Lettera – Psicoanalisi e contemporaneità

Transcript

Lettera – Psicoanalisi e contemporaneità
Lettera
rivista di clinica e cultura psicoanalitica
Lettera
rivista di clinica e cultura psicoanalitica
n. 3 – 2013
Joyce
Sinthomo, arte, follia
Lettera
Sommario
rivista di clinica e cultura psicoanalitica
comitato scientifico
Laura Bazzicalupo (Università di Salerno), Giovanni Bottiroli (Università di Bergamo),
Pierre Bruno (APJL – Parigi), Fulvio Carmagnola (Università di Milano-Bicocca),
Roberto Esposito (SUM – Sede di Napoli), Simona Forti (Università del Piemonte
Orientale), Costantino Gilardi (Association Lacanienne Internationale – Torino),
Patrick Landman (Espace Analytique – Paris), Paola Mieli (Après-Coup Psychoanalytic
Association – New York), Isabelle Morin (APJL – Bordeaux), Michel Plon (CNRS – Paris),
Gérard Pommier (Espace Analytique – Università di Strasburgo), Massimo Recalcati
(Associazione Lacaniana Italiana – Milano, Università di Pavia), Rocco Ronchi (Università
dell’Aquila), Pieraldo Rovatti (Università di Trieste), Sarantis Thanopulos (Spi – Napoli),
Silvia Vegetti Finzi (Università di Pavia).
comitato di redazione
Giovanni Mierolo (coordinatore), Arianna Marfisa Bellini, Battistina Bertino,
Federico Chicchi, Giorgia Fracca, Monica Manzotti, Antonella Ramassotto, Giancarlo Ricci.
segreteria di redazione
Federico Chicchi (coordinatore), Arianna Marfisa Bellini, Daniele Benini, Doriana Di Dio,
Micaela Riboldi, Claudia Rubini.
traduzioni
Costanza Costa, Giorgia Fracca, Anna Zanon.
La redazione della rivista ha sede in via Irnerio 16 – 40126 Bologna
Tel. 051 0452417
[email protected]
www.alidipsicoanalisi.it/rivista-lettera
Tutti i diritti riservati
© 2013 et al. S.r.l.
via Aristide de Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: febbario 2013
ISBN 978-88-6463-094-6
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa
in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico
o altro senza l’autorizzazione scritta dei titolari dei diritti e dell’editore.
Progetto grafico della copertina di Davide Fornari
In copertina: Edoardo Fraquelli, Senza titolo, 1965
tempera su carta intelata (particolare), 21 × 32 cm, collezione privata
www.etal-edizioni.it
1 Editoriale
7
monografia
9 Joyce Glossografo
Gérard Pommier
17 A monte del sogno
Pierre Bruno
27 Il sinthomo cancella la differenza tra nevrosi e psicosi?
Patrick Landman
32 Telemachia
Massimo Recalcati
51 Sintomo, sinthome e clinamen:
Joyce e la questione del determinismo in psicoanalisi
Silvia Lippi
59 Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce
Florence Briolais e Michel Mesclier
77 Parole imposte
Bibiana Morales
87 “Non serviam.” Tirannia del linguaggio e libertà degli stili
Giovanni Bottiroli
101 Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura
Muriel Drazien
111
Editoriale
formazione dello psicoanalista
113 Farsi un nome o dare un nome?
Mariela Castrillejo
122 Come neve al sole
Natascia Ranieri
137 Il vomere del significante
Anna Zanon
142 Riflessioni di un’analista in formazione sulla pratica del controllo
Paola Gottardis
146 Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli
Pino Pitasi
159
psicoanalisi implicata
161 Bisogna difendere la poesia
Milo De Angelis e Maria Vittoria Lodovichi
169 Zanzotto, la psicoanalisi, il reale
Alberto Russo
179 “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.”
Maria Barbuto
196 La compassione che il godimento domanda
Angelo Villa
205 Le modificazioni corporee
Lorenzo Vita
215
recensioni
265
edoardo fraquelli
267 Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia
Mariella Guzzoni
Quando Lacan aveva tre anni, James Joyce e Nora Barnacle arrivarono a Trieste. Era il 1904 e quello che videro era una città portuale
dell’Impero austro-ungarico. Trieste era infatti l’unico porto che collegava l’entroterra dell’Impero Asburgico con il mare e quindi con il
resto del mondo navigabile: era una città di vitale importanza per il
commercio e la vita stessa dell’Impero. Inoltre la posizione strategica,
di confine e di collegamento tra Occidente e Oriente, ha reso Trieste,
da sempre, una città multietnica e mitteleuropea. Nel censimento del
1910 si contavano circa 120mila italiani, 57mila sloveni, 12mila austriaci, 2500 croati e 40mila persone di varie nazionalità: tra costoro
le comunità maggiori erano quella serba e greca, come testimoniato
dalle bellissime chiese appunto serbo-ortodossa e greco-ortodossa, frequentate anche da James Joyce, pur non particolarmente credente. Il
castello di Miramare invece è il simbolo degli Asburgo. Fatto erigere
dallo sfortunato Massimiliano per la sua Carlotta del Belgio, vi vissero solo pochi mesi e non era ancora completato quando egli dovette
partire per il Messico, dove morì.
Molti poeti e scrittori sono rimasti affascinati arrivando in treno o in
nave a Trieste, come per esempio Ibsen, che scrive: “dopo aver passato
i tenebrosi tunnel, improvvisamente il treno sboccò a Miramar, rivelando la bellezza, la luminosità di una dolcezza meravigliosa destinata
a lasciare la sua impronta su tutta la mia successiva produzione…”.
2
lettera
Ma tornando al nostro “Jacomo” – come Joyce amava farsi chiamare a Trieste – anche la sua produzione è stata intrisa dalla sua “triestinità”: a Trieste riscriverà infatti i Dubliners o Gente di Dublino, scriverà
– oltre a poesie e alla raccolta Chamber Music – qualche capitolo di
Stephen Hero – poi rinominato A Portrait of the Artist as a Young Man – e
alcuni capitoli dell’Ulisse, i cui personaggi sono ampiamente ispirati a
persone conosciute e frequentate nella città.
A Trieste nascono i figli: Giorgio e Lucia, con cui discorre in triestino, il dialetto che vanta parole tedesche, slovene e francesi, a testimonianza del crogiolo di etnie e delle infinite commistioni che rappresentano i tratti caratteristici della triestinità e che ne impregnano
tutti gli ambiti della vita, tra cui quello culinario. Allo scrittore, si sa,
piacevano i giochi di parole e forse, chissà, la confusione di lingue
che troviamo nel Finnegans Wake potrebbe trovare la sua origine nelle
strade e nelle osterie della città da lui, peraltro, ampiamente frequentate. Quel che sappiamo di certo è che, negli anni del suo soggiorno
triestino, Joyce aveva vissuto “[…] da spiantato e povero nei quartieri
dei poveri, assiduo frequentatore delle bettole di San Giacomo e di
Città vecchia[…]”.1
Anche il fratello Stanislaus verrà a Trieste, dove lavorerà – come
il fratello maggiore – alla Berlitz School come insegnante d’inglese.
Vi rimarrà anche quando James, Nora e i bambini se ne andranno a
Parigi, tant’è che al cimitero anglicano di Trieste è possibile trovare
la sua tomba.
Tra le amicizie cittadine impossibile non nominare Ottocaro Weiss,
fratello del più noto Edoardo Weiss, allievo di Freud che portò la psicoanalisi in Italia e fu analista di Umberto Saba e del cognato di Svevo. Proprio lo stesso Italo Svevo, al secolo Aron Hector Schmitz, fu
allievo del “Professor Zois” – così il cognome dello scrittore irlandese
veniva storpiato dai triestini – che lo spinse addirittura a continuare a
scrivere, nonostante le critiche, e a pubblicare i suoi racconti. Esiste,
inoltre, l’ipotesi che Joyce abbia attinto alla figura di Svevo per il suo
Leopold Bloom: “hanno entrambi radici ungheresi, sono entrambi
ebrei convertiti sposati a donne cattoliche, hanno entrambi una figlia
ma soffrono per la mancanza del maschio e hanno entrambi vent’anni
editoriale
di differenza”2 (l’irlandese è il più giovane dei due), come accade per
Stephen Hero e Leopold Bloom.
Per quanto riguarda invece il suo Work in Progress, primo titolo del
Finnegans Wake, Joyce scrive a Svevo: “[…] ho dato il nome della signora Schmitz alla protagonista del libro che sto scrivendo […]”.3 Livia
Veneziani ‒ moglie di Italo Svevo – è quindi una tra le figure femminili ispiratrici per il personaggio di Anna Livia Plurabelle.
Un anno esatto dopo l’attentato all’erede al trono Franz Ferdinand
da parte di un nazionalista serbo e la conseguente dichiarazione di
guerra da parte dell’Austria alla Serbia, primo atto che porta allo
scoppio della Prima guerra mondiale, James Joyce, Nora e i bambini
– cittadini britannici – partono da Trieste alla volta di Zurigo.
Vi ritorneranno per qualche mese tra il 1919 e il 1920 ma l’atmosfera che troveranno sarà molto cambiata: “Trieste non è più il rigoglioso porto di un Impero, non ci sono più soldi nelle grandi banche
triestine, l’attività commerciale è scemata del tutto”,4 non rappresentando Trieste per l’Italia ‒ che ha già porti della maestosità di Venezia,
Napoli e Genova – un interesse vitale come era stato per la monarchia
asburgica. Anni dopo James dirà agli amici parigini: “Mi è impossibile descrivervi l’atmosfera del vecchio impero asburgico. Era un po’
sgangherato ma affascinante e gaio”.5
Ho deciso di dare un taglio storico al mio intervento d’apertura del
colloquio franco- italiano Joyce e l’arte: supplenza, sublimazione, sinthomo
perché il parlessere ha bisogno di ri-conoscersi nella propria storia, di
appropriarsi delle proprie origini o, come affermava Lacan riferendosi
a Joyce, di “farsi un nome”.
Amo la mia città anche se, come la maggior parte dei triestini, ho
origini miste: il ramo della famiglia materna è milanese, quella paterna per metà triestina e per metà istriana. Ora però, senza le grandi
finestre che si affacciano sul mare, è impossibile descrivere i tramonti
che dal Carso colorano il mare di un arancio intenso e indorano le
finestre delle case, piazza dell’Unità d’Italia, i palazzi storici, le chiese
Ivi, p. 38.
Ivi, p. 39.
4
Ivi, p. 53.
5
Ibidem.
2
3
1
Willy Piccini, Jacomo, un triestino anomalo, libro pubblicato dall’autore, Trieste 2012,
p. 55.
3
4
lettera
editoriale
di tutte le religioni. A Trieste si può visitare la più grande sinagoga
d’Europa, la chiesa serbo-ortodossa accanto a quella greco-ortodossa
e a quella cattolica, in stile neoclassico.
Non è inusuale trovare lo scrittore Claudio Magris seduto in uno
dei caffè storici della città intento a scrivere, come faceva Joyce che –
diceva – non poteva smettere di scrivere. Le ragazze, da sempre tra
le più emancipate d’Italia, si danno appuntamento in uno di questi
caffè per chiacchierare, ascoltare un concerto, assistere a una conferenza. Cultura e svago si mescolano come la bianca roccia carsica a
strapiombo sul mare blu, calmo come un lago. Eppure ogni tanto c’è
qualcosa che lo smuove, a tratti violentemente: l’impeto incontrollabile della bora. Questo vento gelido, che soffia fino a più di 150 km
all’ora, che ti solleva e ti porta dove non vorresti, ha la potenza della
pulsione e il fascino dell’inconscio.
“Trieste dà ai suoi figli un’anima in tormento e per questo è amata…” scrive Scipio Slataper. Nei giorni del colloquio abbiamo avuto la
fortuna di avere una mattinata di bora chiara, con il sole. Ero felice
quella mattina perché i nostri ospiti, gli amici di tanti anni, i colleghi italiani, francesi, spagnoli e argentini hanno potuto vivere, come
Joyce, da “veri triestini”.
Francesca Perini
Il ritratto di Trieste che Francesca Perini disegna con passione, indicandoci questa città come emblema di incontri significativi, ci riporta
anche al senso che essa assume per la storia della psicoanalisi. È la
città da cui entra la psicoanalisi in Italia, grazie a Edoardo Weiss, ma
forse anche grazie a quella particolare intensità con cui si è posta la
questione della scrittura ( Joyce, Saba, Svevo e tanti altri).
Non a caso dunque alipsi ha voluto organizzare a Trieste il colloquio franco-italiano dedicato a Joyce e l’arte: supplenza, sublimazione,
sinthomo, svoltosi in collaborazione con l’Association de psychanalise
Jacques Lacan ed Espace analityque. “La poesia è il nostro migliore
alleato”, diceva Freud, con un’intuizione che accostava la questione
dell’arte alla pratica della scrittura, al fare poetico, al gesto inventivo.
Se Freud ha avviato un’elaborazione relativa all’arte nella sua connessione con il lavoro dell’inconscio – per esempio nei testi di Dostoev-
5
skij, Goethe, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Shakespeare – è stato
Jacques Lacan, nel corso di vari seminari, a riprendere la questione, e
in modo radicale, soffermandosi su vari registri: quello relativo all’immagine, allo sguardo e alla visione, quello della scrittura e del testo,
quello che avvicina la produzione artistica all’istanza del corpo pulsionale, quello della sublimazione e infine, nodo complesso, quello della
struttura e del funzionamento del sintomo.
Di sicuro il seminario in cui Lacan affronta in modo determinante
la connessione tra l’arte e il sintomo è il Seminario xxiii, Le Sinthome
(1975-1976) dedicato a Joyce. È constatabile che a partire da questo
seminario la nozione di sintomo giunge a una svolta significativa, parimenti alla questione della sublimazione e al fare artistico da lui letto
come supplenza.
I vari interventi, di psicoanalisti e studiosi europei, raccolti nella
parte monografica di questo numero della rivista, attraversano, ciascuno da varie angolature, la fecondità dell’apporto di Lacan in materia di arte e di scrittura. Sono questioni radicali in cui l’elaborazione
giunge al cuore della soggettività, reinterrogando talvolta la clinica da
un’angolatura inedita, al punto, per esempio, di riformulare la logica
che lega la psicosi alla forclusione del Nome-del-Padre o soffermandosi intorno alle produzioni inedite e inaudite del sintomo. Joyce e la
scrittura, dunque. Un accostamento, questo, che come una sorta di
crocevia teorico che promuove incontri inattesi produce nella rivista
riverberi che si propagano in alcuni articoli dedicati ad altri artisti
come Camille Claudel, Milo De Angelis, Andrea Zanzotto.
Giancarlo Ricci
Monografia
errata corrige
La traduzione dal francese all’italiano del saggio di Pierre Bruno dal titolo “Padre
e Nomi-del-Padre”, pubblicato nel numero 2 di lettera, è stata erroneamente
attribuita a Sabine Callegari. La stessa è invece da attribuire a Elena Ferrante.
Joyce Glossografo
Gérard Pommier
Edoardo Fraquelli
Senza titolo, 1959
tempera su carta intelata
28 × 20 cm
Non so parlare italiano ma, per fare onore a Joyce e aumentare la
confusione delle lingue, oggi proverò a farlo.
Nel suo ultimo libro Finnegans Wake, Joyce utilizza un procedimento
letterario che evoca la glossolalia. In primo luogo ricorderò rapidamente che cos’è la glossolalia: in preda a forze spirituali, qualcuno si
mette a parlare, a gridare in una lingua inesistente. Questo fenomeno
“vocale” è probabilmente esistito in tutte le religioni, ma ha avuto
massima estensione nel cristianesimo, prima ancora di essere classificato come una manifestazione psicotica in psichiatria e ancora prima
di trovare rifugio nella letteratura poetica dove diventa glossografia.
Nella cristianità essa si manifesta tra i primi discepoli di Gesù nel
momento della Pentecoste: “e tutti furono colmati di Spirito Santo e
cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava
loro il potere di esprimersi” (At 2, 4). Questo genere di urla fu considerato come la radice di tutte le lingue, manifestazione dell’universalità
del messaggio di Cristo, in un linguaggio ecumenico. San Paolo scrive,
nella Prima lettera ai Corinzi: le lingue? Esse taceranno. La scienza?
Sarà abolita, e un po’ più avanti: “Chi infatti parla con il dono delle
lingue non parla agli uomini ma a Dio” (1Cor 14, 2).
L’esegesi religiosa vede nel “parlare in lingue” della glossolalia una
lingua antecedente la Torre di Babele, la lingua del Paradiso, ma più
precisamente il segno postbabelico di una redenzione nel giorno di
Pentecoste. È perché gli apostoli sapevano “parlare in lingue” che
10
Gérard Pommier
potevano predicare al mondo intero. Si potrebbe dire che si tratta di
un tentativo di ritornare all’orda primitiva, sotto la guida del padre,
Urvater. Oppure, un tentativo di ricongiungere i genitori, separati tra
l’enunciazione paterna e la lingua materna. Quindi evidentemente,
sarebbe un errore considerare la glossolalia come un equivalente de
lalangue nel senso di Lacan.
Una definizione semplice che si potrebbe dare è la seguente: ecco
qualcuno che, sotto l’influenza di Dio o di un grande Altro, è in preda
a visioni, a rappresentazioni, insomma ad allucinazioni e improvvisamente si mette a urlare, a farneticare, a inventare una lingua propria,
in una parola, resiste alla presa allucinatoria. Per farla breve, il padre
parla al glossomane che si mette a parlare. Egli parla perché il padre
gli parla e si mette a parlare più forte di lui. C’è questo rapporto
reattivo originale nel momento della messa in moto della lingua: è
la lingua di un’identificazione al padre primitivo. Si ha l’impressione che il
glossolalico parli la lingua dell’Altro. Assolutamente no! Si tratta della
sua lingua, attraverso un’identificazione al padre primitivo.
In Finnegans Wake, Joyce cita il caso di una glossolalica, Hélène
Smith, dicendo: “Miss Smith, onamatterpoetic”. Joyce colloca la poetica sotto il segno della matter, vale a dire non già della madre, anche
se l’equivoco esiste, ma della materia (matter) delle parole (onoma). Il
grido glossolalico è il punto di resistenza a ogni sorta di lingua materna. Resistere all’invasione allucinatoria materna corrisponde a un
atto mistico di fede in Dio, nella misura in cui il padre si oppone alla
madre. Si tratta di parlare la lingua del padre, piuttosto che di parlare
una lalangue. San Paolo diceva che c’era una preghiera ineffabile e
segreta rivolta a Dio, l’unico in grado di comprenderla. Il che è un
modo di dire, dato che si tratta nel contempo dell’atto di sostituire il
padre, il Pater, con il filioque, vale a dire ucciderlo. Dio non potrà mai
sentire alcunché delle urla e delle preghiere che gli si rivolgono, perché
ne morirebbe! C’è un’esperienza soggettiva di fondamento della parola, fondatrice di ogni significazione ulteriore. Poiché cosa si può fare
una volta che abbiamo crocefisso il padre? Ci si mette a parlare per
spiegarsi e giustificarsi. Il parricidio è il motore della parola. Questa
glossolalia primitiva comporta quindi dall’inizio un’identificazione al
padre primitivo. Una volta che l’abbiamo capito, ciò permette di risparmiarsi un mucchio di problemi: non c’è più bisogno di supplenza,
di sinthomo, di nodi borromei, che non sono altro che illustrazioni.
Joyce Glossografo
11
La resistenza si stabilisce prima per identificazione al padre, successivamente con l’eliminazione di quest’ultimo come nella Pentecoste.
Lo Spirito Santo che scende sugli apostoli in fondo non è altro che il
parricidio che unisce i figli al padre, che li unisce al padre per un’indissolubile colpevolezza: è la massima pater filioque, che ha opposto
Roma a Costantinopoli.
Non è quindi la lingua materna, ma il grido di godimento del padre. D’altronde, bisogna chiedersi se la lingua che si tratta di sovvertire
sia così tanto materna! Essa è piuttosto femminile, e identificarsi al
padre attraverso la glossolalia è un modo per evitare di essere la sua
donna – il che è resistere a una forma della forclusione. Nel momento
in cui la sodomia divina diventa una minaccia è il momento di cacciare un urlo, come farebbe qualsiasi donna in circostanze analoghe.
Comunque sia, se questa lingua glossolalica è quella di Dio, essa è ecumenica, universale, ed è sorprendente che con l’estendersi
dell’ateismo, a partire dal xix secolo, siano state inventate decine di
nuove “lingue universali”, con lo stesso progetto universalista di sostituire la diversità babelica delle lingue.
Faccio questo richiamo alla glossolalia per mostrare la sua storia,
dalle religioni politeiste fino al monoteismo, dove è stata immediatamente valorizzata grazie all’iconoclastia, all’assenza d’immagine di
Nome-del-Padre, che ha fatto che il padre, l’Urvater, si ritrovasse in
ogni manifestazione vocale del figlio. Pater filioque.
Dopo Cartesio, la glossolalia è caduta nel campo della psicopatologia e solo da un secolo ha preso una piega letteraria, introducendosi
attraverso le novlangues nella psicopatologia, e di lì nella scrittura, mentre è un fenomeno totalmente differente: in primo luogo, la glossolalia è puramente vocale, è l’affermazione della presenza del soggetto
nel suo rapportarsi a Dio che, come lui, è senza immagine. Orbene,
la lettera è un’immagine! È ciò che San Paolo aveva ben notato dicendo che non si poteva profetizzare parlando in lingua. San Paolo
ha contrapposto glossolalia e profezia, per quanto entrambe siano
carismatiche. La profezia porta un messaggio mentre la glossolalia è
l’espressione pura della presenza divina, senza essere mai destinata
alla trascrizione. Non si può trasmettere l’urlo glossolalico, l’urlo di un
assassino, pura presenza del soggetto animato dallo Spirito Santo, la
Grazia secondo san Paolo, il solo che l’abbia detto così chiaramente:
c’è l’assunzione di colpevolezza dell’assassino, redento dal suo atto di
12
Gérard Pommier
peccatore. È in seguito la Felix culpa, la felicità della colpa di sant’Agostino, che Lutero ha saputo mettere a frutto, ma scaricando la colpa
sui poveri, sugli indiani, i negri, i fumatori e i malati mentali classificati
dal dsm.
È a questo punto che arriva il tentativo poetico della glossografia,
che consiste nello scrivere l’intrasmissibile, scrivere lo Spirito Santo, il
gesto parricida, che è l’urlo fondatore dell’umanità, l’urlo dei fratelli
dell’orda primitiva. Quindi, siamo là, per la prima volta nella storia
dell’umanità, di fronte a dei tentativi glossografici disperati, illeggibili,
intrasmissibili. È su questo sfondo che arriva Finnegans Wake che cerca
di parlare del nostro wake, della nostra rinascita, di noi che affrontiamo l’ultimo giudizio della soggettività postmoderna. C’è un tentativo
più o meno contemporaneo di quelli di Chlebnikov, di Tzara o di
Artaud, puramente poetici, illeggibili, e quindi scanditi nell’esposizione in frasi grammaticalmente corrette. Joyce non procede come
tutti questi poeti, ma gioca la stessa partita sullo sfondo di uno svolgimento romanzesco che riusciamo a comprendere, e su questo sfondo
letterario orizzontale, le parole sono caricate, a intervalli più o meno
ravvicinati, di esplosioni verticali che sono, propriamente parlando,
glossografiche. Se vogliamo, è lo stesso processo della parola delirante,
costruita, o quasi normale negli psicotici, con l’apparizione inattesa
di neologismi, brusche ribellioni del soggetto contro la lingua Altra,
la sua brusca identificazione soggettiva a una parola nuova, inventata
da lui, parola che non è ancora mai stata pronunciata dagli albori
dell’umanità, vale a dire, in un certo senso, una parola prebabelica.
Nella parola di certi psicotici si sentono bene i momenti di cesura tra
lo sviluppo di un delirio di spiegazione e giustificazione, e le brusche
esplosioni allucinatorie che rilanciano il flusso redentore del delirio.
Sto per suggerire che l’ultimo libro di James Joyce, con il suo sfondo
narrativo, è una costruzione delirante. Bisognerà perciò distinguere
nella letteratura ciò che proviene, da una parte, dal romanzo familiare, o più esattamente dal dispiegamento delle contraddizioni del
fantasma, a rigore effettivamente nevrotico, e ciò che dall’altra parte proviene da un tentativo di spiegare, di giustificare l’esistenza del
soggetto, di un soggetto condannato, minacciato di annientamento,
sul punto di morire sotto il peso di un godimento che lo depersonalizza: è esattamente questo ciò che è all’opera in Finnegans Wake, nel
quale il pretesto narrativo iniziale è la caduta mortale del muratore
Joyce Glossografo
13
Tim Finnegan e la veglia funebre, the wake, che ne segue. Finnegans è
al plurale: è la resurrezione plurale del soggetto nel molteplice, e a
partire da questo un vero fuoco d’artificio attraverso le religioni, i miti, la storia d’Irlanda e quella mondiale, mediante processi analogici,
suggestioni, spostamenti, amalgami. È tutta la storia dell’umanità che
viene convocata per dare corpo a un soggetto in punto di morte e di
resurrezione. È la storia nella quale ogni soggetto anonimo può sostenersi. In Finnegans, il soggetto cerca dappertutto ciò che può dargli
consistenza, a dispetto del difetto del suo nome, e il suo scheletro più
archetipico è quello delle tre iniziali H.C.E.: “Here comes everybody”. La sigla H.C.E. (acca-ci-e) s’incarna in mille personaggi Hugues
Capet Early Fouler, Hugest Commercial Emperialist. H.C.E. è qualunque
soggetto, a cominciare dal lettore, ma il più importante, che dimostra
l’identificazione al padre primitivo, è che si tratta di Dio padre stesso,
“Heavenly one with his constellatria and his emanations”. È il mistero
dell’incarnazione: “qui cerca di godere ogni corpo”. “How comes
even a body.” H.C.E. è il principio paterno che si ritrova in ciascuno,
l’identificazione al padre primordiale se vogliamo: è l’Hecceité (accaci-eità) dell’irlandese Scoto Eriugena: il “io sono” Mishe Mishe. Mishe
Mishe si può tradurre “sono colui che sono” in gaelico. Nel Finnegans
troviamo numerose allusioni all’episodio del roveto ardente sul monte
Sinai, dal quale Jehovah interpella Mosé: “Mosé, Mosé!” e quando
Mosè gli chiede: “Qual è il tuo nome Jehovah?” egli risponde: “Io sono colui che sono”, istanza che viene ripresa fin dal prologo del Finnegans mediante quel Mishe Mishe. “Io sono colui che sono” è, dopotutto,
un’approssimazione accettabile del soggetto dell’enunciazione. Ma ci
sono altre polifonie! Tradotto in latino, risulta Ad Sum, la risposta di
Mosè alla chiamata di Dio che può essere deformata in Finnegans in
Amsterdam dove risuona come I am who I am e nello stesso tempo che
Abraham “sono colui che sono” Mishe Mishe. Oyesesyoses. I am as I am,
Hyam Hyam, tanti spostamenti ai quali si aggiunge una parodia del
Cogito cartesiano. Il “je suis” è stato “cartesianizzato”: Cog it out, here goes
a sum. Come consiglia uno dei personaggi, Shem, a suo fratello: “Sink
deep or touch not the cartesian spring”, “Penser” think è ortografato
come “sombrer” sink e Schaun risponderà a suo fratello: “Anarch,
egoarch, hiresiarch, you habe reared your disunited Kingdom on the
vacuum of your own most intensely doubtful soul”. Mishe Mishe. È la
ragione per la quale H.C.E. mangia se stesso, mangia le sue stesse pa-
14
Gérard Pommier
role, poiché è contemporaneamente bocca e orecchio. Noi non ci rendiamo conto, ma noi mangiamo le nostre proprie parole dalle nostre
orecchie che le sentono. Mishe Mishe è spesso associato a Tauf-Tauf che
significa in tedesco “il battesimo” e suggerisce anche la defecazione
e la punteggiatura. Si vede che il soggetto senza nome H.C.E. entra
facilmente nella spirale pulsionale.
Mi fermo qui per quel che riguarda la posizione del soggetto, e ora
voglio occuparmi della glossografia in questo libro, dove Joyce riesce,
senza alterare la narrazione, a operare una sorta di missaggio localizzato di oltre sessanta lingue diverse, oltre alle parole rare, creando
con questo missaggio una lingua propria, una lingua di fondo la cui
prospettiva è la sua comprensione ecumenica universale.
È vero che i termini differenti che servono a creare una nuova parola possono essere riferiti a due o più lingue senza per questo dire
che si tratti di glossolalia. Eppure la glossolalia esiste nell’intersezione di
queste diverse lingue, perché tale intersezione viene fomentata grazie
alla sonorità: grazie a un urlo. All’intersezione del senso, c’è un unico
suono. È un tentativo rarissimo in letteratura. Joyce potrebbe ispirarsi
allo stile nuovo del Book of Kells, libro scritto tra il vii e il ix secolo,
scandaloso per le sue allitterazioni poetiche, improntate all’ebreaico e
al greco, molto oscuro ma che ha completamente rinnovato la letteratura. Il Book of Kells è anche inframmezzato di immagini, miniature e
numerosi animali in mezzo alle lettere. È un processo di scrittura glossografica più ricco di risorse di quello di Finnegans ma che non ha la
stessa ambizione di un’opera scritta per “un lettore ideale che patisce
di un’insonnia ideale”. Si tratta di un’esperienza multimediale dove la
lingua riflette le immagini delle miniature che, esse stesse, rilanciano le
analogie linguistiche. Secondo Umberto Eco, la pagina di Book of Kells
dove Joyce trova la più grande aspirazione è la Tenebrous Tunc Page (folio
124e). Joyce parla di una pagina dove “Every person, place and thing
in the Chaosmos of Alle anyway connected with the globbydumped
turkey was moving and changing every part of the time […] the words
which follow may be taken in any order desired”. In qualsiasi ordine,
in any order! È ancora la circolarità pulsionale che prevale, allo stesso
modo in cui la fine del libro può raccordarsi al suo inizio.
Qual è l’effetto prodotto dall’intersezione di lingue diverse, che isola il loro suono come un grido? Il lettore viene bruscamente lasciato
cadere nei misteri della musicalità. Ogni lingua è straniera all’altra, xe-
Joyce Glossografo
15
nolatica, ma esse si intersecano come nei giorni della Pentecoste, grazie
a una rottura interna delle lingue impiegate. Quando voi leggete per
esempio “Achtung! Pozor! Attenshune”, voi avete un misto di lingua
tedesca, lingua slava e lingua francese. Joyce procede per disgiunzione
e congiunzione delle radici linguistiche, egli chiarisce il suo metodo
mentre lo applica nel Finnegans. Egli parla di “abnihilisation of the
étym”, utilizza delle espressioni come “vociferagitant, viceverssounding et alldconfusalem” e conclude con “how comes every a body in
our taylorised world to selve out thishis”.
In realtà, basta utilizzare la sovrapposizione di soltanto due lingue,
e non di migliaia, per ottenere un effetto di glossolalia, in tutti i casi
per il lettore, e prima grâce à lui, ossia grazie a lui. Nel pensare al lettore
e grazie al lettore, ed è in questo che consiste la specificità della glossografia, Joyce si forgia un nome proprio, un Nome-del-Padre. Il nome
proprio di Joyce è l’urlo glossografato nel punto di annodamento delle
due lingue. È la sua firma. In effetti, che cosa caratterizza un nome
proprio? È ciò che è intraducibile in qualunque lingua. La lingua prebabelica, è inutile cercarla: è il nome proprio, universale, e i mistici o i
poeti che sognano d’inventare una lingua universale cercano in realtà
il fondamento del loro nome proprio. Ciò non è nuovo per quanto
riguarda Joyce; vi ricorderete che Stephen Hero cerca di pensare il nome
di Dio in tutte le lingue, e voi vedete la sua incredibile dimenticanza,
che giustamente il Dio del monoteismo non ha alcun nome, e l’urlo
glossolalico è quello del soggetto, che designa la sua scomparsa nel
prendere il suo nome. In fondo, un nome proprio è un grido glossolalico intraducibile, prebabelico in questo senso, e Joyce prende il suo
nome ogni volta che egli produce un effetto par glossographie (mediante
la glossografia) nel suo lettore. Il risultato è un tentativo di trasformare
tutta la lingua – o almeno tutta la sua opera – nel nome proprio, e di
avere un nome tanto trasparente quanto quello di Dio, più grande di
quello del suo padre edipico, dunque.
Come scrive Saussure: “La questione dell’apparato vocale è secondaria nel problema del linguaggio”. È il contrario della glossolalia,
che isola un’identificazione del soggetto dell’enunciazione, impossibile
da scrivere. La glossografia non dovrebbe esistere, dal momento che
essa toglie il suo contenuto alla glossolalia estraendone il suono. Si
potrebbe dire che si tratta di un parricidio di secondo grado. La glossolalia certifica l’esistenza del soggetto che s’identifica al padre. L’atto
16
Gérard Pommier
glossografico uccide questo Padre sulla carta. Quando il soggetto mistico si fa da parte lasciando parlare attraverso la sua bocca la parola
divina, o quando l’Altro maiuscolo parla attraverso delle allucinazioni
verbali, è un modo d’identificazione a Dio, o a questo Altro. Scrivere
questo urlo, significa sopprimerlo una seconda volta, in contumacia.
È il nome del “sintomo”, o della “supplenza”, se ci tenete.
A monte del sogno
Pierre Bruno
(Traduzione di Patrizia Pecar e di Maria Teresa Rodríguez)
Inizierò ponendo una questione: cosa possiamo imparare da
Finnegans Wake, tale da incidere sul sapere analitico riguardo al sogno?
Questo romanzo, Finnegans Wake, ci porta a ripensare la Traumdeutung
di Freud? Per tagliare corto con la suspense, risponderò di sì, questo
“sì” che è anche l’ultima parola dell’Ulisse.
le due lingue di freud
Ci sono nella Traumdeutung due versanti: il primo concerne l’interpretazione (Deutung), il secondo concerne il lavoro (Arbeit) del sogno.
In prima istanza, per Freud si tratta di provare che il sogno ha un
senso (Sinn), cosa che non è certo una tesi inedita. Poi, ed è questa la
scoperta a cui Freud dà il suo nome, che ogni sogno è il compimento
di un desiderio (Einen Wunsch erfullt) che l’interpretazione dovrà portare alla luce. Questi due compiti (l’uno concernente il senso, l’altro
il desiderio) sono molto diversi e possiamo dire che il secondo riesce
molto più raramente del primo. Il primo procede dall’associazione
dei pensieri (Gedanken) e costituisce un “tempo per comprendere”,
mentre l’altro, la vera e propria interpretazione, è un “momento di
concludere” nel quale io non penso ma, nel tempo reale di un dire,
divengo il desiderio stesso. Nel desiderio trovo l’essere che sono, con
questa riserva fondamentale: poiché c’è “un ombelico del sogno”,
18
pierre bruno
l’essere che sono non è “io”. Questo “io” è, in definitiva, insondabile.
Veniamo al secondo versante della Traumdeutung, costituito dal capitolo intitolato Il lavoro onirico. Questo capitolo studia il processo di formazione del sogno e concerne solo indirettamente l’interpretazione.
Le componenti di questo processo sono diverse, dalla condensazione
alla presa in conto della rappresentabilità. Tuttavia, queste componenti sono subordinate a uno stesso obiettivo che caratterizza il lavoro
del sogno, e che Freud enuncia così nella prefazione al capitolo:
Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due
esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in
un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e
regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione. Noti questi, i
pensieri del sogno ci riescono senz’altro comprensibili. Il contenuto del sogno
è dato per così dire in una scrittura geroglifica in cui i segni vanno tradotti uno
per uno nella lingua dei pensieri del sogno.1
Commento a minima questo passaggio, nel quale due righe più in basso
viene introdotto il significante “rebus” per denotare la scrittura in immagini del sogno. I pensieri onirici sono i pensieri latenti, ottenuti tramite le associazioni del sognatore partendo dal contenuto del sogno,
detto manifesto. Sottolineo di passaggio che Freud si esprime come se
la messa in evidenza dei pensieri latenti coincidesse automaticamente
con quella del desiderio realizzato dal sogno, coincidenza che, come
ho già osservato, non va da sé nella pratica. Osservo anche il modo
in cui Freud usa il termine “lingua” per qualificare i pensieri latenti
o pensieri del sogno e come usa il termine “transfert” per definire la
trasformazione di questi pensieri in sogno manifesto, e inversamente,
la scoperta di questi pensieri partendo dagli elementi in immagini del
sogno. D’altronde, per confermare che, in questo lavoro del sogno, si
tratta precisamente del passaggio da una lingua all’altra, usa il termine di traduzione. Notiamo malgrado tutto, se leggo bene Freud perché
la frase è ambigua, che parla dell’“originale” per designare il sogno e
1
Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni (1899), in Id., Opere, 12 voll., Boringhieri,
Torino 1967-1980, vol. iii, p. 257.
a monte del sogno
19
la sua “traduzione” in pensieri latenti, cosa che ristabilisce l’anteriorità del sogno manifesto sui pensieri latenti.
dal godimento all’inconscio
Veniamo ora alla posizione di Lacan sul sogno. Mi sembra incontestabile che tra Lacan e Freud ci sia uno scarto. Prenderò ciò che Lacan
dice del sogno in Radiofonia, nel 1971. Qualcuno, non so chi, ha rimproverato a Lacan di aver tradotto, nei suoi Scritti, es entstellt con “esso
sposta”. In realtà, Die Entstellung significa deformazione, questa comunque è considerata la traduzione lessicalmente corretta, mentre lo spostamento è Verschiebung. Per rispondere a questa obiezione, dopo aver
fatto osservare che Freud convalida questa definizione dell’Entstellung
come spostamento, nel suo Mosè, dice: “Far passare il godimento all’inconscio, cioè alla contabilità, è un dannato spostamento”.2 Questa frase
non è passata inosservata: concerne direttamente il sogno, e possiamo
prendere subito la misura dello scarto tra ciò che la frase dice e ciò che
dice Freud. Egli parla di due lingue, e anche se considera il sogno come
l’originale, lascia aperta un’interpretazione che contraddirebbe la sua
teoria lasciando pensare che la lingua dei pensieri latenti, alla quale si
arriva tramite le associazioni, potrebbe sostenere il messaggio originale di cui i singoli sogni sarebbero delle applicazioni. Ma la lettura di
Lacan taglia corto: lo spostamento (Enstellung), ciò che Freud chiama
transfert, non avviene da una lingua all’altra, ma dal godimento (che
è tutto tranne che una lingua) all’inconscio. In altre parole, quando le
associazioni prodotte da un sognatore arrivano a questi pensieri latenti,
questo non è il rovescio o il contrario del lavoro del sogno. Senza questo lavoro non potrebbe esserci la ricerca dei pensieri latenti.
la rivoluzione joyciana
Ho scelto di non iniziare da una o più definizioni del godimento in
Lacan, ma di procedere con l’esempio di spostamento in Joyce, specialmente in Finnegans Wake, cercando di trarne un qualche insegna Jacques Lacan, Radiofonia, Televisione, Einaudi, Torino 1982, p. 22.
2
20
pierre bruno
mento. “Rivoluzione” ho detto: in effetti, in questo romanzo la finzione distrugge la rappresentazione. Metto due coni di segnalazione
prima di entrare in questo cantiere. Da una parte, come tutti sanno,
Joyce chiama questo romanzo work, lavoro. Non arriva a dire come
Freud, di cui tra l’altro diffidava, dreamwork, ma avrebbe potuto. Secondo punto: lo scrittore francese Louis-Ferdinand Céline ha scritto
un romanzo, Pantomima per un’altra volta, di cui è stata ritrovata e pubblicata la prima versione. Da questa versione a quella definitiva c’è un
cambiamento considerevole. Di fatto, nella versione definitiva c’è tutto
lo stile céliniano, quei famosi punti di sospensione che conferiscono un
brio danzato a questo racconto, dal contenuto di per sé cupo, mentre
nella prima versione parrebbe il romanzo di uno scrittore qualunque.
Ma niente a che vedere con l’impresa di Joyce. Finnegans Wake, anche
se lo stile è stato modificato e rimodificato mille e una volta, rende
impensabile una prima versione che sarebbe stata scritta nell’inglese
di un uomo qualunque. Per Joyce si tratta, scrivendo questo libro,
d’imitare il lavoro del sogno, nel senso in cui si parla dell’imitazione
di Cristo, e di far passare in questo modo il godimento all’inconscio.
Oltre al romanzo di Joyce, certamente prioritario, mi sono prevalentemente riferito ai lavori di Richard Ellmann, incomparabile
biografo di Joyce, all’ottimo articolo di Jean-Jacques Mayoux nell’Encyclopædia Universalis, ai lavori di Jacques Aubert e agli scambi con lui.
Riassumo alcuni dati: Finnegan’s Wake, con una “s” apostrofata, è una
vecchia ballata irlandese che racconta la storia di un muratore che
cade da una scala, passa per morto e si trova rianimato o risuscitato
dall’odore del whisky. Senza l’apostrofo si tratta dunque di raccontare
la storia di tutti i Finnegans e della loro veglia funebre (Wake), del loro
risveglio e anche della loro scia, questi sono i tre significati del termine
inglese. Più precisamente, il libro è concepito come il sogno del vecchio Finn, disteso nella morte lungo il fiume Liffey, mentre ascolta la
storia dell’Irlanda e del mondo. Dunque sogno di un morto, è il primo
indicatore. Direi che ci vuole la morte del sognatore, ovvero il suo
passaggio all’altra scena del sonno, perché si verifichi lo spostamento
J/Ics (godimento/inconscio). Ma mi correggo subito: questo romanzo
non è un sogno, ma il racconto di un sogno che non è stato sognato
tale e quale. Dobbiamo rammentarci che, a eccezione di quando sogniamo, e siamo nel sogno in tempo reale, non abbiamo mai a che
fare se non con un racconto. Diciamo che la messa in racconto, nel
a monte del sogno
21
caso di Joyce, è l’equivalente della messa in rebus, in immagini, fatta
dal lavoro del sogno, ma è una costruzione dell’arte. Oppure: non è
né un vero sogno, né un vero racconto del sogno, ma il racconto di un
non-sogno che avrebbe le caratteristiche di un sogno, se mi consentite
questa formula lambiccata ma giusta.3
In questo racconto, il personaggio centrale è il Signor qualunque,
che compare nel romanzo sotto l’acronimo H.C.E., inizialmente sviluppato nella formula Here Comes Everybody, che Gérard Pommier aveva
messo a esergo del primo numero del “Courrier de la Cause Freudienne”. In tutto il romanzo, l’acronimo resta invariato ma utilizzato
decine di volte in modo differente e sempre molto immaginoso. Questo
H.C.E. è incarnato da Earwicker, la cui moglie si chiama Anna, e
i figli Shem, Schaun (James Joyce stesso) e Isabelle. Allo stesso tempo Earwicker è un gigante primordiale, una montagna, e sua moglie
Anna, un fiume, il famoso fiume Liffey. Queste due annotazioni sono sufficienti ad accreditare il “doppio-piano”, espressione che Joyce
aveva chiesto di utilizzare a T.S. Eliot (lettera a Weaver)4 per caratterizzare il suo romanzo. Così come nei dodici capitoli dell’Ulisse ci
sono in secondo piano i dodici canti dell’Odissea, anche in Finnegans
Wake c’è una sorta di metamorfosi immanente tra gli esseri umani, che
all’inizio sono i genitori di Joyce, gli esseri storici, e gli esseri naturali.
Quindi tri-piano, tre dimensioni, più che due. Per non lesinare, parlerò anche di pluridimensionalità, la cui conseguenza sta nell’abolire
la polarità tra il linguaggio sulla cosa e la cosa stessa. Più esattamente,
il linguaggio diventa una cosa fra le altre, che sarebbe da apprezzare
per il suo colore, la sua sonorità e altre qualità sensibili e non più per
la sua capacità di significare. È un secondo indicatore, che omologa
il work di Joyce al lavoro del sogno. Qui Joyce è esplicito: in una lettera a Edmond Jaloux, un autore che neanche i francesi conoscono
più, scrive che il romanzo si sarebbe adattato “all’estetica del sogno,
dove le forme si prolungano e si moltiplicano, dove le visioni passano
dal volgare all’apocalittico, dove il cervello usa le radici di vocaboli
per crearne di nuovi che siano capaci di dare un nome ai suoi fanta3
Potremmo dire che il sogno ha luogo in un’altra scena (l’Altra scena) a sipario chiuso,
e che al risveglio, colui che ha sognato si ritrova dall’altra parte del sipario. Il sogno, in
quanto sognato, è per principio inaccessibile dopo il risveglio e il racconto che se ne fa, è
già parte dell’interpretazione.
4
Richard Ellmann, James Joyce (1962), Feltrinelli, Milano 1964, p. 606.
22
pierre bruno
smi, alle sue allegorie, alle sue allusioni”.5 Questo secondo indicatore
J/Ics si definisce dunque non per l’abolizione, ma per la sospensione della capacità di significazione del linguaggio. Joyce esplicita senza
equivoci qual è la sua posizione a questo proposito: “Je suis au bout de
l’anglais”6 [in francese nel testo, N.d.R.] scrive a Sutter, e Samuel Beckett riporta un’altra dichiarazione di Joyce: “Ho messo il linguaggio a
dormire”.7 Ultima frase che merita di essere citata: “Quando viene il
mattino, naturalmente ogni cosa diviene di nuovo chiara… Io voglio restituir loro la loro lingua inglese”.8 Possiamo menzionare un terzo indicatore: l’addormentamento della capacità di significazione del linguaggio va di pari passo con l’innalzamento della lettera, ovvero del segno
che prende valore d’ideogramma. “La folla ha bisogno di un rebus”9
scrive in Finnegans Wake. L’uso dell’acronimo H.C.E., già menzionato,
va nello stesso senso. In una lettera del 16 aprile 1928, scrive (a Miss
Weaver): “Sto facendo una macchina con una sola ruota. Niente raggi, naturalmente. La ruota è un quadrato perfetto”. Cosa che
Richard Ellmann commenta così: “Voleva dire che l’opera finiva dove
cominciava, come una ruota; che aveva quattro libri o parti, come un
quadrato ha quattro lati”. Non abbiamo a che fare con una metafora,
ma con la descrizione di un disegno supposto formare ciò che potremmo qualificare come l’ideogramma del libro. E qualche giorno dopo
scrive a Miss Weaver: “Il titolo è semplicissimo, e più banale di così
non potrebbe essere. […] si accorda col JJ e S e AGS & Company, e
dovrebbe risultare assai chiaro dal segno […]”,10 questo segno è una E
maiuscola stesa sul dorso [N.d.A.].
Queste considerazioni preliminari sono sufficienti per capire che ne è
del luogo da cui Joyce intende scrivere: è il luogo del “démiurgo”. Citazione: “N’est-ce pas? Cet bien ainsi que doit pratiquer le démiurge
pour fabriquer notre beau mond”11 [in francese nel testo, N.d.R.] (lettera allo scrittore svizzero Jacques Mercanton). Questo luogo è omologo
Ivi, p. 626.
Ivi, p. 625.
7
Ibidem.
8
Ibidem.
9
James Joyce, Finnegans Wake (1939), Mondadori, Milano 2011, libro ii, iii-iv.
10
Richard Ellmann, op. cit., p. 680.
11
Ivi, p. 799.
5
6
a monte del sogno
23
a quello da cui procede il sogno come lavoratore, ma rimane insoluta
la questione di sapere come, tramite questo lavoro, il godimento passi
all’inconscio. Ellmann segnala la prevalenza nella scrittura di Joyce
del tropo della paranomasia (assemblarsi-assomigliarsi, congiunturacongettura). Anche sineddoche e metonimia sono largamente usate,
ma bisogna sottolineare che questi tre tropi non oltrepassano la barra
della significazione, nella misura in cui restano schiacciati sul piano
della contiguità significante, anche se diverse lingue naturali concorrono a questa treccia significante. Allora, una volta che il linguaggio
è stato rifiutato come rappresentazione e la significazione (Bedeutung)
neutralizzata, fino a produrre un testo che flirta con l’illeggibile, come
rendere ancora possibile un effetto di senso (Sinn)? Sicuramente Joyce
gode a scrivere in questo modo, ma possiamo dire che questo godimento sia svalorizzato dagli effetti di senso? In effetti è necessario stabilire che, se abbiamo a che fare con l’inconscio, abbiamo a che fare
con dell’interpretabile e non solo con una concatenazione maniacale
impermeabile al senso, anche se sappiamo che l’inconscio, seppure
interpretato, si conferma essere reale – per riprendere l’espressione di
Lacan che riformula così l’ombelico del sogno.
Eccoci dunque di fronte a un’altra questione. Potrei formularla in
modo stupidamente provocatorio: si può interpretare Finnegans Wake?
Il che equivale alla domanda: c’è un senso in questo sogno-romanzo?
Mi auguro, per non incoraggiare la stupidità, che nessuno si metta a
tradurre Joyce in inglese corrente. Tuttavia, è fuori luogo osservare
che, da un certo punto di vista, Finnegans Wake sia il romanzo più
autobiografico mai scritto, forse per dimostrare l’inanità di ogni pretesa a realizzare un’autobiografia, ovvero una cura psicoanalitica che
sarebbe trasparente a se stessa?
un godimento svalorizzato?
Joyce non nasconde che H.C. Earwicker, il personaggio centrale del
romanzo, sia una rappresentazione di suo padre. Nel diventare Here
Comes Everybody, poi l’acronimo H.C.E. sviluppato in un centinaio
di nomi diversi, ci si può domandare se Joyce non supplisca a una
metafora paterna assente con una metonimia senza fine, dopo aver
reso suo padre anonimo. Conosciamo la tesi finale di Lacan: l’ego di
24
pierre bruno
Joyce supplisce al Nome-del-Padre. Ma non andiamo troppo veloci e
diciamo piuttosto che c’è una molteplicità di nomi e che questa profusione di nomi che non si ferma su nessuno è ciò che ci fa supporre
l’assenza di una metafora paterna. Bisogna ancora sottolineare che
la metafora paterna, pur legando il desiderio e la legge, comporta un
inganno, quello che ci sarebbe un nome che converrebbe al padre.
Il fantasma rinchiude il nevrotico in questo inganno e Joyce è esente da questo imprigionamento da cui un soggetto esce solo tramite
la bestemmia. Bisogna quindi concludere che questo romanzo è un
materiale psichiatrico utile per studiare la mania? Per rispondere positivamente, bisognerebbe ammettere che gli psichiatri non leggono un romanzo fino in fondo, perché nell’ultima pagina di Finnegans
Wake troviamo un appello al padre e un appello del padre. Cito queste
frasi commoventi: “Sì. Portami con te papà [taddy] come facevi alla
fiera dei giochi. / … Padre chiama. Arrivo, padre” (“Far calls. Coming, far!”).12 Questo appello reciproco coincide con la resurrezione
di Finn. Il sogno, o la veglia funebre, finiscono con il risveglio del
padre.
Questa emergenza finale di un senso è d’altronde confermata almeno in due modi. Ellmann, sempre lui, cita un’affermazione di Joyce
concernente l’ultima parola del suo libro: “Cette fois, j’ai trouvé le
mot le plus glissant, le moins accentuè, le plus faible de la langue anglaise, un mot qui n’est même pas un mot, qui sonne à peine entre les
dents, un souffle, un rien, l’article the”13 [in francese nel testo, N.d.R.].
Possiamo qualificare meglio l’impresa di Joyce: trovare il punto di svanimento del linguaggio, dal quale retroattivamente sorge un senso, in
una contingenza che attesta la condizione dell’essere umano. Raddoppiamo questa prova con un’osservazione che contraddice l’idea
di un ritorno maniacale perpetuo: la fine del romanzo non continua
nell’inizio del romanzo. Tra la fine e l’inizio non c’è continuità, materia circolare, ma c’è il bianco del linguaggio, l’indice del silenzio senza
il quale nessuna significazione produce un effetto di senso.
Appena dopo queste parole si legge: “Finn again” (“Finn è di nuovo qui”) che evoca
certamente l’equivoco con Finnegan.
13
Richard Ellmann, op. cit., p. 804.
12
a monte del sogno
25
passaggio-limite
Lacan, nel suo seminario Il sinthomo, riporta una frase di Joyce: “la
coscienza increata della sua razza”.14 Effettivamente è una frase decisiva perché pone un passaggio al limite al di là di un ordinale per definizione senza fine. Così per ciascuno c’è una genealogia, ma a voler
esaurire questa genealogia risalendo di antenato in antenato, non si fa
che avvicinarsi, in un asintoto, sincronicamente e diacronicamente, a
un padre originario o a una dea bianca illusori. “La coscienza increata
della sua razza” rompe con il fantasma di un essere generazionale da
cui potersi dedurre.
