a cura di - Istoreco

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RS
RICERCHE STORICHE
Anno XXIX
N. 78 - dicembre 1995
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Salvatore Fangareggi
Direttore Responsabile
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Antonio Zambonelli
Capo Redattore
C. Mario Lanzafame
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ISTORECO
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e della Società contemporanea
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Registrazione presso il Tribunale di
Reggio Emilia n. 220 in data 18 marzo 1967
Rivista quadrimestrale dell' ISTORECO
(Istituto per la storia della Resistenza
e della Società contemporanea di Reggio Emilia)
Le immagini che corredano il fascicolo, risalgono alla fine degli anni 50 primi 60, quando
ancora nelle nostre campagne si indossava il
tabarro. L'autore delle foto è Franco Cigarini
(1924-1982), operaio marmista, partigiano
nella 26.' brigata Garibaldi; nel dopoguerra
"dugarolo", poi fotografo, regista e poeta (ricordiamo 'La vacca di ferro. Poema delle
Reggiane').
Il "Fondo Cigarini", da cui sono tralte le immagini, comprende centinaia di stampe e alcuni
documentari su pellicola e video. E' depositato
in gran parte presso l'Assessorato Cultura del
Comune di Reggio Emilia e, in piccola parte,
presso l'lstoreco.
Il Fondo é in attesa di ordinamento e valorizzazione.
Il repertorio
della memoria è logoro: una valigia di cuoio
che ha portato etichette di tanti alberghi.
Ora vi resta ancora qualche lista
che non oso scollare. Ci penseranno i facchini,
i portieri di notte, i tassisti.
(E. Montale, 1971)
3
6
Riflessioni
Renzo Bonazzi
12
32
Conversazioni
l.P. Azémà
Dal regime di Vichy alla nuova Repubblica.
luglio 1940 - novembre 1946
(a cura di Antonio Torrenzano)
l. Semélin
Totalitarismo e memoria della resistenza civile.
Un repertorio per il presente.
(a cura di Antonio Canovi)
Saggi
lunio Valerio Maggiani
50
Paul Nizan
Documenti
Antonio Zambonelli
60
Un ricordo di Bufalino
Dopo aver fatto fronte a cinque mesi di 'Straik'.
Sulle tracce di montanari emigranti in America.
Memorie
Simone Chéneau
Gli lemmi di Drancy
(a cura di Antonio Canovi)
68
Crocevia
a cura di C. Mario Lanzafame
92
118
Giampaolo Calchi Novati
Il Ghana e il suo ruolo in Africa
Zeleke Eresso
L'Etiopia, la mia storia
Didattica
Chiara Ottaviano
L'uso pubblico della storia e il mestiere dell'
insegnante
Maria Nella Casali
Sulle tracce del filo d'Arianna. In margine al
convegno nazionale
Comunicazione della storia e fabbisogni
formativi fra ricerca, didattica e divulgazione
Recensioni
Fincardi
Storchi
Canovi
Paterlini
Lanzafame
5
Inverno '44:
un incontro con Bufalina ...
In una grigia giornata dell'inverno 1942/43, dopo mesi di una
tenace febbriciattola serale, un febbrone da cavallo mi rivelò l'esplosione di una "malattia di petto" (come nel linguaggio corrente, per
pudore e discrezione, veniva indicata la tubercolosi) che mi costrinse
a più di un anno di degenza e ad una lunga convalescenza.
Nel corso di quest'ultima, nell'autunno del 1944, il prof. Bianchieri, che mi aveva praticato l'intervento chirurgico (la recisione
del nervo frenico) che contribuì alla mia guarigione, riuscì a farmi
ricoverare nell'Ospedale di Scandiano, anche per sottrarmi al pericolo di qualche rappresaglia nei miei confronti da parte dei fascisti
repubblichini.
Infatti, in quel periodo, mio padre si era allontanato da Reggio
e rifugiato a Bologna presso un parente, perché aveva avuto notizia
di essere stato incluso in gruppo di persone, che avrebbero dovuto
essere prelevate, col rischio di essere giustiziate.
Nell'autunno del 1944 i fascisti repubblichini vivevano un momento di allarme, di pessimismo e di crisi per l'iniziativa degli alleati
e per l'incalzare della resistenza.
Per recuperare fiducia ed autorità, i titolari delle più importanti
cariche militari, istituzionali e politiche della provincia erano stati
sostituiti, ed i nuovi incaricati tentarono di riprendere il controllo
della situazione con alcune iniziative che avrebbero dovuto essere
segnali di determinazione e di forza.
Tra queste, la cattura, in diverse località della provincia, di personaggi noti della borghesia, responsabili, secondo Guglielmo Ferri,
RENZO BONAZZI
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da pochi giorni nominato Commissario federale e comandante della
Brigata nera della provincia, "materialmente e moralmente della
situazione di sovvertimento e disordine, antinazionale ed antitedesco
decisamente pro-nemico", in realtà, colpevoli soltanto di non avere
aderito al fascismo repubblichino, senza per questo, tuttavia, avere
avuto parte attiva nella resistenza.
Alcune delle persone indiziate, e mio padre tra queste, furono
avvertite del rischio che correvano e riuscirono a mettersi in salvo.
Così, non fu per il ten.col. Giuseppe Sacchi, l'avv. Massimiliano
Polacci, il dott. Antonio Angeli e l' ing. Erminio Marani, che, arrestati
a Reggiolo il 17 settembre, furono nello stesso giorno assassinati.
Non ho mai saputo chi abbia informato mio padre, anche se ho
il sospetto che possa essere stato un alto funzionario della prefettura
che durante la sua assenza fornì, occultamente, alla mia famiglia
notizie sulle intenzioni dei fascisti nei nostri confronti.
Fu anche in relazione a queste informazioni, ed in considerazione
delle mie condizioni di salute, che i miei familiari cercarono di
collocarmi in un luogo più protetto da possibili rappresaglie e, come
ho detto, riuscirono a farmi ricoverare presso l'ospedale di Scandiano.
Qui ero ospitato in uno stanzone con tre letti. Mi venne assegnato
quello di mezzo. Alla mia destra avevo un anziano signore, più che
dalla malattia angosciato dall'abbandono in cui amici, se ne aveva
mai avuto, e familiari, se ne aveva ancora, lo lasciavano; alla mia
sinistra un giovane meridionale, più anziano di me di alcuni anni,
che in quel periodo era costretto alletto, assorto in una gentile apatia,
che mi incuteva una certa timidezza nei rapporti, pur naturali e
frequenti in quelle condizioni di convivenza.
Il suo modo di essere, d'altra parte, esercitava su di me un moto
di simpatia e di interesse che mi induceva a seguirne i comportamenti.
Non sapevo, allora, attraverso quali vicissitudini fosse finito in un
letto di ospedale. Ripensandoci ora, forse intuivo che qualcosa di
grave ed angoscioso, non solo la malattia, era intervenuto a modificare "l'invincibile gaiezza del sangue giovane", e mi attraeva un
fervore che, tuttavia, trapelava dai brevi colloqui con me, dalla
conversazioni che seguivo con le persone che venivano a visitarlo,
dalle letture che occupavano la maggior parte del suo tempo.
Nei momenti di maggiore confidenza, o solitudine, di entrambe,
poteva capitare che mi leggesse brani della lettura che stava facendo.
Fu così che da lui imparai a conoscere, e sentii leggere, quella
struggente poesia di Baudelaire che inizia: "Tes beaux yeaux sont
las, pauvre amante - Reste long-tems, sans les rouvir, - Dans cette
pose nonchalante - ou t'a sourprise le plaisir".
Quel giovane era Gesualdo Bufalino, del quale RS ha pubblicato
la bella testimonianza del suo soggiorno a Reggio e della degenza
nell'ospedale di Scandiano, in cui ricorda, anche, l'incontro con me.
Quando, nel 1981, apparve il suo primo libro di successo "Diceria
dell'untore", poiché mi pareva di riconoscere, in molti particolari
delle vicende raccontate, quel giovane, compagno di ospedale, del
quale il nome, se mai lo avevo appreso compiutamente, avevo del
tutto dimenticato, gli scrissi per averne conferma e comunicargli
l'emozione per averlo reincontrato e riconosciuto, ricordando gli
anche la lettura di quella poesia.
Mi rispose con una lettera, che può aggiungere un altro scorcio
alla vicenda reggiana di Bufalino: "E si, sono io. E il ragazzo che
mi ascoltava è vestito nella mia memoria d'un abito marrone, e, s'è
nascosto in ospedale non per malattia, ma perché cercato dalle brigate
nere.
Vero è, tuttavia, che dopo la liberazione io scesi giù in Sicilia in
un sanatorio tra Momeale e Palermo, presso un luogo detto La Rossa.
Di questo luogo parla il mio libro, e non della Rocca di Scandiano.
Ma ricordi - tanti - del mio soggiorno emiliano sono passati in quelle
pagine. A cominciare dal fiume, che sbagliando, chiamavo Trasinaro.
Sicché, la tua voce, che si aggiunge ad altre (Giovanna Zuccoli,
Giovanna Poli, Giorgio Prodi, Eros Mattioli, Alberto Manfredi ... )
non può che commuovermi, anche se quel che provo fa più Portobello
che Proust".
L'ospedale era come un bacino, relativamente tranquillo, in un
mare burrascoso, specialmente in quell'inverno 1944.
Relativamente tranquillo, perché tuttavia, l'eco della burrasca che
fuori imperversava giungeva, a tratti: certe notti, attraverso il tonfo
sordo di spari o scoppi, e, più spesso di giorno, con il precipitoso
ricovero di militari tedeschi o fascisti feriti, ed anche io ritengo,
clandestinamente, di qualche partigiano.
Certo è che la resistenza, aveva all'interno dell'ospedale qualche
sua propaggine.
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Infatti vi lavorava un giovane medico palermitano, Cristoforo
Carabillò, che, uscito dall'ospedale nel gennaio 1945 e ritornato, in
città, nella mia abÌtazione di Via dell'Erba, rividi, a pochi passi da
questa, spietatamente riverso sulla neve macchiata del suo sangue,
e di quello di tre suoi compagni che giacevano scomposti accanto
a lui, il 3 febbraio 1945.
Il dott. Carabillò non si era più visto in ospedale dopo una notte,
credo del dicembre 1944, in cui eravamo stati tenuti svegli dal fragore
di spari e scoppi vicinissimi.
Si disse che si trattava di un tentativo fallito di un reparto partigiano
di sabotare il ponte sul Tresinaro, nella strada che da Scandiano porta
a Reggio.
Presumo che Carabillò sia stato arrestato assieme ai tre patrioti
che condivisero la sua sorte, tutti di Scandiano, in relazione a questo
episodio.
Il 2 febbraio del 1945, quattro poliziotti repubblichini erano stati
feriti in un attentato. Per rappresaglia, i quattro antifascisti furono
prelevati dal carcere, giustiziati e scaricati nel luogo dove era
avvenuto 1'attentato; e qui restarono, almeno, per tutta la giornata,
mentre la gente passava frettolosa e sgomenta, come volesse guadagnare rapidamente un riparo dove sfogare la paura, 1'angoscia e
la rabbia.
Come ho detto, avevo lasciato 1'ospedale nel gennaio 1945, per
ritornare a casa, mentre mio padre, che sarebbe ritornato a casa,
mentre mio padre, che sarebbe ritornato il 25 aprile, restava lontano,
poiché le informazioni che avevano ricevuto ci avevano, solo parzialmente, rassicurato.
Durante 1'assenza di mio padre ricordo alcune visite di Ferruccio
Orlandini, il noto scultore, ed una del dott. Giuseppe Grizi, per
offrirei e fornirci aiuto e solidarietà, da parte del Comitato di
Liberazione, nel superare le difficoltà e risolvere i problemi che in
quella situazione dovevamo affrontare.
lO
Dal Regime di Vichy alla
nuova Repubblica.
a cura di
Antonio Torrenzano
(luglio 1940- novembre 1946)
D. Gli anni 1940-46, così in Francia come in l'Italia, sono stati
tra i più critici della recente storia delle due Nazioni. Se prendessimo
il caso francese, nel breve arco temporale di una dozzina d'anni,
potremmo individuare sei fasi, ciascuna delle quali contraddistinte
da una "storia" differente: il Fronte Popolare, la reazione al Fronte
Popolare, il Regime di Vichy, la Resistenza (interna ed esterna al
Paese), la Liberazione, il Tripartitismo ed infine dopo il 1948 "la
troisième force". Tra queste sei momenti storici, così distinti da
François Bédarida(1), vorrei soffermarmi sul Regime di Vichy.
"L'esperienza del Regime di Vichy, come afferma nel suo saggio
Réne Rémond, più che un transitorio incidente è stata una profonda
crisi. Un incidente può deviare solo momentaneamente il corso degli
avvenimenti; una crisi rivela al contrario delle forze portatrici di
aspirazioni e latenti predisposizioni. Una crisi modifica inoltre gli
equilibri in modo irreversibile. La frattura che si ha con il Regime
di Vichy e la Révolution nationale non è un cambiamento importato
né una imposizione straniera". (2)
Possiamo paragonare l'esperienza di Vichy e la "Révolution
nationale" agli altri regimi contemporanei? Cos' é stato Vichy: un
regime fascista o un regime totalitario?
JEAN- PIERRE AZÉMA
Jean-Pierre Azéma é professore presso l'Alta Scuola di Studi Politici di Parigi. Specialista di storia della Ila Guerra Mondiale e
della storia contemporanea francese, é tra
i più famosi ed affermati storici a livello
internazionale. Tra le sue opere più importanti ricordiamo: De Munich à la Liberation
1938-1944 , Paris, du Seuil, 1979; con
François Bédarida, Les années de Tourmente. De Munich à Prague 1938-1948 , Pari s,
Flammarion, 1995.
1) François BEDARIDA, Les élites en France
au XXe siècle. Remarques historiographiques , actes du colloque "Les élites dirigeantes en Italie et en France dans l' immédiat
aprés-guerre", tenu à l' Ecole française de
Rome, 14-16 avri! 1983.
2) René REMOND, Le gouvernement de
Vichy , Paris, du Seui!, 1972.
Jean-Pierre Azéma. La sconfitta provocò, con immediate conseguenze, il disfacimento amministrativo del Paese e dei suoi Dipartimenti d'Oltremare. La nazione, alla mercé dell'aggressore nazista,
piomba nel caos e questo primo choc sfocia infine nel trauma di
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3) Jean-Pierre AZÉMA, De Munich à la
Liberation 1938-1944, Paris, du Seuil, 1979.
4) J. BARTHELEMY, Mémoires d'un ministre
du Maréchal, Auch, imprimerie Cocharaux,
1948.
In dettaglio l'Acte Il:
Art. 1: le chef de l'Etat français a la plenitude
du pouvoir gouvernemental; il nomme et
révoque les ministres et secrétaires d'Etat,
qui ne sont responsables que devant lui.
2: Il exerce le pouvoir législatif en conseil
des ministres: a) jusqu'à la formation de
nouvelles assemblées; b) après cette formation, en cas de tension extérieure ou de crise
intérieure grave, sur sa seule décision et
dans la meme forme. Dans les memes
circostances, il peut édicter toutes dispositions d'ordre budgétaire et fisca!.
3: Il promulgue les lois et assure leur
exécution.
4: Il nomme à tous les emplois civils et
militaires pour lesquels la loi n'a pas prévu
d'autre mode de désignation.
5: Il dispose de la farce armée.
6: Il a le droit de grace et d'amnistie.
7: Les envoyés et ambassadeurs des
puissances étrangères sont accrédités auprès de lui. Il negocie et ratifie les traités.
il. 8: Il peut déclarer l'état de siège une ou
plusieurs portions du territoire.
9 : Il ne peut déclarer la guerre sans
l'essentiment préalable des Assemblées
législative.
Art. 2 : Sont abrogées toutes les dispositions des lois constitutionnelles des 24
fevrier 1875, 25 février 1875 et 16 juillet
1875, incompatibles avec le présent acte.
a
a
a
a
a
a
a
5) Maréchal PETAIN, Individualisme et
Nation, revue universelle, 1er janvier 1941.
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una crisi d'identità nazionale con il Regime di Vichy. Una crisi vorrei aggiungere-, quella del luglio 1940, che la Francia non aveva
mai vissuto e che sconosceva. Pensi che la stragrande maggioranza
dei francesi, in quei delicati momenti di vita politica, si domandava
se ancora esistesse la Nazione, le sue forme di Stato ed i valori
universali che avevano sempre caratterizzato la Francia.
I primi mesi del Regime di Vichy sono decisivi. In virtù della
legge costituzionale 1940, Pétain promulga - tra l'agosto 1940 e
l'aprile 1942- dieci atti costituzionali che sono i pilastri della "révolution juridique "(3). Pétain autoproclamatosi Capo dello Stato francese (acte 1) avoca a se tutti i poteri legislativi ed esecutivi (acte
2), si arroga una parte del potere giudiziario (art. 3 de l' acte 7)
e designa un suo potenziale successore (acte 4). Infine obbliga tutti
i funzionari che servono a Vichy a prestargli fedeltà (actes 8, 9 e
lO). Come ha scritto nelle sue memorie Barthélémy, che fu per due
anni Ministro della giustizia a Vichy, si può dire che la concezione
del regime autoritario era perfettamente realizzata per mezzo della
legge costituzionale n02. (4) L'ordinamento giuridico voluto da Pétain
non é riconducibile ad una forma di Stato fascista poiché non vi
é la presenza di un partito unico centralizzatore ma piuttosto ad un
sistema repressivo che ha implementato quello che tutti in Francia
chiamano "les guerres franco-françaises".
D. In rottura con la democrazia parlamentare il nuovo regime
preferì alla rivoluzione l'ordine. "La natura - come affermava in
uno dei suoi discorsi lo stesso Maresciallo Pétain - non crea la
società partendo dagli individui, ella crea gli individui partendo
dalla società. "(5) Per l'edificazione del nuovo Stato, Pétain aveva
individuato nei concetti di gerarchia, élite, corporazione, autorità,
diritti e doveri, i principi fondamentali ed ispiratori del nuovo Stato.
Qual' è stata l'ideologia del Regime?
Jean-Pierre Azéma. I risultati della Révolution nationale, fra intenzioni e progetti, propaganda e repressione, furono delle azioni
improvvisate e ridicole. Improvvisazione, che risulta ancor più evidente, se applichiamo la chiave di analisi "Propaganda/Repressione"
al rapporto Governanti/Governati del regime di Vichy: la crescita
della seconda non soltanto riduce ed amplifica gli sforzi della prima
ma ci fornisce anche la bassa percentuale di consenso e legittimità
dello stesso governo Pétain. La crisi d'identità nazionale non solo
rimane irrisolta ma Pétain si dimostra incapace di gestirla.
D. François Bédaridd6) ha definito la Resistenza francese come
un composito insieme di movimenti di lotta sebbene protesi verso
un unico fine. E' d'accordo con questa interpretazione?
6) François BEDARIDA, Résistance au fascisme, au nazisme et au milita risme japonais
jusqu'en 1945, rappor! introductif au Congrés International des Sciences Historiques,
aoGt 1985.
Jean-Pierre Azéma. Prima di risponderle vorrei partire dalla
definizione data dal mio amico François Bédarida.
Bédarida definisce la "Résistance française", o per meglio dire
l'insieme dei movimenti resistenziali, come un'azione clandestina
rivolta: 1) a tutti, 2) alla Liberazione della Nazione, 3) al recupero
della dignità nazionale, 4) per la difesa dei diritti fondamentali
dell'uomo. Il raggiungimento di questi scopi avviene attraverso
un'azione clandestina di volontari che lottano per la libertà e la
sovranità della Nazione, per i diritti inviolabili dell'uomo, contro il
regime nazista e fascista. Le tre componenti fondamentali della
Resistenza, lo sottolineo ancora, sono dunque: 1) l'attività clandestina
proibita, 2) la partecipazione spontanea di volontari a queste attività
fuorilegge, 3) Resistenza civile, resistenza armata, resistenza caritativa.
In Francia il movimento resistenziale si può ulteriormente strutturare in quattro diverse fattispecie: 1) la resistenza gollista (indiscutibilmente esterna cioè combattuta fuori dai confini del territorio
nazionale), 2) la resistenza comunista, 3) la resistenza di coloro senza
nessuna etichetta ideologica (per es. Liberation Sud che diffidava
di De Gaulle e che non aderiva al partito comunista), 4) una quarta
forza -più tardiva- composta da ex vichysti e petenisti che dopo
l'inverno 1943-44 decidono di abbandonare il Regime di Vichy non
senza avere lungamente esitato.
Partendo da questi punti, che evidenziano la complessità della
Résistance française, posso ora rispondere alla sua domanda. Lei mi
chiedeva quali erano stati i principi guida dei movimento resistenziale, le rispondo che ce ne sono stati diversi ma tutti con un unico
fine. I francesi erano profondamente umiliati per quel che era
accaduto nel 1940, la Resistenza ha ridato loro la dignità ed i vecchi
punti di riferimento. Aggiungo inoltre che il movimento resistenziale
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è stato un forte veicolo ideologico. Se la Francia nell'immediato
dopoguerra é ripartita "de bon pied" ritrovando il suo rango e il
prestigio internazionale (seppure come potenza minore), questo lo
si è avuto grazie allo sforzo di tutti quelli che hanno combattuto
per la Liberazione del Paese.
Resistenza e Liberazione hanno inoltre influito, in modo determinante, nella rivoluzione culturale e politica avvenuta negli anni
1945-46.
D. Perché la stampa francese ha dato, certe volte, un'immagine
distorta della Resistenza?
Jean-Pierre Azéma. I media, subito dopo la guerra, hanno dato
un'immagine della Resistenza vecchia, superficiale, a volte confusa,
in ogni caso deformata e soprattutto riduttiva. Negli anni 1950-60,
la cultura francese, per le più diverse ragioni politiche, ha cercato
di strumentalizzare la memoria della guerra di Liberazione imponendo una o più memorie di parte: soprattutto la versione gollista
e la visione comunista.
D. All'interno dei vari movimenti resistenziali che ruolo hanno
avuto le forze democratiche d'ispirazione cattolica?
Jean-Pierre Azéma. I cattolici che hanno combattuto nella Resistenza hanno salvato l'onore del cattolicesimo francese facendo
dimenticare le compromissioni delle gerarchie ecclesiastiche. Molti
combattenti cattolici, per sanzionare le simpatie prolungate ed attive
dell'Episcopato francese nei confronti del regime di Vichy, avevano
ripetutamente chiesto la sostituzione di un quarto della gerarchia
ecclesiastica: esattamente, secondo una lista presentata il 26 luglio
1944, di 21 Vescovi su un totale di 87. I meno apprezzati erano il
Cardinale di Parigi Suhard, il Segretario nazionale dell' Azione
Cattolica francese Courbe, gli Arcivescovi di Aix en Provence,
Bordeaux e Reims. Di fatto, l'allontanamento di questi fu ridotto
al minimo per due fattori: le reticenze del Vaticano, l'assenza di
determinazione da parte delle autorità francesi, l'abile lavoro del
nunzio apostolico Angelo Roncalli (futuro Pontefice) che aveva
sostituito il diplomatico Valerio Valeri con il quale il governo de
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Gaulle rifiutava, per principio, di entrare in contatto per le sua
presenza a Vichy.
La gerarchia ecclesiastica non é stata complessivamente investita
dall'epurazione. Al contrario, il periodo della Liberazione vede, su
di un terreno propriamente religioso, la significativa promozione di
importanti combattenti. Penso alla figura del sacerdote Riquet, di
Jacques Maritain, punto di riferimento della Francia libera negli Stati
Uniti, che é nominato ambasciatore presso la Santa Sede agli inizi
del 1945; del Vescovo concordatario di Metz, Mons. Reintz o del
prelato di Strasburgo, Mons. Ruch(7) Questi sforzi, subito dopo la
guerra, fanno sì che la corrente cattolica faccia sentire le proprie
esigenze in Parlamento. Alle elezioni del 21 ottobre 1945, per la
prima Costituente, il Movimento Repubblicano Popolare ottiene 144
eletti. Il 2 giugno, in occasione dell'esame elettorale per la seconda
Costituente, 160 deputati mentre il lO novembre, per il rinnovo
dell' Assemblea Nazionale, 156 parlamentari. Il Mrp. diviene così
uno dei tre più grandi partiti della Francia della IVa Repubblica
superando lo stesso partito Socialista. Da una analisi di François
Bazin(8) risulta che circa 1'80 per cento degli eletti aveva partecipato,
in modi diversi ed a diverso titolo, alla Resistenza. Georges Bidault,
giornalista editorialista del giornale "l'Aube", simbolizza per molti
versi questi dati.
D. L'immediato dopoguerra, per quanto riguarda il settore economico,
non è un periodo di radicali cambiamenti. In questo settore, secondo
lo schema(9) di Jean-Pierre Rioux, buona parte dell'élite dirigenziale,
che aveva ricoperto importanti compiti negli anni del regime di Vìchy,
si ritrova ancora nei posti chiave dei Ministeri Economici dello Stato
o alla testa di numerose aziende (v. schema pago 21).
Anche secondo Stanley Hoffinann: "Vichy e la Resistenza che si
erano selvaggiamente combattute, coopereranno senza volerlo e
senza saperlo, in modi differenti, conducendo così la Nazione sino
alla soglia di un nuovo periodo. "(10) Questa non evoluzione del potere
tecnocratico può rappresentare un elemento di continuità del passato
regime?
7) André LATREILLE, De Gaulle, la Libération et f'Eglise catholique, Pari s, éd. du Cerf,
1978. Si veda anche l'altra ricerca dello
stesso autore, L'épiscopat de France dans
la guerre, in " Eglises et chrétiens dans la
Ile guerre mondiale. La France", Lyon,
Presses universitaires de Lyon, 1982.
8) F. BAZIN, Les députés MRP élus les 21
octobre 1945, 2 juin et 10 novembre 1946,
Paris, Institut d'Etudes Politiques, 1981.
9) Jean-Pierre RIOUX, A changing of the
guard ? Old and new elites at the Liberation,
dans J. Horworth and P. Cerny, Elites in
France, origins, reproduction and power,
London, Frances printer, 1981, p.91.
10) Stanley HOFFMANN, Sur la France,
Paris, du Seui!, 1976, p. 99.
Jean-Pierre Azéma. Tra la nuova élite dirigente, numerosi erano
quelli che provenivano dalla Resistenza come Renri Ziegler, direttore
19
generale di Air France, che nel periodo resistenziale era stato membro
dello stato della Ffi a Londra. Oppure Maurice Nègre, membro
durante la lotta di Liberazione dei Super-NAP, che diviene nel 1946
direttore dell'agenzia stampa France-Presse. Penso anche a JeanPierre Bloch, consigliere di de Gaulle ad Algeri, che successivamente
assume la carica di amministratore delegato della Société Nationale
des Entreprises de Presse. E come questi, così molti altri casi.
Dall'altra parte, per quanto concerne le grandi imprese, la guerra
non sembra avere apportato un rinnovamento del personale dirigente.
Durante il periodo 1944-46 vi è un'evidente complessa eterogeneità,
in gran parte dovuta anche alle ambiguità del dibattito Ricostruzione/
Modernizzazione dell'economia, alle incertezze sulla natura del
futuro assetto politico della Francia, alle differenti ambizioni delle
forze politiche che avevano animato la Resistenza.
11) Ugo TRAMBALLI, Nell'anno primo dell'era del caos, in "I[ Sole 24 Ore", 17 marzo
1992.
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D. Ghorgy Arbatov, ex consigliere di Gorbaciov e presidente
dell'Istituto per gli Stati Uniti e il Canada, un centro studi e di potere
fra i più efficaci della diplomazia sovietica, nel 1988 in un intervista
ad un giornale americano diceva: "Stiamo per farvi un regalo
terribile, vi lasceremo senza nemico". Arbatov, in quella "datatissima" intervista, probabilmente intuiva che la spartizione di Yalta
e la guerra fredda stavano per chiudere il loro ciclo storico. Per
quanto lungimirante sia stato, nemmeno lo stesso poteva però
immaginare come fosse a breve termine la sua profezia: fra il 1989
ed il 1991 l'URSS si sarebbe dissolta. Così cadute le barriere
ideologiche, il 1992 segnò "l'anno prima dell'era del caos".(ll)
Il nostro secolo non si é distinto dai precedenti per il numero delle
sue guerre, l'ottocento ne fu molto ricco, ma per i suoi conflitti non
componibili. Le contese economiche, nazionali e dinastiche del XIX
secolo hanno sempre trovato una risoluzione perché erano tutte dei
conflitti d'interesse, quindi riconducibili in compromessi; perché lo
scontro degli eserciti in campo serviva a chiarire i rapporti di forza.
Ciò non é più stato possibile nel XX secolo quando le guerre sono
divenute il braccio esecutivo delle ideologie e quando, a loro volta,
queste ultime hanno avuto come obiettivo non più quello di ridistribuire i beni o gli interessi dei contendenti ma di trasformare o
redimere il mondo. Auschwitz, Hiroshima, i Gulag sono legati da
un unico filo conduttore: la volontà di imporre ideali non realizzabili
perché fuori dalla misura dell'uomo. Le guerre rivoluzionarie mosse
dalle ideologie hanno disegnato col sangue il volto dei primi cinquant'anni mentre la guerra fredda, la perpetuazione della mobilitazione e la corsa al riarmo il secondo scorcio anche quando era
divenuto impossibile sparare.
Non le sembra che la Storia, nelle vicende di questo secolo breve,
abbia avuto un 'infinita fantasia? Il XX secolo è un incidente storico?
Jean-Pierre Azéma. L'impressione, che noi avevamo prima della
caduta del Muro di Berlino, era di una Storia relativamente codificata.
C'era una guerra fredda, c'era una gerarchia di Potenze e perfino
le guerre locali si combattevano rispettando le divisioni manichee
di campo volute dal ferreo regolamento di Yalta. Il mondo ha vissuto
nella stabilità per più di quarant' anni. Prima la Storia non era
imprevedibile, adesso, siamo costretti a dare sempre importanza
all'accadimento "dell'evento" in quanto tale. Non abbiamo più dei
punti di riferimento ma ci sono rimaste delle grandi linee. Noi
avevamo i nostri schemi per rappresentare la memoria, i nostri sistemi
per raccontarla, adesso tocca stabilirne altri. La caduta del Muro ha
dimostrato che la Storia non è soltanto una questione di forze sociali
impersonali ma è fatta anche di esseri umani, di fatti casuali e di
buona e di cattiva sorte.
Elites de la Résistance
'i'
Elites de r~
"modernisation"
Elites traditionnelles
(patronat classlque ... )
1929
La erlse et
la prlse de conscience
1940
Le choc et
les divisions
1944/46
la résorption et
,'amalgame
21
Totalitarismi e memoria
della resistenza civile.
Un repertorio per il presente.
D. Pongo subito la questione della violenza: ha rappresentato una
scelta politica per i pacifisti, ed una materia di riflessione per la
sociologia, mentre gli storici - in Italia ancora più che in Francia
- mi pare abbiano mostrato qualche difficoltà a confrontarvisi. Sono
perciò interessato, prima di tutto, al suo percorso biografico, per
comprendere cosa le ha permesso di incontrare la categoria della
violenza, e con quale strumentazione scientifica si è attrezzato per
trattarla.
