elettra. I suoi occhi dorati sono fissi su Vega G. “Margot Riford è in possesso di un oggetto proibito.” La guardia indica la sua collega, quella che ha in mano il lettore mp3. Lo tiene sul palmo aperto per mostrarlo
alla Presidentessa.
“E' così?” chiede Vega G. “Margot Riford, figlia di Juliette. Questo oggetto proibito è tuo?”
Baguette regge il suo sguardo per pochi secondi, prima di abbassare gli occhi sul prato.
“Rispondi, Margot Riford. E' tuo?”
“E' mio,” dico senza pensarci due volte. “Quel lettore è mio.”
Se la mia presenza la meraviglia, Vega G non lo dà a vedere. Baguette, invece, inizia a scuotere il
capo velocemente, come per chiedermi di smettere.
“Ho chiesto a Margot di custodire le mie cose durante il discorso, e fra di esse c'era anche il lettore.” Lo prendo dalla mano della guardia, lo agito in aria. “E' mio.” Alle parole aggiungo un sorriso
nervoso.
Molte delle donne si sono avvicinate per vedere e ascoltare meglio. Jen copre la bocca con la
mano. Il volto della nonna è pallido, quasi bianco.
Cosa stai facendo, gridano i suoi occhi. Cosa credi di fare?
Proteggere Baguette. Ecco cosa sto facendo.
“Lilac, il tuo coraggio è da ammirare,” dice Vega G con un sorriso. “La tua capacità di mentire,
invece, no.”
“Non sto mentendo,” insisto, stringendo il lettore fra le mani. “E' mio! Ba-Margot non ha fatto
nulla, se non custodire il mio oggetto proibito.”
“Lilac, piantala.”
E' Baguette a parlare, facendo un passo in avanti per togliermi il lettore dalle mani. “Non fare
sciocchezze per me,” dice sottovoce prima di ritornare fra le guardie. A quella alla sua destra porge
l'oggetto proibito. “Quel lettore mp3 è mio, Presidentessa Vega. Lo uso per ascoltare musica, in particolare musica proibita. Potete arrestarmi.”
“No!” esclamo, mettendomi fra Vega G e Baguette. “No.”
La Presidentessa assiste al mio gesto con un'espressione strana sul viso. “No?” ripete, appoggiando una mano sul fianco.
“No.” Continuo a proteggere Baguette col mio corpo, pur sapendo che è inutile. Accanto a lei ci
sono due donne alte quasi due metri che potrebbero portarla via in qualsiasi momento.
“Lilac,” dice Vega G, “il tuo gesto è ammirabile, ripeto. E coraggioso. Ma è giunto il momento
che tu ti faccia da parte.” Alza gli occhi sulle guardie prima di andare avanti. “Confiscate l'oggetto,
avvertite Parigi. Margot Riford arriverà al carcere prima del tramonto.”
“Che cosa?! No, no!”
Il mio è un grido disperato. Un grido congelato nel silenzio delle donne che guardano una delle
guardie portare le mani di Baguette dietro la schiena, tirar fuori dal cappuccio un nastro nero e usarlo per immobilizzare la mia amica.
“Presidentessa, la prego, non lo faccia, non-”
“C'è un motivo per cui certe cose sono proibite,” dice Vega G a voce alta. Talmente alta che mi
spaventa. “C'è un motivo per cui esistono certe leggi, Lilac Zinna, e tu lo sai bene. Chi sbaglia deve
pagare, sai bene anche questo.”
Una delle guardie parla al telefono, probabilmente col carcere di Parigi.
Baguette mi guarda con gli occhi pieni di lacrime.
La mia amica. La mia Baguette. Verrà portata via, e io non la rivedrò più.
“La perdoni,” dico, anch'io a voce alta. “La perdoni, Presidentessa. Invoco il suo perdono per
Margot Riford.”
Attorno a noi, le donne iniziano a mormorare.
Ha chiesto il perdono? E' impazzita?
Mai nessuno ha chiesto perdono a Vega G.
Finiranno a Parigi insieme.
La Presidentessa resta ferma a guardarmi, come se stesse elaborando la mia richiesta.
“Pensi al suo discorso di poco fa,” proseguo. “Pensi a ciò che ha detto. Lei e l'USP lavorate per il
nostro benessere. Lo fate ogni giorno. Quando istruite le insegnanti grazie alle quali impariamo la
storia e la scienza. Quando finanziate la scoperta di nuovi medicinali migliora-vita. Quando aiutate
le donne a riprodursi, quando aiutate le orfane a crescere, studiare, procreare. Lei è con noi da sempre, Presidentessa. E ha ragione quando dice che c'è un motivo per cui certe cose son proibite. E'
vero, è così, e io le credo. Tutte noi le crediamo. Tutte noi sappiamo che esiste una legge e che bisogna rispettarla. So di non avere alcun diritto nel chiederle di graziare Margot. Eppure le chiedo
un'eccezione. Perché se è vero che siamo Una Sola Persona, se è vero che lei rimarrà al nostro fianco sempre, allora è anche vero che Margot merita una seconda opportunità. Per capire, per imparare.
Per apprezzare le regole nello stesso modo in cui le apprezzo io. Le dia questa opportunità, Presidentessa. La perdoni.”
Non sono la sola a trattenere il fiato. Tutte le donne sono ammutolite. Guardano Vega G, guardano me. Anche le due guardie sono in attesa.
E' Baguette a dire qualcosa, a voce così bassa che forse sono l'unica a sentirla. “Perché ti stai
cacciando nei guai per me? Perché?”
Vorrei dirle che non ho scelta, perché non posso pensare di saperla lontana, incarcerata. Ma Vega
G parla per prima.
“Io non regalo opportunità, Lilac Zinna.” Anche se la sua voce non è alta, sono certa che ogni
donna sentirla. Negli ultimi minuti si sono avvicinate fino a poter vedere e sentire ogni cosa. “Io
non regalo perdono. Io non concedo la grazia a chi sbaglia, soprattutto a chi lo fa con coscienza, con
premeditazione.” Guarda Baguette prima di aggiungere: “Margot ha ammesso di aver violato la direttiva 761. Ha ammesso di usare un oggetto proibito e di ascoltare, con esso, musica proibita. Eppure tu mi chiedi di darle una possibilità. Lo fai sfidando la legge, Lilac Zinna. Lo fai sfidando la
mia autorità.” Si avvicina di un passo, fino a sovrastarmi. “Ci vuole coraggio per fare ciò che hai
fatto. Ci vuole forza per sfidare me e la legge. Ci vuole un pizzico di follia per andare contro ciò in
cui credi, pur di salvare qualcuno a cui tieni. Ti ammiro, Lilac Zinna. Ti ammiro davvero. Ed è per
questo che concederò il perdono a Margot Riford. E' per questo che farò un'eccezione.” Fa un passo
indietro, solleva la testa come a farsi sentire meglio. “Lasciala andare, Elettra. Lasciala libera.”
E' in quel momento, quando capisco che Baguette non è più in pericolo, che riprendo a respirare.
Elettra, la guardia con gli occhi marroni, scioglie il nastro nero che teneva fermi i polsi di Baguette e la spinge verso Vega G.
“Hai molto da imparare, Margot Riford. Per fortuna hai un'amica in grado di insegnarti tutto. Cogli questa opportunità,” dice la Presidentessa. E poi, in un sussurro: “Non ne avrai altre.”
“Grazie,” risponde Baguette. “Grazie per-”
“L'oggetto proibito,” dice la Presidentessa senza darle retta. “Dallo a me, Celeno.”
Celeno, la guardia con gli occhi dorati, appoggia il lettore sul palmo della Presidentessa, che lo
osserva con attenzione.
“Dove lo hai preso, Margot?”
Baguette tentenna, ma poi sussurra: “Era di mia madre.”
La Presidentessa annuisce, prima di restituire l'oggetto a Celeno. “Distruggilo.”
“No.” La voce di Baguette è strozzata dal dolore.