Abbiamo un altro passaggio-limite: l’epifania, che Joyce in Stephen
l’eroe definisce “il momento in cui la realtà della cosa vi invade come
una rivelazione”. Con l’epifania si tratta della manifestazione di una
presenza che rende caduco il problema dell’adeguamento della cosa
alla sua rappresentazione, giacché la cosa non è rappresentata, ma
presentata. Il sogno in questo senso è un’epifania. Ci ritroviamo al di
là e al di fuori della questione posta dal principio di realtà.
Senza questi due passaggi limite nessun sogno è pensabile.
Il linguaggio, in questa prospettiva, non è parlato, parla. O ancora,
come dice Samuel Beckett, “la lingua non è ‘a proposito di’ qualche
cosa, / … / è questa cosa stessa”.15
sogno e risveglio
Per riprendere la mia questione iniziale, quali sono le conseguenze
concernenti il sogno che ci possono essere utili? Finnegans Wake è un
racconto onirico artificiale, che comporta per Joyce la sua interpretazione. Per coloro che conoscono i due articoli di Lacan su Joyce, non
sorprenderà questa formula. L’ego, ovvero il sinthomo, è l’artefice di
questo risultato. L’ego non è né l’io, né il soggetto, anzi compare là
dove nessun soggetto può dire il vero sul vero. Quanto all’interpretazione, essa non è per niente un metasogno. È un dire fittizio che estrae
Jacques Lacan, Il seminario. Libro
2006, p. 23.
15
Citato da Jean-Jacques Mayoux.
14
xxiii.
Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma
26
pierre bruno
un senso reale e la cui articolazione inizia con il racconto del sogno e
finisce con l’estrazione del desiderio. Questo desiderio, in Joyce, è lo
spazio infinito che separa l’articolo definito “The”, ultima parola del
romanzo, dalla sua prima parola, “riverrum”, il corso del fiume, parola
di cui ora possiamo ricordare che è il fiume Liffey, sua madre. Più
lacaniano di così si muore, come dicono i bambini.
In ogni caso, l’idea secondo cui la decifrazione del sogno consisterebbe nel ritrovare la lingua iniziale del sogno, deformata a causa della
censura o di non so cosa, mi sembrerebbe definitivamente obsoleta.
Non che la censura non operi, ma essa consiste nel fatto che, poiché il
soggetto è rappresentato da un significante (S1) che il sapere può solo
prelevare dall’Altro, cioè lì dove non è il soggetto, questo significante
è originariamente rimosso. Dunque siamo già nel simbolico. Per contro, il lavoro del sogno produce del simbolico a partire da quella cosa
che chiamiamo godimento che, pur emergendo al nostro ingresso nel
linguaggio, non è linguaggio. È perché ne ha l’intuizione che Freud
ricorre al termine resistenza (Widerstand = tenersi in piedi contro) e lo
distingue dalla censura. Ma proseguire su questa strada mi porterebbe
troppo lontano, verso l’enigma dell’origine del linguaggio.
Infine, ho fissato ciò che ci insegna l’ultima parola di Finnegans
Wake. È una lezione che possiamo applicare al sogno. Ogni sogno, salvo interruzioni provenienti dalla realtà, ha una specie di fine, che è un
taglio, e che permette al sognatore di raccontare i suoi sogni. Ho fatto
un sogno, due sogni, tre sogni. È proprio un passaggio alla contabilità.
A volte il sognatore, senza interruzione esterna, si sveglia e impedisce
al sogno di concludersi, oppure il sogno non finisce, fa fatica a trovare
la sua conclusione. Conclusione, ovvero quel momento di eclissi del
senso che permette al significante di fare lettera e di rendere eventualmente leggibile la metafora che lo costituisce e che compie il desiderio:
James Joyce che si alza dal letto di sua madre.
Il sinthomo cancella la differenza tra nevrosi e psicosi?
Patrick Landman
Partiremo da un’ipotesi che è in realtà una domanda: il “passaggio”
dal sintomo al sinthomo è privo di conseguenze sulla differenza tra le
strutture freudiane della nevrosi e della psicosi?
Sembrerebbe in effetti che i criteri di differenziazione tra le due
strutture freudiane siano complessi e che tra i teorici non vi sia, in
proposito, unanimità. Alcuni per esempio danno la priorità alla natura e alla forza dell’io, altri affermano che la differenza risieda in
un’operazione sul significante e sul fallo come rimozione, forclusione
e negazione.
Se seguiamo queste tesi, che non mancano di argomenti a sostegno,
non è detto che la teoria del sinthomo cambi alcunché nella concezione
delle strutture cliniche. Al contrario, se prendiamo un’altra via d’accesso alla questione, il cambiamento può diventare radicale. Qual è
quest’altra via d’accesso? Ci focalizzeremo su nevrosi versus psicosi.
le strutture freudiane si distinguono
sulla questione del “padre”
La differenza tra psicosi e nevrosi si gioca, tradizionalmente, sul rapporto con la realtà. Il soggetto nevrotico e il soggetto psicotico non
hanno lo stesso rapporto con la realtà. Questo elemento di differenziazione è molto discutibile perché è molto difficile definire quel che
28
Patrick Landman
s’intende con il termine realtà senza entrare in un dibattito filosofico
senza fine e soprattutto senza via d’uscita circa la coscienza, l’empirismo, i sensi e le rappresentazioni. Tutti i dibattiti all’interno della
psichiatria europea del xix e xx secolo non hanno mai permesso di
giungere all’individuazione di un elemento di differenziazione che
permettesse di vederci chiaro. Non possiamo determinare ciò che è la
realtà oggettivamente, non possiamo definire una norma di rapporto
con la realtà valida per tutti e per tutte le culture, e neppure all’interno
di una stessa cultura. Ne concludiamo, malgrado gli apporti di Freud,
che non è dal lato della realtà che conviene guardare per distinguere
nevrosi e psicosi.
Un’altra via classica per segnare la differenza tra nevrosi e psicosi
è quella che si sofferma sull’esistenza o meno di idee deliranti. In assenza di idee deliranti si parla di nevrosi, in presenza di idee deliranti
si parla di psicosi. La difficoltà si sposta allora dall’impossibilità di
una definizione di realtà che sia valida per tutti all’impossibilità della
definizione di idea delirante. Non esiste un criterio che permetta di
distinguere in ogni circostanza un’idea delirante da un’idea non delirante. Per esempio predire il futuro osservando interiora di uccelli può
apparire delirante oppure no a seconda dei casi. Come distinguere tra
un’idea culturalmente sovrainvestita e un’idea delirante? Credere che
la Torah sia stata data a Mosè direttamente da Dio stesso è un’idea
delirante? Non si tratta piuttosto di un’idea sovrainvestita culturalmente? Ce ne sarebbe naturalmente anche per altre religioni. Allora
bisogna convenire che non esistono idee deliranti in sé, ma soltanto
soggetti deliranti.
Si apre dunque un’altra prospettiva che corrisponde a una realtà
clinica, cioè che esistono dei soggetti deliranti. Da cui la domanda:
in cosa il soggetto delirante si differenzia dal soggetto non delirante?
Freud e Lacan hanno risposto: sulla questione del padre. Esamineremo ora questa risposta.
dal padre freudiano alla forclusione dell’annodamento
Come si presenta la paternità per la teoria psicoanalitica? Riassumeremo velocemente: Freud ha tenuto in sospeso il problema fin
dall’inizio del suo lavoro, ma l’asse centrale della sua ricerca è quello
Il sinthomo cancella la differenza tra nevrosi e psicosi?
29
dell’Edipo; un soggetto segnato dall’Edipo è nevrotico, un soggetto
indenne dall’Edipo è psicotico. L’Edipo è al contempo il padre della
rivalità e della seduzione, dunque il padre che permette la costruzione
del fantasma e il padre che castra il desiderio della madre, cioè il padre che permette al soggetto di rinunciare a essere il fallo per l’altro.
Lacan ha insistito sul fatto che il padre dell’Edipo, per essere efficace, deve appoggiarsi su un’operazione di linguaggio, una metafora,
la metafora paterna, quel famoso posto del padre nel discorso della
madre, che ha dato luogo a confusioni e derive di cui si comincia solo
ora a vedere le conseguenze, in particolare in relazione alla clinica
dell’autismo. Nondimeno la tesi di Lacan per differenziare la nevrosi e
la psicosi è la più euristica, si riassume in una frase: nella psicosi esiste
una forclusione del Nome-del-Padre.
Ne consegue la distinzione tra Nome-del-Padre al singolare e Nomi-del-Padre al plurale. In effetti, si può schematizzare la funzione
paterna dividendola in tre termini: il padre che dà il nome, che è sempre
morto perché il nome evoca la trasmissione inter e transgenerazionale;
il padre della rivalità edipica, che è nella realtà della vita psichica perché
partecipa alla costruzione del fantasma infine; il padre ideale, divinità o
totem, che interviene nell’interazione con il sociale.
Lacan ci insegna che ciò che conta nella struttura psichica del soggetto è la maniera in cui le tre funzioni, rappresentate da tre cerchi,
sono annodate tra loro. Lacan ha proposto come modello il nodo
borromeo: il Nome-del-Padre permette l’annodamento delle tre funzioni paterne, dei tre nomi del padre, con la conseguenza clinica e
nosografica dell’opposizione strutturale tra la psicosi infantile e la psicosi adulta. In effetti, se il punto centrale risiede nell’annodamento,
la psicosi infantile è un incidente dell’annodamento, mentre la psicosi
nell’adulto è un incidente del disannodamento.
Nella nevrosi il Nome-del-Padre tiene, l’annodamento dei tre cerchi si realizza grazie al quarto cerchio, che non è altro che il sintomo.
Al contrario, nella psicosi esiste una forclusione del Nome-del-Padre;
l’annodamento non è dato quindi dal sintomo ma, per esempio,
dall’aiuto di un padre ideale o semplicemente di un ideale che permette un intreccio immaginario, non potendo tenere che a condizione
che questo ideale sia inaccessibile per il soggetto (come vediamo per
esempio nel Messia per gli ebrei, sempre atteso, ma mai raggiunto). Le
religioni ci rivelano in modo proficuo elementi di comprensione della
30
Patrick Landman
psicosi e non soltanto della nevrosi ossessiva. Questo posto particolare
del padre ideale rende difficile la costruzione del fantasma. Il nevrotico può destabilizzarsi se realizza il suo fantasma, se agisce troppo rapidamente il suo fantasma, perché risente di un senso di colpa edipico,
mentre lo psicotico sarà destabilizzato se realizza il suo ideale, perché
in quel caso incontrerebbe “un padre” dal lato del disannodamento.
dal sintomo al sinthomo, conseguenze su nevrosi e psicosi
Il sintomo è una scrittura letterale e non solamente un enigma significante; è suscettibile di interpretazione e di decifrazione. Il sintomo è
godimento, è un’incisione del reale sul simbolico; sfugge al simbolico,
ha una parte fuori senso, da cui l’idea di Lacan di ribattezzarlo sinthomo, affinché non sia inglobato dal simbolico e dalla sua componente
principale, “il Padre”. Il padre, o più precisamente l’amore del padre
che porta la legge, non è che la sua funzione di soggettivazione, talvolta confusa con una funzione di assoggettamento, poiché la dominazione maschile sinonimo di assoggettamento non ha più alcuna
legittimità nelle nostre società occidentali.
Questa parte di reale che comporta il sintomo non può essere trattata nella sua totalità dal gioco del simbolico, dei significanti, dell’inconscio strutturato come un linguaggio; sembra che non sia possibile venire a capo del godimento contenuto nel sintomo attraverso i significanti.
Ne derivano diverse conseguenze: in primo luogo la fine dell’analisi
può essere concepita come identificazione al sintomo, nel senso di
fissare la dimensione dell’essere che è stata svuotata della sua sostanza
dalla cura, poiché l’identificazione è fissazione. Questa identificazione
è paradossale, ma è il sintomo di fine analisi ciò a cui il soggetto si
identifica, sintomo che è ben diverso da quello che l’ha fatto entrare
in analisi; l’entrata è diversa dall’uscita. Il sintomo è quanto di più
particolare ha ciascun soggetto, è il suo rapporto con il mondo. “Io
sono il mio sintomo.” L’identificazione è in rapporto con l’Altro da
cui si prende in prestito un tratto, e con l’universale; il sintomo è in
rapporto con il particolare. Si concepisce allora questa identificazione
al sintomo come un modo di far fronte al reale del sintomo, e non come un ridare consistenza all’Altro come nel caso dell’identificazione
all’analista che alcuni promuovono.
Il sinthomo cancella la differenza tra nevrosi e psicosi?
31
D’altra parte il soggetto a fine analisi deve creare il suo sinthomo. Il
sintomo è legato al padre, all’amore del padre, all’amore eterno per
il padre, dice Lacan, e il padre è sintomo, nel sintomo c’è la nozione
di caduta, caduta sintomatica nel reale. Con il sinthomo il soggetto fa
a meno del padre per fare tenere il nodo, è l’ateismo di fine analisi; il
sinthomo è una nominazione, una creazione firmata, e questo sinthomo
si può ritrovare alla fine delle analisi dei nevrotici come degli psicotici;
per i nevrotici il sinthomo sarà più dal lato dell’atto di nominazione attraverso il sinthomo che si sostituisce alla nominazione immaginaria che
rappresenta l’inibizione che accompagna il sintomo; per gli psicotici
dal lato della sublimazione, il che ci dice dell’importanza dell’arte alla
fine dell’analisi degli psicotici. Il sinthomo non cancella la differenza
tra i sessi: c’è il sinthomo lui e il sinthomo lei, la donna allora non è più
il sintomo dell’uomo costretta a essere bella e a tacere per evitare di
pronunciare delle parole di verità che impediscano all’uomo nevrotico
di godere del suo inconscio: “sii bella e parlami” sostituisce il famoso
“sii bella e taci”.
Alla nostra interrogazione iniziale possiamo rispondere: sì, queste
due operazioni, identificazione al sintomo da una parte, e creazione
del sinthomo dall’altra, cancellano la differenza tra nevrosi e psicosi. Il
soggetto a fine analisi non è né psicotico né nevrotico, si suppone che
non goda più del suo inconscio, è disabbonato dall’inconscio.
Telemachia
Telemachia
Massimo Recalcati
le tesi di lacan su joyce
La figura di James Joyce costituisce l’ultimo grande capitolo della meditazione di Lacan sul tema del padre.1 Che cosa Lacan cerca e trova
nell’autore di Ulisse e di Finnegans Wake? Cerca e trova una soluzione
del problema dell’eredità e della filiazione – che già nel Seminario v
aveva collocato al centro della questione paterna – che non dipende
più dalla centralità simbolica del Nome-del-Padre. In questo senso il
seminario dedicato a Joyce ricupera e si aggancia idealmente alla lezione del 20 novembre del 1963 dedicata ai Nomi-del-Padre trovando
una risposta alla problematica che in quella lezione veniva spalancata:
cos’è un padre che non sia rappresentante dell’Altro dell’Altro, cos’è
un padre che non sia più il significante della Legge che struttura e
ordina il campo dell’Altro, insomma, cos’è un padre al di là della
funzione trascendentale ricoperta dal suo Nome?
Nel corso del Seminario xxiii tutti questi interrogativi vengono ripresi
e trovano una loro risposta nell’ipotesi che in James Joyce saremmo
di fronte a un’altra filiazione rispetto a quella comandata dal Nomedel-Padre, a una filiazione che non dipenderebbe più dalla dimensione normativa del Nome-del-Padre. James Joyce, il sinthomo, pone il
problema di una filiazione al di là dell’Edipo: è possibile essere figli del
proprio sinthomo? È possibile essere figli delle proprie opere? Figli senza
1
Si veda Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii. Il sinthomo (1975-76), Astrolabio, Roma
2006.
33
l’Altro, figli senza padri? Cosa sarebbe una filiazione non ortodossa –
priva del sostegno del Nome-del-Padre –, cosa sarebbe una filiazione
eretica, una filiazione senza alcuna eredità simbolica?
Ricapitoliamo le tesi di Lacan su Joyce come si deducono dal Seminario xxiii e nelle due conferenze su Joyce il sintomo:2
1.Joyce patisce una “carenza paterna” (John Joyce sarebbe stato un
padre carente, un padre indegno) che cerca di rimediare con la
sua arte che diviene, per via di questa funzione correttiva, il suo
sintomo, la sua supplenza. Questa carenza viene anche definita
una forclusione, non di struttura, ma “di fatto”, effetto della “dimissione paterna”.3 Per rimediare a questa carenza Joyce inventa
il sintomo della scrittura che gli assicura una tenuta fallica in
assenza di una trasmissione simbolica effettiva del fallo, sebbene
“il suo fallo” – precisa Lacan – risenta di questa assenza restando
comunque “un po’ moscio”.4
2.Questo sintomo non è un simbolo, non è una formazione dell’inconscio, non è interpretabile, decifrabile, non è strutturato come
una metafora, come aveva stabilito l’insegnamento più classico di
Lacan; questo sintomo “abolisce il simbolo”.5 Il che significa che
il sintomo joyciano non è affatto una formazione dell’inconscio –
com’era il sintomo freudiano – ma è un sintomo “disabbonato”
dall’inconscio e, per questa ragione, radicalmente anti-freudiano.
Esso non esprime una verità rimossa ma una posizione del soggetto, la sua esistenza singolare e contingente, non è articolato
al desiderio inconscio – non è una sua manifestazione di compromesso –, ma a un processo di nominazione: il sintomo della
scrittura – che non è un simbolo – è ciò che permette a Joyce di
farsi un nome – “volendosi dare un nome”6 – senza passare dal
Nome-del-Padre, è l’incarnazione di una filiazione eretica, cioè
di una filiazione senza eredità.
2
Faccio riferimento alla conferenza titolata allo stesso modo: Joyce il sintomo, in Jacques
Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., pp. 157-165, e Joyce, le symptôme, in Id., Autres écrits, Seuil,
Paris 2001, pp. 565-570.
3
Id., Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 85.
4
Ivi, p. 14.
5
Jacques Lacan, Joyce il sintomo, cit., p. 161.
6
Ivi, p. 90.
34
Massimo Recalcati
3.L’opera è uno sgabello – esca-beau – attraverso la quale egli eleva
il suo nome alla dignità dell’artista. In questo senso l’ambizione
del suo Ego corregge – come un quarto nodo supplementare7 – la
carenza paterna, dando tenuta ai registri del simbolico, dell’immaginario e del reale. Attraverso il suo art-geuil – il suo orgoglio8
– Joyce può godere della sua arte. Il godimento non prende qui
le forme del godimento maligno e devastatore dell’Altro – come
accade in Schreber – ma quelle di un godimento singolare e sintomatico, fissato sulla pratica della scrittura che si afferma come,
al tempo stesso, godimento (estetico) del soggetto e trattamento
del godimento minaccioso dell’Altro.
4.“Ulysses è la testimonianza del fatto che Joyce resta radicato nel
padre pur rinnegandolo. È proprio questo il suo sintomo”,9 afferma Lacan. Questa è la tesi centrale che sintetizza l’esito del
passaggio di Lacan attraverso Joyce e che rivela la verità ultima
di Finnegans Wake: il rifiuto del padre – il suo “rinnegamento” –
non separa Joyce dal problema dell’eredità simbolica. Il rinnegamento del padre non coincide affatto con il suo oltrepassamento.
Al contrario – afferma Lacan – Joyce resta legato al padre proprio
in quanto lo rinnega. Questo significa che il rinnegamento del padre
comporta la manifestazione di un’idea maniacale della paternità
che esploderà in tutta la sua ampiezza solo in Finnegans Wake dove Joyce diventa letteralmente padre di una nuova lingua, l’artificiere che genera dal nulla una lingua che si vorrebbe finalmente
libera dall’incombenza teologica del Nome-del-Padre. Si tratta
di una lingua senza argini e senza gerarchia, anarchica, una marea dove il significante infarcisce il significato, dove la potenza
de lalingua, come direbbe Lacan, si afferma come pura libertà,
si emancipa dagli ormeggi simbolici per imporsi come una pura
“decisione dell’essere”.10 In gioco è precisamente quel rifiuto di
ogni legame con l’Altro che definisce clinicamente la dimensione
della mania.11 Contro questo esito maniacalizzante che scaturisce
Ivi, p. 148.
Jacques Lacan, Joyce, le symptôme, cit., p. 566.
9
Id., Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 66.
10
Id., Discorso sulla causalità psichica, in Id., Scritti, 2 voll, Einaudi, Torino 1974, vol. i, p. 171.
11
“[…] l’ultima opera di Joyce […] assomiglia proprio alla mania. Parlo di Finnegans
Wake.” (Id., Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 10)
7
8
Telemachia
35
dal rifiuto della paternità e della sua eredità, Lacan ricorda a
Joyce – ma più in generale a tutti coloro che sostengono il sogno
prometeico di una filiazione senza padri, di una autogenerazione che prescinda orgogliosamente dal riconoscimento del debito
simbolico nei confronti dell’Altro – che per separarsi dal padre
bisogna saperne fare uso.12 Tutto il cammino di James Joyce – e
del suo Stephen Dedalus – è finalizzato, invece, a fare a meno
del padre senza farne alcun uso.13 Le dichiarazioni di TelemacoStephen in Ulysses – come vedremo – sono perentorie. E tuttavia
– come precisa Lacan – la “missione” di Joyce, a suo modo, è
anche quella di “farsi carico del padre”, di “sostenerlo affinché
sussista”.14 Essere un artista per Joyce significa identificarsi al
grande Altro della creazione, non al figlio redentore, al figlio
del Padre – secondo l’annuncio cristiano. Significa diventare
orgogliosamente il Padre dell’Opera, come accade in Finnegans
Wake, dove il linguaggio – divenuto puro significante, pura lettera asemantica, priva di ogni significazione – sembra escludere,
insieme alla problematica del senso, anche ogni riferimento alla
dimensione del Nome-del-Padre. L’elevazione dello scrittore a
padre-artificiere di una nuova lingua mai esistita prima lo conduce infatti verso una “illustrazione” assoluta della paternità.
Nondimeno, fare a meno del padre senza servirsene comporta
fatalmente restare legati eternamente al padre anche se nella
forma paradossale di una sua incarnazione suprema. Non è il
figlio che deriva dal padre, ma è il figlio che prende il posto del
padre in un atto di affermazione superba. In Joyce – commenta
Lacan – “l’artista non è il redentore, è Dio stesso, in quanto
modellatore”.15
Si veda ivi, p. 133.
È la critica che Lacan rivolse ai giovani del ’68: l’odio verso il padre vincola al
padre, rende impossibile ogni forma di separazione dal padre. “[…] l’aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del padrone. È ciò
di cui l’esperienza ha dato prova. Ciò a cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone.
L’avrete.” (Id., Il seminario. Libro xvii. Il rovescio della psicoanalisi [1969-70], Einaudi, Torino
2001, p. 259)
14
Id., Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 21.
15
Ivi, p. 77.
12
13
36
Massimo Recalcati
il telemaco di omero e quello di joyce
Per intendere meglio la tesi centrale di Lacan (il rinnegamento del padre
lega Joyce a una rappresentazione assoluta del Padre) proviamo a considerare
la Telemachia originale di Joyce. Lacan snobba decisamente il riferimento di Joyce all’Ulisse omerico. Non sembra considerare per nulla
l’importanza della denominazione joyciana delle parti che compongono la narrazione del suo Ulisse e che riprendono esplicitamente la
suddivisione dei canti omerici. Come sappiamo sarà proprio questo il
lamento insistito dello scrittore irlandese nei confronti dei critici che
hanno pressoché ignorato questo riferimento, per lui centrale, all’Odissea di Omero.16 Perché allora anche Lacan sceglie di ignorare questo
riferimento programmaticamente deciso da Joyce scrittore? Probabilmente perché per Lacan il sintomo joyciano non è un simbolo, ma un
sintomo e questo rende necessario evitare ogni lettura ermeneutica
del testo di Joyce.17 Piuttosto questo testo si configura come una nuova
versione del sintomo che, come abbiamo visto, eccede la sua assimilazione classica alla metafora. Si tratta piuttosto di un uso della lingua
e della scrittura che – come mostrerà definitivamente Finnegans Wake
– annulla il senso. Anche in questa prospettiva Joyce appare come il
rovescio di Schreber; quest’ultimo si pone davvero come un redentore
delirante poiché ciò che nel suo universo viene meno è l’esperienza
del non-senso, mentre Joyce rinuncia all’idea della ricongiunzione con
Dio-Padre e annulla, di conseguenza, la dimensione del senso attraverso una decomposizione radicalissima della lingua.
La Telemachia costituisce i primi tre capitoli di Ulysses, raduna a sé
i primi canti dell’Odissea, secondo le intenzioni di Joyce, e si può dire
che costituisca un ponte ideale tra la narrazione della vita di Stephen
in Dedalus e la produzione più matura di Joyce. Di cosa si tratta? È la
descrizione della mattina di Stephen-Telemaco, del suo risveglio nella
casa-torre sul mare. In primo piano è la condizione di Stephen-Dedalus come quella di un soggetto sradicato: è sfruttato dai suoi inquilini,
Si veda Richard Ellmann, James Joyce, Feltrinelli, Milano 1964, p. 606.
Lacan legge il testo di Joyce in modo diverso da come legge l’Antigone di Sofocle
nel Seminario vii, l’Amleto di Shakespeare nel Seminario vi o il racconto sulla lettera rubata
di Poe nel testo che apre gli Scritti. Nel caso di Joyce, Lacan non si addentra mai davvero
nel testo perché ciò che gli interessa non è il suo significato ma la sua funzione puramente
sintomatica.
16
Telemachia
37
paga loro l’affitto mentre gli saccheggiano le risorse. Vive, insomma,
come il Telemaco omerico, sottoposto all’usurpazione. Con l’aggiunta
che si attribuisce la colpa di non aver assistito come avrebbe dovuto la
madre morente. Il suo lavoro di insegnante gli appare noioso e privo di
soddisfazione. È distratto dalle sue elucubrazioni su Dio, sulla trinità,
sulla storia come incubo. La sua inquietudine manifesta la sua aspirazione radicale a un “pensiero libero”. La Telemachia joyciana non ricalca lo spirito di quella omerica per una ragione principale: StephenTelemaco – diversamente dal Telemaco di Omero che è nell’attesa del
ritorno del padre – vuole essere un figlio senza padri. Nondimeno questa
esigenza si scontra con l’assillo che attraversa Stephen-Dedalus e che
coinvolge il problema dell’origine, della sua provenienza, della sua stessa filiazione: “Chi ha scelto la mia faccia?” si chiede.18
Mentre l’orgoglio di Stephen intende recidere il legame con il padre, il Telemaco di Omero è alla ricerca del padre. Il suo sguardo scruta il mare attendendo il ritorno del padre come possibilità di ricostituire la Legge della città. I due Telemaco, quello di Omero e quello di
Joyce, sono due anti-Edipo.19 Non si dà nel Telemaco omerico né voto,
né atto parricida; non è il padre a ostacolare l’accesso al godimento
della madre; il padre, piuttosto, è colui che risponde all’invocazione
del figlio pagando in prima persona questa risposta. Per salvare la
vita di Telemaco neonato parte senza volerlo per una guerra che non
è la sua. Cede al terribile ricatto a cui viene sottoposto: impedisce che
il vomere dell’aratro tagli la testa di suo figlio, impedisce la morte di
suo figlio rinunciando al lavoro della terra, partendo per una guerra
assurda e perdendosi in mare. Anche il suo ritorno a Itaca avviene sullo sfondo di una perdita di godimento ancora più radicale; il ritorno
implica la rinuncia al godimento dell’immortalità. Ulisse accetta la finitezza della vita per ritornare alla sua terra. Telemaco non affronta il
padre in un duello mortale, come accade a Edipo, ma guarda il mare
attendendo il ritorno del padre. La domanda di Telemaco è domanda di
padre, domanda di Legge rispetto al godimento sregolato dei Proci. È
preghiera che qualcosa torni a reintrodurre la Legge della castrazione
in una terra dove il godimento appare senza bordi.
17
James Joyce, Ulisse (1922), Mondadori, Milano 1967, p. 10.
Sulla figura di Telemaco come anti-Edipo rinvio al mio Il complesso di Telemaco: come è
cambiato il disagio della giovinezza (di prossima pubblicazione presso Feltrinelli).
18
19
38
Massimo Recalcati
Il Telemaco joyciano è un anti-Edipo in modo diverso. Egli non invoca affatto il padre; è solo ironico e cinico verso i padri. Non crede al
Nome-del-Padre, non è in lotta aperta con il padre, semplicemente lo
rinnega. Non si attende nulla da questo vuoto. Nessuna trasmissione
lega il figlio al padre; né quella del conflitto mortale, né quella della
invocazione. Resta solo Bloom – padre disperato che ha perso tragicamente il piccolo Rudolph e marito fallito tradito da sua moglie – a
invocare il figlio come erede: “Qualcosa da lasciare in eredità. Se il piccolo
Rudy fosse vissuto. Vederlo crescere, sentire la sua voce in casa. A
passeggio accanto a Molly […] Mio figlio. Me nei suoi occhi.”.20
una forclusione di fatto
Joyce è confrontato alla carenza paterna, è di fronte a una forclusione di fatto del Nome-del-Padre. Ma come dobbiamo intendere questa
forclusione di fatto che Lacan introduce nel Seminario xxiii? La forclusione strutturale è quella che implica l’assenza di operatività del
significante del Nome-del-Padre come significante che ordina l’insieme dei significanti e che consente l’accesso del soggetto alla realtà.
Essa colpisce dunque il Nome-del-Padre come significante guida. La
forclusione di fatto sembra invece colpire il padre nel suo atto più
che nel suo Nome. E qual è l’atto di un padre? È quello di portare la
parola, è quello di portare la legge della parola. E in cosa John Joyce,
il padre di James, sarebbe stato carente? Lacan precisa questa carenza così: suo padre non avrebbe saputo parlargli. Gli ha mai parlato?
Si è mai rivolto a James come a un soggetto della parola? Ha mai
rivolto verso di lui il suo desiderio di padre? La forclusione di fatto
comporta l’assenza della parola paterna come costitutiva della legge
del riconoscimento. Eppure il ritratto che Ellmann ci fornisce di John
non è affatto quello di un uomo silenzioso. Al contrario, John sembra
avesse piacere a prodigarsi in monologhi infiniti. La sua voce risuonava imponente in casa Joyce e nei pub che frequentava. Racconta
barzellette, canta, sproloquia. John appare davvero come il rovescio
speculare del padre educatore di Kafka o di Schreber. Mentre quei
padri incarnano il volto spietato e compatto – moralmente solido – di
James Joyce, Ulisse, cit., p.123.
20
Telemachia
39
una Legge inumana perché disgiunta dal desiderio, il padre di Joyce
è un padre inattendibile, bislacco, inconcludente, donnaiolo, alcolista, sommerso dai debiti, impegnato per tutta la vita in continui e
rocamboleschi traslochi per evadere i suoi creditori; carente di fatto,
commenta Lacan. È un padre dimissionario che delega ad altri padri – i gesuiti – la responsabilità dell’educazione di suo figlio. È un
padre che non assume in nessun modo la sua funzione simbolica che
è quella di dare una versione umanizzata della Legge. I suoi atti non
sostengono la legge della parola ma si limitano a dedicarsi “con pari
impegno a procreare figli e a contrarre ipoteche sulle proprietà ereditate”; 21 tre aborti, quattro maschi e sei femmine e continui debiti. Il
padre carente è stato un padre insolvente. Un padre che veniva sempre
meno alla propria parola senza farsene un problema. A Louis Gillet
che lo interrogava su cosa fosse stato per lui suo padre, James Joyce
rispose: “un bancarottiere”.22 Ellmann racconta di una volta che preso
dai fumi dell’alcol cercò di strangolare la moglie davanti ai suoi figli.
Fu solamente l’intervento di James a salvare la madre dal passaggio
all’atto omicida del padre.23 Durante la malattia della moglie John
Joyce intensificò drammaticamente il suo alcolismo. Mentre la donna
stava agonizzando – ci racconta ancora Ellmann – piombò disperato
nella sua stanza urlando: “Sono rovinato! Non ne posso più! Se non
riesci a guarire crepa! Crepa maledizione!”.24
Il padre di Joyce ha un vero e proprio godimento della parola. È
un guitto, un attore di avanspettacolo. Parla, parla, parla… ma la
sua parola – ed è questo l’essenziale – non sa umanizzare il desiderio. Questa parola, la parola del padre, non si è mai rivolta a suo figlio.
Ecco l’essenziale secondo Lacan: questo padre non gli ha mai parlato. Possiamo supporre che le parole imposte che aggrediscono Joyce
siano dei ritorni nel reale di questa assenza simbolica della parola del
padre. La parola ritorna allora allucinatoriamente solo come il reale
della pura voce. Abbiamo già in Dedalus una serie di testimonianze
precise di questi ritorni nel reale della parola simbolicamente assente
del padre.25 Questi ritorni accompagnano costantemente la vita di
Richard Ellmann, op. cit., p. 32.
Ivi, p. 33.
23
Ivi, p. 56.
24
Ivi, p. 168.
25
“Stephen si era sentito intorno costanti le voci del padre e degli insegnanti, che lo
21
22
40
Massimo Recalcati
Joyce e, non a caso, troveranno un punto di scatenamento particolare
all’indomani della morte del padre. In quella congiuntura la voce del
padre invade il suo corpo, raggiunge il suo essere. Al posto dell’eredità
simbolica – al posto della trasmissione del desiderio – qualcosa che resta forcluso dal simbolico ritorna direttamente nel reale. All’indomani
della morte del padre, in una lettera inviata alla signorina Weaver,
scrisse: “Poveretto! Mi sembra che quasi la sua voce sia trasmigrata in
qualche modo nel mio corpo o nella mia gola. Ultimamente ancora
di più: specialmente quando sospiro”.26
Possiamo anche supporre che tutta la relazione di Joyce con Lucia,
la figlia schizofrenica, riproduca questo stesso fallimento dell’eredità:
la corrispondenza telepatica che unisce la figlia al padre e che, secondo Joyce, gli psichiatri e gli psicoanalisti (tra i quali Jung) non erano
assolutamente in grado di comprendere, è la manifestazione di una
intesa segreta, di una continuità speculare tra i due. Le parole imposte si trasfigurano nella intesa telepatica. Joyce non è solo convinto
delle doti profetiche della figlia, ma sembra stabilire tra sé e la figlia
una sorta di identificazione speculare, di immedesimazione narcisistica. A questo proposito in una lettera del 21 ottobre del 1934 scrive:
“Attribuisco la massima importanza quando Lucia parla di sé; le sue
intuizioni sono stupefacenti […] Io e mia moglie vediamo centinaia
di esempi della sua chiaroveggenza”.27
Tra il soggetto e l’Altro viene meno ogni forma di separazione; Joycescrittore si identifica integralmente alla figlia folle. James è Lucia e
Lucia è James. Nessuno riconosce il loro talento, la loro creatività
incitavano a essere un gentiluomo sopra tutto il resto e un buon cattolico sopra tutto il
resto. Queste voci gli suonavano ormai vacue nelle orecchie. Quando era stata aperta la
palestra, aveva sentito un’altra voce incitarlo a essere robusto, virile e sano, e quando il
movimento per la rinascita nazionale era cominciato a farsi sentire nel collegio, ancora
un’altra voce gli aveva comandato di non venir meno al suo paese e di aiutarlo a rialzare
lingua e tradizioni (…) intanto la voce dei suoi compagni di scuola lo incitava a essere un
compagno come si deve, a coprire gli altri dai rimproveri, a chiedere per loro il perdono e
a fare del suo meglio per ottenere giornate di vacanza per tutti. Ed era il frastuono di tutte
queste voci vacue che lo faceva fermarsi irresoluto nella sua ricerca di fantasmi.” (James
Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane [1916], Adelphi, Milano 1980, p. 96)
26
Richard Ellmann, op. cit., p. 732. “Ogni tanto restava come inebetito: sento mio
padre che mi parla […]” (Ibidem)
27
Ivi, p. 764.
Telemachia
41
linguistica, le loro profonde intuizioni, la loro originalità, i loro neologismi. Padre e figlia, Joyce e Lucia, sono una coppia di artisti telepatici
della lingua.
parole imposte
Lacan mette a confronto la scrittura di Joyce con il tema clinico delle
parole imposte. Le parole imposte che, nelle allucinazioni, riducono
il soggetto a oggetto inerme, parlato dall’Altro, invaso dall’Altro, mostrano che il linguaggio agisce come un “parassita”, una “placcatura”,
che “la parola è la forma di cancro che affligge l’essere umano”.28
Questo fenomeno elementare di cui patisce il soggetto psicotico illumina la condizione strutturale dell’esistenza: noi siamo sempre parlati
dalle parole dell’Altro. Per Lacan si tratta di un’evidenza che fonda
lo statuto alienato del soggetto: “Come mai – si chiede – non avvertiamo tutti che le parole da cui dipendiamo ci sono in qualche modo
imposte?”.29 Il soggetto è tracciato, fabbricato, strutturato dalle parole
che l’Altro gli impone. Nel fenomeno allucinatorio questa dipendenza
costituente emerge nel reale, come accade per i fenomeni telepatici
che caratterizzano Lucia, la sua secondogenita schizofrenica.
La pratica della scrittura consente a Joyce di produrre una significantizzazione di questo reale adottando le parole imposte come una
sorta di materia grezza sulla quale esercitare la propria padronanza di
scrittore. Questa operazione gli consente di non essere più mangiato
dal linguaggio, ma di divenire artificiere, creatore di un nuovo linguaggio. È questa tutta la differenza che separa Joyce da Schreber: mentre
Schreber resta vittima di un Altro che gode di lui e che gli parla incessantemente, mentre la sua psicosi produce una serie infinita di fenomeni elementari dove il soggetto è ridotto a essere mero oggetto del godimento voluttuoso dell’Altro, Joyce attraverso la pratica della scrittura
argina questo godimento facendone materia della sua arte. Per questa
ragione non vi sono che rarissimi fenomeni elementari in Joyce di fronte alla stabilizzazione resa possibile dalla costruzione del suo sinthomo.
Per questo Schreber può ricorrere solo alla metafora delirante laddove
Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 91.
Ibidem.
28
29
42
Massimo Recalcati
Joyce si genera un nome attraverso l’atto della creazione. L’artista viene
cioè assimilato al Creatore dell’universo capace di ordinare e dare vita
alla materia caotica e informe dell’esistenza. Non a un figlio ma a un
Padre. Il saper-fare dello scrittore-artificiere, è per Joyce il modo per
provare a esercitare una supplenza sintomatica alla forclusione di fatto
del Nome-del-Padre capace di sfruttare lo stesso fenomeno elementare
delle parole imposte; il monologo interiore – il flusso di coscienza –
come innovazione cruciale della letteratura joyciana eleva il fenomeno
elementare delle parole imposte alla dignità di un metodo. In questo senso Joyce
riprende e fa sua una intuizione di Lacan avanzata nel Seminario iii:
quando la strada del Nome-del-Padre è sbarrata, è forclusa, quando il
soggetto è obbligato a seguire l’intricato dedalo delle strade secondarie
per raggiungere la sua meta, diventa possibile orientarsi sulle scritte
che appaiono sui cartelli al bordo della strada. Queste scritte offrono
al soggetto un orientamento in assenza della strada maestra. Lacan
individua in questa funzione orientativa suppletiva il significato delle
allucinazioni uditive verbali, come se si trattasse di “cartelli indicatori
sul bordo del nostro percorso”.30 È l’operazione tentata e realizzata
da Joyce: orientarsi a partire dalle scritte secondarie quando la parola
simbolica del padre tace, quando non c’è trasmissione del desiderio da
una generazione all’altra, quando la carenza del padre – della strada
maestra – è irrecuperabile. È questa, precisamente, la funzione che
Lacan attribuisce all’arte di Joyce: coltivare la scrittura come supplenza
alla strada maestra del Nome-del-Padre.
un’altra filiazione
Possiamo raccogliere una serie di enunciati joyciani presenti in Dedalus e Ulisse che annunciano e chiariscono il tema di un’altra filiazione
30
“Come fanno coloro che sono chiamati utenti della strada quando non c’è strada
maestra, e per andare da un punto all’altro bisogna passare per strade secondarie? Seguono le indicazioni poste sul bordo della strada. Cioè, laddove il significante non funziona,
c’è qualcosa che si mette a parlare per suo conto sul bordo della strada. Laddove non c’è
strada, delle parole scritte compaiono su dei cartelli. È forse questa la funzione delle allucinazioni uditive verbali delle nostre allucinazioni – sono dei cartelli indicatori sul bordo del
loro piccolo percorso.” (Jacques Lacan, Il seminario. Libro iii. Le psicosi [1955-56], Einaudi,
Torino 1981, p. 347)
Telemachia
43
rispetto a quella stabilita ordinariamente dal Nome-del-Padre. Questi
enunciati – ai quali se ne potrebbero aggiungere molti altri – sono
lapidari: il padre appare come un puro sembiante (“una finzione legale”), oppure come un fenomeno solo animale-istintuale (un “istante
di cieca foia”). Nulla giustifica la funzione simbolica del suo Nome che
serve solo a turare un vuoto abissale, nulla lega un padre a un figlio.
1.La celebre conclusione del Dedalus: “Vado a incontrare per la milionesima volta la realtà dell’esperienza e a foggiare nella fucina
della mia anima la coscienza increata della mia razza”.31
2.In Telemachia, il dialogo a scuola tra Stephen e Mr Deasy: “Le
vie del Creatore non sono le nostre vie, disse Mr Deasy. Tutta la
storia si muove verso un’unica grande meta, la manifestazione
di Dio. Stephen accennò col pollice alla finestra dicendo: Quello
è Dio. Urrà! Ahai! Fiuuu!. Che cosa? chiese Mr. Deasy. Dio è un
urlo, rispose Stephen, alzando le spalle”.32
3.Nel corso della discussione shakespeariana in biblioteca Stephen
può affermare che: “Un padre è un male necessario”.33
4.Sempre nel corso di questa discussione: “La paternità è fondata
[…], come il mondo, sul vuoto”; “la paternità è forse una finzione legale? Chi è il padre di un qualsiasi figlio, perché qualsiasi
figlio debba amarlo e viceversa?”. Che cosa mai ricongiunge in
natura un figlio a un padre? “Un istante di cieca foia.”34
Questi enunciati demoliscono la dimensione simbolica del Nome-delPadre. La trasmissione simbolica del desiderio e l’esperienza stessa
dell’eredità deve essere ripensata senza l’ancoramento alla dimensione
edipica del padre. Se nella Telemachia joyciana è in gioco il problema
dell’eredità lo è nel senso di un suo fallimento simbolico. Ma è possibile
esistenza umana senza eredità? È possibile creazione senza filiazione?
È possibile farsi un nome senza ricorrere al Nome-del-Padre? Come
ci si può fare un nome, un nome proprio, un proprio nome, senza
passare dal Nome-del-Padre?
James Joyce, Dedalus, cit., p. 309.
Id., Ulisse, cit., p. 47.
33
Ivi, p. 283.
34
Ivi, pp. 284-285.
31
32
44
Massimo Recalcati
In Ulysses, Stephen-Telemaco fallisce l’eredità del Padre. Ma è possibile rendere fecondo il fallimento dell’eredità? La Telemachia joyciana,
ma probabilmente l’intera opera di Joyce, pone il problema dell’esistenza di un’altra filiazione rispetto a quella governata dall’Edipo, rispetto a quella presieduta dal Nome-del-Padre. Si tratta della possibilità di
una trasmissione del desiderio senza ricorrere alla funzione paterna. È il problema
che attraversa profondamente la filosofia di Nietzsche, è il problema
dell’autogenerazione del soggetto nel tempo della morte di Dio, della
possibilità che questa morte apra a una nuova umanità, a un oltreuomo (Übermensch), ovvero all’oltrepassamento dell’idea giudaico-cristiana – e
freudiana – dell’uomo in quanto figlio. Il rinnegamento del Padre comporta,
infatti, il rifiuto di essere un figlio. È il cuore della Telemachia joyciana: costituirsi come il figlio “necessario” delle proprie opere, farsi il
padre-creatore, padre-assoluto, farsi carico integralmente del padre,
farsi padre-artificiere, un padre che genera da sé – nella fucina della
propria anima e nell’arte della scrittura – il suo proprio figlio. Questa è
la missione – e la grande illusione – alla quale James Joyce, il sintomo,
sembra votarsi. Il rinnegamento del padre comporta il rinnegamento
della filiazione come soggettivazione del debito simbolico. Alla filiazione simbolica Joyce oppone l’impresa maniacalizzante dell’autogenerazione. L’idea – già presente in Dedalus – dello “spirito increato della razza”. Non si deve dimenticare il commento di Lacan su questo punto:
“credere che ci sia una coscienza increata di una qualsiasi razza è una
grande illusione”.35 Eppure lo scrittore si eleva al rango di Dio, dell’Altro assoluto, del “vasaio” che plasma il mondo attraverso il potere della
nominazione. È questa la dimensione maniacale di Finnegans Wake: “Si
imputa a Dio” commenta Lacan “qualcosa che pertiene all’artista, il
cui primo modello è, come tutti sanno, il vasaio. Si dice che abbia dato
forma […] a quell’affare che viene chiamato, non a caso, Universo”.36
l’eresia al posto dell’eredità
Il Telemaco joyciano è innanzitutto eretico; la sua pista è quella
dell’eresia che nella lingua francese evoca – come fa notare Lacan –
Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 67.
Ivi, p. 60.
35
36
Telemachia
45
foneticamente i tre registri rsi: hérésie.37 Questa eresia è una “opinione singolare” (è questo uno degli etimi del termine eresia) che scalza
la versione gesuitica (e giudaico-cristiana) di Dio-Padre come luogo
che salva la vita dalla sua derelizione. Se il Telemaco omerico è un
personaggio beckettiano, nel senso che rischia la nostalgia melanconica del padre, attendendo impotente il suo ritorno, quello joyciano
appare come sradicato, esiliato, eretico, genealogicamente privo di qualunque eredità.38 Tutto il suo destino sembra già scritto nel suo nome: Dedalus,
labirinto, impossibilità di trovare casa, di trovare radici, di possedere
un’identità definita. Qui si può misurare tutta la differenza che passa
tra la Telemachia omerica e quella joyciana. Mentre la prima si compie
nel ritorno del padre – nel ristabilimento del diritto naturale dell’erede
e nel recupero di una possibile filiazione simbolica, nel ristabilimento
della Legge della castrazione – la Telemachia joyciana esclude la possibilità del ritorno del padre perché non crede al Nome-del-Padre. Joyce
ironizza su questo Nome e più radicalmente, come abbiamo visto, lo
rinnega. Al Nome-del-Padre oppone il mito sintomatico del Nome
proprio, l’impresa di “farsi un nome” senza passare dall’Altro, l’eresia
al posto dell’eredità. La condizione di esiliato in casa propria diventa
per lui una condizione permanente; il figlio resta senza padre, o, più
precisamente, il figlio diventa “necessario” solo attraverso le opere del
padre. Generarsi da se stessi, autoprodursi, realizzarsi nel proprio sinthomo. Per Joyce-l’eretico, sarà solo la sua Arte a dargli un Nome, a dargli una rinomanza, non certo il Nome-del-Padre. La Telemachia joyciana rovescia così quella omerica alla quale si ispira: Stephen-Telamaco non
cerca affatto il padre, piuttosto cerca la liberazione dal padre. Non ne vuole più
sapere di padri. “Basta con i padri!”, è il motto di Stephen-Telemaco,
sostiene senza mezzi termini Lacan.39 In questo rifiuto dell’Altro, in
questa esperienza del senza fondo della lingua, dell’arbitrarietà del segno spinta al suo colmo iperbolico, Joyce può realizzarsi solo facendosi
artificiere di se stesso. L’impresa della creazione gli consente di farsi un
nome che dovrà essere riconosciuto dall’Altro dell’Università e della
37
Ivi, p. 13. Nondimeno, fa sempre notare Lacan, Stephen-l’eretico è anche un “povero cristo”, un “cet hère” dove “hère” si è pensato come un “eroe”. Non a caso Stephen Hero
è il titolo che Joyce aveva scelto per il libro che diverrà Dedalus. Ritratto di un artista da giovane.
Si veda ivi, p. 14.
38
Ivi, p. 13.
39
Ivi, p. 66.
46
Massimo Recalcati
Cultura, ma solo sullo sfondo desertico dell’assenza della parola paterna. La sublimazione non è più in alternativa – come appare ancora
nella classica lezione freudiana – al sintomo, ma si sintomatizza essa
stessa, nel senso che non “eleva un oggetto alla dignità della Cosa” – è
la celebre formula con la quale Lacan la definisce40 –, ma un soggetto
senza nome alla dignità dell’avere un nome, alla dignità dell’artista. In
questo senso Lacan può affermare giustamente che l’arte per Joyce è
una sostanzializzazione divinatoria del sintomo.41
Questo è il cuore dell’eresia joyciana: è possibile farsi un nome
singolare senza ricorrere alla nominazione del Nome-del-Padre? Come farsi un nome in assenza di un atto di nominazione? Come farsi
un nome senza l’ausilio del Nome-del-Padre? La soluzione joyciana
consiste nel porre la scrittura come scrittura del nome proprio, come generazione di una lingua sinora inesistente, come affermazione
orgogliosa del proprio Ego. In questo senso la Telemachia di Joyce
è alternativa sia a quella di Edipo (che è parricida), sia a quella del
Telemaco omerico (che è invocativa del padre). La Telemachia joyciana è
eretica, se l’eresia è ciò che rifiuta senza incertezze ogni forma di eredità dell’Altro. In Joyce l’eredità fallisce per clonazione (è il rapporto di
Joyce con Lucia) o per negazione del debito simbolico (è il rapporto
di Joyce con la sua stirpe e con la storia stessa della letteratura). Joyce
è sul lato dell’ateismo eretico nei confronti dell’Altro, nel senso che,
come afferma Lacan, il “nome che gli è proprio” può valorizzarsi
solamente “a spese del padre”.42 L’eretico è un disabbonato dall’eredità
poiché l’eresia è una negazione delle radici, della provenienza, del
debito simbolico. Il Telemaco joyciano vuole essere Padre e figlio delle
sue opere. La sua eresia si vorrebbe totalmente priva di eredità. Se c’è
una dimensione radicalmente psicotica della sua posizione è questa:
l’eresia joyciana, non volendo fare uso del Nome-del-Padre, afferma
la libertà della creazione come pura decisione dell’essere. La sua dedizione per la scrittura determina e coinvolge tutto il suo essere. Come
abbiamo visto la sua missione folle è quella di fare esistere con la sua
arte “lo spirito increato della razza”.
40
Si veda Jacques Lacan, Il seminario. Libro vii. L’etica della psicoanalisi (1959-60), Einaudi,
Torino 1994, p. 141.
41
Si veda Id., Il seminario. Libro xiii, cit., p. 37.
42
Ivi, p. 85.
Telemachia
47
lo sgabello e la spinta alla scrittura
Lo sgabello è, secondo Lacan, una figura chiave dell’estetica joyciana.
Joyce non è un redentore, come avrebbe voluto essere, nel suo delirio,
Schreber; egli è piuttosto un autore, uno scrittore alla ricerca di uno
“sgabello” (escabeau) che gli permetta di elevare il proprio Ego alla dignità dell’artista, cioè alla dignità di colui che si realizza nel suo saper-fare,
nel suo artificio, nella generazione della sua opera.43 Mentre Schreber
è animato dalla pousse à la femme, punta all’accoppiamento con Dio, trasfigura la sua paranoia fondamentale in una megalomania che lo trasforma nella donna di Dio, in Joyce prevale una pousse alla scrittura che
realizza il proprio Ego come ciò che rende possibile l’annodamento del
reale, del simbolico e dell’immaginario in assenza del Nome-del-Padre.
Questo Ego “correttore” della forclusione di fatto del Nome-del-Padre è
l’esito della supplenza sintomatica di Joyce. Non si tratta del moi prigioniero dello specchio, del risultato di una identificazione speculare, non
si tratta cioè di una compensazione immaginaria dell’Edipo assente.
L’Ego di Joyce realizza la sua funzione di correttore dell’assenza forclusiva
del Nome-del-Padre attraverso la produzione del libro come luogo di
consistenza del soggetto.44 La sua adorazione, l’adorazione di Joyce,
spiega Lacan, non è per l’immagine del suo corpo – come avviene per
il narcisismo del moi – ma per il libro. L’idea che Joyce ha di se stesso è
quella – come afferma Lacan – di “far di sé un libro!”.45 Joyce è, come
diceva di se stesso Flaubert, un uomo-penna, è preso in una spinta alla
scrittura – sedici ore al giorno di lavoro, ricorda Ellmann, per scrivere
Finnegans Wake – che reagisce all’assenza di trasmissione simbolica del
Nome. Per Joyce scrivere è innanzitutto un’esigenza sintomatica. Egli
scrive come respira; scrive anche quando le condizioni materiali della
sua vita (disordine, traslochi, spazi ristretti, figli piangenti, povertà, alcolismo) sembrerebbero rendere impossibile questa pratica. La spinta
alla scrittura è una spinta più forte della realtà perché ne va della sua
stessa esistenza. La creazione, l’autogenerazione, la partenogenesi è la
sua ambizione estrema e la sua illusione più profonda. Si tratta, come
precisa Lacan, di farsi essere il “figlio necessario” che non cessa di scri Si veda Jacques Lacan, Joyce il sintomo, cit., p. 162.