Jacques Semélin. In effetti ci sono due elementi che hanno giocato
nella mia biografia. Il primo è la precoce formazione come psicologo.
Mi sono interessato assai presto al problema dell' aggressività e della
violenza; ricordo il lavoro di Bruno Bettelheim, mi sono interessato
particolarmente alle ricerche di uno psicanalista italiano, Franco
Fornari, e vi sarebbero ancora altri nomi da citare ... (l)
D'altronde, come cittadino, mi sono ugualmente occupato al
"Movimento di difesa dei diritti dell'uomo", ed in particolare al
"Movimento nonviolento". Avevo una formazione, una educazione
cristiana, politicamente mi situavo piuttosto a sinistra, e non riuscivo
a concepire come fosse possibile, insieme, essere cristiani e per la
lotta di classe; ho cercato qualche cosa che soddisfacesse meglio
questa mia situazione, e ciò si è tradotto in un interesse per la
nonviolenza. Allora, ho assunto un preciso posto di responsabilità
all'interno del "Movimento nonviolento". Queste due direzioni di
marcia si sono incontrate, e bisogna ricordare come vi fosse allora
a cura di
Antonio Canovi
JACQUES SEMÉLlN
Jacques Semélin è ricercatore presso il
CNRS a Parigi. Nel[' 1989 ha scritto Sans
armes tace à Hitler. La resistance civile en
Europe (1939-1943), Paris, Payot, 1989
(tradotto in Italia dalle Edizioni Sonda con
il titolo Resistenza senz'arml).
La conversazione si è svolta presso la sede
romana dell'Istituto "A. Cervi" il 17.10.95,
nel corso del convegno dal titolo "Quando
/'Italia era divisa in due"; viene presentata
in forma sintetica, tradotta direttamente dal
curatore e non è stata rivisitata dall'intervistato.
1) Franco FORNARI, Psicoanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli, 1966; Psicoanalisi
della condizione atomica, Milano, Rizzoli,
1970.
23
in Francia un certo dibattito sulla questione. Ho fatto uscire un primo
libro, che è stato tradotto in italiano - "Pour sortir de la violence"
- quindi ho voluto testare, misurare questa convinzione militante,
di pace, sul terreno della storia. Ho potuto così preparare una tesi
di dottorato, verificando come sia possibile utilizzare la nozione di
"lotta nonviolenta" in contesti differenti - ad esempio la seconda
guerra mondiale - ed ho cercato un concetto più neutro, infine più
giusto, e l'ho trovato nella "resistenza civile", che ho cominciato
ad utilizzare.
D. Personalmente, quando ho cominciato a lavorare nel movimento
pacifista italiano, ricordo di avere incontrato un'esperienza francese
di un certo interesse, il MAN - "Mouvement pour une Alternative
Non-violente" - che propugnava la pace attraverso il socialismo
autogestionario ...
Jacques Semélin. Sì, sono stato uno dei fondatori ... Fa parte della
mia storia di militante.
D. Allora: ancora la dimensione politica, un punto su cui voglio
restare ...
Il concetto di "difesa civile" mi pare sia estremamente politico,
in quanto esce dalla percezione individuale e psicologica del comportamento violento, mentre il pacifismo ancora oggi, almeno in
Italia, continua a soffrire la scissione tra testimonianza personale
e azione pubblica, generale.
Jacques Semélin. A quanto posso vedere, lei prende in considerazione una pubblicazione specifica ...
Si tratta, effettivamente, di una riflessione che provocò una certa
reazione nel Movimento. lo ne sono stato un partigiano, ma in seguito
ho preso anche qualche distanza ...
Si trattava di mostrare come i mezzi detti "non-violenti" non
potessero porsi al servizio di non importa quale obiettivo. Occorreva
così rimarcare un qualche legame tra mezzi e progetto, approccio
che restava peraltro ben addentro al terreno del Movimento. In quella
prospettiva, d'altronde, c'era da riconsiderare quanto era accaduto
in Cile, dove Pinochet aveva preso il potere grazie agli scioperi di
24
alcune categorie, con il sostegno della CIA. Risultava così evidente,
allora, come i mezzi nonviolenti non potessero essere posti al servizio
di un simile progetto ... Nel contesto degli anni '70, inoltre, c'era
l'esperienza interessante del Psu, il partito di Michel Rocard, che
si muoveva allora nel quadro del socialismo autogestionario. Ad ogni
modo, ciò fu essenziale per differenziare la nostra "nonviolenza"
dall'approccio religioso e morale.
Oggi, certo, occorre rovesciare i termini della questione e andare
a collocare la nonviolenza politica all'interno delle concrete situazioni (2). Sussiste un problema di valutazione delle lotte non-violente
in sede storica: si sono abbattuti dei regimi autoritari (ad esempio
nelle Filippine) ma, se si guarda a ciò che è accaduto dopo, c' è
da restare necessariamente scettici. La questione è un po' la seguente:
si può avere un potere detto "nonviolento", una economia che non
sia di costrizione, una polizia non armata? Di fronte a questa
domanda, personalmente, sono molto scettico. Vi sono però delle
proposizioni che risultano da questo movimento, detto "nonviolento",
che mi sembra possibile prendere in considerazione da parte di un
potere detto "democratico" e, soprattutto, per quanto concerne la
"difesa civile". Negli anni '80 noi abbiamo lavorato con il ministro
della difesa dell'epoca, Charles Hernu (oggi deceduto), attorno al
concetto chiamato della "dissuasione civile"; ed era un tentativo, un
modo per completare la "dissuasion française" attraverso una componente civile. Insomma, alcuni termini della riflessione restano
sempre aperti.
2) Per il socialismo autogestionario: Una
non violenza politica, a cura del M.A.N.,
Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia, 1977.
D. E' un'esperienza che ritengo ammirevole, proprio per il coraggio che avete dimostrato nel confrontarvi con la realtà politica
e la domanda sociale di sicurezza; peraltro, non si può tacere come,
nell'ambiente nonviolento italiano, quel dialogo sia stato recepito
da molti come "revisionista". In effetti, ancora oggi - è un'opinione
che ho rafforzato vedendo il taglio scelto per alcuni convegni
dedicati alla componente "civile" della Resistenza, organizzati
nell'ambito del 50° - questo movimento italiano è impegnato soprattutto a cercare quegli antecedenti storici che possano legittimare
le proprie opzioni morali, assai meno a confrontarsi con l'esperienza
storica concreta. In altri termini, si continua a prediligere, anche
nella scelta dell'approccio storiografico, lo studio del caso "esem25
plare" piuttosto che la sua collocazione in un determinato, e più
generale, ed ovviamente meno "puro", contesto generale.
In Francia, mi pare che lei abbia cercato, piuttosto, di problematizzare la coppia violenza/nonviolenza.
Jacques Semélin. Ecco ... Nella letteratura cui abbiamo fatto riferimento, si parlava di "transarmo", cioè di transizione dalla "difesa
militare" ad una situazione ideale, nonviolenta. Attraverso il concetto
di "transizione", è la questione della "complementarità" che si
poneva, od almeno della "preparazione". Il nostro interlocutore
militare, fossero essi il ministro o i generali, compresero come la
nostra proposta volesse rappresentare una sorta di complemento alla
difesa armata; e ciò che risultò più interessante - per l'epoca - fu
l'interrogarsi sullo "spirito di difesa" dei francesi, come i civili
potessero partecipare alla difesa. Un secondo elemento di discussione
fu rappresentato dalla gestione della sicurezza, sulla base della
gestione del terrorismo: cioè come una società civile, democratica,
possa oggi mantenere una certa coesione sociale di fronte ad una
situazione di attentati.
D. In Italia la dimensione della "patria" è senza dubbio meno
riconosciuta che in Francia. Si parla piuttosto di "comunità", o di
"municipalità", e questo è legato alla storia e all'organizzazione
del territorio italiano. Anche questo pesa nella debolezza di elaborazione da parte del movimento pacifista e nonviolento: si ragiona
volentieri in termini morali, religiosi od antropologici e si fatica ad
approdare alla politica, la quale implica immediatamente il riconoscimento - storico, giuridico, sociologico - di una società civile
complessa che organizza la propria vita, legislativa ed economica,
avendo quale quadro fondamentale di riferimento lo stato nazionale ...
Ancora una domanda. Alain Brossat, in un libro recente dedicato
3) Alain BROSSAT, Libération, fete folle. 6
juin 44 - 8 mai 45: mythes et rites ou le alla Resistenza - "libération féte folle" - parla di memoria "balgrand théfltre des passions populaires, canizzata ". (3)
Editions Autrement, Paris, 1994.
La memoria presente della guerra, specie per le ultime generazioni, sarebbe memoria frantumata; in particolare, ed ciò che più
incide, il ricordo di quella guerra - dove tutti sono ora messi sullo
stesso piano, nazisti e maquis - sembra frantumare anche la nostra
26
comunità civile presente... In questo senso, provo a svolgere la
categoria della "balcanizzazione", se la società attuale vive una
costante conflittualità, senza possibilità di ricomposizione, anche la
memoria viene ad esserne investita; l'irriducibilità delle etnie comporta, alla stessa stregua, il prendere parte ad una singola memoria,
particolare ma fatta assoluta, da contrapporre a quella agita da
altri...
In Italia, la memoria dell'antifascismo è un nodo oggi centrale,
proprio perché la Repubblica nasce· e vive sulla carta costituzionale
antifascista. Abbiamo una patria molto debole, ed una rappresentazione antifascista molto forte; perciò il dibattito storiografico sulle
responsabilità della seconda guerra mondiale si offre all'attenzione
del dibattito politico in corso (tra prima e seconda repubblica, o
prima e seconda fase della stessa repubblica). Come vede lei, dall'osservatorio francese, questo problema della memoria dell'antifascismo: è una memoria che si può riconsiderare e rimettere in
circolo, per il futuro; e si può, forse, arricchire e nutrire con l'apporto di una categoria quale la nonviolenza?
Jacques Semélin. Milan Kundera ci diceva come, per l'Est, il
modo appropriato per simboleggiare la lotta fosse di coltivare una
memoria antagonista a quella dell'URSS ... Penso che fosse una
formulazione davvero centrata, in quel contesto. Nei regimi detti
"totalitari", tutto viene organizzato in maniera che la gente perda
la propria storia, la propria memoria. Quando parlo di lotta, non penso
soltanto alla "grande" lotta, ma alle manifestazioni quotidiane di
lotta. TI comportamento quotidiano è una trincea per la difesa della
memoria, per salvare una coscienza di noi stessi, dei nostri geni.
Continuo a pensare che sussista sempre un grande pericolo quando
vi è chi si propone di privare qualcuno della sua memoria...
Seconda considerazione. TI problema è che la memoria continua
a lavorare, che si ricostruisce. Anche in Francia si ha la percezione
di avere conosciuto la guerra civile, per riprendere il termine di
Claudio Pavone.(4)
(4) Claudio PAVONE, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della resistenza, Torino,
Bollati-Boringhieri, 1991.
Basti pensare ai tentativi d'importazione del fascismo e al Fronte
Popolare, nel 1936; poi ai comunisti che sono attaccati perché legati
all'Unione Sovietica; quindi al fascismo che prende la sua rivincita
all'ombra dell'occupante, nel giugno del '40 ... Ma è precisamente
27
perché si tratta di un periodo difficile che c' è stato bisogno della
costruzione di una memoria dopo la guerra. In tutto ciò, certamente,
hanno concorso motivazioni diverse, come la costruzione della
memoria ha preso strade differenti. Per alcuni, i francesi sono stati
tutti eroi, per altri erano tutti poco di buono, collaborazionisti ...
La memoria contro l'oblio: ma quale memoria noi rivendichiamo,
di quale memoria noi siamo eredi? Da questo punto di vista, una
cosa è la questione memoria del fascismo/memoria dell'antifascismo ... Ma è in relazione a questo apporto della resistenza civile,
o più generalmente della lotta nonviolenta, che mi sembra vi sia
molto lavoro da fare per gli storici: per creare una nuova memoria,
per mettere in evidenza i casi, le situazioni che creano una nuova
memoria storica; ed è in funzione di questa nuova memoria storica
che si può costruire un nuovo presente, per esempio una difesa civile,
provando a dimostrare che si costruisce precisamente sopra un'
eredità che affonda nella storia del proprio paese ...
D. Gli storici, allora, operano per costruire la memoria pubblica
della comunità. Ecco, lei mi pare stia consegnando il concetto della
resistenza civile ad una dimensione etica; ciò che si registra ora,
a proposito dei conflitti - siano essi di origine politica, od etnica
come si usa dire sempre più spesso - è una lettura nei termini di
guerra civile. Ma con tale termine, questo è il mio parere, si rivela
piuttosto una difficoltà di classificazione e giudizio, a proposito di
tali conflitti. Mi pare perciò interessante il concetto di "resistenza
civile", proprio dal punto di vista di uno sforzo di ricomposizione
"civile", nel presente ...
Jacques Semélin. Lei parla di etica ... In un recente seminario
dedicato alla prospettiva comparata tra affondamento dei regimi
dell'Est e del Sud, tenuto si all'Ecole des Hautes Etudes a Parigi,
si è discusso di totalitarismo/autoritarismo/fascismo; lì ho presentato
la nozione di resistenza civile come prospettiva.
In questo lavoro ho provato a dimostrare come la resistenza civile
deve avere degli obiettivi, debba contribuire a degli obiettivi che
siano i meno condannabili per restaurare un nuovo ordine ... Faccio
l'esempio del "boicottaggio". Nel 1933, i nazisti cominciano a
perseguitare gli ebrei esattamente con il sistema del boicottaggio dei
28
magazzini gestiti da ebrei; è una constatazione storica, e credo sia
stato un mezzo per mobilitare i tedeschi contro gli ebrei. Prima,
d'altronde, ho parlato delle Filippine, e del boicottaggio nonviolento
che è riuscito a mettere in scacco un regime militare e violento.
Dunque, voglio a dire che non si può generalizzare la "resistenza
civile", perché può essere posta al servizio di cause diverse. Bisogna
sempre analizzare ogni caso, distinguendo.
Secondo punto. Se vogliamo sostenere che, dal punto di vista
storico o sociologico, si tratta di mettere da parte un determinato
valore, di prendere in conto una certa visione dell'uomo, allora dico
di no, dico che non penso si debba - in tale modo - fondare un senso
sociale. Ma, certo, non dico che sono discipline neutre, dico che
si inserivano nel campo della conoscenza e della ricerca e che occorre
evitare le considerazioni politiche e morali. Ma, infine, devo anche
dire che la mia ricerca non è neutra, devo dire onestamente quali
sono le mie opinioni; questo, sì, devo dirlo chiaramente.
D. Un'ultima cosa, e riprendo una affermazione che lei ha portato
ad un altro convegno, tenutosi a Parigi nel gennaio 1993, a proposito
della relazione tra difesa e cittadinanza europea. Lei sosteneva, in
quell'occasione, la necessità di non dimenticare, mentre si liquida
la storia dei regimi dell'Est, la storia della resistenza a quel totalitarismo. La questione su cui ritorno è questa: è ormai senso
comune dire che la storia del XX secolo sia terribile come questo
secolo, nel cui bilancio sono compresi regimi totalitari di massa e
guerre di sterminio; si spera, dunque, nel prossimo secolo, per
lasciarsi alle spalle questo in cui, peraltro, siamo per ragioni di
calendario ancora immersi... Ci sarebbe, insomma, tutto da dimenticare! Lei mi pare sostenga una cosa diversa: sì, c'è tutto questo,
ma c'è anche un concetto di resistenza civile, sorto a difesa della
comunità, che si è sviluppato ed è cresciuto. Ci sarebbe, insomma
una memoria, antagonista, da salvaguardare. Credo, peraltro, che
sia più debole dell'altra...
Jacques Semélin. Sì, ricordo quell' intervento. C' è una memoria
considerevole e da considerare, e trovo del tutto legittimo il lavoro
della memoria svolto ad esempio dalla Shoa. Trovo giusto ricordare
come hanno funzionato il regime nazista e quello fascista; e mi
29
sembra essenziale di mostrare che degli uomini e delle donne siano
riusciti a sollevarsi e a dire di no anche in situazioni in cui si direbbe
impossibile farlo. E' questo un nodo essenziale non solo per la
generazione attuale ma per il futuro, perché sì può certo ritenere
che il prossimo secolo sia più sereno ma non c'è alcuna certezza.
Non posso dire nulla al riguardo del futuro, se non che ritengo sia
essenziale questo ricordo, di ciò che hanno fatto queste donne e questi
uomini di fronte al fascismo, al nazismo, od anche al comunismo.
E qui c'è un grosso lavoro della memoria da fare, vi sono molte
forme di resistenza da guardare e studiare.
30
Junia Valeria Maggiani
Pochi mesi prima della morte, Junio Valerio Maggiani aveva consegnato ad alcuni amici un saggio su Paul Nizan, che egli, tenninati
gli studi, aveva intenzione di pubblicare. E' nel rispetto di questa sua
volontà e per rendere omaggio alla sua persona di militante e di
studioso che oggi il saggio su Nizan vede la luce. Ne è sede la rivista
RS-Ricerche Storiche dell'Istituto Storico della Resistenza e della
Società Contemporanea in provincia di Reggio Emilia su cui Maggiani
aveva di recente pubblicato, insieme a Celso Beltrami, la prima parte
dello studio sulla figura e 1'opera di Bruno Fortichiari.
TI saggio su Nizan è espressione di un grande rigore tematico e
formale; una prosa nitida, secca, modellata sulla chiarezza della prosa
francese. Maggiani affronta un tema forte, che entra nel vivo della
storia della sinistra europea. Egli si sofferma sulla figura controversa
di Nizan; per alcuni, i compagni del Partito Comunista francese, un
traditore; per altri, Sartre in testa, un eroe, un ribelle dai tratti talvolta
romantici. Maggiani non condivide la prima interpretazione, frutto
di miopia politica e malafede; ma neppure quella, politicamente e
culturalmente molto fortunata negli anni Sessanta, di Sartre, trasmessa nella prefazione del romanzo più noto di Nizan, Aden Arabie.
Scrive Maggiani che «occorre cambiare prospettiva rispetto a
Sartre. Ripetute dichiarazioni di Nizan quali: "Esiste una grandezza
che consiste nel dire sì" - "L'adesione è un'affermazione dell'uomo";
non corrispondono pienamente all'immagine che ce ne aveva dato
Sartre di uomo disfattista, demistificatore ... Nizan è stato allora uomo
del rifiuto o dell'adesione?». E' a questa domanda fondamentale che
GINO RUOlll
33
Maggiani tenta di rispondere, attraverso la puntuale esplorazione
dell'opera letteraria dello scrittore francese, da Aden Arabie a La
Conspiration, «l'ultimo, e di gran lunga il migliore romanzo di
Nizan». Nel farlo Maggiani affronta e discute temi e momenti cruciali
della storia del comunismo europeo; sui quali senza pedanteria ma
con fermezza e lucidità invita a riflettere.
TI saggio è prova di acume critico e di intelligenza politica, che
in Maggiani non sono separabili. Attestazione di un modo di lavorare
raro, di uno spirito di ricerca straordinario, di cui è testimone la
qualità della sua biblioteca sul movimento operaio. Una biblioteca
di quelle che contano perché specializzate, frutto di ricerche minuziose, pazienti, fantasiose; un autentico tesoro di cultura politica,
fondamentale per non dimenticare le ragioni della necessità della
rivoluzione comunista.
Nella fedeltà a questo ideale Maggiani si è saputo confrontare con
testi e autori scomodi: di sinistra, come Nizan, di destra, come Jtinger,
testimoni autentici e non mediocri della nostra epoca, dei quali non
ha voluto nascondere e nascondersi il senso di vertigine e di vuoto,
l'abisso che sono la vita e la morte nella società borghese; le inquietudini proprie e di un secolo, il Novecento, che volge malamente
al termine. Maggiani non amava le false soluzioni: sulle parole e
su un libro di Emily Dickinson aveva tracciato questa dedica:
«Maybe I asked too much / But I take no less than skies».
34
Paul Nizan
TI 21 marzo 1940, due mesi prima della morte di Paul Nizan,
Maurice Thorez scriveva sulla rivista comunista «Die Wel1:»: «TI 27
agosto 1939 l'informatore della polizia Paul Nizan progettava, sotto
forma di un piano di collaborazione con i giornali borghesi ... , l'idea
di un comunismo nazionale, ossia di un comunismo nella forma e
di un nazionalismo nei fatti»(l).
Riprese anche in seguito tali accuse fecero in breve il giro del
partito ormai clandestino e alimentarono nella maggioranza dei
quadri il sospetto che le sue dimissioni dopo il patto RibbentropMolotov e l'invasione sovietica della Polonia non fossero conseguenza di questi fatti, ma un atto che denunciava un tradimento da lui
perpetrato assai prima(2).
Nel 1946 il filosofo comunista Henri Lefebvre scrive nel saggio
L'existentialisme: «Solitario, lucido, disperato, Paul Nizan aveva
pochi amici e noi ci domandavamo quale fosse il suo segreto, il
segreto... del suo tormento. Oggi lo sappiamo. Tutti i suoi libri
rnotano attorno all'idea di tradimento ... Nizan tradiva i suoi amici,
la loro e la sua giovinezza(3).
TI saggio di Lefebvre si inseriva in una campagna diffamatoria,
concertata su suggerimento di Thorez, da Louis Aragon, il quale
aveva diffuso la voce che Nizan avesse fornito informazioni al
Ministero degli Interni sull'attività del PCF. Traspare in tutto questo
l'intenzione di spiegare le sue dimissioni dal partito mediante il
ricorso a tutta la sua attività anteriore, compresa quella letteraria.
Aragon inoltre, lo inserì nel suo lungo romanzo Les communistes
JUNIO VALERIO MAGGIANI
1) cit. in A. ROSSI, Les communistes
française pendant la drO/e de guerre, Pari s,
Les lIes d'or, 1951, p. 40.
2) la lettera di dimissioni dal PCF, indirizzata
a J. Ouclos, apparve su «L:Oeuvre» il 25
settembre 1939.
3) H. LEFEBVRE, L'existentialisme, Paris, Le
Sagittaire, 1946 (cit. in J.J. BROCHIER,
prefazione a P. NIZAN, Intellettuale comunista, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 8).
35
4) L. ARAGON, Les communistes, Paris, La
Biblioteque Française, 1949, pp. 152-162
(ciI. in J. STEEL, Pau/ Nizan. Un révo/utionaire conformiste?, Paris, Presses de la
Fondation Nationale des Science Politiques,
1987, p. 397). Le figure dei coniugi Orfilat
scompaiono nell'edizione del 1966 delle
opere scelte di Aragon.
5) P. NIZAN, / cani da guardia, Firenze, La
Nuova Italia, 1970, p. 104.
6) J. J. BROCHIER, prefazione ciI., p. 8.
36
sotto le spoglie di Patrice Orfilat, giornalista dell' «Humanité», un
essere debole «al quale mancavano tre centimetri per essere un bel
ragazzo e che Thorez non amava»(4).
Svanite le sue speranze di essere candidato alle elezioni legislative
del 1936, Orfilat finisce naturalmente per tradire gli amici e il partito
per un pugno di denaro, unica cosa che gli sta a cuore. In modo
egualmente malevolo era dipinta la moglie di Nizan, Rirette.
In realtà Nizan non era ossessionato dall'idea di tradimento, ma
dal fatto che la borghesia costringe gli uomini a tradire: così Antoine
Bloyé, Rosenthal, Pluvinage. Ma il modo in cui Nizan li ritrae è
estremamente significativo della sua concezione del tradimento. In
primo luogo questi tradimenti non hanno tutti la stessa funzione e
le stesse motivazioni; inoltre questi traditori non tradiscono tutti la
stessa cosa. Antoine Bloyé ha tradito la sua famiglia, la sua classe
d'origine. Quasi tutti i personaggi de La Conspiration sono dei
traditori. Il loro gusto per l'azione (nel quale sono più vicini a
Nietzsche che a Marx) li porta a progettare un complotto che fallisce
prima di essere attuato. Questo è il destino che riserva loro Nizan:
Rosenthal muore suicida; Pluvinage entra nella polizia per disperazione; Laforgue deve vincere una lunga malattia prima di entrare
nelle fila della rivoluzione.
Questi giovani che tradiscono per debolezza, per idealismo o per
disperazione sono tutti immancabilmente colpiti. Ma Nizan non teme
il nominalismo. Il tradimento non è cosa di cui un rivoluzionario
si debba vergognare. Ne Les Chiens de garde ha scritto: «I filosofi
del giorno d'oggi arrossiscono ancora di confessare che hanno tradito
gli uomini per la borghesia. Se noi tradiamo la borghesia per gli
uomini, non arrossiamo di confessare che noi siamo dei traditori»(5).
Alla campagna del PCF replica nel 1947 un nutrito gruppo di
Ìntellettuali (tra cui Sartre, Merleau-Ponty, Camus, Aron, Benda,
Mauriac, Breton) con una lettera comparsa sul «Figaro Littéraire»
del 29 marzo che denuncia la diffamazione ai danni di «uno degli
scrittori più dotati della sua generazione»(6). L' «Humanité» risponde
confermando le accuse, pur non essendo in grado di fornire alcuna
prova a loro sostegno. La questione poteva dirsi, per il momento,
chiusa. Il PCF e il Comité National des Écrivains (da esso controllato)
avevano tutto l'interesse a stendervi un velo.
«Toutes les vies qui n' ont pas connu la plénitude sont repoussées
dans l'ombre des tentatives manquées»(7). L'adesione, le dimissioni,
la morte e il rinnegamento hanno fanno della vita di Nizan un destino.
Aveva voluto vivere in fretta e la sua morte sul campo di battaglia
ha creato quella corrispondenza, tanto ricercata dall' esistenzialismo,
fra l'opera e la vita che secondo questa filosofia nessuna barriera
dovrebbe separare. Ma il destino non è una decisione. Il tragico
appare all'angolo come ironia della Storia.
All'epoca della sua morte, la morte eroica non costituiva per Nizan
il senso di una vita. Egli aveva optato per l'adesione, aveva scelto
la comunione e per compagnia ha avuto la solitudine: l'obbrobrio
dei suoi compagni invece del riconoscimento. Nizan aveva come
rinnegato i libri e aveva scritto malgrado tutto: i suoi libri saranno
il supporto della sua figura e una nuova generazione di «cospiratori»
lo riconoscerà come uno dei suoi. Così Nizan che aveva visto la
grandezza solo nel consentire, per effetto delle sue dimissioni e del
suo rigetto diventerà colui che avrà detto «no» dall'inizio alla fine.
Egli si è infranto nello stesso tempo contro la società borghese e
contro lo stalinismo al quale aveva aderito. Ribelle, militante, martire,
Nizan è un dissidente avanti lettera, o almeno di un periodo in cui
la parola non era ancora di moda. In tal modo egli è uno dei maggiori
rappresentanti di una delle figure della mitologia del XX secolo:
l'intellettuale comunista.
La figura a cui danno forma la vita e gli scritti di Nizan è più
una mappa di problemi che un'opera nel pieno senso della parola:
Nizan è troppo legato alla congiuntura. Per questo ha potuto tornare
alla ribalta solo molto più tardi, in un' altra congiuntura, quando si
è creduto di nuovo che l'azione fosse possibile. La forza motrice
saranno i giovani. Essi occupano un posto centrale nell'universo di
Nizan, che non ha avuto tempo di invecchiare. Di colpo, perché così
vuole la situazione storica, nel 1960 Nizan esce dall'ombra con lo
splendore che gli conferiscono venti anni di persecuzione politica.
«Jeune et violente, frappé de morte violente, Nizan peut sortir du
rang, parler de la jeunesse à nos jeunes gens: "J'avais vingt anso
Je ne permettrai à personne de dire que c'est le plus bel age de la
vie". Ils reconnaìtront leur propre voix»(8l. Così lP. Sartre nella
sua prefazione alla riedizione di Aden Arabie. Erano necessarie le
circostanze storiche perché questa voce fosse intesa, ma Nizan non
7) P. NIZAN, Antoine B/oyé, Paris, Grasse!,
pp. 284-285.
8) J.P. SARTRE, prefazione a P. NIZAN, Aden
Arabie, Paris, La Découver!e, p. 13.
37
avrebbe mai potuto raggiungere il suo pubblico, al di là di una cerchia
ristretta, se Sartre non gli avesse prestato la propria voce per
amplificare la sua. Bisognerà attendere la fine degli anni Sessanta
e la pubblicazione dei primi saggi sull'opera di Nizan perché si
cominci a parlare di lui senza riferirsi costantemente a Sartre. Ma
ancora oggi Aden Arabie resta il suo libro più letto. Quest' opera e
la prefazione di Sartre costituiscono insieme quella figura di Nizan
che il suo amico ha voluto proporre al grande pubblico e che ha
dominato a lungo nell'immaginazione di molti. Ma occorre cambiare
prospettiva rispetto a Sartre. Ripetute dichiarazioni di Nizan quali:
«Esiste una grandezza che consiste nel dire sì» - «L'adesione è
un'affermazione dell'uomo»(9); non corrispondono pienamente al- 9) P. NIZAN, Letteratura e politica, Verona,
l'immagine che ce ne aveva dato Sartre di uomo disfattista, demi- Bertani, pp. 209-210.
stificatore.
Sartre aveva rifiutato di scrivere la prefazione a Les Chiens de
garde, in cui Nizan afferma la necessità dell' adesione; aveva preferito
presentare Aden Arabie. All' epoca della sua stesura Nizan, lo scrittore
arrabbiato, era più vicino alle posizioni di Sartre. Nizan è stato allora
uomo del rifiuto o dell'adesione? O le due cose insieme? Forse è
stata proprio questa contraddizione che lo ha obbligato a scrivere.
Benché egli abbia affermato la sua esigenza di adesione contro le
parole, benché si sia voluto uomo d'aziòne, ha finito per scrivere.
Quali sono dunque le funzioni della scrittura in Nizan? Egli non
è semplicemente un militante politico che ha scritto anche qualche
libro. E' un intellettuale che è diventato militante perché pensava
che tale fosse ormai il ruolo di un «intellettuale». E' a questo titolo,
nel rapporto tra la sua figura e il suo tempo, come una sorta di
archetipo della crisi delle funzioni dell'intellettuale che Nizan interessa ancora oggi. Una lettura dialettica del testo e del contesto
permette di scoprire nella sua opera un continuo tentativo di chiarimento dei problemi che lo hanno attraversato e una comprensione
del processo che ha fatto dell'impegno un destino.
«A partire dal 1914 ogni vita è pubblica. Nessuno più sfugge al
mondo, la vita privata non vi è più possibile allo stesso titolo del
pensiero privato, che misurava il mondo di un solo uomo. Bisogna
rassegnarsi: queste possibilità sono ben lungi dal ritornare»lO. «li 10) P. NIZAN, Letteratura epolitica, cit., pp.
problema attuale del romanziere consiste forse nel trovare un ritmo 196-197.
11) Ibidem, pp. 148-149.
alternato di· azione e di creazione ... »ll.
39
12) P. NIZAN, Antoine Bloyé, cit., p. 148.