“Non puoi avere tutto, Margot Riford,” dice Vega G e, potrei sbagliarmi, ma sembra quasi che
nei suoi occhi vi sia una goccia di piacere nell'ordinare la distruzione dell'oggetto proibito.
Celeno distrugge il lettore mp3 davanti ai nostri occhi.
Lo appoggia sul prato finto, e dal cappuccio del vestito estrae una pallina bianca, che sistema sul
display.
Dal buffet afferra un bicchiere d'acqua e non appena ne versa un po' sulla pallina, questa diventa
liquida.
“E' una sfera di Zeta,” sento bisbigliare alle mie spalle.
“A cosa serve?” chiede una donna.
“E' un composto corrosivo,” risponde la prima. “L'ha inventato l'USP. Ora dovrebbe... Ecco,
guarda!”
In pochi secondi, il lettore si scioglie in una chiazza nera. L'unica traccia di ciò che è appena
successo è un filo di fumo grigio che si alza nell'aria.
Ecco la loro arma: una sfera più piccola di un'unghia.
“Questo è un giorno di gioia,” dice Vega G. Si volta verso le donne che la osservano con gli occhi pieni di riverenza. “Abbandoniamo il dramma e torniamo a festeggiare, donne di Malorai.” Indossa gli occhiali fascianti e si incammina verso il buffet, seguita da Elettra e Celeno.
Baguette resta a guardare il suo prezioso lettore, una chiazza di liquido nero sul prato. Le appoggio una mano sulla spalla, e mi rendo conto che sta tremando.
“Va tutto bene,” dico. “Sei salva.”
“Perché l'hai fatto?” chiede immediatamente. “Perché, Lilac? Avrebbe potuto mandare anche te a
Parigi. Cosa pensavi di fare, eh?” Muove la spalla fino a scostare la mia mano. I suoi occhi infuocati sono un riflesso dei miei.
“Cosa pensavo di fare? Io? Perché hai portato quell'aggeggio qui? Perché lo hai tirato fuori dalla
borsa? Perché hai sfidato le guardie? Lo sai cosa succede alle donne che vanno in carcere per una
violazione della 761? Non sarebbe accaduto nulla se avessi rispettato la legge, e-”
“Lilac, smettila. Adesso.” La nonna è alle mie spalle, gli occhi ridotti a due fessure. “Smettila,”
ripete. “L'intera città vi sta guardando.”
Ha ragione. Tutte le insegnanti, le allieve. Perfino Jeanette del Musica Per Tutte. Guardano me e
Baguette litigare dieci minuti dopo che le mie parole hanno convinto Vega G a concederle il perdono.
Non so perché l'ho aggredita, non so perché ho gridato. Vorrei chiederle scusa, dirle che probabilmente è stata colpa della paura, ma Baguette si avvia all'uscita con passo spedito. Chiamo il suo
nome, ma lei scuote il capo, mi regala un gesto della mano che somiglia tanto ad uno schiaffo.
E va via.
L'ora successiva è una nube dalla quale emergo solo quando è la nonna a ricordarmi come si fa a
parlare.
Le mie compagne, le loro madri, le insegnanti: ognuna di loro ha una parola per me, un complimento, un ringraziamento. Nonostante credano tutte che Baguette abbia sbagliato, sono felici nel saperla lontana dal carcere.
Mi parlano a voce bassa, quando si complimentano. Quasi come se temessero di poter essere
ascoltate da Vega G o da una delle guardie. Ma la Presidentessa non interviene. Rimane accanto al
buffet a parlare al telefono per molto tempo, e poi passa in rassegna le ragazze del corso di Storia
che non ha avuto modo di salutare prima della cerimonia. Tutto procede come se nulla fosse accaduto, almeno per loro.
Quando Jeanette prende a cantare l'inno dell'USP, le donne – anche la Presidentessa – si uniscono
alla sua voce.
Io e la nonna restiamo in disparte.
“Ho provato a chiamare Baguette. Non risponde,” dico ad un tratto.
“Dalle del tempo. Sarà spaventata.”
E' per questo che vorrei parlarle. Per accertarmi che la mia sfuriata non l'abbia spaventata ancora
di più.
“So che non approvi,” le dico mentre Jeanette comincia una canzone in inglese. “So che avresti
preferito fossi rimasta in silenzio.” Il suo viso è carico di preoccupazione. “Ma se tornassi indietro
lo rifarei, nonna. Interverrei di nuovo per difendere Baguette.”
“Non ti ho educata in questo modo,” dice dopo qualche secondo passato con gli occhi bassi.
“Non ti ho insegnato ad essere una ribelle, Lilac. Oggi ho faticato a riconoscerti,” aggiunge con un
sorriso amaro. Solleva una mano per accarezzarmi la guancia. “Eppure non sono mai stata più fiera
di te, bambina.” Mi attira a sé per stringermi. “Sono così orgogliosa della donna che sei diventata,
e-”
“Maya Kilstrom aveva ragione. Lilac non avrebbe potuto avere radici migliori.”
Vega G è dietro di noi, e la sua voce gentile sorprende sia me che la nonna, la quale si ricompone
velocemente, usando un fazzoletto per asciugare gli occhi.
“Posso solo immaginare,” continua la Presidentessa, “quanto sia stato intenso per lei, dottoressa
Zinna, il gesto di poco fa di sua nipote.”
La nonna sorride. “Lilac è molto forte. E testarda, a quanto pare.”
“Le migliori qualità, in una donna. Soprattutto in un membro dell'USP.” Vega G inclina il capo
verso di me, unendo i palmi delle mani. “Hai mai pensato ad una carriera politica, Lilac? Da quel
che ho visto oggi hai tutto ciò che serve per collaborare con noi, soprattutto per quanto riguarda la
diplomazia. Gran parte del mio lavoro consiste nel convincere le rappresentanti degli altri stati a rimanere unite, a non arrendersi di fronte ai problemi, in particolare quelli legati alla riproduzione.”
Compie un passo verso di noi. “In via strettamente confidenziale,” sussurra, “posso dirvi che nelle
prossime settimane saranno introdotte numerose novità in campo medico e scientifico, soprattutto
nel settore della procreazione. Viaggerò molto, in particolare ad est, per parlare alle donne dei paesi
più ostili alle novità, e avrò bisogno di qualcuno che, se necessario, mi ricordi quali sono le cose
importanti. Mi piacerebbe che quel qualcuno fossi tu, Lilac. In fondo non hai programmi per i prossimi tre mesi, giusto?”
“No,” rispondo con il cuore in gola.
“Quale migliore occasione, allora, per aiutare me e il governo? Impareresti molto, credimi, e alla
fine dei tre mesi rientreresti a Malorai per iniziare a lavorare. Cosa ne pensi? Lei, dottoressa?”
La nonna mi accarezza la guancia. “Cosa ne dici, bambina? Ti piacerebbe viaggiare con la Presidentessa?”
Fino a quattro ore fa, il mio più grande interrogativo era: Riuscirò a ricordare tutte le parole del
discorso? Adesso Vega G mi chiede di far parte dell'USP per tre mesi. La testa mi gira, e non sono
l'unica a rendersene conto.
“Respira, Lilac,” dice la Presidentessa. “Non devi decidere adesso. So che ti piace valutare, riflettere, ragionare. Un'altra qualità che ammiro in te. Quella di oggi è stata una giornata ricca di
emozioni,” aggiunge, guardando la nonna. “Credo che sua nipote abbia bisogno di riposo prima di
poter prendere una decisione. E non temere, Lilac: non sei in alcun modo obbligata ad accettare.”
“Viaggiare con lei durante l'estate sarebbe un onore per me, Presidentessa Vega. Prometto di pensarci, e di darle una risposta al più presto.” Allungo la mano per stringere la sua, ancora fasciata dal
guanto.
“Perché non riparlarne domani?” chiede alla nonna. “Questa sera volerò a Parigi, ma fra ventiquattro ore sarò di nuovo a Malorai, per una visita al reparto Procreazione dell'ospedale. Potremmo
incontrarci in serata, quando avrò concluso i miei impegni ufficiali.”
“E' deciso, allora,” dice la nonna annuendo verso di me.
