A quale laicità votarsi?
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A quale laicità votarsi?
A quale laicità votarsi? di Stéphanie Le Bars in “Le Monde” del 11 gennaio 2014 (traduzione: www.finesettimana.org) In nome della “laicità”, un tribunale ha recentemente costretto l'amministrazione penitenziaria a servire dei pasti halal a dei detenuti musulmani. In nome della “laicità”, una scuola, un anno fa, ha pensato di togliere Babbo Natale ai bambini in occasione della festa di fine anno. In nome della “laicità” una dipendente protestante di un ufficio pubblico è stata sanzionata per aver distribuito dei calendari che avevano il logo della sua Chiesa. In nome della “laicità” ad alcune mamme con il velo è regolarmente proibito accompagnare i loro figli in gita scolastica. Ed è ancora in nome della “laicità” che i responsabili politici di destra e di sinistra si azzuffano ininterrottamente da anni, escogitando proposte di legge, rapporti e controproposte per far fronte a supposti attentati nei confronti di questa nozione eretta a quarto pilastro della Repubblica francese, dopo (o con) la libertà l'uguaglianza e la fraternità. Nel corso del dibattito, questo “concetto valigia” secondo l'espressione di Jean-Louis Bianco, Presidente dell'Osservatorio della laicità, ha comunque dato luogo ad una ragguardevole inflazione grammaticale: la laicità è stata di volta in volta “positiva”, “restrittiva”, “falsificata”, “esigente”, “alla francese”, “di lotta”, “d'integrazione”, “severa”, “pacificata”, o ancora “repubblicana”. Questo arricchimento sospetto è per molti la prova che non c'è più nessuno che sappia più bene in cosa consista il “principio di laicità”, che si è forgiato in Francia nel corso dei secoli. Anche tra coloro più ben disposti a difendere questo principio, una confusione si è ingenerata progressivamente tra diverse nozioni: laicità, neutralità religiosa, separazione di Chiese e Stato, difesa dell'uguaglianza uomini-donne e della promiscuità. Un percorso attraverso la storia pertanto si impone, per meglio cogliere l'idea “rivoluzionaria” che forgiò a poco a poco il principio di laicità e per decriptare i malintesi o le deviazioni dei quali oggi è fatto oggetto. Il termine stesso ha subito evoluzioni nel corso del tempo. Costruito sul vocabolo greco “laos” (“popolo”) nel XIII secolo, il termine “laico” intendeva allora separare i chierici, coloro che amministrano i sacramenti, dai credenti che li ricevono. All'inizio del XIX secolo, la nozione si amplia e viene ad indicare tutto ciò che è esterno al mondo religioso, includendo modi di pensare indipendenti dalla legge divina. “La laicità è la rottura con l'ordine trascendentale” sintetizza Philippe Portier, direttore del Gruppo società, religioni, laicità alla École pratique des hautes études (EPHE). Questo approccio riprende un'idea in nuce nei principi rivoluzionari del 1789 e nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, che mettono l'accento sulla sovranità della nazione e del cittadino, credente o meno. Ma, in una società segnata dall'egemonia secolare della Chiesa cattolica, questo cambiamento di modello richiederà parecchi decenni per imporsi. Negli anni 1820-1830, la necessità di una netta separazione tra Stato e Chiese – una specificità francese – fa il suo cammino. Occorrerà tuttavia attendere Ferdinand Buisson e il suo Dictionnaire de pédagogie, pubblicato nel 1887, per avere una definizione formalizzata di laicità. Il futuro presidente della Commissione parlamentare che redigerà il testo della legge di separazione delle Chiese e dello Stato nel 1905 definisce la laicità come l'indipendenza dello Stato in rapporto alle religioni e a ogni concezione teologica, l'uguaglianza dei cittadini qualunque sia il loro credo, e la libertà di tutti i culti. “Queste idee comportavano l'autonomia del soggetto e la neutralità del potere pubblico nei confronti delle religioni”, precisa il sociologo Jean Baubérot, autore di La Laïcité falsifiée (La Découverte, 2012). Se, dopo Ferdinand Buisson, si dovesse far riferimento ad alcune delle numerose definizioni alle quali si sono impegnati responsabili politici e intellettuali, si potrebbe scegliere quella, filosofica, di Régis Debray, che, nel 2003, nel suo rapporto sull'insegnamento del fatto religioso nella scuola laica, spiegava: “la laicità non è una opzione spirituale tra altre, essa è ciò che rende possibile la loro coesistenza, perché ciò che è comune sul piano del diritto a tutti gli uomini deve avere la precedenza su ciò che li separa sul piano di fatto” Baubérot aggiunge: «La laicità non combatte le religioni ma il clericalismo come pretesa di esercitare il potere. Parallelamente, il processo di secolarizzazione ha permesso che le credenze siano individualizzate, non che spariscano completamente». Per parte sua, Jean-Marc Sauvé, vicepresidente del Consiglio di Stato, normalmente chiamato a emettere sentenze nel proprio campo, ricorda: «La laicità non è la negazione del fatto religioso