Ivi, p. 148.
45
Ivi, p. 67.
43
44
48
Massimo Recalcati
versi in ciò che egli stesso genera.46 Farsi essere l’unione indissolubile
di necessità e contingenza, di padre e figlio. Non pura contingenza,
nemmeno mera necessità. Piuttosto una contingenza che si risolve tutta
in pura necessità. Il padre nel figlio, il figlio nel padre. L’opera come
figlio ma anche l’opera come padre che assicura il divenire del figlio
(delle proprie opere). Tutto questo senza sfruttare in nessun modo lo
stratagemma edipico. Si tratta invece di essere un destino, di darsi una
missione: diventare, realizzarsi, farsi un nome di artista, insomma essere un libro. Per avere davvero un corpo bisogna essere un libro.
l’inesistenza del rapporto con il padre
Per Joyce l’incontro con il padre è come l’incontro (impossibile) del
rapporto sessuale; è sempre mancato. Possiamo seguire in tutto il corso dell’Ulisse le vicende di questo non-rapporto fondamentale. Bloom e
Stephen, il padre e il figlio, non si incontrano mai. La dialettica del
riconoscimento si riduce a un pisciare insieme. È la scena finale del loro
rapporto:
Ambedue, prima Stephen poi Bloom, nella penombra orinarono, i loro fianchi
contigui, gli organi mintorii reciprocamente resi invisibili da circumposizione manuale, gli sguardi […] elevati verso l’ombra luminosa e semiluminosa
proiettata. Similmente? Le traiettorie delle loro, prima susseguenti, indi simultanee, urinazioni furono dissimili: quella di Bloom più lunga, meno irruenta
nella forma […] quella di Stephen più alta, più sibilante, lui che nelle ultime ore del giorno precedente aveva aumentato con consumazioni diuretiche
un’insistente pressione vescicale.47
Questa scena è la scena di un non-rapporto; la condivisione dell’intimità non può essere associata in nessun modo alla scena topica e
struggente che Philip Roth ci consegna in Patrimonio dove il padre
lascia in eredità al figlio il resto umano – impossibile da ripulire – della
sua merda, come testimonianza della sua umanizzazione più radicale,
Si veda Jacques Lacan, Joyce, le symptôme, cit., p. 568.
James Joyce, Ulisse, cit., p. 935.
46
47
Telemachia
49
come dono della sua mancanza.48 In Ulisse la scena dell’incontro tra
padre e figlio è la scena di un non-rapporto che non lascia nulla in eredità. Anche gli schizzi di urina si separano, hanno direzioni differenti,
moti diseguali. Bloom, il padre, e Stephen, il figlio, non sono solo
inconciliabili, non indicano solo modi di godimento irriducibili. La
posizione di Stephen sembra ancora più estrema, più eretica; in essa
sembra risuonare un’obiezione fondamentale che investe il Nomedel-Padre: Padre non vedi che non esisti? Lo abbiamo visto: la Telemachia
joyciana è un disabbonamento dal padre, un suo rinnegamento. Eppure Lacan pone il problema di un modo “giusto” di essere eretici.49
Quale sarebbe il modo giusto dell’eresia? In questa formula – essere
eretici nel modo giusto – Lacan non ci invita forse nuovamente a
pensare che la condizione per fare davvero a meno del padre è solo
quella di servirsene? Nessun universale può dire in che cosa consista
la giustizia dell’eresia giusta, nessun universale può guidare la vita al
di là del Padre-fondamento, del Padre come Legge che assicura l’esistenza dell’Altro dell’Altro. L’eretico è in rivolta permanente contro
ogni universale perché sfida l’esistenza dell’Altro dell’Altro, perché ha
incontrato la sua inesistenza. Per questo – come dice Lacan di Joyce
– egli è un puro individuale.50 Ma questa inesistenza e questa singolarità assoluta non abolisce il problema dell’eredità che per Lacan resta
al cuore dell’umano. Casomai, l’interrogazione è obbligata a radicalizzarsi: come si può essere eredi di un Altro che non esiste? Cosa
sarebbe l’eredità giusta se in nessun Altro posso trovare la risposta sul
senso della mia esistenza singolare? Per Joyce l’eredità giusta è quella
del proprio sintomo, è quella della propria opera. Nondimeno questa
soluzione – la soluzione offerta dal sinthomo – come quella proposta dal
Nome-del-Padre, non potrà mai arrivare a fare esistere l’Altro, “dato
– come afferma Lacan – che non c’è Altro dell’Altro a operare il giudizio universale”.51 L’esistenza umana viene all’essere solo sullo sfondo
di un vuoto di garanzia. È quel vuoto alla cui organizzazione si vota in
modo sublime la pratica dell’arte. Né il sintomo, né il Nome-del-Padre
48
Si veda Philip Roth, Patrimonio. Una storia vera (1991), Einaudi, Torino 2007. Per un
commento di questa scena rinvio al mio Cosa resta del padre?, Raffaello Cortina, Milano
2011, pp. 119-123.
49
Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 14.
50
Si veda Id., Joyce il sintomo, cit., p. 164.
51
Id., Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 57.
50
Massimo Recalcati
salvano l’umano da quel vuoto. Dal vuoto interno al linguaggio, dal
reale impossibile da dire. Né l’eredità, né l’assenza di eredità, salvano
da quel vuoto sebbene rendano possibili modi diversi di abitarlo. Il
mistero del nome dell’esistenza resta tale sia nella fede nel Nome-delPadre sia nel suo rinnegamento. “Cosa c’è in un nome?”, si chiedeva
Stephen Dedalus in Ulisse. “È quel che ci chiediamo già da fanciulli
quando scriviamo il nome che ci hanno detto essere il nostro.”52 In
questa ambiguità – è l’Altro che dice cosa è nostro, cosa noi siamo nel
nostro nome proprio, ma il nome proprio è anche, nello stesso tempo,
il reale intraducibile della mia singolarità – si gioca tutta l’impresa
dell’esistenza e dell’eredità. “Chi mi ha scelto questa faccia?” chiede
Stephen nelle prime pagine di Ulisse.53
Sintomo, sinthome e clinamen:
Joyce e la questione del determinismo in psicoanalisi
Silvia Lippi
Non parleremo direttamente di Joyce e della sua arte (così speciale),
ma degli effetti che l’analisi di Lacan di quello che egli chiama “il sinthome di Joyce”, cioè la scrittura, ha avuto sulla concezione e la funzione del sintomo per la psicoanalisi, nel suo rapporto con la ripetizione
e i determinismi nel soggetto.
C’è un modo di dire “no” alla domanda dell’Altro, di lottare contro
la “necessità” imposta al soggetto dall’esterno. Una delle armi per
combatterla – si tratta certo di un’arma “pericolosa” – è il sintomo
inteso qui come “deviazione” dalla traiettoria programmata del soggetto e supposta determinarlo. Da lì il rapporto tra sintomo e clinamen.
Il clinamen è visto da Lucrezio come una deviazione minimale degli
atomi (declinare) nel loro percorso verticale, deviazione che permette
loro di produrre un cambiamento.1 Il clinamen, nel campo della fisica
come in quello della morale, è una deviazione spaziale allo stesso tempo che una necessità logica. Il clinamen – del resto come il sintomo – è
una ribellione alla necessità, o meglio, a una necessità che viene al
posto di un’altra necessità: per Lucrezio, è una reazione alla dottrina
“traumatica” di Democrito che suppone il mondo retto da una necessità assoluta.2
Lucrezio, De rerum natura.
Questo punto merita una precisazione: la necessità, secondo Democrito, non è così
radicale, egli lascia un po’ di spazio al caso. Possiamo dire che la necessità di Democrito
1
James Joyce, Ulisse, cit., p. 287.
53
Ivi, p. 10.
52
2
52
silvia lippi
Partendo da una deviazione nello spazio la “libertà” fa la sua apparizione nel mondo. Il paradosso è che questa libertà viene dall’esterno:
ciò non toglie la possibilità al soggetto di essere, in una certa misura,
libero, libero di cambiare la sua sorte. La libertà, come la vita, per
Lucrezio ci è data. Così come noi non siamo i responsabili della nostra
venuta al mondo, non siamo neppure i creatori della nostra libertà, il
risultato di questa declinazione spaziale.
L’atomo è sottoposto a qualche cosa che gli fa cambiare percorso,
e in modo analogo, anche il sintomo è uno “scarto” rispetto alla via
determinata dall’Altro e dal suo desiderio. Il cammino è già tracciato
per il soggetto, ma, come per l’atomo, c’è la possibilità di divergere
dal percorso “deciso”, dall’itinerario fissato in anticipo dal desiderio
dell’Altro. In altre parole, il soggetto può “spostare” i significanti del
suo destino. Grazie, o meglio, a partire dal sintomo.
Il sintomo è spesso il punto di partenza in una cura. È paradossalmente il solo atto “volontario” del soggetto, nel senso che è il suo
inconscio che lo “vuole” e che lo dirige. Il sintomo diventa in questo
modo qualcosa di “prezioso” per il soggetto: pure restando nel campo
del determinismo, esso è, nello stesso tempo, una via di uscita. Il sintomo è simultaneamente un’emancipazione e una costrizione, poiché
esso si ripete malgrado il soggetto.
dal sintomo come metafora al sinthome
Intorno agli anni cinquanta, Lacan, rileggendo Freud, considera il
sintomo come una metafora, una sostituzione simbolica che permette
un’organizzazione soggettiva più o meno stabile.3 Il sintomo è un ritorno della verità4 che si interpreta attraverso l’ordine del significante;
esso prende senso solamente nella relazione con un altro significante.
Il sintomo viene al posto del rimosso per esprimere qualche cosa d’impossibile a dirsi per il soggetto (un’immagine, una parola, un affetto…)
relativo all’ordine della sua verità “traumatica”, inconscia.
ammette l’aleatorio. Si veda Pierre-Marie Morel, Atome et nécessité. Démocrite, Épicure, Lucrèce,
puf, Paris 2000.
3
Jacques Lacan, L’instance de la lettre dans l’inconscient ou la raison depuis Freud (1957), in Id.,
Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 528.
4
Id., Du Sujet enfin en question (1966), in Id., Écrits, cit., p. 234.
sintomo, sinthome e clinamen
53
Secondo questo primo approccio proposto da Lacan, il sintomo
dipende interamente dalla storia traumatica del soggetto, come se esso
non potesse essere nient’altro che “sostituzione”, “rimpiazzamento”,
in altre parole “ripetizione”, autòmaton.5 In quanto “nuova necessità”,
il sintomo non sembra essere di molto sollievo: il soggetto dipende
sempre, e non può sfuggire, da ciò che lo determina.
Tuttavia come questo ritorno del passato – un passato che resta in
parte misconosciuto, enigmatico, irrisolto – potrebbe liberare il soggetto? In che modo la deviazione spaziale del clinamen coincide con la
ripetizione del sintomo?
Roberto Harari critica una clinica psicoanalitica che sottomette
l’importanza del sintomo al significante.6 La realtà sarebbe allora la
stessa e una sola, permanente, senza posto per il cambiamento, sostituibile dagli stessi elementi che hanno sempre lo stesso valore per il
soggetto, valore commemorativo del trauma. In questo primo orientamento di Lacan, il sintomo non può essere l’elemento differente, la
rottura rispetto al passato, il clinamen.
Lacan, alla fine del suo insegnamento, modifica questa visione deterministica, e per marcare questo cambiamento, scrive “sintomo” diversamente: sinthome,7 che riprende un’antica ortografia francese. Lacan dà
come esempio di sinthome, la scrittura di Joyce. In Finnegans Wake, scritto
nel 1939, come pure nel poema d’amore Giacomo Joyce del 1914, Joyce
rompe l’ordine delle parole e il loro accordo con il significato.8 Joyce
può liberarsi così del giogo della parola attraverso il suo uso singolare
del linguaggio, uso che gli permette di sviluppare tutte le possibilità del
godimento, invece di attenersi a un unico senso della parola.
Il sinthome non pratica una sostituzione. In quanto avvenimento
psichico innovatore – sempre a partire dal passato – esso aggiunge,
è “produttore” di godimento (come Freud aveva già riscontrato nel
5
L’autòmaton si oppone al reale traumatico, alla tyche. Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre
Les Quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, pp. 53-62. Si
veda Aristotele, Physique, Flammarion, Paris 2000, pp. 134-145.
6
Roberto Harari, Inconscient: clivage; sinthome: clinamen, in “La Clinique lacanienne”, n.
5, Le Symptôme, Erès, Toulouse 2001.
7
Jacques Lacan, Le Sinthome (1975-1976), versione dattiloscritta, lezione del 17 febbraio
1976. Sebbene questo seminario sia pubblicato in Francia (Id., Le Séminaire. Livre xxiii. Le
Sinthome, Seuil, Paris 2005) preferiamo utilizzare la versione dattiloscritta.
8
Ivi, lezione del 10 febbraio 1976.
xi.
54
silvia lippi
sintomo). In questo senso, il sinthome deve essere differenziato dalla
sublimazione, in quanto la funzione per il soggetto è altra (Lacan non
parla mai di sublimazione nel caso di Joyce). La sublimazione in senso
freudiano si legge ancora come una metafora, essa è una sostituzione,
o meglio, uno spostamento: spostamento dell’oggetto e spostamento
dello scopo della pulsione.9
Certamente, il fatto di scrivere è per Joyce una forma di sublimazione, cioè una deviazione, uno spostamento, una sostituzione della
soddisfazione pulsionale. Ma non è questo aspetto dell’arte di Joyce che
interessa Lacan, né un eventuale senso nascosto che le parole “insensate”, dissociate, scatenate dei suoi scritti potrebbero svelare. Le parole
infatti si associano attraverso processi analogici (suggestioni, amalgami,
neologismi ecc.): la scrittura di Finnegans Wake è una scrittura “pulsionale”. Freud parla di “linguaggio degli organi”10 nella schizofrenia, nel
quale le parole sono utilizzate “come le cose” e si associano secondo la
sonorità piuttosto che secondo il senso. È così che le parole manifestano il loro valore pulsionale, attraverso le assonanze, le allitterazioni, le
onomatopee, le sinestesie, i contrasti, le figure.
La scrittura di Joyce si mostra come un “trattamento” del godimento. La scrittura come sinthome interessa Lacan anche da un punto di
vista psicopatologico e clinico. Ovvero il sinthome è un “trattamento”
del godimento instaurato dal soggetto stesso a partire dalla ripetizione
del sintomo e dai suoi determinismi. Poiché il soggetto non può rinunciare a questo godimento, l’iscrizione del sinthome è irreversibile, unica,
insostituibile; ma il godimento ha già perso il suo valore distruttivo e
annientante per il soggetto. Il trattamento del godimento operato dal
sinthome non riesce comunque a canalizzarlo, né lo limita, lo riduce ma
lo sfrutta, lo sfrutta a partire dalla contingenza. L’inventiva singolare
del sinthome permette un’articolazione del godimento con ciò che il
soggetto può assumere attraverso la parola.
Ci sembra necessario sottolineare la pertinenza di questa clinica nella
psicosi in cui, al di fuori degli standard dell’Edipo, il soggetto deve inventarsi una soluzione che permetta di trattare, attraverso la creazione (artistica o no), ciò che appartiene a un reale inarticolabile e che lo minaccia
Sigmund Freud, Metapsicologia, in Id., Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980,
vol. viii, p. 22.
10
Ivi, pp. 81-83.
9
sintomo, sinthome e clinamen
55
nel corpo. Questa clinica determina un’esperienza che apre il soggetto
a un’etica della responsabilità del proprio modo singolare di godimento.
le due ripetizioni in lacan
Il sinthome è un clinamen. Con l’interruzione della necessità, dovuta alla
ripetizione in serie del trauma vissuto anche come godimento, l’avvenimento traumatico non è annullato ma, grazie alla ripetizione del
sinthome, il soggetto non è più totalmente dipendente dal godimento
traumatico (e perduto). Qualche cosa cambia.
La ripetizione nel sinthome è al tempo stesso determinismo e libertà.
La concezione della ripetizione di Lacan cambia durante il suo
insegnamento. Nel 1964, ne I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Lacan afferma che nella ripetizione, dietro l’autòmaton, ossia l’automatismo della catena significante (il Simbolico), ciò che si ripete è
sempre la tyche: il “cattivo incontro”, l’incontro con il Reale in quanto
mancanza.11 La tyche determina la catena significante e si ripete (autòmaton) all’insaputa del soggetto. Il soggetto è completamente passivo
nel processo, pilotato dal Reale e alienato nel Simbolico.
Tuttavia nel 1972, nel seminario …O peggio, la ripetizione diventa
“una ripetizione che apre al nuovo”. Attraverso un’analisi originale
del necessario e del contingente,12 Lacan dimostra che la ripetizione
è un ritorno sempre modificato del reale traumatico. Certamente, il
nuovo, nella ripetizione, non è dell’ordine dello straordinario e del
prodigioso, ma è solamente “un debolissimo scarto nel senso del godimento”, diceva Lacan nel 1969, in Il rovescio della psicoanalisi.13
L’après-coup del trauma, cioè il reale vissuto nella ripetizione, non
è una tautologia, nonostante esso si inserisca nella serie traumatica
Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre xi, cit., pp. 53-62. Lacan, in questo seminario distingue il transfert dalla ripetizione.
12
Lacan parla della ripetizione come di una necessità, necessità che egli definisce come
“non potere non” (“ne pas pouvoir ne pas”). Lacan riunisce il necessario e il contingente
nello stesso enunciato. Esso è composto da due locuzioni: “non potere” (“ne pas pouvoir”),
ossia il necessario, e “potere non” (“pouvoir ne pas”), ossia il contingente. Jacques Lacan,
…Ou pire (1971-72), versione dattiloscritta, seminario dell’8 dicembre 1971. Oggi questo
seminario è pubblicato in Francia: Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre xix. …Ou pire, Seuil,
Paris 2011.
13
Id., Le Séminaire. Livre xvii. L’envers de la psychanalyse (1969-70), Seuil, Paris 1991, p. 56.
11
56
silvia lippi
del soggetto. In altre parole, il necessario (il reale che ritorna sempre
allo stesso posto) è già contingente (l’imprevedibile, l’improbabile, ciò
che può o non può arrivare) nella ripetizione. E la ripetizione è già
differenza, distanza, novità.
il sinthome turbolento
Harari parla della turbolenza nel sintomo.14 Il sintomo turbolento – il
sinthome di Lacan – si può situare tra il necessario e il contingente. Per
Joyce il necessario è scrivere “pulsionalmente” senza fermarsi; il contingente riguarda l’interrogativo intorno a che cosa diventerà la scrittura.
È da notare che Freud parla del sintomo come di un compromesso:
compromesso tra il godimento traumatico (il necessario) e la sua impossibilità che apre al nuovo (il contingente) nella ripetizione del sintomo. L’impossibilità di raggiungere il godimento fa cambiare direzione al sintomo (clinamen) che esce dal circolo vizioso e si fa portatore
dell’inatteso.
Dove troviamo, in Joyce, il contingente (l’inatteso) che si presenta a
partire dal necessario? La scrittura permette a Joyce di “farsi un nome”
(anche nel senso patronimico, evidentemente), nome che permetterà
la circolazione della sua opera nella comunità. La questione del nome
patronimico ha sempre costituito per Joyce un problema, infatti non ha
voluto riconoscere suo figlio alla nascita (non riusciva neanche a dargli
un nome); non ha voluto sposare Nora – e dargli così il suo nome patronimico – prima di essere arrivato all’età di quarantanove anni. E nel
momento in cui lo scrittore ottiene finalmente la cattedra di professore
all’università di Trieste, Joyce decide di lasciare definitivamente la città.
Joyce ha potuto “assumere” il proprio nome solamente quando
questo si è associato alla sua attività di scrittore: la scrittura è il clinamen
nella vita “determinata” dell’artista, il sinthome che s’instaura, grazie al
nome proprio (il nome patronimico) inscritto nella comunità culturale
del mondo intero.15 La visione di Michel Serres16 sul clinamen come
Roberto Harari, op. cit.
15
“Joyce ha un sintomo che parte da questo: suo padre era carente, radicalmente carente
– non parla che di questo. Ho centrato la cosa intorno al nome proprio, ed ho pensato – fate
ciò che volete di questa idea – che è grazie al fatto di volersi fare un nome che Joyce ha compensato la carenza paterna.” (Jacques Lacan, Le Sinthome, cit., la traduzione dal francese è mia)
16
Roberto Harari, op. cit.
14
sintomo, sinthome e clinamen
57
inizio di un movimento vorticoso che rende conto della creazione del
mondo non è molto differente dalla concezione altrettanto vorticosa
del sinthome di Lacan. In fisica, il nucleo di un vortice (o attrattore) è un
punto qualsiasi in un’orbita che sembra attirare verso di sé il sistema,
mentre il cosiddetto nucleo strano (étrange) ha un percorso singolare nel
quale la struttura non attua mai lo stesso movimento.17
Il sinthome può essere considerato un “attrattore strano”, un’inspiegabile combinazione di caso e di ordine, di determinismo e d’imprevedibilità. È un vettore di squilibrio, ma positivo e fecondo, capace di
uscire dalla catena significante metaforica, perché è inclassificabile,
indefinibile. Forse incomprensibile, ma sicuramente “trasgressivo”, in
quanto rappresenta un tentativo, per il soggetto, di indipendenza dal
desiderio dell’Altro.
Il sinthome può essere considerato allora come un vettore dissipativo
di energia libera. Michel Serres pensa che tutto possa nascere dalla
deviazione. E l’inconscio, attraverso questa deviazione, instaura un
nuovo equilibrio in un sistema aperto, agli antipodi dell’universalmente stabilito.
conclusioni
La complessità del sistema inconscio presente nel soggetto partecipa
di una struttura che non è né determinista, come la psicologia fa credere, né aleatoria.18 Tuttavia, questa struttura permette l’apparizione
puntuale della contingenza: all’improvviso, qualcosa accade. La contingenza si presenta a partire dalla multicausalità iscritta nella rete
surdeterminata del significante. È il soggetto stesso che produce la
sua contingenza, il suo clinamen, e ciò vale per la nevrosi come per la
psicosi.
Per Lacan, il sintomo deve “cadere”, come sottintende la sua etimologia (la sillaba pto significa “caduta” che deriva del greco ptosis).
17
Id., Le Sinthome turbulent et dissipatif, in “La Clinique lacanienne”, n. 1, Erès, Toulose
2000, p. 42.
18
In matematica, una serie aleatoria, o serie infinita aleatoria, è una serie di numeri
che non possiede nessuna struttura, regolarità, o regola di predizione identificabile. Una
tale serie corrisponde alla nozione intuitiva di numeri tirati a caso. Sempre in matematica,
l’aleatorio può esprimere anche una regolarità paradossale capace di sfidare le regolarità
classiche.
58
silvia lippi
Ma il sinthome che costituisce secondo Lacan la “particolarità”19 del
soggetto, non cade. Può tuttavia modificarsi, può cambiare traiettoria
e correggere il percorso “singolare” del soggetto affinché desiderio e
godimento siano ancora possibili.
Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce
Florence Briolais e Michel Mesclier
argomento
Lacan distingue il “particolare” che riguarda il sintomo, dal “singolare”, concetto
proprio al soggetto. Jacques Lacan, Le Plaisir et la règle fondamentale (1975), in “Lettres de
l’École freudienne”, n. 24, 1978. Versione disponibile in rete.
19
Durante i suoi viaggi attraverso gli Stati Uniti, Jack Kerouac non smise mai di scrivere, riempiendo numerosi taccuini di una prosa spontanea sul groove trasposto del Bebop.
Questa scrittura dell’erranza rinnovò il romanzo americano con
l’opera intitolata Sulla strada che, secondo l’autore, era stata ispirata
dallo Spirito Santo.
Kerouac scriveva senza sosta, mitragliando sulla sua cara Underwood tanto che potremmo dire che rispondesse a una scrittura imposta.
Questa dipendenza dalla lettera, così come le citazioni frequenti
che trae dall’Ulisse e dal Finnegans Wake, interroga i suoi lettori. Infatti
James Joyce, più che una fonte d’ispirazione, fu proprio l’outsider nel
quale Kerouac si riconosceva.
Sarà per un’analogia di struttura, derivante da un annodamento
soggettivo portatore di un lapsus? Un annodamento simile a quello
che Lacan sviluppa a proposito di Joyce: un immaginario sganciato
dall’articolazione simbolico-reale.
Sul filo di questa ipotesi rimarrà da dimostrare: perché due forme
di supplenza – una mediante la trance del jazz, l’altra con la scrittura infinita – non dissuasero Kerouac dal suo lento suicidio alcolico?
60
florence briolais e michel mesclier
da james joyce a jacques kerouac, una risonanza
James Joyce gettò, come un ciclope, l’isola di Ulisse, poi quella di Finnegans Wake nel mare nostrum della letteratura europea, e ingenerò uno
tsunami che spazzò via un secolo di leggibilità. L’illeggibile poteva
essere letto, il leggibile perdeva la sua evidenza banalizzante. Il mondo letterario non si riprese mai dal sisma che continua a vibrare sotto
i tavoli dei mercanti di libri. Gli scrittori autentici riconobbero, in
questo ruvido stravagante, un genio di cui sarebbero stati costretti a
mandar giù le cacofonie. Ma ben pochi piegarono il proprio stile alle
conseguenze di questo shock.
I situazionisti, sempre odiosi agli occhi della gente per bene, decretarono che dopo un tale casino la letteratura era morta. Non sospettavano, questi Orlando furiosi dell’anatema, che Joyce avrebbe fecondato una stirpe di autori di cui Jack Kerouac fu la matrice autogenerata.
Quelli della Beat Generation poi, al di là del postmodernismo, i poeti
della lalingua diseredata dal senso.
Jack Kerouac fu un fervente lettore di Joyce, così come di Proust,
due scrittori che esigono dei lettori, quando alla maggior parte degli
altri sono sufficienti dei semplici “sfoglia pagine”. Joyce è presente
in molti dei suoi testi e possiamo sostenere che il romanzo che rese
celebre Kerouac, Sulla strada, non sarebbe mai uscito dalla sua Underwood senza la precessione dell’Ulisse.
In un breve saggio, Shakespeare e l’outsider, Kerouac delinea l’altissimo
lignaggio di Joyce:
James Joyce tentò l’impresa di diventare “Shakespeare in sogno” e ci riuscì.
Finnegans Wake non è che un puro delirio shakespeariano di sotto, di sopra e dappertutto: “I no sooner seen a ghist of his frighgteousness than I was bibbering with
vear e few versett off fooling for fjorg for my fifth foot” e questa che altro non è che
la fine di una lunga frase stravagante, puro Ritmo e Sonorità alla Shakespeare ma
con le particolarità irlandesi di ispirazione profonda, scure come la torba in Yeats.
La citazione dal Finnegans Wake: “Bibbering with vear”1 non viene per
caso: Kerouac ne sapeva qualcosa.
1
L’espressione joyciana: “Bibbering with vear” può essere resa con “Poppare la paura
a garganella” (traduzione nostra).
Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce
61
È strana la passione di Kerouac per Joyce, dal momento che in
apparenza nulla li accomuna. Da dove viene questa affinità che fece
di Kerouac il passeur di Joyce nella letteratura nordamericana? Tenteremo di chiarire brevemente questa convergenza. Ipotizzeremo una
risonanza topologica tra lo spazio soggettivo di James Joyce e quello di
Jack Kerouac. Possiamo parlare di una somiglianza di annodamento
soggettivo? Bisognerà verificarlo attraverso la singolarità delle loro
opere, là dove la struttura si mette a nudo. Cercheremo di mostrare
che si producevano per Kerouac delle epifanie, dei momenti fecondi,
fonte della sua scrittura. Sono paragonabili alle epifanie joyciane? Kerouac avrebbe potuto costruirsi un Ego con le proprie supplenze? Che
posto aveva nel suo sinthomo la sua profonda dipendenza dall’alcol?
La sua personale osteria gli valse una morte simile a quella di James
Joyce, altro adepto dei baccanali, ovvero per ulcera perforata, anche
se localizzata diversamente. La morte è sempre singolare.
nascita epifanica di un poeta
“Sono nato e la musica ha iniziato a impregnare il mio essere.” Questa nascita è riportata in una lettera di Kerouac indirizzata a un amico
poeta, scritta nel 1941, poi ritrovata e pubblicata nel 1995.
Ma di quale nascita si tratta? “Folle nascita crepuscolare”, scrive
Kerouac. Folle nascita in un momento di estraneità: il bambino di sei
anni, solo, tutti i sensi all’erta, sente “[…] questo filo di crepuscolo
invernale”, “[…] questa tristezza fugace”. Ci troviamo forse di fronte
all’appercezione del bello nel suo stato nascente, esperienza estetica che crea l’annodamento del simbolico e del reale, come accade
nell’epifania joyciana?
L’assunzione del corpo proprio necessita il passaggio allo stadio
dello specchio. Sotto l’egida di una relazione a un Altro desiderante e
gratificante, il bambino incontra la propria immagine unificata, immagine corporea riferita al significante fallico, significante del desiderio, che permette l’annodamento di rsi.
Se il significante del Nome-del-Padre e il fallo fanno difetto, gli
oggetti del godimento, oggetti legati alla prossimità della Cosa, restano allora estranei alla struttura significante e prendono un carattere
reale. Il godimento legato a questi oggetti, sganciato dagli orifizi del
62
florence briolais e michel mesclier
corpo, farà ritorno in maniera anarchica in tutto il corpo. Gli scritti
di Kerouac rivelano, in molte descrizioni, la presenza di fenomeni elementari. Abbondano le testimonianze sulle sue allucinazioni uditive
e visive, sulle esperienze di derealizzazione e di depersonalizzazione,
sulle erranze affettive e sessuali, aggravate dall’assunzione di droghe,
fino agli episodi mistici e alla sua versatilità politica.
La vita di questo autore esemplifica la posizione esistenziale qualificata da Lacan come “non-zimbelli”: “I non-zimbelli-errano” (Les nondupes-errent), in cui l’equivoco con “I-Nomi-del-Padre” (Les-noms-dupère) ci dice quanto la struttura ignorata sia articolata al significante
del Nome-del-Padre. In sua assenza, l’annodamento borromeo non ha
luogo, e il soggetto disarticolato vive sotto la minaccia di divenire viator,
viaggiatore errante. La passione del non-zimbello, nei casi di forclusione del significante del Nome-del-Padre, è il rigetto dell’inconscio. Ciò
che predispone il soggetto allo scatenamento di una psicosi.
Le conseguenze sull’Io sono radicali. L’Io è il rapporto del soggetto
all’immagine del corpo, a ciò che fa sì che egli abbia un corpo attraverso la serie delle identificazioni immaginarie. Colui che strutturalmente non vi arriva deve fabbricarsi un Ego, come James Joyce e,
ipotizziamo noi, anche Kerouac. Ed è all’interno di epifanie estetiche
che viene alla luce l’Ego, nella misura in cui il corpo immaginato si
sostituisce al corpo speculare.
Le epifanie di Kerouac sarebbero della stessa natura di quelle joyciane?
Per rispondere a questa domanda partiremo da questa particolarità
che lo stesso Kerouac ci indica: la sua nascita correlata all’impregnarsi del suo essere di musica, più precisamente di jazz. Ricercheremo
la traccia dell’emergenza di questi fenomeni epifanici e di ciò che,
nell’esistenza di questo soggetto, avrebbe potuto farli precipitare.
La musica non è senza legame con la Beat Generation, movimento
letterario e artistico degli anni cinquanta, al quale Kerouac darà una
veste spirituale: “Generazione della beatitudine”. La sonorità della
parola – per lui che è di lingua madre francese – è da accostare alla
beatitudine, “beato” in italiano. Associazione che gli sarebbe venuta in
una chiesetta, quando la statua della Vergine si sarebbe voltata verso di
lui. Ma gli sarebbero poi venute anche altre associazioni, tutte altrettanto interessanti: beat rinvia al battito cardiaco e al drum, la batteria,
strumento centrale nel jazz; così come al ritmo, in modo più corrente,
Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce
63
dei colpi della pagaia delle canoe. Il termine beat precedette così l’essenza stessa delle opere che avrebbero prodotto gli scrittori beat: scrittura spontanea, automatica, in cui domina la prosodia libera e ritmata,
la pulsazione: “Sono nato e la musica cominciò a impregnare il mio
essere, i colori indossavano un’intensità profonda e le mie labbra producevano note flautate come quelle che troviamo in Joyce. Le finestre
delle case sprofondavano nella tristezza e sono ogni giorno più tristi”.
Questo estratto poetico rivela il legame tra l’avvento del poeta e la musica, tra la musica e la poesia. La musicalità come sorgente prima della
poesia. Musicalità che rinvia a un termine coniato da Lacan: lalingua.
Musicalità della lalingua che evoca questo tempo primordiale della
civilizzazione del godimento tramite lalingua, prima messa in forma
del godimento e prima difesa (soggetto primordiale) contro l’angoscia
inerente all’imminenza del godimento. Questa materia sonora con
la quale Kerouac forgia i suoi scritti sarebbe allora l’ultimo sostegno quando i suoi appigli immaginari iniziano a cedere. E la musica
funzionerebbe come un antidoto alla melanconizzazione di Kerouac, alla sua aspirazione a godimenti mortali. Questa sarà la nostra
ipotesi.
Gli scritti di Kerouac sono il palinsesto della sua vita. Ci rifaremo
precisamente a due testi, che si inscrivono sulle tracce cancellate del
reale: il primo è un testo “seminale”, Visioni di Gerard,2 scritto tra il 1° e
il 16 gennaio del 1956, nell’arco di dodici notti; unico all’interno della
sua bibliografia, narra l’esperienza del secondogenito della famiglia
Duluoz, soprannominato Ti Jean. Durante il suo quarto anno di vita
il bambino vivrà uno sconvolgimento dalle conseguenze irreversibili:
la perdita del fratello maggiore Gerard, morto a nove anni in seguito
a un reumatismo articolare acuto. Questo racconto ha dunque come cornice gli ultimi mesi della breve vita di Gerard. Ritroviamo in
questo testo la presenza della lalingua come ultima risorsa di Ti Jean,
lasciato solo, privato del suo supporto immaginario.
Il secondo testo è quello a cui ci siamo già riferiti: La mia folle nascita
crepuscolare.3 Quale posto occupava Gerard nella vita di Ti Jean, Ti Jack Kerouac, Visioni di Gerard (1963), Mondadori, Milano 1999.
Id., Ma folle naissance crépusculaire (1941), in “Nouvelle Revue Française”, giugno 1999,
n. 521, pp. 8-9 (traduzione nostra).
2
3
64
florence briolais e michel mesclier
Pouce? Quale impronta lasciò questo fratello nella vita e nell’opera
di Kerouac?
La breve vita di Gerard è raccontata secondo il modello della vita
dei santi e sarà solo più tardi che le parole pronunciate da Gerard
sveleranno la loro portata profetica. Kerouac attribuirà a suo fratello
il ruolo di colui che lo ha iniziato alla propria aspirazione mistica: “Fu
solo molti anni dopo, (…) che mi sovvenni dell’assoluto e immortale
idealismo impartitomi dal mio santo fratello – E ancor più tardi con la
scoperta (…) del Buddismo, Ridestamento –”.4
Le ultime parole mormorate dal bambino morente furono raccolte,
ma non rivelate, dalle religiose della scuola parrocchiale di San Luigi
di Francia dove si recava Gerard. Queste note criptiche presero una
dimensione abissale, lasciando a Jack Kerouac il compito di rispondere
a questo segreto: “(…) l’unica ragione per cui mi sono mai messo a scrivere, sfiatandomi a mordere invano con penna e inchiostro, gran dio
con indifendibile consumabile matita è per via di Gerard l’idealismo,
Gerard mistico eroe – ‘Scrivete in onore della sua morte’ (Écrivez pour l’amour
de son mort) (come chi dicesse, scrivete per amore di Dio) – (…)”.5
La perdita reale di Gerard fece precipitare il fallimento dell’immaginario di Ti Jean. Nel paradiso della prima infanzia i due fratelli
facevano Uno, essendo Gerard il doppio di Ti Jean. Infatti, finché un
soggetto non sperimenta allo specchio l’assunzione soggettiva di se
stesso come corpo unificato e separato dall’altro, questo altro resterà
un prolungamento del proprio corpo. Il soggetto dovrà allora costruirsi un doppio (un fratello, un animale o il personaggio di un fumetto)
che si trovi sul lato dello Stesso, dell’identico e non sul lato dell’alterità:
“Nei primi quattro anni della mia esistenza, mentre lui era vivo, io
non ero Ti Jean Duluoz, ero Gerard, e il mondo era il suo viso, quel
fiore di viso, l’andatura curva e spenta, la santità struggente, i suoi
insegnamenti di dolcezza (…)”.6
Privato della presenza di suo fratello malato, Ti Jean si aggrapperà
alla loro lingua comune, il francese canadese del Québec (il joual). Lingua
orale familiare da cui è uscita la lalingua e le mimiche imitative che sosten Id., Visioni di Gerard, cit., p. 11.
Ivi, pp. 112-113.
6
Ivi, p. 7.
Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce
65
gono le sue lallazioni: “Tutto solo nel cuore del pomeriggio, siedo sugli
alti gradini di legno, in fondo alla sala della Pesca di Beneficienza del
St. Louis e mi sforzo di imitare il suono che si sente quando arrivano da
Nashua lo zio Mike Duluoz con la moglie e tutti i Duluoz che sono venuti a trovarci e si siedono in salotto a lamentarsi –: ‘E BUÀ! E BUÀ!’ – ”.7
I giochi sonori e di imitazione sono atti a sostenere l’edificio delle
identificazioni immaginarie. Ma quando Gerard muore, Ti Jean si
trova a vivere un momento di derealizzazione, di estraneità allucinatoria: “Gerard è morto, l’anima è morta, il mondo è morto”, scrive
Kerouac.8 Tutto ciò che costituiva il suo mondo appare di colpo svuotato di sostanza e di senso; indizio di una catastrofe soggettiva seguita
da un episodio prossimo alla catatonia, segno di grande depressione
in un bambino così piccolo. La musica di un vecchio Victrola, un
grammofono degli anni venti, farà uscire il bambino dal suo torpore.
Egli mimerà e costruirà scenari sonori a partire dalla musica; fantasmagoria che verrà a immaginarizzare il reale e a placare il dolore
della perdita reale, fuori senso, fuori simbolico.
A otto anni, Jack creerà i propri fumetti, a undici scriverà dei romanzetti e a diciassette il suo primo romanzo alla Ulisse, intitolato
Vanità di Duluoz. Come trattare l’innominabile, l’impensabile? Scrivere.
Scrivere senza tregua affinché risuoni The Beat o pulsazione, “martellamento ritmico” della pressa di suo padre Leo, mastro tipografo; e
“Il suo cuore sotto la camiciuola”.9 Pulsazione che borda il godimento
pulsionale e per risonanza dà consistenza al corpo.
Questo testo inedito, La mia nascita crepuscolare, scoperto nel 1995, è
una lettera indirizzata nel 1941 al suo amico poeta Samy Sampa. Kerouac ha diciannove anni. Autentica testimonianza di un’esperienza
soggettiva nella quale si presenta una modificazione spontanea della
percezione estremamente acuta della realtà, e l’avvento non tanto di
un soggetto quanto di un Ego, nel senso in cui lo intende Lacan a
proposito di James Joyce. Questo Ego risulta dagli effetti dell’opera
sul suo autore.
Ivi, p. 107.
Ivi, p. 112.
9
Ivi, p. 13.
4
7
5
8
66
florence briolais e michel mesclier
La mia folle nascita crepuscolare. Il giorno in cui sono nato, il suolo era coperto di neve e il sole al tramonto tingeva le finestre di fronte di un’antica
malinconia rossa come in sogno.
Camminavo verso casa con il mio slittino, avevo sei anni. Tutto ad un
tratto mi sono immobilizzato, lo sguardo fisso, sereno sul marciapiede di
Centralville.“Cosa c’è?” mi chiesi notando il soffio improvviso di un momento
di tristezza mentre sorvolava le falde dei nostri tetti. “Cos’è questa cosa strana
che vedo?”. È così che vengo al mondo nel febbraio 1929 appena prima di
cena.10
Il 1929 è l’anno del grande crack finanziario, fine ineluttabile della
speculazione galoppante che proietta gli Stati Uniti nella miseria più
nera. Questo evento si situa due anni dopo la morte di Gerard. La
sera del crollo in borsa suo padre, piccolo tipografo, non ancora toccato dalla crisi, porterà la moglie al cinema. Ti Jean e sua sorella Nin,
rimasti soli, cantano fino a notte una vecchia canzone francese: Pierre
et Jacques dormez-vous, dormez-vous? Canzone che evoca il legame con la
madre, attraverso la lalingua che si presenterà come risposta all’assenza
della coppia genitoriale; allusione pressoché impercettibile alla scena
primaria e al padre reale.
“Mi piacerebbe volare nello spazio per raggiungere le autentiche
onde sonore prodotte dalle nostre canzoni in questa notte del 1929.
Immagino che ora le parole siano da qualche parte al di là di Urano,
ma mi piacerebbe tanto salire là in alto per ascoltarle attraversare lo
spazio, cantare e risuonare nel buio.”
I bambini hanno un bel cantare, questo non tratta nulla del reale
della perdita, nella misura in cui non passa per il simbolico, per la castrazione. Jack Kerouac ha a che fare con la voce come La Cosa, vale
a dire con un godimento intero non decompletato.
Per passare da La Cosa, das Ding freudiano, all’oggetto a in quanto
più di godere, vale a dire svuotato del godimento in eccesso, occorre
che ci sia la castrazione. Per passare dall’oggetto caricato di un troppo
di godimento (l’oggetto causa di angoscia) a un oggetto a svuotato di
questo godimento in eccesso (l’oggetto causa di desiderio), è necessario
prima di tutto che il significante del Nome-del-Padre sia iscritto nella
struttura. È necessario poi che la metafora paterna metta in funzione
Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce
il fallo simbolico, significante che permette di articolare gli oggetti più
di godere a questa struttura simbolica, dopo averli svuotati. È l’operazione della castrazione. Jack Kerouac non sembra disporre né del
Nome-del-Padre né del fallo. Gabrielle, sua madre, non sosteneva né
la parola né la funzione del padre. Possessiva, sospettosa, presentava
molti tratti di una personalità paranoica. Il suo antisemitismo era paragonabile solo alla sua omofobia. Davanti ad Allen Ginsberg, altro
poeta celebre della Beat Generation, disse: “Vedo bene che siete uno
di quelli, come mio marito” (marito che a quel tempo era morto). Suo
figlio Jack e il culto mariano furono le sue passioni più profonde. Kerouac scriverà: “Mi ha fatto semplicemente per benedire il suo cuore?
Il suo voto è stato esaudito”.11
Gli oggetti del godimento, legati alla prossimità della Cosa, restano estranei alla struttura significante, slegati da essa, rimangono non
avvenuti per il soggetto, vagano in uno spazio infinito. Gli oggetti del
godimento per Kerouac sono dei pozzi senza fondo, come il baratro
del cosmo al di là di Urano. Non vi è alcun significante che li connetta
alla struttura. Voce errante nello spazio infinito. Nel suo lavoro sulla
lalingua, sulla pulsazione, egli non cerca forse di catturarli per legarli
alla struttura? In questo senso la sua creazione letteraria avrebbe lo
scopo di trattare il reale della sessualità e della morte, dal momento
che la lettera annoda il reale al simbolico.
Come trovare le parole giuste per descrivere questa nascita? Fu qualcosa di
singolare un’ossessione intensa. Questo filo di crepuscolo invernale mi colse –
per la prima volta nella mia breve vita, fui sorpreso dal suono delle voci infantili, dall’odore della neve al crepuscolo, dalla condensa che esalava dalla mia
bocca a ogni espirazione gelata e, soprattutto, da quella vecchia tristezza fugace che planava teneramente al di sopra delle case rosseggianti di Centralville.
“Ebbene, allora!” mi dico, “Allora!”12
Nascita, in un momento di inquietante estraneità, nascita del sentimento del bello, esperienza estetica che crea l’annodamento del
simbolico e del reale, come nell’epifania quale la definisce Joyce in
un passaggio di Stephen Hero: il bagliore di cui parla è in scolastica
Id., Desolation Angels, Coward McCann, New York 1965 (traduzione nostra).
Id., Ma folle naissance crépusculaire, cit., pp. 8-9 (traduzione nostra).
11
Jack Kerouac, Ma folle naissance crépusculaire, cit., pp. 8-9 (traduzione nostra).
10
67
12
68
florence briolais e michel mesclier
Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce
69
quidditas, l’essenza dell’oggetto. L’artista percepisce questa qualità
suprema nel momento in cui la sua immaginazione concepisce l’immagine estetica. In questo istante misterioso lo stato dello spirito è
stato mirabilmente paragonato da Shelley alla brace prossima a estinguersi.13
L’esperienza di Kerouac bambino è un’epifania che annuncia la
nascita dell’Ego del poeta. L’Ego in quanto corpo immaginato si
sostituisce all’immagine speculare. Ma l’accesso allo speculare resta
problematico per Kerouac. L’esperienza epifanica non produce in lui
un immaginario consistente. Egli resta prigioniero dell’identità del
doppio, cioè di un’immagine reale.14 Appoggiato a un fratello idealizzato, è nel misticismo imitativo che cercherà una supplenza. Prima
con la religiosità cattolica, poi con l’iniziazione al buddhismo e con il
ritorno al fondamentalismo cristiano. Nelle sue estasi, nei suoi satori,
Kerouac raggiunge il proprio “corpo astrale”, equivalente del corpo
glorioso del fratello morto.
Poco più in là in questa lettera, Kerouac scriverà: “Camminavo
dunque così sul marciapiede con la mia slitta, e improvvisamente
ho visto tutto. L’antico chiarore del sole agonizzante, i camini da cui
fuoriusciva un filo di fumo cupo, i banchi di neve rosa e tristemente
ingobbiti – e sono nato”.
la voce, con la narrazione, con i personaggi e con i sogni. Thomas
Wolfe invece gli insegnò “a vedere l’America come un poema e non
come un luogo dove battersi e sbavare”.15
Lacan preciserà nel 1973, nel suo seminario Les non-dupes-errent che:
Avvento di un poeta nella folgorazione evanescente dell’esperienza.
Nascita di un poeta nell’istante in cui il sole muore e si consuma il bagliore della brace. La scrittura sorge per Kerouac là dove si cancella la
luce del padre. E l’ultima frase ci indica come entri in “parentela” con
James Joyce, autore che egli aveva letto e al quale si riferisce con queste parole: “Sono nato e la musica cominciò a impregnare il mio essere, i colori indossavano un’intensità profonda e le labbra emanavano
note flautate come quelle che troviamo in Joyce. Le finestre delle case
sprofondavano nella tristezza e sono ogni giorno più tristi”. Parentela
nel senso che Kerouac si è appoggiato a degli S1 che ha prelevato da
grandi scrittori, come Joyce e Shakespeare, per il loro saperci fare con
quando le supplenze non creano un ego consistente:
13
James Joyce, Le gesta di Stephen (Stephen Hero) (1944), “I Meridiani”, Mondadori, Milano 1974, pp. 543-790.
14
Si veda Jacques Lacan, Nota sulla relazione di Daniel Lagache (1960), in Id., Scritti, 2 voll.,
Einaudi, Torino 1966, vol. ii, pp. 674-679.
In queste due espressioni, dei Nomi-del-padre (Noms-du-père) e dei Nonzimbelli-che errano (Non-dupes qui errent), c’è in gioco lo stesso sapere, nel senso
che l’inconscio è un sapere grazie al quale il soggetto può decifrarsi. E, c’è
decifrazione del soggetto dell’inconscio, fino al punto in cui un senso pone termine alla decifrazione stessa. Il senso si situa nella dimensione (dit-mansion) immaginaria, nella misura in cui l’immaginario è un’intuizione di ciò che bisogna
simbolizzare. Quanto al simbolico, esso veicola il reale in una forma cifrata.16
Con la sua scrittura Kerouac resta nel campo della finzione romanzesca. Questa produzione incessante è un tentativo di immaginarizzare il reale, di costruirsi un immaginario, di delimitare il godimento.
Ma l’annodamento tra il reale e il simbolico, generato dall’epifania e
dall’accompagnamento ideale dei grandi autori, non gli permetterà
per questo di costruirsi un Ego. La lettera si rivelerà impotente a cifrare il reale.
il nodo di kerouac
Chiunque legga le sue biografie non può sospettare la presenza di
una struttura psicotica in Kerouac. Ora, le sue opere sono una miniera clinica per lavorare sulle psicosi contemporanee, quelle del tempo
dell’erranza e della cornucopia di godimenti. E simultaneamente vi
troviamo, agente come un pharmakon, la marca degli effetti della lettera
nel reale.
L’intenso e continuo lavoro di scrittura al quale si votò Kerouac
dall’adolescenza finì per generare uno spazio reticolare che riparava le
lacune del simbolico. Ma l’atto di scrivere, divenuto per lui imperativo
superegoico, lo spingeva, così come il suo dolore di esistere, alla dipen Jack Kerouac, Vanity of Duluoz, Coward-McCann, New York 1968 (traduzione nostra).
Jacques Lacan, Les non-dupes-errent, 1973, inedito.
15
16
70
florence briolais e michel mesclier
denza dagli stupefacenti e dall’alcol; ricerca di sostanze disinibitrici
atte a modificare la realtà corrente.
Questo spazio, fatto di una scrittura realmente imposta, prese la
consistenza di un immaginario virtuale che veniva per lui al posto del
corpo. In questo spazio finzionale si operava il sorgere di un corpo
non avvenuto nel campo speculare. Dal momento che l’opera agiva
come supplenza dell’immaginario inconsistente, la sua produzione
non doveva cessare pena il crollo di questa precaria ripresa esistenziale. La costrizione della scrittura imposta era vitale per Kerouac. Egli
scriveva senza tregua, ovunque. Come il ragno che fila la sua seta, Kerouac tesseva la trama di un Ego la cui consistenza differiva da quella
di Joyce. James Joyce aveva avuto un corpo, scollegato poi perduto
come una buccia in occasione di una memorabile scarica di botte.
Kerouac non disponeva che del corpo come precipitato di oggetti
prespeculari e del corpo glorioso del fratello morto. Joyce si costruì un
Ego rispettabile, collocato stabilmente all’Università. Mentre Kerouac
non riuscì a costruirsi altro che un Ego senza fissa dimora, sostenuto
da supplenze vacillanti.
La testimonianza di Jack Kerouac sulla sua “folle nascita crepuscolare” mostra come il fenomeno epifanico, a partire da un’esperienza
originale, sorgesse dal reale per fecondare la creazione del poeta.
Questa epifania precoce, così come quelle che seguirono, si manifestavano come un luccichio al cuore del campo scopico, lì dove
il campo visivo minacciava di disgregarsi; a differenza delle epifanie
di James Joyce che si producevano nell’alone sonoro delle voci della
strada. La grafomania che registrava questi istanti si dispiegava come
un riparo dalla regressione al di qua dello stadio dello specchio. Potremmo ipotizzare che questo neoimmaginario, annodandosi al simbolico, ingenerasse un godimento che bisognerebbe qualificare con
un’olofrase ossimorica: un godimento “fallico-forcluso”, a cui furono
sensibili generazioni di lettori. Così l’incessante scrittura divenne opera. In altri termini, sinthomo.
Quando parliamo di supplenza, supponiamo che il sintomo che
supplirà all’assenza del Nome-del-Padre sarà di stampo nevrotico,
altrimenti non arginerebbe la follia. Ora, Lacan fa di questo tipo di
sintomo, nevrotico nella psicosi, una categoria nuova che designa con
un termine dalla grafia antica: sinthomo. E poi mette in funzione il
sinthomo a proposito dell’opera di James Joyce.
Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce
71
La clinica psicoanalitica attuale tende a generalizzarlo, ma non
senza confusione. Infatti non fa sinthomo tutto ciò che si presenta come
produzione cosiddetta creativa.