E' deciso.
***
Diverse ore dopo – dopo aver visto Vega G ripartire col corteo di sicurezza, dopo aver salutato le
mie compagne, dopo aver riprovato a telefonare a Baguette solo per non ricevere alcuna risposta,
dopo aver parlato con la nonna di quanto sarebbe bello lavorare per tre mesi con l'USP – mi ritrovo
a letto, sveglia. E' difficile dormire, quando la mente è accesa da mille domande.
Baguette è arrabbiata con me o, come ha detto la nonna, è semplicemente scossa? Dov'è adesso?
Perché non risponde al telefono? La nonna si sentirebbe sola, se andassi via per tre mesi? E Vega G,
la Presidentessa: ha detto che mi ammira, lo pensa davvero? E in che modo potrei essere d'aiuto all'USP con il mio diploma in Storia Moderna?
Sono questi i miei pensieri quando sento un rumore provenire da destra, precisamente dalla finestra. Mi alzo dal letto per scostare la tenda, e riecco il rumore, stavolta più forte. Un tic sul vetro che
mi costringe a guardare in basso, nel giardino. E a sorridere.
“Temevo di dover usare tutti i sassolini del giardino di Francesca,” dice Baguette quando apro la
finestra. Getta a terra quelli che aveva nel pugno e strofina la mano sui pantaloni.
“Ho provato a chiamarti per tutto il pomeriggio,” dico, sollevata nel vederla. “Dov'eri?”
“Ho lasciato il telefono a casa quando sono tornata a cambiarmi. Scendi? Voglio farti vedere una
cosa.”
Il suo sorriso mi dice che non è arrabbiata.
“Cosa vuoi farmi vedere? E perché non hai bussato alla porta?”
“Dov'è Francesca?”
“A letto. Dorme da un pezzo.”
“Ecco perché non ho bussato. Andiamo, scendi!” dice, agitando le mani.
Cinque minuti dopo sono nel giardino. “Come stai?” chiedo. “Come ti senti, dopo oggi.”
“Come una che l'ha fatta grossa,” risponde, guardandosi le mani. “Non avrei mai dovuto tirar
fuori l'iPod, so di aver sbagliato.” I suoi occhi azzurri brillano sotto la luce della luna. “Mi dispiace
per il guaio che ho creato. Quanto è arrabbiata Francesca da uno a dieci?”
Scuoto il capo sorridendo. “La nonna non è arrabbiata. Mi ha perfino detto che è fiera di me per
ciò che ho fatto.”
Baguette ricambia il mio sorriso prima di prendermi per mano. “Andiamo, voglio portarti in un
posto.”
“Dove?”
Allarga le labbra in un ghigno divertito. “Nel luogo più bello del mondo.”
5
Michelle
“E' questo il luogo più bello del mondo?” chiedo quando ci ritroviamo, pochi minuti dopo, davanti casa della Vecchia.
Baguette annuisce. “Mi hai detto mille volte che avrei dovuto smetterla con gli oggetti proibiti,
ma non è semplice come sembra, e voglio mostrarti il perché.” Quando resto in silenzio aggiunge:
“E sì, il perché è fra quelle mura. Andiamo, entreremo dal garage sul retro.”
Dovrei rifiutare. Entrare nel santuario proibito della Vecchia? Io, Lilac Zinna?
Invece la seguo, imitando il suo passo svelto e guardandomi attorno come se potessi essere seguita.
Il garage della Vecchia è protetto da una porta metallica gialla e quando Baguette la apre, la prima cosa che mi colpisce è l'odore. Un odore di chiuso, un odore di vecchio. La seconda cosa che mi
colpisce è ciò che si trova al centro del garage: un'auto. Non una biposto, bensì una vecchia automobile, una di quelle che uomini e donne utilizzavano prima della Sindrome. E' nera, ha quattro sportelli, ed è lunga il doppio della mia piccola biposto. Il vano anteriore che contiene il motore è aperto, e Baguette lo indica con la mano.
“Ci sto lavorando,” dice. “E' il mio nuovo progetto del mese.”
“Il tuo nuovo progetto?” Sul pavimento del garage c'è una cassetta piena di attrezzi. Accanto ad
essa ci sono bulloni, cacciaviti, stracci sporchi.
“Sto provando a convertire il motore di questa Fiat,” risponde, indicando il pezzo più grande incastonato nel vano scuro. “Voglio installare un motore ad aria su questa automobile.”
“E' possibile?” domando, piegandomi per osservare da vicino il motore della vecchia auto.
“In teoria sì. Stanotte smonterò il motore e installerò questo.”
Da un tavolo prende il motore ad aria che conosco bene. E' grande quanto una mano, e permette
alle nostre biposto di viaggiare, visto che il petrolio è finito da un pezzo, e con esso la benzina.
“Non riesco ancora a capire come facessero prima, con questi aggeggi ingombranti e inquinanti,”
dice Baguette, indicando il motore della Fiat. “Erano pesanti, complicati da far funzionare, ed estremamente delicati. Per non parlare del costo del carburante. Assurdo. Questa è la perfezione,” dice,
muovendo il motore ad aria fra le dita. “Leggero, pulito, indistruttibile. Fra i libri della Vecchia ho
trovato il primo prototipo di automobile ad aria. Era alimentata con aria compressa, invece che con
aria circolante come adesso. Quando usciva dai serbatoi, l'aria era talmente fredda da ghiacciare il
motore. Ogni auto non poteva viaggiare per più di dieci minuti, prima che il proprietario avesse bisogno di scendere e sghiacciare tutto.”
“Wow,” è tutto quello che riesco a dire. “Non sapevo che ti intendessi di ingegneria meccanica.”
So che ha numerose passioni, ma non avevo idea che si intendesse anche di auto. “Dove hai imparato?”
“La Vecchia ha un mucchio di libri e riviste che parlano di auto,” risponde. “Un giorno ho portato qui la mia biposto, ho smontato il motore, l'ho messo a confronto con questo, e ho pensato di provare. E poi ho il sangue di Juliette Riford nelle vene, non scordartelo”.
“Tua madre era un tecnico informatico,” dico sorridendo.
“Tecnico informatico, meccanico: non c'è molta differenza. Sono cresciuta guardando lei che
montava e smontava apparecchi, telefoni, tablet. Qualcosa l'ho imparata.”
“E si vede. Cosa pensi di fare quando avrai convertito la Fiat?” chiedo. “Tu hai già una biposto.”
Utilizzare le vecchie auto non è vietato dalle direttive, e forse è per questo che non mi sento a disagio nel parlarne con Baguette.
“Non lo faccio per avere una macchina in più,” risponde lei. “E' per la sfida, Lilac. La sfida.”
“La sfida?”
“La sfida. Fra vecchio e nuovo, fra passato e presente.”
“E tu fai il tifo per il vecchio. Per il passato.”
“No. Io faccio il tifo per entrambi. E' bello unire la tecnologia di oggi alle cose di ieri. E' quella,
per me, la sfida.”
Abbasso lo sguardo, riflettendo. “Mi dispiace per il tuo iPod. Non sapevo che fosse di Juliette.”
“Non importa,” dice lei scrollando le spalle. “Era un modello molto vecchio, la batteria era a
pezzi. Era destinato a morire. Le sue canzoni preferite, però, sono ancora sul mio tablet. Alla Vec chia non mancano i lettori, ne prenderò uno dalla sua collezione. Non guardarmi così,” aggiunge velocemente. “Prometto che lo userò solo al chiuso, lontano dagli occhi delle guardie.” Finisce di parlare con la mano sinistra appoggiata sul cuore e il capo inclinato verso l'alto. “Prometto solennemente.”
“Dovrai stare attenta, Baguette. Per favore.”
“Lo so,” risponde, abbandonando l'aria scherzosa. “Lo so.”
Il piccolo garage contiene molta roba. Una parete è interamente occupata da scaffali su cui sono
appoggiate scatole di metallo. Sul lato visibile delle scatole c'è un'etichetta, e ogni etichetta riporta
una data.