Nizan parte dai giovani; in lui il rifiuto diventa volontà di distruzione della società borghese, rifiuto dei dualismi, volontà di adesione,
di riconciliazione: di «sÌ». Il crollo di tutti i valori l'indomani della
prima guerra mondiale impone una nuova coscienza: con l'esistenza
privata qualcosa è finito. L'uomo è scagliato nel mondo ed esiste
innanzi tutto come essere pubblico. Il nichilismo è attribuito alla
soggettività, da qui la necessità di impegno, di decisione altrettanto
soggettiva, di affermazione, di adesione.
Nizan scopre un senso storico alla tentazione del vuoto (<<Tant que
les hommes ne seront pas complets et libres, ils reveront la nuit» )<12),
la vertigine del nulla, l'ossessione della morte propria dei giovani:
se tutti si sono messi a parlare dell'angoscia e della morte è perché
la morte è il problema dell'epoca storica. Interpretati nell'orizzonte
della Storia, problema della morte e inquietudine dei giovani assumono secondo Nizan un senso politico che corrisponde a quella
nuova esistenza pubblica degli uomini che impone un compito
politico, che esige l'azione.
Il romanzo di educazione di Paul Nizan, il passaggio dalla «rivolta»
all' «adesione», dall'io di Aden Arabie a Carré, militante comunista
ne La Conspiration, è il passaggio dall'estrema sinistra di ispirazione
soreliana al comunismo, ma anche il cammino che trasforma l'avventuriero in militante. Queste due figure sono nate dopo la guerra;
gli anni Venti e Trenta sono stati gli anni del loro incontro e della
loro contrapposizione.
Il militante è una creatura del Partito, in lui e attraverso di lui
il Partito persegue la realizzazione del suo scopo e questo obiettivo
si impone come primario. Quanto all'azione, si tratta di un lento
e tenace lavoro di edificazione che si estende su di una durata
indefinita. Questo lavoro scalza certo la società esistente e comporta
un aspetto di negazione, ma nel complesso bisogna scorgervi una
costruzione positiva, che proseguirà al di là della scomparsa dell'individuo. Il militante non è un eroe; non che non sappia morire,
ma non cerca la morte se può evitarla e se questa lo colpisce, egli
muore modestamente.
Ma non basta voler essere un militante per diventarlo. Se l'io viene
prima di tutto, si è separati per sempre. E nel giovane borghese !'io
viene prima di tutto. se egli entra nel partito, non vi trova soluzione
ai suoi conflitti, che sono dei problemi personali. Più vuole allon-
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tanarsi dalla sua solitudine, più l'avverte. L'azione gli sembra un
mezzo per sfuggire all'isolamento, perché il suo scopo fondamentale
è negativo: far riconoscere la propria singolarità. Nizan scoprirà
infine il militante che contrapporrà agli avventurieri; egli schernirà
i giovani borghesi e la buona volontà di quelli che vogliono morire
da eroi per nulla e mostrerà l'isolamento e l'infelicità di chi aderisce
al partito per sbarazzarsi del proprio io.
Questo passaggio dalla fuga e dalla rivolta all'impegno e alla
disillusione avviene attraverso momenti coerenti in se stessi e
contraddittori tra loro. Se la letteratura si impone sempre più, se
Nizan le accorda importanza, è perché l'assenza di azione ha messo
in evidenza la contraddizione non solo fra lo scrittore e l'uomo
politico, ma anche fra «l'uomo d'azione», l'avventuriero, e il
«militante».
L'impegno ha forse corrisposto al momento della crisi della
funzione degli intellettuali prima della loro integrazione nel sistema
dei media. E' il principale problema dell'opera di Nizan, che prima
di scegliere l'impegno non era uno scrittore ma lo è diventato
impegnandosi. Essenzialmente, è un problema dell'intellettuale,
dovuto alla messa in discussione della sua «missione», della sua
posizione. L'impegno comporta un problema particolare tra la letteratura, che non si può riconoscere come tale, e l'attività di militante,
nella quale si può rischiare di sparire definitivamente come individualità. E' questa situazione che Nizan scopre mano a mano che
procede: nel discorso ricompare un io per negare e avanzare interrogativi.
Il più recente biografo di Nizan, J. Steel, ha scritto che: «la chiave
dell'opera di Nizan e della sua stessa vita si trova nei rapporti con
il partito» e che «se è possibile parlare del partito senza Nizan è
d'altra parte impossibile parlare di Nizan senza parlare del partito»(13).
13) J. STEEL, op. cit., p. 15.
In un certo senso è effettivamente così: Nizan ha avuto esistenza
pubblica solo in quanto militante comunista a differenza, per esempio, di Aragon, Lefebvre, Garaudy. Ma ciò non significa che sia
possibile appiattire l'opera e la figura sul puro piano della militanza
e dell'ortodossia. Non sarà inutile ricordare che «non si può dire
che il Partito Comunista sia totalmente responsabile della strada presa
dal romanziere Nizan»(14). Quando nel dicembre 1933 appare Antoine
Bloyé, il suo primo romanzo, e il «realismo socialista» è ancora una
14) J.-P. A. BERNARD, Le Parti Communiste
Française et la question Littéraire 19211939, Grenoble, Presses Universitaires de
Grenoble, 1972, p. 134.
41
15) Ibidem., p. 138.
16) BERNARD, op. cit., p. 137.
17) Ibidem, p. 142.
42
nozione in corso di definizione in URSS, parte della critica comunista
gli rimprovera l'insufficiente chiarezza ideologica: «Antoine Bloyé
è punito per i suoi fallimenti non per il suo tradimento»(15l. Jean
Freville (futuro redattore dell' autobiografia di Thorez, Fils du peuple)
gli rimprovera di aver lasciato punire Antoine Bloyé da una specie
di provvidenza incarnata da una morte solitaria e piena di rimorsi,
mentre per un comunista il castigo dei traditori dev' essere opera della
classe. Aragon è invece molto più generoso. La sua recensione,
apparsa su «Commune» del marzo-aprile 1934, è un misto di stupore
per la lucentezza dello stile sfoggiata dall'amico e un inno trionfale
al romanzo, che supera i confini del naturalismo per divenire espressione del realismo socialista. Dunque l'etichetta di realismo socialista
non è una nozione che si impone immediatamente alla lettura di
Antoine Bloyé, ma viene impressa a posteriori per opera di un critico.
Nonostante gli sforzi di Nizan di seguire i suggerimenti dei censori
ortodossi, il romanzo successivo Le Cheval de Troie, non dissipa
del tutto le riserve precedenti. Nel novembre 1935 su «Vendredi»
Pierre Abraham gli muove il rimprovero di propaganda romanzata
per poi correggerlo con quello di aver fatto proprio un linguaggio
minoritario.
Ma malgrado lo schematismo che ritroviamo sia nei personaggi
che nelle situazioni, Le Cheval de Troie si sottrae alla noiosa schiera
dei romanzi di propaganda.
Freville e Abraham non sembrano affatto afferrare che a salvare
Nizan dalla barbarie del realismo socialista volgare è appunto quella
problematicità esistenziale e quella mancanza di trionfalismo e di
spirito edificante che in fondo essi gli rimproverano come un errore
fondamentale da cui emendarsi. Ciò che impedisce a Nizan di scadere
allivello della propaganda romanzata è proprio la capacità dell' autore
di cogliere la vita in tutto lo spessore della sua drammaticità.
E tuttavia Nizan e Aragon «unici giovani romanzieri comunisti
di talento d'anteguerra»(l6l sono anche i «soli scrittori comunisti a
trovarsi definiti attraverso il concetto di realismo socialista. Altri,
come Moussinac, Freville, Gamy, non godranno di un simile privilegio»(17l. Il realismo socialista non è che una specie di imprimatur
imposto sulle loro opere senza che si sappia esattamente di che cosa
si tratta. E' la prova che sono comunisti piuttosto che l'esito di una
chiara visione teorica. Ed è la tesi di Barbusse, secondo la quale
la letteratura proletaria doveva prima di tutto produrre delle opere
prima di approfondire gli aspetti teorici, che troverà applicazione.
«Sono le opere di Nizan e di Aragon che contano, più che gli schemi
dottrinari»(18). E se in molti degli scritti di letteratura di Nizan,
pubblicati su una dozzina tra periodici, settimanali, quotidiani(19),
l'imperativo politico ideologico sembra talvolta prevalere su ogni
altra considerazione di valore, egli respinge tuttavia la letteratura di
propaganda e afferma che «nella letteratura sovietica c'è stato un
momento in cui la tecnica psicologica richiamava piuttosto quella
della immagine d' Epinal»(20).
«Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa
è la più bella età della vita». Questa intimazione di un giovane, che
lancia un grido d'odio e di disperazione contro i clichés e i luoghi
comuni dei suoi maggiori, incrina le mura di un mito: quello degli
anni folli, della «gay Paris» del dopoguerra, quello della corte del
principe della danza, Diaghilev, e del principe della poesia, Cocteau.
Non è senza sorpresa che si scopre che questa frase, il cui romanticismo e la cui eloquenza sono degni del migliore Sturm und
Drang, non è stata pronunciata da «un giovane combattente del 19141918 che aveva perso per sempre la giovinezza nel fango delle
trincee ... , ma da un giovane borghese dalle doti brillanti ... , e che
aveva vent'anni nel 1925!»(21).
Con queste parole «voce pura - diamante d'anarchia - che i suoi
contemporanei non ascoltarono»(22) Nizan entra sulla scena della
letteratura con la pubblicazione, nel 1931, di Aden Arabie, che si
presenta come un racconto di viaggio: un itinerario di iniziazione
che riconduce al punto di partenza ma non un passaggio dalla certezza
soggettiva alla verità. Una via di riconciliazione, ma anche di rinuncia. Si tratta di una rottura all'interno del mondo, che ha cessato
di essere l'orizzonte implicito della vita. Da questa distruzione, dalla
differenza tra interpretazione e realtà nasce l'angoscia. Ciò che fa
di Aden Arabie il capolavoro della letteratura arrabbiata è il fatto
che si tratta di una delle prime manifestazioni dell' esistenzialismo
marxista, esperienza vissuta di un mondo dominato dalla merce. La
qualità unica di Aden Arabie è la compenetrazione di un'esperienza
esistenziale e della sua spiegazione teorica. Ma è la particolarità
dell' esperienza che dà al libro la sua forza lirica, la sua scrittura
18) Ivi, p. 142.
19) «Cahiers pour la jeunesse»; «Commune»; «Europe»; «La Correspondance Internationale»; «NRF»; «Ce Soir»; «Vendredi»;
«Regards»; «Le Monde»; «L.:Humanité».
20) P. NIZAN, Letteratura epolitica, cit., p. 210.
21) J. STEEL, op. cit., p. 19.
22) A. COHEN-SOLAL, Paul Nizan communiste impossible, Paris, Grasset, 1980, p.
122.
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rabbiosa; è il commento che fa di questo grido di rivolta un grido
articolato. In Aden Arabie esistono passaggi che autori di libri di
viaggio potrebbero invidiargli. Ma per lui il lirismo del viaggio è
vuoto di sostanza: «1'amour de la beauté pourra bien m'envahir
23) P. NIZAN, Aden Arabie, op. cit., pp. 133134.
lorsque je serai vieux. Mais vous me faites rire avec vas ... magasins
de symboles»(23l .
Il viaggio è un effetto della paura, una fuga, necessaria come il
momento negativo, benché lo scopo sia raggiungere la positività
originaria. Tutta la tensione del testo viene dall'impossibilità di
acconsentire al mondo e all'esistenza quali esse sono. Aden gli
appare nella sua spoglia durezza e non c'è più un luogo dove fuggire:
«Voici ce q'il y avait à comprendre: Aden était une image fortement
24) Ibidem, p. 106.
concentrée de notre mère l'Europe»(24l . Ad Aden si vedono le fondamenta della vita dell'Occidente: la vita degli uomini vi è ridotta
al suo stato di massima purezza che è lo stato economico. Ecco
svelato il segreto del mondo, dato che terrorizza e fa fuggire, ecco
il volto del Padrone di questo mondo: il capitale personificato. Se
Sartre scriverà per liberarsi dalla nausea, Nizan lo farà per liberarsi
dalla paura. E questa lotta dà alla sua scrittura la sua forza e la sua
violenza. Pur restando fermo, l'io riscopre la causa della paura e
la combatte. Esso descrive al presente un viaggio e la scrittura lo
libera dalla partenza e dalla fuga. Lo scrittore e il suo personaggio
diventano una sola persona che aspira alla realizzazione.
Aden Arabie, come il seguito dell'opera di scrittore di Nizan, è
un luogo di incontro di diversi problemi: il pensiero della morte,
il feticismo della merce e l'esigenza rivoluzionaria. Tutta la storia
della vita e dell'opera di Nizan sarà quella di una tensione sempre
crescente verso un mondo di realtà essenziale. Ma la «guerra civile»
che auspica perché rovesci il mondo non arriverà e Nizan non farà
che scrivere delle storie, attratto sempre più verso il romanzo. L'opera
letteraria di Nizan nascerà dal rapporto fra la problematicità del
particolare e il punto di vista tendenzialmente universale del militante.
Antoine Bloyé continua dunque su di un altro piano Aden Arabie.
Nizan descrive come il nipote di un contadino, nel quale è facilmente
riconoscibile la figura del padre, viene strappato alle sue origini e
si è trasformato nel suo essere, nei suoi sentimenti, giorno dopo
giorno grazie all'educazione, come viene «corrotto» fino a diventare
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radicalmente estraneo ai suoi. In questo prende di mira lo stesso
bersaglio che nei suoi scritti precedenti: la classe media, i suoi falsi
valori. Il libro vuoI mostrare il nulla a cui sono destinati coloro che
vogliono cambiare di classe. L'istruzione e la prospettiva di una
promozione sociale producono quei «traditori» che credono di veder
schiudersi davanti a sé una nuova prospettiva «chaque fils d' ouvrier
a dans son cartable un diplome de Conducteur d'Hommes, un
diplOme en blanc de bourgeois»(25). La questione è anche qui sempre
la stessa di Aden Arabie: sapere qual è il senso della parola uomo
e realizzarlo. Nizan mette il suo libro sotto l'insegna di un passaggio
dell' Ideologia tedesca (in tedesco, non tradotto, nell' edizione francese: ultimo segno di affettazione normalista) il cui senso è che
bisogna sopprimere il «lavoro» perché il «lavoro» diventi un bisogno.
E il lavoro è innanzitutto il lavoro salariato nella produzione capitalistica. Questa idea di lavoro e l'utopia di Marx gli servono per
descrivere e denunciare il modo di esistenza nella società capitalistica, e l'ideale utopico che si può costruire sulla base degli elementi
sparsi nel libro sembra quello dell'uomo completo nel senso marxiano, ma Antoine Bloyé è un personaggio negativo, come lo sarà
Pluvinage ne La Conspiration. Attraverso le mediazione egli non
ha cercato altro, si è accontentato.
«Antoine Bloyé ritiene di aver conquistato una sicurezza definitiva,
e, come tutti i borghesi è convinto di non poter essere scalzato da
ciò che non lo investe completamente; invece... sarà proprio la
guerra... a ratificare - con il declassamento a dirigente di un magazzino periferico - la sua sistemazione mediocre nella sua vita
irrimediabilmente mediocre. E' a questo punto che Antoine intuisce
la differenza tra essere un uomo ed essere "qualcuno"»26.
Ma nello «sguardo tenero e rabbioso... sulla vita del padre, che
è una vita mancata»(27) c'è qualcos'altro, che all'epoca passa inosservato e che tuttavia «fa di questo romanzo un'opera essenziale tra
i romanzi francesi del periodo tra le due guerre... Nizan è il primo
ad aver introdotto contemporaneamente Marx e Freud nella letteratura francese»(28). Così la morte del padre, che mette fine all'an-
25) P. NIZAN, An/oine Bloyé, op. cit., p. 70.
26) A. TONIOLO, prefazione a P. NIZAN,
An/oine Bloyé, Verona, Bertani, 1972, p. 5.
27) A. COHEN-SOLAL, op. cit., p. 130.
28) Ibid., p. 130.
goscia che lo tormenta da anni non è che il simbolo della lunga
ricerca che lo porterà dall'inquietudine al comunismo. La morte di
Antoine non è tanto la morte del padre di Nizan quanto quella di
ciò che avrebbe potuto diventare Nizan, figlio di Antoine. Quando
45
29) Ivi., p. 132.
30) M. SERRA, L'esteta armato, Bologna, Il
Mulino, 1990, p. 124.
31) P. NIZAN, La Conspiration, Pari s, Gallimard, 1991, p. 11.
32) Ibid., pp. 29-30.
33) G. LEROY-A. ROCHE, Les écrivains et
le Front Populaire, Pari s, Presses de la Fondation Nationale Des Sciences Politiques,
1986, p. 303.
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Antoine si rende conto che la sua vita è fallita, Nizan capisce di
correre lo stesso rischio. Troppo tardi per l'uno, appena in tempo
per l'altro. Ma occorrerebbe per «riassumere la ricchezza dell'opera
ricordare che Nizan vi parla, come nessun altro, dell'angoscia della
morte, della vecchiaia, del dolore... e soprattutto del drammatico
divario tra una lucida percezione della realtà e la disperata constatazione della propria impotenza»(29). Risulta perciò tanto più ingeneroso oltreché riduttivo il giudizio di chi ha visto in Antoine Bloyé
solo «l'inevitabile romanzo d'iniziazione per affrancarsi dall'archetipo patemo»(30).
«La guerre civile est une idée qui doit ètre dans le domaine public,
dit Rosenthal. ça ne se dépose pas>P). Invocata in Aden Arabie,
la guerra civile è diventata ne La Conspiration, l'ultimo, e di gran
lunga il migliore romanzo di Nizan, un'idea di dominio pubblico,
il titolo di una rivista per giovani che «n'étaient pas pressés par la
nécessité déprimante de gagner leur pain sur-le-champ, ils se disaient
qu'il fallait changer le monde»(32).
Henri Lefebvre ha identificato in seguito questa rivista con «Revue
Marxiste» alla quale Nizan collaborò nel 1928-29, dimenticando che
«La Guerre Civile» è il titolo di una rivista che doveva uscire nel
1925 con la convergenza di «Philosophies», «L'Esprit», dei surrealisti, di «Clarté» e di «Le Grand Jeu», progetto poi fallito per
l'opposizione dei redattori di «Philosophies» preoccupati di difendere
l'esistenza e l'autonomia del gruppO<33).
Nel romanzo, pubblicato nel novembre del 1938, Nizan rivolge
uno sguardo retrospettivo agli anni della sua giovinezza, in qualche
modo rivivendola poeticamente e con una sottile vena di tragica
ironia in precedenza assente, ma non è impossibile leggervi il
romanzo di un fallimento storico, di una rivoluzione abortita. Nello
stesso periodo in cui era nato e si era sviluppato un mito di una
gioventù felice e militante legato al Fronte Popolare al canto di Allons
au-devant de la vie, Nizan non si unisce al coro. I suoi personaggi
sono figli di borghesi che non hanno più dubbi sulla condanna della
loro classe d'origine e non vogliono affondare con essa. Per lo più
cercano di recidere i loro legami con il passato e la famiglia. Le
loro strade si incontrano ma non si confondono. Il gruppo che
formano è un mezzo di difesa poco efficace, incapace di proteggere
questi adolescenti che avanzano verso la morte o la solitudine. Essi
restano presi nella trappola dei loro atti, ed è il loro passato che
apparirà irreversibile, non l'atto con il quale vogliono tagliarsi i ponti
alle spalle.
Il culto del complotto e dell'azione eversiva può farli assomigliare
a dei nichilisti rivoluzionari, ma il militante Nizan non prende sul
serio i loro progetti: l'impegno autentico è un'altra cosa, e lui lo
sa. Come questi aspiranti rivoluzionari non vengono presi sul serio
nel corso della loro azione, così nell'esito delle loro vicende non
vi è riscatto morale. Di fronte alle prove che la vita pone si assiste
al loro completo fallimento. Se i suoi giovani protagonisti sono in
rivolta, quella che avrebbe potuto essere liberazione non è che la
constatazione di un tentativo abortito. Rosenthal si ribella contro la
famiglia e il mondo che rendono impossibili l'amore, ma la relazione
con la cognata, iniziata come «cospirazione a due», in parte per
cercare il gusto del pericolo, in parte per desiderio di dissacrazione
delle norme borghesi, lo prenderà alla gola, portandolo al suicidio.
Anche la rivolta di Pluvinage è doppia, contro il padre poliziotto
ma anche contro i suoi stessi compagni, il loro snobismo e la loro
ostentata superiorità. Lusingato da un abile funzionario di polizia
denuncerà un dirigente del partito e finirà come informatore; la
seconda rivolta annullerà la prima. Soltanto in Laforgue, verso la
fine, Nizan lascia cadere un barlume di speranza: Laforgue «sent
bien qu'il va entrer dans l'age de l'ambiguité»(34), ma dovrà scontare
una lunga malattia, vera e propria catarsi, prima di acquisire coscienza della sua condizione. Laforgue sarebbe poi riapparso nelle vesti
di un militante in La Soirée à Somosierra, il romanzo che Nizan
stava completando al momento della sua morte e che è andato
perduto.
«All'opposto di Aden Arabie, che, violento ed aggressivo, strappava dal mito della giovinezza tutte le maschere ed i luoghi comuni,
La Conspiration è un romanzo d'apprendistato, un'educazione sentimentale e politica assai più amara ... »(35), ma il suo clima poliziesco
è anche una descrizione dell'atmosfera in seno al partito all'epoca
dello stalinismo, del quale si può leggere tra le righe una velata
denuncia. Non è perciò condivisibile, credo, la tesi che sostiene che
«utilizzare personaggi del romanzo (Pluvinage), per formulare riserve
verso le posizioni del partito o la natura dell'esperienza sovietica
34) P. NIZAN, La Conspiration, op. cit., p.
302.
35) A. COHEN-SOLAL, op. cit., p. 224.
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36) J. STEEL, op. cit., p. 313.
37) A. COHEN-SOLAL, op. cit., p. 16.
38) A. COHEN-SOLAL, op. cit., p. 17.
39) J. STEEL, op. cit., p. 18.
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per poi fame dei traditori, è un modo assai abile per definire lo
stalinismo e, al tempo stesso, adeguarvisi»(36l. A questo proposito
vale la pena di ricordare che dopo l'uscita del romanzo, mentre da
più parti Nizan viene giudicato superiore sia ad Aragon che a
Malraux, le reazioni comuniste sono di tono assai più riservato. Dopo
l'attribuzione al romanzo del Prix Interallié, tradizionalmente attribuito all'opera letteraria di un giornalista (Nizan era redattore di
politica estera a «Ce Soir», quotidiano comunista del pomeriggio),
non ci sono rallegramenti di sorta da parte di Aragon (che di «Ce
Soir» era il direttore), e il rifiuto di Georges Cogniot di pronunciare
un discorso di felicitazioni a nome di Thorez nel corso di un banchetto
organizzato dal partito in onore del premio, è indicativo di come
Nizan occupi, in seno al PCF, un «posto a parte».
Ma tutta la vicenda di Nizan nel partito è fatta di una somma di
piccole sfiducie nei suoi confronti, di amarezze rientrate. Di lì a non
molto, saranno destinate a venire alla luce.
Non è però possibile leggere a posteriori tutta la vicenda di Nizan
solo nell'ottica della sua rottura con il partito nel 1939 anche perché
essa può essere, in un certo senso, interpretata in nome di una fedeltà
alla fede rivoluzionaria e all'antifascismo che non vengono meno,
di un rifiuto del machiavellismo politico, dunque di una continuità:
e tuttavia «in momenti diversi il fantasma di Nizan è riapparso ...
pronto a rendere i suoi servigi quando si aveva bisogno di lui. In
qualche modo, un Nizan su misura»(37l. Negli anni Sessanta, attraverso Sartre, fu l'uomo del rifiuto, poi un avventuriero simile a
Rimbaud, ed infine con l'uso fattone più recentemente da «un
battaglione di comunisti dissidenti, espulsi, pentiti che se ne impadronisce ... Nizan diventa la cattiva coscienza del PCF»(38l.
Ma la sua vita è specchio insieme di ingegno sottile, di ambizioni
e tormenti e di un travaglio intellettuale e morale sempre profondo,
di una personalità labirintica e forse di una certa ambiguità. Questo
spiega come siano necessariamente riduttive le definizioni che si sono
volute dare di lui, di volta in volta «uomo in rivolta», «comunista
impossibile», «rivoluzionario conformista». Molte sono le cose che
in lui sono esemplari e che ci restano come eredità e come dono
insieme: «la rabbia, la fedeltà, la rottura, il comunismo, gli scritti,
la tragedia di una lotta personale dalla quale non si esce sempre
vincitori, la sete d'assoluto, o la giovinezza»(39l.
Paul Nizan, richiamato alle armi nel 1939 e assegnato come
interprete ad una unità britannica, muore colpito da una pallottola
tedesca il 23 maggio 1940 al castello di Coulong. Sulla sua tomba
la scritta: «Honny soit qui mal y pense».
Cronologia
1905: Nasce a Tours.
1916: Allievo al liceo di Périgueux.
1917-22: Allievo al liceo Henri IV di Parigi.
1924: Accolto alla Ecole Normale Supérieure (facoltà di filosofia).
1925: Partecipa al gruppo di «Philosophies».
1926-27: Precettore ad Aden. Si iscrive al PCE
1929: Collabora alla «Revue Marxiste».
1930: Servizio militare. Collabora a «Bifur».
1931: Pubblica Aden Arabie. Collabora a «Le Monde». Insegnerà
filosofia a Bourg-en-Bresse.
1932: Pubblica Les Chiens de garde. Collabora a «L' Humanité».
Abbandona l'insegnamento.
1933: Pubblica Antoine Bloyé. Critico letterario de «L' Humanité».
Segretario di redazione di «Commune».
1934: Soggiorno in URSS. Lavoro all'Istituto Marx-Engels. Partecipa al Congresso degli scrittori.
1935: Ritorno a Parigi. Pubblica Le Cheval de Troie. Incaricato della
rubrica di politica estera de «L'Humanité». Numerose collaborazioni.
1936: Reportage dalla Spagna durante la guerra civile.
1938: Pubblica Les Matérialistes de l'Antiquité e La Conspiration.
1939: Richiamato alle armi. Dimissioni dal PCE
1940: Muore il 23 maggio.
Bibliografia
1) Opere di Paul Nizan
a) Aden Arabie (1931): trad. il. Milano,
Mondadori, 1961.
b) Le Chiens de garde (1932): trad. il.
Firenze, La Nuova Italia, 1970.
c) Antoine Bloyé (1933): trad. il. Verona,
Bertani, 1972.
d) Le Cheval de Troie (1935): trad. il. Verona, Bertani, 1973.
e) Les Matérialistes de l'Antiquité (1938):
trad. il. Verona, Bertani, 1972.
f) La Conspiration (1938): trad. il. Milano,
Mondadori, 1961.
g) Chronique de septembre (1939): trad. il.
Roma, Editori Riuniti, 1981.
h) Paul Nizan, intellectuel communiste,
1926-1940. Articles et correspondance
inédite (1967): trad. il. Firenze, La Nuova
Italia, 1974.
i) Pour une nouvelle culture (1971): trad. il.
Letteratura e politica. Saggi per una nuova
cultura; a cura di S. Suleiman, Verona,
Bertani, 1973.
2) Opere consultate
a) P. Ory-J.-F. Sirinelli, Les intellectuels en
France, Pari s, Armand Colin, 1992.
b) D. Caute, Le communisme et les intellectuels française 1914-1966, Paris, Gallimard, 1967.
c) J.-P.A. Bernard, Le Parti Communiste
Française et la question Littéraire 19211939, Grenoble, Presses Universitaires de
Grenoble, 1972.
d) G. Leroy-A. Roche, Les écrivains et le
Front Populaire, Paris, Presses de la Fondation Nationale Des Sciences Politiques,
1986.
e) A. Cohen-Solal, Paul Nizan communiste
impossible, Paris, Grasset, 1980.
f) P. Dry, Nizan. Destin d'un revolté 19051940, Pari s, Ramsay, 1980.
g) J. Steel, Paul Nizan. Un révolutionaire
conformiste?, Paris, Presses de la Fondation
Nationale des Science Politiques, 1987.
h) M. Serra, L'esteta armato, Bologna, Il
Mulino, 1990.
49
Dopo aver fatto fronte
a .cinque mesi di "Straik"
(Sulle tracce di montanari emigrati in America)
L'emigrazione dal nostro Appennino, tra la fine del XIX e i primi
lustri del XX secolo, è uno dei fenomeni meno studiati dalla storiografia locale. Del resto è altresì carente, più in generale, lo studio
della società montanara nei suoi vari aspetti. TI "mito appenninico"
di Matilde sembra volere cancellare, da convegni e pubblicazioni
varie, la vicenda collettiva di quei "ceti subalterni" che sull' Appennino reggiano hanno vissuto lungo i secoli.
Peraltro anche la storiografia resistenziale, che pure nell' Appennino ha uno dei luoghi certamente significativi della guerriglia
partigiana, si è più sofferrnata sugli aspetti militari e politici riguardanti la presenza delle brigate partigiane e assai meno sulla società
che quelle brigate ospitava / subiva.
TI fenomeno delle migrazioni, sia interne che verso 1'estero, pare
essere uno degli aspetti che più hanno segnato il nostro Appennino,
determinando anche mutamenti importanti nella vita delle comunità
locali. Mutamenti che hanno riguardato i rapporti interni alle famiglie, così come, più in generale, in quella che potremmo definire
la "mentalità diffusa". Si pensi, a quest'ultimo riguardo, all'incidenza
avuta, nello sviluppo di una mentalità "progressista" e di uno spirito
antifascista, da quella veicolazione di idee nuove che fu prodotta
dal ritorno - spesso solo temporaneo - di migranti quali l'anarchico
Enrico Zambonini di Villa Minozzo, il comunista Alberto Galassi
di Cervarezza, il socialista Amilcare Acerbi di Busana. La loro, come
quella di altri, è una vicenda di prima emigrazione in epoca prefascista, di ritorno nel biennio rosso, di nuova migrazione quando
ANTONIO ZAMBONElLi
51
1) Per le figure di E. Zambonini e A. Galassi
rimando a A. ZAMBONELLI, Reggiani in
difesa della Repubblica spagnola, ISR RE,
1974, passim e schede biografiche in
appendice, ID., Vita battaglie e morte di
Enrico Zambonini, Villa Minozzo, Comune,
1981. Per i migranti di Busana e Collagna
si veda "Busmarnis", Bollettino periodico del
Centro di lettura di Busana, A. Il, 1974, dove
troviamo una toccante traccia in tema di
trafile migratorie non andate a compimento:
"Se fosse stato il tempo di una volta - scrive
il 12.1.1928, da Seattle , Raimondo Canova
al fratello - ti avrei detto lascia terreno e
bestiame e vieni in questi centri. Ma oggi
giorno il lavoratore ha sempre la peggio in
ogni angolo della terra, tutto è lavorare e
soffrire! lo le ho passate tutte ma la fortuna
somiglia amica a me come la lepre al cane".
2) PIETRO ALBERGHI, 40 anni di storia
montanara. L'Appennino reggiano-modenese dal fascismo alla rinascita, Modena, TEIC,
1980. E' praticamente l'unico testo che
affronti, sia pure in modo sintetico, un
esame della società montanara reggiana tra
il primo ed il secondo dopoguerra.
3) EMILIO FRANZINA, L'epistolografia popolare e i suoi usi, in "Materiali di lavoro", n.