Il sinthomo, per meritare il suo statuto di firma unica e irriducibile
di un parlessere, deve provocare una risonanza presso gli altri parlesseri, i dissimili dei legami sociali. Il sinthomo deve ristabilire il legame
sociale rotto dalla psicosi. È questa la sua virtù fondamentale. Può,
secondo la sua qualità, provocare più di un’eco; può generare delle turbolenze nella soggettività contemporanea, così come in quella
futura, se la perturbazione che induce è sufficientemente geniale da
modificarne il regime. Il sinthomo non è un sintomo ridotto né un fantasma attraversato. Il sinthomo è una creazione emanata da un corpo
che gode, creazione che prende molteplici e singolari forme alle quali
altri corpi saranno sensibili. Per riprendere un termine utilizzato da
molto tempo dai musicisti, molto prima che questa parola si diffondesse in tutti i media, ciò che segnala la presenza di un sinthomo è il
groove che provoca, come lo swing nel jazz o il duende nel flamenco: il
momento di grazia.
Tuttavia l’opera maggiore di Kerouac, Sulla strada, è una sfida per
l’imprudente che vi si avventura. La prospettiva che vi si trova è incessantemente falsata da un gioco di specchi e le finte porte pullulano come in un labirinto borgesiano. Scritto negli anni della fine
della Seconda guerra mondiale, Sulla strada rompeva con il modello
romanzesco che andava per la maggiore negli Stati Uniti intorno a
Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Dashiell Hammett, o
John Dos Passos. Questo testo, che Kerouac considerava alla stregua
di un romanzo-poema, sovvertiva i tre principi che al tempo stesso
orientavano i romanzieri e i critici che di essi si nutrivano: il senso, la
coerenza, l’unitarietà del testo.
Sulla strada, che si presenta come il resoconto dal vivo delle tribolazioni di due amici in viaggio da est a ovest degli Stati Uniti, ha conosciuto un lungo purgatorio dal momento che fu proposto agli editori
nel 1951 fino al 1957 quando venne pubblicato in versione purgata.
Soltanto nel 2010 fu pubblicato nella sua versione integrale, a partire
dal rotolo dattiloscritto.
Quest’opera segna un mutamento nella produzione nascente
dell’autore. Il suo primo romanzo, Città e metropoli, apparso nel 1950,
resta di fattura classica mentre Sulla strada, nel quale Kerouac si volle
72
florence briolais e michel mesclier
“libero come Joyce”, inaugura uno stile radicalmente nuovo. Tutte
le risorse dell’inglese nordamericano, con le sue origini semantiche
poliglotte, il suo tempo flessibile, la sua musicalità concreta, vengono
mobilitate per trascrivere l’immediatezza della vita, ricevuta come una
trance immanente, captata, come preciserà l’autore stesso in questa
intervista “Ai margini del linguaggio, là dove inizia il balbettio del subconscio”. Questa scrittura parlata, spontaneista, progredisce in reticoli
per realizzare la cartografia di uno spazio interiore soggettivamente
vissuto nelle fibre dello spazio geografico percorso dal viaggiatore.
Potremmo, per abbordare questo romanzo e le opere posteriori,
fare appello alla nozione topologica delle trecce. Ma per il momento ci
atterremo a una topologia dei nodi classica, per come ci viene indicata
nel seminario Il sinthomo.
Per mostrare il differenziale nodologico Joyce/Kerouac, riprendiamo due allacciamenti: l’allacciamento egoico joyciano e il nodo di
Lacan, il cui scacco ci è parso rispondere del mancato annodamento
di Kerouac. Perché scegliere per Kerouac lo scacco del nodo a cinque incroci di Lacan? Perché per ripararlo occorre nominare almeno
due supplenze, dal momento che il lapsus porta su un indecidibile
tra gli incroci 4 e 5. Un errore su uno dei due riporta il nodo a zero.
Abbiamo affermato in precedenza che la supplenza della scrittura
funzionava per Kerouac soltanto se il suo testo si metamorfizzava
nell’analogo di una partitura jazz. La supplenza tramite la creazione
letteraria viene raddoppiata da una supplenza fondata sul rapporto
al jazz. Lo afferma lui stesso, nella sua testimonianza sulla sua nascita
come poeta, ma anche in questa intervista: “Voglio essere considerato
come un poeta del Jazz che suona un lungo blues durante una Jamsession una domenica pomeriggio. Prendo 242 cori, le mie idee variano
e a volte passano di coro in coro o dal bel mezzo di un coro al centro
del coro seguente”.
Questi cori, del suo sassofono mentale, sono quelli della raccolta
Mexico City Blues, la più jazz di tutte, che egli compose in occasione
di un viaggio in Messico nel 1955. Inoltre, non possiamo trascurare
il suo intenso e permanente rapporto con la religione che partecipa,
vedremo come, alla costruzione del suo sinthomo. Ci ritorneremo dopo
aver mostrato questi schemi:
Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce
73
2
R
3
1
4
5
S
L’Ego correttore
Nodo di Lacan
Nodo di Kerouac
Attraverso questa serie di nodi intendiamo mostrare che il sinthomoKerouac differisce dall’Ego joyciano. Kerouac non dispone di un’articolazione S-R. Per lui c’è continuità del reale e del simbolico su uno
scacco del nodo a cinque.17 La sua riparazione si effettua localmente,
17
La figura in alto a sinistra, l’Ego correttore, è quella proposta da Lacan per mostrare la
correzione del lapsus di annodamento in Joyce grazie a un Ego. Si veda Jacques Lacan, Il
seminario. Libro xxiii. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 148.
La figura in alto a destra, Il nodo di Lacan, è quella del nodo, derivato dal nodo di Listing,
a cui Lacan dà il suo nome. Si veda ivi, p. 89.
La figura in basso, il nodo di Kerouac, è una proposta per mostrare un’ipotesi di annodamento per Kerouac. Abbiamo volontariamente invertito i colori. Il simbolico, essendo
74
florence briolais e michel mesclier
per effetto di una curva lemniscata,18 come nel nodo del fantasma,19
con un punto doppio all’incrocio dell’anello. Tale potrebbe essere l’Ego
di Kerouac, anche se la sua instabilità non gli permette di sostenersi stabilmente come soggetto, come nel caso di Joyce. Questa labilità
dell’Ego dipende dalla proprietà del punto doppio.
Il punto doppio (detto anche punto critico) nella teoria dei nodi
(invariante di Vassiliev), segnalato da Jacques-Alain Miller nell’appendice del Seminario xxiii, Il sinthomo,20 è equivalente a un taglio, o
a un allacciamento. Esso permette ai fili del nodo di attraversarsi, di
sovrapporsi, modificando la qualità stessa del nodo.
Potete immaginare un punto doppio come due piccole calamite a
contatto: finché la polarità è +/–, rimangono solidali; se la polarità si
inverte, si respingono e il nodo si può aprire.
Nell’annodamento del sinthomo di Jack Kerouac questo punto doppio è la religione. Il suo misticismo è in effetti delirante, esito della sua
relazione melanconica con il fratello morto. Posizione molto instabile.
Dal momento in cui si tuffa nel buddhismo, egli si identifica molto
velocemente con un santo, poi al Buddha della Compassione. Alla
fine della vita vira verso un cattolicesimo integralista. È precisamente
a questo punto che la supplenza sinthomatica di Kerouac può sfaldarsi
e far precipitare il soggetto in una regressione topica al di là dello
speculare.
Secondo questa configurazione, una supplenza “a punto doppio”
diviene l’equivalente di un sogno o di uno pseudofantasma. Così, il
sinthomo-Kerouac aggancia un immaginario di sintesi alla continuità
reale, diventa blu (tratteggiato in figura) e il reale rosso (puntinato in figura). (I): lo pseudoimmaginario è un ibrido, da cui la sua colorazione composita (tratteggiato e puntinato in
figura). Va notato che l’errore di annodamento sfocia in modo indecidibile su uno degli
incroci interni, là dove avviene la riparazione grazie alla curva lemniscata.
18
Una lemniscata è una curva piana a forma di otto piatto (∞). Possiede due assi di
simmetria perpendicolari. Questi si tagliano in un punto doppio della curva, al tempo
stesso suo centro di simmetria. Questa curva, descritta da Giovanni Domenico Cassini nel
1680, fu riscoperta nel 1694 da Jacques Bernoulli nel corso dei sui studi sull’ellissi e le sue
variazioni. Nella scrittura matematica simbolizza l’infinito.
19
Nei seminari Ancora (1973) e Il sinthomo (1975), Lacan ci propone una scrittura nodale
del fantasma. Il nodo del fantasma si presenta come un annodamento semplice a 8 piatto,
paragonabile a una lemniscata senza punto doppio e tenuta da un anello che gli conferisce
la qualità borromea.
20
Jacques-Alain Miller, Note passo passo, in Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit.,
pp. 214 e sgg.
Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce
75
R-S caratteristica della schizofrenia. Designeremo questo allacciamento come il nodo di Kerouac che, al cuore, custodisce la scrittura
infinita.
della musica prima di ogni “cosa”
In un senso clinico più generale, il punto doppio può mostrare la bipolarità maniaco-depressiva di un soggetto. Al polo depressivo il punto
doppio è in posizione bloccata. Il falso nodo si stringe sull’oggetto e il
soggetto aderisce alla superficie. Nel caso di Kerouac abbiamo reperito
questo punto di melanconia nella persona del fratello. Possiamo dunque
ipotizzare che Gerard sia stato, nel reale, il nome del buco dell’oggetto
orale primitivo. La dipendenza dall’alcol trova qui la sua causa.
Al polo maniacale questo punto doppio è aperto. Il nodo si disfa, l’oggetto evapora e il soggetto si dilata all’infinito. È allora che
Kerouac subisce il richiamo irresistibile dello Spazio, dell’Aperto.
Nella sua schizofrenia controllata Jack Kerouac viveva queste grandi
oscillazioni timiche, mal regolate dal ricorso all’alcol.
Le sue erranze geografiche corrispondevano probabilmente a queste oscillazioni dell’umore con un movimento periodico di ritorno, di
nostos, al grembo materno. La sua scommessa di poeta di fare musica
del significante, ritmo, sonorità, testimonia la volontà di realizzare,
in questo punto di incrocio di supplenze, l’unione mistica di due arti:
la poesia che immaginarizza il simbolico e la musica che immaginarizza il reale. Il corpo è il luogo di risonanza di questa commistione
paradossale. Infatti il jazz, più di ogni altro genere musicale, eccita le
armoniche del corpo.
Kerouac adolescente fu attraversato dal genio del jazz, di cui abbiamo sottolineato il valore contromelanconico. Il jazz rappresentò per
lui la voce profonda che cantava all’interno della propria voce. Egli fu
il solo scrittore nordamericano che si spinse a infondere in un’opera
letteraria il groove proveniente da questa sorgente pulsante. Sulla strada
ce ne offre dei begli esempi, così come molti altri testi quali Washington
D.C. Blues o anche quelli contenuti nella raccolta, già citata, Mexico
City Blues.21
Jack Kerouac, Mexico City Blues (1959), Newton Compton, Roma 2011.
21
76
florence briolais e michel mesclier
È nella 90ma strofa che ritroviamo la figura patetica di Gerard, il
fratello morto santificato.
Parole imposte
Bibiana Morales
Credevo d’essere un fantasma,
io, proprio io.
A soffrire. Una notte vidi
Mio fratello maggiore Gerard
Chino sulla mia culla coi capelli
Scarmigliati, (…)
quel fantasma era mio fratello22
Questo fratello che fu precocemente il suo doppio, che occultò l’accesso strutturante allo stadio dello specchio e del quale abbiamo mostrato
il ruolo nel rendere melanconico Kerouac bambino. Era necessario
che Kerouac mescolasse le sincopi della poesia alla tristezza infinita
del blues per domare questa apparizione che attraversava lo specchio?
Ma, al di là del blues, l’incontro decisivo fu quello con il Bebop, che
nasceva tra i vagiti del sassofono di Charlie Parker. Un passaggio del
romanzo Bella bionda e altre storie rivela che Jack Kerouac non poteva
concepire questa invenzione se non sotto forma di epifania:
Il Bop è cominciato con il Jazz, ma un pomeriggio da qualche parte su un marciapiede, forse nel 1939, 1940, Dizzy Gillespie o Charley Parker o Thelonious
Monk passarono davanti ad un negozio di vestiti da uomo, sulla 42ma strada
o South Main a L A e nell’altoparlante hanno sentito di colpo un errore folle
impossibile nel jazz che non avrebbe potuto essere ascoltato che all’interno
della loro testa immaginaria, e questa è un’arte nuova. Bop.23
Sì, avete inteso bene, il Bebop ebbe inizio con un’epifania, proprio
come il poeta Jack Kerouac, con un rosso crepuscolo d’inverno.
La lezione che Lacan tiene nel seminario Il sinthomo in data 17 febbraio del 1976 è dedicata alla questione delle parole imposte e procede
dall’insegnamento relativo alla presentazione di un malato. Venerdì
13 febbraio 1976 ha luogo la presentazione che è l’occasione per Lacan di parlare delle “parole imposte” nell’ambito del seminario su
Joyce. È quindi un insegnamento che ci mostra il modo in cui Lacan
si lasciava insegnare dal soggetto. Lacan mette in relazione questa
presentazione e il seminario su Joyce nella forma di una conseguenza
logica tra l’uno e l’altro.
Il paziente, il signor Gérard Primeau si presenta a Lacan come
“disgiunto a livello del linguaggio”, “disgiunto tra il sogno e la realtà”.
Anche il suo nome è spezzato da una sorta di omofonia tra geai (la
ghiandaia, un uccello) e rare (raro, la rarità). Lacan gli chiede di parlare di ciò che egli chiama “la parola imposta”. Egli spiega a Lacan:
la parola imposta è un’emergenza che s’impone al mio intelletto e che non ha
nessun significato nel senso comune. Sono delle frasi che emergono, che non
sono riflessive, non sono già pensate, ma che sono dell’ordine dell’emergenza,
ed esprimono l’inconscio […]. Esse emergono come se io fossi stato manipolato, non so come avvenga, ma quest’emergenza s’impone al mio cervello.
Id., Mexico City Blues, cit., p. 115.
Id., Good, Blonde and Others, Greyfox press, Mechanicsville (va) 1993 (traduzione nostra).
22
23
Le frasi imposte sono accompagnate da un “ma” che si aggiunge a
una “frase riflessiva”, “cioè una frase che gli appartiene, una frase non
78
Bibiana Morales
imposta, che secondo i significanti del paziente compensano le parole
imposte”. “Tendo a recuperare le frasi imposte.” Per Lacan, il “ma” è
nella lingua l’indicatore dell’eccezione. “Tutto ma non questo.” Il “ma
non questo” è la prima definizione di sinthomo che dà nel seminario.
Con questo “ma” il soggetto prova a sottrarsi a questa imposizione
della parola e a recuperare il suo posto di soggetto. Il soggetto cerca di
dare un senso a questo messaggio venuto dal nulla e che lo invade in
maniera parassitaria. Sollecitato da Lacan, il paziente offre un esempio di parola imposta: “sporco assassinio politico” che fa equivalere
a “sporco assistentato politico”. Egli spiega a Lacan che si tratta di
“contrazione di parole” tra “assassinio e assistentato”. Lacan s’interessa a questo scivolamento significante, a questo “garbuglio sonoro” tra
assistentato e assassinare. Poiché questo implica la morte del soggetto.
Questa frase resta senza possibilità di riflessione, da parte del soggetto.
Lacan dirà a questo proposito, nell’ambito del seminario: “si vede bene come il significante si riduca qui a quello che è, ossia all’equivoco,
a una torsione di voce”.1
Per questo paziente certe frasi restano imposte, non le può fare sue.
Benché cerchi di “compensare”, come dice, o di opporre a una frase
imposta un’altra frase “riflessiva” entro la quale egli è soggetto, questa
compensazione non è sufficiente. In assenza di un delirio o di un’altra
invenzione da parte sua le frasi imposte precipitano verso un altro
sintomo, la telepatia. Lo dice il soggetto stesso: “la telepatia accade a
livello della parola”. La parola imposta diventa telepatia. Questa telepatia lascia il soggetto nell’angoscia di essere spiato dall’Altro. Sono
gli altri che percepiscono i suoi pensieri. Il suo tentativo di trattare la
parola imposta diventa una parola percepita dall’Altro. Diventa un telepatico emittente. Le sue frasi riflessive sono percepite dai suoi simili,
ma non trovano una significazione. I suoi pensieri sono trasmessi via
radio o televisione, non gli appartengono più. Poteva gestire il suo sintomo iniziale, le parole imposte. Poteva stabilire un margine, un limite
a questa imposizione dell’Altro, raggiungendo una propria riflessione.
Con la telepatia, si trova a essere costantemente invaso.
Questo soggetto ha un certo rapporto con la scrittura. Dice a Lacan di essere un poeta e un creatore. La parola imposta ha per lui
Parole imposte
una forza creatrice, “la parola può fare la forza del mondo”, dice a
Lacan. “Avevo scritto un poema che si chiamava Venurio, che è una
contrazione tra Venere e Mercurio. Era una sorta di Elegia.” Ma la
sua scrittura non fa da limite al Reale di questa parola imposta che
diventa telepatia. Questo caso permette a Lacan di formulare diverse
domande. La prima: “Come mai non avvertiamo tutti che le parole
da cui dipendiamo ci sono in qualche modo imposte?”.2 La seconda
questione lo porta a interrogare i limiti di un uomo normale, che non
si rende conto dell’imposizione della parola e quelli di un malato che
sente questa imposizione della parola. Per Lacan, la questione delle
parole imposte, introdotte dal suo paziente durante la presentazione
del malato, è sensata, normale. È così che ciascun soggetto deve avere
a che fare con la parola imposta. La parola ci preesiste, siamo anche
noi manipolati dall’Altro, ma il fatto di dare senso a questa parola implica una posizione soggettiva. La parola non appartiene più all’Altro
ma al soggetto. Questo spiega i tentativi di questo soggetto per fare
propria questa parola imposta. La parola è imposta a tutti, la parola
è il parassita, il cancro che affligge l’uomo, ci dice Lacan. “Come mai
alcuni arrivano ad avvertirlo? Certo è che in Joyce sembra esservene
traccia.”3
Per Lacan Joyce ha fatto della parola imposta un sinthomo, arrivando
a decomporre la lingua inglese. La sua arte è un modo di liberarsi di
questa parola ma contemporaneamente la parola s’impone sempre di
più. “Difficile non evocare a proposito di Joyce il mio paziente, come la
faccenda era iniziata per lui. Riguardo alla parola, non si può negare
che qualcosa fosse, a Joyce, imposto.”4 Il progredire dell’opera di Joyce
verso la dissoluzione della lingua, evidenzia questa imposizione della
parola. La sua opera è costruita in modo tale che Joyce arriva a fare di
questa imposizione della parola un sinthomo che s’impone al linguaggio
stesso. Joyce ci mostra, nella sua opera, come l’autonomia della lettera
invada i suoi scritti, al punto di farli divenire totalmente illeggibili, e al
contempo distruggendo il senso della lingua. La scrittura gli permette di
scomporre la parola. Tra il Ritratto dell’artista da giovane e Finnegans Wake
Ibidem.
Ibidem.
4
Ivi, p. 92.
2
Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006,
p. 91.
1
79
3
80
Bibiana Morales
esiste tutto un lavoro dove la parola che all’inizio si impone, finisce per
essere disarticolata dal soggetto stesso. Il percorso del suo lavoro mostra
il viraggio prodotto da questo Altro che si impone al soggetto e il soggetto che si impone all’Altro attraverso l’arte. “Ho scoperto che posso
fare con il linguaggio tutto quello che desidero”, diceva Joyce.
La parola imposta implica la voce e nell’opera di Joyce essa occupa
un posto particolare, soprattutto la voce del padre. In Ritratto dell’artista
da giovane e nell’Ulisse sono numerosi i paragrafi che alludono a voci
invasive per il soggetto. Un estratto del Ritratto dell’artista da giovane può
servire da esempio:
Finché la sua mente aveva continuato a seguire i suoi fantasmi intangibili o a
desistere irresoluta da una simile ricerca, Stephen si era sentito intorno costanti le voci del padre e degli insegnanti, che lo incitavano a essere un gentiluomo
sopra tutto il resto e un buon cattolico sopra tutto il resto. Queste voci gli
suonavano ormai vacue nelle orecchie. […] Nel mondo profano, come prevedeva, una voce mondana gli avrebbe ordinato di risollevare coi suoi sforzi la
condizione del padre e intanto la voce dei suoi compagni di scuola lo incitava
ad essere un compagno come si deve, a coprire gli altri dai rimproveri, a chieder per loro il perdono e a fare del suo meglio per ottenere giornate di vacanza
per tutti. Ed era il frastuono di tutte queste voci vacue che lo faceva fermarsi
irresoluto nella sua ricerca di fantasmi. Non prestava orecchio a queste voci
che per un momento, ma si sentiva felice soltanto quando ne era lontano, oltre
il loro richiamo, solo o in compagnia di compagni fantastici.5
Troviamo in queste righe una voce che invade il soggetto ma allo stesso
tempo, egli riesce a sbarazzarsi delle voci. Bisogna anche notare che la
voce nella sua opera evidenzia tutta la musicalità e la sonorità. Richard
Ellmann segnala nella sua biografia di Joyce come questi mettesse l’accento sulla “sonorità, il ritmo e il gioco verbale; il senso gli appariva
indifferente o trascurabile”. Questo ci ricorda che non si legge il senso
di uno scritto. Diceva, parlando dell’Ulisse, che se il lettore non riusciva
a capirlo, non doveva fare altro che leggerlo ad alta voce. In una lettera
a sua figlia Lucia ecco cosa scriveva Joyce: “Sa il cielo che cosa significa
la mia prosa […] ma è piacevole a udirsi”.6 Per Joyce, Finnegans Wake
James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane (1943), Adelphi, Milano 2005, p. 110.
Richard Ellmann, James Joyce (1962), Feltrinelli, Milano 1964, p. 793.
Parole imposte
81
è musica e non letteratura, per non parlare del suo testo Musica da
camera. Non bisogna dimenticare che non era solo un grande scrittore
ma anche un grande cantante. Diceva di avere la voce del padre, un
grande tenore del suo tempo. È necessario segnalare la differenza tra
voce e parola. La voce è un oggetto che si articola alla catena significante, la voce, secondo Lacan, “non si situa in rapporto alla musica
o alla sonorità ma in rapporto alla parola”. Dopo la morte del padre
(nel 1931), Joyce diceva di sentire la sua voce. “Sento mio padre che
mi parla. Chissà dov’è.”7 Lacan ci mostra come la voce che s’impone
al soggetto e che egli non riconosce come sua, forzi il soggetto a dare
una risposta per cercare di articolare questa voce o per sbarazzarsene.
(L’abbiamo visto nel caso della presentazione del malato, dove la frase
imposta era articolata con un “ma” posto dopo la frase riflessiva, così
che il soggetto la riconosceva come propria.) Scrivere è un mezzo per
sbarazzarsi di queste voci, di poubelliser,8 dirà Lacan con un gioco di
parole tra “pubblicare” e “gettare nella spazzatura”.
Nel caso della presentazione del malato, non è la questione della
parola imposta che inquieta Lacan, ma l’evoluzione di questo sintomo
in telepatia. È su questo punto che si introduce tutta la differenza relativa a ciò che può fare il soggetto con questa parola imposta. Riuscirà
o meno a prendere le distanze da questa posizione? Non trova più vie
di scampo a questa invasione dell’Altro. E questo lo porta di fatto a
due tentativi di suicidio. Questo rapporto con la telepatia permetterà
a Lacan di scorgere, nel rapporto di Joyce con sua figlia Lucia da
lui ritenuta essere telepatica, la sua psicosi. Lucia era schizofrenica.
Anche lei era la rivelatrice della carenza del padre di Joyce; cioè la
telepatia mette in questione la trasmissione simbolica da padre a figlio per tre generazioni. Pertanto quel che arriva a Lucia è un indice
della carenza paterna di Joyce e della sua impossibilità ad assumere
la malattia della figlia. Questa questione della carenza del padre fa
riferimento a un rapporto tra padre e figlio dove è il figlio che si trova
a dover supplire all’inefficacia della funzione del padre. Il sinthomo di
Joyce viene a supplire la carenza del padre, perché suo padre non ha
potuto operare per lui.
Nel Ritratto dell’artista da giovane è evidente la valenza poco signi7
6
8
Ivi, p. 732.
Trasformare in spazzatura, “spazzaturizzare” (N.d.T.).
5
82
Bibiana Morales
ficativa che ha la parola del padre. Il padre non ha voce per i figli,
evidentemente egli ha una voce ma la sua parola non sortisce effetti
sui figli. È il figlio che deve sostenere il padre, fabbricare il padre con
il suo nome perché non può fare appello al nome di suo padre. Così il
padre di Stephen gli dice: “Io ti parlo come a un amico. Stephen. Non
credo che un figlio debba avere paura del padre. No, ti tratto come
tuo nonno trattava me quand’ero un giovincello. Somigliavamo più a
fratelli che a padre e figlio”.9 Il signor Dedalus parla poi a suo figlio di
suo padre, cioè del nonno di Stephen:
Non dimenticherò mai il primo giorno che mi colse a fumare. […] D’un tratto
passa il genitore. Non dice nulla e non si ferma neanche. Ma il giorno dopo,
domenica, eravamo usciti insieme a passeggio, tornando a casa, tira fuori il
portasigari e dice: “A proposito, Simon, non sapevo che fumavi” […] “Se vuoi
fare una buona fumata,” mi dice “prova uno di questi sigari.”10
Il padre tratta il figlio da amico, si somigliano l’un l’altro. In questo modo il padre non occupa il posto necessario per operare (da cui il tema
della carenza del padre che Lacan aveva usato per parlare della fobia di
Hans). La carenza del padre risale qui a tre generazioni (il nonno, il padre e il figlio). Il rapporto con sua figlia è allora rivelatore della carenza
del padre, non perché lei sia schizofrenica, ma perché Joyce crede alla
sua telepatia. Nelle lettere di Joyce possiamo vedere come lui stesso
non amasse fare la parte del padre severo. Egli era simile a sua figlia:
“Lucia si fida solo di me e crede che nessun altro capisca una parola di
quello che dice. Ma approfitta anche del mio carattere indulgente”.11
La fiducia cieca in sua figlia è un indice del rapporto con il suo
sintomo, tanto più che per Lacan la conseguenza logica delle parole
imposte è la telepatia. La convinzione circa la telepatia di sua figlia
è riscontrabile in quello che Lacan chiama il prolungamento del suo
sintomo. “Se la mia prosa è difficile da comprendere, perdiana, anche
la tua scrittura è difficile da decifrare, facciamo il paio.”12 Per Joyce,
sua figlia parla un linguaggio curioso e tronco che è la sua particolari James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, cit., p. 119.
Ibidem.
11
Richard Ellmann, op. cit., s.p.
12
Gilbert Stuart, Lettres de James Joyce, Gallimard, Paris 1961, p. 460.
9
Parole imposte
83
tà. Lui è il solo a capirlo. Condivide con la figlia un codice inaccessibile agli altri. Egli ha, con sua figlia, una sorta di rapporto di complementarietà. Questo prolungamento del sintomo al quale Lacan allude
è in qualche modo un prolungamento della relazione duale.
Jung, che è stato per un breve periodo il terapeuta di Lucia, diceva
a proposito del rapporto particolare tra Joyce e sua figlia: “Lucia e suo
padre […] erano come due persone che vogliono toccare il fondo del
fiume, una cadendo, l’altro immergendosi”. Lucia era l’ispirazione
di suo padre. “La sua Anima, cioè la sua psiche inconscia, si è così
solidamente identificata a sua figlia che ammettere la sua follia sarebbe stato come ammettere per se stesso una psicosi latente.”13 Questa
idea di Jung conferma quella di Lacan relativa a un prolungamento
del sintomo nella relazione duale con sua figlia. Questo dimostra la
carenza del padre nella misura in cui il rapporto tra la figlia e il padre
non è simbolico. Al suo posto, c’è un rapporto puramente immaginario, un rapporto di complementarietà. L’idea di Lacan è, giustamente,
che l’ego abbia una funzione riparatrice per Joyce. L’ego di Joyce è
legato alla scrittura. In questa logica, l’io (moi) di Lucia è un prolungamento dell’ego di Joyce. Ciò spiega la sua fede nell’arte della figlia e
l’impossibilità per Joyce di accettare la follia di quest’ultima. Se crede
alla telepatia di sua figlia (conseguenza logica delle parole imposte)
è in quanto il sintomo di lei tocca il suo. Crede al proprio sintomo
quindi le crede. Intanto bisogna tenere conto della differenza tra i due
sintomi. Benché esista un rapporto logico tra il sintomo del padre e
quello della figlia, non sono assolutamente equivalenti. Joyce aveva la
certezza che sua figlia fosse dotata di una seconda vista. D’altra parte
la scelta del suo nome è legata alla santa patrona della vista, santa Lucia. Non dimentichiamo la grave malattia che lascia Joyce quasi cieco.
La sua fede in Lucia è altrettanto cieca. Questa fede è per Lacan in
rapporto con il suo proprio sintomo. Joyce non poteva riconoscere la
follia in sua figlia, perché, secondo la logica proposta da Lacan, questo avrebbe implicato riconoscere la propria follia. Per lui, sua figlia
era un genio, un’innovatrice incompresa. Ammetteva apertamente:
“‘Ogni scintilla di talento che io possiedo, è stata trasmessa a Lucia’
diceva con amarezza, ‘e le ha acceso un fuoco nel cervello’”.14
10
Ibidem.
Richard Ellmann, op. cit., p. 737.
13
14
84
Bibiana Morales
Joyce difendeva sua figlia dalla diagnosi dei medici e ancor di più
degli psicoanalisti. Credeva che sua figlia sarebbe guarita per mezzo
dell’arte. L’ha spinta a scrivere e a disegnare. Pensava che sarebbe
diventata, come lui, una grande artista. Troviamo nella sua biografia
e nelle sue lettere i tentativi disperati di Joyce per tenerla fuori dalla casa di cura e per guarirla. È Joyce stesso che decide le cure più
adeguate per guarire la figlia e arriva a pensare di poterla guarire lui
stesso opponendosi quindi a qualsiasi intervento psicoanalitico. Scrisse
alla signorina Weaver: “L’ultima terapia che aveva ideato fu di dare a
Lucia quattromila franchi per comprarsi una pelliccia, ‘giacché sono
convinto che ciò le farà passare il complesso d’inferiorità assai meglio
della visita d’uno psicanalista’”.15
Più sua figlia si aggravava, più lei diventava importante per Joyce.
Anche riuscire a terminare il suo ultimo libro, Finnegans Wake, diventa
difficile a causa della malattia di sua figlia. Lui stesso si ammala e si
deprime. Nel febbraio 1934 Lucia è internata in una casa di cura e
pertanto allontanata definitivamente dalla casa di famiglia. Qualche
mese dopo la sua partenza, Joyce scrive una poesia, Epilogue to Ibsen’s
“Ghosts”. In questa poesia parla di un padre (il capitano Alving) che
ha due figli, uno sano e l’altro malato. Il figlio malato si scopre essere
il figlio di qualcun altro; il padre era stato ingannato.
My spouse bore me a blighted boy,
Our slavey pupped a bouncing bitch.
Paternity, thy name is joy
When the wise sire knows which is which.
Both swear I am that self-same man
By whom their infant were begotten.
Explain, fate, if you care and can
Why one is sound and one is rotten.16
Ivi, p. 749.
Ivi, p. 758. (Epilogo per “Spettri” di Ibsen: “Mia moglie mi diede un figlio malato / la
serva una florida puttanella. / Paternità il tuo nome è gioia / per il saggio, quando si sa
chi è il padre. // Codeste giurano che sono stato io / a generare i due rampolli. / Spiega,
destino, se puoi e vuoi, /perché l’uno è sano e l’altro è marcio”. Trad. it. di J. Rodolfo
Wilcock in James Joyce, Poesie, Mondadori, Milano 1951, p. 759.)
15
16
Parole imposte
85
Questa poesia è la sola in cui è evocata la malattia della figlia, tanto
che Joyce stesso si stupisce del proprio testo. Nella misura in cui la malattia della figlia avanzava, Joyce si ammalava sempre di più. L’allontanamento dalla figlia lo deprimeva e metteva in ansia Lucia. In una
lettera a Miss Weaver datata maggio 1935 Joyce scrive: “quando lei era
vicino a me sentivo sempre che avrei potuto capirla quanto me stesso,
e, in effetti, era così”.17 Riscontriamo qui una sorta di complementarietà tra padre e figlia che non dà a Lucia uno spazio di soggetto. Il
termine di Finnegans Wake implica la fine della scrittura. “Ho tentato di
tutto” diceva Joyce. Soffriva d’insonnia e diceva di avere allucinazioni
uditive e visive. A proposito del rapporto con sua figlia diceva: “La
gente parla dell’influenza mia su mia figlia, […] ma perché non parla
dell’influenza sua su di me?”.18 Joyce crede anche di aver predetto nei
suoi testi dei fatti che si sono realizzati. Come sua figlia si ritiene dotato
di una seconda vista.
Come spiegare dunque questa sorta di reciprocità tra padre e figlia?
Lucia risponde con il suo sintomo a quello del padre. Ma il suo sintomo non è equivalente a quello del padre. Anche se entrambi sono
colpiti da questa parola imposta, ciascuno risponde diversamente. È
proprio nella stessa lezione del suo seminario che Lacan – dopo aver
sottolineato il rapporto tra Joyce e sua figlia – si sofferma sull’elaborazione intorno all’equivalenza e al rapporto. Quando non c’è equivalenza sessuale, c’è rapporto, e dove c’è rapporto, c’è sintomo. Così il
prolungamento di un sintomo rientra in questa logica del rapporto tra
due, sostenuto dalla non equivalenza sessuale. Questa parola imposta,
sintomo del padre, diventa per la figlia, in maniera molto più grave, il
messaggio dell’Altro che la invade completamente. Essa non fabbrica
un sinthomo come suo padre. Il sintomo della figlia è in rapporto a
quello del padre ma a lei manca l’arte del padre che le consenta di
trattare la parola imposta. La telepatia è così la conseguenza logica di
questo messaggio invasivo dell’Altro. L’arte si è imposta a Joyce ma
per Lucia le cose vanno diversamente, malgrado i tentativi di suo padre di farla diventare una ballerina, una pittrice o una scrittrice. Questa parola imposta diventa, nell’impossibilità del soggetto di liberarsi
da questa imposizione dell’Altro, un messaggio via via più invasivo.
Gilbert Stuart, op. cit., p. 458.
Richard Ellmann, op. cit., p. 772.
17
18
86
Bibiana Morales
Per concludere possiamo affermare che il caso della presentazione
del malato e il rapporto tra Joyce e Lucia mettono in evidenza la differenza che c’è tra il sintomo e il sinthomo (come riparatore). Il soggetto
risponde sempre con un sintomo, costruito in rapporto all’Altro, per
tutti più o meno imposto. Ma saperci fare con questa parola imposta,
implica una risposta inventata dal soggetto. Così Lacan mette l’invenzione al posto del sinthomo. “Ridurre questa risposta a essere sintomatica vuol anche dire ridurre ogni invenzione al sintomo.”19
Lacan evoca l’imposizione dell’Arte e dell’invenzione. Parlando del
rapporto con il reale, afferma: “ […] ho inventato, giacché mi si è
imposto”.20 L’invenzione è così l’unica possibilità di saperci fare con il
reale. A fianco della parola imposta, possiamo aggiungere l’invenzione
imposta.
“Non serviam.”
Tirannia del linguaggio e libertà degli stili
Giovanni Bottiroli
1.“I will not serve”, io non servirò, dice più di una volta Stephen Dedalus nel Portrait.1 A che cosa intende ribellarsi Stephen, a quale norma? A quale disciplina, a quale “torturante” disciplina? Che quest’aggettivo possa venir riferito alla presa che il linguaggio esercita sulla
condizione umana, è Lacan ad affermarlo: “La psicoanalisi dovrebbe
essere la scienza del linguaggio abitato dal soggetto. Nella prospettiva freudiana, l’uomo è il soggetto preso e torturato dal linguaggio”.2
Poche righe sopra, Lacan parla di un ritorno alla verità di Freud,
attraverso la linguistica moderna. Dunque la linguistica aiuta Lacan
a dire la verità sulla verità di Freud: la linguistica, quella saussuriana in particolare, svolge per Lacan un ruolo “aléthico” (mi riferisco
ovviamente alla concezione della verità come alétheia, che più di una
volta egli riprende da Heidegger). Possiamo dire che, reciprocamente,
nell’alleanza tra psicoanalisi e discipline linguistiche, la psicoanalisi è
in grado di svolgere un ruolo aléthico per quanto riguarda la verità
del linguaggio?
Senza dubbio questa è la convinzione di Lacan. E se alétheia significa
“trarre fuori dal nascondimento”,3 dobbiamo chiederci che cosa è nascosto nel fenomeno del linguaggio: che cosa non si manifesta in ciò che
1
Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 130.
20
Ivi, p. 129.
19
James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane (1943), Adelphi, Milano 2009.
Jacques Lacan, Il seminario. Libro iii. Le psicosi (1955-56), Einaudi, Torino 1985, p. 276.
3
Martin Heidegger, Essere e tempo (1927), Longanesi, Milano 2005.
2
88
giovanni bottiroli
chiamiamo fenomeno, e che dovrebbe essere, etimologicamente e concettualmente, manifestazione. Si ricordi che nascosto non equivale a “celato
nelle profondità”. L’inconscio non sta in cantina più di quanto non stia
in soffitta, e il nascondimento riguarda la superficie non meno della
profondità. Nascosto vuol dire latente, non accessibile a uno sguardo che
crede di vedere. Nelle lezioni del Séminaire ii che anticipano l’ouverture
degli Écrits, cioè Le Séminaire sur “La Lettre volée”, Lacan osserva:
Nel reale, l’idea stessa di un nascondiglio è delirante – per quanto uno scenda
nelle viscere della terra a portare qualcosa, non lo nasconde, poiché se c’è
andato lui potete andarci anche voi. Non può essere nascosto che ciò che
appartiene all’ordine della verità. È la verità che è nascosta, e non la lettera.
Per i poliziotti, la verità non è importante, per loro c’è solo la realtà, ed è per
questa ragione che non la trovano.4
Non c’è verità senza conflitto con la non-verità. Questo passo è molto
heideggeriano, tuttavia non dobbiamo limitare la nozione di alétheia al
conflitto tra essere-nascosto e svelamento (o scoprimento): quest’opposizione è troppo semplice, rischia di essere ripetuta sterilmente, come
un refrain. Non è esattamente questo che è accaduto nel campo dell’ermeneutica? L’alétheia resta suggestiva e oscura, senza un’ulteriore analisi.
2. Quando si affronta la questione del linguaggio, sembra necessario
mettere Lacan contro se stesso: occorre ritrovare una conflittualità
feconda, grazie a cui Lacan ha inaugurato – parallelamente a Heidegger – una via difficile e complessa. Cercherò adesso di indicarla,
di ritrovarla, nel periodo in cui, come si dice frequentemente, Lacan
privilegiava il registro del Simbolico. Anziché insistere sull’evoluzione
che ha poi condotto Lacan ad accentuare il ruolo del reale, vorrei
mostrare la disomogeneità nella concezione del Simbolico.
Questa disomogeneità attraversa l’intero movimento strutturalista.
Il fatto che non sia stata percepita adeguatamente dai suoi protagonisti
non ci deve sorprendere: un ritardo di consapevolezza metodologica
è del tutto normale quando si sperimentano nuove forme di pensiero.
A distanza di tempo, però, la frattura che attraversava il movimento
4
Jacques Lacan, Il seminario. Libro ii. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi
(1954-1955), Einaudi, Torino 2006, p. 231.
“non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili
89
è diventata visibile. Vorrei distinguere allora tra due versioni dello
strutturalismo: uno strutturalismo che chiamerò grammaticale, e che ha
i suoi rappresentanti più emblematici in Jakobson e Lévi-Strauss, e
uno strutturalismo che chiamerò trasformazionale, una linea di ricerca
minoritaria dal punto di vista delle adesioni, e che trova la sua espressione più convincente in Lacan (ma anche in alcuni saggi di Barthes).
Contro questa distinzione si potrebbero avanzare delle riserve, ricordando i debiti di Lacan nei confronti di Jakobson e di Lévi-Strauss.
Non intendo negarli: la mia tesi è che la vera concezione lacaniana del
linguaggio non poteva essere jakobsoniana e neppure lévi-straussiana.
Che cosa caratterizza lo strutturalismo grammaticale – che è anche
la posizione rispetto a cui si è definito polemicamente, in maniera
semplicistica ma non del tutto ingiustificata, il post-strutturalismo?
Potremmo sintetizzarlo in tre tesi:
i)
il soggetto è un effetto del linguaggio o, se si vuole, è interamente avvolto dal linguaggio;
ii) il linguaggio è un fenomeno eteroclito; può essere studiato solo
se si introduce la distinzione saussuriana tra langue e parole (e si
concentra la ricerca sulla langue);
iii) la langue ha due significati: è un insieme di abitudini sociali, ed
è un campo di virtualità. Ma poiché queste virtualità sono governate dalle abitudini sociali, da convenzioni diffuse, il primo
significato prevale sul secondo. L’ambito della libertà e della
singolarità può essere trovato soltanto nelle realizzazioni individuali (la parole).
A queste tesi occorre probabilmente aggiungerne una quarta: per lo
strutturalismo, la linguistica è la scienza pilota, ma per lo strutturalismo
grammaticale c’è un settore che svolge un ruolo “pilotante” e modellizzante, ed è la fonologia. Di qui la nozione di struttura, definita in base
a un inventario limitato di elementi e alle regole di una combinatoria.5
5
“Ora la struttura del significante, come si dice comunemente del linguaggio, è di
essere articolato. Questo vuol dire che le sue unità, da dovunque si parta per disegnare le
loro sovrapposizioni reciproche e i loro inglobamenti crescenti, sono sottomesse alla doppia
condizione di ridursi a elementi differenziali ultimi, e di comporsi secondo le leggi di un
ordine chiuso.” (Jacques Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud [1957],
in Id., Scritti [1966], 2 voll., Einaudi, Torino 1974, p. 496)
90
giovanni bottiroli
Qual è la posizione di Lacan? Senza dubbio egli condivide la prima
tesi, che potremmo anche chiamare “tesi di avvolgimento”. Per esempio, in Fonction et champ scrive:
I simboli avvolgono infatti la vita dell’uomo con una rete così totale da congiungere prima ancora della sua nascita coloro che lo genereranno “in carne
e ossa”, da apportare alla sua nascita insieme ai doni degli astri, se non ai doni
delle fate, il disegno del suo destino […].6
Dobbiamo ritenere che Lacan condivida anche le altre tesi? Io parlerei di un consenso provvisorio e parziale. Non attribuirei frettolosamente a Lacan un consenso rispetto alla terza tesi – che, in ogni caso,
esige dei chiarimenti. In Saussure non sembra esserci contrasto tra le
due accezioni della langue, come insieme di abitudini e come sistema
virtuale. Tuttavia, possiamo attribuire a Lacan anche “la tesi di abitudine”? Nei termini del Seminario xi: l’autòmaton della langue sarebbe
eluso soltanto dalla tyche della parole?
3. Dobbiamo tornare a Heidegger e a quella che è forse l’affermazione
maggiore di Essere e tempo: nel paragrafo 7 si dice che “Più in alto della
realtà (Wirklichkeit) si trova la possibilità”.7 La “maggiore altezza”, il
rango maggiore o superiore del possibile rispetto all’effettuale non va
inteso nel senso dell’universalità (perché l’essere – precisa Heidegger
– non è un concetto di genere, e non va pensato come una svaporante generalità). Qualunque domanda sull’essenza – anche le domande
non essenzialiste, costrette a presentarsi nella forma grammaticalmente
fuorviante del “che cos’è” – qualunque domanda sull’essenza va intesa
come una domanda sulla possibilità, sul poter-essere.
L’affermazione del paragrafo 7 va compresa e sviluppata tenendo
conto della differenza tra modi d’essere: la possibilità dell’ente che
noi stessi siamo (il Dasein) è diversa da quella che caratterizza l’ente
intramondano, inteso come semplice-presenza (Vorhandenheit), oppure
utilizzabilità (Zuhandenheit). Ora, qual è il modo d’essere del linguaggio? Qual è il suo statuto ontologico? Somiglia, o quantomeno si avvicina, a quello del Dasein? Forse questa domanda non viene mai posta
Id., Funzione e campo della parola e del linguaggio (1953), in Id., Scritti, cit., p. 272.
Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 66.
6
7
“non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili
91
esplicitamente da Heidegger, tuttavia dai suoi scritti è derivabile una
risposta non ambigua:
– il linguaggio è la casa dell’essere. Dunque la sua dimensione è
ontologica, e non ontica;
– il linguaggio è attraversato dal conflitto tra modi. A questo proposito c’è un passo molto perspicuo in Che cosa significa pensare:
Le parole non sono termini (Die Worte sind keine Wörter) e quindi non sono simili
a secchi e botti, da cui si possa far uscire un contenuto esistente (vorhanden). Le
parole sono sorgenti che il dire scava, sorgenti che di continuo devono essere
cercate e scavate, che facilmente franano, ma che a volte anche sgorgano
all’improvviso. Senza il continuo rinnovarsi dell’accesso alle sorgenti, i secchi
e le botti restano vuoti o ciò che li riempie (ihr Inhalt) resta qualcosa di stantio.8
La quasi totalità dei lettori – almeno a mia conoscenza – si ferma alla
prima definizione: il linguaggio è la casa dell’essere, dunque non è un
mero strumento, un utilizzabile. Noi non parliamo, piuttosto siamo
parlati dal linguaggio. Non si può che concordare, evidentemente, con
la critica alla concezione strumentale del linguaggio. Ma Heidegger
dice molto di più, presenta una visione conflittuale del linguaggio:
un conflitto modale, perché riguarda i differenti modi del linguaggio.
Questi modi li chiamerò stili di pensiero, o anche regimi di senso.
Quali sono i modi più essenziali? Questo è un problema di articolazione. Dobbiamo recuperare la definizione più bella, e più saussuriana, del Corso di linguistica generale: “Si potrebbe definire la lingua il
regno delle articolazioni”.9
Si noti che in questo passo Saussure non parla di significanti e di
significati – eppure sta definendo la langue! Egli sceglie come prospetti8
Id., Che cosa significa pensare? (1954), 2 voll., SugarCo, Milano 1978, vol. ii, p. 23.
Giocando su una particolarità della lingua tedesca, per cui das Wort ha un plurale Wörter
che indica le parole come meri vocaboli, Heidegger si richiama al principio di non-coincidenza: “le parole non sono parole”. Si noti ancora la contrapposizione tra il contenuto dei
segni verbali inteso come semplicemente-presente (come una Vorhandenheit) e il significato
che sgorga, come un getto d’acqua che può assumere forme diverse. Due concezioni del
significato, due diversi modi semantici.
9
Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), Laterza, Roma-Bari 1970,
p. 137.
92
giovanni bottiroli
va un concetto che “sta più in alto” (cioè che ha una forza prospettica
superiore) di significante e significato: il concetto di “articolazione”.
4. Siamo in una zona decisiva di convergenza tra il pensiero di Heidegger e quello di Lacan. Il linguaggio viene pensato a partire dalle
possibilità dell’Esserci, e non dalla semplice-presenza o dall’utilizzabilità. Cerchiamo di precisare molto rapidamente questa differenza: le
possibilità di uno strumento sono quelle previste da chi lo ha progettato, sono delimitate dal suo funzionamento (senza escludere usi “impropri”, contestualmente imprevedibili, ma che non mutano lo statuto
strumentale dell’oggetto). Naturalmente, in una certa misura, anche
il linguaggio può essere concepito e impiegato come uno strumento.
Ma quali sono invece le sue possibilità non strumentali?
Queste possibilità dipendono dalla pluralità dei tipi di articolazione. La langue dei linguisti presenta soltanto un tipo, cioè l’articolazione
che chiamerò separativa – quella che Saussure mostra nello schema
dei due flussi.10 Vorrei aprire una breve parentesi: per valutare se la
novità e la forza del pensiero strutturalista sono state adeguatamente
comprese, possiamo usare come criterio anzitutto la presenza o l’assenza di questo schema (non strettamente nella sua forma grafica, ma
nel suo ruolo concettuale). Se non ci sono riferimenti allo schema dei
due flussi, ciò implica che il pensiero di Saussure non è stato capito, e
anche i discorsi sul primato del significante, così frequenti in ambito
lacaniano, sono di corto respiro. Che Lacan abbia compreso bene il
significato rivoluzionario della linguistica di Saussure, è provato dai
suoi riferimenti: lo schema viene descritto e compare esplicitamente
nel Séminaire iii (capitolo xxi); viene menzionato nell’Instance de la lettre
dans l’inconscient, quando Lacan scrive:
Si impone dunque la nozione di uno scivolamento incessante del significato
sotto il significante – illustrato da Saussure con un’immagine che assomiglia
alle due sinuosità delle Acque superiori e inferiori nelle miniature dei manoscritti della Genesi. Doppio flusso in cui sembra troppo tenue il tratto di
riferimento costituito dalle sottili righe di pioggia disegnate dai punteggiati
verticali presunti limitare dei segmenti di corrispondenza.11
Ibidem.
Jacques Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio, cit., p. 497.
“non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili
Da questa descrizione allegorico-metaforica vorrei trarre due aspetti:
– la metafora della pioggia, delle righe di pioggia – così Lacan
indica ciò che per Saussure sono le articolazioni, cioè “la serie
delle suddivisioni contigue proiettate, nel medesimo tempo, sia
sul piano indefinito delle idee confuse, sia su quello non meno
indeterminato dei suoni”.12
– ma anche il carattere tenue (mince) delle righe di pioggia. Questa
percezione ci suggerisce uno sviluppo del pensiero di Saussure.
Senza dubbio, la finezza o sottigliezza delle articolazioni non
basta a mettere in discussione il loro stile, che è il separativo. Le
articolazioni descritte da Saussure sono rigide – il che non significa, si badi, che siano statiche. Anzi, possono cambiare e tendono a cambiare continuamente: ma una rigidità che subentra a
un’altra rigidità non cambia il regime articolatorio, non lo rende
flessibile.
Tuttavia la tenuità può essere intesa come una resistenza superabile:
possiamo allora immaginare articolazioni non separative (o disgiuntive), bensì congiuntive. Possiamo immaginare una versione estrema del
congiuntivo, che chiameremo confusivo – un regime fatto di sovrapposizioni, sconfinamenti, accavallamenti, ibridazioni. Joyce è il maggior
rappresentante di questo regime, in letteratura.
La lingua di Finnegans Wake è una lingua congiuntiva/confusiva: è costituita da una serie interminabile di puns, o calembour, che in italiano vengono chiamati parole-valigia. Un esempio: sansglorians – un termine
che condensa diverse parole di diverse lingue: sang, sans, sanglot, glory,
gloria, glorians, e altre ancora, se si vuole proseguire questo esercizio di
articolazione nei confronti di un termine denso. Userò la parola densità
per indicare questa forte concentrazione semantica. Il principio di
densità è una delle forze che governano i sogni, Freud l’ha chiamata
condensazione (Verdichtung).
5. C’è tuttavia un punto essenziale che va chiarito. I fenomeni congiuntivi/confusivi nascono nell’ambito della parole, della performance
(Chomsky), insomma del discorso e della realizzazione individuale?
10
11
93
Ferdinand de Saussure, op. cit., p. 136.
12
94
giovanni bottiroli
Una lettura canonica di Saussure e della linguistica moderna risponderebbe affermativamente. Dunque, tutti i casi di trasgressione delle
frontiere separative avrebbero un carattere derivato, e non originario.
Qual è il postulato implicito in questa posizione? È il postulato letteralista, cioè la tesi di un’anteriorità del linguaggio letterale rispetto al
linguaggio figurale (metafora ecc.). Questa concezione è stata rifiutata
da filosofi come Vico e Nietzsche che hanno affermato invece l’anteriorità del figurale. Per Nietzsche, il linguaggio letterale è prodotto di
una consunzione, dunque di una riduzione, della ricchezza figurale.
Le parole del linguaggio ordinario sono paragonabili a monete che
hanno perduto la loro effigie, cancellata dall’uso, e circolano ormai
soltanto come puro metallo.13
Mi pare che la psicoanalisi non possa che guardare favorevolmente
all’anteriorità del figurale. Credo però che sia necessario procedere
oltre questo dibattito, e affrontarlo con nuove categorie: dovremmo
pensare al linguaggio come a una dimensione abitata dal conflitto non
tra originario e derivato, ma tra rigidità e flessibilità.
“Originario” è il conflitto, cioè un insieme di divisioni. Sin dall’inizio il linguaggio è determinato da diverse possibilità di articolazione,
da diversi regimi di articolazione. Che il separativo affermi la propria
dominanza, è comprensibile. La vita non può essere troppo fluida.