“Sono le prime pagine dei quotidiani,” dice Baguette. “La più antica risale a centocinquant'anni
prima della Sindrome.”
“Centocinquanta? Davvero?” Mi avvicino alle scatole e ne sfioro le etichette con la punta delle
dita. 1943-1953, 1933-1943 e così via. “E' un archivio immenso,” mormoro.
La biblioteca di Malorai possiede un modesto archivio storico, comprese le prime pagine più importanti della storia moderna e pre-moderna, e due anni fa, in occasione di una gita a Parigi con la
nonna, ho visitato un museo ricco di reperti risalenti all'epoca precedente alla Sindrome. A Parigi,
così in come ogni museo storico del mondo, ogni reperto è stato approvato dall'USP. Dubito che
l'archivio della Vecchia abbia superato la censura del governo.
“Andiamo di sopra. Ti faccio vedere il resto.”
“Di sopra? Il resto? Baguette, è tardi,” dico guardando l'orologio. “Io non posso-”
“Andiamo,” dice allungando la mano verso di me. “Tutti sanno che la casa di Rose è un covo di
cose proibite, eppure nessuno le ha mai fatto nulla.”
“Perché?”
“Non ne ho idea, ma una cosa è certa: le guardie dormono a quest'ora. Andiamo,” ripete, e stavolta la seguo.
La porta che si trova accanto ad uno scaffale conduce alla casa vera e propria. “La Vecchia
dov'è?” chiedo a bassa voce mentre saliamo una piccola rampa di scale.
“Dorme,” risponde Baguette, spegnendo le luci del garage per accendere quelle della casa.
Salgo i gradini con il cuore in gola, guardandomi attorno. Lì dove la mia abitazione è un tempio
del bianco e dell'ordine, quella della signora Johnson è un bazar ricco di mensole, scatole, ripiani,
gingilli, quadri e poster.
Non so dove guardare. Non so a cosa dare la precedenza.
“E' successo anche a me quando sono entrata per la prima volta,” dice Baguette. “Sono qui da un
anno e non ho ancora visto tutto.”
Ci ritroviamo all'ingresso, la porta principale è di fronte a noi. A destra e a sinistra ci sono due
stanze. Baguette cammina in quella a sinistra. Un grosso lampadario appeso al soffitto illumina pallidamente ciò che ci circonda, e per questo la mia amica accende anche tre lampade.
“Questo è il salone, altrimenti conosciuto come Il Paradiso.”
Per lei lo è, ne sono certa.
La stanza è piena di oggetti proibiti, ad iniziare dai quadri e dai poster appesi alle pareti. Le ricoprono interamente, impedendomi di vedere il bianco delle mura. Si tratta di locandine di film, poster
di gruppi musicali composti da uomini, quadri di artisti di sesso maschile. Esempi di arte vietata da
altre direttive dell'USP.
Su una delle pareti, a partire dal pavimento fino a raggiungere i miei fianchi, ci sono dei DVD,
impilati l'uno sull'altro in una serie di torri. Leggo alcuni titoli e non impiego molto a capire che si
tratta di film proibiti.
Sulle torri di DVD, incorniciate e protette da un vetro, ci sono tre mappe del vecchio mondo. Osservo i contorni dei paesi che ora sono chiusi, leggo i nomi delle città che non esistono più. Mi sof-
fermo su Torino, lì dove la nonna è nata e cresciuta. E' un puntino a nord-ovest della penisola italiana, in linea d'aria poco lontano da Malorai.
“Guarda,” dice Baguette. Fra le dita ha un oggetto nero e lucido, di forma rettangolare. “Indovina
cos'è.”
Prendo l'oggetto in mano e mi rendo conto di due cose: è pesante, e non è esattamente rettangolare. Nella parte inferiore c'è un'apertura a forma di V, mentre in quella superiore c'è una piccola fes sura.
“Non ne ho la più pallida idea. E' illegale?”
“Illegale no,” risponde lei. “Inutile sì.”
“Inutile?”
“E' una spillatrice,” dice, scandendo le sillabe. “La Vecchia mi ha detto che prima si usava per
spillare i fogli di carta.”
“Cosa significa 'spillare'?” chiedo, facendo roteare l'oggetto fra le mani.
Baguette si guarda attorno, fino a posare gli occhi su una vecchia rivista. “Dammi, ti faccio vedere.” Prende la spillatrice, sceglie poche pagine del giornale, le sistema nella fessura in alto, e con
forza preme le estremità inferiori. “Ecco,” dice, orgogliosa del risultato. “Ora le pagine sono spillate.”
Le pagine sono incollate l'una all'altra per mezzo di una piccola barretta sottile.
“Nessuna legge ne impedisce l'uso, ma siccome la carta non c'è più, le spillatrici sono praticamente inutili,” dice Baguette.
“Wow.” Resto a guardare l'oggetto per qualche secondo, affascinata come se avessi appena scoperto l'oro. “Cosa fai quando sei qui?” chiedo mentre cammino lungo le pareti, osservando i poster
colorati. Su di essi sono stampati i volti e i corpi di uomini e donne di cui ignoro i nomi, le storie, le
vite. Non li conoscerò mai. Non ascolterò mai le loro voci. “Oltre ad occuparti di Rose,” aggiungo.
“Per la maggior parte del tempo leggo. Rose ha un mucchio di libri che sono stati scritti addirittura prima che lei nascesse. Storie ambientate nel periodo in cui le auto non esistevano, e le persone
dovevano muoversi con le carrozze.”
“Le carrozze,” le faccio eco. “Le donne vestivano in modo strano quando viaggiavano sulle carrozze.”
“E gli uomini?! Portavano dei cappelli alti e i baffi arrotolati sulle guance! Guarda,” dice, afferrando un album da un tavolino. Lo apre e mi indica un disegno a colori che raffigura una coppia, un
uomo e una donna vestiti con gli abiti di quel periodo. L'uomo ha un cilindro alto sulla testa e indossa una giacca nera, più lunga sul retro.
Baguette sfoglia le pagine fino a trovare una foto. “Guarda questa. Guarda come mangiavano.”
La foto raffigura delle persone, forse una famiglia, sedute attorno ad un tavolo. Ognuno di loro
ha davanti un piatto, e nel piatto c'è del cibo vero. L'uomo e la donna sorridono, mentre i bambini,
un maschio e una femmina, portano una forchetta alle labbra.
“Che strano,” mormoro. “Pensa a quanto tempo impiegavano allora per preparare il cibo e mangiarlo.”
“La Vecchia mi ha detto che nelle grandi occasioni passavano anche giorni interi in cucina.”
“A mangiare?”
“No, a preparare il cibo,” risponde ridendo. “Ore ed ore ai fornelli per sedersi attorno ad un tavolo e mangiare.”
Posso cominciare a comprendere la curiosità di Baguette per il mondo che non esiste più. Mi trovo in questa casa da meno di venti minuti e sento il bisogno di fare domande su ogni cosa, su ogni
parola che leggo nelle locandine, su ogni pittore, su ogni cantante.
Dovrei andare via, prima di cadere nella spirale del proibito, ma non riesco a mettere fine a questo viaggio nel passato.
“E' così strano,” mormoro, sfiorando con le dita l'uomo e la donna fotografati in una locandina.
“La Vecchia conserva di tutto,” dice Baguette. “Perfino gli elettrodomestici che non funzionano
più. Questa casa è una miniera dell'illegale.”
“E quello cos'è?” chiedo, puntando il dito verso un grande cubo viola sistemato su una mensola.
Lo raggiungo passando fra due poltrone, scavalcando scatole chiuse seminate sul tappeto scuro.
Baguette segue il mio dito e lancia un gridolino quando capisce di cosa sto parlando. “Quello è
un giradischi.”
“Girachè?”
“Giradischi.” Solleva la parte superiore del cubo e mi mostra un disco sul quale è appoggiata una
barretta sottile. Solleva anche la barretta, prende il disco lucido, uno di quelli che ho visto solo sui
libri.
“Prima del lettore mp3, molti decenni prima,” spiega, “si usavano questi per ascoltare la musica.