o la sua ignoranza da parte del potere pubblico, ma il rispetto delle opinioni religiose. È l'esigenza della neutralità religiosa dei servizi pubblici, ma questo non ha mai comportato un ateismo di Stato». Custode del tempio, il Consiglio costituzionale ha di recente offerto la propria definizione condensata di laicità alla francese: «Neutralità dello Stato, non-riconoscimento dei culti, rispetto di tutte le credenze, eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge senza distinzioni di religione, garanzia del libero esercizio del culto e il fatto che la Repubblica non sovvenziona alcun culto». A dispetto di forti opposizioni, questa concezione si è forgiata durante le discussioni preliminari all'adozione della legge, nel 1905. Bisogna ricordare che questa legge fondatrice non impiega mai il termine “laicità”, ma organizza giuridicamente e politicamente le relazioni tra lo Stato e i culti concordatari – cattolicesimo, protestantesimo e ebraismo? E che la Francia diventa costituzionalmente laica solo nel 1946? La legge del 1905 segna la fine dei crocifissi nello “spazio pubblico”: proibisce infatti “di erigere o apporre qualsiasi segno o emblema religioso sui monumenti pubblici o in qualsiasi spazio pubblico, ad eccezione di edifici per il culto o monumenti funebri”. Nel corso del XX secolo, l'assenza totale di segni religiosi nei servizi pubblici, l'accoglienza senza differenze degli utenti, qualsiasi sia la loro confessione, si impongono come i segni più evidenti di questa nuova neutralità. Ma al di là di queste riserve di base, è la visione di Aristide Briand, relatore della legge, che si impone. Questo partigiano della libertà di coscienza e del culto, difensore dell'espressione sociale del fatto religioso, si impone su coloro che vogliono relegare la religione nello spazio privato, come il presidente del Consiglio, Emil Combes. «Per Aristide Briand, spiega Philippe Portier, la strada era concepita come un prolungamento della sfera privata: non doveva essere asettica. Quando Emil Combes propone di proibire l'uso di abiti religiosi per le strade o le processioni religiose, Briand ritiene che si tratti di attentato alla libertà di coscienza. Lui difende soprattutto la separazione – più forte rispetto ad altri paesi - tra l'ordine dello Stato, che è la Ragione incarnata, e la credenza. Di qui la proibizione di segni religiosi per il personale dello Stato”. Né di più né di meno, si avrebbe voglia di dire oggi. Perché, per la maggior parte degli specialisti, è questa nozione di “neutralità” dello Stato nei confronti delle religioni che, strumentalizzata o realmente incompresa, suscita da alcuni anni la più grande confusione “Oggigiorno, ci si trova di fronte a numerosi “combisti”, che hanno una tendenza a confondere l'ordine dello Stato con lo spazio pubblico, ritiene Philippe Portier. Voler neutralizzare le strade, i commerci, le associazioni, non è la laicità originale. Nel 1905, la strada prolungava lo spazio privato. Nel 2013, c'è la tentazione a far sì che la strada prolunghi lo spazio dello Stato”. “Da 25 anni, responsabili politici sembrano voler allargare la neutralità del potere pubblico al cittadino, rincara Jean Baubérot, Se i repubblicani del 1905 hanno potuto essere liberali su questi problemi, è perché avevano fiducia nella Repubblica. Oggi, questa fiducia, sembra essere scomparsa”. Avendo di mira principalmente l'islam, gli uni, come Marine Le Pen, vogliono, in nome di una laicità reinventata, proibire “il velo e la kippa sulle strade”. Altri, come una senatrice del Partito radicale di sinistra, Françoise Laborde, propongono di proibire il velo alle donne che curano bambini a domicilio. Nella scia, un deputato UMP, Eric Ciotti, difende una proposta di legge che mira a proibire qualsiasi segno religioso nei luoghi di lavoro privati... Senza preoccuparsi di sapere se la società si trovi di fronte ad un sconvolgimento dell'ordine pubblico, ad un proselitismo attivo, a un attentato alla sicurezza – criteri generalmente ammessi per limitare l'espressione della libertà religiosa. Regolarmente, i responsabili religiosi si inquietano di questo clima, denunciando una “laicità radicale” come Joël Mergui, presidente del Concistoro israelita di Francia. Il nuovo presidente della conferenza episcopale francese non ha detto cose diverse a François Hollande il 7 ottobre: Mons. Georges Pontier ha messo in guardia contro “lo slittamento della laicità dello Stato verso un desiderio di laicizzare la società e di lasciare solo la vita privata come spazio della dimensione di fede”. Il filosofo Jean-Marc Ferry, autore di Lumières de la religion (Bayard, 2013), denuncia “la scomunica politica del religioso, una separazione che diventa malauguratamente una amputazione”. L'attaccamento di alcuni alla neutralità religiosa integrale ha innegabilmente messo radici con la presenza dell'islam come seconda religione di Francia. Pratiche alimentari e di abbigliamento che debordano nella vita sociale sono viste in