C’è bisogno di forme, e queste forme, per poter essere sufficientemente stabili, e utilizzabili, inevitabilmente si irrigidiscono. In una certa
misura la vita ha bisogno della rigidità, di una buona rigidità – che
diventa cattiva quando dimentica e tenta di annullare il principio che
la contrasta, e che rende conto delle forme di vita superiori. In una
certa misura la vita ha bisogno della rigidità – vivere è far lavorare
la rigidità a proprio vantaggio – ma, nella sua essenza, la vita non è
rigidità. Essa esige trasformazioni, metamorfosi, dunque plasticità. La
vita ambisce costantemente a ritrovare quella plasticità che è il tratto
maggiore delle pulsioni, secondo Freud, e alla cui “sfrenatezza” bisogna in parte rinunciare.
Dunque il linguaggio – meglio ancora: la langue – non è un insieme di
abitudini collettive, ma un ventaglio di possibilità. Il secondo dei significati che Saussure assegna alla langue deve dominare sul primo (su quel13
Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale (1873), in Id., Opere, 22 voll.,
Adelphi, Milano 1980, vol. iii, t. ii.
“non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili
95
lo, per così dire, sociologico). Per i parlanti, le scelte non iniziano con
l’esecuzione (con la parole, con la performance), ma con i tagli che articolano
il sistema in una pluralità di regimi. Questa è la grande lezione della letteratura e degli altri linguaggi dell’arte. Ed è uno di quei risultati in cui, per
riprendere un famoso passo di Freud, la letteratura e la psicoanalisi convergono, e confermano reciprocamente il loro valore di conoscenza.14
Se ci sono articolazioni che tagliano la langue, che scindono conflittualmente le possibilità del linguaggio (e non soltanto degli atti di
parola), se il linguaggio è linguaggio diviso – possiamo ancora dire IL linguaggio? Non dovremmo forse dire che IL linguaggio non esiste, così
come non esiste LA donna?15 Perché dovremmo esitare ancora a rinunciare alla superstizione grammaticale dell’articolo determinativo?
6. Si noti però che la dissoluzione dell’Uno non avviene, per la psicoanalisi, in direzione del molteplice: sono le filosofie della differenza
(Derrida, Deleuze) che privilegiano questa via. Senza escludere il passaggio al molteplice, la psicoanalisi assegna il primato al diviso.
Il nome con cui chiamare le divisioni maggiori del linguaggio – che
sono anche le possibilità maggiori del linguaggio – è già stato introdotto
più volte: stili di pensiero, regimi di senso (un regime contempla diverse
varianti). Vorrei rendere più perspicua questa prospettiva. Ripartiamo
dalla lettura canonica di Saussure, e da un autore che è indiscutibilmente un grande linguista, ma in diverse occasioni ha semplificato e
irrigidito il pensiero saussuriano. Mi sto riferendo a Jakobson. Talvolta
Jakobson parla della lingua come di un codice, e questa è una semplificazione che va assolutamente respinta. Anzitutto perché i codici sono
sistemi di corrispondenze rigide tra significanti e significati rispetto
a cui i soggetti possono essere padroni – mentre nessuno è padrone
della lingua (su questo Saussure è inequivocabile). In secondo luogo,
se il linguaggio fosse un codice, i messaggi verrebbero trasmessi e decodificati senza perdita di contenuto, di informazione: non sarebbe
necessaria quell’attività inferenziale e interpretativa che caratterizza
molte ricezioni, anche quotidiane, e che non soltanto l’ermeneuti14
Sigmund Freud, Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen (1906), in Id., Opere,
12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. v, p. 333.
15
D’altronde Lacan si è pronunciato anche sulla prima di queste due inesistenze: “[…]
il linguaggio, anzitutto, non esiste. Il linguaggio è quel che si cerca di sapere circa la funzione di lalingua” (Il seminario. Libro xx. Ancora [1972-1973], Einaudi, Torino 1983, p. 139).
96
giovanni bottiroli
ca, ma anche la pragmatica, gli studi sulla conversazione ecc. hanno
evidenziato a partire dagli anni sessanta del secolo scorso. Dunque
l’equivalenza tra lingua e codice è arretrata e inaccettabile, per chiunque conosca gli sviluppi della linguistica dopo Saussure. Tra le più
devastanti semplificazioni di Jakobson vi è la sua presentazione dell’asse paradigmatico come un ambito che contiene scelte prefabbricate,
disponibili ai parlanti (si tratta, come si è già detto, di opzioni che non
intaccano la langue). Ma il primato del paradigmatico, che secondo Barthes
contraddistingue la rivoluzione strutturalista, è un’idea che appare del
tutto incomprensibile se l’asse paradigmatico contiene soltanto scelte
prefabbricate. Come si potrebbe parlare di interpretazione, nell’analisi
dei testi, e non di una semplice decodifica?
Barthes ha spiegato che il primato del paradigmatico è una novità
straordinaria in quanto sconvolge la linearità del testo, ne disfa l’ordinamento sequenziale, getta lo scompiglio nella fissità del testo come
artefatto, e permette di inventare nuove forme di coerenza. “L’attività
strutturalista comporta due operazioni tipiche: ritaglio e coordinamento (découpage et agencement).”16 Così avviene nella lettura della Phèdre di
Racine, che Barthes legge come un’opera conflittuale (“Dire o non
dire? Questo è il problema”),17 e che analizza come conflitto tra due paradigmi, le figure del mutismo e le levatrici.18 A partire da questo modo
di lavorare sui testi, l’asse paradigmatico va reinterpretato. Ciò che avviene in un’opera d’arte non è descrivibile mediante lo schema dei due
assi, bensì con uno schema che mostra la conflittualità “originaria”:
“non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili
97
I tre che scindono l’asse paradigmatico visualizzano gli stili che articolano il Simbolico, e che chiamo separativo, distintivo, confusivo. Nella
mia lettura, la barratura del Grande Altro non indica solamente una
de-totalizzazione e neanche solo l’impossibilità del metalinguaggio,
ma anche – e forse in modo particolare – la scissione tra regimi. O
meglio: per la psicoanalisi le ragioni dell’impossibilità del metalinguaggio non sono quelle indicate da Wittgenstein o da altri filosofi:
per la psicoanalisi non c’è metalinguaggio perché il linguaggio è diviso. Diviso da
scissioni non sintetizzabili, non superabili, non hegeliane.
I regimi di senso zampillano da sorgenti, a cui bisogna imparare
ad accedere sempre di nuovo, per riprendere il passo prima citato di
Heidegger; e ricadono intrecciando le righe sottili delle articolazioni
grammaticali, facendole slittare, spostandole, confondendole, mescolandole: è così che nasce una lingua della densità, come è quella di Joyce.
Indico questo schema con l’espressione pioggia degli stili.19
7. “I will not serve.” Questa è l’enunciazione di Stephen nel Portrait e,
prima ancora, è il pensiero che, nel capitolo iii, il predicatore attribuisce a Lucifero, l’angelo ribelle: “non serviam”. Un pensiero orgoglioso, e
concepito per un attimo. “Quest’attimo fu la sua rovina. Egli offese la
maestà di Dio con il pensiero colpevole di un attimo e Dio per sempre
lo cacciò dal cielo nell’inferno.”20 È con piena consapevolezza che
in seguito Stephen Dedalus riprende quest’atto di ribellione: “Non
servirò ciò in cui non credo più, si chiami questa la casa, la patria o la
Chiesa: e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita
o di arte, quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando
per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio
e l’astuzia”.21
Si può smettere di credere in Dio, e anche nella patria. Forse, e sia
pure con difficoltà maggiori, nella famiglia: Stephen Dedalus, il giovane protagonista dell’Ulisse, non sembra avere completato il distacco
dalla famiglia. Nelle prime pagine, viene menzionato un altro momento di ribellione. “Ti potevi inginocchiare, Kinch, porca miseria,
quando tua madre te l’ha chiesto in punto di morte”, gli dice Buck
Roland Barthes, Saggi critici (1964), Einaudi, Torino 1972, p. 311.
Id., L’uomo raciniano (1963), ora in ivi, p. 109.
18
Perciò la Phèdre viene anche definita “una tragedia del parto” (“une tragédie de
l’accouchement”, ivi, p. 112).
19
Per questo schema mi permetto di rinviare a Giovanni Bottiroli, Che cos’è la teoria
della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino 2006, p. 335. Va osservato che questa
pioggia non è la pioggia siberiana di Lituraterre, è una pioggia più articolata e feconda.
20
James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, cit., p. 178.
21
Ivi, p. 334.
16
17
98
giovanni bottiroli
Mulligan. “E tu hai rifiutato. C’è qualcosa di sinistro in te…”22 Ma ciò
a cui Joyce ha rifiutato obbedienza è, più di tutto, la lingua: la lingua
inglese, come lingua in qualche modo estranea; e non per muovere
verso una lingua “più materna”, il gaelico.
Io non servirò. Non servirò il linguaggio indiviso.
Non obbedirò a regole che mi inaridiscono né mi piegherò ad
abitudini socialmente acquisite. Non introietterò modelli (se non per
appoggiarmi a essi) e non accetterò limiti se non per oltrepassarli.
Chiederò allo stile di non esser semplicemente l’espressione di una
individualità, la mia, ma di scendere fino al luogo di articolazione
della lingua, e di scinderla nei regimi. Sperimenterò le possibilità “non
separative” del linguaggio, inventerò una lingua in cui prevalgono i
legami. Un linguaggio denso, che nessuno potrà mai articolare separativamente, rigidamente. Anche l’Università dovrà rinunciare a farlo.
Non obbedirò al significante padrone, qualunque esso sia. E per
riprendere i versi in cui Ovidio racconta l’impresa di Dedalo, imprigionato da Minosse: il significante rigido ha chiuso le vie della terra e
del cielo.23 Ma le vie dell’aria – le vie degli stili – restano aperte, e per
quelle io fuggirò.
8. Vorrei tornare rapidamente ai possibili rapporti tra gli autori a cui
ho fatto riferimento.
“C’è verità solo perché e fintanto che l’Esserci è”, afferma Heidegger in Essere e tempo.24 Analogamente, non c’è inconscio se non c’è la
psicoanalisi. Questi due enunciati non vanno intesi banalmente nella
prospettiva dell’idealismo, ma in quella dell’articolazione. In questa
seconda prospettiva comprendiamo la tesi di Heidegger secondo cui
prima di Newton non esistevano le leggi di Newton25 – e, possiamo
aggiungere, prima di Freud esisteva un inconscio, ma non era quello
di Freud. Con Saussure possiamo dire che non esiste nessuna lingua
senza articolazione, proprio perché la lingua, quale che sia la sua forma di esistenza storica, è “il regno delle articolazioni”.
James Joyce, Ulisse (1922), Mondadori, Milano 1970, p. 22.
“Che Minosse mi sbarri pure le vie della terra e del mare, ma almeno il cielo è sempre aperto. Passeremo di lì! Sarà padrone di tutto, ma non dell’aria!” (Ovidio, Metamorfosi,
Einaudi, Torino 1979, l. viii, vv.185 e sgg.)
24
Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 273.
25
Ibidem.
“non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili
99
E la lingua “congiuntiva” di Joyce? È una lingua della densità, cioè
una lingua che afferma il primato del significante in quanto contemporaneamente afferma il primato del significato – del significato denso. È una lingua della sublimazione, dunque non una lingua collassata; ma certamente è una lingua che collega continuamente ciò che le
articolazioni separative si prefiggono e si sforzano di tenere separato.
Non è una lingua informe, benché sia possibile percepirla così nell’immediato, a una prima lettura. Lingua del godimento, sempre sul punto
di sprofondare in das Ding, ma anche lingua del desiderio, favorita
da un padre a cui si rivolge il giovane Dedalus – per esempio con
l’invocazione che chiude il Portrait: “Old father, old artificer, stand me
now and ever in good stead”.26 E precedentemente come “una forma
alata”, “l’artefice favoloso”, “un uomo in forma di falco che vola verso
il sole sopra il mare”,27 che impedisce agli stili di annodarsi con nodi
troppo stretti e di unificarsi e incollarsi in un unico filo, ma anche alla
colla di sciogliersi e di spargersi – questa sarebbe la caduta nell’inarticolato. Difficile equilibrio tra gli opposti. Nel Seminario vii Lacan menziona una sostanza che somiglia alla colla, in quanto rischia sempre
di essere o troppo dura o troppo fluida. Si tratta del miele – “Il miele,
cerco di portarvi il mio miele – il miele della mia riflessione su quel
che faccio da un certo numero di anni”, dice Lacan riferendosi alle
categorie fondamentali, ai registri; e aggiunge: “Se questo effetto di
comunicazione a volte presenta qualche difficoltà, pensate all’esperienza del miele. Il miele può essere molto duro oppure molto fluido.
Se è duro, si taglia male, perché non ci sono sfaldature naturali. Se è
molto fluido […] dopo un po’ ce n’è dappertutto. Da qui il problema
dei vasetti”.28 Da qui la necessità – parziale – dello stile separativo, per
riprendere la mia terminologia.
Joyce ha spinto il piacere della lingua – di lalangue – fino al limite
estremo. Ha rischiato di veder sciogliere le sue ali, rasentando il sole di
das Ding. Perciò i due possibili effetti della sua lingua, che letteralmente
s’incolla al palato dei lettori separativi, incapaci di pronunciarla, che
annoda le articolazioni come si potrebbero dispettosamente allacciare
22
23
26
“Vecchio genitore, vecchio artefice, fammi ora e sempre buona guardia.” (James
Joyce, Ritratto dell’artista da giovane, cit., p. 341)
27
Ivi, p. 241.
28
Jacques Lacan, Il seminario. Libro vii. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi,
Torino 2008, p. 23.
100
giovanni bottiroli
tra di loro le stringhe delle scarpe, per far incespicare, ma che altri
lettori percepiscono nella sua fluidità, sovrabbondante, sempre con il
sapore del miele.29
Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura
Muriel Drazien
9. Vorrei concludere con il problema delle sostanze, che trovano nel
miele e nella colla due esempi paradigmatici, e però divergenti: questa
divergenza dei sapori rende polisemica (e comunque più problematica) anche la nozione di lalangue. Si tratta di sostanze troppo fluide o
troppo friabili o troppo viscose o troppo enigmatiche. La più enigmatica di queste sostanze è la letteratura.
Al termine di un anno di lavoro e con l’approssimarsi dell’interruzione
estiva, Lacan aveva l’abitudine di annunciare il tema che avrebbe trattato l’anno seguente. Nel 1975 però le cose sono andate un po’ diversamente. Il 13 maggio, in occasione dell’ultima seduta del seminario
RSI, Lacan disse che l’anno successivo avrebbe parlato di 4,5,6. Titolo
enigmatico ma in esso era possibile riconoscere gli esiti di un anno in
cui Lacan si era preoccupato di interrogare le varie possibilità offerte
dai tre anelli del nodo borromeo1 per congegnare il rapporto tra le
categorie del Reale, del Simbolico e dell’Immaginario – le cui iniziali
sono appunto RSI. Con questo titolo 4,5,6, Lacan lasciava intendere
che avrebbe tentato di riprendere il lavoro a partire da un nodo a
quattro, e poi a cinque e anche a sei anelli.
Nel corso del seminario RSI, Lacan aveva già accennato en passant a Joyce. Fu comunque una sorpresa quando, su invito di Jacques
Aubert,2 il 16 giugno di quell’anno, nel grande anfiteatro della Sorbonne, Lacan tenne una conferenza dal titolo Joyce il sintomo. Questa
Il tratto semantico /fluidità/ va privilegiato rispetto a quello della /dolcezza/. Il
ruolo della pulsione orale non va escluso, evidentemente, ma non deve oscurare la dimensione dell’instabilità fluida.
29
1
Il nodo borromeo è una figura topologica la cui proprietà distintiva è il tipo di legame che unisce i tre anelli che lo compongono. Se uno degli anelli si scioglie dal nodo i
due rimanenti cadono liberi. Nella storia della famiglia nobiliare Borromeo questo nodo
rappresentava la forza della coalizione tra casati alleati, e la debolezza nel caso in cui un
componente avesse disertato.
2
Jacques Aubert è professore di Letteratura Francese all’Università di Lione. Studioso
di Joyce, ha curato l’edizione Pleiade delle opere dello scrittore.
102
Muriel Drazien
Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura
103
conferenza su Joyce inaugurava la nuova direzione presa dalla sua
ricerca. Così, invece di quello preannunciato, il nuovo seminario ebbe
per titolo Il sinthomo. Sinthomo (scritto con la h, altro titolo enigmatico,
come lo saranno tutti gli altri seminari da quel momento in poi).
Il fatto di interrogare Joyce, di studiare il rapporto di Joyce con la
sua arte e il suo linguaggio a partire dalla richiesta di Aubert, aveva
operato uno spostamento nell’interesse di Lacan per i nodi, l’aveva
fatto approdare a una nuova lettura della clinica delle psicosi e persino
a una nuova teoria sulla fine dell’analisi.
Così nel seminario Il sinthomo, Lacan, basandosi sullo studio rinnovato dei testi joyciani, incoraggiato dalla sua antica ammirazione per
lo scrittore, confortato dalla propria inclinazione per una scrittura
basata su giochi di parole e sull’uso asintattico del linguaggio, rimase comunque folgorato dalle perplessità, dalle questioni che Joyce gli
poneva. Gli effetti delle sue scoperte ebbero ripercussioni decisive per
il suo insegnamento.
Lacan dichiarò l’intenzione di rinnovare la clinica a partire dai
rapporti tra le categorie del Reale, del Simbolico e dell’Immaginario,
ma soprattutto a partire dal primato del Reale. Intendeva riformulare la funzione del padre fino alle sue incidenze cliniche nel quadro
del complesso di Edipo. Discendeva da qui un nuovo approccio alla
questione del sintomo, in particolare al rapporto del sintomo con la
funzione paterna.
Infine, attraverso Joyce, Lacan si è addentrato nell’esplorazione del
rapporto tra lettera e significante. Lacan ha saputo interrogare la follia e la normalità partendo dalla problematica del Nome-del-Padre e
della forclusione.3 In nessun altro seminario Lacan si lascia scoprire
così implicato in prima persona. Lo si coglie dall’insistenza con cui interroga Joyce in quanto sintomo, dimostrando come, nel suo caso, sia
stata la scrittura (è questa la sua ipotesi) ad avere un effetto risolutivo
– perciò Lacan ne parla come del sinthomo di Joyce (parleremo in un altro momento dell’introduzione della lettera “h” nella parola sintomo).
Nevrosi, psicosi o perversione? Nel seminario viene presa in esame ciascuna di queste possibilità per giungere, infine, a una nuova
formulazione clinica e a una prospettiva diagnostica che sconvolge le
consuete categorie psichiatriche. Lacan procede come se l’analisi del
caso Joyce non solo potesse guidare la sua ricerca verso direzioni che
interrogano la propria formazione e la propria pratica, ma potesse
anche far luce per Lacan sul proprio caso, il “caso Lacan”.
“A partire da quando si è pazzi?”,4 si chiede nel seminario con ovvio riferimento a Joyce ma, come dice, anche a se stesso – benché
dichiari “non ho automatismi”. Quali sono le differenze tra nevrosi e
psicosi? Che cosa le distingue? Che cos’è l’essere normale? Si chiede.
Sono alcune delle questioni brucianti che lo impegneranno nel corso
dell’anno e che, anzi, lo seguiranno sino alla fine del suo insegnamento quando perverrà a questa possibile risposta radicale: “l’essere
normale, è essere fuori discorso, è essere pazzo”.5
Infine, sempre nell’ambito dell’“approccio al sintomo” di Lacan,
qual è il rapporto tra sinthomo e fine dell’analisi? C’è un irriducibile
del sinthomo nell’analisi? È una questione da riprendere. Come lo è
anche la questione della funzione dell’arte – o dell’artigianato nella sua
espressione più creativa – nel prodursi del sinthomo. L’artigianato cui si
riferisce Lacan potrebbe ben essere l’attività del vasaio, la figura arcaica già apparsa nel seminario L’etica della psicoanalisi, che simbolizza la
creazione ex nihilo e, per estensione, la creazione del mondo. Non per
niente Joyce è stato affascinato dal tema della creazione del mondo –
ne è testimone Finnegans Wake opera che critici e studiosi hanno letto
e interpretato proprio in tali termini. Nelle ultime righe del Ritratto
dell’artista, Joyce chiama in causa il “vecchio genitore, vecchio artefice”
per sostenerlo nei suoi sforzi. Può l’arte – in questo caso l’arte di scrivere esercitata da Joyce – scongiurare la verità del sintomo?
Dopo anni in cui Lacan ha provato a imparare a manipolare i nodi,
a interrogare i modi con cui, attraverso il nodo, si aderisce alla struttura soggettiva, egli giunge ne Il sinthomo a valorizzare la categoria del
3
La forclusione, traduzione di Lacan del termine di Verwerfung da lui individuato nel
testo di Freud nel caso clinico dell’Uomo dei lupi. Lacan in Una questione preliminare ad ogni
possibile trattamento delle psicosi (1958), in Id., Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1974, vol. i, ci
spiega che la forclusione è un “difetto che dà alla psicosi la sua condizione essenziale, con la
struttura che la separa dalla nevrosi” (si veda Roland Chemama e Bernard Vandermersch,
a cura di, Dizionario di psicanalisi, Gremese Editore, Roma 2004).
4
Il termine “automatismo” presente nell’espressione “automatismo mentale”, riguarda
fenomeni come l’anticipazione del pensiero descritti da Gaétan-Henri Gatian de Clérambault nel quadro clinico delle psicosi – è ciò che Lacan descriverà nell’uomo “normale”
come equivalente del parassitaggio dalla parola.
5
Erik Porge, Jacques Lacan, un psychanalyste. Parcours d’un enseignement, Erès, Paris 2000,
p. 59.
104
Muriel Drazien
Reale, a sottolinearne l’importanza rispetto alle altre due istanze – ma
sempre rimarcando la loro interdipendenza. Lacan ci dice in questo
seminario che Joyce nella sua scrittura tenta di mettere da parte l’immaginario per re-inventare la lingua, una lingua “reale” fatta di neologismi, giochi di parole translinguistici, enunciazioni senza enunciati;
lo scrittore sconvolge la sintassi eliminando il senso, poiché il senso
rinvia all’immaginario.
Nelle mie trascrizioni delle parole di Lacan, cito dai miei appunti
della conferenza alla Sorbonne: è perché il senso è sacrificato che “il
sintomo in Joyce è un sintomo che non vi riguarda in niente. È il sintomo in quanto non c’è alcuna chance che esso agganci qualcosa del
vostro inconscio”. Ecco perché la lettura di Joyce risulta ostica, i suoi
testi sono enigmatici, ermetici. Infatti, senza la mediazione dell’immaginario, il lettore non trova alcuna porta d’ingresso al testo.
In proposito vorrei aprire alcune parentesi e rileggere ciò che scrive
il fratello di Joyce, Stanislaus, in un volume d’importanza eccezionale
sugli anni di gioventù dell’autore, intitolato My Brother’s Keeper, cioè
Guardiano di mio fratello.6
Parlando della poesia, Stanislaus ci fa partecipi delle preferenze di
Joyce per le storie senza trama. Senza trama vuol dire senza rinvio
all’immaginario, senza accenni a quell’esperienza vitale di ciascuno
che permetterebbe di “agganciarne l’inconscio”, secondo l’espressione di Lacan. Joyce intende favorire lo stile, il ritmo, il mood, le parole
“reali”, epurate dall’immaginario, si potrebbe dire.
Aveva sempre avversione per una classe di poeti per la quale solo
ciò che è immaginario possiede valore poetico; il suo principio era
rigettare questa poesia che a lui sembrava falsa dal punto di vista
emozionale. La sua preferenza era per le poesie il cui interesse non
dipendeva dall’espressione di un pensiero poetico ma piuttosto dall’indefinibile suggerimento della parola, della frase e del suo ritmo.
Ne Il sinthomo, Lacan dimostra che, nell’annodamento, i tre registri
risultano equivalenti ma poiché il nodo è reale, il primato è dato al
Reale. Lacan dichiara che anche nell’analisi si deve mirare a “un più
di reale”. Non è facile definire questo Reale che Lacan conta tra le sue
vere scoperte personali. A lungo l’ha definito dicendo che esso fa tre
6
Stanislaus Joyce, My Brother’s Keeper: James Joyce’s Early Years, Da Capo Press, BostonNew York 2003.
Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura
105
con l’Immaginario e con il Simbolico. Lacan affronta la questione del
Reale sin dalla prima lezione del seminario, ma la sua definizione presenta non poche difficoltà proprio perché il Reale non è simbolizzabile. Allora come parlarne? Anche perciò Lacan lo definisce l’impossibile,
impossibile da dire o da immaginare visto che il Reale corrisponde a
un punto di faglia nel sistema simbolico.
È l’impossibile del Reale che ha condotto Lacan all’uso che fa lui,
del tutto personale, del nodo borromeo. Il nodo borromeo procura un
supporto al reale dell’inconscio: la scrittura, fatta di lettere o di simboli
matematici, permette di svuotare il senso, di eliminare l’immaginario
e, in tal modo, essa permette di “acchiappare un pezzettino di quel
Reale”. Il nodo borromeo è ciò che Catherine Millot, nella sua conferenza a Roma, ha chiamato la “metafora del rapporto di Lacan con
l’inconscio”.
Lacan teneva molto a dare una base scientifica alla psicoanalisi
anche, ma non solo, per favorire la possibilità della sua trasmissione; trasmissione da lui augurata e da lui attuata attraverso i matemi
introdotti nel seminario Ancora. Questo rendeva necessario un nuovo
posizionamento dell’Immaginario, nato dalla fase dello specchio insieme
al campo del narcisismo, dei fantasmi, del corpo e dei suoi oggetti,
e del senso. A partire dalla conferenza del 1952, Funzione e campo della
parola e del linguaggio in psicoanalisi, conosciuta come il Discorso di Roma, si
era stabilita una certa supremazia del Simbolico, supremazia avvertita
dagli allievi più anziani come un’imposizione inaccettabile, una sorta
di Super-io lacaniano. Invece il Reale di cui Lacan tratta ne Il sinthomo
emerge, come era già accaduto nelle Psicosi, a partire dalla forclusione,
la Verwerfung di cui parla Freud, dall’assenza nell’Altro del significante
Nome-del-Padre.
L’Immaginario è legato al corpo in quanto nasce dallo stadio dello
specchio, anche se il corpo non appartiene solo al registro dell’Immaginario, ma partecipa anche del Reale – consideriamo i casi di allucinazioni visive e uditive in cui il Reale interviene “da fuori” per fare
incursione nel mondo dello psicotico. Consideriamo reali sia questa
particolare ek-sistenza (neologismo di Lacan che indica ciò che “esiste”
un po’ dentro, un po’ fuori dal corpo), sia la consistenza del corpo. Le
pulsioni sono “l’eco nel corpo del fatto che c’è un dire”. È necessario
però che il corpo sia sensibile, che il corpo senta questo dire. Come
sente questo dire? Attraverso gli orifizi; e l’orecchio è il più importan-
106
Muriel Drazien
te, l’unico che non può chiudersi e al quale perciò risponde, nel corpo,
a ciò che Lacan ha chiamato “la voce”.
Sappiamo che Lacan ha riletto molti dei casi celebri di Freud come quello della “bella macellaia”, caso esaminato nella Traumdeutung,
o quello della “giovane omosessuale”, tratto dalla Psicogenesi di un caso
d’omosessualità femminile del 1920. Lacan ha ripreso laddove Freud ha
lasciato traccia, e la sua lettura ha conferito un valore paradigmatico a
questi come ad altri casi.
Il primo, quello della “bella macellaia” (così chiamato perché la
sognatrice, una bella signora, era moglie di un macellaio), costituisce,
a partire dalla rilettura di Lacan, la metafora del desiderio di avere un
desiderio non appagato; è ciò che caratterizza il desiderio dell’isterica.
La giovane omosessuale è diventata paradigma del passaggio all’atto, nella definizione di Lacan che lo differenzia dall’acting out.
In questa prospettiva, Joyce è il paradigma del “sintomo”. Lacan fa
di Joyce un “caso”; egli diventa l’illustrazione magistrale della problematica del sintomo nella nuova strutturazione clinica da lui introdotta
– clinica inoltre segnata dalla topologia dei nodi. Quel che traiamo
dal sinthomo è l’intento di Lacan di rinnovare la lettura del sintomo
attraverso la lettera e la scrittura, e non solo attraverso il significante
come avveniva nei casi che aveva studiato in passato.
L’arte di Joyce è la scrittura, la pratica della lettera, la lettera è il
materiale, la materia attraverso cui forgerà il veicolo per compiere
la sua “missione”: quella di sostenere suo padre carente e, attraverso
la sua arte, farlo sussistere e distinguerlo. Joyce ha poi esteso questa
sua missione anche alla patria – the Fatherland – l’Irlanda. Redimere il
padre e la patria è la missione che si legge in filigrana attraverso tutta
la sua opera (come ho mostrato nel mio testo Il ritorno,7 trattando della
pièce Exiles di Joyce: “Gli esiliati”, o “Gli esìli” nella traduzione che
ne dà Lacan).
È attraverso la scrittura che Joyce intende realizzare questa missione. Essa costituisce un quarto anello del “nodo bo”, il nodo specifico
che Lacan utilizza per illustrare la problematica di Joyce. Il “nodo
bo” non è il nodo borromeo di cui si è parlato finora, è un nodo che si
scioglie visto che gli anelli che lo compongono sono solo sovrapposti
7
Muriel Drazien, Psicanalisi e cultura oggi, in Psicanalisi e cultura oggi. Atti di Mazara del
Vallo, 2-3 novembre 2001, Edizioni Cosa Freudiana, Roma 2002, pp. 39-45.
Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura
107
e non legati tra di loro; a questo nodo, l’anello del sinthomo, il quarto
anello, è necessario per tenere legati insieme gli altri tre. Il sinthomo di
Joyce compenserebbe la carenza radicale del padre, evidenziata dalla
fragilità del suo nodo e del simbolico. Il sinthomo costituisce una “supplenza” che fa tenere insieme gli anelli e i registri che compongono la
struttura. In tal modo, malgrado la forclusione del Nome-del-Padre,
Joyce non sarebbe pazzo. La sua scrittura funzionerebbe come supplenza, non del padre, ma piuttosto del proprio ego. Se nel nodo ogni
anello corrisponde a un registro, nel suo caso è l’anello dell’Immaginario che scappa via, che si slega.
A proposito dell’ego di Joyce, Stanislaus Joyce nel suo My Brother’s
Keeper, vera cronaca degli anni di gioventù di Joyce, racconta come il
fratello, non ancora giunto all’età di quattro anni, fece un ingresso
partendo dalla scala di casa fino alla sala dove si riuniva la famiglia
esclamando: “Here’s me! Here’s me!” (“Sono qui, eccomi qua, eccomi qua”). Riguardo l’insistenza e la precoce manifestazione dell’ego
– appello di riconoscimento da parte di un bambino che, diventato
autore, intitolerà la sua ultima opera H.C.E., o Here Comes Everybody,
vale a dire “Sta arrivando il mondo intero” – Stanislaus commenterà
che il fratello non ha mai dubitato di se stesso, della sua importanza,
“imperturbabile in ogni occasione”. L’ego di Joyce si lega alla sua
reale presenza corporea.
La lettura di Lacan mette in evidenza il modo in cui Joyce tenta
di purificare la sua lingua dall’Immaginario, di spazzare via il senso
delle parole e di legarsi al Simbolico. Lacan ripete con insistenza che
il significante di per sé non significa nulla: cosa sarebbe allora una
“lingua pura”, purificata dall’Immaginario?
Il sintomo di Joyce fa sì che la sua scrittura “non agganci niente
dell’inconscio” del lettore. Bene, inventando un neologismo degno di
Joyce stesso, Lacan dichiara che Joyce era legato alla “croce della propria finzione”, una croce-finzione. Joyce era “Bound to the cross of his
own cruel fiction”. Nel seminario RSI che precede Il sinthomo, Lacan
definisce il sintomo in base al modo in cui ciascuno gode dell’inconscio, in quanto è l’inconscio che lo determina.
Stanislaus racconta che Joyce diceva di non vedere le cose, ma di
assorbirle. Rileggiamolo a proposito della scrittura, quando ci racconta che Joyce ha fondato la certezza della propria vocazione di scrittore
sulla sua capacità di captare quei momenti fugaci dell’esistenza che
108
Muriel Drazien
ha chiamato “epifanie”. D’altronde il fenomeno delle epifanie deriva dalle sue antiche frequentazioni della dottrina di san Tommaso
d’Aquino. Joyce, lui, concepisce l’epifania come una manifestazione
del sacro, visibile e udibile (ricordiamo che Joyce ha sempre avuto
problemi con la vista e che, alla fine della sua vita, era divenuto quasi
cieco), vere e proprie irruzioni del Reale – in questo senso, dice Lacan,
simili all’allucinazione.
La questione del padre, il padre di Joyce, occupa un posto centrale nel seminario Il sinthomo. Padre, Nomi-del-Padre diventano anelli
del nodo, bouts de ficelle, con i quali Lacan giostrerà per raffigurare e
costruire ciò che vuole che sia un nodo consistente. Lacan parla nel
seminario rsi del legame tra il padre, il Simbolico e la nominazione.
Il padre è colui che nomina. Simbolico, Reale e Immaginario sono altrettanti Nomi-del-Padre che fanno la consistenza del nodo. Il quarto
anello, il complesso d’Edipo di Freud – ossia il sintomo – è ciò che tiene insieme il nodo. In tal senso, il padre è un sintomo come un altro,
il mito di Edipo in quanto centrato dal padre viene sgretolato. Fare a
meno del padre, è anche fare a meno del “religioso”. Lacan ricorre
a una frase enigmatica nello stile, ma che mi impone una continua
rilettura: “Del Nome-del-Padre si può fare a meno. Se ne può fare a
meno a condizione di servirsene”. Far funzionare il padre di per sé, in
valore di ciò che è stato da lui trasmesso, permetterebbe di eliminare
il padre-sintomo, mi pare un’interpretazione possibile di questa frase.
“È possibile fare a meno del religioso?”, si è chiesto all’epoca della Troisième di Roma nel 1974. E a tale questione ne segue un’altra:
vincerà la religione o la psicoanalisi? Joyce ha provato a fare a meno
del religioso. Non è chiaro in quale misura vi sia riuscito, anche se ha
abbandonato il clericato, se ha rifiutato le forme esterne che richiede
la chiesa, ed è passato per un eretico; tuttavia ha sempre sostenuto la
validità dell’educazione religiosa.
Se si può fare a meno del padre e della religione, vuole dire che si
va verso una laicizzazione della cura stessa, ossia verso una cura meno “edipica”. Invece si apre il varco delle supplenze, che sono proprio
in rapporto con la funzione del sinthomo (si va verso una clinica delle
supplenze; questo per quanto riguarda “l’attualità” delle formulazioni
di Lacan).
Il Reale insiste nel sinthomo, ci dice Lacan. Lo psicoanalista è chiamato a combattere contro il Reale, pur non potendo operare senza.
Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura
109
Se la psicoanalisi riuscisse nel suo scopo, finirebbe: paradosso, la psicoanalisi può sussistere solo fallendo nel proprio scopo.
“La sessualità è trou-matique, [gioco di parole tra buco, tromba e
trauma, N.d.A.] visto che c’è un buco al livello di ciò che farebbe rapporto sessuale. Il sintomo è il segno di qualcosa che inciampa nel
rapporto con il sessuale e il sinthomo dice più precisamente che a inciampare è la possibilità di stabilire un rapporto sessuale tra l’uomo e
la donna (un altro punto, da esplorare un’altra volta). Il sinthomo dice
(traduce) il Reale del sintomo”, è la parte di Reale insita nel sintomo.
Il sintomo, come il godimento fallico, è ciò che non va. Sintomo e
godimento sono equivalenti. Il godimento fallico si situa tra Reale e
Simbolico.
Il Nome-del-Padre è il sinthomo che lega insieme i tre registri e i
tre anelli del nodo. In questa prospettiva la funzione paterna diventa
sinonimo di père-versione o “versione del padre”. La père-versione non è
senza godimento, come d’altronde accade per qualsiasi altro sintomo.
Però Lacan esiterà nel situare Joyce dalla parte della perversione –
ipotesi verso cui lascerebbe propendere l’episodio delle botte ricevute
da Stephen, l’alter ego di Joyce, nel passaggio del Ritratto dell’artista
reso famoso dalla lettura data da Lacan in questo seminario. Esita
soprattutto perché sembra che mancasse un vero godimento da parte
del ragazzo di allora – mentre le epifanie sembrano, infatti, affini al
delirio.
Sono alcune ipotesi articolate da Lacan per interrogare il “caso
Joyce”.
Formazione dello psicoanalista
Farsi un nome o dare un nome?
Nominazione e trasmissione in James Joyce
Mariela Castrillejo
Joyce è un figlio capace di sostituire con un artificio quello che non
gli è stato trasmesso dal Padre ma, al momento di diventare padre
lui stesso, ha delle difficoltà nel dare un nome al proprio figlio. Il
nome assegnato alla figlia, invece, non è innocente ma in continuità
con il sintomo del padre ed è complementare a una carenza paterna
non simbolizzata. Sono queste le idee che hanno ispirato il titolo
del mio lavoro: la questione è che, diversamente da Joyce, prima
gli ho dato il nome e poi l’ho visto nascere. Studiando la biografia
di Joyce, sono venuta a conoscenza di uno scatenamento psicotico
con delle allucinazioni uditive risalente al tempo della morte del
padre. Di fronte a questa novità il mio intervento ha seguito altri
percorsi.
il nome del figlio
Edoardo Fraquelli
Senza titolo, 1959
tempera su carta intelata
34 × 24 cm
“Figlio nato. Jim.” Con un telegramma di sole tre parole, James Joyce
informa il fratello Stanislaus dalla nascita del figlio. Più tardi, in una
lettera scriverà che il bimbo, nonostante abbia già due mesi, è privo
di un nome. Nella stessa missiva, riflettendo sul tema della paternità,
Joyce sostiene che un figlio, raggiunta la maggiore età, dovrebbe essere
libero di scegliere il cognome del padre o quello della madre, termi-
114
Mariela Castrillejo
nando con una frase che Stephen Dedalus farà propria nell’Ulisse: “La
paternità è una finzione legale”.1
Dunque, che cosa può trasmettere un padre quando vacilla nel
dare un nome che particolarizza il figlio? Quando non trasmette un
significante della propria mancanza? C’è la sola via della follia come
risposta alla carenza paterna? Quanto è determinante la struttura e
qual è la capacità di manovra del soggetto?
Secondo Joyce, un figlio dovrebbe essere libero di scegliere il suo
nome. Lui pensava che farsi un nome fosse compito di un figlio, non
badava troppo alla responsabilità paterna di nominare, di dare un nome alle cose, non considerava l’importanza del nome come un dono
ricevuto dal padre. La posizione che Joyce assume, sia come figlio che
come padre, mette in rilievo la dimensione della scelta del soggetto:
per lo scrittore irlandese la dimensione della trasmissione paterna è
meno importante che l’insondabile decisione dell’essere. La paternità
è per Joyce una finzione e, quindi, fa a meno della sua funzione e della
sua trasmissione. Joyce si fa un nome da sé, servendosi della sua arte,
del suo sinthomo.
joyce con schreber
Lacan nel suo Seminario xxiii pone il noto quesito sulla follia di Joyce:
Joyce era forse pazzo? Preferirei riformulare la sua domanda in questi termini: in che modo Joyce era diverso da Schreber? Si potrebbe
provare a rispondere dicendo che lì dove Schreber usa il delirio come modalità di stabilizzazione della psicosi, Joyce usa l’arte, il Nome
proprio e il sinthomo. Lacan, come sapete, spiegherà l’assenza dello
scatenamento psicotico nell’autore dell’Ulisse riflettendo sull’uso che
Joyce fa dell’opera artistica. Dedicherà gran parte del Seminario xxiii
a studiare che funzione ha l’arte in Joyce, considerando la funzione
artistica nello scrittore come un artificio che si colloca al posto del
significante del Nome-del-Padre, un artificio che supplisce la carenza
paterna joyciana. Questa supplenza artistica si colloca al posto del
significante mancante dando stabilità alla struttura.
1
Renzo S. Crivelli, James Joyce: itinerari triestini – James Joyce: triestine itineraries, Mgs Press,
Trieste 1996.
Farsi un nome o dare un nome?
115
Dunque, come è costruito quest’artificio da Joyce? Si dice che lo
scrittore mentre scriveva rideva, giocando con le parole cercava il
godimento di quello che Lacan chiama la lalingua. Joyce cercava di
ricreare quel godimento antico che si riconosce nella lallazione e nella
balbuzie infantile precedenti alla conquista della parola. Tramite la
scrittura, l’autore avvia un processo progressivo di disassemblaggio
fonetico e di invenzione di parole che lo immerge in una dimensione
di godimento infantile, un godimento diverso e separato dall’ambito
del dialogo e della comunicazione. Questo processo, questo suo work
in progress, si sviluppa fino ad arrivare al Finnegans Wake, la sua ultima
opera, che si caratterizza per l’uso che l’autore fa degli equivoci, dei
giochi di parole, delle omofonie e dove Joyce “finisce col dissolvere il
linguaggio stesso”. Il lavoro artistico di dissolvere il linguaggio nella
lalingua diventerà un sapere-fare che particolarizza Joyce e gli dà un
nome rilevante nella letteratura di tutti i tempi.
Dunque perché Joyce non delirava come Schreber? Perché la nominazione di Joyce, come l’artista capace di “tenere occupati i critici per
i prossimi trecento anni”,2 ha un effetto di supplenza del Nome-delPadre e della significazione fallica. Quest’operazione joyciana che è
aliena al lavoro inconscio dell’interpretazione e agli effetti di senso e di
verità, questa operazione di supplenza degli elementi mancanti nella
storia e nella soggettività, viene chiamata da Lacan sinthomo.
la voce del padre, le allucinazioni
e lo scatenamento psicotico
Sono tanti gli psicoanalisti che sostengono con Lacan che non si trovano tracce di un esordio psicotico in Joyce, sia nella celebre biografia
di Richard Ellmann, sia nel vasto epistolario joyciano. Cercando nelle
sue note, nei ricordi di amici oppure nei testi di suo fratello Stanislaus, non ci sono indizi di uno scompenso. Non ci sono – si afferma
– nei principali testi che raccontano la vita dello scrittore, passaggi
2
Max Eastman, The Cult of Unintelligibility, in “Harper’s Magazine”, aprile 1929, pp.
632-639. Jacques Lacan dice agli studenti di Yale: “Quand je m’intéresse à Joyce, c’est
parce que Joyce essaie de passer au-delà; il a dit que les universitaires parleraient de lui
pendant trois cents ans” (Jacques Lacan, Conférences et entretiens dans des universités nord-américaines, in “Scilicet”, n. 6/7, Seuil, Paris 1975, p. 36).
116
Mariela Castrillejo
che permettano di constatare uno scatenamento psicotico. Eppure,
Richard Ellmann descrive, in pochissime linee e con precisione, lo
scatenamento clinico della psicosi di Joyce al tempo della morte del
padre. È Lacan stesso a confidare all’uditorio del suo seminario che
pure lui si perde nel lavoro di Ellmann. Davanti a quel vasto materiale
biografico, che Lacan definisce farraginoso, lo psicoanalista sceglie
di farsi orientare dalla sua pratica: il biografo, dunque, descrive uno
scatenamento psicotico in Joyce ma quest’ultimo creerà una soluzione
diversa da quella di Schreber. La soluzione joyciana non è la ricostruzione delirante di un nuovo ordine ma una stabilizzazione a opera
della scrittura. Scrive Ellmann che – dopo la morte del padre – per
una settimana lo scrittore irlandese non riuscì a dormire, a eccezione
di brevi momenti in cui faceva angoscianti incubi. Racconta che Joyce
si sentiva come un pesce fuor d’acqua e che durante il giorno aveva
delle allucinazioni uditive. A causa di questi disturbi consultò il dottor
Debray, il suo medico curante che, come altre volte, sostenne che il
problema era di origine nervosa e la cura consigliata per Joyce fu di
lavorare al suo libro.3 Le allucinazioni scomparvero quando Joyce,
seguendo l’indicazione del suo medico, riprese la stesura del Finnegans
Wake.
Una serie simultanea di eventi sconvolsero radicalmente la vita di
James Joyce al momento delle allucinazioni: in primis la morte del padre il 29 dicembre 1931, poi l’aggravarsi della malattia della figlia –
Lucia aggredì violentemente la madre e il fratello Giorgio durante la
festa per i cinquant’anni di Joyce, il 2 febbraio 1932, e di conseguenza
venne ricoverata in una clinica psichiatrica –, la nascita del nipote
Stephen James, il 16 febbraio 1932 e la perdita progressiva della vista. Questa serie di eventi mette Joyce di fronte a quello che Lacan
chiama “la carenza della funzione paterna”. Joyce, dunque, si troverà
ad affrontare la dimensione impositiva dell’oggetto voce che, in una
struttura psicotica, può essere un indicatore reale e decisivo per una
diagnosi clinica.
Così Joyce parlò delle sue allucinazioni: in una lettera del 22 luglio
1932 James Joyce scrive a un’amica americana – che l’ha sempre sostenuto economicamente e incoraggiato nella scrittura, Miss Harriet
Weaver – raccontandole che la voce del padre si era immessa nel suo
Richard Ellmann, James Joyce (1959), Feltrinelli, Milano 1964, p. 773.
3
Farsi un nome o dare un nome?
117
corpo o in qualche modo si era inserita nella sua gola, particolarmente nel momento in cui egli singhiozza.4 A Eugene Jolas – sostenitore
appassionato di Joyce che ebbe un ruolo molto attivo nell’incoraggiare
la stesura del Finnegans Wake quando era ancora in forma embrionale, suddiviso in una serie di racconti dal titolo Work in Progress – disse
chiaramente: “Sento parlare mio padre”.5
Altri indizi di una possibile struttura psicotica di Joyce si trovano
nella biografia di Ellmann. Il celebre biografo sottolinea una tendenza
alle idee deliranti in Joyce, per esempio quando sostiene che l’esilio
autoimposto dalla terra d’origine è organizzato in modo persecutorio,
dal momento che Joyce aveva la convinzione che era persona non
gradita nel suo paese e che sarebbe stato aggredito nel caso di un suo
eventuale ritorno in Irlanda. Un altro esempio esplicativo di questa
idea delirante è relativo all’episodio in cui Nora e i figli si trovarono
casualmente in mezzo a un conflitto sociale durante la guerra civile irlandese, evento che è stato interpretato da Joyce non come un
avvenimento comune dovuto a tali circostanze, ma come un’azione
indirizzata contro la sua persona.6
lucia
Fin da piccola la figlia Lucia ebbe segni di disturbi psichici ma i genitori leggevano tale comportamento come delle eccentricità infantili.
La psicosi di Lucia ebbe il suo esordio clinico dopo l’innamoramento,
il rifiuto e la conseguente delusione amorosa di Samuel Beckett. Lacan interpreta la follia della figlia di Joyce come un prolungamento
del sintomo del padre, sottolineando l’implicazione di questo nella
psicosi di Lucia.
Lucia aveva studiato danza nella scuola di Isadora Duncan e Beckett, ormai amico di famiglia, accompagnava ogni tanto James e
Nora a vedere gli spettacoli della figlia. Lucia non solo ballava ma
era anche una brava cantante. Era una ragazza slanciata e graziosa
Id., Letters of James Joyce, Faber and Faber, London 1966, vol. iii, p. 250.
Eugene Jolas, My friend James Joyce, in Seon Givens, a cura di, James Joyce: Two Decades
of Criticism, Vanguard Press, New York 1948, p. 9.
6
Ivi, p. 535.
4
5
118
Mariela Castrillejo
ma mai soddisfatta del suo aspetto. Affetta da un lieve strabismo aveva tentato, con insuccesso, di correggere il difetto che la disturbava.7
Il difetto agli occhi ha l’effetto, su Lucia, di mettere in evidenza un
aspetto non simbolizzato della castrazione, un elemento non simbolizzato legato alla vista. Lacan afferma che quello che succede a Lucia
è indice della carenza paterna di Joyce, unendo in questo modo tre
generazioni.
Lucia aveva avuto diverse infatuazioni prima che i suoi sentimenti
si focalizzassero su Beckett. Lui non ricambiava la sua passione ma la
portava fuori a cena o a teatro, più che altro per rinsaldare il legame
con la famiglia Joyce. Beckett, pur non amando la ragazza che si era
infatuata di lui, permise che nascesse una relazione fra loro. Tuttavia,
nel maggio 1931, Beckett disse francamente a Lucia che non era innamorato di lei. Questo gettò la giovane in preda alla disperazione.
Quando il giovane Samuel decise di rompere, Nora Joyce s’infuriò e lo
accusò di avere sfruttato la figlia per garantirsi l’accesso al padre. Lucia, invece, incolpò sua madre della separazione. L’incidente provocò
una frattura tra i due scrittori irlandesi e l’allontanamento di Joyce segnò profondamente l’autore di Aspettando Godot. Anni più tardi, Samuel
Beckett disse alla sua amica Peggy Guggenheim di essere morto, di
non avere sentimenti umani e per questa ragione non era stato capace
di innamorarsi di Lucia.8
Ma tornando su Lucia Joyce, su di lei scrive Natalia Aspesi:
Sfortunata nei suoi frenetici amori (tra cui il poeta surrealista Emile Fernandez
– l’artista di “mobiles” –, Alexander Calder – l’insegnante di russo di Joyce –,
Alexander Ponisovsky e la lesbica Myrsine Moschos), Lucia amò soprattutto il
padre, il quale la adorava ed era orgoglioso delle sue danze smodate e conturbanti. Di lei il padre diceva: “Qualunque scintilla o dono io possieda, è stato
trasmesso a Lucia ed ha acceso una fiamma nella sua mente”, ciononostante
o forse per questa loro unione la teneva chiusa per ore nella stanza dove lui si
tormentava con l’eterna riscrittura di Finnegans Wake.9
7
Brett Foster, Biography of James Joyce, in Harold Bloom, a cura di, James Joyce, Chelsea
House Publications, Philadelphia 2003, p. 64.
8
Richard Ellmann, op. cit.
9
Natalia Aspesi, Bloomsday. Una lunga giornata particolare, in “la Repubblica”, 16 giugno
2004, p. 39.
Farsi un nome o dare un nome?
119
Lo stato di Lucia peggiorò ulteriormente quando si aggravò la malattia alla vista del padre e suo fratello Giorgio si sposò e diventò padre.
Lo scrittore attribuiva la causa della malattia della figlia alla vita nomade e alla varietà di lingue che egli stesso aveva imposto ai membri
della famiglia, si sentiva responsabile per aver scelto l’esilio e per la sua
totale dedizione alla letteratura.10 Joyce misconosceva la follia di Lucia, preferiva credere che sua figlia fosse dotata di una chiaroveggenza
prodigiosa e questa convinzione del padre aumentava con l’aggravarsi
della psicosi della figlia.11
A questo proposito Jung, in una lettera a Patricia Graecen, equiparava James e Lucia Joyce a due individui che affondano in un fiume,
uno perché vi cade dentro e l’altro perché vi si è tuffato. Jung sosteneva, infatti, che nell’arte di Joyce sono presenti degli elementi psicotici
e che l’ostinazione con la quale lo scrittore si rifiutava di considerare
malata la figlia era dovuta alla paura di ammettere che anche in lui
fosse presente una psicosi latente.12 Sempre nella stessa lettera alla
Graecen, Jung aggiungeva:
Lo stile di lui è in ultima analisi schizofrenico, con la differenza, però, che il
paziente ordinario non può fare a meno di parlare e di pensare a quel modo,
mentre Joyce l’ha voluto e per giunta l’ha sviluppato con tutte le sue forze
creative: il che, per inciso, spiega perché personalmente egli non abbia oltrepassato il limite. La figlia invece sì, perché non era un genio come il padre, ma
semplicemente una vittima del proprio squilibrio.13
Joyce, dunque, assegnava il nome di chiaroveggenza alla follia di Lucia, follia che non è che un’estensione del sintomo che colpiva il padre.
Entrambi sperimentano il fenomeno delle parole imposte, uno traduce questa esperienza in letteratura, l’altra in chiaroveggenza. Joyce
considerava Lucia un’artista, come lui. Non vedeva una carenza nella
figlia che potesse riferirsi a una disfunzione del registro simbolico, ma
riteneva che la chiaroveggenza fosse l’invenzione di Lucia. Purtroppo
per Lucia la sua chiaroveggenza fu più un’interpretazione del padre
Richard Ellmann, op. cit.
Ivi, p. 764.
12
Carl Gustav Jung, Letters, 2 voll., Princeton University Press, Princeton 1976, vol.
ii, p. 266.
13
Ivi, p. 229.