Vedi questi solchetti?” chiede, avvicinando al mio viso l'oggetto proibito.
“Mm-mm.”
“Lì è incisa la musica. Sistemando il disco sul piatto e la puntina sul disco, il suono inciso viene
propagato attraverso le casse.” Mima ciò che ha appena detto appoggiando la barretta all'estremità
del disco. “Quando il giradischi parte, la puntina si sposta verso il centro.”
Non riesco a staccare gli occhi dal giradischi. Mi sembra l'oggetto più affascinante del mondo.
“Vuoi provare?” mi chiede a bassa voce.
“Provare?”
“Vuoi ascoltare una canzone?”
“Io non credo che... No,” dico, sapendo già che tipo di canzone potrebbe farmi ascoltare. “E' vietato.”
Vorrei essere convinta al cento per cento delle mie parole.
“Abbiamo già violato almeno dodici direttive,” dice Baguette. “Una in più non fa differenza.”
Gira attorno alla poltrona e va a piegarsi su una cassapanca di legno antico. Ne solleva la parte
superiore, e in essa posso vedere centinaia di dischi, alcuni coperti da una pellicola trasparente, altri
da copertine colorate.
“La collezione di Rose,” dice, facendo scivolare il dito indice sui dischi. “C'è di tutto. Pensa che
quando... Oh, ecco. Trovato.” Solleva una copertina quadrata, e su essa posso vedere chiaramente i
visi di quattro uomini.
“Baguette, è musica cantata dagli uomini?”
“Pensavi davvero che avrei scelto qualcos'altro?” ribatte subito. Mi passa accanto, estrae il disco
dalla copertina e lo appoggia sul piatto. “Pronta?”
Annuisco, la bocca secca e il cuore in gola.
Baguette sistema la puntina sul disco e preme un pulsante.
Il piatto inizia a girare.
Non ho mai ascoltato una canzone cantata da un uomo. Vado ogni settimana al Musica Per Tutte,
sono abituata alla voce di Jeanette. Non so cosa aspettarmi, ma di certo non è questo. Il suono è
graffiante, ma allo stesso tempo melodico e dolce.
E' strano, è diverso. E' mille emozioni in una: paura, gioia, terrore che qualcuno ci scopra. Ma
sopra ogni altra cosa, è curiosità. Ascolto le parole, alcune in francese, altre in inglese, e mi sento
trascinata via, come dalla corrente di un fiume.
La canzone parla d'amore. L'ascolto osservando il piatto che gira a velocità costante, pensando a
mille cose. Quando è stata incisa? Chi era la ragazza? Gli altri tre uomini sulla copertina cantavano
con il solista o suonavano?
Mentre penso a questo, Baguette fa un passo verso di me e mi prende per mano. Inizia a dondolare verso destra e verso sinistra. Senza rendermene conto, mi ritrovo a ballare lentamente con lei,
rapita dalla musica e dalla voce dell'uomo che canta. Appoggio la testa sulla spalla di Baguette
quando lei appoggia la sua sulla mia. La sento cantare sottovoce, e ciò che provo è infinito, unico.
Speciale.
“Ti piace?” sussurra.
Non riesco a formulare una risposta, per cui mi limito ad annuire. Lei non deve rendersene conto,
perché lo chiede di nuovo. “Ti piace?”
“E' bellissima,” rispondo, stringendo le dita fra le sue.
Vorrei che il mio nome fosse Michelle. Vorrei che qualcuno cantasse così per me.
Baguette sposta la testa per guardarmi. “Sapevo che ti sarebbe piaciuta,” dice sorridendo.
“Che momento romantico. Gradite una bottiglia di vino rosso e due candele?”
Sia io che Baguette saltiamo in aria alla voce che proviene dalla porta del salone.
“Scusi, Rose,” si affretta a dire Baguette, spegnendo il giradischi sul finire della canzone. “Ci
scusi. Stavo facendo ascoltare a Lilac un po' di musica.”
Rose è ferma sulla porta, con addosso una lunga vestaglia color sabbia che nasconde il suo corpo
esile e anziano. Non è la prima volta che la vedo, ma è la prima volta che siamo così vicine. Il suo
volto è segnato dalle rughe, in particolare sulla fronte. I capelli, biondi alle punte e bianchi alle radici, sono corti e arruffati. Le labbra sono ancora piene, ma contornate da tante piccole rughe. La sua
intera figura mi ricorda quella di un'attrice che ho visto poco fa su una delle locandine, Katharine
Qualcosa.
“Ci scusi,” dico anch'io. “Non volevamo svegliarla.” Guardo Baguette. “E' tardi. Sarà meglio che
vada.”
“Ti è piaciuta?” chiede La Vecchia, camminando verso di noi. Sembra tranquilla, ma mi fa
ugualmente paura.
“Come?”
“La canzone,” dice, indicando il giradischi. “Ti è piaciuta?”
“Beh... noi-”
“Non sono Vega G, Lilac. Dio ti ringrazio,” aggiunge sollevando gli occhi al cielo. “Puoi rispondere liberamente.”
Annuisco, torturandomi i bordi della maglia con le dita. “Sì. Mi è piaciuta.”
“Bene.” Sorride. Porta le mani sul cuore prima di aggiungere: “Passa a Revolver, Margot. Io vado
a preparare il tè.” Gira i tacchi e esce dalla stanza, ma prima di imboccare il corridoio si volta verso
di me. “Mettiti comoda, ragazza. Non è mai troppo tardi per appassionarsi ai quattro di Liverpool.”
Dieci minuti dopo, Baguette ed io siamo sedute sul divano a sorseggiare profumatissimo tè (tè
vero, non finto!) con La Vecchia, e ad ascoltare la musica de 'i quattro di Liverpool'.
Rose ha gli occhi chiusi, ma è sveglia. La tazza di tè è salda fra le sue mani. Baguette mi sorride,
tenendo il ritmo della musica con un piede, e io dico a me stessa che sì, sto violando un milione di
regole, ma sto anche vivendo qualcosa che nessuna donna, in tutta Malorai, ha mai vissuto.
Ed è merito del fascino del proibito.
“Rose?” Baguette si sporge in avanti e appoggia una mano sul ginocchio ossuto della donna.
“Dimmi, Margot.” Apre gli occhi e ci guarda, bevendo un sorso di tè.
“Le andrebbe di raccontare qualcosa a Lilac? Qualcosa dei suoi tempi?”
“Baguette, no. Non deve farlo,” dico a Rose. “Non si preoccupi, non è necessario.” Lancio alla
mia amica uno sguardo imbarazzato. “Lascia stare,” dico fra i denti.
“A Rose piace parlarne,” insiste lei. “Vero?”
La Vecchia appoggia la tazza sul tavolino e unisce le mani in grembo.
“Tua nonna è la vecchia farmacista di Malorai.”
Quando parla, Rose lo fa scandendo ogni parola, come se chi le sta di fronte potesse avere difficoltà nel comprenderla. In realtà, il suo è solo il modo di parlare di una donna molto anziana. Non
conosco la sua età, ma credo che potrebbe tranquillamente passare per la madre di mia nonna, tanto
è in là con gli anni.
“Sì,” dico. “Abitiamo a poche decine di metri da qui, signora.”
“Ricordo tua madre,” dice guardandomi negli occhi. “Non le somigli per niente.”
Baguette scoppia a ridere. “Come? Lilac è identica a Irene.”
“Fisicamente, forse,” risponde l'anziana. “Ma io non parlavo dell'aspetto fisico.” Prende la tazza,
beve un altro sorso. “Allora, cosa vorresti sapere?” chiede, la voce quieta, ma non debole.
“Qualsiasi cosa,” rispondo subito, mandando all'aria ogni freno.
Lei ride. “Attenta, ragazza. Sarà meglio che tu faccia una domanda specifica. Molte delle cose
che sono qui,” dice picchiettandosi la fronte, “potrebbero non piacerti. Avanti, chiedi pure. Chi studia Storia ha sempre un mucchio di domande da fare.”