1/2, 1987, pago 53. Per l'area reggiana è
stato per decenni del tutto mancante un
lavoro di ricerca sulla epistolografia popolare dalla guerra e dall'emigrazione. Sull'argomento si possono citare: A. ZAMBONELLI, Spero in una vicina pace. Lettere dal
fronte di Tonino Montanarini, Poviglio,
Comune, 1990; GIOVANNA CAROLl, "".Ma
pasiensa." Lettere dal fronte di caduti
casinesi nella 2.a Guerra mondiale, in ID. et
AI., Casina in guerra, Reggio Emilia, AGE,
1993
52
l'imperversare della violenza squadri sta lo rese inevitabile. Ma del
loro ritorno, delle loro parole dette o scritte, rimase un segno nella
tradizione orale anche lungo il ventennio, dopo la nuova partenza
per la Francia o le Americhe.(l)
Fu anche, quello delle migrazioni, un fenomeno quantitativamente
assai rilevante. Secondo il censimento del 1921 risultarono assenti,
dal solo comune di Villa Minozzo, ben 1445 persone su di una
popolazione di 9335. E si noti peraltro che il censimento fotografava
la situazione allo dicembre, quando cioè non erano in atto le
migrazioni stagionali(2).
Tra le fonti da utilizzare, per l'analisi del fenomeno migratorio,
oltre a quelle canoniche reperibili negli archivi e nei repertori
ufficiali, importanti sembrano anche a me i testi di "scrittura popolare", per usare la denominazione da tempo adottata dagli amici
di Rovereto. Mi riferisco alla esigenza di reperire memoriali (che
a volte esistono) e lettere (più facilmente reperibili in microarchivi
domestici) scritte da emigranti a loro familiari o· compaesani.
" Le lettere popolari - scrive Emilio Franzina- possono dirci molto
su come la guerra o l'emigrazione viene vissuta, ma non solo, ci
somministrano notizie altrimenti irrecuperabili sul funzionamento di
vedute popolari e di atteggiamenti mentali tradizionalisti in epoca
di transizione e nell'adattamento di chi ne è portatore ai grandi
mercati del lavoro nazionali e internazionali, ci illuminano sul significato reale di gesti e di opzioni apparentemente paradossali o
incomprensibili .... "(3).
In questa sede diamo un piccolo saggio di fonti epistolari pubblicando due lettere dagli Stati Uniti d'America scritte nel 1922 a
Eliseo Costi, di Costabona, comune di Villa Minozzo. Una è di M.
Bonicelli, e reca la data del 22. 8. 1922, l'altra di Luigi Costi, fratello
di Eliseo, ed è datata 27. lO. 1922. Di M. BollÌcelli non abbiamo,
al momento, notizie biografiche. Sappiamo solo, come risulta dalla
lettera, che era cugino di Eliseo e Luigi Costi. Di quest'ultimo
abbiamo qualche notizia in più: emigrato negli Stati Uniti nel 1908,
per procurarsi i soldi del lungo viaggio aveva venduto la sua parte
di proprietà - un piccolo appezzamento di terra a Costabona - al
compaesano Severino Bonicelli, probabilmente congiunto del già
citato M. Bonicelli. Da un documento notarile ( un "affidavit") del
1921 (che pure qui pubblichiamo), apprendiamo che all'epoca era
già naturalizzato americano ed aveva anglicizzato il prenome in
Louis. Da fonti orali risulta che Luigi Costi dall' America non fece
più ritorno.
Quella verso gli Stati Uniti pare essere stata una delle vie più
battute dai nostri montanari nel quadro della emigrazione permanente, a cavallo tra i due secoli. In genere - e questo è stato rilevato
4) GIOVANNA CAMPANI (a cura), L'emigrazione emiliano-romagnola in Francia, Regione Emilia-Romagna, 1987; ERCOLE SORI,
L'emigrazione italiana dall'Unità alla seconda
Guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979.
per tutta l'emigrazione italiana - partiva qualche ardimentoso pioniere
che poi veniva via via seguito da parenti o compaesani(4).
Le due lettere e l'atto notarile che pubblichiamo costituiscono, nel
loro insieme, un esempio di come si stabilisse quella trafila, che,
peraltro, come nel caso presente, non sempre funzionava. Redatti
a distanza di circa un anno l'uno dagli altri (l'''affidavit'' nel settembre 1921, le lettere in agosto e ottobre 1922), i tre testi hanno
tutti al centro il problema, per Eliseo Costi, di emigrare a sua volta
negli Stati Uniti e di avere (questo dalle lettere), dai suoi due
corrispondenti "americani", il denaro per compiere la traversata
atlantica.
L' "affidavit" del 1921 è la dichiarazione giurata di Louis Costi
secondo la quale il fratello Eliseo ha tutti i requisiti per potere entrare
negli Stati Uniti e lui, Louis, ha denaro sufficiente per potere provvedere alle prime necessità del fratello. Ma Eliseo non riuscì mai
5) Per i meccanismi di finanziamento dell'emigrazione transoceanica, E. SORI, cit.,
capitolo sull'emigrazione in America.
a partire, evidentemente per mancanza degli attesi finanziamenti,
come emerge dalle due lettere di L. Costi e M. Bonicelli.(5)
Interessanti le lettere, anche per i brandelli di vissuto che ne
risultano relativamente alla condizione dei due costabonesi "americani": l'appoggiarsi in loco a conterranei che, evidentemente, hanno
fatto fortuna (come quel rispettosamente designato "Sig. Caroli
Ruggero" della lettera di Luigi),o al prete cattolico (stessa lettera)
evidentemente considerato affidabile consigliere. Piccoli indizi, pare
di potere dire, della differenza tra due diversi tipi di emigrazione
in quegli anni; in genere chi partiva dalla "pianura rossa" ricostruiva,
nei luoghi di emigrazione, la rete solidaristica (partito, sindacato,
in qualche caso anche le cooperative) che si era lasciato alle spalle
e con la quale manteneva un forte legame, come testimoniano tante
lettere di emigranti alla prampoliniana "Giustizia". Ancora, gli
emigranti dalla pianura erano in genere braccianti, muratori, operai
generici. Qualcuno di loro, ritornando, compiva un salto sociale
54
-------------
-----,
comprandosi un poderetto con i risparmi di anni di emigrazione pure
continuando, anche da "possidente", a mantenere fedeltà agli ideali
socialisti. (6)
Senza volere generalizzare, è invece ipotizzabile un diverso
impatto dei nostri montanari con l'ambiente dell'emigrazione. Si
trattava in massima parte di appartenenti a famiglie di contadini
piccoli proprietari (è anche il caso dei nostri Costi), famiglie però
assai numerose che, sulla poca terra posseduta, non riuscivano più
a produrre nemmeno per l'autoconsumo. E la vendita di parti di
quella poca terra era spesso l'ultima risorsa per tentare una nuova
vita compiendo il grande viaggio. L'ambiente di partenza, l'Appennino reggiano di inizio secolo, come è abbastanza noto, era caratterizzato, a differenza della pianura, dal prevalere della influenza
ideologica conservatrice della chiesa cattolica.
La lettera di M. Bonicelli ci offre anche succinte informazioni su
quei "5 mesi di straik /sic/"raccontati anche (e vissuti come permanente minaccia) nella lettera di Luigi: "si teme un altro sciopero
ancora più feroce di quello che abbiamo passato".
Lo sciopero. Ecco certamente una grossa novità per dei montanari
che nella piccola comunità di Costabona, arroccata sotto i boschi
del monte Penna e raggiungibile - all'epoca - soltanto per mulattiere,
di scioperi non ne avevano sicuramente mai fatti, legati come erano
ai loro fazzoletti di terra avara.
Qualcuno dei costabonesi fece anche fortuna nella lontana America. Uno ne lasciò vistosa traccia donando il denaro per costruire
la strada che da Costabona porta a Quara. Un altro donando al borgo
natio la fontana che ancora oggi gorgoglia fra quelle antiche case
di pietra. Ma di quasi tutti, di quanti fecero fortuna e di quanti non
la fecero, si sono pressoché perse le tracce.
Tentare di riscoprirle. Ecco un bel compito per degli storici
6) "Interessante notare la più antica e diffusa
tradizione "rossa" di Cogruzzo, dove si era
costituita la prima latteria sociale, dove un
proletariato agricolo estremamente misero,
insediato in quella plaga parzialmente paludosa fino ai primi anni di questo secolo,
seguiva, dalla fine dell'Ottocento, le vie dell'emigrazione ... in Francia e nelle Americhe ... Alcuni di tali emigranti, rientrati con
un piccolo gruzzolo, si erano trasformati in
contadini. Questo pugno di pionieri, ex
emigranti e costruttori di cooperative costituito da ... ". (In A.ZAMBONELLI, Castelnovo
Sotto 1921-1946. Un paese tra due dopoguerra., Castelnovo Sotto, Comune, 1995, p. 13.
Sui legami tra emigrati e organizzazioni
socialiste dei luoghi di provenienza, un
esempio: "II padre, attivo militante socialista, nell'estate 1913 si era fatto promotore,
tra compagni dell'emigrazione, di una raccolta di fondi da inviare ai mattonai campeginesi impegnati in un lungo sciopero. (Lettera di Armando Ferrari, in "La Giustizia domenicale", 27.7.1913)", in
A.ZAMBONELLI, Per una biografia di 'Eros",
in "Ricerche storiche", n. 64/66, dico 1990.
55
APPENDICI DOCUMENTARIE
M. Bonicelli, dagli Stati Uniti, al cugino Eliseo Costi (sulla busta
non è indicato il mittente, che risulta però dalla fmna in calce alla
lettera; il timbro postale, da Diamondville, reca la data del 24 agosto
1922)
Caro Cogino Diamondville"yo 22.8.1922
in risposta alla tua ricevuta giorni or sono mi congratulo sentendoti in buona salute: e ne segue un disimile di me.
Sento pure nella tua che avresti bisogno che ti mandassi qualche
cosa del tuo avere; mi dispiace al sentire chiedermi una cosa; quale
in utile; dopo aver fatto fronte; con dei sagrifizi: a 5 mesi di straik
e; puoi ancora; non èfinito; e credi se avessi potuto li avrei mandati
alla fine di marzo; all'inoltrare del siopero; e quindi abbi un bel
po di pazienza ; e tanto che le cose si cambiano in melio.
Altro non mi alungo; solo di inviarti affsi saluti; in compagnia
di tuafamilia; e mia gia........................ ; e mi dico tuo affmo Cogino
M. Bonicelli
Saluti da tuo fratello Luigi; e saluta tutti.
Lettera di Luigi Costi al fratello Eliseo
(Mittente, sulla busta, " From Louis Costi - Oakley Wyo/ming/ U.
S." ; destinatario "Al Sig. Costi Eliseo - Reggio Emilia - Villaminozzo Costabona Italy")
(testo)
Oakley Wyo Ottobre 27 1922
Amatissimo fratello,
L'immensa tua bontà mi fa sperare che vorrai perdonarmi
per non averti scritto molto tempo prima, tuttaltro che negligenza
o dimenticanza ma bensì trascurataggine come o sempre costumato
in vita mia bensi che altro che miseria non avrei potuto anunziare
ma per ladempimento del mio dovere avrei dovuto scrivere lo stesso.
56
Di tutto ciò me ne scuso e ti chiedo perdono.
Intanto ti dirò che sono sempre stato in salute come pure tuttora
come pure penso e voglio sperare che anche tu stii bene insieme
alla tua moglie e figli come pure spero un simile della mamma e
fratelli e sorella e tutti.
Come avrai inteso anche dalla lettera che o scritto alla mamma
laltrogiorno che non sono più a Diamondville mi sono traslocato
qui a Oakley n.7 per grazzia del Sig. Caroli Ruggero il quale circa
un anno fa pensò di fabbricare un salone, ed aveva messo uno che
forse lavrai conosciuto anche tu, certo Joe Franchi ma per la
diferenza che non faceva abastanza la vita si decise smettere. Così
il prete mi disse se fossi voluto venire io ed io presi loportunità
essendo che era anche tempo di sciopero ma in questo periodo di
tempo o fatto non miseria ma sono andato piutosto indietro che
avanti, ma spero andando avanti farmela un po meglio.
Ora ti dirò riguardo allandamento di questi posti, acciò ti passi
regolare se avessi lidea di ritornare in america. Lo sciopero labbiamo
vinto ed ora si lavora a tutta forza e la giornata e sempre come
prima cioè di 7, 92 solo che il primo del venturo aprile scade di
nuovo il contratto e si teme di un altro sciopero ancora più feroce
di quello che abbiamo passato. Però se fosti mai disposto e volenteroso di venire anche subito vieni pure , anzi o inteso che ce ne
una partita che viene come avrai pure inteso anche tu ce uno da
pontone / Pontone, frazione di Carpineti, altro comune dell'Appennino reggiano, nota mia, A.Z./ che forse lo conosi e venuto a casa
queste state ed ora ritorna; e poi ce ne sara altri.
lo non mancherò di fare ogni possibile per te e vedrai che se altri
non vanno in deperimento non andremo nemmeno noialtri, quindi
sta in te a deciderti.
Riguardo alla moneta per il viaggio come ti o detto mi trovo scarso
e anzi in debito avendo in questi giorni comperato 4 tonnellate di
uva però se fossi sicuro della tua venuta potrei fare un altro sacrifizio
e mandarteli.
Diversamente se ti decidi di venire potrai trovare i soldi di venire
fino a New York ed io ti manderei la rimanenza da venire fin qui
per telegramma. Sicche ai inteso deciditi e rispondimi immediatamente se ai intenzione di veni/re/ adesso o aspettare questa primavera
o anche se ti sei deciso di non venire addirittura.
57
Intanto per questa tralassio inviando ti i miei piu caldi baci e saluti
insieme a mamma fratelli sorelle cognati e cognate e nipotini e tutti
tuo per sempre amato fratello
Luigi ciao
STATO DEL WYOMING - CONTEA DI LlNCOLN
Louis Costi, avendo prima debitamente giurato secondo la legge,
sotto il vincolo del giuramento dichiara e dice; che egli è residente
in Diamondville, Contea di Lincoln, fVyomimg, dove ha risieduto
negli ultimi tredici anni; che ha 34 anni ed è scapolo, che è naturalizzato cittadino degli Stati Uniti; che è proprietario di beni
immobili in Diamondville, Contea di Lincoln, Wioming, del valore
di 600 dollari, e che ha denaro depositato alla First National Bank
di Kemmerer, Kemmerer, fVyoming, per la somma di 800 dollari;
che è minatore presso la Diamon Cole and Coke Company, in
Diamondville, fVyom., e che i suoi guadagni mensili si aggirano sui
300 dollari.
Il dichiarante attesta inoltre che suo fratello, Eliseo Costi, in età
di 36 anni, ed attualmente residente a Costabona di Villa Minozzo,
provincia di Reggio Emilia, Italia, desidera venire negli Stati Uniti
d'America; che il detto immigrante è un operaio, forte sano e in
buona salute che è buon lavoratore e capace di guadagnarsi da
vivere.
Che il dichiarante è finanziariamente in grado di prendersi carico
del detto fratello al suo arrivo negli Stati Uniti, che ha fondi sufficienti per accollarsi tutte le sue spese fino a Diamondville, Contea
di Lincoln, fVyoming, e che detto immigrante non sarà a carico di
nessuno Stato, Contea, Città o Municipalità negli Stati Uniti, e il
dichiarante prega che al detto immigrante possa essere permesso
di entrare negli Stati Uniti.
F.to Louis Costi
Sottoscritto in mia presenza e giurato davanti
a me in Kemmerer, fVyoming,questo 16 Settembre 1921
F. to l.A. Christmas
Notaio Pubblico
(Timbro a secco del notaio su sigillo color oro)
58
(Segue dichiarazione del datore di lavoro del Costi)
STATO DEL WYOMING - CONTEA DI lINCOLN
T. C. Russel, di Diamondville, Contea di Lincoln, lt}>oming, avendo
prima debitamente giurato ... ecc .. , dichiara e dice; che egli è il
Sovrintendente della Compagnia mineraria Diamomd Coal and Coke
nella Contea di Lincoln, lt}>oming; che egli conosce bene il Louis
Costi, firmatario del precedente affidavit; che detto Louis Costi è
minatore carbonifero, dipendente della citata Diamond Coal and
Coke Company, e che i suoi redditi mensili si aggirano sui 300
dollari.
Che egli ha letto il precedente affidavit del detto Louis Costi, e
che i fatti in esso attestati sono veri come egli veritieramente crede.
F.to T. C. Russell
Sottoscritto in mia presenza e giurato
davanti a me questo 16 Settembre 1921
F.to 1. A. Christmas
Pubblico Notaio
I due documenti di cui sopra sono legati assieme per il bordo
superiore con due borchiette in ottone ed hanno una sottocopertina
in cartoncino grigio azzurro.
59
Gli lemmi di Drancy.
a cura di Antonio Canovi
Biagio, meccanico e reggiano: nasce in Brasile, viene perseguitato dal fascismo, conclude
la sua vita come cittadino francese.
Mio padre si chiamava Biagio lemmi, è venuto in Francia nel '22.
Pochi mesi dopo la mamma è venuta anche lei. Mia mamma si
chiamava Teresa Salvarani, figlia di Antonio e di Beatrice Ferretti
che era di Mancasale. E mia mamma è nata a Mancasale, sotto la
chiesa.
Mio padre era di Luzzara. Ma lui è nato in Brasile, eh! La nonna
e il nonno avevano figli ed erano braccianti,joumalier. Non avevano
terra, non avevano modo di vivere bene, dunque - forse nel '96 hanno firmato un contratto per andare in Brasile; hanno viaggiato
2 mesi sulla nave, sotto eh!, perché la gente viaggiava come delle
bestie, in un modo tremendo, sotto 1'acqua, se no si andava sul ponte
ma senza cabine. Poi arrivati là c'erano le grandi tenute, che sono
in aperta cam~agna, e per 50 e più chilometri non c' è nulla attorno,
né una città, né un vicino. Niente. Erano grandissime, con delle
casette per gli operai, e il padrone era lui che aveva tutto, gli
alimentari e così. Dunque lui pagava, dava il salario, poi vendeva
tutto, faceva pagare 1'alloggio, quello che dava lo riprendeva, e tutte
queste cose; aveva 1'esclusività della vendita, non si potevano allevare né le galline né i conigli, era proibito, perché se no il padrone
non vendeva più. Invece mia nonna era una donna molto forte, di
carattere, lei faceva a suo modo: era riuscita a vendere galline e
conigli, in due o tre anni - forse anche qualche anno in più - aveva
messo da parte un po' di soldi. Non stavano bene, non riuscivano
neanche a mettere un soldo da parte; poi il padrone era cattivo, dava
dei colpi, prendeva le donne - anche quello là - mio padre mi diceva
SIMONE CHÉNEAU
Ho incontrato Simone - segretaria della
Fratellanza Reggiana di Parigi, figlia di Biagio, sposata a Serge Chénau, un simpaticissimo francese del Nord - nella propria
abitazione, dove già avevano messo dimora
i genitori. Mi ha raccontato della propria
storia (nel corso di una intervista registrata
il 9 dicembre del '94); altre note autobiografiche mi hanno raggiunto una volta rientrato in Italia, insieme ad un cospicuo repertorio iconografico (fotografie che mi
erano state inanellate ad una ad una, verosimili stazioni di un itinerario - sacralizzato
- della memoria familiare). Il racconto che
segue è frutto del montaggio di materiali
orali e scritti.
MÉCANIQUE
DE
PRÉCISION
OUTlllAGE
B.
lEMMI
MAITRE - ARTISAN
47,
RUE
DRANCY
BRANLY
(Se;ne)
Tèl., AVlanon 0725
61
che la nonna andava in campagna con il coltello, non si lasciava
avvicinare dal padrone, ma lei era una donna con un carattere molto
forte se no avrebbe dovuto fare come le altre ... Dunque coi soldi
messi da parte hanno pagato il viaggio di ritorno sulla nave: mio
padre è nato nel 1899 e loro sono fuggiti nel 1901, hanno rotto il
contratto. Sono partiti a cavallo, perché c'erano già dei negri che
erano già sfuggiti e si erano organizzati, erano più o meno banditi,
dunque erano loro che riuscivano a portare via la gente.
Sono ritornati a Luzzara, hanno continuato la vita da bracciante;
avevano una casa piccolina, in un posto che si chiamava "Allivèll"
- proprio lungo l'argine, e dall'altra parte c'è la zona inondata ... -,
tra Luzzara e Guastalla. Poi dopo mio nonno ha avuto un incidente,
gli è caduto un chicco di grandine in testa, gli ha fatto il tumore
e lui è morto, e la nonna è rimasta coi figli, 6 figli, senza marito.
Lei andava sempre come bracciante, poi andava a casa dei contadini
a tessere, a fare i corredi, poi ha fatto i bachi da seta, in casa sua,
ma non andava bene, morivano o per il caldo o per il freddo, ci
voleva una temperatura adatta. Dopo mio papà andava a scuola, e
di sera a casa faceva la treccia, che a Luzzara si facevano i "cappelli
di piòpa"; c'era un fratello della mamma che aveva l'officinetta che
prendeva la legna e faceva le strisce per fare poi la treccia, la facevano
tutte le donne, ma anche mio padre per pagarsi gli studi. Poi si è
messo a lavorare da un fabbro - un certo Gallina - in campagna,
e lui gli ha insegnato a lavorare il ferro.
E' tornato dalla guerra nel '18; ha fatto la guerra nel Trentina
- è partito a 17 anni, era del '99, ha fatto il '16, '17, '18, tre anni -,
dunque è tornato a 19 anni e fino ai 23 ha lavorato alle 'Reggiane'.
Mentre lavorava ha continuato a studiare di sera, alla scuola "Gaetano
Chierici", disegno meccanico. Si è diplomato: era già uno specializzato ... Potendo lui lavorare, si sono stabiliti a Reggio, a Borgo
Emilio; quando ha incontrato la mamma, andava in via Faiti, dove
avevano la casa, a S. Croce.
Faceva il caposquadra, stavano bene, ma poi con il fascismo ... Da
quello che ho capito, che mi ha detto, lui non poteva più stare a
Reggio Emilia: quando riusciva ad avere certe informazioni, su
qualcuno che doveva essere preso dalle camice nere, siccome aveva
la moto lo andava a dire ai genitori, per farlo scappare. La cosa
si è saputa, e lui mi ha detto che è dovuto
62
fuggir~
per quello là ...
Lui quando è arrivato si è fermato a Clichy, perché in questo punto
c'erano molti italiani, e aveva molti compagni in questa città. Ha
vissuto all'albergo un po' di tempo, aveva del lavoro - nel '22 c'era
il lavoro - e ha sempre lavorato come meccanico. A Clichy lavorava
in officina, poi si è ammalato, e là c'è stata una donna in quell'albergo
che l 'ha aiutato, ha pagato il dottore e le medicine, perché allora
non c'era l'assicurazione; e quando si è rimesso, che ha ripreso a
lavorare, ha chiamato mia mamma. Poi, quando ha potuto stabilirsi,
anche la sua: lei aveva perso il marito, un figlio le era morto in
guerra, un' altra figlia è morta giovane, forse altri figli ancora erano
morti più piccoli, e allora è arrivata anche lei in Francia, ma non
so bene in che anni.
E' stato un po' a Clichy, poi subito a Drancy, nel '27. Qui c'era
una colonia di reggiani, e sapeva che poteva stabilirsi: la maggior
parte erano ex-operai delle 'Reggiane' - contadini da Reggio non
ne venivano ... - e qui a Drancy venivano ad abitare, perché il terreno
costava poco. Aveva acquistato un terreno, in questa banlieue nord,
e qui mettono casa, una barraque di legno, dipinta in nero (perché
trattate, per protezione, con lo stesso legno usato per le traverse della
ferrovia). Erano la generalità, in quel tempo, nella banlieue: il loro
aspetto coniugato a quello delle strade infangate componeva un
ambiente non tanto gradevole; erano case smontabili, dunque si
compravano a pezzi, si trasportavano su un carrello e poi si rimontavano sul terreno, con l'aiuto dei vicini. A Drancy c'era il quartiere
degli italiani, chiamato senz'ironia L'Avenir Parisien (ma c'era anche
qualche spagnolo e dei polacchi). Questo quartiere, come tutti quelli
dell' emigrazione, era un po' scentrato, sembrava si trovasse all'estremità del mondo. I terreni erano piccoli, le case affollate (i famosi
quartieri pavillonaires).
Lavoravano a Gennevilliers, a Clichy, a Levallois-Perret... Le
officine meccaniche erano quasi tutte lungo la Senna, perché il
trasporto di carbone e ferro avveniva per fiume. Dal '22 al '36 ha
lavorato in varie officine; mentre lavorava, andava di sera a corsi
di francese, poi alla scuola degli Arts et Metiers, dove gli studi erano
aperti a tutti e che permette ancora oggi agli operai di diventare
ingegneri. Studiava meccanica, disegno, trattamenti termici dei
metalli, senza poter sperare di ottenere il diploma, in ragione che
lui non era ancora francese. Verso il '30 ha cominciato ad essere
63
dura, è venuta la crisi, gli stranieri erano mal visti. Una volta, alla
fabbrica di orologi Jaegger, ha avuto anche dei problemi, avendo
rifiutato di lavorare il primo di maggio. Ha deciso di mettersi per
conto proprio, in società con due amici, Fernando Mussini e Francesco Miari (che è diventato, anni dopo, direttore del centro addestramento Alberto Simonini, a Reggio Emilia).
Ormai aveva capito che la sua vita era qua in Francia, ha scelto di
diventare francese. Dunque ha fatto la guerra -l'ha fatta subito all'inizio,
aveva già 40 anni - a Chàlon-sur-Mame, una città dell' est della Francia.
Poi ha fatto una peritonite, l'han mandato a casa, ha avuto un permesso;
mia madre aveva 45 anni, mai pensavano di fare un bimbo.
Hanno fatto un bimbo, che sono stata io. Durante Natale, durante
il permesso, mi hanno fatto. E poi lui è tornato a casa, mia mamma
mi aspettava, era gravida di 7 mesi, han cominciato a bombardare
questa ferrovia, dunque si stava male, si stava molto male, lei ha voluto
andare via, c'era quello che si chiamava l' hexode, la gente partiva,
andava a sud, là dove i tedeschi non c'erano. La gente andava via
con le cose, abbandonava le case, tutto; mio fratello era già in campagna, in Auvergne - alla Creuse, appena prima del Massif CentraI
- mandavano i ragazzi in campagna un po' per salute e anche per
aiutare i contadini, visto che mancavano gli uomini in campagna.
Allora mia madre ha detto "andiamo là": dunque son partiti con la
macchina, mio padre aveva una macchina, una Renault, perché lui
è sempre stato in avanti, sempre. Una grossa macchina... Uno dei primi.
Dunque, io sono nata là. Nella Creuse, in questa famiglia che ci
ha ospitati. Poi la mamma, vedendo che io ero molto piccola, facevo
un chilo e mezzo a tre settimane, nata a sette mesi e mezzo ... Non
c'erano le cure, non c'era neanche il dottore, lei piangeva - "questa
bimba va a morire, portiamola a Drancy". Son partiti alla fine di
agosto, con questa bimba piccolina piccolina che aveva sempre
freddo ... Mio papà mi ha spiegato che si fermava lungo la strada,
prendeva l'acqua del radiatore, calda, la metteva nelle bottiglie, per
scaldarmi ... Era il 15 settembre, quindi faceva già un po' fresco,
dunque ha dovuto fare tutto questo lavoro per arrivare a Drancy.
Qui c' è un episodio. Appena passato Chauteau-Roux sono arrivati
ad un ponte che doveva saltare, l'avevano minato. E dunque i tedeschi
dicevano "non si passa più"; e lui ha lasciato vedere questa bimba
piccolina e l'han lasciato passare, e un'ora dopo il ponte saltava.
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/
Dunque siamo stati gli ultimi a passare questo ponte.
Siamo arrivati a Drancy, e poi tutti questi anni di guerra. Mio
fratello aveva 16 anni, 17, doveva partire con il lavoro obbligatorio:
i tedeschi prendevano i giovani per andare in Germania a lavorare
la terra, ad aiutare le donne perché gli uomini erano là in Francia.
Il suo padrone lavorava il mestiere di meccanico, come mio papà,
in una officinetta di Parigi, e gli ha falsificato le carte; ha fatto un
falso, cambiato la data di nascita, per farlo più giovane, se no lui
doveva andare in Germania. Lui era francese... Nessuno voleva
andare in Germania, tutti quelli che sono andati, sono andati così...
Quando la guerra è finita, nel '44, io avevo 4 anni, non mi ricordo
della guerra, solo che quando cadevano le bombe si andava sotto
l'officina, perché c'era il tetto in cemento. Quando c'era l'allerta,
suonavano le sirene, si scappava, mia mamma mi prendeva dal letto
e io piangevo, volevo dormire, la casa era di legno e là era un po'
più sicuro, era in muratura. Poco dopo il mio quarto compleanno
- io sono nat!l il 22 agosto, era il 26 agosto - è passato Lederc,
nella via Anatole France, quella che scende dalla stazione: noi tutti
abbiamo corso, la mamma mi ha preso così, a vedere Lederc che
passava sul suo carro. Solo che... Eh!, non era lui, era un altro
comandante ... L'ho saputo dopo; ma per tutti era Lederc, e la gente
gridava "sono gli americani, sono gli americani", e tornavano dal
campovolo (le Bourget) perché l'avevano liberato. Nel '45, per mesi,
abbiamo ospitato un amico italiano, mandato dalla Fratellanza
Reggiana, un deportato politico di ritorno da un campo di concentramento tedesco. Mia madre si strappava i capelli, perché quello
non sapeva più mangiare, tanto il suo stomaco era diventato stretto
dalla fame sofferta.
Poi dopo nel '46 son ritornata in Italia, sono andata in Italia per
la prima volta con il papà, che lui era la prima volta dal '22 che
ritornava a Reggio. Ogni volta che son tornata in Italia, per tutti
i cugini, io ero la "francesina". Con la parentela rimasta in Italia
ci si scriveva poco. Però, ogni anno, ci si contraccambiava gli auguri
di buon natale e buon anno. A 12 anni, questo compito è toccato
a me: prendevo l'agenda del papà e scrivevo a tutti, a me conosciuti
o sconosciuti. Per anni, ho mandato cartoline con paesaggi coperti
di neve all'indirizzo di Milano di un certo Bruno Fortichiari cugino
di mio padre. Ho saputo soltanto 40 anni dopo che (questo Forti65
chiari) è certamente lo stesso uomo presente nel primo gruppo
fondatore del partito comunista italiano! Scrivevo pure ad una signora
di Milano, di nome Pierina Patander, la quale ho incontrata nel '56;
ho saputo allora come fosse una nota partigiana.
Mio padre, in Francia, non faceva politica, ma le sue sensibilità
non erano cambiate.