10
11
120
Mariela Castrillejo
che un sinthomo, un artificio che funziona come supplenza alla carenza
del padre. La chiaroveggenza fu piuttosto, quindi, complementare a
una carenza paterna non simbolizzata.
Lucia, il nome italiano scelto per la bambina dal padre affetto da
una patologia oculare, è il nome che evoca la luce e la santa protettrice
degli occhi e della vista. Così, in un certo modo, la chiaroveggenza è
stata imposta alla figlia fin dall’inizio. Al culmine della follia, infatti,
questo significante ritorna nell’attribuzione alla ragazza del dono della
chiaroveggenza. La chiaroveggenza in eccesso di Lucia è complementare alla cecità del padre: ciò che è accaduto nel corpo del padre ha
provocato la risposta folle della figlia.14
stephen
Farsi un nome o dare un nome?
121
rapaci e rapaci ditini se ne impossessino”.15 Oggi finalmente tutto l’insieme dell’opera joyciana è pubblico.
Mi domando fino a dove un erede può difendere il diritto alla privacy a scapito della ricerca accademica. Mi pongo anche un’altra
domanda, più clinica che giuridica: come si articolano i diritti di proprietà intellettuale quando sono la conseguenza di un’eredità familiare, l’eredità di un nome?
Un nome può diventare proprio solo quando un soggetto riesce a
soggettivare ciò che gli è stato dato oppure costruendo il nome proprio
attraverso un lavoro di sublimazione. Se queste operazioni di soggettivazione e di sublimazione vengono a mancare, al posto del nome
proprio troviamo l’appropriazione di un nome e l’appropriazione di
un’opera che non circola, che è in ostaggio e di conseguenza la trasmissione viene ostacolata dal nome.
L’enigma attorno a Lucia Joyce resterà per sempre irrisolto perché
centinaia di documenti, lettere scritte da lei o a lei, soprattutto dal
padre, sono andate intenzionalmente distrutte, ma da gennaio di
quest’anno, leggere un testo di James Joyce in pubblico non è più un
delitto contro i diritti d’autore. Diritti che gestiva, in modo paranoico,
l’unico discendente di James Joyce, Stephen James Joyce.
Il nipote di Joyce, Stephen James, è l’unico figlio di Giorgio Joyce,
quel figlio senza nome citato all’inizio del mio intervento. Stephen è
l’unico erede, è figlio di un padre alcolizzato e della prima moglie di
quest’ultimo, la ricca Helen Fleischmann, di undici anni più anziana
del marito, affetta da schizofrenia e, con l’aggravarsi della malattia,
abbandonata da Giorgio.
L’erede, agguerrito difensore dei segreti e del buon nome dei Joyce,
trascorre la sua vita a minacciare spietatamente chiunque voglia scrivere della famiglia. Addirittura, in un congresso a Venezia nel 1988,
annunciò con soddisfazione, davanti allo stupore e alla desolazione di
molti studiosi, di aver distrutto tutte le lettere di Lucia in suo possesso
e di aver convinto Beckett a fare lo stesso, per evitare “che occhietti
Per una trattazione approfondita dell’argomento si veda Sérgio Laia, Los escritos fuera
de sí: Joyce, Lacan y la locura, Asociación Galega de Saúde Mental, “Colección La Otra
psiquiatría”, Vigo 2006, p. 319.
14
Si vedano James Caryn, The Fate of Joyce Family Letters Causes Angry Literary Debate,
in “The New York Times”, 15 agosto 1988 e Natalia Aspesi, Bloomsday. Una lunga giornata
particolare, cit.
15
Come neve al sole
Come neve al sole
Natascia Ranieri
Incontro Elisa con regolarità da cinque anni in Jonas onlus,1 si presenta sempre con largo anticipo per essere sicura di arrivare puntuale
al suo appuntamento.
Ha quarantacinque anni, è un’insegnante, ama il suo lavoro, prepara con grande rigore il programma delle lezioni e il materiale didattico
da portare in classe; per questo è molto benvoluta dai suoi allievi. Elisa
non è sposata né ha mai avuto un compagno, vive con sua madre, non
ha amici, i suoi legami sociali sono limitati agli incontri scolastici.
l’ingresso nel luogo di cura
Cinque anni fa la donna decide di domandare aiuto a uno psicologo
perché nel luogo di lavoro si sente vittima di “ingiustizie e gravi cattiverie”. Si è già rivolta alle associazioni di categoria in cerca di una
tutela, ma le risposte ricevute non l’avrebbero pacificata. I sindacati,
infatti, le avrebbero offerto delle indicazioni legali che secondo Elisa
non sarebbero sufficienti a salvarla. Chi la odia ha il preciso progetto
1
Jonas onlus, Centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi, è un’istituzione
di psicoanalisi applicata fondata nel 2003 da Massimo Recalcati. Jonas si occupa della
prevenzione e della cura delle nuove forme del disagio psichico: anoressie-bulimie, depressioni, attacchi di panico, fenomeni psicosomatici, disagio della famiglia ecc.
123
di distruggerla: “Sono pronti a tutto, non c’è legge che tenga”. Elisa
mi spiega che, dopo anni di precariato a scuola, questo è il suo “anno
di prova” in cui ha la possibilità, se supera un esame finale, di diventare insegnante di ruolo, una vera maestra. L’esame consiste nella presentazione di una tesina sul lavoro didattico svolto nell’anno scolastico
in corso, al cospetto di una commissione di valutazione. I componenti di
tale commissione sarebbero precisamente il gruppo di insegnanti a lei
ostile e che le avrebbe reso la vita un inferno. La direttrice didattica
della sua scuola definita da Elisa “bestia dittatrice comunista”, capo
del gruppo a lei nemico, sarebbe una “dirigente del Partito comunista
messa nella scuola italiana per smembrarne gli organi e prendersi
il potere”. Tutti gli altri colleghi, pilotati dalla direttrice, starebbero
tramando alle sue spalle, avendo l’intento preciso di impedirle di presentarsi all’esame, ostacolandola in ogni modo. La sua è una certezza
monolitica e fuori discussione: “Mi bocceranno”. A scuola Elisa si
sente costantemente seguita e controllata, le colleghe le tenderebbero
ogni genere di tranello per impedirle di rispettare le norme che regolano l’anno di prova, i Decreti Delegati della scuola, la Costituzione
italiana.
La quotidiana vita scolastica è fonte di continue minacce angosciose: ogni parola o movimento dei colleghi diventa un chiaro segno del
complotto. È un’evidenza, lo sanno tutti che c’è un gruppo a lei ostile
e che vuole farla fuori. La fatica quotidiana di Elisa è quella di non farsi
mai cogliere in fallo. Ogni volta che riesce a salvarsi da un attacco
nemico incontra nello sguardo delle colleghe la delusione: “Si aspettavano che sarei caduta nel loro tranello, ma io li frego, vedranno di
cosa sono capace!”. La paziente infatti annota su un diario di bordo tutto
quello che accade a scuola: le circolari che le consegnano, le riunioni,
gli incontri ecc. Questo diario, che Elisa aggiorna quotidianamente, è
la modalità che ha trovato per tutelarsi da possibili accuse dei colleghi;
il diario sarebbe l’unico strumento che le permetterebbe in futuro di
dimostrare che ha svolto tutto in conformità alle regole scolastiche o
alle indicazioni dei suoi superiori. L’esistenza di questo diario è segreta e rimarrà tale fino al giorno del suo esame, Elisa infatti è decisa ad
allegare queste memorie alla sua tesi finale, pur non essendo in alcun
modo richiesto.
124
Natascia Ranieri
la storia familiare
Elisa non si è mai sentita desiderata, i genitori sarebbero sempre stati
premurosi nel soddisfare i suoi bisogni, ma mai attenti ai suoi sentimenti: “Mia madre non mi ha mai amata e mio padre era rigido e
violento”. “Questo” spiega la paziente “può avere effetti catastrofici
per una bambina.” Tale catastrofe affettiva sarebbe la causa dell’abissale senso di vuoto che invade ogni aspetto della sua vita e per cui
soffre costantemente.
Il padre di Elisa avrebbe costretto la famiglia a una vita di rinunce
e di stenti per accumulare denaro. “Mio padre aveva il brutto vizio di
non pagare niente: le tasse, le auto, le multe…” L’uomo, pur accumulando debiti, era riuscito ad acquistare vari immobili, che tuttavia con
la sua morte non verranno ereditati da Elisa. Dopo la morte dell’uomo, infatti, seguirà un lungo percorso giudiziario, al termine del quale
la paziente avrebbe preferito accollarsi gli ingenti debiti lasciati dal
padre piuttosto che proseguire nella trafila legale; le proprietà verranno ereditate dai suoi fratellastri nonostante a Elisa ne spettasse una
parte per testamento.
I genitori di Elisa non si sono mai sposati perché suo padre non si
sarebbe mai separato legalmente dalla sua prima compagna e moglie. L’uomo infatti all’inizio degli anni cinquanta aveva sposato una
donna con la quale aveva avuto due figli. La donna dopo pochi anni
lo avrebbe abbandonato portando con sé i suoi figli. La paziente ha
scoperto l’esistenza di questa famiglia legalmente riconosciuta solo in
età adolescenziale, quando, durante un litigio tra i genitori, sarebbe
stata sua madre a rivelarlo. Elisa è molto arrabbiata con suo padre
per non aver sciolto quel matrimonio e per non aver mai sposato sua
madre. L’assenza di legalità che sancisce l’unione tra i suoi genitori è
per la paziente l’onta irreparabile di cui sarà costretta a portare il peso
per tutta la vita. Né la legge, né l’amore tenevano uniti i suoi genitori
ma solo “la passione sessuale”.
Il padre di Elisa militava attivamente in politica e negli anni ottanta
avrebbe scoperto un giro di tangenti all’interno del suo partito, che
avrebbe denunciato anche ai suoi colleghi, ma l’effetto sarebbe stato
un’espulsione coatta dall’ambiente politico.
L’uomo, inoltre, aveva una dote speciale nelle mani, che utilizzava
per imporle sul corpo di un malato e curarlo, o per localizzare oggetti;
Come neve al sole
125
era un pranoterapeuta e veggente, “uno dei pochi al mondo capace
di fare queste cose”. Con la sola imposizione delle mani su una cartina geografica l’uomo era capace di localizzare con chiarezza dove
fosse l’oggetto o la persona ricercata. Così anche le forze dell’ordine
frequentavano la casa di Elisa per ottenere indicazioni sulle tracce di
pericolosi ricercati o carichi di stupefacenti.
Nelle parole della madre di Elisa il padre viene descritto come un
uomo aggressivo, disonesto e misogino. Elisa sarebbe nata dopo ripetuti aborti. Durante l’infanzia la madre la picchiava spesso e le ripeteva continuamente di non averla mai desiderata. Elisa spiega: “Mia
madre mi ha fatto pagare i suoi errori come donna e come madre”;
come donna per essere stata con un uomo che non amava e per di più
senza sposarsi, come madre per non aver mai amato sua figlia.
il percorso di cura
Primo tempo: diventare maestra
“Se sono malata mi farò curare”, avrebbe pensato Elisa dopo essere
stata tacciata di pazzia dalle colleghe. In realtà si convince fin da subito di non essere lei quella malata, ma che sono coloro che la circondano, le altre maestre, a essere folli.
La paziente mi spiega fin dalla prima seduta che l’angoscia per
questo anno di prova è legata principalmente alla paura di essere in
procinto di un esame: l’unico esame che Elisa ha dovuto sostenere
nella sua vita è associato a un trauma. Terminati gli studi magistrali,
infatti, si era iscritta all’università, ma fu bocciata al primo esame. In
tale occasione, suo padre si arrabbiò molto, la picchiò ma soprattutto
la derise davanti a tutti. “Questo è il mio trauma,” spiega Elisa “mio
padre mi prendeva sempre in giro per non aver passato l’esame, mi
derideva davanti agli altri, diceva che ero un’incapace; io mi vergognavo molto.” Una sera intorno ai diciannove anni, ospiti in casa di
parenti, suo padre la mise in ridicolo per non aver superato l’esame
sostenuto e tutti i parenti presenti la derisero. Il racconto di questa scena traumatica è associato a un altro evento simile, accaduto quando la
paziente aveva tre anni. La piccola Elisa era in vacanza con la famiglia
e dopo aver mangiato una merendina chiese a suo padre di poterne
126
Natascia Ranieri
mangiare ancora un’altra, l’uomo si arrabbiò molto e la picchiò rincorrendola per tutto il campeggio. Questi eventi, che Elisa racconta
ripetutamente, come un ritornello, sempre con le stesse parole, sempre
con la stessa intonazione della voce, rappresentano per la paziente i
traumi fondamentali della sua vita che avrebbero prodotto in lei una
chiusura sociale e una difficoltà a relazionarsi con il gruppo.
Quando arriva in Jonas, Elisa vive un senso di isolamento sociale
radicale che prende la forma del timore di essere annientata, fatta
fuori: “C’è una volontà alta che vuole discriminarmi e isolarmi: la direttrice”. I soprusi sarebbero iniziati un anno prima, quando, durante
un collegio docenti, Elisa si sarebbe ribellata rispetto alla violazione
di alcune norme della scuola da parte di qualche collega. Parla molto
confusamente di questo evento, tuttavia ritiene che l’attuale complotto
contro di lei sia voluto dalla direttrice scolastica, alla quale in quell’occasione lei avrebbe rivolto pesanti imprecazioni. Elisa avrebbe protestato per difendere i diritti delle insegnanti precarie che nella scuola
italiana vengono considerati professionisti di “serie B”. La paziente
associa la sua contestazione a quella portata avanti da suo padre nelle
fila del partito politico. Così è convinta che, come suo padre, anche
lei verrà esclusa: “È una certezza: non avrò più un lavoro”. Con il
tempo il racconto del litigio scolastico si arricchisce di particolari ed
emerge che in tale occasione Elisa, rivolgendosi alle colleghe, avrebbe
urlato: “Porco Dio!”. La pronuncia di queste parole blasfeme in pubblico rappresenterebbe un motivo sufficiente per toglierle l’idoneità al
lavoro. Elisa non avrebbe tenuto una retta condotta, questo sarebbe
un sufficiente motivo di licenziamento. Con il tempo la costruzione
delirante di Elisa si modifica e la matrice del complotto non sarebbero
più le colleghe con la perfida direttrice, ma direttamente Dio, che vorrebbe punirla per l’imprecazione pronunciata. Il padre divino di Elisa
ha gli stessi attributi assegnati da sua madre al padre reale: punitivo,
intransigente, capriccioso e dotato della capacità di vedere tutto. Dio
l’avrebbe sentita pronunciare quella bestemmia e adesso vorrebbe punirla privandola del lavoro, sua unica linfa vitale. La paziente si sente
priva di ogni diritto: del diritto di essere figlia, del diritto di avere un
lavoro, del diritto di essere donna con un uomo, del diritto di vivere.
In questo primo tempo della cura il rischio di passaggio all’atto è alto: Elisa teme di essere bocciata, ma in realtà lei stessa si sta mettendo
nelle condizioni di non superare l’anno di prova. Le numerose assen-
Come neve al sole
127
ze, i continui screzi con i colleghi, il mancato rispetto delle scadenze
nelle consegne del materiale per l’esame finale possono compromettere seriamente la sua assunzione in ruolo.
La direzione della cura in questo primo anno è stata innanzitutto
orientata ad accogliere l’angoscia della paziente, offrirle un posto per
l’articolazione dei suoi pensieri deliranti e ridurre il rischio di passaggio all’atto. Durante i nostri incontri, Elisa legge il suo diario di
bordo e mi consegna tutti i documenti circolati a scuola e vissuti da lei
come minacciosi. Inizia un lavoro di ricerca sulle leggi che tutelano il
suo posto di lavoro: le norme che regolamentano la sua iscrizione in
ruolo, il suo contratto e i suoi diritti di insegnante. Le ripeto che non
è così facile mandarla via perché ci sono delle leggi che la tutelano e
garantiscono il suo posto di lavoro.
Elisa inizia a lavorare sul suo senso di radicale isolamento e sul suo
rapporto con il desiderio materno. Il percorso di cura in questo tempo è stato inoltre orientato a mostrare a Elisa la dissimmetria tra sua
madre e le altre persone che incontra ogni giorno, per permetterle di
trovare uno spazio diverso dalla ripetizione in cui è avvolta: come si
è sentita rifiutata da sua madre, così si sente isolata e non voluta da
tutti, ma non tutti sono come sua madre. Inoltre, sua madre non si è
sposata con suo padre, ma al contrario lei è stata riconosciuta da suo
padre che le ha dato un cognome e le ha assegnato un’eredità che lei
tuttavia si è rifiutata di ricevere.
Elisa decide alla fine di non consegnare il diario di bordo e presenta
la sua tesina. Nonostante la commissione di valutazione giudichi il suo
lavoro finale frammentato e a tratti incomprensibile, Elisa supera il
suo anno di prova e diventa una maestra.
Secondo tempo: il vuoto abissale e l’erotomania
L’impossibilità di Elisa di soggettivare la nomina appena ricevuta produce un periodo di grandi sconvolgimenti. Un rigonfiamento narcisistico e maniacale è la prima reazione all’assunzione in ruolo, Elisa
orgogliosa per aver vinto il gruppo a lei ostile si sente invulnerabile.
Crede di aver superato l’esame per le sue eccezionali doti di maestra,
la sua tesina finale è un capolavoro e per questo è convinta di volerla
pubblicare. Il suo elaborato è straordinario e tutti ne sono rimasti
stupiti. La sua bravura è chiara ed evidente, non solo a scuola, ma
128
Natascia Ranieri
in tutto il suo paese. Adesso non è più una mina vagante ma molte
persone le si avvicinano e le sono solidali. Tutti la guardano e la ammirano; è troppo bella e gli uomini cadono ai suoi piedi. Essere una
semplice insegnante non le basta, il suo obiettivo adesso è diventare la
direttrice di una scuola. Per questo si iscrive all’università, nonostante
sia terrorizzata all’idea di dover sostenere degli esami, ma la spinta a
diventare una dirigente vince su ogni timore. “Dal momento in cui
non ho passato l’esame all’università la mia personalità si è frantumata, disciolta come neve al sole”, il progetto dell’iscrizione all’università
sarebbe orientato a ricostruire la sua personalità.
“Diventare una maestra di ruolo” comporta la perdita della posizione di precarietà precedente e l’assunzione di una responsabilità
inedita e inelaborabile per questo soggetto paranoico. Così la nuova
nomina, rifiutata nel simbolico, si ripresenta nel reale in due differenti
versioni:
1.si rivolge a un notaio per redigere un testamento;
2.si sottopone a due interventi di asportazione chirurgica di nei.
In questo periodo Elisa si assenta dalle sedute. Quando si ripresenta
ai nostri appuntamenti è radicalmente trasformata nel sembiante: è
truccata, indossa abiti eccentrici e scollati. In maniera concitata mi
racconta che sarebbe nato un feeling particolare con il chirurgo incontrato per questi interventi. Eccone il racconto:
Quando sono entrata nell’ambulatorio ho sentito la sua voce: “Buongiorno!”.
I medici che erano accanto a lui sono rimasti folgorati nel guardarmi: a uno
sono cadute le carte che aveva in mano, un altro è rimasto a bocca aperta… sembravano tutti impazziti! Poi è iniziato l’intervento e a quel punto
ogni distanza fisica con Alessandro (il medico) era annullata, lui mi chiamava
“Elisa!”, oppure diceva “lei è mia!”… era dolcissimo! Poi, facendo finta di
prendere delle carte che l’infermiera aveva poggiato sulle mie gambe mi ha
toccata… mi ha toccata proprio lì! Dopo qualche giorno sono tornata per la
medicazione e lui mi ha detto: “Che bella ferita!”, urlando davanti a tutti! È
chiaro che si riferiva alla mia vagina che aveva toccato qualche giorno prima.
Io non ho frainteso niente, le sue parole sono state chiare e inequivocabili:
Alessandro ha una cotta per me!
Crede che lui sia un po’ timido e riservato, così dopo vari tentativi di
Come neve al sole
129
avvicinamento decide di prendere l’iniziativa e di invitarlo lei stessa
a cena; il brusco rifiuto dell’uomo fa cadere Elisa in uno stato di profonda depressione.
La paziente mi spiega che il senso di vuoto fa parte strutturalmente del suo animo, ma adesso è arrivato il momento di colmarlo
costruendo una vita sentimentale. Così diverse passioni erotomaniche
si susseguono in questo periodo, in un cliché che si ripete sempre
identico a se stesso. Elisa incontra uomini che per lei occupano una
certa posizione di prestigio sociale: un avvocato, un notaio, un chirurgo ecc. Prova un certo interesse per questi uomini e inizia subito
a interrogare la loro posizione nei suoi confronti. Così frasi come “Ci
vediamo”, “Ci aggiorniamo” diventano significanti monolitici che
si slegano dalla catena significante per divenire indici di una certezza: “Quell’uomo vuole avere un rapporto sessuale con me”. Si tratta
sempre di uomini che lei immagina condurre una vita triste e solitaria
e che abbiano bisogno proprio di lei per riempirla. Così Elisa se ne
innamora e dopo aver interpretato le parole di questi uomini come
un chiaro riferimento sessuale decide di passare all’atto invitandoli
direttamente lei, per aiutarli a vincere la timidezza. Crede che per
lei sia più difficile stare nel dubbio che accettare di essere scartata.
Quando poi incontra il rifiuto si deprime molto, soffre e non riesce
a rintracciare un senso alla sua vita. Crede che gli uomini siano tutti
codardi, come suo padre che non si è mai separato da sua moglie per
sposare sua madre.
La paziente interpreta il suo difficile rapporto con l’altro sesso annodandolo alla sua storia familiare. Così Elisa associa il rifiuto maschile al rifiuto materno: “Gli uomini non mi vogliono come mia madre
non mi ha mai voluta”. Gli uomini percepirebbero in lei il vuoto causato dall’assenza dell’amore materno e se ne allontanerebbero spaventati, così la lascerebbero cadere come sua madre l’ha lasciata cadere
non desiderandola.
In questo tempo, Elisa riformula la sua domanda di cura; se un
anno prima era arrivata chiedendomi un aiuto rispetto al timore di
essere annientata dai suoi persecutori, oggi vuole continuare il suo
percorso di terapia per trattare il suo vuoto dell’animo che, dopo l’assunzione in ruolo, è emerso con maggiore violenza: “Prima il mio
nemico era esterno, adesso il mio nemico è interno, il mio nemico è il
mio vuoto”. Sceglie così di parlarmi del suo vuoto e della sua immen-
130
Natascia Ranieri
sa fatica di esistere.
La paziente inoltre abbandona l’università, l’idea di sottoporsi a
degli esami la angoscia troppo, ma si iscrive a vari corsi di aggiornamento professionale perché si sente un’insegnante non completa. Tale
lavoro sul decompletamento della sua posizione lavorativa produce
una pacificazione sul posto di lavoro e nei legami a scuola.
Terzo tempo: il corpo come difesa dall’Altro
Due anni fa, all’uscita da scuola Elisa subisce un borseggio che la
terrorizza; da quel momento in poi in metropolitana, per strada, al
supermercato vede gente pronta a rubarle qualcosa. Si sente costantemente minacciata da sguardi criminali, ma anche di ammirazione
per la sua evidente e indubbia bellezza: “Non mi posso vestire bene
quando vado in giro, mi devo imbruttire un po’ altrimenti mi si avvicinano tutti”. Per difendersi dall’incursione invadente di questi sguardi
decide di iscriversi a un corso di difesa personale. Deve imparare a
difendersi, non può permettersi che le rubino ancora qualcosa, ha già
fatto troppe rinunce nella sua vita, inoltre non può concedersi a tutti
quelli che la ammirano.
Elisa pratica ormai da due anni con costanza e disciplina gli allenamenti del corso di difesa personale, è una pratica molto faticosa, ma lei
vuole imparare a “dare un pugno da k.o.”. Pensa che quando diventerà
brava andrà in Terra Santa per prendere un brevetto da istruttore.
Elisa parla molto dei suoi allenamenti e del rapporto con la sua
insegnate Karima che un giorno durante un’esercitazione le avrebbe
urlato: “Excellent!”. “So bene cosa vuol dire – mi spiega – significa
che ho raggiunto la capacità di dare un pugno da k.o., adesso posso
uccidere qualcuno.” Crede che la sua insegnante le proporrà di avanzare in un corso da professionisti; Elisa è insieme eccitata e terrorizzata dall’idea. Crede che Karima abbia pianificato un progetto preciso
per lei: “Vuole fare di me una spia”.
Cerco di pacificarla dicendole che lei non è obbligata ad accettare
un avanzamento di corso, che è da poco tempo che pratica questa
disciplina, che c’è sempre da imparare e che è meglio che rimanga
nel suo corso base. La paziente sceglie di rimanere nel corso da principianti, ma le idee di isolamento e controllo non si arrestano.
La pratica della difesa personale per lei rappresenta una metafora
Come neve al sole
131
dell’aggressore e dell’aggredito. Mi spiega che per la prima volta ha
la possibilità di controllare l’aggressore, di prevederne i colpi, di difendersi
dagli attacchi. La palestra diviene pian piano un luogo di socialità per
la paziente, qui si sente a suo agio perché quello è il luogo in cui può
incontrare tutti coloro che come lei sono stati aggrediti. L’investimento in questa attività svuota i vissuti paranoici di Elisa dall’ambiente
scolastico che oggi non è più il luogo dell’isolamento e del controllo persecutorio. Colleghe, segretarie e commessi scolastici diventano
amici con cui condivide uscite serali e trascorre dei week-end fuori
città. Ogni tanto teme di andare fuori dalle righe e di essere male
interpretata a scuola, così mi chiede dei consigli al fine di modulare i
suoi legami sociali.
Spiega che in passato sentiva di avere tutti contro, adesso crede
che esistano dei bastardi, ma che non tutti lo siano e che comunque
la bastardaggine faccia parte del genere umano: “Mi sento come in
un limbo, prima mi sentivo schiacciata da tutti questi bastardi, ora mi
sento in un momento di passaggio tra l’essere schiacciata e l’esserci,
sopravvivere, nonostante tutto”.
Elisa segue con impegno gli allenamenti, spesso salta le sedute per
l’appuntamento in palestra o per partecipare a degli stage, in uno
dei quali le hanno anche insegnato a sparare. I vissuti di controllo
e isolamento si localizzano adesso in palestra, ma mi spiega che lei
già conosce questa sensazione, l’ha già provata con sua madre e con
la direttrice scolastica: “Io vengo isolata perché sono una figlia di
zoccola” riferendosi a sua madre che non ha mai legalizzato l’unione
con suo padre. “Anche se in palestra non mi vogliono – prosegue
– io continuerò ad andarci perché la vita è una lotta per la sopravvivenza e il corso di difesa personale mi permette di imparare a sopravvivere.”
commenti sul caso clinico
Per fare luce sul caso fin qui esposto cercheremo di isolare dei punti
che permettano di approfondire maggiormente il particolare rapporto
di Elisa con il godimento, con il linguaggio e con l’amore.
La psicosi paranoica e il godimento
132
Natascia Ranieri
L’ingresso di questa paziente nel luogo di cura coincide con un momento di vacillamento del soggetto in coincidenza di una nomina che
la investirà. Come per il caso del presidente Schreber, la tenuta del
mondo per Elisa vacilla quando è chiamata a occupare una funzione
per lei autorevole; quando si trova in procinto di essere investita da
una promozione lavorativa: diventare una maestra. La paziente non
ha gli strumenti per elaborare e assumersi la responsabilità di questo
passaggio simbolico. Nella storia di Elisa, infatti, si rintraccia un’inattività del trauma edipico, il padre non ha funzionato da agente della
castrazione. Il padre di Elisa non ha testimoniato, presso la propria
figlia, una sottomissione all’ordine universale del linguaggio, piuttosto una sua sovversione. È un uomo che non rispetta la legge ma al
contrario che fa la sua legge: non paga le tasse, le multe, intrattiene il
legame con la madre di Elisa senza alcun vincolo di ordine simbolico
conservando inalterato il precedente legame matrimoniale. È ancora
un uomo che vede e prevede tutto oltre ogni limite. È l’Altro che gode
senza freni e che si ripresenta nelle costruzioni deliranti della paziente.
Inoltre sua madre non promuove quest’uomo agli occhi di Elisa, né
d’altra parte la iscrive entro delle coordinate di desiderio; è una madre
che lascia cadere la propria figlia.
I pensieri deliranti della paziente dunque hanno la funzione di ricucire la sua difficoltà strutturale ad assumere il nuovo posto in ruolo.
Emerge una nuova significazione che Elisa è chiamata ad assumersi:
“diventare maestra”, ma il soggetto non ha gli strumenti per simbolizzarlo. È evidente come la paziente manchi di qualcosa, di quell’elemento che le permetta di fare ordine. Tale mancanza non è virtuosa e
fonte di desiderio come accade nella nevrosi, ma è un vuoto radicale
che emerge in ogni momento nella vita di questa donna. Il suo vuoto
è in primo piano e riduce costantemente il soggetto a oggetto del godimento in un doppio versante:
1.del godimento dell’Altro persecutore;
2.del godimento dell’Altro amante nelle passioni erotomaniche.
In ogni caso il godimento è tutto nel campo dell’Altro: del persecutore
che vuole farla fuori, o dell’uomo di potere che la ama follemente.
Per questa paziente il simbolico non è stato efficace nell’operare una
Come neve al sole
133
castrazione del godimento che, non orientato dall’ordine fallico, resta
ingovernabile riducendo il soggetto a puro oggetto in balia di un reale
caotico.
L’erotomania rappresenta l’altra faccia della persecuzione paranoica: l’Altro che odia e l’Altro che ama sono in ugual misura onnipotenti e idealizzati. Nel rapporto con l’altro sesso questa donna
incontra la dimensione della sessualità come ciò che assolutamente
non può simbolizzare e l’enigma diventa una voragine turbinosa e
annichilente. Su questo vuoto strutturale la paziente costruisce il suo
delirio di erotomania come possibilità di far fronte alla montata pulsionale ingovernabile. Così Elisa produce un sapere sull’uomo, pian
piano conosce i suoi gusti, le sue abitudini, sa leggere nei suoi pensieri. I partner delle sue passioni sono sempre timidi, poco coraggiosi
nell’incontro a causa di qualche trauma subito nell’infanzia o per
mano di una donna. Uno sguardo, una stretta di mano, un’inflessione
particolare nella voce, una parola che olofrasticamente inizia a vivere
di vita propria, divengono così per Elisa segni inequivocabili della sua
posizione di amata.
Soluzioni soggettive
In questi anni di trattamento Elisa non ha inventato una costruzione
sinthomatica che ricucisse la lassità del suo legame con il simbolico.
Fino a oggi i suoi tentativi di fare ordine sono sempre stati operati nel
senso di ricucire il ritorno nel reale di ciò che è forcluso nel simbolico,
tuttavia in modo fallimentare, come si vede bene nella trama sfilacciata e frammentata delle sue costruzioni deliranti. Anche il corso di
difesa personale intrapreso da Elisa non rappresenta una stampella
che offra tenuta simbolica al soggetto. Questa pratica del corpo, infatti, non le restituisce un nome, non le permette una sua iscrizione
sociale, piuttosto può essere interpretata come una qualche ricerca
di trattamento del godimento attraverso il corpo, tuttavia fallimentare, perché strutturalmente il corpo non ha una tenuta stabile. La
difesa personale non rappresenta Elisa presso un altro significante,
nel sociale. La pratica sportiva non funziona come un “paravento” per proteggersi dalle infinite risonanze di senso dei significan-
134
Natascia Ranieri
ti,2 perché non supplisce il capitonaggio assente a causa della forclusione del Nome-del-Padre. Piuttosto l’attività fisica può rappresentare
il tentativo di organizzare il disordine strutturale del godimento, che
appartiene al soggetto, ma che localizza nell’Altro. Così la paziente
cerca attraverso questa disciplina uno strumento di difesa dall’incursione enigmatica dell’Altro e del suo godimento. Il progetto di Elisa è quello di utilizzare il suo corpo per difendersi dalle aggressioni
sempre incombenti dall’esterno. La sua esigenza urgente è quella di
difendersi dall’Altro, vissuto come luogo di minaccia costante. La
difesa per Elisa è presa alla lettera, con il suo corpo deve difendersi
dalle incursioni di un altro corpo, in una specularità che la inchioda
a una via ripetitiva e senza uscita.
L’olofrase paranoica
In questo caso clinico emerge con chiarezza la dimensione olofrastica
del significante nella psicosi, di cui Lacan ci parla nel Seminario xi.3 Così la parola dell’Altro si scorpora dal contesto significante, si svincola
dalla catena rappresentativa, ed emerge come un’evidenza olofrastica
ed enigmatica. Per Elisa ogni parola, gesto e movimento dell’Altro è
segno di qualcosa di ignoto da interrogare. Spesso, infatti, quando si
trova dinanzi a particolari significazioni per lei oscure, procede per
interrogativi: cosa vorranno da me? Cosa si nasconde dietro? Gli interrogativi divengono sempre più incalzanti, la ricerca incessante di
un senso non fa mai presa, tutto diventa segno di qualcosa d’ignoto, il
significato sfugge continuamente e il soggetto è in balia di una morsa
enigmatica annichilente. In questa prospettiva il luogo della terapia
con questa paziente, in alcuni momenti, ha funzionato come possibilità di limitazione e riduzione dell’enigmaticità del significante.
L’amore morto
Nel Seminario iii Lacan affronta il tema dell’amore nella psicosi defi2
Jacques-Alain Miller, Lacan con Joyce. Seminario di Barcellona ii, in “La Psicoanalisi”, n.
23, Astrolabio, Roma 1998, p. 40.
3
Jacques Lacan, Il seminario. Libro xi. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964),
Einaudi, Torino 1979, p. 241.
Come neve al sole
135
nendolo un “amore morto”.4 Per spiegare meglio cosa si intenda fa
ricorso a due paradigmi:
1. L’amore fisico e l’amore estatico: Lacan riprende la distinzione
operata da Pierre Rousselot che si era occupato del problema
dell’amore nel Medioevo operando una distinzione tra “amore fisico” e “amore estatico”. Il primo è l’amore per se stessi,
di tipo narcisistico e speculare. L’amore estatico, in opposizione
all’amore fisico, è il sentimento di chi ha rinunciato all’amore
per se stesso aprendosi verso l’amore nei confronti dell’Altro.
È un amore che fa i conti con l’Altro in quanto simbolico, che
ne presuppone la sua esistenza. L’amore nella psicosi, secondo
Lacan, è maggiormente prossimo all’amore fisico di chi, non
acconsentendo alla castrazione, non ha rinunciato all’amore per
se stesso. L’amore fisico non preserva la differenza tra l’amante
e l’amata ma tende a cancellarla, puntando all’unità ideale e
monolitica della coppia.
2. L’amore nel romanzo medioevale: Lacan rileva una prossimità
tra la degradazione del discorso amoroso che incontriamo nel
romanzo medioevale di stile arcadico e il legame d’amore nella
psicosi. In questi romanzi si raccontano le disavventure amorose dei protagonisti alla costante ricerca di conquistare l’amore
della loro amata. Tali peripezie si dispiegano in un clima a metà
tra il comico e l’eroico. In ogni caso, sottolinea Lacan, si tratta
sempre di un amore platonico, casto, irrealizzato, ridicolo, con
il carattere di puro miraggio, al punto che, ironizza Lacan, se
dinanzi al cavaliere ci fosse stata realmente la donna in oggetto
o uno schermo cinematografico, non avrebbe fatto differenza! È
uno stile d’innamoramento che va nel senso della follia del puro
miraggio, perché si è perso il carattere imprevisto dell’incontro
con una dimensione enigmatica che metta in gioco la responsabilità del soggetto nel rapporto con l’amata. L’amore nella psicosi, come raccontato nei romanzi medioevali, tende a preservare
questo carattere ideale di puro miraggio.
Lo psicotico fa fatica ad accedere a una forma di amore “vivo” che
Id., Il seminario. Libro iii. Le psicosi (1955-1956), Einaudi, Torino 2010, pp. 289-291.
4
136
Natascia Ranieri
metta in gioco il desiderio, l’impossibile da dire, il segno della mancanza. Se l’amore, come ci insegna Lacan, è il velo sull’inesistenza
del rapporto sessuale, lo psicotico tende a fare esistere La donna e il
rapporto sessuale, facendo obiezione dunque all’impossibile del discorso amoroso.
L’amore nella psicosi è morto perché non ha in sé il carattere virtuoso dell’enigma e del dubbio circa il posto dell’amante per l’amato
ma, come si vede bene nel caso di questa paziente, l’amore diventa
una certezza monolitica. Elisa ama di un amore morto, che non fa segno ma che la abolisce come soggetto inchiodandola in una posizione
di puro oggetto di godimento.
Il vomere del significante
Anna Zanon
Porrò la questione del limite a partire da due frammenti clinici, nei
quali si può cogliere in che modo il lavoro significante nella cura arrivi
a costruire un limite sia nella nevrosi che nella psicosi, pur seguendo
strade opposte: nell’una, lasciando lavorare la rimozione, nell’altra
lavorando intorno al buco forclusivo.
All’inizio della terapia, che dura da otto-nove anni, per Giovanni
la preoccupazione è tenere bassa la tensione, stare tranquillo: quello
che accade giorno dopo giorno non si scrive, non ricorda facilmente
quello che ha fatto il giorno prima. Il tempo è un flusso continuo che
non deve essere spezzato, scandito dall’evento. Ogni evento è traumatico, tutte le ricorrenze festive le passa a casa a dormire con una buona dose di sonnifero, quindi si tratta di procedere a una cancellazione
sistematica perché nulla si scriva, nulla faccia trauma. Non poter cogliere il rilievo della parola o di un evento significa dover restare insensibile a ogni impressione, qualunque essa sia, e concepire il discorso solo come un’uniformità sullo sfondo della quale nessun messaggio
risalta.1
Gran seduttore, Giovanni è subissato dalle richieste di amiche e
colleghe. Lo sguardo è la sua arma di seduzione per catturare il riconoscimento dello sguardo dell’Altro, ma si tratta di una parata sessuale
fasulla; getta l’amo e poi si blocca, non vive con passione l’incontro
Si veda Marie-Claude Lambotte, Il discorso melanconico (1993), Borla, Roma 1999.
1
138
Anna Zanon
con una donna e il seduttore, che porta le insegne dell’amore, si rivela
soltanto una sagoma da richiamo.
Giovanni vive in un appartamento adiacente a quello dei genitori,
i quali tengono la porta che dà sul vano scale sempre aperta in modo
da controllare ogni movimento del figlio, e se Giovanni al suo rientro non passa a salutare, deve subire le recriminazioni della madre.
I genitori litigano moltissimo da sempre: il padre, taciturno, viene
costantemente attaccato dalla moglie che vorrebbe parlare, avere attenzioni. Rivendicativa e lamentosa, quello che non riesce a ottenere
dal marito lo pretende dal figlio. Rumore disarticolato, suono senza
senso, l’alterco violento, sottraendosi all’impegno del ben-dire, provoca
un’emorragia della significazione cancellando i tratti distintivi del significante. Nastro sonoro indifferenziato, esso trascina via come un ciclone pensieri, sensazioni, sentimenti, lasciando dopo il suo assalto un
paesaggio desertico e rovinoso. Questa caduta del senso che trascina
con sé il soggetto sembra l’effetto di una parola traumatica, invasiva
che, anziché significare il soggetto in modo particolare, lo colpisce
dolorosamente come un proiettile di godimento.
Una manovra preliminare all’avvio di un’articolazione possibile
della sofferenza di Giovanni è stata quella di ottenere dai genitori
che la porta del loro appartamento rimanesse chiusa, e si aprisse solo quando Giovanni chiedeva di entrare. Questo abbozzo di gioco
simbolico tra presenza e assenza, questa soglia tra interno ed esterno
avvia una modulazione significante del “tutto o niente”: in questa
prima fase della cura, il ben-dire si pone come obiettivo da raggiungere,
affinché il niente di senso rappresentato nei cupi silenzi e il senso-tutto
affidato al turpiloquio si snodino lungo la catena significante. Molte
volte sono intervenuta a temperare certi termini piuttosto forti che
Giovanni usava per esprimere i suoi stati d’animo: per esempio, quando diceva “Quella tal cosa mi ha totalmente scompensato”, gli facevo
notare che tra l’irritazione o il turbamento e lo scompenso c’era una
notevole differenza. In questo tempo, che potremmo definire di educazione linguistica e affettiva, l’intervento clinico tende a effettuare un
lavoro di bonifica nel campo dell’Altro, dove i litigi familiari, le urla e
le parolacce hanno fatto scempio del “tesoro del significante”.
Giovanni ha il mito della perfezione fisica: certe imperfezioni del
suo corpo, o qualche dolore più o meno persistente qua e là lo angosciano molto. Un intervento di chirurgia plastica, che gli restituisce
Il vomere del significante
139
lineamenti più armoniosi e soddisfacenti, ha in lui l’effetto di un abbaglio: l’immagine ideale finalmente raggiunta imprime una svolta
ipomaniacale alla sua condotta, inducendo una serie di acting-out.
Ma il punto di maggior fragilità di questo soggetto sono le relazioni amorose: Giovanni non riesce a trovare la giusta distanza tra sé e
l’altro, per cui oscilla tra pericolosi scivolamenti dentro lo specchio
da cui si sente inghiottito e l’essere buttato fuori nel nulla, abbandonato. Non riesce a stare vicino a una donna, non riesce a starne
separato.
Possiamo dire che in questo soggetto è la funzione dell’ideale dell’Io
a essere stata perturbata. Nella strutturazione immaginaria, dice Lacan, il soggetto si reperisce nella misura in cui trova una guida al di
là dell’immaginario, cioè sul piano simbolico, sul piano dello scambio
legale, che s’incarna solo nello scambio verbale tra esseri umani. Questa guida che comanda il soggetto è l’ideale dell’Io. L’ideale dell’Io è
l’altro in quanto parlante, l’altro con cui s’intrattiene una relazione
simbolica. Lo scambio simbolico è ciò che lega tra loro gli esseri umani, cioè la parola, e che permette d’identificare il soggetto. Non basta
l’identificazione narcisistica perché il soggetto si compiaccia di se stesso. L’immagine speculare veste come un abito il corpo frammentato
del bambino, a condizione tuttavia che egli possa aggrapparsi al riferimento del genitore che, davanti allo specchio, lo porta, lo guarda
e gli parla. Insomma, perché il soggetto possa apparire amabile a se
stesso bisogna che qualcuno, in posizione di terzo, si interessi a lui. È
l’ideale dell’Io, come istanza terza, simbolica, che regola la strutturazione dell’io ideale, puramente immaginario. Cosa avviene quando la
funzione dell’ideale dell’Io è perturbata, come nel caso di Giovanni,
quando non la parola articolata, ma il suono disarticolato dell’aggressione verbale tra i genitori gli ha fatto da guida? Avviene che il corpo
si trova esposto alla frammentazione e l’io, per farvi fronte, si protende
pericolosamente verso lo specchio alla ricerca dell’immagine ideale
che calmi l’angoscia della frammentazione.
In cosa è consistito, e consiste tutt’ora, il lavoro con Giovanni? Essenzialmente esso segue due direttrici:
1. educazione linguistica e affettiva. La bonifica del campo dell’Altro, in cui il vomere del significante traccia solchi sulla terra bruciata del senso, crea alloggi dove il godimento può ripartirsi e
140
Anna Zanon
defluire, e il pensiero, prima soggetto a un resettaggio sistematico, può articolarsi in unità significanti discrete;
2. interventi direttivi volti a temperare le tendenze maniacali che
caratterizzano le sue performance sportive e sessuali.
L’altro frammento clinico riguarda un caso di anoressia isterica. Tiziana, oggi trentenne, diventa anoressica verso i diciassette anni non
appena la sorella, maggiore di otto, guarisce. Fin da piccola, da quando
la sorella si ammala di anoressia, i genitori esigono da lei rigore, controllo e senso del dovere, assegnandole il ruolo della mediatrice, cioè
di colei che smista le comunicazioni in famiglia: Tiziana non occupa
un posto suo, ma deve tenere una posizione neutra, è il perno. I suoi
desideri, la sua particolarità vengono sacrificati in nome della stabilità
della famiglia, già impegnata a far fronte alla malattia della sorella.
Tiziana diventa anoressica appena la sorella guarisce: ciò che aveva
appreso in quegli anni è che per essere presa in considerazione bisognava ammalarsi.
La madre, di origini umili e poco colta, misura il benessere attraverso il cibo; il prestigio sta tutto dalla parte del padre, uomo tutto d’un
pezzo, dirigente di alto livello. Rigore, controllo e senso del dovere
sono tratti prelevati dal padre, per cui Tiziana deve primeggiare per
mantenerne gli standard. Dopo il pensionamento, questo padre comincia a soffrire di depressione e di periodici attacchi di gastralgia, a
cui fanno eco le coliche di Tiziana che spesso richiedono il ricovero in
ospedale. Padre e figlia hanno lo stesso sintomo.
La magrezza di Tiziana è tale che le si vedono le ossa, “le mie
armi”, come lei le definisce, ostentandole contro la morbidezza del
corpo femminile, in particolare del corpo materno. Tale passione anoressica per le ossa realizza una fallicizzazione dell’immagine del corpo, in cui la femminilità si sottrae allo scambio sessuale.2 Ma di questo
caso, ciò che m’interessa mettere in rilievo è un preciso passaggio della
cura segnato da un sogno di transfert che ha impresso una svolta alla
vita di questo soggetto. Questo è il sogno: “Sono a tavola con lei e
mangio. Entra molta luce dalla finestra, e noto la luce, non quello che
è sulla tavola”. Dopo questo sogno, che segna il passaggio al lettino,
fa un altro sogno che si ripete due notti di seguito:
Il vomere del significante
Sono nella casa che abitavo da bambina e mia sorella mi abbraccia. Mentre
mi abbraccia, divento piccola, di cinque-sei anni. Stefania mi dice: ‘Non hai
visto il buco sul soffitto? È da lì che sono iniziati i nostri guai’. Effettivamente,
vedo sul soffitto della camera dei miei un buco grande da cui si vede il cielo.
Il letto matrimoniale è sfatto.
Racconta il sogno alla sorella, la quale con grande emozione le dice
che a quell’epoca, quando Tiziana aveva cinque-sei anni, il padre si
era innamorato di un’altra donna per cui i genitori stavano per separarsi. Quando litigavano Stefania, per proteggere la sorella minore,
l’abbracciava e la portava via.
Dunque, il padre aveva un desiderio, non era quell’uomo irreprensibile, tutto dovere, esigente, perfetto che Tiziana credeva. Il padre
ideale è il padre morto, dice Lacan, e un desiderio è ciò che lo rende
vivo, umanamente imperfetto. Potremmo leggere l’anoressia di Tiziana come la risposta alla viltà morale del padre che non ha saputo
incarnare la passione del suo desiderio e non ha potuto trasmettere
la mancanza, ha preferito cioè essere un modello esemplare anziché
dare testimonianza di una debolezza.
La testimonianza è ciò che buca necessariamente ogni esemplarità e ogni
universalità. Non esiste una testimonianza esemplare o universale. Anzi, l’intenzione di dare il buon esempio è spesso fonte di morali autoritarie e ideologiche. La verità che si trasmette in una testimonianza è necessariamente
indebolita, perché non può vantare modelli esemplari o universali.3
Se per un verso la rinuncia al desiderio da parte del padre ha rinsaldato il legame incestuoso di entrambe le figlie, che hanno imboccato
prima una poi l’altra la strada della dipendenza, della rinuncia alla
femminilità, indugiando oltre il dovuto nei desideri infantili, dall’altro
il reperimento della mancanza nel padre grazie al lavoro analitico è
ciò che ha permesso a Tiziana di porre un limite al godimento anoressico. Solo l’amore – anche l’amore di transfert – permette al godimento di accondiscendere al desiderio.4
Id., Cosa resta del padre?, Raffaello Cortina, Milano 2011.
Si veda Jacques Lacan, Il seminario. Libro x. L’angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino
2007.
3
4
Si veda Massimo Recalcati, Clinica del vuoto, FrancoAngeli, Milano 2002.
2
141
riflessioni di un’analista in formazione…
Riflessioni di un’analista in formazione
sulla pratica del controllo
Paola Gottardis
Il presente lavoro propone alcune riflessioni in merito alla pratica del
controllo, dando una breve testimonianza di come il senso di questa
prassi si sia trasformato nel corso della mia formazione in progress. A
tale proposito, posso articolare l’esperienza del controllo in tre tempi.
primo tempo: l’altro come garante
All’inizio della mia formazione come psicologa all’interno del Servizio
Pubblico, erano due le logiche alle quali mi sentivo di dover aderire.
La prima riguardava una posizione di maternage da tenere nella
cura: il paziente andava accolto, ascoltato, accontentato ma anche
scusato, sgridato e comunque sempre perdonato e riaccolto. In questa ottica ero soprattutto io, la psicologa, che dovevo dire qualcosa al
cliente/paziente, in una sorta di “ingozzamento” senza fine e, a volte,
senza senso.
La seconda questione era la posizione di un sapere quasi onnisciente che, in quanto psicologa rappresentante il servizio, ero tenuta a
sostenere. Infatti, all’interno di un’istituzione pubblica lo specialista è
colui che “sa”, senza farsi troppe domande sulla direzione della cura.
Se si verificavano degli intoppi nel percorso terapeutico, poteva essere
colpa del paziente scellerato, degli altri servizi non disponibili, o del
destino sfortunato.
143
Quali parole trovare, dunque, per descrivere l’impatto teorico, il rovesciamento dialettico, l’assunzione etica così tanto diversi che scoprii
accostandomi al discorso psicoanalitico lacaniano?
Essendomi avvicinata alla psicoanalisi per la via del transfert in una
piovigginosa mattina del marzo 2001, ciò che colpì il mio profano ma
entusiasta interesse fu un modo nuovo e diverso di ascolto del paziente
che veniva chiamato “analizzante”.
Nei primi anni di pratica e formazione lacaniana le questioni erano: cosa ero tenuta a fare e a dire come apprendista analista?
“L’analista non si autorizza che da sé” dice Lacan in Radiofonia e
Televisione.
“Oddio, ma veramente?” pensavo allarmata quando facevo la “colloquista” negli incontri preliminari presso l’aba di Trieste. Da parte mia, infatti, non volevo autorizzarmi per niente, non ne volevo
proprio sapere. Correvo in supervisione pretendendo che la risposta
giusta sul cosa fare venisse da un Altro infallibile, piacevolmente non
barrato, che avrebbe dovuto garantire per me la buona riuscita della
terapia. Seguire alla lettera le indicazioni dell’analista esperto mi dava
la confortante illusione di non correre rischi, cercando di allontanare
castrazione e fallimento.
Molto spesso, invece, la risposta dell’analista controllore alle mie
domande ansiose era prevalentemente: “Ascolta quello che dice il paziente! Poi vedremo…”. Quel vuoto di sapere ovviamente mi mise al
lavoro nell’analisi personale, nell’approfondimento teorico, e soprattutto nello spostamento dell’attenzione verso il discorso del soggetto.
Manovra quest’ultima apparentemente semplice e dal sapore zen, ma
di importanza fondamentale.
Quindi le supervisioni presero un altro senso.
secondo tempo: la questione diagnostica
Con il progredire della formazione teorica, il problema della diagnosi
strutturale divenne il discorso principale nelle mie richieste di supervisione. Terrorizzata dal rischio di trattare uno psicotico come un nevrotico, o di non capire come differenziare un sintomo isterico da uno
ossessivo, radiografavo, sezionavo, scandagliavo nel controllo il povero
paziente. Ogni virgola del discorso avrebbe potuto essere importante
144
paola gottardis
ai fini diagnostici e l’incasellamento che pretendevo di attuare non
ammetteva eccezioni.
Meno male che, a differenza delle farfalle, la clinica e l’inconscio
sono piuttosto refrattari a essere catalogati! Illuminante per me fu la
frase di Mariela Castrillejo: “Tengo sempre a mente la diagnosi…
senza pensarci mai”.
Questo per sottolineare come la conoscenza teorica sia stata e sia
uno strumento necessario ma non sufficiente. Infatti, per quanto l’ipotesi diagnostica sia fondamentale per non nuocere grossolanamente
nella direzione della cura, c’è qualcos’altro che deve entrare in gioco
nel lavoro analitico.
terzo tempo: il desiderio dell’analista
Molte ore di controllo, di teoria e di analisi personale dopo, cosa vuol
dire per me chiedere controllo oggi? Sicuramente qualcosa che include e al tempo stesso va al di là di interrogazioni teoriche e tecniche
per la conduzione della cura, ovvero qualcosa chiamato il desiderio
dell’analista.