Stringo la tazza fra le mani, rifletto
“Come fa a possedere queste cose? Gli oggetti proibiti, l'auto nel garage, i libri e i dischi. Sono
suoi? Come sono arrivati qui?”
La Vecchia alza un sopracciglio, e per la prima volta da quando è apparsa nel salotto vedo in lei
non solo una donna con qualche rotella fuori posto, ma anche una persona capace di umorismo. “E'
questa la tua domanda? Sul serio?”
“Sul serio?” le fa eco Baguette, dandomi una gomitata.
“Sì,” rispondo. “E' questa.”
La Vecchia si sporge in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Dallo scollo della vestaglia
scorgo il tessuto arricciato della camicia da notte bianca. Il suo profumo è delicato, semplice. “Risponderò alla tua domanda, Lilac, a patto che tu risponda correttamente alla mia. Ti racconterò di
come ho portato i vecchi archivi a Malorai dall'Italia, quando il paese è stato chiuso. Ti spiegherò
cosa contengono le scatole alla tua sinistra, e ti dirò perché nessuna guardia è mai entrata in casa
mia per portarmi al carcere di Parigi. Risponderò ad ogni tua domanda, ma prima dovrai rispondere
alla mia. Intesi?”
Annuisco.
“La mia domanda è questa: cosa occorre per vedere bene?” Scandisce le parole una alla volta, e
alla fine si siede come prima, con la schiena appoggiata alla poltrona e la tazza fra le mani.
“E' questa la domanda?” chiedo, guardando Baguette con gli occhi pieni di stupore.
“Proprio questa,” risponde Rose. “Cosa occorre per vedere bene?”
“Ma è semplice. La vista. Gli occhi. Prima, in alcuni casi, si usavano gli occhiali, ma oggi è possibile prevedere e curare ogni problema visivo ancor prima della nascita.” Mi giro verso Baguette.
“E' così, no?”
Baguette guarda Rose.
La donna sorride, prima di alzarsi dalla poltrona. “Torna da me quando avrai la risposta giusta,
Lilac,” dice, avviandosi nel corridoio. “In quell'occasione ti racconterò tutto, anche ciò che non hai
chiesto. Anche ciò che non sai di voler sapere. E' una promessa.”
“Ma che vuol dire? E' forse un indovinello? Uno scioglilingua? Mi faccia riprovare.”
Lei scuote il capo. “Torna da me con la risposta giusta. Sarò qui ad aspettarti.” Guarda Baguette
e aggiunge: “In bocca al lupo con il motore ad aria.” Solleva la tazza come per fare un brindisi.
“Buonanotte, ragazze.”
Sentiamo i suoi passi percorrere il corridoio fino alle scale, poi il cigolio di una porta – probabilmente quella della camera da letto – che si chiude.
“Qual è la risposta?” chiedo a Baguette. “Tu la conosci?”
“Io avrei risposto ciò che hai risposto tu,” dice, raccogliendo le tazze vuote. “Però l'hai sentita,
quando avrai la risposta giusta ti racconterà tutto.”
“Secondo me è matta,” borbotto, aiutandola a riordinare le poltrone e il tavolino. “Non esiste
un'altra risposta oltre quella che le ho dato.”
Baguette scrolla le spalle. “Con Rose una sola cosa è certa: non smetterà mai di stupirti.”
E in quel momento, un forte suono mi fa girare la testa verso una delle pareti. “E quello che cos'è!?”
“Un orologio a pendolo. Ha quasi due secoli. L'ho trovato in garage, non funzionava più perché
il motorino elettrico che regola il pendolo era danneggiato. L'ho riparato,” dice con orgoglio, “usando una delle nostre batterie.”
“Non ho capito neppure una parola di ciò che hai detto,” dico, guardandola come se avesse tre teste. “Hai usato una batteria solare per far camminare un vecchio orologio?”
“Esatto.”
Osservo l'orologio appeso alla parete, incastonato in una struttura di legno scuro che si sposa alla
perfezione con tutti gli oggetti antichi presenti nella stanza. “Accidenti, è tardi!” esclamo quando mi
rendo conto dei numeri evidenziati dalle lancette. “Devo tornare a casa, subito.”
“D'accordo,” risponde lei sollevando le tazze. “Porto queste in cucina e andiamo.”
Vorrei seguirla. Curiosare nella cucina della Vecchia come ho curiosato in questa stanza, ma invece resto qui, ad ammirare per l'ultima volta i quadri e ad ascoltare le ultime note di una canzone
proveniente dal giradischi.
Quando ci ritroviamo in strada, nella notte tiepida e silenziosa, è Baguette a parlare per prima.
“Puoi capire, adesso? Puoi capire perché amo tutti gli oggetti proibiti?” Si gira verso la casa di
Rose. “Puoi capire perché per me quello è un luogo felice?”
“Sì,” rispondo. “Ora posso capire.”
Penso alla voce proveniente da un'altra epoca che canta per una ragazza chiamata Michelle. Penso alle foto, alla coppia stretta in un abbraccio su una delle locandine appese al muro. Penso alla
voce di Rose: anch'essa, come la sua casa, sembra contenere tutto il passato del mondo.
“Però è proibito,” dico sottovoce, e non so se lo faccio per ricordarlo a lei o a me stessa.
“Però mi rende felice,” rilancia Baguette. “E io preferisco dare valore a ciò che mi rende felice
invece che alle regole. E so che non dovrei dirlo, soprattutto dopo quello che è successo oggi, però è
così. Tu hai un mucchio di cose,” dice gesticolando. “Hai tua nonna, hai i tuoi libri di Storia e il tuo
amato liceo. Da Settembre avrai un lavoro e presto avrai anche una figlia. Io ho poco e nulla, invece. Pensaci. Ho te, vero. Ho nonna Francesca, e voi due siete come una famiglia. Ma non siete la
mia famiglia. Mia madre è morta, mia sorella pure. Non ho cugine, non ho una nonna, non ho molte
amiche. Ho La Vecchia e il suo museo. Ho quel mondo fatto di oggetti da riparare, di dischi, di vecchi giornali e di libri proibiti.”
“Ma presto procreerai anche tu. Presto avrai anche tu una famiglia. Hai già compiuto diciotto
anni, in fondo. Devi solo fare gli esami del sangue e avviare il processo riproduttivo.”
Baguette scuote il capo, e il sorriso che ha sulle labbra rende ancora più triste l'assenza di luce
nei suoi occhi. “Io non intendo procreare, Lilac. Non voglio avere una figlia.”
“Perché?” chiedo subito.
“Per tanti motivi. Considerando l'esperienza di mia madre, non è detto che io riesca a partorire
senza lasciarci le penne. E l'idea di mettere al mondo un'orfana non mi piace neanche un po'. Io
sono un'orfana, e la mia vita non è migliore per questo. E poi,” dice sospirando, “perché dovrei...
come potrei.” Si ferma e riparte più volte, fino a non poter più continuare. Le accarezzo il braccio,
avvicinandomi di qualche passo.
“Che c'è, Baguette? Parlami.”
Quando mi guarda, i suoi occhi sono pieni di lacrime. “Perché dovrei far nascere una bambina in
un mondo dove tutto è proibito? In un mondo in cui il nostro unico scopo è quello di adorare Vega
G e cercare di non estinguerci? Perché dovrei rischiare la mia vita e quella della mia bambina per
mettere al mondo una persona alle cui domande non potrò mai rispondere, se non con 'Questo è vietato. Di questo non si può parlare. Questo è proibito.' Perché dovrei partorire? Per far rientrare mia
figlia nelle tue statistiche sulla mortalità infantile e sulla popolazione mondiale? Perché è quello il
nostro scopo, Lilac. E questa non è vita. Quella,” dice, indicando con forza la casa di Rose, “quella
è la vita che vorrei. Per me e per mia figlia. Quel mondo, quei suoni, quella Storia. Ma questo,” dice
indicando la strada in cui siamo ferme. “Questo non è il mondo per me. Questo non è il mondo in
cui voglio procreare.” Lascia andare una risata amara prima di pulirsi le guance bagnate. “Anche
questo termine è assurdo, non te ne rendi conto? Procreare. Una volta si diceva Fare figli, una volta
si diceva Creare una famiglia. Ora cosa siamo, invece? Macchine che sfornano bambine per evitare
che l'USP si estingua.”