I Reggiani erano veramente una colonia, e si ritrovavano con la
Fratellanza Reggiana. Nel dopoguerra eravamo in pochi ad avere
la macchina. Spesso, alla domenica, mio padre ci portava a casa dai
compagni. Prendeva una bottiglia di vino buono sotto il braccio, e
faceva imbarcare la famiglia sulla macchina. Partivamo io, il papà,
mio fratello Louis con la moglie; la mamma, che non apprezzava
queste riunioni, rimaneva in casa per fare compagnia alla nonna di
85 anni. Si andava dai Parmigiani di Pierrefitte - Giuseppe, che aveva
una bottega di vendita e riparazione biciclette, era il compagno di
sempre, quasi un fratello per mio padre - od anche lontano, attraversando tutta Parigi, dai Tedeschi a Saint-Gratien o dai Bertolini
a Saint Michel sur Orge. Si passava il pomeriggio a parlare della
vita in Francia, di Reggio, degli altri amici, della prima guerra
mondiale che - si vedeva - aveva ferito per sempre non soltanto i
corpi ma anche le anime di questi uomini.
Per mio fratello e per me, nati in Francia, la nostra condizione di
figli di emigrati non è mai stata un problema. I miei genitori si erano
stabiliti in un quartiere che si potrebbe definire "normale". Meno
rinchiusi che gli altri sulla propria cultura, si sono facilmente integrati
ai Francesi. Anzi, la posizione di artigiano di mio padre - perché appena
ha potuto ha aperto la sua officinetta, dove compiva lavori specializzati
per 1'aereonautica, ed era riconosciuto come "maestro" dalla Camera
dei Mestieri di Parigi, per cui teneva degli insegnamenti per i ragazzi
apprendisti - ne faceva un uomo molto considerato.
Ci hanno dato dei nomi francesi; la scuola francese ci ha integrati
bene; in casa mio padre parlava sempre francese, con me e anche
con la mamma. Solo la nonna, lei parlava il dialetto manto vano,
piuttosto che reggiano, ma loro due parlavano il francese. Una scelta
voluta di integrazione. Ma l'aspetto biculturale della nostra personalità (l'essere Rital, come ha scritto Cavanna) è stato, per il fratello
e per me, una sorgente di ricchezza: essendo stati nutriti, sin da
piccoli, col formaggio grana e con il camembert, la polenta e le patate
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fritte, i cappelletti e la bistecca di cavallo, il gnocco fritto e la gaiette
des rois, il lambrusco e il bordeaux...
Ed ora io, già nonna, più francese che italiana, ho ricevuto in
eredità, fra tante altre cose, l'immagine indelebile di una Reggio
"ideale": inventata, certo, ma nata dai racconti dei miei genitori,
arricchita con i miei propri ricordi e trattenuta dai contatti con i
numerosi cugini rimasti al paese. Immagine di quella Gerusalemme
"celeste" che portano in sé, fino alla morte, tutti gli ebrei - erranti
o no - separati dalle loro radici. Tutto ciò non veicola nessuna
nostalgia, nessun falso sogno di ritorno al paese; ha soltanto il fascino
di un certo esotismo e nello stesso tempo il volto rassicurante del
luogo dove rimane la vecchia casa del nonno, la culla, la sorgente
della mia vita. E mia figlia, ventenne, già mamma, ancor più francese,
avendo bisogno - come ciascuno - di riferimenti circa le sue origini,
si è creata anche lei, lo so, la sua Reggio ideale. E forse suo figlio,
un giorno...
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Seguendo la pista tracciata nell'apertura di questa rubrica (RS 76),
l'orizzonte di questo numero è il Ghana.
a cura di
C. MARIO LANZAFAME
A differenza delle due puntate precedenti, dove abbiamo affiancato
alla scheda di Calchi Novati una traduzione in arabo( RS 76) e una
in amarico (RS 77), questa volta troverete una versione inglese,
curata da un giovane migrante ghanese, dal momento che diventava
complesso tradurre il testo dall' italiano nella lingua del gruppo
dominante akan.
Nella seconda parte di Crocevia, ospitiamo l'intervento del dott.
Zeleke Eresso, dottorando presso l'Università di Bologna, che ha
inviato alcune pagine sull' Etiopia, dopo aver letto "Il Como d'Africa: un profilo", apparso nel numero precedente.
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IL GHANA E IL SUO RUOLO
IN AFRICA
Dopo essere stato all'avanguardia in Africa all'epoca della decolonizzazione, come portavoce del socialismo africano e del panafricanismo, il Ghana è diventato negli anni ' 80 la "vetrina" dei
programmi di aggiustamento strutturale per l'Africa. La riconversione - rispetto al Ghana disarticolato e in piena bancarotta degli
anni '70, che aveva liquidato l'esperienza socialista senza risolvere
i suoi mali - è stata profonda. Il paradosso consiste nel fatto che
a interlocutore della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, paladini e garanti delliberalismo economico e del mercato,
si sia prestato J.J. Rawlings, apparso sulla scena della politica del
Ghana una prima volta nel 1979 e poi definitivamente nel 1981,
giovanissimo sottotenente dell' aviazione, spietato, integerrimo, radicale, come una specie di spada della giustizia e della rivoluzione.
Il Ghana ha un posto a sé nella storia dell'indipendenza dell' Africa
perché fu il primo possedimento coloniale a pervenire all'indipendenza inaugurando l'era della decolonizzazione. La Costa d'Oro
(Gold Coast), perla del sistema coloniale britannico dell' Africa
occidentale, era uno Stato nuovissimo, in cui erano state raggruppate
entità statali precoloniali di· diversa origine e consistenza, fra cui
spiccava l' Asante (Ashanti), nell'interno, che aveva raggiunto un
notevole grado di unificazione supertribale influenzando con i suoi
valori e il sistema di governo facente capo al seggio d'oro di Kumasi
i potentati adiacenti. La penetrazione britannica, come di consueto
per le operazioni coloniali, partì dalla costa e sono ormai tutti situati
nella regione meridionale i centri politici, economici e culturali più
GIAN PAOLO CALCHI
NOVATI
Docente di Storia dell'Africa all'Università
di Urbino, facoltà di Scienze Politiche.
Autore di numerosi saggi, tra i quali segnaliamo:
Dalla parte dei Leoni,
il Saggiato re, 1994 e
Il Corno d'Africa nella Storia
e nella politica, Sei, 1994.
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vivaci, a cominciare dalla capitale, Accra, dai porti più importanti,
Tema e Takoradi, e dagli atenei più illustri. La popolazione (circa
16 milioni) è concentrata, oltre che nelle città, nelle regioni meridionali e nell'angolo nord orientale del paese, le zone più fertili e
più coltivate. In termini linguistici, la popolazione è divisa fra Akan
(il gruppo più numeroso), Mole-Dagbani, Ewe, Ga, ecc., ma nel
complesso il Ghana non ha sofferto per fenomeni tribalistici in senso
negativo, perché le singole culture, pure praticate in quanto tali, si
fondono in una coscienza nazionale unica, anche se nel Sud è più
forte l'influenza del cristianesimo e dell' occidentalizzazione.
Stato nuovo con un cuore vecchio, che Kwame Nkrumah, capo
del governo indipendente nel 1957 e presidente della Repubblica nel
1960, con un'intuizione all'altezza del suo stile fantasioso, volle
ribattezzare Ghana, dal nome del primo impero dell' Africa sudanese
di cui parlano le cronache. Un audace tentativo di collegare il
presente con il passato, che è il tempo più difficile per coniugare
gli avvenimenti e i programmi dell' Africa indipendente. L'antico
Ghana evocato da Nkrumah era solo una categoria della mente: fra
i due Stati non vi erano coincidenze territoriali o etniche, né tanto
meno tratti di continuità storica o culturale. L'importante per i
nazionalisti di allora era dotarsi di radici autenticamente africane a
cui ancorare la storia che incominciava o ricominciava. La memoria
collettiva dà un senso alla storia di ciascuno; niente come la storia
può aiutare a risvegliare la coscienza politica di un popolo. Nonostante gli strappi e le trasformazioni, l'ordinamento tradizionale
continua ad essere il perno attorno a cui si muove tutta la società.
Per Nkrumah era un vanto essere passato senza soluzione di
continuità dal carcere, dove era stato rinchiuso dalle autorità britanniche per "sovversione", al palazzo del governo dopo le prime
elezioni nella colonia. Era tornato in Costa d'Oro dall'America e
dall'Inghilterra e aveva fondato un nuovo partito in competizione
con il partito dei notabili. La sua base sociale era rappresentata dalle
forze sociali che puntavano al rinnovamento ed al progresso: il suo
socialismo prescindeva del resto dalla lotta di classe e si rifaceva
piuttosto all' organizzazione consuetudinaria dell' Africa, comunitaria
e egualitaria, anche se nel suo bagaglio ideologico era presente Marx,
insieme a Mazzini, Gandhi e Lenin, rispettivamente per l'idea di
nazione, la scelta della non-violenza e i metodi di mobilitazione
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politica attraverso il partito. Fu solo dopo la fine del suo regime,
scaduto nell'autoritarismo, nell'inefficienza e nel più sfrenato culto
della personalità, che Nkrumah, detto OSAGYEFO (messia, redentore), reinterpretò anche le dinamiche del Ghana e delle altre società
africane neoindipendenti con le coordinate del socialismo scientifico,
individuando nel "neocolonialismo" l'approdo di una indipendenza
nominale all'insegna della conservazione sociale.
C'era una duplice carenza in effetti nel pensiero e nell'azione di
Nkrumah e in genere della prima generazione di nazionalisti africani.
Da una parte, malgrado il vasto consenso che oggettivamente aveva
suscitato il movimento verso l'indipendenza, non c'era un attore
sociale a cui affidare il compito di portare a termine l'eventuale
rivoluzione. Il ceto dirigente aveva soddisfatto le sue esigenze con
la conquista dell'indipendenza e le masse furono ben presto relegate
a un ruolo subalterno dalla mancanza di democrazia. D'altra parte,
il nazionalismo africano non aveva un programma attendibile per
la "transizione". Nkrumah, parafrasando il Vangelo, sintetizzava così
il suo messaggio, un misto di idealismo e realismo: "Cercate prima
il regno politico e tutto il resto vi sarà dato in più". Senonché il
regno politico -l'indipendenza, il potere - non poteva da solo colmare
i tremendi ritardi del Ghana, il sottosviluppo, il divario fra le élites
istruite e il resto della popolazione, gli abusi a danno dei diritti delle
persone e dei gruppi, l'isolamento dell' Africa. Il nazionalismo, per
di più, non del tutto sicuro dell'unità della nazione appena costituita,
era portato a osteggiare o ignorare tutte le diversità che pure esistevano nel Ghana, come altrove, per cultura, storia e interessi sociali,
e quell'unanimità fittizia - che si rifletteva nel partito unico, nel leader
assoluto e carismatico - sarà un' altra causa del degrado culminato
nel fallimento del 1966.
Tutto lascia credere che Nkrumah fosse cosciente che la vera
indipendenza passava per il riscatto dalla dipendenza economica nei
confronti dell' ex-madrepatria e intanto per una diversificazione
produttiva, superando la monocoltura che il Ghana aveva ereditato
come specializzazione dal colonialismo. A questo obiettivo mirava
anche la politica panafricana. Grande produttore di cacao, il Ghana
doveva al cacao la maggior parte delle sue ricchezze e delle sue entrate
finanziarie e la sua stessa esistenza, ma era alla mercé dei prezzi altalenati con tendenza al ribasso - sul mercato internazionale.
73
Nel 1957 il Ghana si trovò nell'ingrata condizione di un paese
che deve "inventare" una politica. L'Africa era interamente soggetta
al controllo occidentale, a parte il numero maggiore o minore delle
sovranità nominali, e il Ghana era obiettivamente solo. Il Ghana si
inserì subito nel filone dell' anti-imperialismo, proiettando nell'indipendenza la politica che aveva perseguito nella lotta di liberazione.
La guerra fredda non aveva ancora raggiunto quell'equilibrio che
doveva consentire alle giovani nazioni di coltivare, con il neutralismo, una sorta di equidistanza: Mosca aveva simpatie per il neo
indipendente Ghana, ma l'apparizione dell' Urss quale competitore
degli Stati Uniti in un settore che era rimasto fino allora un monopolio
occidentale - quello degli aiuti economici e tecnici e tanto più militari
ai paesi in via di sviluppo - aveva aperto una fase più delicata del
conflitto di potenza fra il "mondo libero" e il "comunismo internazionale" .
Tutte queste circostanze rendevano quanto mai problematica una
scelta piena di indipendenza per il primo Stato indipendente dell'Africa occidentale. Nkrumah era sempre stato convinto perciò che
il "socialismo in un solo paese" era un'ipotesi inverosimile per il
Ghana e per l'Africa e proponeva il panafricanismo come un obiettivo
che era nello stesso tempo ideale e concretissimo.
Il regime di Nkrumah fu abbattuto da un colpo di stato nel 1966.
Fin dalle prime dichiarazioni risultava senza possibilità di equivoco
che il Comitato nazionale di liberazione diretto dai militari che prese
il potere rappresentava un'alternativa netta alla politica di Nkrumah
ed era intenzionato a sostituire la "rivoluzione" con la più scoperta
"restaurazione". Fu un momento grave per tutta l'Africa, che allora
viveva ancora nel clima di effervescenza e di speranza della ritrovata
indipendenza. Ed infatti alla sensazione di sollievo con cui il Ghana
reagì al colpo di stato corrispose in altri paesi africani, che di
Nkrumah avevano conosciuto solo il richiamo ideologico, un'ondata
di proteste e di dimostrazioni, quasi che i giovani, gli studenti, i
gruppi più politicizzati non si rassegnassero alla scomparsa del
profeta della libertà e dell'unità dell' Africa. Ed è non meno sintomatica la decisione - ancorché in larga parte platonica e praticamente
irrilevante - di Sékou Touré di "associare" Kwame Nkrumah alla
presidenza della Repubblica della Guinea.
A conclusione di una lunga instabilità politica, che ha un riscontro
74
nella numerazione delle repubbliche che si sono succedute dal 1960
(nel 1993 è stata proclamata ufficialmente la quarta), e di un'alternanza logorante e distruttiva fra governi civili e militari, il Ghana
si è dato un corso più regolare con il regime di Rawlings. Il suo
esordio sembrò collocare Rawlings nel solco del socialismo e dell'
antimperialismo. I primi sostegni gli erano venuti dalle Università
e dai sindacati. La creazione di comitati popolari di difesa come unità
di base di una partecipazione dal basso fece pensare all' esempio di
Cuba. Ma a contatto con la realtà Rawlings fu costretto a rinunciare
all'idea della rivoluzione accettando le condizioni degli organismi
finanziari internazionali in cambio di un sostanzioso "pacchetto" di
aiuti su più anni per il risanamento economico.
Il programma di raddrizzamento redatto dalla Banca mondiale ha
dato risultati positivi, almeno nel breve periodo, pure senza rimuovere tutte le contraddizioni. La sensibilità di Rawlings, che non
dimentica i suoi trascorsi politici e che si circonda di esperti e
intellettuali di valore, ha risparmiato alla popolazione costi sociali
troppo elevati. Esce confermata la tesi secondo cui, benché tutti i
regimi che si sono succeduti da Accra abbiano adottato il linguaggio
della rottura, in Ghana non c'è mai stata una riforma sostanziale
delle strutture portanti della società. Solo il futuro può dire però se
il Ghana è uscito veramente dalla crisi e può proporsi di nuovo come
una nazione guida per l'Africa.
DA NKRUMAH A RAWLlNGS
1957 - La Costa d'Oro, possedimento inglese dalla fine dell'Ottocento, diventa indipendente con il nome di Ghana (6 marzo). E'
il primo territorio dell' Africa nera a conquistare l'indipendenza dopo
il colonialismo.
1958 - Il Ghana persegue la sua vocazione panafricana organizzando ad Accra una conferenza degli Stati africani indipendenti
(aprile) e una conferenza con i rappresentanti dei partiti e movimenti
in lotta per l'indipendenza dell'Africa (dicembre).
1960 - Il Ghana proclama la repubblica. Kwame Nkrumah assume
la carica di capo dello Stato e dà inizio a un regime autoritario e
personalistico.
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1961 - Scioperi e manifestazioni operaie rivelano l'esistenza di
un profondo malessere sociale. Il governo denuncia i dirigenti sindacali come strumenti della "reazione", ma corre ai ripari intensificando le riforme e promuovendo il socialismo a dottrina ufficiale
del paese.
1964 - Varo del piano settennale "Lavoro e felicità", sintesi della
politica di sviluppo ispirata al socialismo.
1966 - Colpo di stato militare: il governo di Nkrumah, che si trova
all'estero in visita di Stato, viene rovesciato da una giunta capeggiata
dal Gen. Ankrah (24 febbraio). Il presidente deposto viene accolto
dalla Guinea; morirà nel 1972 in esilio, a Bucarest, dopo una lunga
malattia.
1969 - Elezioni e restaurazione di un governo costituzionale: si
impone Kofi Busia, uno dei padri dell'indipendenza e rivale storico
di Nkrumah, che procede a smantellare le realizzazioni del periodo
"socialista" .
1972 - I militari ritornano al potere con un altro colpo di stato
accusando Busia di inefficienza. Il potere viene assunto dal col. I.
K. Acheampong, sostituito nel 1978 dal Gen .. F. W. K. Akuffo.
1979 - Seconda restaurazione di istituzioni civili attraverso libere
elezioni. Il presidente eletto, Billa Limann, si richiama, sia pure in
un contesto di moderatismo e conservazione, al ricordo di Nkrumah.
Il processo elettorale è parzialmente interrotto dall'azione di un
gruppo di giovani ufficiali capeggiato dal sottotenente Jerry Rawlings, che compie una sommaria epurazione dei vertici facendo condannare a morte per corruzione esponenti dei precedenti regimi
militari, fra cui Acheampong e Akuffo. Per il resto Rawlings lascia
che le elezioni compiano il loro corso.
1981 - Nuovo e definitivo intervento di Rawlings, che si insedia
al potere abolendo la Costituzione e avviando una profonda ristrutturazione dello Stato. Col tempo, il Ghana accetta l'assistenza della
Banca mondiale: l'estremismo "rivoluzionario" di Rawlings si stempera in un ambizioso programma di aggiustamento economico di
stampo liberale.
1992 - Elezioni, contestate dall'opposizione, sanciscono la supremazia di Rawlings, che, smesse le stellette e fatta approvare una
nuova Costituzione, è ormai a tutti gli effetti il presidente della
Repubblica.
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1993 - Il 7 gennaio viene inaugurata ufficialmente la Quarta
Repubblica.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Per cominciare due testi fondamentali per conoscere il Ghana: I. WILKS, Asante in the
Nineteenth Century, Londra, 1975, sul passato precoloniale e D. E. APTER, Ghana in
Transition, Princeton, 1972, sulla transizione dal colonialismo all'indipendenza.
Il pensiero di Kwame Nkrumah e la sua azione politica nella sua autobiografia (Ghana.
The Autobiography of Kwame Nkrumah, Edimburgo, 1957) e in altre sue opere (Towards
Colonial Freedom, Edimburgo, 1957; Consciencism, Londra, 1961; Neocolonialism: The Last
Stage of Imperialism, New York, 1965).
Sul periodo socialista legato a Nkrumah la letteratura è molto vasta; vanno ricordati almeno:
C. LEGUM, Socialism in Ghana: A Political Interpretation, in African Socialism, Stanford,
1967; C.B. BIRMINGHAM, I. NEUSTADT e E. N. OMABOE, A Study of Contemporary Ghana,
Londra, 1966; il volumetto di R. FITCH e M. OPPENHEIMER, Ghana: End of an lIIusion,
New York, 1966, che critica l'esperimento socialista "da sinistra" dopo il suo fallimento
e, altro testo sulla fine del regime socialista, S. G. IKOKU, Le Ghana de Nkrumah: autopsie
de la lère République, Parigi, 1971.
Sull'opera di Rawlings, si veda Z. YEEBO, Ghana: the Struggle far Popular Power. Rawlings:
Saviour or Demagogue, Londra, 1991.
Sul programma di aggiustamento economico: IMF, Ghana: adjustment and growth, 198391, Washington, 1991; il capitolo di M. AKUOKO-FRIMPONG, "Ghana: Capacity Building
far Policy Change", in L. A. PICARD eM. GARRITY (a cura di), Policy Reform far Sustainable
Development in Africa: The Institutionallmperative, Boulder, 1994; K. PANFORD, Structural
Adjustment, the State and Workers in Ghana, in ''Afrique et Développement/Africa Development", voI. XIX, n. 2, 1994 e J. HAYNES, Sustainable Democracy in Ghana? Problems
and Prospects, in "Third World Quarter/y", voI. 14, n. 3, 1993, più centrato sulle questioni
istituzionali.
La letteratura in italiano è piuttosto scarsa. Oltre a un testo un po' datato di T. FILESI,
/I ventennio di Nkrumah, Como, 1966, del Ghana in Italia si è occupato con impegno, a
livello storico e pubblicistico, Pierluigi VALSECCHI, del quale ricordiamo qui solo alcuni
articoli pubblicati su "Politica internazionale": /I pensiero e l'azione di Nkrumah a vent'anni
dall'indipendenza del Ghana (1977, n. 3); Continuità e instabilità nel Ghana (1980, n. 5);
/I Ghana di Rawlings e il condizionamento dell'economia (1993, n. 10).
Per concludere un testo bibliografico: R. A. MYERS, Ghana, Oxford, 1991.
THE ROLE OF GHANA IN AFRICA
After Ghana has become the leader in Africa, during the de
colonization a spokesman for African socialism and Panafricanism
much more the "SHOW CASE" of structural adjustment programme
for Africa. The reconversion respect for Ghana disarticulate and went
down infull bankcrupt in the 70's, after he has liquidated the socia]ist
experience without solving its real problems. Upon this consistent
paradox fact of Ghana, at a dialoque between the world bank and
International Monetery Fund, pateners and garantors of liberaI
77
economy and marketing, gave a helping hand to J.J Rawlings who
has once appered on the Ghanaian political scene in 1979 then later
returnedindefinately in 1981. He was a young flight lieutenant of
the Airforce. He was honest, merciless, radica l, just like a kind of
spade for justice and revolution.
Ghana has a place the history of African independence. Since it
was the first country to gain independence during the of decolonization Ghana was then called Gold Coast , a pearl of the British
colonial system in west Africa. It was a new state joined together
of many states of dijferent firm origins. Among them the Asante
(Ashanti) who were very much united in the internal part of the
country. Having their own system of goverment. With the poweifull
golden stool at Kumasi showing a form of supermacy. The British
penetration as a result of colonial operation, conquered part of the
coastal areas, as a matter of fact the southern region became a
political center with active economy and culture, which started from
the capital, Accra, with important sea ports at Tema, and Takoradi
and other famous accadamies. It has a population of about 19
million. Concentrated not only in the cities but also on the southern
part and the north eastern parte where the land is most fertile and
cultivated). Language wise the population is divided into Akan ( most
populated group) Mole- dagbani, Ewe, Ga etc, etc. Ghana has not
sufferedfrom the complex tribalistic phenomena in its negative sense.
Because a single culture was practiced among all, which gave a
united conscience although christianity and western culture had a
strong influence in the south.
A new state with an old heart. Kwame Nkrumah head of the 1957
independent goverment and President of the 1960 republic. Had an
intuition at the height of his own style, and renames Ghana. A name
of the old sudan empire. A bold attempt to join the present with
the pasto lt was a difficult task in joining the events of that time
to the programmes of African independence. The ancient Ghana
recalled by Nkrumah was only an idea of the mind. There was nothing
in common among the two states. There was not even a coincidence
of land, history or culture. It was only important for the nationalist
of that time to have an autentic african roots, and to tie themselves
78
to the history of ancient Ghana. The collective memory gives a sense
to each one's story. Nothing like history can help awake the political
conscience of the people. Notwithstanding infractions and trasformations. The traditional ordination continues to be the pivot around
that keeps the society movin.
It was a boast for Nkrumah to proceed his course without a solution
on his continues stay in prison, he was lock up by the British
authourites for "subversion" againstthe colonial goverment after
its first eletions. He had retumed to Gold coast from the United
States and England and founded a new party in competition with
other notable ones. His socialist base was to represent the socialist
force that aims at a change and progresso His socialism was backed
by the rest of the strugglings class and rather forms a consuetudinary
organization ofAfrica, community and equality, but his ideology was
Marx, together with Mazzini, Ghandhi and Lenin repectively for
nation's idea. The choice of non-violence and the method of political
mobilization. He was left alone after his regime. Had no more power
and authourity, became inefficent and less popular. Nkrumah known
to be the OSAGYEFO (messiah, redeemer) reinterpreted as the
dynamo of Ghana and other African societies. The new independent
with coordination from scientific socialism sillgling out neo-cOlonianism, landed on a nominai independence teaching social conservation.
There was lack of double effect in the doctrine and action of
Nkrumah towards the first generation of African nationalist. In one
part, in spite of his vast objections that has raised his party towards
independence. There was not any social actor whom he could entrust
to ensure the work to an eventual revolutional· end. The working
class had satisfied his needfor fighting towards independence and
masses raged early to relegate themselves to a subordinate role in
the absence of democracy. Secondly the, African nationalist did not
have areai programme to follow towards "transition". Nkrumah
paraphrased the message, systemised the message with a mixture
of idealism and realismo "Seek ye first the political kingdom and
the rest shall be given unto you". Power could not only fill up the
tremendous lateness of Ghana. The under development, the difference
80
between illiterates and the rest of the population. The abuse of human
rights to persons and groups, the isolation of Africa. Nationalismfor many were not sure of the nation just consitituted. It was taken
hostage or ignored all the other part of the culture, history and social
interest and that of the opinions that reflects in the one party state.
In leadership he was absolute and charismatic. It was another high
degrade of failure that brought his end in 1966.
All was left to believe that Nkrumah was aware of the true independence passing a ramsom of the dependent economy towards
his mother country and for a diversification of production that over
came the monoculture Ghana had inherited, like specialization from
colonialismo Be admired also the Panafrican polities. Great producers of cocoa. Most of Ghana s richness came from cocoa, financial
income and the existence all depends on the price of cocoa - flutuations with its attendance on low price at the international market.
In 1957 Ghana in a difficult condition began to invent a form
of polities. Africa was totally controlled by the west, apart from a
major or minor number of the nominai sovereighty. Objectively,
Ghana was alone. Ghana takes the path of the anti-imperialist,
projecting on the independence, the polities that followed after he
struggle of liberation. The cold war had got to its equilibrism that
would make the young nation cultivate with " neutralism ". Moscow
had sympaty for the new independent Ghana. But the appearance
of USSR while his competitor was USA in a section which had always
remain a monopoly of the west, helping the economy, technically,
and military wise , and in the way of devolopment. This opened a
very delicate conflict between the ''free world" and international
communism.
All these things became a problem of choice for the first independent west African state. Nkrumah was conviced that "socialism"
in a single country was areai example for Ghana and Africa, so
he proposed Panafricanism like an objective which at the same time
was ideai and concrete.
Nkrumah's regime was overthrown in a coup in 1966. From the
first declearation there was no doubt that the comited national
81
liberators that took over power represents the opposite part of
Nkrumah 's political ideas. They intended to replace the revolution
with restoration. It became a serious moment for whole of Africa,
that then lives in the climate of excitement and hope of the refounded
independence. In fact at the sensation of relief at which Ghana
reacted to the coup, corrisponded in other African states, which
Nkrumah had consituted only recalled ideology. A wave of protects
and demostrations the young, students, the political groups did not
resign at the disappearance of the prophet of liberty and African
unity. There was not an accord on the decision. Even
if he
was a
good friend to Sèkou Toure, it was irrelevant to associate Kwame
Nkrumah to the presidency of the republic of Guinea.
In conclusion, after a long political instability that brought about
a number of republics from 1960 (in 1993 it was officially proclamined the 4th republic). After a wear and tear rotation and distraction between civil goverment and the military- Ghana is now on a
regular course with the Rawlings regime.His preamble seems to
connect Rawlings track of socialism and anti-imperialism. The first
support came from the universities and the trade unions. The creation
of the unit base of the peoples defence committee like that of Coba.
But with contact to reality, Rawlings was forced to abandon the
idea of revolution, accepting the conditions of the International
financing organization in exchange of substentional humanitarian
help over a long period to economie restoration.
The programme drawn to strengthen the economy by the world
bank has been positive, at least in a short time, without removing
the contradictions. The sensibility oj, Rawlings not forgetting his
political past and the intellectuals of value around him, has save
for the population a high social cost. This theory has been confermed
whereby ali regimes that has been in power at Accra, have adopted
the breakage of dialogue. In Ghana there has never been asubstantial
structural reform of the society. Only in future one can say
if only
Ghana really comes out of the crisis and proposes again as a nation
to lead Africa.
82
FROM NKRUHAH TO RAWLlNGS
1957 - Gold Coast in the hands of British from the end of the
1800 gained in,dependence and changed name to Ghana.(6 March).
It is the first black african teritory to attain independence after
colonialism
1958 - Ghana pursuid for the vocation of panafricana by organising
in Accra a conference of independent african states (ApriI) and
conference with the representatives of parties and movements fighting for the independence of Africa (December)
1960-, Ghana proclaimed a republic. Nkrumah assumes the post
of head of state>and the begining of autoritarian and personalistic
regime.
1961 - Demonstrations and strike actions showed the existence
of deep social miscontent. The government denounce the leaders of
the trade uniQns as instruments of the" reaction" and went on by
intensifying tve reform and promoting socialism as the official
doctrine ~! the country.
1964 - l:-aunched the seven year development pIan "WORK and
HAPPINESS", Political and Development inspired by socialismo
1966 - Military coup d' etat: the government of Nkrumah, who
was then on a state visit outside the country is toppled by Gen. Ankrah
on february 24. The diposed president was given stay in Guinea.
In 1972, he died in Bucarest after along illness.
1969 - Election and the installation of a constitutional government.
",~ :
83
BIBLIOGRAPHY NOTES
To starl with two foundamental test to know
Ghana:I.WILKS, Asante in the Nineteenth
Century, London, 1975, on the precolonial
time and D.E.APTER, Ghana in Transition,
Princetown, 1972, on the transition from
colonialism to independence.
The thinking of Kwame Nkrumah and his
political actions in his biography (Ghana.
The biography of Kwame Nkrumah, Edimburg, 1957).
In his other works (Towards Colonial freedom, Edimburg,1957; Consciencism, London, 1961; Neocolonialism; The last stage
of imperialism, New York,1 965)
In the socialist period associated with Nkrumah, there was a vast literature. At least
there was the memery of G.LEGUN, Socialism in Ghana: A Political Interpretation in
African Socialism, Stanford, 1967; G. B.
BIRMINGHAM,I.NEUSTADT and E. N. OMABOE, A Study of Contemporary Ghana,
London,1966; The small volume by R.FITGH
and H. OPPENHEIHER, Ghana: End of an
illusion, New York,1 966, which critisize the
experiment of the socialist "by the left" after
its failureand in other test on the end of the
socialist regime.
On the work of Rawlings, there is Z.
YEEBO, Ghana: The struggle for popular
power. Rawlings: Saviour or demagogue,
London, 1991.
On the structura adjustment economie programme: I. H. F., Ghana: Adjustments and
Growth, 1983-91; Washington, 1991. The
chapter by H.AKUOKO -FRIHPONG, "Ghana:
Capacity Building for Policy Change, 'ln L.A
PIGARD and H.GARRITY (edited) Policy
Reform for Sustainable Development in
Africa: The Institutionallmperative, Boulder,
1994; K.PANFORD, Structural Adjustment,
the State and Workers in Ghana, in ''Afrique
et Développemente/Africa Development",
voi XIX, n. 2,1994, and J. HAYNES, Sustainable Democracy in Ghana? Problems and
prospects, in "The Third World Quartell,
voi 14, n.3, 1993, concentrated more on the
institutional questiono
The literature in italian is rather scarce.