Jacques Lacan, nella Proposta del 6 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola, dice che non sono la stessa cosa “il desiderio di essere
analista” e “il desiderio dell’analista”. Quindi, nella direzione della
cura, la variabile dell’analista non viene presa in considerazione per
il contro-transfert, bensì a partire dal desiderio dal quale l’analista stesso
si autorizza come tale.
Mi piace molto la questione, ripresa dagli annali del Comitato
d’azione della Scuola Una, che intende il desiderio dell’analista nel
suo doppio versante: quello del desiderio dell’analista in formazione
e quello della formazione del desiderio dell’analista.
Da quale posizione inconscia mi autorizzavo fino a non molto tempo fa e di come questa stia cambiando ve lo racconterò un’altra volta.
Diciamo che oggi, per me, chiedere controllo è necessario per vegliare
proprio su questo desiderio, vigilare sulla mia posizione inconscia per
non scivolare verso antiche identificazioni. La nuova sfida è cercare
un modo nuovo di incarnare la funzione dell’analista al di là del fantasma, pur tenendone conto. Oltre a ciò, attualmente mi rendo anche
conto che, rispetto al passato, non seguo più alla lettera le indicazioni
riflessioni di un’analista in formazione…
145
date dal controllore, in quanto qualche volta è meglio “disubbidire”
quando non si è convinti piuttosto che rischiare di applicare qualcosa
di cui non si condivide il senso.
Mi avvio alla conclusione con un paio di questioni in merito alla figura dell’analista controllore. Lacan nell’atto di fondazione dice:
“L’insegnamento della psicoanalisi non può trasmettersi da un soggetto a un altro che attraverso un transfert di lavoro”.
In una delle prime riunioni con gli amici e colleghi di ali di psicoanalisi si sono aperte le discussioni se ci siano, e quali dovrebbero
essere, i criteri “minimi” per la scelta dell’analista controllore. Sono
concorde con il fatto che il supervisore non sia soltanto il proprio
analista, per evitare di sclerotizzare il transfert distribuendolo invece
all’interno della comunità analitica e scientifica di cui si è scelto di far
parte. Ciò che non mi è ancora chiaro è se un caso possa essere supervisionato da più controllori. Da un lato mi sembra non opportuno
spingere verso derive immaginarie e controlli globetrotter, ma dall’altro
perché non poter avere pareri diversificati rispetto a un’empasse?
Nel frattempo cercherò di ricavare uno stile personale oltre la
grammatica fondamentale, al fine di incarnare il Soggetto supposto
Sapere per un altro soggetto, rappresentare il sembiante di un posto
che deve essere mantenuto vuoto, avere il coraggio di attuare delle
manovre al momento opportuno, tacendo sull’amore e attendendo
la sorpresa.
Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli
Sull’“impossibile” formazione degli analisti,
Elvio Fachinelli
Pino Pitasi
Un’anticipazione…
… proviamo a seguire nel tempo i vari movimenti di dissidenza giovanile
del nostro e degli altri paesi ad alto sviluppo industriale. Quello che colpisce,
a prima vista, è lo scarto tra la fragilità dei contenuti programmatici e dei
comportamenti, da un lato, e, dall’altro, la capacità di resistere ai numerosi
tentativi di riassorbimento e di conciliazione. In modo dapprima irriflesso,
poi sempre più consapevole, il gruppo ha messo in moto la dialettica del
desiderio. Ogni meta e proposta è superata nel momento stesso in cui è raggiunta. Dunque ciò che conta non è la meta, non è la proposta in sé, più
o meno “reale”; il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua
sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio. Perché
questo permanga, bisogna perdere l’illusione di un’incarnazione definitiva
del desiderio: il desiderio appagato è morto come desiderio, e alla sua morte
fa seguire la morte del gruppo…1
aut” dedica alla figura e all’opera di Elvio Fachinelli. Un freudiano di
giudizio2 e a un’antologia di testi Intorno al ’68,3 a cura di Marco Conci
e Francesco Marchioro, con interventi e testimonianze di vari autori (Luciano Amodio, Sergio Benvenuto, Enzo Morpurgo, Francesca
Oldrini, Enrico Palandri, Mario Perniola).
Mi sono parsi utili questi due riferimenti per dire, assai in breve,
qualcosa dello stile di Fachinelli e spero, in modo più articolato, qualcosa di più della sua “originale e inclassificabile”, forse, idea della
psicoanalisi e della formazione degli analisti.
Franco Lolli su “il manifesto” descrive Elvio Fachinelli come “uno
psicoanalista a misura del mondo”4 e sulle stesse pagine Paulo Barone
ne fa un ritratto che gli fa dire “intramontabile Fachinelli”, specificando che “ciò che non tramonta è la grazia rivoluzionaria”.5
Fachinelli prendeva la parola e lo faceva pubblicamente senza mai
strizzare l’occhio alle mode del momento (… parlo dei cosiddetti tumultuosi anni settanta, ma perché mai solo tumultuosi e non anche
fecondi perché tumultuosi e traumatici?…), era un cittadino del mondo che, con il proprio bagaglio di sapere psicoanalitico, non delegava
ad altri il compito impervio e appassionante di costruire e frequentare,
insieme ad altri, quell’immaginario collettivo che fece pratica di trasformazione operando nel vivo della società.
Si ricordi la bellissima esperienza dell’asilo autogestito, non autoritario, nel quartiere Ticinese a Milano, poi raccolta, raccontata e
discussa a più voci e nelle prime pagine del libro L’erba voglio. Pratica
non autoritaria nella scuola.6
Oggi suonerebbe come un azzardo fuori tempo massimo, ma quella sfida dovrebbe più che mai tornare attuale, visto lo stato d’abbandono in cui versano i quartieri della periferia milanese, poiché incontrando e scontrandosi con l’opera di Fachinelli non si può fare a meno
Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio, numero monografico di “aut aut”, n. 352, il
Saggiatore, Milano 2011, pp. 3-7.
3
Elvio Fachinelli, Intorno al ’68: un’antologia di testi, a cura di Marco Conci e Francesco
Marchioro, Massari, Bolsena 1998.
4
Franco Lolli, Uno psicoanalista a misura del mondo. Le passioni cliniche e politiche, in “il manifesto”, 18 dicembre 2009.
5
Paulo Barone, La sua era una grazia rivoluzionaria intramontabile, in “il manifesto”, 18
dicembre 2009.
6
Elvio Fachinelli, Luisa Muraro Vaiani e Giuseppe Sartori, a cura di, L’erba voglio.
Pratica non autoritaria nella scuola, Einaudi, Torino 1971.
2
lo stile e le idee di elvio fachinelli…
Per affrontare il tema piuttosto delicato della formazione dell’analista
farò riferimento a un recente numero monografico che la rivista “aut
Elvio Fachinelli, Il desiderio dissidente, in “Quaderni Piacentini”, n. 33, febbraio 1988.
1
147
148
Pino Pitasi
di affermare con le parole di Silvia Vegetti Finzi che si trattò di “un
intellettuale lacaniano che sposò psicoanalisi e politica”.7
pesi e contrappesi della formazione…
I luoghi della formazione teorica e pratica per Fachinelli raramente
furono le cittadelle accademico-universitarie e la sua originalissima riflessione culturale si ritrova a macchia di leopardo in numerose riviste
dal carattere collettivo. Si pensi all’esperienza della rivista “Quaderni
Piacentini”, che sarebbe diventata in quegli anni l’organo ufficiale del
movimento studentesco.
Sempre viva in Fachinelli la necessità di affiancare ai propri contributi teorici la costruzione di una prassi alternativa.
Rinvio, per meglio comprendere questa sua tensione etico-politica, a tre importanti contributi teorici comparsi sull’omonima rivista
“L’erba voglio”, fondata con Lea Melandri, sul paradosso della ripetizione. Qui l’autore si chiede come sia possibile per gli esseri umani
esprimere e realizzare autonomamente il loro desiderio in modo tale
da superare il freudiano Wiederholunswang, ossia la coazione a ripetere.
Sappiamo bene quanto sia decisiva nell’esperienza analitica questa
spinta, la forza di questa insistenza che fa dire a Lacan: “È la legge
propria di questa catena a reggere gli effetti psicoanalitici determinanti per il soggetto”.8
Sarebbe interessante riprendere e approfondire, in altra sede, tale
questione per il modo in cui Fachinelli confrontandosi con Freud e Lacan cerchi una via terza per dire la “ripetizione”, quella che chiamerà
la “ripresa” – posta tra la “replica” (una riproduzione, un facsimile) e
la “riduzione” (un impoverimento dell’originale, un’obbedienza) – per
sottolineare “un ricominciamento aperto verso l’avanti, […] come si
parla della ripresa […] (nella voga, la ripresa è quando il remo uscito
dall’acqua, viene spostato in aria prima di essere rituffato)”.9
Elvio Fachinelli appare instancabile in questa sua funzione critica.
7
Silvia Vegetti Finzi, Elvio Fachinelli: i tumulti di un lungo decennio, in “Corriere della Sera”,
11 dicembre 1998, p. 35.
8
Jacques Lacan, Il seminario su “La lettera rubata” (1966), in Id., Scritti, 2 voll., Einaudi,
Torino 1974, vol. i, p. 7.
9
Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit., p. 173.
Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli
149
Affianca lo svizzero Berthold Rothschild nell’organizzazione del controcongresso che movimentò le giornate del xxvi Congresso dell’International Psychoanalytic Association (ipa), tenutosi a Roma nel 1969
e che fece molto discutere proprio per la denuncia, come scrive molti
anni dopo lo stesso Rothschild, della struttura autoritaria, conservatrice e reazionaria dell’establishment psicoanalitico.
Proprio da qui e dalla lunga conversazione tenuta con Fachinelli da
Sergio Benvenuto mi sforzerò di suggerire qualche spunto e di gettare
uno sguardo nella vexata quaestio della formazione degli analisti.
Lo stesso Lacan ebbe a dire a questo proposito e in modo per lui
insolitamente dubbioso quanto mai fosse difficile e rischioso indicare una via e una soltanto per rendere possibile la trasmissione della
psicoanalisi e la formazione degli analisti. Poiché sempre aleggia in
questo controverso dibattito l’esito ambivalente/ambiguo di una certa nostalgia per una figura di maestro (figura genitoriale, la definisce
Fachinelli) piena, senza buchi, magari buona (via transfert) per fare
carriera e così via.
Forse, proprio su questo punto, tanto Freud quanto Lacan, almeno secondo Fachinelli, avrebbero potuto e dovuto analizzare di più
il loro desiderio di trasmettere e formare attraverso la fondazione/
istituzione di una Scuola, di un gruppo organizzato. Gli approdi, o
forse è più corretto parlare di derive, delle diverse Scuole o scolastiche
psicoanalitiche sulla base dell’esperienza storica, almeno per quel che
si mostra a oggi, non sono stati affatto incoraggianti e soprattutto non
hanno incoraggiato la libertà dell’esperienza psicoanalitica che ha visto i suoi discepoli, anche i migliori, sempre preoccupati di preservare
piuttosto che di riformare e/o rinnovare la presenza della psicoanalisi
stessa nella società.
Fachinelli, forse proprio per mostrare tale insofferenza verso l’identico, a chi gli chiedeva un controllo, tripode essenziale della formazione analitica, rispondeva con supervisioni brevi, perché, aggiungeva,
forse provocatoriamente, “nel giro di sei mesi uno capisce abbastanza
come lavoro, e voglio evitare il pericolo di diventare un modello impositivo, uno che mette il timbro, il placet…”, e così, concludeva “può
andare da altri”.10
Fachinelli dice chiaramente, al riguardo di questo momento fon Ivi, p. 209.
10
150
Pino Pitasi
dativo della trasmissione/formazione psiconalitica, che le supervisioni troppo durature hanno lo stesso rischio delle analisi didattiche. Il
supervisore in un modo o nell’altro imprime sul supervisionato il suo
marchio. Va detto, incalzando, che sono gli stessi allievi che “desiderano avere la punzonatura”.11 Insomma, ed è bene rammentarlo, c’è
sempre dietro l’angolo il pericoloso desiderio di un intento pedagogico, se non addirittura di un rapporto autoritario, “il transfert viene
inflesso in questo senso”,12 ancora Fachinelli!
Se ne potrebbe discutere, è una prospettiva che ci interessa, lo domando?!? A volte, dovremmo poter riconoscere che c’è più spirito di
ricerca e di innovazione all’esterno che non all’interno delle nostre
scuole o dei nostri gruppi psicoanalitici. Questa critica che Fachinelli
rivolgeva ai suoi andrebbe raccolta, fatta nostra, con tutte le differenze del caso. Qui sarebbe molto istruttivo riprendere il frammento di
un’analisi di gruppo pubblicato sui “Quaderni Piacentini” dal titolo
Gruppo chiuso o gruppo aperto?.13
Magari, in un’altra occasione!
Certo è che la questione della formazione degli analisti si impone,
più di altre, come problema inaggirabile sull’etica e sulla politica della
psicoanalisi e per questo credo che lo sforzo di Jacques Lacan, quando pensa, senza forse ripensarla sufficientemente, la passe,14 meriti un
esercizio critico ed è per questo che ho trovato di estremo interesse
la conversazione che, qui di seguito, provo a riportare e commentare
negli aspetti che mi sono parsi più significativi.
la conversazione e l’impossibile formazione degli analisti
Sergio Benvenuto precisa che, nel maggio del 1987, Fachinelli acconsente a una conversazione sui temi della formazione degli analisti.
Una conversazione alla quale Fachinelli tiene molto e con la quale
spera di “innescare un dibattito tra psicoanalisti, di smuovere le acque
Ivi, p. 210.
12
Ibidem.
13
Elvio Fachinelli, Gruppo chiuso o gruppo aperto?, in “Quaderni Piacentini”, n. 36, novembre 1968, pp. 107-124.
14
Si veda Jacques Lacan, Proposta del 9 ottobre 1967, in “La Psicoanalisi”, n. 15, Astrolabio, Roma 1994.
11
Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli
151
su una questione che egli considerava della massima importanza per
la sopravvivenza stessa della psicoanalisi come attività creativa”.15
Senza voler tralasciare i contenuti della prima parte di questa conversazione, a cui farò un brevissimo accenno, mi soffermerò in particolare sulla seconda poiché chiama in causa la richiesta reiterata di
essere formati come analisti da parte degli analizzanti e la problematica lacaniana della passe.
Decisivo partire da uno snodo di fondo, ovvero dal non poter fare a
meno di notare che il rapporto tra Fachinelli, la spi, l’ipa e forse più in
generale con le istituzioni psicoanalitiche è fortemente segnato da una
serie di scelte indiscutibilmente impopolari, dalla sua decisione di non
far carriera fino alla sua volontà di rimanere sempre nella posizione
laterale di associato.
Campeggia, tra le altre eresie, la proposta di abolire, nel corso di
un’assemblea della spi, il titolo di didatta, la sua diffidenza naturale
per “per tutti, ma soprattutto per gli ultimi gradini, vale in fin dei conti un criterio di cooptazione. […] Proprio per rifiuto di queste corse
a tappe, di queste procedure nelle quali si coniugano burocrazia e
infantilismo”,16 la sua analisi con Musatti, che oggi si direbbe selvaggia
e che invece fu per lui “una buona analisi”: “[…] ho ricevuto sorprese
e questo per me è fondamentale in ogni analisi, ho imparato e mi sono
anche divertito”.17
In fondo l’analisi è […] come un’avventura [ma molto dipende da come si
inizia e da quale punto di sofferenza ci si arriva, aggiungo io, N.d.A], un viaggio privato compiuto dentro una figura storica di rapporto tra uno che parla
il più liberamente possibile e uno che sta a sentire, essenzialmente. […] È una
configurazione su cui a ciascuno è consentito di esercitarsi, che non esaurisce certo l’ambito delle relazioni umane e che ben poco ha a che fare con le
Società che si richiamano ad essa.18
15
Conversazione di Sergio Benvenuto con Elvio Fachinelli, Sull’“impossibile” formazione
degli analisti, versione rivista e corretta dall’autore dell’intervista apparsa nel libro di Sergio
Benvenuto e Oscar Nicolaus, La bottega dell’anima, FrancoAngeli, Milano 1990, p. 200.
16
Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit, p. 202.
17
Conversazione di Sergio Benvenuto con Elvio Fachinelli, Sull’“impossibile” formazione
degli analisti, cit., p. 200.
18
Ivi, p. 208.
152
Pino Pitasi
Per queste, ribadisce Fachinelli, valgono altre regole e servirebbero
altri tipi di osservazione.
Ed è a partire da qui che l’intervista di Sergio Benvenuto prende
una piega, direi anche un respiro, che lascia riecheggiare l’acutezza
mite e tagliente, a tutto campo, del pensiero di Fachinelli sulle problematiche, di cui ancora si fatica molto a parlare, della formazione
degli analisti.
Alla domanda di Benvenuto che rinvia al tentativo di Lacan di affrontare il groviglio delle reiterate richieste di essere formati come
analisti (sarebbe questo un sintomo nevrotico da analizzare!) e alla
sua proposta/formula della passe, Fachinelli replica, facendo un giro un po’ largo ma necessario, che “nessuno evidentemente ha mai
finito la propria analisi ed il supporlo vorrebbe dire, ammettere una
sorta di trasparenza ed addomesticabilità dell’inconscio, una fine
dell’inconscio, certo non augurabile!”.19 Per poi riprendere che, nel
delicato frangente “del passaggio alla posizione di analista [la passe di
Lacan, N.d.A.], c’è una dinamica personale e a questa si sovrappone
il passaggio istituzionale”,20 questo punto rende di fatto ingarbugliato e complesso il problema formativo e di riconoscimento da parte
dell’istituzione.
Credo, rileggendo buona parte delle riflessioni di Lacan sull’esperienza della passe, che sia in più passaggi menzionata dallo stesso psicoanalista francese la “prudenza umana, troppo umana” con cui si è
avvicinato alla formulazione di una tale proposta.
Non deve sfuggire, infatti, la preoccupazione di Lacan, nel clima
rovente del maggio francese, sull’esito mercificato del sapere (lo definì
propriamente mercato del sapere), da qui forse anche le numerose
avvertenze attorno al “non ne so niente” di cosa passa e garantisce
di un’analisi e di come si trasmette la psicoanalisi. Ed è assai curioso
ritenere che proprio mentre la sua proposta vivacizza e frattura il dibattito sulla formazione degli analisti, lo stesso Lacan, in definitiva, si
smarchi da questo compito “impossibile” arrivando a dire:
non ho mai parlato di formazione analitica, ho parlato di formazioni dell’inconscio. Non c’è formazione analitica. Dall’analisi si snoda un’esperienza che
Ivi, p. 216.
Ivi, p. 217.
19
20
Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli
153
a torto si qualifica didattica. L’esperienza non è didattica. Perché mai credete
che abbia tentato di cancellare completamente il termine didattica e abbia
parlato di psicanalisi pura?.21
Su questo punto, si arriva alla massima convergenza, sia pur non
dichiarata, tra Fachinelli e Lacan, entrambi palesemente lontani
dall’idea che della psicoanalisi si possa fare una didattica.
Certo è che con la proposta della passe Lacan vuole e chiede di
affrontare il nodo del riconoscimento che implica sempre e necessariamente l’Altro, ma sottolinea Fachinelli “sono i modi di questo
riconoscimento che sono in discussione”.22
Fachinelli è sorprendente quando, di seguito, ironizza sul fatto che
“in ogni caso, per me è sempre stata più interessante la persona che
non desidera fare l’analista. Almeno nel primo colloquio. Quando viene uno psicologo e mi dice che vuole fare l’analista, provo un senso di
peso… mi sembra uno che vuol stare sempre dentro la stessa macina e
che trascina anche me dentro questa macina…”.23 Inquietante, quando
“ci sono più futuri colleghi, che veri e propri pazienti”, e come mai?!?
Proprio nel mezzo di una disquisizione sulla formazione, sul passaggio alla posizione di analista, sulla titolarità d’esercizio della professione, Fachinelli, psicoanalista, che “non ridusse mai il proprio mestiere a specializzazione”,24 getta lo scompiglio preferendo chi non vuole
diventarlo e ci mette in guardia, proprio per il danno formativo, dal
rischio che l’analista diventi “mi sembra uno che vuol stare sempre
dentro la stessa macina e che trascina anche me dentro questa macina…”.25 Qui salto, poiché sarebbe troppo lungo, anche se piuttosto
divertente, commentare e assegnare valenza di insegnamento ad alcuni affreschi che Elvio Fachinelli propone con tenerezza a proposito
di analisti, analizzanti, di istituzioni, società e scuole psicoanalitiche,
di comunità dalle bocche chiuse ed eccessi logorroici.
Ma cosa pensa, in buona sostanza, della proposta di passe formulata
da Lacan?
21
Jacques Lacan, Sull’esperienza della passe (1973), in “La Psicoanalisi”, n. 42, Astrolabio,
Roma 2007.
22
Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit., p. 217.
23
Ibidem.
24
Antonello Schiacchitano, Un freudiano di giudizio, in “aut aut”, n. 352, cit., p. 8.
25
Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit., p. 217.
154
Pino Pitasi
Il giudizio che Fachinelli esprime sul dispositivo della passe di
Jacques Lacan è duplice, poiché lo ritiene tanto una delle sue trovate
“più controverse e note”, quanto una sorta di “oggetto misterioso”,
almeno per chi non fa parte della più o meno ristretta cerchia dei
gruppi lacaniani.
Si tratta, a parere di Fachinelli, di legare e intrecciare per Lacan
due momenti diversi tra di loro, uno “personale ed autonomo”, un
“movimento reale”, quello del passaggio alla posizione di analista,
con quello invece relativo “alle esigenze dell’istituzione, vista come
garante dell’autenticità di questo passaggio”.26 In questo schema si
colgono la figura del testimone o passeur al quale chi fa domanda d’accesso all’École, cioè il passant, il passante, dovrà riferire della propria
analisi. Passeur e passant si trovano in fondo nella stessa posizione, cioè
nella posizione di passe, a quest’ultimo il compito di riportare al jury
d’agrément, la commissione di accettazione, quanto ha ascoltato, dopo
la decisione del jury di accettare o meno il passant.
Sappiamo che questa proposta formulata da Lacan ebbe, in breve
tempo, effetti di frattura nel gruppo e si risolse, questo nota Fachinelli,
in una vera e propria impasse.
La formula della passe lacaniana avrebbe il merito di distanziare
candidato e istituzione attraverso la figura del passeur e di evitare, secondo Fachinelli, la “cooptazione paternalistica e burocratica delle
società analitiche”, ma allo stesso tempo accentua e appesantisce il
significato della società accogliente, “che diventa ancora più incombente e onnipresente attraverso la figura ambigua del passeur”.27
Ma perché questo tentativo, almeno secondo Fachinelli, finisce per
amplificare il peso specifico dell’École e come mai risulta ambigua questa figura (il passeur)?
Anche qui, la risposta di Fachinelli si divide su due piani ineludibili
e inaggirabili, si direbbero forse anche “reali” e per questo “impossibili” (dove c’è del reale, c’è dell’impossibile…).
Da una parte, per quel che concerne l’École Freudienne, Fachinelli
non crede affatto che si possa parlare di un’istituzione soft (l’espulsione
di Luce Irigaray e le ripetute “epurazioni” interne ne renderebbero
una qualche testimonianza), ma al contrario si trattò, nella tenacis Ivi, p. 226.
Ivi, p. 227.
26
27
Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli
155
sima convinzione di Lacan, “di una vera e propria istituzione, […]
con un suo peso ed un suo destino, propriamente, istituzionale”.28 Lo
stesso psicoanalista francese volle restare sordo ad alcune critiche e
preferì pensare che “il suo discorso, il testo Lacan, avesse bisogno di
un supporto istituzionale”. E qui l’osservazione di Fachinelli appare
illuminante, soprattutto se si va con la memoria ai numerosi tentativi di immaginare sempre qualche dispositivo che garantisca sulla
e della completezza del percorso formativo, laddove aggiunge che
“un tale supporto… di fatto lo isolava, limitava le sue possibilità di
comunicazione” e “per usare una sua definizione, la parola piena diventava, attraverso il salmodiare lacaniano dell’istituzione, una parola
vuota”.29 La “debolezza” fluida e movimentista del lacanismo in Italia
per Fachinelli era, invece, un suo punto di forza e poteva essere “il
nucleo di un’irradiazione a tutto il resto”, se fosse rimasto un luogo
di ricerca e di critica, invece “c’è stato invece il conato di costruire
un’istituzione”.30
Elvio Fachinelli coglie qui e in profondità la contraddizione di
Lacan che, “pur avendo parlato in modo straordinariamente lucido
dell’analista come soggetto supposto sapere, nel momento in cui dirigeva
la sua scuola e dispensava il suo insegnamento era il sapere, anzi l’unico
assoluto sapere, e lo affermava orgogliosamente”.31
Quando Giovanni Mierolo nel giorno della costituzione associativa
di alipsi invita a non eludere qualcosa di questo impossibile, “a non
eludere la propria sintomaticità […] perché è soprattutto il virus di
questo sintomo che si trasmette, si trasmette la capacità di farsene
qualcosa”, lascia una traccia da tenere a mente: “il legame sociale è
una certa esperienza della sconnessione”.32
Prosegue Mierolo: “è una sconnessione del come-Uno, in questa
sconnessione dell’appartenenza possiamo intravedere il concetto di
democrazia”.33 Nel suo contrario, l’ombra oscura del regime dell’Uno.
Ivi, p. 225.
Ivi, p. 226.
30
Ibidem.
31
Ivi, p. 229.
32
Jacques Derrida, La parola d’accoglienza, in Silvano Petrosino, a cura di, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998.
33
Giovanni Mierolo, È possibile una democrazia analitica?, intervento al primo incontro di
alipsi, 25 aprile 2009, Bologna, inedito.
28
29
156
Pino Pitasi
In questo senso, forse, si può ripensare all’incombenza, cui faceva
cenno Fachinelli, al peso che dall’istituzione finisce per gravitare sul
passeur rendendo poi, di fatto, tale figura ambivalente.
“Questi, infatti, ha in sé i connotati indecisi, e forse indicibili, del
testimone per la verità, del testimone a favore del reo e ‘del testimone
della corona’, per usare termini giudiziari” [punto che andrebbe meglio chiarito, N.d.A.] e dall’altra la “[…] rottura della riservatezza analitica che si viene a compiere attraverso questo parlare della propria
analisi ad un estraneo e delle conseguenze – le dicerie circolanti – che
questo ha nei rapporti tra le varie figure di ‘fratelli’ in fase di passe.”34
Insomma, la passe si rivelerebbe, a ben vedere, “un procedimento confusivo che rischia di creare un certo tipo di società perversa
[…] un po’ come nella repubblica di Venezia al tempo delle accuse
anonime”.35
Rischio reale, non così lontano dalla realtà che non poche volte
ha segnato scuole, società e istituzione analitiche, pur animate dalle
migliori intenzioni e invenzioni.
Occorre, in buona sostanza, prima ancora di produrre e riprodurre
macchinosi dispositivi di garanzia, verifica e tutela (di chi? e a partire
da quali fini?) domandarsi se non sia più fecondo per chi desidera far
parte di un’associazione, scuola, istituzione e per chi dovrebbe accogliere questo desiderio, provare a interrogare insieme, in una linea
di prossimità, nella pratica di una democrazia degli uni e degli altri,
dove la parola possa circolare più liberamente, quale è oggi la causa
analitica, cosa e come “ci” causa la psicoanalisi, soprattutto oggi che
se ne potrebbe cominciare a tracciare un’assidua storia critica, senza
il sovraccarico di inutili orpelli e stucchevoli cerimoniali.
Meglio sarebbe, credo, testimoniare, nei luoghi che già si danno,
di un reale interesse critico per la propria analisi, per le proprie supervisioni e per il proprio lavoro formativo attorno a un sapere non
dogmatico e scolastico. E se proprio si dovesse pensare a dei dispositivi
di testimonianza, li immaginerei comunque sganciati da pericolosi e
tortuosi effetti di nominazione: in fondo non si tratta di riconoscere
che se c’è qualcosa dell’analista e della sua “capacità di guarire una
Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli
nevrosi”36 questo nulla o poco c’entra con la passe, quanto piuttosto,
se ci fosse una trasmissione/formazione in psicoanalisi, di essere giocoforza e per effetto di un transfert di lavoro e al lavoro, di fronte al
compito (“costrizione”, la chiama Lacan) di reinventare il modo in cui
la psicoanalisi possa durare?!
Ancora una volta, Fachinelli è molto chiaro sull’argomento, “ogni
gruppo rivela, presto o tardi, problemi difficili e soprattutto invischianti. In fondo, credo soltanto a ciò che si può ottenere, alla lunga, con
l’intelligenza personale, con il proprio minimo personale”.37 Evitare,
quindi, ostracismi e tendenze feudatarie, chiusure e autoreferenzialità.
Questa mi pare la cifra davvero collettiva, senza però esserne apparato di cattura, del nostro inaugurale e movimentato lavoro di riflessione
sulla formazione degli analisti, non senza un vincolo simbolico con
ciò che abbiamo ereditato e che continuamente proprio per questo ci
espone quanto più all’alterità.
Secondo Fachinelli, Lacan si accorse “dello scacco e lo dichiarò apertamente”, forse da questo esito contraddittorio prese la decisione di
sciogliere la stessa École da lui fortemente voluta e di cui voleva fermamente facesse parte lo stesso Elvio Fachinelli che, però, sempre rifiutò.
Forse perché, come magistralmente avverte nelle pagine de Il paradosso
della ripetizione,38 è soprattutto nelle istituzioni, in certi atti fondativi, che
si annida e si mostra qualcosa di già visto, “la prevalenza della vischiosità del passato nel presente, la dissoluzione a breve scadenza”.39
Quale la ragione, si domanda Fachinelli. La si può intuire
in ciò che è caratteristico di molte di queste iniziative: quasi un vento d’ebbrezza, un eccesso di grazia, la facilità dei gesti all’opera, con la continua minaccia
di veder sorgere all’orizzonte, e poi dentro di sé, quel negativo che essa intendeva eliminare. Il passato è troppo duro, aboliamolo dal programma del presente
e del futuro: ma il passato abolito con un gesto ritorna come un fantasma che
distrugge quel programma. È questo il tragico circolo vizioso in cui molti di
noi sono passati in questi anni, e di cui molti potrebbero fare il resoconto.40
Ibidem.
Ivi, p. 224.
38
Elvio Fachinelli, Il paradosso della ripetizione, in “L’erba voglio”, n. 1, luglio, Einaudi,
Torino 1971.
39
Id., Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974, p. 246.
40
Ibidem.
36
37
Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit., p. 227.
Ibidem.
34
35
157
158
Pino Pitasi
Passo di grande bellezza espositiva e di cui una comunità “qualsivoglia” e al lavoro potrebbe incaricarsi.
Fachinelli, forse, sostenendo questo “impossibile” nella formazione
degli analisti, non fa altro che rammentarci un adagio, assai noto, di
Lacan, “[…] ancora uno sforzo se volete essere […]”41 … che cosa?
“Mah,” conclude questo intellettuale lacaniano, “è uno degli scherzi che
Lacan ci ha giocato”.42
Psicoanalisi implicata
Jacques Lacan, Kant con Sade (1962), in Id., Scritti, cit., vol. ii, p. 767.
Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit., p. 229.
41
42
Bisogna difendere la poesia
Milo De Angelis e Maria Vittoria Lodovichi
L’interesse e il piacere della lettura dei versi di Milo De Angelis, tra cui
Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010) ma anche lo splendido racconto
fiabesco La corsa dei mantelli (ripubblicato di recente da Marcos y Marcos)
mi hanno spinto a pensare di intervistare Milo De Angelis, innanzitutto
per riuscire ad aiutare le persone che ignorano la grandezza della poesia a incontrarla. È vero che la poesia ce la dobbiamo meritare, che la
dobbiamo scoprire e che per comprenderla dobbiamo dedicarle tempo,
dolore, affetto e studio.
Invece di un’intervista man mano ha preso forma l’idea di rivolgere
a De Angelis una lettera, una lettera aperta:
Edoardo Fraquelli
Senza titolo, 1959
tempera su carta intelata
31,5 × 23 cm
Dedicandomi allo studio delle tue poesie, annotando in margine alle
pagine strane congetture, mi sono persuasa che la tua poesia, caro
Milo, divenga prima di tutto esperienza uditiva. Come se la parola in
sé, direi ciascuna parola che compone il verso, aprisse e propagasse un
suono “inaudito” nel collegarla all’altra e infine a tutto il suo insieme.
Per esempio mi colpisce l’uso anaforico del si che interviene ad
armonizzare la prima poesia di Alfabeto del momento (in Quell’andarsene
nel buio dei cortili). Insieme alle allitterazioni questa poesia propone un
lussureggiante invito al silenzio, a quel silenzio che produce senso,
attraverso parole appropriate e potenti: “sospesi, respiro e sangue”.
Nello scorrere il testo si incontrano e ci sorprendono altre forme di
accoglienza, di comprensione, di affetto, di insegnamento espresse
162
milo de angelis-maria vittoria lodovichi
attraverso l’invenzione di nuove voci, per esempio, per citarne una,
quella del ritmo.
E ancora continua a interrogarmi quella poesia intitolata … allora
mi chiamò un drappello. È un incipit? Chi lo chiama? A chi risponde? In
quale composizione “si rivela l’appello dell’altro”? Domande che ci
conducono a una serie affollata di altre domande: quando ha avuto
inizio questa storia? Si viene a sapere, leggendo la poesia, che “allora”
il poeta fu chiamato da un drappello. Poi repentinamente la poesia
cambia scena: si scopre che questo gruppo è formato “di anime sole”… le quali, avvicinatesi alle finestre, “scostano le tende”. L’atmosfera suggerisce che quest’atto di “scostare le tende” sia fatto con la
premura di chi non voglia disturbare e si preoccupi di parlar piano,
“bisbigliando”. Il valore del bisbigliare è oggi un’arte alla quale pochi
sanno tornare; invece il bisbiglio è forse quel parlare umano che sa
confortare le “anime sole” dei bambini, dei malati, di chi soffre gravi
dolori, grevi ingiustizie.
I bambini hanno bisogno di poesia (Françoise Dolto) per comprendere
l’infanzia come sentimento (Tolstoj). Nessun adolescente è senza problemi,
senza sofferenza. Forse è il periodo più ricco di dolore della vita, ma
anche quello delle gioie più intense. Si desidera fuggire tutto ciò che si
presenta difficile. Fuggire fuori da sé gettandosi in avventure dubbie
o pericolose, trascinati da persone che conoscono la fragilità degli
adolescenti. O fuggire dentro di sé, chiudendosi in gusci fasulli. Dolto
scrive che un mito è poesia che possiede una propria verità: per questo
i bambini hanno bisogno di poesia. Tolstoj invita gli educatori a saper
sostenere la frustrazione, dato che il bambino proietta sull’educatore
l’incertezza e il bisogno d’amore; i bambini hanno bisogno di comprensione. Dobbiamo studiare l’infanzia come sentimento. I bambini
crescono fuori dal tempo di produzione, per questo gli adulti non
sanno attenderli.
A questi potenti pensieri e sollecitazioni la poesia di De Angelis risponde con la sua stessa vita. Che cosa sappiamo della vita di un poeta?
Chi è Milo De Angelis? Sappiamo che insegna in un carcere, che ha
composto versi anche in lingua piemontese, sappiamo che ringrazia i
suoi insegnanti, che sa vivere il lavoro del lutto e sa “tornare a ricostruire”. Questo poeta riesce a dare con i propri versi l’intera sua vita. Forse
l’autore è sempre lì, a fianco di ognuno di noi, nello sforzo di rinnovare
con le sue parole la forza della loro sagacia, il loro volto di crudeltà.
Bisogna difendere la poesia
163
La pulsione uditiva incontra l’oggetto fonico e il bisbigliare è quel
modo di parlare nel quale respiro e parola incrociano l’orecchio di chi
ascolta. Bisognerebbe tornare al buon uso della prosodia, alla conoscenza delle parole con i loro accenti, riconoscere le parole tronche,
piane, sdrucciole, bisdrucciole, trisdrucciole. Riconoscere l’endecasillabo, la divisione dei suoni, il sussurro che la poesia porta con il
suo narrare aperto: è pacificazione, è incontro con la libertà. Posso
pensare belle parole in qualunque circostanza della vita e questo è il
più bello dei riscatti umani. Raccontare ai bambini è straordinario,
specialmente ai più deboli o a quelli che hanno avuto un’esperienza
di vita difficile. È straordinario esporsi alla narrazione di una poesia
articolata in una prosodia e in seguito insegnare a leggere le parole.
Devi autorizzarti, mi sono detta aprendo Quell’andarsene nel buio dei
cortili. Appare il brano poetico che si posa sulla pagina avvolto nel
respiro del grande margine bianco. A eccezione della poesia 19 Marzo
– composta di quattro strofe, la più lunga – le altre appaiono discrete;
fanno capolino avvolte nel biancore delle pagine. Quei versi suscitatori di antiche lingue rimestano nel lettore responsabilità annodate
che, nel continuo atto del rileggerle, si sciolgono poi in sensi differenti.
Sprigionano mille coriandoli di senso, suscitano piacere e nostalgia.
Tu scrivi:
Nostre amate sillabe
che raccogliamo a mani giunte
Feroce ordine dei canti
linea colpita in quella rimasta
Bisogna aver sofferto di una coperta troppo corta, di un lino che litura… (il lituraterre di Lacan), di un reale che non perdona, affinché
quella ferita possa parlarci e dettare al poeta la sua potenza, la verità
nel rispetto del soffrire ubbidendo alla responsabilità. E ancora:
Mani giunte
che scendono in oscure cantine
e incontrano un nonnulla
collera storica e celeste
per ciò che non si compie.
164
milo de angelis-maria vittoria lodovichi
Bisogna difendere la poesia
Ecco: forse solo ora si disegnano nitide alcune domande che vorrei
rivolgerti. I pensieri che ho cercato di formulare hanno, nella loro
fonte, autori che ho amato. Sono autori, li riconoscerai, che ben conosci: Lacan sul tema del linguaggio, Freud sul disagio della civiltà,
Tolstoj sul sentimento dell’adolescenza o Dolto sul bisogno di poesia
da parte dei bambini.
La prima domanda che vorrei rivolgere a Milo De Angelis è questa:
come e per quali vie egli si è avvicinato così pericolosamente alle problematiche relative al linguaggio? E ancora: su quale disagio della
civiltà si aprono i suoi versi e che cosa sanno trasmettere di fronte alle
difficoltà del vivere umano?… Come psicoanalista, come persona e
donna interessata alla poesia ti chiederei inoltre di dire qualcosa sul
quel sentimento dell’adolescenza che pervade la tua poesia. Dolto ci
insegna che i bambini hanno bisogno di poesia, ma forse nella tua
esperienza possiamo aggiungere che anche i carcerati ne necessitano.
Un abbraccio.
Maria Vittoria Lodovichi
Milano, gennaio 2012
Carissima Maria Vittoria,
le tue parole fluiscono come un ruscello primaverile e meritano
qualcosa di più della solita intervista, del consueto e immobile meccanismo di domanda e risposta. Cercherò dunque di bagnarmi anch’io
in quest’acqua e di farmi portare dalla corrente, costeggiando i tuoi
autori e i tuoi interrogativi, cercando di entrare con la stessa naturalezza nel flusso di questo incontro.
Mi ha colpito innanzitutto la tua osservazione sul bisbiglio. Nessuno
finora aveva notato la presenza di questa figura nei miei libri. Eppure
è insistente. Potrei fare una piccola antologia di poesie “bisbigliate”. Il
bisbiglio, il sussurro, la parola pronunciata sottovoce hanno una rispettabile genealogia nella nostra letteratura. Pensa ai Madrigali del Tasso, a
certe atmosfere lunari di Leopardi o anche – per passare ai giorni nostri – a una poetessa come Antonella Anedda. Ma c’è un poeta che più
di ogni altro è attraversato da un incessante bisbigliare. Questo poeta
è Giovanni Pascoli, che per me è stato essenziale e continua a esserlo.
165
Nei suoi versi appaiono sempre le ombre. E le ombre non si esprimono
con timbro solare, con voce limpida e scandita. Il loro regno è la notte.
E Pascoli è il nostro poeta più notturno. Pascoli è sempre notturno. Lo
è nelle tante scene ambientate di notte. Ma lo è anche in piena luce,
poiché di questa luce Pascoli mette in rilievo la parte segreta e riposta,
la parte vicina al mistero. Una delle prime poesie che ho imparato a
memoria è La mia sera. Mi fermo a citare gli ultimi versi, che mi sono
sempre suonati meravigliosi:
Don…Don… E mi dicono, Dormi!
Mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano. Dormi!
Là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
Sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.
Tu, Maria Vittoria, che lavori con i bambini e conosci il sentimento
dell’infanzia, avrai letto e riletto quel testo fondamentale che è Il fanciullino. Sì, il famoso fanciullino: quello che “nella morte degli esseri
amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime
e ci salva”, quello che “nella gioia pazza pronuncia, senza pensarci,
la parola grave che ci frena”, quello infine che “getta la sua parola, la
quale tutti gli altri, non appena esso l’ha pronunziata, sentono che è
quella che avrebbero pronunziato loro”. Insomma, è il poeta! Ho sempre pensato la poesia in questo equilibrio instabile tra la piena gioia e
la mortalità, tra il lutto supremo e una brezza che proviene da qualche
parte del cuore e ci redime. E sa dirlo con la parola che ognuno attendeva senza saperlo. E Pascoli, come un antico fanciullino, è stato un
poeta che mi ha sempre accompagnato in questo viaggio notturno tra
dolore e risveglio, tra il fiore della cronaca e il fiore senza età.
Dall’infanzia all’adolescenza. Mi chiedi di quel sentimento adolescente che pervade la mia poesia. Non mi stanco mai di parlarne.
È smisurata, l’adolescenza, con le sue domande totali e repentine.
L’adolescenza è un tempo assoluto: pochi anni che si estendono all’infinito e sono improsciugabili. L’infanzia è trascorsa, i genitori sono
alle spalle, la maturità è ancora lontana, laggiù, oltre i cortili. Rimane
166
milo de angelis-maria vittoria lodovichi
questo tempo sospeso, tempo di gare, di partite di calcio, di corse
puntate al filo di lana, di porte disegnate con il gesso sui muri. E qui
ogni ragazzo comincia a misurare se stesso, le sue doti e i suoi limiti, le qualità interiori, il coraggio, la lealtà, la precisione, il genio, la
costanza. Impara dunque a esplorarsi e a scegliere i suoi compagni
di avventura, quelli che, con altri nomi, gli saranno vicini per tutta la
vita. Sì, l’adolescenza punta alle affinità elettive, ai fratelli di anima,
al legame inesorabile tra due creature che non si conoscevano prima
e che proprio lì, in quel cortile, in quella partita, trovano la loro alleanza, fondano un patto giurato.
I valori dell’adolescenza sono eroici: il rischio, l’eccesso, il pericolo,
l’avventura senza risparmio al limite delle proprie forze, il senso di un
nobile destino da attuare. L’adolescenza è il tempo in cui tutti i valori
ereditati dalla famiglia appaiono nella loro sconcertante pochezza. Ma
anche quelli che ci aspettano tra pochi anni, oltre i muri del cortile,
sembrano vuoti e privi di eroismo, figli di un subdolo accordo sociale.
Tutti i grandi libri dell’adolescenza, dai Ragazzi della Via Pál di Molnár
ai Turbamenti del giovane Törless di Musil, da La città e i cani di Vargas
Llosa, a Il grande Meaulnes di Alain-Fournier, al Signore delle Mosche di
Golding, tutti insistono su questa guerra di valori: da una parte le gerarchie inflessibili ma giuste della banda giovanile, dall’altra i proclami
retorici del mondo adulto, di un preside, di un politico, di un padre.
L’adolescenza è uno scisma. È un luogo di separazioni violente, di
rotture definitive, di solitudini imperscrutabili. L’adolescenza, come
la poesia, è illegale. Non è il luogo degli accordi o della trattativa.
Nell’accordo c’è una forma di menzogna, che il ragazzo magico ha
deciso di sventare. E così tenta di mantenere l’assoluto attraverso abbandoni fulminei, un istante prima che il buon senso lo catturi. Come nelle
intercettazioni telefoniche: bisogna smettere di parlare un attimo prima di essere localizzati. Così nella banda adolescente: bisogna cambiare gioco e luogo un attimo prima che il mondo feriale si avvicini.
E per questo il luogo adolescente risulta introvabile da qualunque
indagine adulta, ossia poliziesca: nelle mappe che vorrebbero definirlo
manca sempre qualcosa: se c’è il massimo dettaglio, mancheranno le
coordinate; se ci sono le coordinate, la singola scena scompare.
È giusto, Maria Vittoria, quello che scrivi verso la fine: “Bisognerebbe tornare al buon uso della prosodia, alla conoscenza delle parole con
i loro accenti…”. Proprio così! Ogni poeta è invaghito di certe parole…
Bisogna difendere la poesia
167
quelle e non altre… e con loro ha un rapporto propriamente amoroso. Un rapporto con singole parole, come diceva Paul Celan, con parole
prese una alla volta, sentite, custodite e fatte entrare nel proprio sangue.
Anch’io, nei lunghi intervalli tra un libro e l’altro, ho dei legami sentimentali con parole isolate. Tutto comincia al mattino presto, nella piccola odissea metropolitana che mi conduce al carcere di Opera. Prendo
la prima corsa del tram numero 2, verso le sei… scendo in centro e
salgo sul 24, fermo al capolinea, pronto ad accompagnarmi in fondo a
via Ripamonti, dove concludo il mio percorso sull’autobus 99, che mi
porta al penitenziario. Un’ora e mezzo di viaggio. Ho tutto il tempo di
osservare, leggere, ascoltare, prendere appunti sul mio quaderno blu.
Qualche anno fa in tram, all’altezza di via Farini, mi ha incuriosito
un dialogo tra due anziane signore. Una, rimasta vedova da poco, parlando del marito, a un certo punto ha detto: “Non ha potuto fare nulla
di meglio che andarsene”. Insieme al tono amaro e un po’ trasognato,
mi è rimasto impresso quel verbo: “andarsene”. Intanto perché ha un
bel suono sdrucciolo, con quell’assonanza finale delle due sillabe “se”
e “ne”. E poi perché è un verbo quotidiano e al tempo stesso metafisico. Porta in sé un significato comune e un significato mortale, il breve
distacco di ogni giorno e il distacco definitivo. Pensai, quel martedì di
febbraio sul tram numero 2, che avrei dovuto far entrare quel verbo
nel mio prossimo libro. E infatti “andarsene” è entrato non solo nel
libro ma anche nel titolo. Ed è entrato insieme a “buio”, altro termine
prediletto, dal suono puerile e allarmante, fiabesco e letale, che evoca
paure arcaiche. E poi ci sono i “cortili”, immagine rituale dei miei
versi, così vicini al mondo giovanile: il cortile è un luogo di confine tra
la casa e il mondo, tra i genitori e la donna, è la cerniera tra il noto e
l’ignoto. I cortili sono l’incarnazione spaziale dell’adolescenza.
E i cortili vengono nominati anche nella poesia che hai citato, quando quel drappello di solitari scosta le tende e ci spalanca lo sguardo
sulle epoche della nostra vita, sulle grandi vetrate del tempo. Ci affacciamo alla finestra e vediamo i nostri cortili che se ne vanno nella notte.
“Quell’andarsene dei cortili nel buio.” Non siamo più noi che ce ne
andiamo nella loro zona d’ombra, ma sono i cortili stessi che vengono
risucchiati da una misteriosa oscurità! E poi il cortile – a proposito
della tua domanda sul carcere – è anche un’immagine del mio lavoro
quotidiano, quando vedo i detenuti che nell’ora d’aria camminano
tra un muro e l’altro del loro angusto rettangolo di cemento e sento
168
milo de angelis-maria vittoria lodovichi
il desiderio di farli camminare in un luogo più ampio, tra un’epoca e
l’altra, tra una poesia e l’altra.
Rileggo nelle tue domande l’aggettivo “piemontese” e, trovandomi
oggi nei luoghi di Pavese, approfitto della coincidenza per dire una parola su questo grande scrittore. Ho avuto molti maestri nella mia vita,
ma il più severo è stato Pavese. E un ragazzo ha bisogno di severità, di
un giudizio netto – se necessario anche spietato – senza l’inutile zucchero consolatorio. Pavese aveva il diritto di essere severo con gli altri
perché lo è stato, in modo inflessibile, con se stesso. Ogni suo gesto,
ogni suo incontro, ogni sua lettura avevano un’importanza suprema,
sembravano decidere la vita intera, sembravano avvenire nel giorno
del giudizio. Ed è uno scrittore del ritorno, come tutti gli scrittori che
amo. Per lui ritornare è un’arte e una missione, un comandamento.
Sente il richiamo dei luoghi attraversati come se fosse il grido di un
essere umano. E sente che questi luoghi sono inesauribili, regalano
sorprese a ogni ritorno.
E davvero la poesia, come tu hai notato, è un’esperienza dell’udito
che porta a una pagina inaudita. Si scrive, in un certo senso, sotto
dettatura. Non sempre è chiara, questa voce dettante, e allora noi tendiamo l’orecchio, cerchiamo di coglierne ogni tono e semitono, ogni
pausa, ogni fruscio. Il gioco di varianti, che ogni poeta ben conosce,
non è mai sperimentale, non si affanna a provare nuove vie, come un
curioso o un turista. Procede invece all’indietro, alla ricerca di quella
prima voce, per trascriverla in modo ineccepibile. È un tentativo di
restituire la dizione più esatta, di ripetere precisamente quelle parole.
Mi ricordo i dettati delle scuole elementari e quel mio compagno di
classe, Cesare Novellone, che seguiva con udito spasmodico la voce del maestro, ingrandiva o rimpiccioliva le lettere a seconda della
pronuncia, alternava stampatello e corsivo, lasciava degli spazi tra
una parola e l’altra, andava a capo quando l’intervallo di silenzio lo
richiedeva e insomma trasformava il dettato in poesia.
Concludo così, con un ricordo di giovinezza, questo colloquio con
le tue parole, cara Maria Vittoria, che hanno anch’esse una forza
giovanile e al tempo stesso antica, come se risuonassero da sempre in
qualche parte di me. Con affetto.
Milo De Angelis
Nizza Monferrato, 31 marzo 2012
Zanzotto, la psicoanalisi, il reale
Prospettive di implicazione
Alberto Russo
Forse non-si-sa per un
sordo movimento di luce si
distilla in un suono effimero, e sa
Andrea Zanzotto,
Non si sa quanto verde, 1996
Per l’interpretazione della poesia di Andrea Zanzotto il ricorso alla
psicoanalisi lacaniana si è imposto alla critica come un atto necessario.
Questa necessità si è presentata soprattutto a partire da La Beltà, del
1968, ovvero dal libro che segna il punto di svolta fondamentale nell’itinerario poetico zanzottiano. Uno dei tratti peculiari che concorrono al
carattere innovativo di quest’opera, e che animerà la produzione successiva di Zanzotto, è un modo nuovo di fare interagire la poesia con
altri saperi. Nel rinnovamento delle scienze umane avvenuto durante
gli anni cinquanta e sessanta, lo sviluppo di discipline come la linguistica, la retorica, la semiotica e la psicoanalisi ha cambiato profondamente le possibilità di concepire la poesia. Zanzotto, “uomo di viva cultura,
con letture elette che pertengono ai più disparati campi del sapere”,1 si
è confrontato con queste nuove teorie, e si è ritrovato a farne il terreno
di coltura dei suoi versi. La sua poesia è dunque attraversata e doppiata
da riferimenti precisi alla teoria, la quale non è però da leggersi soltanto come una presenza tematica, poiché il luogo stesso in cui i suoi
versi vengono a prodursi, nel senso sia della genesi che della finalità
del messaggio, è il significante quale la teoria permette di pensarlo.
È dunque l’autore stesso a mettere il critico sulle tracce operative da
Fernando Bandini, Zanzotto dalla “Heimat” al mondo, in Andrea Zanzotto, Le poesie e
prose scelte, Mondadori, Milano 1999, p. liii. D’ora in avanti citeremo quest’opera con la
sigla pps.