Non l'ho mai vista così. Mai. Baguette è sempre stata ottimista.
Non posso fare a meno di pensare che gran parte del suo sconforto sia causato dal mondo che ha
conosciuto nel museo proibito della signora Johnson.
C'è un motivo per cui certe cose sono vietate, e ora lo comprendo più che mai. Ricordare il passato provoca la nostalgia e il desiderio di tornare indietro. E quando ciò si rivela impossibile, perché
gli uomini non esistono più, ecco che la nostalgia diventa disperazione, rabbia. E' il Periodo Buio, e
Baguette sta vivendo il suo.
Devo aiutarla. Devo rimanerle accanto per evitare che il suo sconforto diventi depressione, che la
sua sfiducia verso le regole diventi anarchia, ribellione. Non posso permettere che invecchi come
Rose, in un mausoleo di cose proibite. Non posso lasciarla nella solitudine.
Mi avvicino e la prendo fra le braccia, stringendola. Non posso capire tutto ciò che prova. Sono
orfana come lei, è vero, ma io ho avuto la nonna. Io ho avuto lo studio, i libri, i mille progetti del liceo.
“Noi non siamo macchine,” le dico all'orecchio. “Non abbiamo un unico scopo, non siamo qui
per fare numero.” Prendo il suo viso fra le mani, la guardo negli occhi. “Tu non sei sola, chiaro? Hai
me. Avrai sempre me. Sai fare un mucchio di cose, sei così intelligente, e pensi davvero di non ave re nulla? Potresti tornare a studiare, diventare tecnico informatico come tua madre. Potresti inventare mille cose utili per le donne, potresti... Puoi,” mi correggo. “Tu puoi fare tutto. Tutto.”
Annuisce, ma non smette di piangere. La tengo stretta a me, noncurante del fatto che probabilmente le sto facendo male.
“Andrà bene,” sussurro. “Te lo prometto.”
Non ti lascerò, Baguette. Te lo prometto.
6
Le Cascate Di Malorai
Il giorno dopo passa in un lampo, e non solo perché mi sveglio relativamente tardi, ma anche
perché - in visione dell'arrivo di Vega G - la nonna mi assegna mille commissioni, gran parte delle
quali da fare fuori casa.
Quando rientro, nel pomeriggio, la trovo nel salone, intenta a sistemare un vaso di iris blu sul tavolo.
“Hai ricaricato le batterie?” domanda non appena mi vede.
“Tutte,” dico appoggiando il pesante zaino su una sedia. “E' per questo che ho impiegato un'ora
al distributore,” aggiungo con sarcasmo.
Una volta c'era l'energia elettrica, oggi ci sono le batterie ad energia solare. Le usiamo per tutto,
dalla casa alla biposto, dall'illuminazione del paese a quella negli ospedali.
“Bene,” dice distrattamente, guardandosi attorno. “Qui mi sembra che sia tutto in ordine, vero?”
Ogni angolo della casa risplende grazie al lavoro che abbiamo fatto insieme prima che andassi al
distributore. Non che la casa fosse sporca o disordinata, ma la nonna ha voluto pulire a fondo. Ogni
superficie brilla, ogni cuscino è gonfio fin quasi a scoppiare, e i fiori del suo giardino profumano
l'ambiente più di quanto potrebbe fare il migliore deodorante chimico.
“Sono bellissime,” dico, toccando le nuove tende lilla. Le ha create questa mattina col suo cilindro. “Credi davvero che la Presidentessa reagirà bene quando le dirò che intendo rifiutare la sua
proposta?”
“Certo,” risponde, coprendo la mia mano con la sua. “E' stata proprio lei a dirti che non sei obbligata ad accettare. Cerca di rimanere tranquilla. Vega G capirà che Baguette ha bisogno di te.”
Quando sono rientrata in casa, questa notte, ho fatto più rumore del previsto. La nonna si è svegliata e mi ha chiesto perché fossi uscita di casa, e dove fossi andata. Ho evitato di raccontarle che
sono stata a casa di Rose, ma non le ho nascosto la mia conversazione con Baguette. Anche se avessi voluto, non avrei potuto farlo: ero troppo scossa dopo averla vista piangere in quel modo, e la
nonna ha capito subito che c'era qualcosa di strano in me.
Alla fine del mio resoconto, quando le ho detto che non avrei potuto lasciare Baguette in un momento così difficile, la nonna mi ha abbracciata e ha detto: “Sei un'ottima amica, bambina. Sono orgogliosa di te.” E quando le ho parlato dei miei dubbi in merito alla proposta di Vega G, mi ha confortata. “La Presidentessa capirà,” ha detto. “Ne sono certa.”
L'offerta di girare il mondo con la donna a capo dell'USP è arrivata all'improvviso, e in un altro
momento avrei accettato senza problemi, ma ora non posso lasciare Baguette. Quando Vega G arriverà le spiegherò che, soprattutto alla luce dell'incidente con l'iPod, sento la necessità di rimanere
accanto alla mia amica.
“Parlando di Baguette,” continua la nonna, “prima sono andata a farle visita.”
“Quando?” chiedo immediatamente. “E' forse successo qualcosa?”
“No, tranquilla. Dopo ciò che mi hai raccontato stanotte ho pensato che fosse necessario farle capire che non è poi così sola come pensa. Sono rimasta con lei mentre eri al distributore. Abbiamo
chiacchierato.”
“Di cosa?”
“Di tutto e di niente,” dice scrollando le spalle. “Stava cucendo una nuova camicia, mi ha mostrato come si fa. Ha molto talento. Le ho fatto i complimenti.”
Vorrei dirle che Baguette ha numerosi talenti, ma per farlo dovrei parlarle del museo del proibito,
e non credo sia il caso.
“Sono preoccupata per lei,” mormoro. “Non voglio che abbia quei pensieri cupi, voglio che torni
a sorridere e ad essere ottimista.”
“Lo farà,” dice la nonna. “Non temere. Capita a tutte di smarrirsi, soprattutto alla vostra età. Ma
Baguette è forte e poi ha te. Insieme, voi due, formate una squadra imbattibile. Non dimenticarlo
mai.”
Le sue parole mi rincuorano. “Grazie, nonna.”
La sua risposta è un sorriso gentile. “Che ne dici di andare a fare una passeggiata?”
“Una passeggiata? Ora? Dovremmo prepararci per l'arrivo di Vega G. Io devo ancora creare il
mio abito.”
“C'è tempo,” dice con un gesto della mano. “Abbiamo lavorato tutto il giorno. Ci meritiamo una
pausa.” Le rughe attorno agli occhi verdi si allungano quando inclina il capo. “Il tempo passa così
in fretta, bambina. Ieri iniziavi a camminare, proprio qui, in questa stanza. E oggi sei una donna
pronta a lasciare la tua traccia nel mondo.” Mi accarezza i capelli. Ferma la mano sulla guancia, usa
il pollice per accarezzarne lo zigomo. “Andiamo. Ho voglia di uscire.”
“Pensavo dovessimo andare a piedi,” dico quando, una volta fuori casa, la vedo salire sulla sua
biposto.
“Il posto in cui voglio andare è lontano da qui. Ci servirà l'auto. Ehi,” aggiunge, infilando la
mano nella tasca dei pantaloni. “Ne vuoi una?” Mi mostra due cubetti avvolti nella pellicola colorata.
“Caramelle? Grazie!”
“Quella è al latte,” dice indicando il cubetto avvolto dalla pellicola bianca. “Il tuo gusto preferito.”
Mastico la caramella mentre la nonna mette in moto e ne assaporo il gusto dolce, anche se artificiale. Dopo qualche centinaio di metri, la nonna lascia una mano sul volante e con l'altra prende la
mia. Ne bacia il dorso e l'attira al petto.
“Dove stiamo andando?”