Except one adapted by T. FILESI, Il ventennio
di Nkrumah, Gomo, 1966, in Italy, there is
interest with commitment, on the level of
history and publicity, Pieluigi VALSEGGHI
whom we remembers here only for arlicles
published on "Politica internationale": Il
pensiero e l'azione di Nkrumah a vent'anni
dall' indipendenza del Ghana (1977, n. 3);
Continuità e instabilità nel Ghana (1980, n.
5); Il Ghana di Rawlings eil condizionamento dell'economia ( 1993, n. 10)
In conclusion a biographycal test: R. A.
MYERS, Ghana, Oxford,1991.
84
Won by Kofi Busia one of fathers of the struggle for independence.
1972 - The military returned to power with another coup d'etat
accusing Busia of inefficiency. Col.I.K.ACHEAMPONG became
leader who was substituted by Gen.Akuffo
1979 - Second installation of civilian rule after free election.
The president elect HILLA LIMANN is recalled as a pure
moderate and conservative, in remembrance of Nkrumah.
1981 - New and definate military intervention by JERRY
RAWLINGS who as a head of state suspended the constitution and
started a profound national reconstruction. With time Ghana accepted
the assistant of the world bank. "Extreme Revolutionally", he changed and startedan ambitious structural adjustment economic programme
1992 - Election, contested by the opposition,confirmed the supremacy of Rawlings,he worked for the approval of a new constitution,
now with alI effect he is the president of the republic
1993 - On 7 January, the official inauguration of the forth republic
Etiopia: passato da conoscere,
presente da esaminare efuturo
da realizzare.
Vorrei fare qualche riflessione e precisazione, anche se non sono
storico, in riferimento ali' articolo pubblicato su RS n. 77 riguardante
il Corno d'Africa -in modo particolare l'Etiopia.
Situata nell' Africa Nord Orientale, nella regione del Como
d'Africa, l'Etiopia confina a ovest col Sudan a nord con l'Eritrea,
a est con Gibuti e Somalia, a sud col Kenya. Con una superficie
di circa 1 000.000 kmq, pari a oltre tre volte l'Italia, il territorio
Etiopico corrisponde in gran parte alla regione dei grandi acrocori
africani formatosi un milione di anni fa ed è costituito prevalentemente da due altipiani divisi dalla frattura estafricana, nota come
Rift Valley, che nel paese viene chiamata fossa degli Oromo, che
a partire dal confine meridionale ha dato origine a numerosi laghi.
L'Etiopia è un paese tropicale ma il suo clima è condizionato assai
più dall'altezza e dalla relativa piovosità che non dalla latitudine.
L'altopiano, trovandosi a un'altezza media di 3.000 metri, non ha
mai temperature torride: secondo Alberto Tessore - uno dei conoscitori dell'Etiopia ed autore di un libro sull'Etiopia- il suo clima,
anzi, viene considerato ideale, uno dei migliori del mondo.
PREMESSA
Al di la delle scoperte che confermano l'ipotesi che l'Etiopia sia
stata una delle culle dell'umanità (nel 1974, nella zona di Radar,
sono stati ritrovati resti umani attribuibili alla prima comparsa sulla
terra della specie Romo, il cui periodo di esistenza risalirebbe a 3,5/
4 milioni di anni fa), l'Etiopia - il cui nome significa "Terre delle
CENNI STORICI
85
Facce Bruciate"- si può comunque considerare una delle più antiche
regioni del mondo per la sua storia conosciuta ed è il solo paese
dell' Africa ad avere una storia scritta che risale a oltre 2500 anni
fa. Secondo alcuni autori, la piu antica iscrizione sinora trovata è
in lingua sud-arabica ed è attribuibile ad un'epoca di poco posteriore
al V secolo a.C.; è il frammento di Yeha che dedica un altare alle
dee Astar e Naurau; mentre la più antica iscrizione di Axum è
trilingue: greca, sud- arabica e gheez (etiopica), e ha il nome del
re Ezana, che regnò nella prima metà del IV secolo a.c.
Per quanto riguarda il nucleo storico dell' Etiopia, non sono del
parere che esso, corrisponde solo alla popolazione di lingua semitica,
più sensibile all'influenza del mondo arabo, ma anche dell' esistenza
di diverse centinaia di lingue solo parlate ma non sono state scritte
e documentate.
L'Etiopia era considerata nel mondo mediterraneo dal lontano 1500
a.c., mentre i popoli provenienti dal sud dell' arabia incominciarono
a giungere in Etiopia verso l'anno 1000 a.C. e fu in quest'epoca
che la regina di Saba fece visita a re Salomone. Nel 975 nacque
Menelik I, loro figlio e primo imperatore d'Etiopia, e l'imperatore
Haile Selassie fu il 255 0 monarca suo discendente diretto.
Intorno al I secolo d.c. Axum era capitale di un importante impero
che ebbe contatti con la Nubia, l'Egitto e la Grecia. Il primo re
convertito al cristianesimo, contemporaneo di Costantino, fu re Ezana
nel IV secolo, che fece dell' Etiopia uno dei primi paesi cristiani.
La fiorente civiltà axumita incominciò a declinare nel VII secolo
con l'avvento dell' islam e ben presto il paese fu "isolato" dal resto
del mondo.
Nel X secolo una regina pagana di nome Yowdit, creò una nuova
dinastia che regnò per tre secoli; il re più importante di questa dinastia
Zagew fu Lalibela che ordinò la costruzione delle meravigliose chiese
monolitiche nel luogo che ancora oggi porta il suo nome. Nel XIII
secolo la dinastia dei salomonidi fu restaurata e si susseguirono
diversi capitoli fino al XVI secolo, quando nel 1635 il governo fu
stabilito a Gonder dall' imperatore Fassiledes; la città restò capitale
del regno fino al 1855, quando cadde il governo centrale seguì la
cosiddetta era dei principi; nella metà del XIX secolo la nazione
fu di nuovo riunita sotto il regno dell'imperatore Tswodros.
Nel 1889 venne incoronato ad Addis Abeba (Finfinne) l'imperatore
86
Menelik II (1889 -1913), passato alla storia non solo per aver riannesso le provincie perse durante i tentativi di colonizzazione (occupazione italiana di Massawa nel 1885, battaglia di Dogali nel
1887, trattato di Wuchlè nel1889, con il riconoscimento dei possessi
italiani di Keren e Asmara e il protettorato italiano sull' Abissinia
fondazione della colonia Eritrea nel 1890 e guerra d'Africa del 1894,
che si conclude, dopo la battaglia di Adwa del 1 maggio, con il trattato
di Addis Abeba del 26 ottobre 1896 e la rinuncia italiana al protettorato sull' Abissinia). (N.d.R., cfr. Hassan MOHAMED, The
Oromo of Ethiopia, 1570-1860, London, 1990)
Nel 1918 si inaugura la grande ferrovia che collega Addis Abeba
con Gibutti e nel 1930 viene proclamato imperatore Haile Selassie,
con una cerimonia a cui partecipano i rappresentanti delle grandi
potenze mondiali. Nel 1931 il Negus emette la prima costituzione
del paese, con un decreto che condanna lo schiavismo e i paesi che
lo praticano. Conquistata temporaneamante dall'Italia nel 1936 l'
Etiopia entra a far parte, con l'Eritrea e la Somalia, dell' Africa
Orientale Italiana: sono gli anni dell'esilio della famiglia imperiale.
1120 ottobre 1941 l'imperatore rientra in Etiopia, che riacquista
la sovranità nazionale quando le truppe d' ocuppazione italiane si
arrendono a quelle britanniche e locali. Nel 1952 l'Eritrea viene
costituita dall'ONU in unità autonoma federata all'Etiopia, e nel 1962
viene annessa. Nel 1963 si svolge la prima conferenza dei paesi
africani ad Addis Abeba, con l'inaugurazione dell'Organizzazione
per l'Unità Africana (OUA).
Nel 1973 comincia contro il governo centrale la pressione dei
movimenti indipendentisti, il Fronte Eritreo di Liberazione (ELF) ,
il Fronte Popolare di Liberazione dell'Eritrea (EPLF), il Fronte per
la Liberazione di Oromo (OLF), il Fronte per la Liberazione di Tigray
ecc. (TFL) e nel 1974 una sollevazione militare porta alla deposizione
dell'imperatore Haile Selassie e alla costituzione di un comitato di
coordinamento delle forze armate formato da 120 membri (Derg)
che assume tutti i poteri, dichiarando di voler ispirare la propria
politica a principi socialisti e proclamendo nel 1975 la repubblica.
(N.d.R., cfr. Jalata ASAFA, Oromia and Ethiopia, Boulder, London,
1993)
Nel 1977 il Tenente Colonnello Menghistu Haile Mariam instaura
nel paese un rigido regime militare di stampo socialista, che deve
88
affrontare la crescente resistenza degli oppositori e dei movimenti
antigovernativi, ricevendo aiuti e assistenza militare dalI' URSS a
cui era legata da un accordo di cooperazione. Dopo annidi rovinosa
guerra civile, il 28 maggio1991 le forze delle opposizioni, guidate
dall' Ethiopian People's Revolutionary Democratic Front (EPDRF),
rovesciano l'autorità dittatoriale del regime di Menghistu, fuggito
in Zambia dail'Etiopia, portando cosi alla costituzione di due paesi:
l'Etiopia, che perviene ad un sistema federativo, e l'Eritrea, che con
proprio ordinamento politico, propri confini e proprie istituzioni ha
sancito con un referendum la propria indipendenza nel 1993.
Un programma, delineato nella carta nazionale formulata dal
Consiglio dei Rappresentanti nel 1991, dovrebbe avere come
obiettivo principale la costituzione di un Governo che garantisca
diritti e doveri su base ugualitaria a tutti i gruppi etnici. La creazione
di un potere giudiziario indipendente sia a livello centrale che di
amministrazioni regionali e provinciali, la costituzione di forze di
polizia ed altre istituzioni di sicurezza pubblica a servizio dei cittadini
e responsabili verso la stessa, e il raggiungimento di una piena
indipendenza dei tre ambiti di potere(legislativo, giudiziario, esecutivo) dovrebbero essere le basi del nuovo sistema di democrazia
federativa.
La maggior sfida che il governo attuale dovrà affrontare, a mio
modo di vedere, resta comunque quella economica. L'agricoltura è
il settore più importante dell' economia del paese. Nonostante un
aumento registrato dell' 11 % dei terreni coltivati nel 1994 sulla spinta
di un nuovo programma economico, la produzione ha registrato un
calo del 5%. Questo calo è dovuto, secondo gli esperti del settore,
la fatto che l'agricoltura è tuttora legata in modo quasi assoluto
alla regolarità o meno delle precipitazioni.
Si spiega così anche la grave crisi alimentare che sta imperversando
nel paese e che ha investito, oltre alle tradizionali regioni del Tigray
e Wollo, anche vaste aree del sud del paese, specie le zone di Wolayta,
Kambata, Orno e Harar. Anche la crisi alimentare in corso, secondo
le stime governative, ha colpito tra i 6 e 7 milioni di persone.
Ciò che fa ben sperare per il futuro dell'Etiopia sono le notevolissime risorse naturali; 80 milioni di terreno arabile e adatto alle
colture più varie; aree di pascoli; giacimenti di oro e platino, sfruttati
ECONOMIA E DEMOCRAZIA
ETNICISTICA
89
finora solo in minima parte; e inoltre Rame, Potassio, Marmo, Soda,
Petrolio e Gas Metano., Per non dire dei 105.5 miliardi di metri
cubi d'acqua mai sfruttati razionalmente, che potrebbero irrigare
3,5 milioni di ettari di terreno agricolo, oggi coltivato solo per il
3%. Infine il potenziale idroelettrico e termale è stato stimato tra
i 100 e 165 miliardi di kilowatt annuali. Altre infrastrutture quali
banche, assicurazioni, sistemi di trasporto, telecomunicazioni, ecc.
possono fare da supporto alla crescita economica ed industriale. Non
meno promettenti appaiono, infine, le prospettive dell' industria
turistica e dello sviluppo dei parchi nazionali.
Tutte le potenzialità saranno sfruttate se il paese, attraverso forze
politiche e democratiche, saprà trovare una serenità e stabilità politica
e sociale che per diversi anni gli è stata negata.
Dott. Zeleke Eresso
Bologna.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Alberto TESSORE; Etiopia, Istituto Itala-Africano, Roma, 1984.
Angelo DEL BOCA; Gli italiani in Africa Orientale, Laterza, Bari-Roma, 1979-1984.
IL NEGUS: vita e morte dell'ultimo Re dei
Re, Laterza, Bari-Roma , 1995.
Bahru ZEWDLE; History of Modern Ethiopia,
London, 1991.
Gianpaolo CALCHI NOVATI, /I corno d'Africa
nella storia e nella politica, Sei, Torino,1994.
Gianluigi ROSSI, L'Africa italiana verso !'indipendenza, Giuffré, Varese 1980.
90
L'uso pubblico della storia
e il mestiere dell'insegnante
L'intreccio dei termini di "pubblico" e di "storia" ha dato luogo
a confronti di natura diversa, con riferimento a problematiche non
simili, in contesti culturali non sempre immediatamente comunicanti
fra di loro. Mi riferisco specificatamente a due occasioni di dibattito:
il primo sviluppato si in area anglosassone, e soprattutto statunitense,
a partire dalla fine degli anni settanta e il secondo nato invece nel
cuore della disputa fra gli storici tedeschi (l"'Historikerstreit") intorno alla metà degli anni ottanta. Nelle pagine che seguono cercherò
di dare conto di come e di quando questi due termini, nel corso degli
ultimi anni, siano andati coniugandosi fra loro; tenterò quindi di
fornire spunti di riflessione per collocare quelle problematiche all'interno di alcune tradizioni di pensiero di più lungo periodo; infine
proverò ad indicare i legami, impliciti ed espliciti, che legano questi
dibattiti alla riflessione intorno al mestiere dell'insegnante di storia.
CHIARA OTTAVIANO
In area anglosassone l'uso dell'espressione public history fa riferimento ad una costellazione di temi a volte, ma non sempre,
correlati fra di loro.
Prendiamo il caso del volume a cura di Susan Porter Benson, edito
nel 1986, con il titolo Essays on history and the public dalla TempIe
University Press di Philadelphia. In esso sono raccolti una serie di
articoli precedentemente pubblicati sulla rivista "Radical history".
In questo contesto si definisce public history quella che da noi, a
partire dagli anni sessanta ma soprattutto settanta, è stata definita
come "storia militante". Con quella espressione si indicava una nuova
1) LA PUBLIC HISTORY E I
TEMI DI DISCUSSIONE NEL
MONDO ANGLOSASSONE.
93
tendenza storiografica che implicava una precisa scelta di campo da
parte della storico, non necessariamente inserito nei ruoli accademici,
a fianco di chi si riteneva non avere avuto fino ad allora voce nella
narrazione ufficiale della storia; una storia, dunque, "scritta dal
basso" che privilegiasse nuove fonti, soprattutto quelle orali, e che
nutrisse nuove attenzioni per temi come la memoria collettiva, la
cultura popolare, i prodotti destinati alla cultura di massa, ecc. Con
valenza simile a public history viene usata anche, soprattutto nella
cultura inglese, l'espressione di people history.
Oltreoceano l'espressione di public history, divenuta familiare a
partire dalla fine degli anni settanta, non implicava in genere scelte
ideologiche o di campo, anche se faceva riferimento al mondo
extraccademico e a quello dei mass media. E' più corretto, anzi,
ricordare che più che di public history si discuteva soprattutto di
public historian. L'attenzione era infatti prevalentemente concentrata
sulla figura di quanti - provvisti di un curriculum di studi di alto
profilo, e cioè di un dottorato in disciplina storica - non trovando
occupazione all'interno dell'università, impiegavano le loro competenze al di fuori di essa.
Non è forse inutile ricordare che in America, come in Europa,
si era assistito per tutto il corso degli anni sessanta e poi ancora
nei primi anni settanta ad un vero e proprio boom di iscrizioni nelle
facoltà di storia; quel significativo incremento aveva· a sua volta
inciso anche rispetto alle maggiori opportunità occupazionali nell'ambito della docenza e della ricerca accademica. Ma nella seconda
metà degli anni settanta (ancora una volta in America come in
Europa) si registrò una brusca inversione di tendenza: gli studenti
universitari interessati a seguire corsi di storia andarono diminuendo
a vista d'occhio. I perché possono essere molti, non ultimo il
contemporaneo venire meno per una diffusa attenzione verso la
politica; ciò che in questa sede vale la pensa rilevare sono però, più
che le cause, gli effetti di quel calo di attrazione. I numerosi nuovi
dottori in storia persero in quegli anni la speranza di iniziare una
qualche carriera universitaria (precedentemente data quasi per scontata); non solo, in un sistema accademico, come quello americano,
che non disdegna di applicare al suo interno le comuni regole del
mercato, anche chi aveva in precedenza già ottenuto un contratto
di docenza poteva rischiare di perdere la propria occupazione per
94
il venire meno della domanda.
Il discorso inaugurale dell' annuale assemblea dell' American
Historical Association del 1982, tenuto dall'allora presidente Gerda
Lemer, pubblicato poi nella prestigiosa rivista dell' associazione,
l'''American Historical Review", con il titolo The necessity ofhistory
and the professional historian, può essere assunto come documento
ufficiale della presa di coscienza del problema da parte della corporazione degli storici. In esso, accanto alla constatazione del calo
significativo degli studenti in storia e della significativa contrazione
dei posti di lavoro all'interno dell'università, con allarme si denuncia
la perdita di prestigio, rispetto ad altri colleghi, di quanti detenevano
il titolo di dottore in storia e si sottolineavano l'urgenza di trovare
una qualche soluzione alla crisi che favorisse un'inversione di tendenza. Una via d'uscita a quel declino, secondo l'autorevole opinione
della Lemer, poteva trovarsi nell' apertura di un processo di accreditamento e di sempre maggiore qualificazione di quanti, fuori
dall'accademia, operassero nell'ambito della cosiddetta storia applicata: nei musei, negli archivi, nelle associazioni, nelle imprese
pubbliche o private, o anche nella produzione di mostre, di video
ecc.
L'indicazione, nella pratica immediata, era di ammettere all'associazione i cosiddetti public historian (che dalla fine degli anni
settanta avevano già una propria rivista, "Public History", ed una
propria associazione), e di iniziare a considerare degni di attenzione
(e dunque anche di recensioni vere e proprie nelle riviste specializzate) i "prodotti" di storia (e quindi non solo i "saggi" di storia)
destinati ad un pubblico di massa: documentari televisivi, film di
fiction, mostre ed espressioni (poi verranno anche le segnalazioni
di CD rom e di altri supporti informatici).
L'ammissione all' American historical association, fondata nel
cuore dell'ottocento, a professionisti extra-accademici non era operazione di poco conto.
Vale forse la pena ricordare come in America tutto il lavoro di
tipo non manuale (da quello più intellettuale all'ampio settore dei
servizi) sia molto riccamente ma anche molto rigidamente articolato
e regolato in "professioni" che nel corso del tempo hanno assunto
caratteri di tipo istituzionale. Si suppone che ogni "professione", per
la quale è stabilito un addestramento specifico ed appropriato, uno
95
standard di prestazione ed una specifica deontologia professionale,
si esprima con una propria associazione alla quale aderiscano tutti
i professionisti purché provvisti dei requisiti richiesti. L'associazione
poi pubblica i propri giornali, organizza i propri meeting, controlla
al proprio interno gli standard delle prestazioni dei propri associati,
censura i comportamenti ritenuti non idonei, contratta con l'esterno.
Chi è fuori dall'associazione semplicemente non esiste come professionista: potrebbe essere un ciarlatano o un impostore, oppure
qualcuno che, insieme ad altri, sarà costretto a fondare un'altra
professione.
L'apertura dell' American Historical Association ad extra-accademici significò dunque uno strappo evidente in una tradizione centenaria, che riconosceva ai soli ricercatori universitari la qualifica
di storici di professione. Implicò inoltre l'inaugurazione di corsi
dedicati alla cosiddetta public history (con un'apertura alla docenza
a coloro che avevano operato fuori dall'università), e una nuova
attenzione per la comunicazione di storia, nelle sue varie forme,
destinata alla comunità nazione nel suo complesso: dai "prodotti di
storia" destinati alla comunicazione di massa agli eventi di carattere
pubblico organizzati intorno a ricorrenze ed anniversari.
Anche il mondo della scuola finì per essere compreso nell'interno
di questa più generale riflessione svoltasi all'interno della corporazione degli storici sui ruoli, i compiti, i temi e i soggetti di interesse.
Dopo decenni di sostanziale disattenzione, nelle università si
ritornò così ad occuparsi di didattica della storia e dell'insegnamento
della stessa nei vari ordini scolastici, riprendendo una tradizione
interrottasi dopo la seconda guerra mondiale. Il nuovo impegno, che
scaturiva anche dall'urgenza di riprendere "il controllo" da parte
degli storici di professione nelle istituzioni destinate alla trasmissione
della conoscenza storica, traeva alimento, tra l'altro, anche dai
risultati emersi in innumerevoli indagini conoscitive volte a verificare
quale conoscenza del passato, nazionale e internazionale, avessero
le più giovani generazioni. Quelle indagini, sistematicamente, appuravano imbarazzanti e non sospettate ignoranze; il poco noto,
inoltre, non era stato appreso sui banchi di scuola ma grazie ad
occasionali programmi televisivi o a film di fiction ambientati nel
passato. (Il dibattito su questi temi si può ricostruire a partire dalle
pagine della rivista dell' American Historical Association, e cioè
96
1"'American historical review".
Nuove associazioni, nuove riviste, nuovi meeting diedero voce ai
nuovi interessi che implicarono ampie forme di collaborazione fra
università e mondo della scuole. Per fare solo alcuni esempi, furono
promosse dalla sola Organization of American History il National
History Day, l'history Teaching Alliances, il National Endowment
for Humanities e a partire dal 1986 la pubblicazione del "Magazine
of History for teachers of History", oltre che innumerevoli corsi di
aggiornamento e seminari estivi per gli insegnanti all'interno delle
varie università. Quel tipo di collaborazione è stato poi il presupposto
di quella straordinaria consultazione recentemente conclusasi dopo
anni di confronto, che non si esagera a definire di massa per avere
coinvolto migliaia di insegnanti di innumerevoli scuole sparse nel
territorio degli Stati Uniti, centinaia di docenti universitari, più di
trenta organismi e associazioni, e che ha stabilito, nel corso di un
dibattito spesso lacerante, quali temi e con quale rilevanza, debbano
essere oggetto dell'insegnamento di storia nelle scuole medie e
superiori. (I National History Standards, con cenni del dibattito che
li hanno preceduti, sono pubblicati anche sul "Magazine of History.
For teachers of history", Spring 1995, n. 3).
L'uso pubblico della storia è il titolo di uno degli articoli con cui
il filosofo francofortese Jurgen Habermas partecipò alla durissima
polemica fra storici, filosofi e politologi tedeschi inaugurata nel
giugno del 1986 da un articolo dello storico del fascismo Ernst Nolte
sulla "Frankfurter Allgemeine Zeitung". I principali interventi di quel
dibattito sono stati raccolti e pubblicati in Italia a cura di Gian Enrico
Rusconi nel volume intitolato Germania. Un passato che non passa.
I crimini nazisti e l'identità tedesca, edito nel 1987 da Einaudi.
A quei saggi ed all'essenziale introduzione di Rusconi rinvio per
i temi e le argomentazioni di quella discussione intorno a quell' operazione di "revisionismo storico" che riguardò la valutazione, in sede
storiografica, del nazismo, dell' opera di Hitler e dei modi in cui essi
possano o debbano essere narrati.
"Se la disputa che ora si è avviata - si legge nel citato intervento
di Habermas - avesse avuto luogo su una rivista specializzata, non
avrei potuto scandalizzarsi, forse non l'avrei neanche colta". Ciò che
insomma, secondo il filosofo e sociologo tedesco, aveva cambiato
L'USO PUBBLICO
DELLA STORIA E
IL LAVORO INTELLETTUALE
97
significativamente il tono, ma soprattutto il significato, della discussione fra gli intellettuali non erano tanto le esplicitazioni di divergenti
tesi storiografiche, sia pure su questioni delicate, quanto il fatto che
quelle discussioni non si erano svolte all'interno della corporazione
degli specialisti ma in sedi altre, su giornali destinati ad un'opinione
pubblica più generale. Gli intervenuti alla ricerca della giusta risposta
avevano parlato in "prima persona" e non assumendo il consueto
punto di vista della "terza persona", come accade nelle discussioni
degli studiosi nel corso del loro lavoro. Avevano cioè agito nella
sfera pubblica facendo un "uso pubblico della storia", intervenendo
per "la formazione politica" e toccando "la morale politica" della
comunità.
Per Habermas dunque si fa uso pubblico della storia quando si
interviene in prima persona e si pongono problemi del tipo "come
il passato venga elaborato storicamente nella coscienza pubblica",
con espliciti obiettivi politico-pedagogici. Chi fa uso pubblico della
storia, dunque, è coinvolto direttamente e fa riferimento ad una
comunità altra rispetto a quella degli scienziati suoi pari.
Sembrerebbe dunque che coloro che fanno uso pubblico della storia
nei fatti si oppongano a coloro che fanno storiografia, giacché questi
ultimi parlano in terza persona e servono l'oggetto della propria
ricerca senza coinvolgimenti. Aspirano insomma a fare scienza.
"Egregi ascoltatori! - ammoniva Max Weber nel 1919 nel corso
di una sua conferenza, poi pubblicata nel volume Il lavoro intellettuale come professione edito in Italia da Einaudi nel 1980 -. Nel
campo scientifico ha una sua 'personalità' solo chi serve puramente
il proprio oggetto". E cioè chi non usava la cattedra per scopi politici,
chi non anteponeva giudizi di valore alla perfetta intelligenza del
fatto. La scienza, spiegava Weber, "non può rispondere alle domande
fondamentali e tolstoiane del 'che dobbiamo fare? come dobbiamo
regolare la nostra vita?' Tali domande devono essere poste al profeta
o al redentore".
Più recentemente, nella stessa tradizione di pensiero, lo storico
israelita Josef Hamyin Yerushalmi, in un saggio intitolato Riflessioni
sull'oblio (edito dall'editore Pratiche nel 1990 in una raccolta di
scritti intitolata Usi dell' oblio) riflettendo sulla differenza fra la storia
della storiografia e la storia della cosiddetta memoria collettiva, ha
ben precisato ciò a cui il mestiere di storico dovrebbe tendere. La
98
storiografia, a differenza della memoria che è fatta di affetti, aspira
ad essere una scienza oggettiva. Lo storico di conseguenza tende
ad avere un atteggiamento quanto più distaccato possibile dall'oggetto delle sue ricerche come anche dal gruppo al quale appartiene.
La storiografia è la ricostruzione sempre problematica e incompleta
di ciò che non c'è più, ha vocazione all'universale e per questo
appartiene a tutti e a nessuno. Sa inoltre di poter raggiungere una
conoscenza solo relativa. La memoria invece, che appartiene a gruppi
e a individui, non è universale ma si pensa assoluta. Inoltre, i criteri
secondo cui la storiografia sceglie i suoi soggetti sono all'interno
della sua disciplina (in teoria nessun oggetto è indegno di analisi),
ciò che invece permane nella memoria appartiene a un qualche ordine
di valori.
Weber, Habermas, Yerushalmi, ma anche Marc Bloch che stigmatizzava il "diabolico nemico della storia genuina: la mania del
giudizio" (in Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi,
1969), sembrano volere ribadire (come ricorda Tzvetan Todorov nel
suo recente volume Le morali della storia edito da Einaudi nel 1995)
quanto si è tentato di affermare - sia pure non sempre con continuità
o successo - a partire dalla fine del settecento: la storia non appartiene
alle "scienze morali e politiche", la storia - come la psicologia, la
sociologia, l'antropologia, è una scienza come le altre, liberata da
qual si voglia tutela ideologica, religiosa o politica.
La strada della scienza è anche la strada dello specialismo. Ricordo
ancora la conferenza di Weber già citata: "Al giorno d'oggi, l'esercizio della scienza come professione è condizionato, sul piano
interiore, dal fatto che la scienza è pervenuta ad uno stadio di
specializzazione prima sconosciuto, e tale rimarrà sempre in futuro
( ... ). Le cose stanno in modo che solo in caso di un'estrema specializzazione l'individuo può avere sicura coscienza di produrre
qualcosa di realmente compiuto nel campo scientifico".
Un sapere storiografico sempre più specialistico e più preciso, più
scientifico quindi, è un sapere che può avere come referente solo
la comunità astratta dei pari (e cioè degli altri scienziati e professionisti), gli unici che possono valutare qual tipo di sapere.
Come è facile intuire la via per cui la storia diventa scienza - con
le caratteristiche di cui si è detto - non solo è irta di ostacoli, non
solo è tortuosa, non solo a volte è immersa nella nebbia, ma a volte
99
- anzi spesso - viene deliberatamente abbandonata.
E' lo stesso Habermas che, davanti alla specificità ed enormità
del problema della memoria storica del nazismo, invita a rispettare
"per fini terapeutici e politici, il prius della condanna morale e
dell'unicità del nazismo quando si discute sui mass media" (così
sintetizza Nicola Gallerano nel saggio introduttivo del volume L'uso
pubblico della storia edito nel 1995 da Angeli). E' Yerushalmi,
sempre in riferimento ai pericoli del "revisionismo" storico, ad
incitare lo storico "con la sua passione per i fatti" (per inciso
scopriamo così anche che lo storico nutre passioni) a "montare la
guardia contro gli agenti dell'oblio".
L'uso pubblico della storia sembra dunque, stando agli autori citati,
una sorta di costrizione dovuta ad urgenze di tipo etico e morale
nei confronti non della comunità astratta di studiosi ma nei confronti
di una comunità concreta, quella di appartenenza. Per Yerushalmi,
come si è visto, gli storici devono fare i cani da guardia, essere custodi
della verità, responsabili anche della crescita della consapevolezza
del passato quando in giro ci sono "gli assassini della memoria".
Si può quindi scendere in campo, con passione civile, tradendo quasi
il proprio statuto di scienziati, quando le circostanze, in momenti
straordinari, lo richiedono.
La costruzione di "senso comune" e il mestiere dell'insegnante.
Se si fa però mente locale su come gli storici accademici hanno
svolto normalmente ruoli di opinion maker sui quotidiani, riviste di
larga tiratura o anche programmi di intrattenimento televisivi, su
come hanno "prodotto storia" per l' identità di partiti o nazioni, su
come hanno redatto libri di testo o programmi scolastici, ci sarebbe
da pensare: che i momenti "straordinari" sono stati veramente tanto
frequenti da non poterli più definire tali; che quel dovere essere di
"professionisti", che si rivolgono specificatamente ai propri pari su
argomenti di ricerca sempre più specialistica, è un dovere essere di
difficile realizzazione per una serie di motivi diversi (dai più nobili
ai più venali); che forse quei panni ritagliati sull'astratto modello
del "professionismo" risultano particolarmente stretti per quegli
intellettuali che esercitano il mestiere di storici e che bisogna
cominciare a ripensare se a nuovi modelli o almeno agli adattamenti
del caso.