contrasto con una società largamente secolarizzata, benché sempre culturalmente segnata dal cristianesimo. Questo nuovo dato provoca ricorrenti dibattiti sulla proibizione a portare il velo islamico, che concentra tutte le tensioni. Nel suo rapporto del 2003 “Per una nuova laicità” consegnato all'allora primo ministro Jean-Pierre Raffarin, il deputato (UMP) François Baroin, allora vice-presidente dell'Assemblea nazionale, auspicava “una chiarificazione” di questi problemi e riassumeva perfettamente la posta in gioco “culturale” che il rispetto della laicità assume ormai per alcuni. “I repubblicani devono essere pronti ad assumere le conseguenze del fatto che certi comportamenti, che sono ammessi in altri paesi o altre culture, non hanno il loro posto in Francia e devono dunque essere disapprovati e in alcuni casi combattuti”. Jean Baubérot vede in questo rapporto una svolta. “La “nuova laicità”, marcatore culturale della identità francese, si trasforma in catto-laicità” ritiene. Per Jean Glavany, specialista del tema del Partito socialista, è un dato ormai scontato: “Per la maggioranza della destra francese, difendere la laicità oggi non è né più né meno che proteggere le radici cristiane della Francia contro la minaccia musulmana”. “Questa volontà di instaurare una laicità di sorveglianza è in gran parte legata al “panico morale” che, da una trentina d'anni si è impadronito della società di fronte al rischio di dissoluzione di se stessa e delle sue difese morali o culturali”, ritiene, da parte sua, il ricercatore Philippe Portier. Questa concezione radicale della laicità si scontra regolarmente con il diritto e con le posizioni del Consiglio di Stato. “Dalla fine del XIX secolo, il Coniglio di Stato è su di una linea da cui non ha deviato”, spiega Sauvé. La sua bussola è: la libertà è la regola, la restrizione l'eccezione”. Da qui le sue riserve sulla legge del 2010 contro la dissimulazione del volto nello spazio pubblico. Di fatto, il Consiglio di Stato diffonde regolarmente indicazioni piuttosto favorevoli all'esercizio del culto. E i tentativi per limitare la macellazione rituale o proibire l'indossare segni religiosi al di fuori dei servizi pubblici non hanno finora avuto successo. Portier vede in questa giurisprudenza una continuità e una fedeltà a “lo spirito di Briand”, caratterizzato dalla difesa della libertà di coscienza e di culto. “In materia di finanziamento, la legge del 1905 ha previsto essa stessa i primi accomodamenti. Sono stati completati fin dal 1920. A partire dal 1950, si constata anche un maggior riconoscimento del fatto religioso nello spazio sociale. La legge Debré, nel 1959, lo manifesta facendo della scuola privata un elemento del sistema educativo. Si può anche citare l'introduzione dell'obiezione di coscienza per motivi religiosi, la presa in considerazione delle feste religiose per i congedi dei funzionari, le misure bancarie o fiscali che facilitano il finanziamento dei luoghi di culto” Oggi, questa laicità aperta perdura, anche per l'islam, attraverso gli incontri regolari tra poteri pubblici e religiosi, e i dispositivi di finanziamento indiretto... Ma essa deve ormai ripensarsi di fronte ai principi dell'uguaglianza uomo-donna e dell'autonomia degli individui, che alcuni giudicano incompatibile con ogni credenza religiosa. In questo contesto, il portare il foulard islamico è diventato il simbolo dei supposti attentati a questi due principi. La promiscuità, nozione recente nella maggior parte delle società democratiche, è presa in considerazione per contestare certe pratiche musulmane, come le richieste di attività sportive e culturali riservate solo alle donne. “Aggiungete a questo contesto un discorso globale sul religioso di cui si diffida e da cui si ritiene di doversi “proteggere”, si può dire che la laicità è entrata in una nuova fase ibrida”, pensa Portier. In buona o in malafede, i confini della laicità sono oggi problematizzati, resi fragili a motivo della rimessa in discussione della frontiera tra pubblico e privato, tra “missione di servizio pubblico” e “missione di interesse generale”, queste famose “zone grigie” che qualcuno vorrebbe codificare meglio. Tuttavia persino il militante Collettivo contro l'islamofobia in Francia (CCIF) riconosce che la maggioranza dei conflitti si risolve per mezzo della mediazione. La battaglia giudiziaria ingaggiata da 5 anni con il caso dell'asilo nido Baby Loup, i colpi di scena a ripetizione di una giustizia che non sembra più sapere a quale laicità votarsi, lo sfruttamento politico al quale questo caso dà luogo, costituiscono un contro-esempio di questa realtà. Illustra, soprattutto in modo spettacolare, la porosità in questi problemi tra l'ambito politico e quello giudiziario. In Francia, la lunga storia della laicità ha tuttavia permesso di delineare un inquadramento e fornisce sempre un arsenale legislativo e giuridico coerente. A parte qualche aggiustamento, la società francese avrebbe ogni interesse a riappropriarsene.