“Alle cascate,” risponde dopo aver svoltato ad un incrocio.
“Le cascate di Malorai?”
“Proprio quelle, bambina.”
“Fantastico! Ma faremo in tempo? La Presidentessa arriverà-”
“Tutto andrà bene, Lilac. Non agitarti,” dice stringendo la mia mano. “Rilassati.”
Non vado alle cascate da anni, soprattutto con la nonna. Si tratta di cascate costruite dall'USP
quando l'Italia è stata ufficialmente chiusa. Sono circondate da un bosco ricco di vegetazione artificiale. E' uno dei posti più belli che io abbia mai visto.
Quando ero bambina ci andavo spesso in estate, con la nonna, Baguette e Juliette, per trascorrere
la giornata sulla riva, fra i massi giganti e i cespugli finti. Da quando Juliette è morta, però, le gite
alle cascate sono diventate rare, soprattutto per sua figlia. Non le piace andare lì senza sua madre, e
le poche volte che io e la nonna l'abbiamo convinta ad unirsi a noi ha passato tutto il tempo a lanciare sassolini nell'acqua senza rivolgerci la parola.
Molti dei ricordi più belli della mia infanzia sono legati alle cascate.
Abbiamo festeggiato lì tutti i miei compleanni, nel mese di Luglio. Quando ho compiuto sei anni
ho provato lì la mia prima fetta di torta al cioccolato, preparata dalla nonna dopo essersi fatta recapitare gli ingredienti da Parigi e averla preparata nel forno acquistato per l'occasione. L'anno successivo, ad Aprile, Juliette ha preparato la stessa torta per Baguette, e l'abbiamo mangiata sulla riva del
fiume.
Ne ricordo ancora il sapore, nonostante siano passati più di dieci anni.
Conserviamo molte foto dei giorni alle cascate e, anche se Baguette è diventata allergica a quel
luogo, so che esso rappresenta una fonte di bei ricordi per lei. Nei prossimi giorni dovremo tornarci.
“Tutto bene?” chiedo alla nonna dopo cinque minuti di silenzio. Abbiamo lasciato la zona residenziale di Malorai, e il sole che si avvia al tramonto è alla nostra destra.
Lei annuisce. “Sì, bambina. Tutto bene.” Le sue labbra sorridono. I suoi occhi, però, rimangono
concentrati.
Il manto stradale liscio lascia ben presto spazio al viottolo che porta al boschetto, ed è quando la
biposto rallenta fino a fermarsi fra i cespugli che mi rendo conto del cambiamento nella nonna. Il
suo viso è teso, e le rughe sono ancora più visibili, marcate.
“Che succede, nonna? Mi sembri preoccupata.”
Lei spegne l'auto e si gira a guardarmi. “Lilac, non c'è un modo diverso per dire ciò che sto per
dirti.”
“Cosa devi dirmi?” domando, cercando i suoi occhi e trovandoli lontani, distaccati.
“Bambina, non puoi più vivere a Malorai. Non puoi più vivere con me.”
“Che cosa?”
Le sorrido, ma il suo volto rimane impassibile. Mi prende per mano, inspirando ed espirando prima di parlare.
“Lei ha capito. Lei sa.” La sua voce trema. “Lei sa, bambina, e io non posso più proteggerti.”
Balbetta, una cosa che non ha mai fatto. E' agitata, e i suoi occhi sono lucidi.
“Nonna, cosa stai dicendo? Da cosa non puoi proteggermi?”
“Non da cosa. Da chi. Io non posso più proteggerti,” ripete, “e tu non puoi più vivere qui. Devi
andartene.”
L'urgenza delle sue parole mi confonde. “Nonna, perché-”
“Nello zaino c'è tutto,” dice, pulendo gli occhi umidi con le dita. “Il resto arriverà quando-”
“Nello zaino?” Mi giro verso la parte posteriore della biposto e mi accorgo che nel retro c'è un
grande zaino blu. “Nonna, non capisco. Pensavo che volessi passeggiare alle cascate, ma... Spiegami cosa sta succedendo, ti prego. Da chi devi proteggermi? Cosa stai dicendo?”
“Loro ti spiegheranno tutto.” Apre lo sportello e scende. La imito, facendo il giro dell'auto per
bloccarla.
“Chi? Chi mi spiegherà tutto?”
“I tuoi genitori,” dice, a voce talmente bassa che per un attimo credo di aver immaginato tutto.
“Loro ti racconteranno tutto.”
“I miei... Nonna, sei impazzita? Cosa sign-”
“Tu hai una madre, Lilac. E un padre. Ed è lì che devi andare, da loro.” Scioglie la mia presa e
guarda l'orologio. “Manca poco.”
Fatico a capire le sue parole. Le ascolto, le elaboro, ma non le capisco.
Una madre? Mia madre è morta quando sono nata.
Un padre? E' impossibile, gli uomini non esistono più.
“Nonna.” Alzo gli occhi ma lei non è più con me. E' accanto alla biposto, sta aprendo il vano posteriore.
“Capsule, medicine, i tuoi vestiti, le tue cose: c'è tutto,” dice mentre prende lo zaino. Mi guarda
negli occhi e aggiunge: “Il resto arriverà dopo.”
E' in quel momento che sento un rumore provenire dagli alberi alla nostra destra.
La nonna mi afferra per spingermi dietro di sé, ma la stretta si allenta quando due figure emergono dagli alberi.
Porto la mano sulla bocca per sopprimere un grido quando le vedo avvicinarsi, e le riconosco.
Non si tratta di due persone qualunque.
Si tratta di due uomini.
“Nonna, chi sono quei due?” Non è solo la mia voce a tremare, ma anche il mio corpo.
“Ti porteranno dai tuoi genitori,” risponde, per nulla sorpresa nel vedere due uomini, vivi, a pochi metri da noi.
“C-Com'è possibile?” chiedo. “Gli uomini non esistono più. Non è possibile. C-Chi sono quei
due?”
La nonna mi lascia, senza rispondere, e si incammina verso di loro. Quando li raggiunge inizia a
parlare, ma non riesco a sentire ciò che dice.
Quello anziano ha la pelle scura. E' alto come la nonna, e probabilmente ha la sua stessa età. Indossa un giaccone verde su un paio di pantaloni color cachi. L'altro è più giovane. Potrebbe avere la
mia età. E' alto e robusto. I suoi capelli sono completamente rasati.
“Qui c'è tutto,” riesco a sentire ad un tratto. E' la nonna a parlare. “Anche i semi.” Si gira verso
di me. “Vieni, Lilac. Devi andare.”
“Dove? No! No, nonna, no! Chi sono queste persone?” grido. “Perché sono qui? Che cosa sta
succedendo?”
La nonna mi prende per mano mentre l'uomo di colore mette lo zaino sulle spalle.
La testa inizia a girarmi quando sento la voce della nonna. “Avrei dovuto fare di più, bambina,”
dice fra le lacrime. “Credevo di aver fatto la cosa giusta, credevo che sarei riuscita a fare le cose
perbene, questa volta. Tua madre e tuo padre sapranno proteggerti. Credevo di aver fatto la cosa
giusta,” ripete, “ma lei ha capito, e io non posso rischiare di-”
“Nonna, chi ha capito? Di chi parli? Chi sono questi uomini? Da dove arrivano? Dove mi porteranno? Spiegami, nonna. Cosa... Cosa...” Sbatto le palpebre per mettere a fuoco il suo viso, ma la
vista è all'improvviso sfocata. La testa gira forte.
“Il sonnifero sta facendo effetto,” dice ai due uomini.
Vedo quello di colore muovere le labbra, ma non sento ciò che dice. L'altro, quello giovane, si
muove verso di me nel momento in cui mi aggrappo con tutta me stessa alla nonna.
“Dove mi porteranno?” domando con un filo di voce. Le palpebre sono pesanti, i pensieri confusi. “Chi sono? Perché?”
Sento le sue labbra sulla fronte, prima di chiudere gli occhi.
Sento la sua voce dirmi: “Perdonami, bambina. Ti voglio bene”, prima di perdere i sensi.