100
Ma come mai, se è sempre stata alta la tensione fra storia come
scienza umana e storia come scienza morale, fra storiografia e storia
sedimentata nella memoria sociale, fra storia destinata al dibattito
fra studiosi e quella scritta nei libri di testo o divulgata attraverso
i mass media, è soprattutto nell'ultimo decennio che il tema dell'uso
del racconto storico nella sfera pubblica o anche il problema della
destinazione della ricerca storica ad un pubblico generico ha acquistato tale rilevanza?
Molteplici possono esserne la cause; proverò ad individuarne
qualcuna.
Forse all'origine di alcune "discese in campo" c'è stato il bisogno
di recupero, nella comunità locale o nazionale di appartenenza, di
un'autorità che appariva minacciata da una concorrenza molto
potente e pervasiva con la quale si è cominciato a pensare di dovere
venire a patti. Mi riferisco specificatamente al ruolo dei mass media.
Questi ultimi non sono certo un'invenzione degli anni ottanta, ma
non c'è dubbio che il loro peso, in Italia come all'estero, soprattutto
per la moltiplicazione dei canali televisivi e delle ore di programmazione, è diventato preponderante soprattutto a partire dallo scorso
decennio. Non vale solo per i giovani americani, né solo in riferimento alla storia contemporanea, l'affermazione secondo cui è dalla
comunicazione televisiva, oltre che da quella cinematografica, che
vengono acquisite il maggiore numero di informazioni di cui si è
in possesso. Nel confronto con quei mezzi la scuola - unico legame
fra università e società, anche solo relativamente al momento di
formazione del corpo insegnante - è sembrata soccombere perdendo
ogni autorità. (Fra coloro che sostengono che la scuola sia ormai
incapace di controllare l'inondazione dell'informazione proveniente
dai mass media anche Neil Postman, Technopoly. La resa della
cultura alla tecnologia, edito da Bollati Boringhieri nel 1993).
Probabilmente, introduco una seconda ipotesi, non sono senza
conseguenze neanche le ricerche, che hanno in parte dominato il
dibattito storiografico dell' ultimo decennio in merito ai temi della
memoria collettiva, della memoria sociale, della costruzione di senso
comune. Quelle ricerche hanno messo infatti in rilievo non solo lo
iato e la distanza, a volte incolmabile, fra i fatti e gli accadimenti
trattati dalla storiografia e quelli tramandati nella cosiddetta memoria
collettiva, ma anche il fatto che quella memoria è sempre frutto di
101
costruzione e di negoziazione in un terreno in cui operano vari
"agenti", gruppi o individui, portatori di progetti che oltre a essere
differenti possono essere alternativi e discordi. E' legittimo porsi il
problema di "creare una memoria collettiva che possa unificare
progetti antagonisti"? (La citazione è tratta dal volumetto di Gérard
Namer, Memorie d'Europa. Identità europea e memoria collettiva,
Rubettino 1993. Per l'accezione che qui si dà di "senso comune"
e "memoria sociale" rinvio invece al volume di Paolo Jedlowski,
Il sapere dell' esperienza, TI Saggiatore, 1994).
Non si tratta certo di ritornare agli storici "inventori di tradizioni"
da cui, con una grande lezione, ci ha messo ben in guardia Eric
1. Hobsbawm( L'invenzione della tradizione, Einaudi, 1987 ), siano
esse tradizioni nazionalistiche o meno( non può essere considerato
un miglioramento se alle invenzioni delle tradizioni nazionali si
sostituisce quella delle tradizioni europee ), ma di sicuro il dibattito
apertosi con la disputa degli storici tedeschi anche sul tema delle
identità nazionali e sul compito degli storici di fornire, possibilmente
in senso critico, collegamenti che aiutino a mettere in relazione il
passato con il presente e il futuro non può essere liquidato in modo
sbrigativo. (Per l'Italia il rinvio d'obbligo è al dibattito sollevato
dal volume di Gian Enrico Rusconi, Se cessiamo di essere una
nazione, Il Mulino, 1993 e rilanciato, oltre che dall' attualità politica
caratterizzata dalla formazione delle Leghe, anche dalle celebrazioni
della Resistenza).
Infine, non mi sembra di poco conto la precisa e diffusa percezione
della rottura di un "equilibrio" che ha retto per circa mezzo secolo;
la fine di quell'equilibrio ha implicato anche la fine di quel "senso
comune", o se si vuole, quell' insieme di pregiudizi, che sono stati,
fino a qualche anno fa, il collante delle società occidentali. TI muro
di Berlino, nel suo crollo, ha spazzato via anche modi di pensare
diffusi e quadri di riferimenti certi. Le nuove ondate migratorie hanno
inoltre modificato non solo il paesaggio antropologico di città e
campagne d'Europa, ma hanno a loro volta evidenziato nuovi
fenomeni di emarginazione e dissonanze, infranto solide certezze o
se si preferisce, altrettanto solide menzogne. Appare, per dirla con
Ralf Dahrendorf, sempre più difficile fare "quadrare il cerchio" del
benessere economico, della coesione sociale e della libertà politica
(il volumetto di Dahrendorf, Quadrare il cerchio, Laterza, 1995).
103
· Ma a questa quadratura non possono solo provvedere attenti programmi economici ed oculate politiche sociali: l'aspira zione a quella
quadratura si concretizza anche con la permanenza di modi di pensare
diffusi che sappiano coniugare in modo positivo l'idea del passato
della propria comunità di appartenenza (locale, nazionale, o transnazionale) con un presente dai confini, anche territoriali, sempre
più incerti.
A chi tocca dunque il compito di ricostruire quel "senso comune",
che è anche "memoria sociale", quel mondo delle opinioni "del
volgo" che, come ricorda Jedlowski, era un tempo aborrito dalla
scienza positiva ottocentesca come ostacolo alla vera scienza: un
sapere "volgare" da cui gli scienziati avrebbero dovuto innanzi tutto
non farsi "intimidire" ?
A parte le numerose contraddizioni e strappi alla regola, ragionando in termini puramente astratti, se coloro che coltivano la storia
come scienza possono al più "fare la guardia" o intervenire in
circostanze "straordinarie", a chi tocca il lavoro "ordinario", e cioè
quello di operare nella società civile anche per la costruzione di un
nuovo senso comune alimentato dalla consapevolezza critica del
proprio e dell' altrui passato? A chi tocca, per usare una complessa
espressione di Haberrnas, operare per la costruzione fra i giovani
di "identità postconvenzionali", e cioè coscienze storiche incompatibili con visioni della propria origine ingenue, chiuse ed unilaterali?
Probabilmente i due luoghi d'eccellenza (l'uno deputato, l'altro
di fatto) sono la scuola e i mass media. Ma come questo compito
deve essere assolto?
E' accettabile una divisione del lavoro secondo cui, protetti da
accademiche mura, si può procedere nell'esercizio della critica e del
relativismo, in nome della verità e per la scienza, liberi da vincoli
imposti da ideologie politiche e valori, mentre chi si trova ad operare
nella comunità, a costruire sapere storico nel pubblico, ha - in
presenza di una società frantumata dall'identità incerta - il principale
dovere di fornire collanti a prova d'urto, accogliendo magari l'invito
dell'americano Richard Rorty (ricordato anche nel saggio di Nicola
Gallerano) secondo cui è giunto il tempo per cui la storia deve
diventare un'impresa "terapeutica" ed "edificante"?
E quale storia, in presenza di una società globalizzante e tendenzialmente multietniche, è quella da mettere in campo? Un po' di
104
storia universale, dove ognuno - nell'ipotetico paese multietnico può riconoscersi per un qualche frammento, o soprattutto la storia
del paese che ospita, intesa all'interno dei confini politici tradizionali,
magari a partire dal patto, dall'accordo, che regola la convivenza
di quanti, ospiti temporanei o permanenti, quell'accordo sono tenuti
a conoscere? A quell'accordo sarà forse obbligatorio a questo punto
dare valenza valoriale se si vuole tentare la costruzione di quel
"patriottismo della costituzione" che auspica Habermas, come sostitutivo di più pericolosi patriottismi tout court?
E a cosa dare la preferenza nella storia che ha allargato straordinariamente il campo delle proprie indagini: alla storia politica
istituzionale, a quella economica, a quella sociale, alla storia locale,
alla storia universale ... ?
Non sono problemi di immediata soluzione. E d'altra parte, se si
fa riferimento all'Europa occidentale, sono anche problemi nuovi,
che appartengono a paesi ampiamente alfabetizzati, fondati su valori
democratici (che non è detto non possano però essere rimessi in
discussione), attraversati da tensioni inedite (prime fra tutte quelle
razziali e di nuove marginalità con il venire meno del welfare state),
dove l'informazione - che proviene dalle fonti più disparate, pubbliche e private, nazionali e transnazionali - non sempre è facil~ da
discriminare.
In America, come si è già accennato, la discussione sugli standard
(ovvero sui programmi) da adottare nelle corrispondenti scuole medie
e superiori è durata più anni creando molte divisioni e discussioni
(alla fine la maggioranza ha scelto per un programma di storia
"americana" abbandonando l'ipotesi di una storia "mondiale" e
multietnica). Anche in Italia si discute molto fra gli insegnanti che
operano nella scuola (il debutto è invece quasi del tutto assente nelle
università) su programmi, curricola, libri di testo, sperimentazioni.
L'attività del Landis e degli Istituti Storici della Resistenza, del CIDI
e di altri istituti, associazioni e fondazioni, che operano sia localmente
che nazionalmente, sono testimonianza di un confronto molto vivo
alimentato anche da una serie di interessanti inchieste sui modi in
cui svolge o si vorrebbe svolgere l'insegnamento della storia. (Fra
le inchieste pubblicate ricordo a cura di Elda Guerra e Ivo Mattozzi,
Insegnanti di storia, edito nei "Quaderni di discipline storiche",
Bologna, 1994 e a cura di Luciana Ziruolo, La storia nella scuola
105
secondaria, Alessandria, 1994).
Se la discussione è molto vivace a proposito dei curricola e dei
libri di testo forse si discute sul senso più generale da assegnare
alla disciplina storica e soprattutto al mestiere dell'insegnante come
mestiere intellettuale.
Il recente e già citato volume di Tzvetan Todorov, Le morali della
storia (Einaudi, 1995), offre su quest'ultima questione più di uno
spunto alla riflessione, che vale la pena prendere in considerazione
al di là della condivisione o meno della tesi generale dell'autore
fortemente motivato per una riproposizione della storiografia come
scienza morale. Todorov, nel saggio finale intitolato La funzione
dell'intellettuale moderno, si chiede se può esservi altra soluzione
al di là dell'alternanza di un tempo (tempo di lavoro e tempo libero)
per conciliare la propria attività di scienziato con il proprio impegno
civile. La risposta suggerita è che la soluzione può trovarsi solo se
si ammette accanto al ruolo dello scienziato e del politico anche il
ruolo designato con un termine "ambiguo se non sottovalutato:
l'intellettuale". L'intellettuale si distingue dall'uomo d'azione, il
militante politico che parte da valori che si giustificano da sé, perché,
al contrario, fa dei valori l'oggetto della propria riflessione: "La sua
funzione è essenzialmente critica, ma nel senso costruttivo del
termine: constata il dato particolare che tutti noi viviamo nell'universale e crea uno spazio nel quale si possa dibattere la legittimità
dei nostri valori ( ... ) aspira a una verità - in divenire e di consenso,
verso la quale si procede accettando l'analisi riflessiva e il dialogo".
L'intellettuale si differenzia anche dallo scienziato, che riconosce la
verità come "pura verità-conforme, di adeguamento ai fatti": egli
infatti "giudica il reale col metro dell'ideale".
Se non si coniuga il reale con i valori abdica alla sua stessa
funzione: "Se si vuole che gli intellettuali abbiano una funzione,
allora bisogna lottare per il mantenimento o il ristabilimento di una
vita pubblica, che sia altra dalla giustapposizione e dalla protezione
di tante vite private".
Per Todorov, dunque, è caratteristica dell' intellettuale operare nella
sfera pubblica, farne parte, non prescindere dal reale, avere consapevolezza dell'ideale. Todorov parla esplicitamente del ruolo essenziale svolto -dai mass media per ristabilire il contatto fra intellettuali
e società. Non parla invece del ruolo che può essere svolto dall'isti106
tuzione scolastica che pure è luogo deputato alla formazione dei
cittadini. Sicuramente gli insegnanti possono svolgere un ruolo di
mediazione fra gli intellettuali e il corpo sociale, simile a quello
svolto da chi opera nei mass media.
Possono fare anche di più: capaci di intendere la ricerca e il
linguaggio degli "scienziati", per avere avuto la formazione adeguata,
ed operanti nella sfera pubblica, perché tale è la scuola, possono
svolgere essi stessi la funzione di intellettuali.
Infine, nelle pagine di Todorov esplicitamente e insistentemente
si fa riferimento ai "valori". Sappiamo che il termine può essere
scivoloso e può contenere molte ambiguità. Vale la pena però riconsiderare alcune delle questioni sollevate, compresa magari quella
di ricominciare a discutere su quale funzioni degli intellettuali e a
chi spetti avere la responsabilità di pensarsi tale.
L'opinione di chi scrive, si sarà già inteso, è che gli insegnanti
non si possono sottrarre a questa responsabilità, a meno che non
scelga la rassegnazione di assistere non solo e non tanto al logoramento dell'immagine di una disciplina praticata, quanto alla perdita
di significato dell' istituzione scolastica stessa come luogo di formazione e di costruzione di "senso" per una possibile convivenza civile.
107
Sulle tracce
del filo di Arianna.
In margine al convegno nazionale "Comunicazione della storia e fabbisogni formativi
fra ricerca, didattica e divulgazione".
1. Le ragioni di un convegno.
MARIA NELLA CASALI
Appostati su un osservatorio ancora in via di definizione, assorbiti
per metà dal retaggio di compiti istituzionali di acquisizione, conservazione e trasmissione di materiali documentari e fonti diversificate su alcuni nodi storiografici ben definiti e per metà proiettati
al confronto e al dialogo attraverso lo strumento della ricerca storica
con tutta la comunità- non solo scientifica e accademica -; impegnati
a riempire di nuovi significati e prassi rinnovate quegli stessi statuti
interni che promuovono istituti storici come il nostro a "intermediari
della contemporaneità" tra istituzioni e soggetti differenti; abbiamo
colto da qualche tempo la necessità di proporre un dialogo circolare
tra mittenti e ricettori di storia.
Un'esigenza di ripristinare una vera e propria comunicazione tra
soggetti e saperi che producono e consumano storia, che insegnano,
diffondono o apprendono storia in un contesto attualissimo in cui
purtroppo insegnare e apprendere non solo sembrano viaggiare su
piani differenti, ma addirittura sembra difficile ritrovare una sintassi
comune per la costruzione di una conoscenza storica.
Anche in un contesto locale e assai ben indagabile come quello
reggiano si dimostra facile cogliere- in questi anni '90- non solo
una sorta di crisi del concetto di esperienza, di progettualità, di
costruzione del futuro da parte dei giovanissimi, ma addirittura un
inspiegabile quanto dilaniante desiderio di parte delle generazioni
più anziane di ricostruire la "storia ufficiale" inevitabilmente sulle
109
spoglie della memoria.
E' intorno a questi problemi di formazione, comunicazione e
trasmissibilità del sapere storico in tutte le sue forme che abbiamo
pensato di creare l'occasione di un convegno nazionale di studi che
proprio qui portasse il segno della necessità di una lettura incrociata
tra ricerca storica, documentazione, divulgazione, formazione degli
insegnati e ricerca didattica.
Una riflessione comune che dalla disciplina storica come materia
insegnata, dal percorso formativo degli insegnanti stessi e dalle
condizioni d' insegnabilità all'interno delle classi, dilatasse il suo
sguardo alle condizioni di comunicabilità e di divulgazione a un
pubblico diversificato ed eterogeneo attraverso i mezzi di comunicazione oggi disponibili; il tutto inscritto in una cornice dichiarata
e ben visibile di un uso pubblico del sapere storico, sempre più
frastagliato e penetrante, nelle odierne società ridisegnate dai media.
Un piccolo itinerario di rifondazione degli statuti epistemologici
della storia in un contesto in cui si accorciano sempre più gli spazi
dell' esperienza, quasi da impedirne una significativa sedimentazione,
problematizzando, per tutti, l'orientamento sullo stesso presente.
2. Sollecitazioni dal mondo della scuola: indagini, contributi e
riflessioni a confronto
Un'ecografia accurata sul corpo dell'istituzione scolastica attraverso una raffinata strumentazione disposta su alcuni punti-campione
in questo ultimo quinquennio ( da indagini /questionario a domanda
chiusa o semi strutturata commissionati dall' IRRSAE-Emilia Romagna a studenti in ingresso alla scuola secondaria superiore dal
titolo "Giovani con"; a interviste in profondità a un campione di
insegnanti del territorio bolognese per una riflessione sul proprio
percorso formativo -formale e informale - nei confronti della storia,
per iniziativa del LANDIS; a rapporti di ricerca promossi dagli stessi
Istituti per la Storia della Resistenza, come quelli di Alessandria e
Reggio Emilia incentrati sostanzialmente sull' insegnamento della
storia) rimanda a un diagramma in rilievo di un'inquietudine sul
presente.
Una sorta di destrutturazione temporale che attraversa le biografie
professionali e intellettuali degli insegnanti, i luoghi formali e informali dell'apprendimento della storia, gli studenti stessi nei con110
fronti della materia insegnata e delle loro letture sull'attualità.
In particolare, per quanto riguarda la storia insegnata degli ultimi
50 anni, rimane ancora il grande nodo irrisolto di una biografia non
pacificata della nazione uscita dalla guerra che non è ancora in grado
di offrire attraverso la sua scuola un paradigma complesso della
contemporaneità; una sorta di pericoloso gioco dell'oca degli stessi
curricoli che a due passi dalla conclusione del percorso rimanda
inderogabilmente alla casella di partenza, incapace di sciogliere il
groviglio tra storia e memoria.
Insegnanti di storia che, nonostante un percorso formativo spesso
ragguardevole, in una ricchezza d'immagini della storia (fecondate
per lo più dai paradigmi braudeliano e annalistico) riproducono
tuttavia nella pratica didattica, iterativamente, l'immagine della storia
appresa sui banchi di scuola, riconfermando anch'essi lo iato tra
storia vissuta e biografia, tra scuola storiografica, prospettiva didattica e pratica quotidiana d'insegnamento.
E ancora, dal punto di vista delle abilità da acquisire attraverso
programmazioni, manuali e laboratori, è davvero possibile imparare
a ragionare sul mondo? Nella "perdita d'innocenza" dello stesso
manuale negli ultimi trent'anni si condensano i grovigli della disciplina.
Infatti quelli che un tempo erano i compendi ordinati delle tappe
scontate della civiltà ora offrono all'insegnante un tessuto storico
disuguale in cui un brandello di narrazione degli eventi, un affresco
sociale, un evento bellico o un trend economico hanno bisogno di
una nuova gerarchia di rilevanze.
Eppure sembra che proprio da queste pluralità di approcci che
tentano, con linguaggi differenti, operazioni di adeguamento agli stili
conoscitivi e alle necessità dei giovani studenti stia la soluzione per
una programmazione considerata come atto creativo che consenta
operazioni di ragionamento storico analoghe, anche in differenti
contesti.
Forse i nostri stessi corsi di storia, secondo una stratigrafia più
o meno complessa per età, potrebbero partire da una considerazione
delle complicazioni temporali a varie dimensioni, presenti nelle
stesse classi (i mezzi di comunicazione di massa, per esempio, come
hanno modificato le strutture temporali, di percezione del tempo,
della memoria e della storia?).
111
Agli insegnanti spetterebbe il compito di allargarle e completarle.
3. Verso un'altra storia
D'altronde, dietro al monito che lo stesso Hobsbawm sollecitava
nell' introduzione al suo "Il Secolo breve" circa la difficile interpretazione di questo secolo, proprio perché ci costringe a fare i conti
con la nostra stessa storia, si schiude un venfiaglio di questioni che
oltrepassano i confini stessi dell' educazione: scolastica.
L'immagine stessa della storia, insomma, alla luce di una complessiva riorganizzazione della società dell'informazione, ne risulta
modificata.
L'effetto è sconvolgente. Non esiste più una storia unitaria, ricalcata a conferma di una storia onnicomprensiva, ma tante storie,
portatrici di tesi non sempre componibili; non esiste più un tempo
lineare su cui ordinare le tappe del divenire, ma tanti tempi quanti
sono i problemi investigati.
Questo è quanto emerso anche nel dialogo trasversale tra esperti
al convegno- soprattutto da coloro che non sono direttamente coinvolti nella scuola, ma ugualmente presenti nella gestione di politiche
giovanili -: proprio da loro, paradossalmente, è stato sottolineato con
forza la necessità da parte della scuola di assunzione del compito
di aiutare l'individuo a decentrare le certezze superficiali assimilate
nel corso di una prolungata e assidua esposizione ai mass media.
4. Usi pubblici della storia. Nuovi ruoli, nuovi disagi?
Segnali forti per capire che il tema dell'uso pubblico che si fa
della storia si è talmente allargato e diffuso da meritare un'analisi
più attenta e minuziosa.
La storia dunque soprattutto in questi ultimi dieci anni, ha cambiato
ruolo e collocazione nel rapporto interattivo con i mezzi di comunicazione di massa e in particolare con il mezzo audiovisivo.
La stessa comunicazione e divulgazione del sapere storico attraverso riviste specializzate ha subito inevitabili ridimensionamenti:
la formula della "bella" rivista di divulgazione storicrPer un pubblico
medio superficialmente colto ed eterogeneo per int essi (così come
si è andata caratterizzando in questi ultimi diec anni "Storia e
Dossier") sembra non accontentare più e soprattutto non si dimostra
sufficientemente penetrante nel mondo della scuola. Ancora una volta
112
si puntualizza il bisogno di una rivista che "faccia uso pubblico"
della storia, che sappia proporsi come intermediatrice tra ricerca
storica, documentazione, divulgazione e formazione agli insegnanti,
in una sintesi di approcci metodologici e contenutistici.
Una via che la rivista "I viaggi di Erodoto" ha tentato con successo,
mirando specificatamente al collegamento, finora sostanzialmente
impraticabile, tra insegnanti, associazioni e alcuni istituti universitari
controcorrente.
Partendo, poi, dalla considerazione di un progressivo sfaldamento
del ruolo dello storico, in quanto non più unico interprete dell'
"evento" nella società civile, ma strettamente assediato- in tale
funzione- dal giornalista e dall'opinion maker e considerando l'assoluta circoscrivibilità dei dibattiti storiografici interaccademici, ci
si chiede quali siano ancora i margini d'incidenza del mestiere dello
storico.
"Se il giornalista- cicala sgranocchia le noccioline, lo storicoformica le accumula, l'immediatista accumula sgranocchiando": così
J. Lacouture nel suo saggio La storia immediata (in La nuova Storia,
a cura di J. Le Golf, Milano, Mondadori, 1980, p. 234) consegna
in metafora il senso di un'intermediazione sempre più stretta fra più
esperti nella produzione di documenti storici, filmati, audiovisivi,
per il pubblico.
Ma ancora una volta, la funzione strategica e ineliminabile dello
storico - anche in prodotti ibridi come sono quelli destinati alla
comunicazione di massa - è strettamente legata alla sua capacità
indagatoria, alla capacità di verificare e confrontare le sue fonti,
all'ampiezza della sua documentazione.
Eppure, nonostante le diverse accezioni con cui si può considerare
la questione dell'uso pubblico della storia e dei diversi attori che
entrano in gioco con essa, si può condensare il dibattito entro due
.grandi filoni interpretativi.
Il primo, che riprende le vicende dell' espulsione dal mercato
accademico statunitense, all'inizio degli anni '80, di quei public
historian che tuttavia, strettamente vincolati da un legame corporativo
all' American Historical Association hanno potuto esplicare positivamente la propria professionalità anche all'esterno dell' accademia
113
(nei musei, negli archivi, nelle associazioni, cosÌ come nella case
produttrici di film, documentari, ecc.): un uso pubblico della storia
assunto in forma strumentale come occasione per riaffermare la
professione stessa.
li secondo filone, che, viceversa, ha origine in Germania, riprendendo le posizioni già espresse da Weber e successivamente da Habermas, sottolinea la distinzione tra chi fa uso pubblico della storia,
creandone strumentalmente obiettivi politico-pedagogici e colui che
si propone obiettivi strettamente e scientificamente storiografici: la
storia cioè, dalla fine del '700, non appartiene più alla sfera delle
scienze morali o politiche e, omologandosi a tutte le altre scienze,
si deve liberare da qualsiasi forma di tutela ideologico-politica.
Certamente, come è stato ripreso da Chiara Ottaviano in sede di
convegno - e come sarà possibile approfondire attraverso un contributo specifico sul tema -nelle pagine di questa stessa rivista- gli
storici contemporanei, sia "accademici" che "professionisti" -secondo i criteri distintivi precedentemente accennati- non hanno mai
mancato di fare uso pubblico della storia, sia divulgando storia su
testate giornalistiche ad ampia tiratura, sia partecipando in varie vesti
a programmi televisivi, sia redigendo libri di testo per le scuole
esercitando a volte anche il ruolo di opinion maker: la maggior parte
di essi ha in qualche modo avvertito la tensione fra obbedienza agi
statuti scientifici e responsabilità morale.
Di fronte alla necessità di ricostruzione di quel senso comune o
ancora meglio di quel processo dell'esperienza soggettiva che,
dilatandosi nel tempo, sintetizza passato e presente, tanto da costituire
memoria morale per la stessa comunità (Erfharung) -cosÌ indispensabile di fronte a società globalizzanti come la nostra- sembra
impossibile sottrarsi al compito di lavorare nella società civile da
parte degli storici.
5. Arte e mestieri dello storico contemporaneo
Effettivamente, in Italia, proprio di fronte a una comunità/fantasma
di storici-professionisti non ancora organizzati in associazione, la
situazione si presta allo spaccio e al saccheggio di competenze
esportate ben al di là del mondo della scuola e dell'accademia e
utilizzate spesso nel settore delle comunicazioni, dei servizi alla
persona e della formazione professionale in maniera esasperatamente
114
tecnicistica e non contestualizzata.
Si ripropone, dunque, ancora una volta un'attenzione speciale,
dentro e fuori le mura scolastiche, a un progetto educativo definito,
in cui il sapere storico sia capace di orientare l'orizzonte temporale
soprattutto delle giovani generazioni, che sappia interagire anche
all'interno di un complesso e spesso confuso sistema simbolico.
Unico deterrente per un uso ad ampio spettro della storia orientata
alla formazione dell'identità, a un progetto educativo-didattico forte,
ad ogni livello di età, forse può identificarsi nel "dovere" organizzare
la storia nuovamente secondo una griglia predeterrninata di valori.
Uno spauracchio, quello dei valori, che per alcuni - come é stato
sottolineato nella stessa tavola rotonda- dopo essere stato cacciato
dalla porta, più di vent'anni or sono, in nome di un'autonomia e
una dignità scientifica della disciplina storica, sembra rientrare ora
dalla finestra, incalzato dalla necessità di ricostruire una memoria
in oblio e di cementare le motivazioni alla conoscenza storica.
Ancora un pericoloso uso della storia allo scopo di costruire
l'identità della nazione - così come é accaduto tra '800 e '900 o
addirittura a fini ideologici?
Probabilmente sarebbe sufficiente precisare, a tal proposito e a
maggior garanzia di tutti, che in particolar modo nel mondo della
scuola, per educazione ai valori si vuole intendere solo un obiettivo
formativo importantissimo qual'è quello della creazione di un clima
interattivo-comunicativo, in cui tutti -studenti e insegnanti - siano
abilitati a produrre valori e orientamenti. E ciò costituisce un'interpretazione ancora più raffinata e a più sfumature di ciò che noi spesso
chiamiamo educazione interculturale.
Se infatti partiamo dal presupposto che ogni identità personale è
al contempo un'identità multiculturale, il procedere per graduali
approssimazioni alla costruzione del rapporto sé-altro diventa obiettivo nodale su cui rileggere l'insegnamento della storia.
Una sorta di "educazione al plurale" (allo sviluppo, alla pace, ecc.)
capace di riorganizzare attorno a sé tutti i saperi, in antagonismo
ai "saperi puntuali" costituiti dall'attualità e dalla cronaca maledettamente e irrimediabilmente destinati a invecchiare non appena
prodotti.
Una sfida in più alla difficile insegnabilità della storia contemporanea, così come è stato sottolineato da molti (tra le cui cause
115
non ultime sono quelle interne connesse soprattutto alla struttura
scolastica, al suo funzionamento, alle modalità di formazione dei suoi
docenti) in cui storici e insegnanti della disciplina in oggetto, accettando consapevolmente la propria biografia formativa, diventino
fonti e documenti viventi fra le stesse fonti storiche.
116
La riscoperta delle Americhe.
Lavoratori e sindacato nell'emigrazione italiana in America
Latina 1870-1970,
a cura di Vanni Blengino, Emilio Franzina, Adolfo Pepe,
Milano, Teti Editore, 1994, pp. 730.
Raccoglie gli atti del vivace convegno organizzato dalla Camera
del lavoro di Brescia nel novembre 1992, a cui sono intervenuti oltre
quaranta tra i maggiori studiosi internazionali dell'emigrazione italiana nelle Americhe. Il convegno ha rivolto uno sguardo particolare
all'America meridionale; ma almeno due interventi hanno trattato
specificamente dell'emigrazione negli Stati Uniti e numerosi altri
delle strutture create dai sindacati e dalla sinistra per gli emigranti,
mentre altri interventi hanno trattato il problema delle culture
migratorie. Le tre sessioni in cui il convegno era organizzato offrivano spazio a questa generalizzazione dei problemi sociali e
politici posti dall'emigrazione, indipendentemente dalla destinazione
transoceanica dei lavoratori partiti dall'Italia. La prima sessione ha
avuto per tema: Il sindacato e l'emigrazione; la seconda: L'immigrazione di massa in America Latina: lotte operaie e processi di
modernizzazione; la terza: L'emigrazione allo specchio. Etnie, socializzazione, identità e cultura operaia. Una tavola rotonda conclusiva ha dibattuto su: Migrazioni e nuove identità.
Il titolo dato alla tavola rotonda è già di per sé esplicativo dei
motivi che stanno facendo dei flussi migratori avvenuti a cavallo
119
tra XIX e XX secolo uno dei più rilevanti argomenti per ricerche
nell'ambito storiografico e delle scienze sociali. Sono infatti riscontrabili numerose analogie tra i grandi fenomeni migratori attuali dai
paesi poveri, con quelli che portarono - dal secolo scorso fino a
qualche decennio fa - milioni di lavoratori europei verso i nuovi
continenti in cui la crescita industriale, soprattutto nel settore siderurgico, la scoperta di grandi giacimenti minerari, le nuove colonizzazioni agricole, la creazione di moderne infrastrutture per irrigazione e trasporti ferroviari e navali richiedevano ingenti quantità
di manodopera. Ci sono esperienze importanti del movimento operaio
internazionale in cui gli emigranti italiani hanno avuto una parte
rilevante, e che solo da poco tempo hanno iniziato a essere conosciute
dagli studiosi. E il convegno si è particolarmente occupato di indagare la capacità dei lavoratori migranti a organizzarsi, in modo
da rafforzare la propria integrazione o la propria posizione conflittuale.
Venendo comunque alle questioni che interessano l'ambiente
reggiano, nel volume la locale Camera del lavoro viene citata da
Paola Corti come una delle tredici che all'inizio del secolo si erano
dotate un proprio Segretario per l'emigrazione (p. 66); e Zeffiro
Ciuffoletti cita Antonio Vergnanini come uno dei responsabili dell'Ufficio nazionale per l'emigrazione della Società Umanitaria (p.
37); ciò a testimonianza del rilievo dato a Reggio al problema della
mobilità del lavoro, e dell'efficienza con cui veniva affrontato. In
tutti i saggi, tuttavia, non compare minimamente il ruolo dell'emigrazione reggiana nel creare strutture sindacali e di classe all'estero.
La mancanza di simili riferimenti non è certo dovuta alla mancanza
di documentazione storica che mostri la decisiva funzione degli
Maurizio MARIANI, Giovanna MARTELLI, emigranti reggiani nel costruire strutture sindacali all'estero, ne tanto
Giuliano MUZZIOLl, Cent'anni di emigraziomeno alla cattiva volontà dei ricercatori intervenuti al convegno, ma
ne da Pavullo e dal Frignano (1860-1960),
Pavullo, Amministrazione comunale, 1993; più banalmente alla quasi totale assenza di studi reggiani su questo
Marco GANDINI, Questione sociale ed emitema. Solo recentemente alcune province emiliane o aree culturalgrazione nel Mantovano. 1873-1896, Mantova, Biblioteca archivio, 1984;
mente affini, come il Mantovano, hanno scoperto l'importanza dei
Gilberto CAVICCHIOLl, L'esodo dalle campafenomeni
migratori per la propria storia; grazie a tali ricerche, i
gne del mantovano, Mantova, Istituto mantovano per la storia del movimento di Li- fenomeni migratori di queste aree padane (anche se si tratta di volumi
berazione, 1991
pubblicati localmente) sono ora noti al pubblico degli studiosi
nazionali e internazionali.
E' vero che l'area emiliana è stata meno interessata a flussi
120
migratori di quanto lo siano state le province dell'arco alpino.
Tuttavia il fenomeno è stato durevole e consistente, tanto da condizionare la cultura e lo sviluppo della nostra regione, benché di
ciò permanga una limitatissima coscienza storica. Rispetto alla
presenza emiliana all'estero, va rilevato che i nostri emigrati ed
esiliati hanno messo costruttivamente in comunicazione le esperienze
associative e politiche dei loro paesi d'origine con quelle dei paesi
in cui si trasferivano in modo più o meno stabile. E' questa una
caratteristica che li distingue da molti altri emigrati italiani.
In Svizzera, la prima rete politico-sindacale degli operai italiani
è stata messa in piedi da Vergnanini, durante il suo esilio negli anni
della repressione crispina, con il sostegno degli emigranti reggiani
e mantovani (da qui il ruolo che gli verrà riconosciuto pio tardi
all'interno della Società Umanitaria). Negli Stati Uniti, l'organizzazione dei lavoratori socialisti italiani è stata avviata da emigrati di
Gualtieri e Massenzatico. Più conosciuta a livello locale e internazionale - ma poco approfondita nei suoi aspetti sociali e culturali
- è l'esperienza dei fuoriusciti antifascisti reggiani in Francia, tradizionale terra di rifugio per diverse generazioni di emigranti degli
ultimi decenni del XIX secolo. E' un corposo campo di storia sociale
che attende ancora di essere messo allo scoperto.
Marco Fincardi
121
Institut d'Histoire du temps present,
Écrire /'histoire du temps présent.
En hommage à Francois Bédarida,
Préface de Robert Frank, CNRS Editions, Paris, 1993.
Nel 1978, Pierre Nora - come ricorda all'interno della propria
comunicazione (cfr. De [' histoire contemporaine au present historique) - venne invitato da Jacques Le Goff presso l' Ecole des Hautes
Etudes per dirigere un corso di studi dedicato esplicitamente alla
"Storia del presente". Quel medesimo anno François Bédarida, cui
è stata dedicata dal CNRS la giornata di studi (14 maggio 1992)
che dà origine a questa pubblicazione, prendeva la direzione dell'Istituto di Storia del Tempo Presente. L' IHTP, sul finire degli anni
'70, rilevò dunque l'eredità del Comitato di storia della Seconda
Guerra mondiale, prefigurando esplicitamente la necessità di applicarsi allo studio del dopoguerra. TI passaggio istituzionale, come si
può notare, presenta forti analogie con l'attuale processo di modifica
statutaria in corso nella rete italiana degli Istituti Storici della
Resistenza, dove - sia pure con un forte ritardo e costanti polemiche
- ci si sta attrezzando per rispondere alla crescente domanda di storia
"contemporanea" (ed è precisamente il caso dell'ISTORECO di
Reggio Emilia).
La categoria della contemporaneità, peraltro, viene in Italia troppo
spesso ricondotta ad una semplice questione di avvicinamento cronologico (limitandosi a spostare la "soglia", ad esempio dal 1945
al 1968 ... ), trascurando ogni implicazione metodologica. Questa
miscellanea di interventi, proprio per il carattere di bilancio condotto
sopra un'esperienza ormai lunga quindici anni, consente di comprendere la profondità della riflessione storiografica avvenuta tra gli
storici francesi. Pierre Nora, noto anche in Italia per lo sguardo rivolto
ai "luoghi" della memoria, nel contributo sopra citato tiene alla
distinzione tra storia contemporanea (da intendersi come riabilitazione di una storia dei tempi ravvicinati nei termini di una storiografia
d'impianto classico) e presente storico (nozione che, ben oltre il
necessario riscatto disciplinare, consentirebbe di rendere egemonico,
tra le scienze storiche, il particolare approccio contemporaneaistico).
Sussiste, infatti, una debolezza istituzionale da cui la storia contemporanea è venuta emancipandosi a fatica; tra gli argomenti
123
scientifici a detrimento, hanno pesato soprattutto la difficoltà a
consultare gli archivi e lo schiacciamento della prospettiva temporale,
tale da pregiudicame - sostengono ancora vari accademici - l'obiettività della valutazione. Nora, peraltro, tiene a sottolineare come
l'impegno a favore della storia contemporanea sia stato accompagnato da un movimento storico che ha profondamente mutato la
medesima nozione di contemporaneo. Gli esempi portati sono
numerosi: categorie quali mondializzazione (ovvero, società "senza
storia" che assimilano processi di storicizzazione equiparabili all'esperienza occidentale), accelerazione (il "riscaldamento" della
storia, causato dalla dinamicità dei processi di mutamento), democratizzazione (l'irruzione delle masse sulla scena agita), massmediaPierre NORA, /I ritorno dell'awenirnento, in tizzazione ("l'attualità" si afferma con una propria esistenza che
Fare storia, a cura di Jacques Le Goff e incide nel corso degli eventi), dilatazione (cioè l'allargarsi del
Pierre Nora, Torino, Einaudi, 1981;
Pierre NORA, Les lieux de memoire, Paris, "presente", sino a comportare una rimessa in discussione della
Gallimard, 1984-1986
relazione con il passato intrattenuta da ogni storiografia).
La sequenza tra passato, presente e futuro, in altri termini, ha perso
la tradizionale linearità. Ed il tempo presente, che era semplice punto
di passaggio tra passato e futuro, resta un breve fotogramma ma,
infine, pregiudica la percezione degli altri piani temporali.
Luisa Passerini, che dell'IHTP è collaboratrice, sceglie così di
intervenire recitando le parole di René ehar che aprono un libro
di Hanna Arendt: "la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento". Restituito il passato alla dimensione di un mondo perduto
e a noi straniero, almeno quanto un futuro non più prevedibile, per
il presente non resterebbe che la definizione di "lacuna tra il passato
e il futuro". La Passerini, che si è occupata di fonti orali (largamente
utilizzate in seno all'IHTP), coglie una difficoltà riconosciuta della
"presenza" .
All'incontro fra lo studioso e il testimone dedica uno specifico
contributo Danielle Voldman (cfr. La piace des mots, le poids des
temoins). L"'oralista" è uno storico che sa di restare costantemente
"sotto sorveglianza", esposto come si trova alle contestazioni dei
guardiani della "verità" storica; ma sarebbe proprio un tale tipo di
tensione - tra il presente e il passato, quando non tra il "falso" e
il "vero" - a configurarne lo statuto scientifico e a renderlo cosciente
del proprio operare nel "tempo presente". Vi sono, ancora, altri
operatori del "presente", attivi nel settore dell'informazione, verso
124
i quali gli storici nutrono un crescente sentimento di diffidenza. Eric
Dupin (cfr. Le journalisme) ci ricorda come l'azione dei media debba
interessare lo storico, per l'attitudine dimostrata nella ridefinizione
dell' arena conflittuale della memoria collettiva.
L'altra faccia della "lacuna" è il manifestarsi di un bisogno sociale
di memoria. Esploso l'antico e convenzionale ordine spazio-temporale, non pare quasi possibile che alcun oggetto storico possa mai
trapassare, restando così sempre passibile una sua "contemporaneità"
di ritorno. Come puntualizza François Bédarida (cfr. Temps présent
et présence de l'histoire): "La verità della storia deriva dall'interfaccia tra le componenti del passato - quali ci sono pervenute tramite
le sue tracce documentarie - e lo spirito dello storico che lo ricostruisce e cerca di conferirgli una qualche intelligibilità. Esiste
dunque, necessariamente, correlazione e reciprocità tra il soggetto
e l'oggetto."
Va ricordato come questa riflessione storiografica a più voci, di
cui risulta impossibile restituire la densità in sede di recensione,
interloquisca esplicitamente con il corso dei mutamenti intervenuti
nella società francese degli ultimi vent'anni. Non si tratta solo della
tendenza, pure registrabile, alla frantumazione sociale; la moltiplicazione dei vissuti soggettivi comporta, letteralmente, l'espandersi
della nozione di "con-temporaneità", ovvero la coesistenza problematica di più tempi. Allora, ed è un punto di vista che merita
l'attenzione degli storici attivi nella rete degli Istituti di storia
contemporanea, si comprende come la nozione di "presente storico";
consenta di avvicinare il nostro sguardo ad una realtà sociale caratterizzato dalla compresenza - sul piano spaziale e temporale - di
epoche ed esperienze tanto "altre" quanto destinate ad influenzarsi
reciprocamente.
Antonio Canovi
125
G. CAROLl,
/I mio raccontare è lontano. Carpineti e la seconda
guerra mondiale. Le lettere dei caduti,
Comune di Carpineti, 1995.
La montagna reggiana è ancora un oggetto storiografico in buona
parte inedito. Frequentazioni matildiche a parte e pochi altri squarci
sparsi, ancora gran parte delle sue vicende storiche, della sua gente,
della sua anima restano da approfondire. L'epoca contemporanea in
particolare è un territorio assolutamente trascurato. La ricorrenza del
cinquantesimo della Resistenza poteva essere una occasione importante per riscoprire tracce importanti di un passato che, mai come
in quei venti mesi, ha visto l'appennino reggiano al centro degli
avvenimenti. L'occasione è invece andata sostanzialmente perduta
e il libro di Giovanna Caroli è una piacevole eccezione.
Di fronte al rischio, serio e pressante, della perdita della memoria
storica, l'autrice (che già aveva ben operato su temi analoghi nel
territorio di Casina) affronta la strada più diretta e corretta, recupera
le fonti, risale alle radici della memoria, riannoda i fili di un passato
che merita ancora di essere riportato alla luce. In un periodo in cui
troppe volte i testimoni vogliono giocare agli storici, abdicando al
ruolo fondamentale che l'esistenza ha loro attribuito, questo volume
sceglie la strada opposta, sceglie gli scomparsi, i caduti, gli sconfitti
e ce li presenta attraverso le loro lettere, attraverso le parole-spesso
incerte di montanari appena scolarizzati-che le famiglie hanno ricevuto, fino al silenzio finale.
La civiltà dell'immagine annulla il passato e il futuro schiacciando
tutto in un eterno presente televisivo. La montagna è un luogo dove,
forse per la maggior inerzia nei cambiamenti, è ancora possibile
recuperare e salvare un patrimonio importante. Ma sono le ultime
occasioni offerte prima che il tempo disperda anche questo patrimonio e prima che l'incuria e la superficialità dei contemporanei
compiano l'ultimo scempio.
Il mio raccontare è lontano nasce da una ricerca seria ed è un
buon libro, perché alla ricerca unisce i sentimenti fino a sfiorare
l'emozione nel far parlare quelle persone che la guerra ha condannato
al silenzio.
"Ti aspetti il fronte e trovi la casa, ti aspetti il soldato e trovi
127
l'uomo, ti aspetti di sentir raccontata la guerra e trovi dipinta la
pace". Nella conclusione l'autrice traccia un bilancio del lavoro
svolto, lavoro compiuto con pudore nell'entrare nelle vite altrui, nei
sentimenti, nelle speranze e nelle paure. Lettera dopo lettera, soldato
dopo soldato, il dolore che trapela dalle pagine non confonde mai
però la prospettiva, non cede al rischio di un facile livellamento al
basso dei valori. La morte che ha segnato quelle esperienze non è
un viatico alla confusione o al fatalismo. Quei ragazzi mandati a
morire al fronte non sono state le vittime di un caso sfortunato, ma
i testimoni muti di una parte dolorosa della nostra storia, di una guerra
sbagliata e persa
che solo i venti mesi dopo il settembre '43
avrebbero riscattato.
La commozione è il sentimento dominante, percezione di quella
humanitas che la quotidianità del racconto ci riporta (i soldi, le
piccole necessità, i nuovi luoghi, le piccole e grandi difficoltà
quotidiane) sia che scriva il mezzadro che con la penna non ha
confidenza-e pensa e scrive in dialetto-sia che il borghese agiato
scherzi e alluda con sottili giochi di parole. Persone dello stesso
paese-Carpineti-che forse nella vita avrebbero dovuto rispettare le
tacite gerarchie di classe, nelle parole dal fronte alle famiglie diventano tessere uguali di un tragico mosaico che non avebbero mai
potuto contemplare nella sua complessità.
Nelle parole dette e ripetute, nei saluti, nelle speranze deluse,
rimane la morte come protagonista che colpisce in azione, o per
malattia, o per incidente anche dopo la fine della guerra. E'la morte
che sorveglia e sceglie il momento per colpire, è la morte che congela
la memoria in un momento definito e la tragedia perpetua il ricordo
di chi non ha potuto avere un futuro.
Attraverso gli epistolari le storie dei singoli ci conducono sulle
tracce della 'grande' storia che ha lambito e colpito anche la nostra
montagna. Così il primo caduto nel febbraio 1936 in Africa Orientale,
e il fratello caduto nel '40 sul fronte occidentale e il soldato analfabeta che non conoscerà mai la figlia perchè cadrà sul fronte greco
nel '41. E ancora il mezzadro catturato nella operazione Wallenstein
I (l luglio '44) portato a Bibbiano e poi in Germania.O ancora il
giovane ufficiale travolto dal crollo del fronte russo che nell'ultimo
natale, pochi giorni prima della fine scrive nell'ultima lettera quasi
un incoscio addio: "Se questa mia ha lafortuna di trovarvi tutti uniti,
128
come la vecchia usanza, rammentatemi come io vi ricordo ... ".
L'impegno della Caroli ci conferma ancora una volta l'importanza
della 'scrittura popolare' per la ricostruzione corretta di un periodo
storico e va reso merito al Comune di Carpineti di aver creduto e
sostenuto questa operazione di notevole rilevanza e che ha pochi
altri esempi nel nostro territorio (ricordo la raccolta, curata da
Antonio Zambonelli, delle lettere di Tonino Montanarini di Poviglio).
La speranza è che la montagna reggiana raccolga un interesse ancora
maggiore in futuro consentendo nuovi approfondimenti che consentano di salvare, almeno in parte, un patrimonio di memoria e di
esperienze di grande rilevanza.
Massimo Storchi
MARCO MINARDI,
L'orizzonte del campo. prigionia e fuga
dal campo PG49 di Fontanellato (1943-1944),
Comune di Fontanellato, 1995.
Proseguendo nel suo cammino di ricerca, caratterizzato dalla scelta
di oggetti mai banali o scontati, Minardi incontra di nuovo (dopo
il suo Tra chiuse mura di qualche anno fa dedicato al campo di
Montechiarugolo) il problema della prigionia alleata in Italia, problema che attende ancora, pur dopo l'interessante A strange alliance
di Roger Absalom, un inquadramento complessivo. E dire che si tratta
di un fenomeno certo non di piccolo respiro, considerato come, allo
scadere della data fatidica del 8 settembre 1943 i prigionieri alleati
detenuti in Italia sfiorassero le 70.000 unità.
In un certo senso si può dire che la storia del PG49 di Fontanellato
sia venuta incontro a Minardi, date le contiguità territoriali con
l'autore, e l'attività svolta dallo storico nell'ultimo periodo incentrata
proprio sull' acquisizione di nuove fonti documentarie alleate.
La ricorrenza del 50° della Liberazione non ha portato una fioritura
di contributi storiografici di livello rilevante, troppo spesso ci si è
130
limitati alla memorialistica rivisitata, alle celebrazioni di rito, alla
lettura in chiave quotidiana e di breve respiro di un periodo invece
decisivo per la nostra storia contemporanea.
Anche per questo va segnalato il lavoro di Minardi e la serietà
di una amministrazione comunale che ha voluto mettere a fuoco parte
del proprio passato seguendo un percorso corretto di ricerca e di
comunicazione.
Qualche hanno fa un tema in voga di discussione era incentrato
sul rapporto fra storia locale e storia nazionale, come se la prima
potesse vivere senza un legame essenziale con la seconda e quest'ultima non fosse in effetti una proiezione e una sintesi delle
complessità legate a realtà territoriali più limitate.
Con L'orizzonte del campo. prigionia e fuga dal campo PG49 di
Fontanellato (1943-1944), l'esempio più corretto di questo rapporto
diventa realtà, la storia locale si lega alla storia internazionale e
ripropone la centralità di una regione come l'Emilia crocevia e
crogiolo nel periodo bellico e nella Resistenza di razze, persone e
vicende.
L'esistenza del PG 49, battezzato con humour anglosassone "Il
Ritzhotel dei campi di prigionia", ci conduce attraverso il fenomeno
della detenzione militare nell'ultimo anno di guerra, quel terribile
1942-43 che segna ancora, nella memoria dei testimoni, uno spartiacque decisivo. Quei 700 militari inglesi che a Fontanellato vivono
in una forma di prigionia "pubblica"(considerata la dislocazione del
campo quasi al centro del borgo) sono un osservatorio unico per
leggere, attraverso la quotidianità della vita, il volgere di una guerra
che nella provincia parmense arriva per molto tempo solo con questa
presenza inconsueta e curiosa, confronto singolare con un mondo
ufficialmente "nemico" ma che viene scoperto, giorno per giorno,
nella sua realtà umana e personale.
Conoscenza reciproca anche, e non solo per la dislocazione così
poco strategica del campo, ma anche per la elevata permeabilità fra
l'ambiente esterno e il mondo dei detenuti, capaci di stabilire rapporti
quasi normali con la popolazione che supera in breve tempo la
divisione fisica imposta dalle circostanze.
Quella permeabilità sarà poi decisiva nel momento più difficile,
quando con il 9 settembre 1943 il campo passerà in mano ai tedeschi
e si aprirà una nuova pagina, dura e dolorosa, della storia di Fon131
tanellato e dell' Italia tutta.
Ma quella giornata è un momento altrettanto speciale, i prigionieri
diventano alleati ed escono dal campo per sfuggire al nemico. Non
è una fuga, è una evacuazione programmata quella che con ordine
e stile britannico viene messa in opera. Ora, all'esterno i soldati sono
soli e l'incontro con la gente sarà decisivo nella loro sorte, sia per
quelli che cercheranno la salvezza al nord (verso Milano, Como e
la Svizzera), quelli che tenteranno la strada del fronte a sud e di
quei pochi che rimanendo sulle nostre montagne si uniranno di lì
a poco ai primi gruppi partigiani.
Sono infinite storie personali che uno di quei soldati Eric Newby
ha raccontato nel suo Amore e guerra negli Appennini, storie fatte
di incontri fortunati e non, di atti generosi (tanti) e di incomprensioni
(poche).
Minardi dedica un giusto spazio anche alle vittime, a quanti, nella
tragica normalità di giornate terribili, ha pagato la solidarietà offerta
al nemico spesso con il prezzo più alto.
L'autore organizza materiali diversi, unisce testimonianze d'archivio e fonti orali in una pluralità di oggetti amalgamati a formare
un racconto, capacità questa, come noto, non frequente fra quanti
scrivono di storia sotto i patri cieli.
È tipico di un racconto la capacità di rendere l'humour inglese
e la banalità della noia della prigionia, il confronto fra culture diverse
fino alla autocritica che segue alla presunzione, come ammetterà il
cap.Williams in una ideale chiusura del racconto: "Questi italiani
ci hanno scosso; abbiamo sempre pensato male di loro (devo dire
che ancor oggi non è che li rispetti granchè) ma la loro generosità
ci ha mostrato come un pessimo governo possa rovinare brava
gente".
Massimo Storchi
132
STATUETTE
.. .1'amministrazione Comunale diede incarico al Maestro Antonio
Zambonelli nel lontano 1982, ... 11 lavoro di ricerca, terminato nel
1987 ... ma solo ora sono state trovate le risorse per la sua pubblicazione. [Gianni DALL' AGLIO, Presentazione in Antonio
ZAMBONELLI, Castelnovo Sotto 1921-1946. Un paese tra due
dopoguerra, Amministrazione Comunale di Castelnovo Sotto, 1995]
Rileggendo, nel febbraio 1991, ... questo mio lavoro ... non ho
ritenuto di dover apportare alcuna modificazione al testo ... il
dattiloscritto del volume ha girato molte mani, comprese quelle del
fascista Pisanò, ciò di cui l'autore medesimo si è non poco dispiaciuto [ Antonio ZAMBONELLI, 1ntroduzione, in Ibidem]
Nelle pagine di questo libro alla rapida sintesi dei precedenti, cioè
delle lotte contadine del passato per la conquista di migliori condizioni di vita e di lavoro nelle campagne, seguono la narrazione
degli avvenimenti del periodo 1943/1945, la caratterizzazione regionale e ambientale delle zone agrarie, alcune note essenziali
storico-bibliografiche sulla resistenza, la raccolta di testimonianze
storiche e letterarie, una documentazione iconografica, l'indicazione
dei provvedimenti legislativi di interesse agrario assunti nel Regno
del Sud e nella repubblica di Salò, la cronologia. [Pasquale VILLANI, Presentazione in Le campagne italiane e la Resistenza, Istituto
Alcide Cervi (a cura di), Bologna, Grafis, 1995]
Sul numero 77 di RS - Ricerche Storiche, Massimo Storchi, nel
suo Editoriale, sollecita una riflessione sulle mitizzazioni della
Resistenza e sul rapporto tra la storiografia e la politica.
Ci pare che inquesto quadro vada inserita una valutazione di due
prodotti tanto differenti per ambito e ambizioni come il volume di
Zambonelli e quello del Cervi.
Distanti si diceva quanto a luoghi e tempi, ma simili quanto a
ambiti di mito e soprattutto a rapporto con la politica.
Che dire di un libro che esce tredici (le date delle citazioni sono
corrette) anni dopo la sua stesura?
Che dire recensendo un libro che, ancor prima di essere pubblicato
ha subito strani destini, vedi i lettori indesiderati?
Nulla ci pare di potere criticare di quanto Zambonelli ha fatto:
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è autore troppo avveduto, troppo onesto dal punto di vista storico
e corretto da quello scientifico perché gli si possano fare le pulci
in un campo, quello della storia locale reggiana, e su temi, quelli
del fascismo e della resistenza, in cui è stato maestro a più di una
generazione di ricercatori e studiosi.
Che dire del volume dell'Istituto Cervi? Che raccoglie contributi
di indubbio valore scientifico. Che si incentra su di un tema di grande
interesse, il rapporto tra i contadini e i poteri diversi (fascismo,
monarchia, partigiani, alleati, ecc.). Neppure in questo caso ci è parso
di potere trovare un contributo con cui non concordare.
Molto, invece, ci pare si possa riflettere su entrambe queste
operazioni.
Molto si può riflettere sul perché si pubblichi nel 1995 un libro
scritto nel 1982, perché si pubblichi un libro di storia locale, perché
si pubblichi un libro su questi temi, ecc. Molto si può riflettere sulle
'formula libro'. Molto si può riflettere sul perché, come e quando
si possa fare storiografia locale in queste nostre lande il cui passato
pare spesso più glorioso del presente.
Oltre alla mitizzazione della tematica resistenziale, da cui deriva
questo glorioso passato, ci pare si debba innanzitutto riflettere sul
ruolo mitico assunto dal libro.
Bisogna che si dichiari, prima o poi, che oggi spesso si pubblica
non per fare conoscere, ma per dare riconoscimento, o forse per
attestare riconoscenza, a chi di quelle glorie fu attore e protagonista.
Il libro, così, non è più uno strumento di diffusione delle conoscenze, ma un tributo.
Questa volontà spiega la perversa logica che porta a pubblicare
presso stampatori che non sono in grado di assicurare alcuna circuitazione ai volumi, che poi viaggiano attraverso canali clandestini
destinati a raggiungere solo pochi addetti ai lavori, qualche appassionato e quei reduci delle patrie battaglie che sono oggetto di tardivo
riconoscimento.
Ci pare, onestamente, gravato da un illusoria visione romantica:
la speranza che un volume come questo possa essere strumento per
fare conoscere il passato, per farlo conoscere a chiunque, ma men
che meno ai giovani; libri che si presentano già nascendo vecchi
e di difficile utilizzo: uno perché pubblicato l3 anni dopo la sua
stesura, l'altro perché alla logica di l3 anni fa appartiene.
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La questione dei supporti di comunicazione non è così secondaria
come si vorrebbe fare credere; la scelta tra stampa, editoria, cinematografie (in pellicola o video), elettronica ecc. è oggi un problema
strategico con cui la storia deve fare i conti, nel momento in cui
si dichiara da ogni parte che chi fa ricerca è sempre più condizionato
da ristrettezze economiche. Eppure nessuno di coloro che si dibatte
in queste situazioni rinuncia a pubblicare volumi che sa benissimo
non avranno diffusione.
Non si può d'altra parte pensare che chi amministra un Comune
o dirige un Istituto di studi nazionale sia all'oscuro della rivoluzione
informatica, che non arrivi a pensare che se si deve produrre un
contributo per i 100 centri di ricerca esistenti in Italia sia più
opportuno farlo inviando alcuni dischetti che possano essere letti da
un PC, piuttosto che avere un quintale di carta inutilizzata nello
scantinato.
Allora eccoci tornare al punto: non alla conoscenza sono destinati
questi contributi, frutto del serio lavoro dei ricercatori, pregni di
informazioni interessanti e coinvolgenti, ma al riconoscimento:
piccoli monumenti da tenere sullo scaffale.
Marco Paterlini
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IL CIRCO DELLA COMUNICAZIONE
Voglio segnalare l'uscita di tre titoli, collegati dal tema degli
strumenti della comunicazione.
Si tratta di:
PEPPINO ORTOLEVA,
Mediastoria, comunicazione e cambiamento sociale nel
mondo contemporaneo, Parma, Pratiche 1995;
O. CALABRESE-U. VOLLI,
I telegiornali, istruzioni per l'uso,
Roma-Bari, Laterza 1995;
La comunicazione,
a cura di M.Morcellini- A.Abruzzese, Roma,
StampaAlternativa 1995.
Anche se i media- siano essi tradizionali o innovati vi- permeano
e ristrutturano quotidianamente i modi della percezione e le visioni
del mondo in milioni di persone, volentieri l'attenzione dei contemporaneisti italiani ha evitato di confrontarsi con le problematiche che
ormai da quasi due secoli- da quando cioè fu presentata pubblicamente l'invenzione della fotografia- sono pratiche quotidiane ed
esperienziali delle società.
Salvo eccezioni, penso a Gianni Isola e allo stesso Ortoleva, il
modo di approccio dello storico è spesso stato quello di utilizzare
gli articoli di un periodico, le foto, i filmati, come fonti ulteriori,
sicuramente decorative e anche "pittoresche", di un discorso predeterminato sulla "classica" fonte, che, in questa dialettica, diviene
più che documento, monumento.
Così il compito di studiare, di verificare i mutamenti, di analizzare
gli impatti sociali- a meno che non si tratti della canonica "battaglia
delle idee"- viene gentilmente lasciato ad altri scienziati -sociologi
della comunicazione, semiologi, antropologi culturali- e la stessa
potenzialità documentale dei media, correttamente intesa, si discioglie nelle pubblicazioni storiche o in una giustapposizione illustrativa
o in operazioni di valorizzazione estetizzante di fondi inediti.
Eppure il telegiornale o l'avvento della digitalizzazione, non sono
semplici invenzioni o protesi da applicarsi ad una società che,
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sviluppandosi, prosegue il suo radioso o tenebroso cammino.
"I media danno forma al sistema delle relazioni sociali nei loro
diversi ambiti, pubblici e privati", dice Ortoleva a p. 209, rapporti
sociali nei quali anche gli storici vivono.
E i media non solo posseggono già una loro storia segnata da forti
rinnovamenti e da integrazioni tra "vecchio e nuovo", ma anche,
almeno oggi sullo scorcio del millennio, hanno trovato nella televisione il perno su cui costruire il processo comunicativo, il modello
su cui imbastire qualsiasi discorso narrativo, rendendo obsoleto
qualsiasi schematismo morale e/o ideologico.
La raccolta di saggi di Ortoleva, centrata com'è nell'obbiettivo
di "giustificare" l'interesse da parte di uno storico per tutto il mondo
dei media e, di conseguenza, sforzandosi di dotarsi di una strumentazione teorico-metodologica, è un libro utile, importante, talvolta
un po' difficoltoso per chi non si è mai interessato e un po' troppo
risicato per chi ha più dimestichezza con i temi trattati.
Il libro di Calabrese-Volli, che tentano un percorso maggiormente
"divulgativo", non a caso appare nella collana economica e reca il
sottotitolo Istruzioni per l'uso, dimostra come studiosi di altra
formazione, possano affrontare con sensibilità non solo espositiva,
temi e argomenti "tradizionalmente" di ambito storiografico: ad
esempio l'impatto della Guerra del Golfo in occidente con l'accurata
schermatura e gestione dell'intera comunicazione dell' evento operata
in quei mesi( pp. 124-128).
Il cofanetto di StampaAlternativa, nato dall' idea di creare efficaci
ed sintetiche dispense universitarie, offre utili strumenti e notazioni
sulla complessità del mondo della comunicazione: dalla cultura del
consumo alle interpretazioni sull' offerta televisiva in Italia.
C. Mario Lanzafame
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Finito di stampare
nel mese di marzo 1996
dall 'AGE grafico-editoriale,
Reggio Emilia