1
170
Alberto Russo
seguire per entrare nei suoi testi, attraverso la disseminazione concettuale (da “significante scancellato” a “fonemi monemi”, da “trauma”
a “sintomo”, da “Witz” a “transfert” ecc.),2 fino al riferimento diretto.3
Vediamo così come dal confronto di Zanzotto con lo strutturalismo il
nome di Lacan emerga in modo preponderante: “Lacan, difficile ma
ormai obbligatorio punto di riferimento per chi voglia tener presenti
alcune ragioni prime della realtà letteraria”.4 Il punto di questo ancoraggio è noto, è il primato del significante nell’inconscio lacaniano
strutturato come un linguaggio. L’evidenza di questa predilezione rende però doveroso ripeterne le ragioni. Dal punto di vista della poesia,
la portata della scoperta lacaniana è immensa: le leggi della funzione
poetica del linguaggio presiedono alle dinamiche fondamentali della
psiche dell’uomo. “La struttura significante del sintomo” dice Lacan
“mostra impressa sulla carne l’onnipresenza per l’essere umano della
funzione simbolica.”5 In questo passaggio dal linguistico allo psichico
si realizza senza dubbio uno degli apici dello strutturalismo, ed è qui
che Zanzotto si allea con Lacan, sulla spinta di esigenze soggettive,
cliniche, prima che estetiche. Tutto ciò è dichiarato da Zanzotto nel
suo più noto intervento su Lacan, Nei paraggi di Lacan:
Quanto al nome di Lacan, cominciai a sentirlo sussurrato da psichiatri non
ortodossi che “dovevo” frequentare […]. Il trasformarsi di ogni discorso, anzi
di “tutto” in mero significante, anzi in lettera. Il sospetto che l’io fosse una
produzione grammaticalizzata dell’immaginario, un punto di fuga e non una
realtà. Ma si poteva veramente affermare, dire, enunciare tutto questo? Non
ne sarebbe rimasta la bocca irreparabilmente muta? […] Le prime letture di
Lacan e su Lacan, prima che uscissero gli attesissimi Écrits mi provocarono
veri traumi […]. Sentivo comunque tutta l’incombente necessità del discorso
lacaniano, quale punto di arrivo – entro un mondo ormai inguaribile – della
stessa idea di psicoanalisi, o meglio di analisi.6
Andrea Zanzotto, La Beltà, pps, pp. 335, 284, 341 e Id., Pasque, pps, pp. 434 e 421.
“oui, je lis scilicet, la revue paraissant trois fois l’an / à Paris, sous la direction du
docteur J. Lacan”; Id., La Pasqua a Pieve di Soligo, in Id., Pasque, cit., p. 425. Si veda anche la
poesia Microfilm, in Id., Pasque, cit., p. 413.
4
Id., La Beltà, cit., p. 1145.
5
Jacques Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi (1966), in Id.,
Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 2002, vol. i, p. 406.
6
Andrea Zanzotto, Nei paraggi di Lacan, pps, pp. 1211-1212.
2
Zanzotto, la psicoanalisi, il reale
171
È dunque esplorando questo nucleo denso di interazioni che la critica ha potuto avanzare nell’interpretazione del testo zanzottiano,
raggiungendo i suoi migliori risultati nei lavori di Stefano Agosti.7
I riferimenti diretti al testo di Lacan da parte di Zanzotto possono
certamente innescare la tentazione di stabilire un primato del lavoro
filologico, mirante a una precisa ricostruzione della ricca trama ipotestuale delle fonti. La critica di Agosti non asseconda questa tentazione,
la giustezza della sua démarche trova ritmo e direzione nel suo operare
dentro il nucleo teorico dell’alleanza, ed è in questo orizzonte che la
sua finissima analisi testuale può permettergli di interpretare le ragioni
profonde dell’atto poetico zanzottiano.
L’attenzione di Zanzotto per la riflessione lacaniana va comunque al di là degli Écrits. Non poteva sfuggire alla sensibilità e agli interessi di Zanzotto il passaggio dal Lacan del linguaggio al Lacan
della linguisteria, ovvero il passaggio dalla langue a lalangue. Questo
passaggio trova riflesso anche nel macrotesto zanzottiano, all’altezza
di quell’opera capitale che è Il Galateo in Bosco. È ancora Zanzotto a
metterci sulle tracce di Lacan:
[la] storia-storiografia quale viene inscritta nel Galateo in Bosco è senza dubbio
riferibile a ciò che traspare nel “tema” di lalingua lacaniano (non lo direi nozione). […] L’indecidibile linguistico/lalinguistico ha certo un rapporto con
quanto mi sono trovato davanti (per affrontarlo o per lasciarmene travolgere)
anche nel Galateo in Bosco. [...] Nel Galateo in Bosco frequente mi sembra anche
il passaggio di “lalingua” attraverso il teschio o nei suoi dintorni e aloni: a
dire, in cartiglio come nel famoso quadro del Guercino: Et in Arcadia Ego.8
Non è facile situare queste riflessioni rispetto all’alleanza stretta nei territori del significante. Potrebbe dunque apparire promettente e necessaria un’indagine sulla lettura zanzottiana di lalangue, volta da un lato
a cogliere la prospettiva in cui il poeta la colloca nel proprio universo
concettuale, e dall’altro a offrire un contributo all’interpretazione della
3
7
Si vedano soprattutto: Stefano Agosti, Introduzione alla poesia di Zanzotto, in Andrea
Zanzotto, Poesie 1938-1972, Mondadori, Milano 1973; Id., Introduzione alla poesia di Zanzotto, in Andrea Zanzotto, Poesie 1938-1986, Mondadori, Milano 1993; Id., L’esperienza di
linguaggio di Andrea Zanzotto, in pps, pp. ix-xlix; Id., Zanzotto o la conquista del dire, in Id., Il
testo poetico. Teoria e pratiche di analisi, Rizzoli, Milano 1972, pp. 209-218.
8
Andrea Zanzotto, Il Galateo in Bosco, pps, p. 1220.
172
Alberto Russo
stessa lalangue. Un tentativo in questo senso è riscontrabile nello studio
di Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il
Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto,9 in cui, a partire da un confronto
tra gli interventi di Zanzotto e il testo di Lacan, viene costruita una
concettualizzazione di lalangue come bussola per orientarsi nell’oscurità compatta dei testi de Il Galateo. L’effetto intertestuale è di grande
densità, lo scavo nell’interpretazione zanzottiana di lalingua offre al critico strumenti affinati per una lettura che permette di attivare al senso
alcune fondamentali virtualità del testo, mentre allo psicoanalista offre
una serie molto promettente di variazioni sul tema di lalangue.
Questa apertura innovativa di Sartori sul tema errante di lalingua
ci conduce immediatamente all’incontro con un problema metodologico fondamentale: seguire Lacan nei territori arlecchinesco-demoniaci di
lalingua significa seguirlo nella sua svolta verso il Reale. Proprio qui si annida
la difficoltà di situare le riflessioni zanzottiane su lalingua. Ciò che
dunque è in questione nel confronto di Zanzotto con il Lacan della
linguisterie, al di là dell’elaborazione “leggibile” e delle sue applicazioni,
è la possibilità di apertura di un’altra grande prospettiva di ricerca,
sovrapponibile a quella che fino a oggi ha dato lustro alla critica zanzottiana a orientamento psicoanalitico: da la poesia di Zanzotto e il registro
lacaniano del Simbolico, a la poesia di Zanzotto e il registro lacaniano del Reale.
La necessità di aprire questa prospettiva si motiva innanzitutto nel
tentativo di rispettare l’interezza dell’elaborazione lacaniana, la quale,
com’è ormai noto, alla fine della sua parabola si presenta sempre più
orientata sull’asse del godimento, sul sintomo come residuo insimbolizzabile, partner più proprio del soggetto.10 Ma la profondità del tentativo deve andare oltre, verso la dimensione più autentica in cui può
esistere una psicoanalisi della letteratura che non tradisca il suo nome.
La poesia di Zanzotto, la psicoanalisi di Lacan e la critica di Agosti,
nella loro alleanza implicativa nel registro del simbolico, hanno dimostrato le loro percussive potenzialità di “novazione”.11 Tuttavia,
Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di
Andrea Zanzotto, Quodlibet, Macerata 2011. Per una presentazione e alcune considerazioni di
base su questo studio si veda Alberto Russo, recensione di Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche
e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto, in “lettera”, n. 2, 2012, pp. 223-225.
10
Si veda Jacques-Alain Miller, I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001.
11
“[…] scienze dell’intersoggettività, od anche […] scienze congetturali, termine con cui
indico l’ordine di quelle ricerche che stanno facendo virare l’implicazione delle scienze uma9
Zanzotto, la psicoanalisi, il reale
173
l’implicazione della psicoanalisi alla letteratura trova il suo più autentico spazio di esistenza nel vuoto di sapere che il Reale apre in seno
alla struttura, poiché è proprio da quel vuoto plasmante e resistente
al lavoro del significante che può scaturire un sapere inedito.12 Questo
spazio di implicazione si rivela decisivo anche per le finalità più intime
della critica letteraria. Se infatti per la psicoanalisi si tratta di estrarre
dalla letteratura un insegnamento sul Reale, di isolare una pratica di
ben dire attorno o dentro l’assenza del rapporto sessuale, per la critica
si tratta di riuscire a situare le analisi sul funzionamento significante
del testo rispetto a ciò che, in posizione di extimité, ne determina la
singolarità, le divisioni interne e l’inesauribilità.
Cercare un’alleanza con la poesia di Zanzotto in questa dimensione
determina dunque un ribaltamento dell’asse sul quale si costruisce
l’alleanza simbolica: la pietra fondante non sarà più una convergenza
in un medesimo spazio teorico, ma una passione tragica per il non sapere, per l’impossibile, per il vuoto. Occorre cioè ricollocarsi nel senso
più profondo dell’alleanza freudiana con i poeti,13 ovvero mettersi in
ascolto del testo al fine di riconoscervi le tracce di un sapere bottinato
in territori sconosciuti. A guidare in questa ricerca non sarà dunque
un sapere comune tra poeta, critico e psicoanalista, ma una comune
preliminare sospensione di sapere, ovvero un predisporsi del critico e
dello psicoanalista a incontrare l’ignoto fatto esistere dal poeta nel suo
coraggioso avanzare déreglé. Se ci avviciniamo alla poesia di Zanzotto
da questa prospettiva, sentiamo immediatamente che è la sua singolare posizione di poeta, ovvero il suo “titanismo esistenziale e cosmico”14
nei confronti del “ricchissimo nihil”,15 a intrecciare l’affinità profonda
con la psicoanalisi lacaniana. Zanzotto descrive così questa posizione:
Credo che la poesia non debba né creare mondi sghembi rispetto al nostro
né ripetere una realtà che si presume marmificata e codificata una volta per
ne. Ma una tale direzione si manterrà solo grazie a un vero insegnamento, che non cessa cioè
di sottomettersi a quel che si chiama novazione.” (Jacques Lacan, La cosa freudiana, cit., p. 427)
12
Si veda Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Bruno
Mondadori, Milano 2007, p. 37.
13
Si veda Sigmund Freud, Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di W. Jensen (1906), in Id.,
Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. v, p. 264.
14
Franco Fortini, Saggi italiani, Garzanti, Milano 1987, p. 113.
15
Andrea Zanzotto, Da un’altezza nuova, in Vocativo, pps, p. 169.
174
Alberto Russo
sempre: la poesia mi pare piuttosto come un continuo riporto e ricamo: da
invenzione (“dal nulla”) a scoperta (dell’essere-fieri) e viceversa, in una sintesi
dinamica che ha tutti i titoli per apparire come specchio della realtà e insieme
come sua componente “in eruzione”, mentre questo andar oltre dà sempre
nuovo, più profondo senso all’origine e a tutto l’insieme.16
Dobbiamo a questo punto, quale atto preliminare, neutralizzare il rischio di un’ascrizione della poesia di Zanzotto alle esperienze estreme
di poeti come Artaud o Hölderlin, o al paradigma sinthomale di Joyce.
Diciamolo perentoriamente: nonostante il suo oltranzismo fondante,
la struttura della scrittura di Zanzotto resta nevrotica. Il suo esporsi al
reale avviene sempre a partire da un riconoscimento della lingua come
unico possibile luogo di umanizzazione, come luogo del senso e del debito simbolico. Nell’atto poetico di Zanzotto, infatti, il lasciarsi parlare
dalla lingua17 coesiste con una resistenza a “una resa incondizionata
al potere d’attrazione del caos. L’atto intenzionale (cioè affermare o
negare, amare o odiare) è sempre vivo in lui”.18 L’oltrepassamento del
limite è in Zanzotto la condizione inevitabile per cercare un’autenticità
del dire, ma è anche causa di sofferenza, poiché nell’oltranza il soggetto
è costretto a fronteggiare l’“immenso scotoma”,19 a lambire il “gorgo
implosivo”.20 L’esperienza poetica si presenta allora caratterizzata da
un movimento di esplorazione e di ritorno, da un “andirivieni della
tessitura”,21 in cui è la realtà stessa a essere implicata:
il poeta ha già una sua isteria, e non deve coltivarla, ma in qualche modo
superarla, deve riportare la sua “parola” alla “lingua”. Egli, che è per sua
natura “eccentrico”, deve ritessere i fili che lo legano al centro per ricondurre
alle sedi umane la sua esperienza fatta nel deserto: la sua è sempre esperienza
del limite, ma egli ha il compito di arricchire con la terra incognita lo spazio
noto, e di farlo così entrare in ebollizione. Ma il terreno comune, riflesso nella
lingua-norma, non deve essere mai perduto di vista.22
Id., Il mestiere di poeta, pps, p. 1133.
Si veda Id., Qualcosa al di fuori e al di là dello scrivere, pps, p. 1227.
18
Fernando Bandini, Zanzotto dalla “Heimat” al mondo, cit., p. 84.
19
Andrea Zanzotto, Ecloga ix, in ix Ecloghe, pps, p. 257.
20
Id., Ligonàs, in Sovrimpressioni, Mondadori, Milano 2001, p. 15.
21
Id., Profezie o memorie o giornali murali (xiii), in La Beltà, cit., p. 336.
22
Id., Il mestiere di poeta, cit., p. 1125. Si veda anche Id., Intervento, pps, p. 1282.
16
17
Zanzotto, la psicoanalisi, il reale
175
Questa attenzione alla civitas s’incarna soprattutto nel grande tema
della Pedagogia, nel quale precipitano tutti gli interrogativi zanzottiani sul senso della poesia. L’utopia del docente-poeta Zanzotto è quella
di fondare una pedagogia nutrita dalla poesia, intesa come attività
modellata sul non-sapere e sul desiderio, binomio nel quale riporre le
speranze di una trasmissione non menzognera dell’umano. Un umano, mai dato una volta per tutte, per il quale Zanzotto invita a “tener
presente come più che mai l’uomo sia creatore del proprio destino/
volere; l’uomo è sempre in pericolo di regredire enormemente, come
può andare avanti”.23 Incontriamo così un altro tema-problema fondante della poesia di Zanzotto, quello della Norma.
La Norma assume nella poesia di Zanzotto un’irradiazione plurale
di significati interconnessi. Essa è innanzitutto la Legge rappresentata
dal linguaggio, ma è anche la lingua nazionale che sovrasta il dialetto, ovvero l’italiano. Per il diglotta Zanzotto l’italiano è ovviamente,
soprattutto, l’italiano letterario, lingua formatasi nella sedimentazione storica di diversi tipi di convenzione. La bellezza stessa, di cui
la poesia è la realizzazione, è normata, prodotto di poetiche; il reale eccedente della bellezza trova, appunto, il suo doppio simbolico:
la beltà. In ognuna di queste sue declinazioni, la Norma, in quanto
convenzione senza fondamento, costruzione in balìa dei movimenti
insensati della storia, è per Zanzotto il luogo dell’inautentico, della
menzogna, ma è anche il luogo in cui si realizza l’idea dell’umano. Il
movimento di trasgressione nella Norma si attua quindi in Zanzotto
come tentativo di riportare nelle strutture della Norma stessa qualcosa
dell’autentico inumano incontrato nel Reale. In questo passaggio possiamo osservare da vicino la differenza fra la posizione di Zanzotto e
quella di Artaud: il rifiuto in Artaud dell’inautentico, della menzogna
del Padre-Madre, è assoluto e senza compromessi. L’utopia di Artaud
è quella di fare una poesia pura dell’autentico invivibile e inumano
della Cosa. In Zanzotto invece l’accettazione dell’inautentico resta il
gesto primo per rendere possibili la vita, la poesia e l’umano. Impossibile uscire dal simbolico, se non nel gesto del barone di Münchhausen, che si salva dalla palude tirandosi per i capelli.24 Ma altrettanto
Id., Alcune osservazioni dell’autore, in Gli Sguardi i Fatti e Senhal, pps, p. 1536.
Si vedano il finale della poesia Al Mondo, in La Beltà, cit., p. 301, e Jacques Lacan,
Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953), in Id., Scritti, cit., vol. i, p. 256.
23
24
176
Alberto Russo
Zanzotto, la psicoanalisi, il reale
177
obbligato è il confronto con il Reale della Cosa. “Si tratta infatti della
Cosa in quanto è definita dal fatto di definire l’umano – ancorché, appunto, l’umano ci sfugga.”25 L’infondatezza variabile della Norma è
infatti un effetto della presenza ineludibile del Reale senza legge della
Cosa, che la Norma cerca appunto di domare e occultare. Perché la
poesia abbia qualche speranza di farsi luogo dell’autentico non resta
dunque a Zanzotto che trasgredire la Norma, riportando poi ex nihilo
nelle trame della forma effetti rivitalizzanti di Reale.
È una pratica che Zanzotto presenta nel componimento finale di
La Beltà, nel testo programmatico E la Madre-Norma: “E mi faccio
spazio davanti / indietro e intorno, straccio le carte / scritte le reti
di ogni arte, / lingua o linguistica: torno / senza arte né parte: ma
attivante. / E torna, per questo fare, la norma”.26 Questo testo meriterebbe un’analisi approfondita che non possiamo fornire in questa sede. Ci limitiamo qui ad alcune considerazioni rispetto al titolo,
in cui colpisce la scelta di Zanzotto di ascrivere la Norma al lato
materno. Lo spostamento metonimico dall’atto della trasgressione
all’oggetto in cui si realizza la trasgressione (la Madre), e la conseguente proiezione sull’oggetto trasgredito (il Padre-Norma), realizza
una fusione tra significanti di matrice metaforica. Tentiamo di questo doppio movimento figurale due ipotesi interpretative. La prima
riguarda il desiderio del soggetto poetante, che potrebbe tentare di
dispiegarsi nell’erotismo di una singolare libertà poetica destituendo
la Norma, avvertita come rigidamente superegoica, rendendola Madre, dunque suo oggetto originario. Questa prospettiva ermeneutica
troverebbe una conferma nel riuso, nella seconda parte del componimento (vv. 20-26), del classico congedo di canzone (Va’ nella chiara
libertà, / libera il sereno la pastura ecc.) che, come commenta Dal
Bianco, è “rivolto alla poesia stessa”.27 Ma la parola composta che
scaturisce dal doppio movimento impone, in modo più implicativo,
di essere interpretata come una formazione dinamica, nella quale
viene formalizzato il movimento di assimilazione del Reale nelle
forme del dire. Fare della Norma una Madre, ovvero metaforizza-
re la Norma attraverso il focus del “materno”, significa certamente
accentuare gli effetti generativi e creativi della trasgressione. La fusione in un solo significante permette di significare l’operazione di
interazione sincronica tra Reale e senso e l’alterazione strutturale
che ne consegue. Essendo la trasgressione della Norma un modo di
confermarla e di rivitalizzarla, ma anche l’unico modo per tentare
un dire capace di accogliere l’autentico, la Norma diventa luogo di
germinazione, di riproduzione, di rinascita continua, luogo femminile dell’apertura, dell’invenzione singolare, della proliferazione in
devianza.
L’atto poetico, come atto di rottura, realizza l’incontro del significante con il Reale, e apre così nel dire uno spazio di fertilità materno-mortifero in cui può accadere la poesia. In questa prospettiva potrebbero facilmente trovare posto le variazioni zanzottiane su
lalingua (dialetto, petèl, xenoglossia, glossolalia ecc.) come pratiche
di trasgressione linguistica in massima vicinanza alla Cosa (le quali
andrebbero fatte interagire, al fine di poter penetrare in sede di analisi nell’eterogeneità del testo zanzottiano,28 con pratiche significanti
meno intrise di godimento). Si carica allora di senso l’ut pictura poesis
tra il quadro del Guercino e la poesia del Galateo,29 in cui Zanzotto ci
invita a osservare il passaggio di lalingua attraverso e intorno all’EgoTeschio, il quale (come nel quadro Gli ambasciatori di Holbein) è il
simulacro dell’irrappresentabile che infrange, sostiene e rigenera ogni
cristallizzazione convenzionale del senso.
Il suddetto spazio di fertilità dovrebbe però soprattutto dare dimora a quello che si presenta come il problema fondamentale in una
critica del Reale della poesia di Zanzotto: identificare le caratteristiche e
la funzione dell’oggetto Paesaggio nei processi di sublimazione e di strutturazione del testo. Porre al centro della riflessione critica il Paesaggio come
oggetto a potrebbe permetterci di avanzare verso una più profonda
interpretazione dell’atto poetico zanzottiano, la cui grandezza risiede,
lo ripetiamo, nel riuscire a congiungere un’esperienza del Reale con
una strenua ricerca del senso, in una divaricazione in cui si realizza
25
Jacques Lacan, Il seminario. Libro vii. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi,
Torino 1994, p. 159.
26
Andrea Zanzotto, E la Madre-Norma, in La Beltà, cit., p. 348.
27
Stefano Dal Bianco, Profili dei libri e note alle poesie, pps, p. 1516.
28
Sul testo letterario come formazione eterogenea e conflittuale si veda Giovanni Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino 2006, pp. 253
e sgg.
29
Si veda nota 8.
178
Alberto Russo
“il momento di massimo raccordo tra conscio e inconscio”,30 e in cui
la poesia si rivela “come un intrattenibile tic, un’imbastitura vaga, un
mormorio contraddittorio appena al di sopra del nulla, ma prepotente
come la sillabazione di un tutto”.31
“C’è sempre un’assenza che mi tormenta.”
L’artista e la donna in Camille Claudel
Maria Barbuto
Una notte sono scivolata giù dal paradiso
e l’ho rinnegato
da allora ho il cuore che sanguina
Monica Pavani1
1. “le figure pronte a scaturire dalla mia voragine”2
Sono due ragazzi, sul limitare del bosco, là dove si sente solo il rumore
del vento, gli alberi che graffiano, la terra inzuppata dalla pioggia e
le pietre altere, intoccabili. Sono insieme, circondati dall’ombra come
di fronte a una specie di appuntamento: “Ascolta, sto per confidarti
un segreto. Vorrei essere… Vorrei scolpire! Ho visto un libro, delle
statue, sai, come faccio con la terra… Adesso lo so: voglio essere una
grande scultrice!”.3
Sono due ragazzi illuminati dalla luna, un fratello e una sorella,
Paul e Camille Claudel. Di fronte al mondo saranno, rispettivamente,
un poeta e una scultrice.
Camille ama confondersi con la terra, appropriarsi dell’umidità del
fango, affondare i piedi nella sabbia, mentre Paul esclama:
Se ti vedesse la mamma! Sembri un basilisco!
Un che?
Basilisco. È un serpente favoloso il cui sguardo ha la facoltà di uccidere.4
Andrea Zanzotto, Intervento, cit., p. 1281. Su questa divaricazione si vedano anche i
fondamentali concetti di Agosti, “afasia-amnesia” e “verbalizzazione-memoria”, che guidano la sua lettura de La Beltà. Si veda Stefano Agosti, Zanzotto o la conquista del dire, cit.,
pp. 209-218.
31
Andrea Zanzotto, Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo), pps, p. 1319.
30
1
Monica Pavani, Luce ritirata, poema interamente dedicato a Camille Claudel, Premio
Senigallia, Spiaggia di Velluto, La Fenice, Roma 2005.
2
Il titolo dei paragrafi è liberamente tratto dal poema di Monica Pavani, op. cit.
3
Anne Delbée, Una donna chiamata Camille Claudel (1982), Longanesi, Milano 1988, p.
19.
4
Ivi, p. 18.
180
Maria Barbuto
“C’è sempre un’assenza che mi tormenta.”
181
Lo sguardo. Camille. Il fratello Paul non ha mai visto occhi più belli.
Occhi che brillano sotto la luna, selvaggi, sempre cangianti. Sono blu,
a volte viola o verdi, sono intensi, pieni di una vibrazione che va dritto
al cuore. Paul pensa che gli occhi di Camille sappiano guardare. Lei è
lo sguardo, imprendibile, fuggitivo, che Paul incontra e che non smetterà di inseguirlo, dentro l’animo, così come dentro le parole, nella sua
poesia: “Ci sono i suoi occhi che brillano come quelli di un gatto”.5
2. “scolpire è pensare la luce resistente al marmo”
Camille Claudel scultrice: una storia in cui si scrive un talento precoce, trent’anni dedicati esclusivamente alla scultura ma, anche,
trent’anni di vita in manicomio che decretano la fine del suo genio
artistico.
Entra in manicomio a quarantanove anni, qualche giorno dopo la
morte del padre, l’unico nella sua famiglia ad avere sostenuto il talento
della figlia che si era manifestato fin dagli anni della fanciullezza.
In un momento in cui durante gli anni del lungo e definitivo ricovero veniva spinta a fare della scultura senza riuscirvi, confida in una
lettera al fratello Paul che il pensiero la riporta alla madre, che non
ha visto mai più dal giorno del suo ingresso in manicomio: “Penso a
quel bel ritratto che le avevo fatto all’ombra del nostro bel giardino. I
grandi occhi in cui si leggeva un dolore segreto […]”.6
In effetti, “il dolore segreto” della madre determinerà il posto destinato a Camille: essere l’usurpatrice. Per la madre Camille aveva la
colpa di aver usurpato il posto del primogenito, Charles-Henri, cui era
rimasta visceralmente legata a causa della sua precoce e tragica perdita, avvenuta quindici giorni dopo la nascita. La donna, che avrebbe
quindi desiderato un maschio, non voleva riconoscere l’arrivo di questa
bambina, che al momento della nascita fu accolta solo dalle braccia
della governante, mentre lei volgeva altrove lo sguardo, nel silenzio più
oscuro. Di fronte al suo primo Altro, la piccola Camille incontra quindi
un’assenza, un vuoto di parole, l’equivalenza di un rifiuto.
Camille nasce così, senza una parola e senza uno sguardo che le riconoscano un posto di soggetto. Quello sguardo precluso al suo riconoscimento, primo ostacolo per il suo accesso al simbolico, ritornerà
nelle sue opere con variazioni diverse, spesso sotto forma di vuoto, di
sguardo eliso, indeterminato, o sotto forma di sguardo accecante, invasivo, come quello di Medusa a cui Camille dedicherà una bellissima
opera dal titolo Persée et la Gorgone (1910, Fig. 1).
In tutti i casi, il rifiuto incontrato diventa materia di una devastazione madre-figlia senza limiti, presagio “che un giorno l’una metterà a
morte l’altra […]. Camille ha tredici anni, ma tutto ciò la soffoca: non
capisce come si possa venire dopo qualcuno”.7
L’assenza di calore e di desiderio da parte della madre, che sperava
di ritrovare al posto di Camille un nuovo figlio maschio in grado di
sostituire quello perduto, la lascia sola come di fronte a uno specchio
vuoto. Privata di quel riconoscimento simbolico in grado di mettere
la sua esistenza in rapporto al desiderio dell’Altro, la piccola Camille
si trova a occupare un posto totalmente ingombrato dal fantasma del
fratello morto.8
Philippe Claudel, Le Soulier de satin (1925), Gallimard, Paris 2000, p. 167.
6
Reine-Marie Paris, Camille Claudel. Frammenti di un destino d’artista (1984), Marsilio,
Venezia 1989, p. 110.
Anne Delbée, op. cit., p. 40.
La lettura data da Massimo Recalcati alla vita e alle opere di Vincent Van Gogh
nel bel libro Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh (Bollati Boringhieri, Torino 2009)
evidenzia, in modo significativo, la similarità delle vicende biografiche di Vincent
Fig. 1 – Camille Claudel, Persée et la Gorgone
7
5
8
182
Maria Barbuto
Fin da subito, dunque, è confrontata con l’indegnità, con il suo non
poter neanche essere all’altezza di occupare il posto del fratello scomparso e, in un parallelismo fortemente evocativo della storia di Van
Gogh, anche per lei è una lapide a farle da specchio. In uno strano
gioco di destini incrociati, anche Camille sarà destinata a essere “parassitata da un’immagine ideale che non l’abbandona e che sovrasta
la sua esistenza”.9
Al posto di quello che lei avrebbe potuto essere nel desiderio dell’Altro le risponde un vuoto, un silenzio che la paralizza, “sa già che agli
occhi del mondo sarà eternamente la triste eco dell’essere amato”.10
Questa immagine dell’eco in quanto parola che sfuma, che viene da
lontano, udibile solo nella risonanza, sanziona la distanza tra Camille
e il mondo, distanza incolmabile, frattura innominabile, muta, tranne
quando Camille scolpisce.
Scolpire è fare emergere dalla materia grezza una forma, creare un
volume attraverso un processo di scavo, di svuotamento, che dà corpo
e luce all’oggetto. Il primo lavoro fatto dalla giovane Camille per Rodin, appena arrivata nell’atelier del maestro, fu la forma di un piede.
Dettaglio interessante se si pensa che Claudel significa claudicante e
che Camille stessa era leggermente affetta da una simile andatura. Il
piede scolpito, restituito alla forma perfetta, è offerto allo sguardo di
Rodin, sguardo che, a differenza di quello materno, ha per la giovane
allieva una funzione evidentemente “ortopedizzante”.
L’esigenza di scolpire fu per Camille talmente forte, talmente imperativa, da imporsi sopra ogni cosa. Ben presto diventerà il punto cardine
intorno al quale farà ruotare la sua intera esistenza, fino a determinare
il trasloco dell’intera famiglia a Parigi dove, con lo scopo di formarsi
e approfondire i suoi studi, incontrando Auguste Rodin incontrerà il
maestro ma anche l’uomo con il quale condividerà la passione per la
scultura e le vicissitudini di una controversa vicenda sentimentale.
Camille diventerà l’allieva ma anche la collaboratrice, la modella,
l’amante di Rodin, nel corso di una lunga vicenda in cui si intrecceranno la vita professionale e quella affettiva, con ambiguità e bagliori
e Camille, anche nel destino che accompagnerà la loro vita e la loro supplenza artistica.
9
Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, cit., p. 36.
10
Anne Delbée, op. cit., p. 41.
“C’è sempre un’assenza che mi tormenta.”
183
che si spegneranno definitivamente negli anni che precedono il ricovero di Camille nel manicomio di Ville-Evrard a partire dal marzo
1913.
Nel momento della fioritura del loro incontro amoroso, la scultura
di Rodin si apre al lirismo e a una sensualità non sperimentati prima,
in un nuovo ciclo in cui emergono opere come L’Eternelle idole, La Danaide, per la quale Camille sarà la modella, e poi ancora Les Sirènes, Le
Baiser. Il volto e il corpo dell’amata ritornano nelle sculture dal titolo
La Pensèe, L’Aurore, St. George e in numerosi ritratti.
Proprio durante questo periodo Camille afferma d’improvviso il
suo stile, uno stile la cui impronta era già presente nel busto del fratello Paul, scolpito a soli sedici anni nel 1884. Solo più tardi, dimostra un
interesse particolare per l’arte giapponese che scopre quando si separa
da Rodin, e di quest’arte diviene una sostenitrice a Parigi.
Alla fine del 1888, Rodin aggiunge ai suoi luoghi di lavoro La Folie
Neubourg, in boulevard d’Italie, una sontuosa dimora classica circondata da un enorme giardino ma in condizioni rovinose; questo luogo diventerà la sede privilegiata dei loro incontri. Non si sa con precisione
se Camille sia stata, già all’epoca, dotata di una sufficiente autonomia
personale per potervi convivere con il maestro.
In quel periodo lei diventa certamente la più importante collaboratrice di Rodin, per il quale esegue diversi lavori ottenendo anche
dei compensi finanziari. Si sa, inoltre, che Rodin le affidava spesso la
scultura delle mani e dei piedi in opere che lui stesso creava e, conoscendo l’importanza che Rodin attribuiva alle mani, queste committenze mostrano un’indiscussa fiducia del maestro nei confronti del
talento di Camille.
Nel 1887 i due fanno un primo viaggio in Touraine dove scoprono lo Château de l’Islette a Azay-le-Rideau, che diventerà una delle
tappe più note della loro vicenda amorosa, con i soggiorni presso la
dimora di Madame Courcelles.
Gli incontri in Touraine cesseranno nel 1894 e ci introdurranno a
uno dei misteri della vita di Camille: non si sa, infatti, se proprio qui
Camille abbia nascosto delle gravidanze e abbia avuto dei figli da
Rodin o, piuttosto, vi sia rimasta convalescente in seguito a un aborto
difficile. Sono di quest’epoca La convalescente e L’Adieu (1892) ma anche
la composizione di un meraviglioso volto di bambina dallo sguardo
sperduto, La Petite de l’Islette o anche Jeanne enfant (1893).
184
Maria Barbuto
“C’è sempre un’assenza che mi tormenta.”
185
che comincia e il bacio che finisce? Sembra che danzino, forse vacillano, insieme, quasi già separati.11
Fig. 2 – Camille Claudel, Amants
Certo è che il loro rapporto comincia a deteriorarsi a partire dal 18921893: Camille si sentiva utilizzata da un maestro opportunista che
teneva nell’ombra il suo talento artistico. Inoltre, in conflitto con la
compagna di Rodin, Rose Beuret che, vedendosi minacciata dalla presenza della rivale diventava sempre più aggressiva, Camille comincia
a veder naufragare il suo legame col maestro.
Prima di questo momento fatale, che funzione poteva avere per
Camille il sentirsi in coppia con Rodin?
3. “sola, la porta aperta sull’inferno”
Camille fanciulla rimane rapita da una scultura in cui veniva rappresentato l’abbraccio tra un uomo e una donna.
L’immagine le si impone, ci sono le pietre che la guardano, le scruta, si fa guardare:
Di fronte, felici, abbracciati, gli amanti. La pietra spaccata in due, è come
attorcigliata. La fanciulla si domanda spesso: si separano, si ritrovano? Perché
chi può dire, se si ferma il movimento in quell’attimo, la differenza tra il bacio
Questa immagine fornisce emblematicamente le coordinate del
destino di Camille, creatura impossibilitata a trovare una scrittura
dell’amore tanto quanto quella del suo essere donna.
Ancora adolescente le rimane vuoto di significato il legame della
coppia coniugale e non riesce a formulare alcun interrogativo utile
a orientarla nel registro del desiderio: “Camille si è fermata: come
possono vivere insieme padre e madre? Che orrore il matrimonio! Il
solo pensiero le fa disgusto: pensa al grande letto senza poter capire.
Ecco, lei è nata da costoro […]”.12
Se l’accesso alla sessualità avviene tramite un trattamento simbolizzato del reale sessuale, per Camille questa operazione rimane abitata da
un vuoto e l’identificazione su cui costruisce la sua supplenza di fronte
all’inefficacia del registro simbolico farà sì che la “scultrice” prenda il
posto impossibile della “donna”.
Ogni donna è segnata da una profonda divisione tra l’essere un soggetto inscritto nel linguaggio e la sua singolarità di donna che, in quanto
tale, attinge a un al di là rispetto al campo dei significanti. Questo al di
là, terra di confine avvolta d’indicibile, la rende assolutamente Altra,
aliena rispetto al fallo, esposta all’eccedenza di un godimento supplementare al campo del linguaggio. Quest’ultimo impone a ciascuna la
necessità di fronteggiare, accanto a questo supplemento, l’inesistenza
del significante che la rappresenti. Per ogni donna si tratta, dunque, di
imparare a incontrare un vuoto, un’assenza, una figura del das Ding.
È perciò nella natura femminile saper attingere alla sublimazione per
incarnare questa intimità straniera, e l’amore può essere un modo significativo per arginare la terra senza nome del godimento Altro, per incanalare l’eccesso, la vicinanza del das Ding e dare forma al vuoto. Infatti
essere “la donna di un uomo”, posizione che assegna un ruolo attraverso
l’amore, è senz’altro un nome importante dell’identificazione femminile.
Ma l’intreccio e la sinergia tra il posto della donna e quello dell’artista
sarà segnato per Camille da un destino infausto proprio a causa della
sua psicosi e in conseguenza del suo legame travagliato con Rodin.
Ivi, p. 16.
Ivi, p. 21.
11
12
186
Maria Barbuto
Ciò che, infatti, renderà fragile la sua supplenza artistica ha a che
fare con il momento in cui la posizione femminile emerge nella sua
differenza rispetto a quella dell’artista, ne allenta il legame che può
funzionare solo a patto di un annodamento tra la “donna” e la “scultrice”, come effetto dell’unione con il maestro-amante-scultore.13
Incontrando Rodin, Camille incontra il suo sogno, il suo doppio
speculare, con tutto il carico minaccioso che il doppio speculare può
incarnare come Lacan ci ha segnalato a proposito del caso di Aimée
nella sua tesi di dottorato.14 Aimée coltiva l’idea di essere una donna
di lettere e di successo come l’attrice, molto nota al pubblico, che lei
stessa un giorno accoltella per strada in preda a un delirio di persecuzione, attrice che Aimée aveva inconsciamente messo nel posto di
un ideale da emulare. Un ideale che ha le caratteristiche destabilizzanti del doppio che può manifestarsi all’improvviso sotto la forma di
un’estraneità minacciosa.
Di fatto Camille, al posto di colpire Rodin, il doppio che ritorna
con il carattere unheimlich, nel momento culminante della sua psicosi
distruggerà le sue sculture a colpi di martello: corpi smembrati, frantumati in mille pezzi, teste, braccia, piedi e mani, i dettagli corporei
che Rodin le faceva scolpire, staccati dal corpo, ridotti in macerie.
Rodin sarà il punto focale del delirio persecutorio di Camille.
Avvicinandosi a Rodin come uomo, divenendone l’amante, Camille
aveva potuto andare incontro alla realtà sessuale solo a condizione che
essa potesse essere ricoperta dal significante dell’artista. Nell’assoluta
specularità immaginaria del rapporto col maestro, Camille fa il tentativo di annodare insieme i due litorali, l’indicibile dell’essere donna e
il suo potersi dire nell’opera in quanto artista.
Purtroppo, l’impossibilità di un legame stabile tra i due che le riconosca un posto nella coppia, rendendo sempre più fragile la sua
costruzione, sarà motivo dell’incalzare dello scatenamento e l’emergenza del significante della donna in opposizione a quello dell’artista
solleciterà l’incrinatura della costruzione fatta per tamponare il vuoto
della significazione fallica.
13
Si veda Francesca Biagi-Chai, Camille Claudel, deux suppleances?, in “Bibliothèque confluents”, supplemento al n. 19 di “Confluents”, Association freudienne Île-de-France, Ville
Evrard 1996.
14
Jacques Lacan, Il caso Aimée o la paranoia di autopunizione (1932), in Id., Della psicosi
paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Einaudi, Torino 1980.
“C’è sempre un’assenza che mi tormenta.”
187
Supplenza simbolica e compensazione immaginaria15 hanno funzionato per Camille per tamponare il vuoto della metafora paterna.
Se la supplenza simbolica si esprime nel lavoro della scultura dove
Camille produce una sua realizzazione sociale, un suo stile, un suo
prodotto dotato di un valore riconoscibile, Rodin rappresenta, sul
piano della compensazione immaginaria, l’ideale con cui fare Uno.
Ciò avviene in un rapporto di condivisione passionale per la scultura, rapporto fatto di comunione spirituale ma anche di spinte erotiche e amorose che segneranno il declino della supplenza artistica
stessa.
È proprio in questo scorgersi come donna accanto a Rodin, fatalmente scartata in favore della vecchia compagna del maestro, che
Camille incontra l’inconciliabilità dell’artista e della donna. È proprio
nell’impossibilità di fondere insieme i due significanti, nella non-corrispondenza assoluta tra l’opera e la donna, che si interrompe tragicamente l’estasi dell’Uno.
Quindi, nella faglia aperta tra l’ideale artistico e la frustrazione legata allo scacco amoroso, si apre la voragine di una pericolosa dissimmetria tra il suo essere artista e il suo essere donna che determinerà lo
scatenamento della sua psicosi.
In una lettera del 1892 scrive, dal soggiorno in Touraine, quella
che a tutt’oggi è la sola lettera intima nei confronti di Rodin di cui
abbiamo testimonianza:
Dato che non ho nulla da fare vi scrivo ancora. Non potete immaginare come
il tempo sia bello all’Islette. Oggi ho fatto colazione nella sala di mezzo (quella
che funge da serra e da dove si può vedere il giardino da ambo le parti).
M.me Courcelle mi ha proposto (senza che io glene parlassi, ve l’assicuro)
che, se ciò vi farà piacere, vi potrete far colazione quando lo vorrete o se
preferite anche sempre (credo ne abbiate un gran desiderio). È così bello là!
Ho passeggiato nel parco, tutto è falciato, fieno, grano, avena, si può farne
il giro, è molto piacevole. Se sarete così gentile da mantenere la vostra promessa noi, qui, guadagneremo il paradiso. Avrete la camera che volete per
lavorare e io credo che avrete la vecchia ai vostri piedi.
Mi ha detto che posso fare senza rischi il bagno nel fiume, come sua figlia e
la sua governante; con il vostro permesso lo farò e ciò sarà un grande piacere,
Si veda Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, cit., p. 41.
15
188
Maria Barbuto
“C’è sempre un’assenza che mi tormenta.”
189
mi eviterà di andare ai bagni caldi di Azay. Sareste così gentile da comperarmi
un piccolo costume da bagno blu scuro con guarnizioni bianche? Lo vorrei
in due pezzi: blusa e pantaloni (taglia media). Lo troverete al Louvre o al Bon
Marché (in sargia) oppure al Tours.
Dormo nuda per credere che voi siate qui, ma quando mi sveglio non è più
la stessa cosa. Soprattutto non mi ingannate più.16
“Noi, qui, guadagneremo il paradiso”: in queste parole, Camille mostra
che l’approssimarsi di Rodin assume per lei un valore assoluto. Ma il
“paradiso” sarà presto perduto perché il luogo della beatitudine, dal
momento che il significante della donna e quello dell’artista disgiungeranno i loro destini, coinciderà con lo svelamento delle tenebre e, infine,
con l’irrimediabile frantumazione del suo essere e delle sue opere.
Di fatto, la supplenza che Camille si era inventata per tamponare
la forclusione della funzione paterna dimostra un suo primo vacillamento nel momento in cui, dopo il trionfo di Rodin all’Esposizione
universale del 1889, decide di separarsi da lui. Si allontana, si isola,
decide di lavorare “per se stessa”.
In quegli anni comincerà ad avere una serie di sue personali frequentazioni, durante le quali incontrerà il musicista Claude Debussy
col quale condividerà una passione che coinvolse molto di più il cuore
del giovane compositore che il suo, forse eccessivamente occupato
dalle sue problematiche con Rodin.
Robert Godet, scrittore e critico svizzero, descrive così i due artisti
che incontrava regolarmente: Debussy, al piano, suonava i suoi pezzi,
Camille ascoltava silenziosa e rapita. Sembra che Camille, sensibile
all’arte giapponese, abbia coinvolto anche Debussy attraverso la Mangua di Hokusai.
È difficile stabilire la natura del loro legame; all’epoca il pianista
vive con Gabrielle Dupont che è stata per molti anni la sua compagna. Certo è che a partire dal 1891 i due artisti cessano di incontrarsi,
senza che se ne possa conoscere la ragione. Ecco cosa scrive Debussy
in una dolorosa lettera indirizzata a Godet nel 1891:
Ah! L’amavo veramente, e in più con ardore triste poiché sentivo, da segni evidenti, che mai lei avrebbe fatto certi passi che impegnano tutta un’anima e che
Lettera (22 giugno 1892) dall’Archivio del Museo Rodin, Parigi.
16
Fig. 3 – Camille Claudel, La Valse
sempre si manteneva inviolabile a ogni sondaggio sulla solidità del suo cuore!
Ora resta da sapere se lei contenesse tutto ciò che io cercavo! E se ciò non fosse
il nulla. Malgrado tutto, piango sulla scomparsa del Sogno di questo Sogno.17
Sembra che Debussy abbia conservato, per sempre, fino alla sua morte, sul caminetto del suo studio, la scultura di Camille intitolata La
Valse (la prima versione in gesso, andata perduta, è del 1898; la versione in bronzo è del 1905).
Sono gli anni in cui Camille, senza chiudere definitivamente con Rodin, interrompe la sua coabitazione e si ritira nella sua casa situata
in boulevard d’Italie. Ha circa trent’anni e Morhardt, suo amico e
suo critico, la descrive parecchio attratta dallo spettacolo della vita
quotidiana nelle strade.
Nelle ore in cui non scolpisce girovaga, osservando la gente che
incontra per strada e fa delle lunghe visite al Museo del Louvre o al
Museo Guimet. In questo periodo di solitudine pare che abbia accu Anne Delbée, op. cit., p. 35.
17
190
Maria Barbuto
mulato numerosi schizzi che riproducono la quotidianità dei gesti,
frutto delle sue osservazioni rivolte ai passanti o ai lavoratori. La sua
ricerca si orienta verso una scultura di piccole dimensioni dalle suggestioni psicologiche e le sue opere appariranno coperte da drappeggi in
opposizione a quelle di Rodin, contraddistinte dal nudo integrale. Il
dettaglio dei drappeggi mostra la necessità di “vestire” l’opera e sembra avere, da questo momento, una particolare funzione nel “tenere
insieme” le sue sculture, indice che la supplenza artistica comincia a
vacillare nello stesso momento in cui le sue creazioni evocano l’idea di
un corpo coperto, come sul punto di andare in frammenti.
In una scena del film dedicato alla sua vita,18 mentre Camille (interpretata dall’attrice Isabelle Adjani) sta lavorando di fronte a un
modello e, poco più che fanciulla, comincia a sviluppare il suo talento,
ecco che cosa le suggerisce Rodin (interpretato da Gérard Depardieu):
“Avete compreso la testa e il collo ma non avete trattato il corpo […].
Il corpo umano è un mondo che freme, che palpita, è la vita […]. Voi
avete l’audacia necessaria per poter scolpire un uomo nudo, ma voi
nascondete il suo corpo”.
Nel momento in cui la collaborazione con Rodin si è allentata, anche l’affetto si tramuta in odio e, in preda alla disperazione, Camille
pensa di essere stata depredata della sua energia vitale e del suo genio
artistico. Comincia a non tollerare più di essere considerata l’allieva di
Rodin, sebbene questo potesse risuonare come un elogio.
Presa in un crescente disordine mentale rifiuta nel 1902 di esporre
a Praga per il fatto di non voler vedere le sue opere esposte vicino a
quelle di Rodin. Perciò mentre di fronte al mondo Rodin vedeva crescere la sua fama, Camille sprofondava sempre di più nelle tenebre
delle sue ossessioni e della sua solitudine.
La rottura del legame narcisistico-speculare con Rodin spingerà
sempre di più Camille verso la solitudine e verso l’esilio dal mondo
dell’arte, finché le sue sculture distrutte da lei stessa, ridotte a brandelli, non potranno più funzionare come argine all’assenza del Nomedel-Padre, ma incomberanno come una feroce minaccia, qualcosa di
terribile, persecutorio, unheimlich, di cui doversi disfare senza pietà. La
forma creata ritornerà a essere polvere, frammento inerte sottratto
all’insieme della composizione, materia morta.
Camille Claudel, regia di Bruno Nuytten, Francia 1988.
18
“C’è sempre un’assenza che mi tormenta.”
191
Dal momento dello scatenamento psicotico, la scultura non sarà
più per Camille il bello che copre l’informe, non più un’operazione
sul vuoto della Cosa,19 ma un’eco lugubre del reale che incombe con
tutto il suo carico di angoscia e di morte.
“C’è come un’assenza che mi tormenta” non è forse, nelle parole
di Camille, il presagio melanconico che il vuoto, trattato con il velo
dell’immagine scultorea, ritorni a essere nucleo informe, buco nero,
abisso tormentoso incapace di arginare la voragine della Cosa?
Una vena malinconica percorre molte delle sue sculture, in particolare quelle intitolate Sakountala (1888) e Le Dieu envolé (1907), appartenenti al gruppo scultoreo intitolato L’Âge mûr che può essere considerato il suo capolavoro. La visione bronzea di Sakountala è nota anche
con il significativo titolo di L’Abandon. Fu presentata nel 1888 al Salon
des Artistes français e poi segnalata con una menzione speciale che
costituisce il primo (e quasi unico) riconoscimento ufficiale ottenuto
da Camille.
La fonte d’ispirazione è tratta dalla leggenda della ninfa Sakountala
che cerca il suo sposo, scomparso in seguito a un malefico sortilegio. La trama letteraria è desunta dal dramma dell’antico poeta indù
Kalidasa. La composizione immortala l’epilogo della vicenda con il
ritrovamento dello sposo perduto e l’incontro amoroso. Viene fissato
il momento dell’abbraccio che richiama l’attenzione sul particolare
intreccio dei volti.
L’unico occhio che appare nell’insieme scultoreo elide lo sguardo
perché appare chiuso. È l’occhio dell’uomo, tratteggiato dalla palpebra abbassata, che cancella lo sguardo e fa ricordare le immagini del
Buddha dove si conferma, nella fenditura della palpebra che sottolinea l’oblio dello sguardo, la forza di fascinazione dell’occhio.
L’impressione è che tutta la composizione ruoti intorno a questo
punto di elisione dello sguardo che connota l’opera di una marcata
impronta di misticismo.
La scultura intitolata L’Âge mûr ha contemplato un lungo e travagliato iter di trasformazioni e modifiche successive, a testimonianza
anche del percorso biografico di Camille. Quest’opera testimonia del
momento dell’allontanamento da Rodin.
19
Si veda su questo tema Massimo Recalcati, Lavoro del lutto, melanconia e creazione artistica, Poiesis, Alberobello (Bari) 2009, p. 31.
192
Maria Barbuto
“C’è sempre un’assenza che mi tormenta.”
193
Camille traspone il suo dolore nell’allegoria formata da tre figure,
un uomo e due donne. Anche qui una giovane donna inginocchiata,
presentata poi anche separatamente con il significativo titolo di Le
Dieu envolé (nota pure come L’Implorante), è protesa verso l’uomo che
cerca di trattenere presso di sé afferrandone la mano. Ma è un gesto
vano, l’uomo è ormai indirizzato verso un’orrida figura femminile che
sembra assumere le sembianze della morte.
Fig. 4 – Camille Claudel, L’Abandon
Fig. 5 – Camille Claudel, Le Dieu envolé
Nel 1905 il suo delirio è ormai conclamato, come evidenziano anche
le lettere scritte al fratello Paul. Rodin è il suo persecutore, si è servito
di lei, arriva a non distinguere più le sue opere da quelle prodotte
da Rodin. La sua famiglia di certo non l’aiuta e la sua presenza nella casa di Villeneuve è, di fatto, sgradita: “sua madre, che misura
l’estensione della sua disgrazia di educatrice austera, la subissa di
rimproveri e la condanna. La sorella Louise, di natura poco incline
all’indulgenza, e che non aveva mai guardato senza dispetto ai successi della sorella a Parigi e allo sbocciare delle sue qualità, trionfa”.20
La separazione dal fratello Paul, assente dall’Europa tra gli anni
1895-1909, con il quale Camille mantiene una costante confidenza, è
stata un fatto determinante nel culmine della sua malattia; solo il padre le mandava, di nascosto, del denaro. La sua ultima mostra presso
Eugène Blot è del 1907, dopo non farà più apparizioni pubbliche e
non incontrerà più i suoi amici.
Inizia per lei un lento suicidio culminato nella distruzione delle
sue opere, dei suoi amori, dei suoi amici e dei suoi affetti familiari.
Dal manicomio dove, per volontà della famiglia, verrà internata
per trent’anni anche a dispetto del parere dei medici curanti che non
ritenevano i suoi disturbi tali da dover richiedere questo trattamento,
Camille scrive diverse lettere a sua madre, a suo fratello, alla sua amica Marie Paillette, a Eugène Blot. In esse domanda spesso di poter
lasciare il manicomio, lo domanda con rassegnazione più che con
rabbia, chiede un ritiro solitario a Villeneuve, non chiede di riprendere né la vita sociale né la sua attività artistica. Sembra avere abdicato
a se stessa e alla vita. Chiede solo un po’ di silenzio e accetta la sua
condizione senza opposizioni.
Ivi, p. 50.
20
194
Maria Barbuto
Morto Rodin, il nemico di Camille diviene sua madre. Louise
Claudel, da donna austera e di vecchi principi, non accetta mai la
vita di Camille, che considera essere dissoluta, e non vuole mai comprendere i conflitti che tormentano la figlia. Una volta adempiuto
al suo ruolo tradizionale di madre si sente con la coscienza a posto
e ritiene che non sia compito suo occuparsi di un essere tanto incomprensibile come Camille. Eppure, malgrado la violenza dell’abbandono subìto, Camille spera vivamente di ritornare nella casa
paterna.
Il fratello Paul è stato l’unico a rispondere quasi sempre ai suoi
appelli e nel settembre del 1943 attraversa la Francia occupata, per
poter rivedere un’ultima volta la sorella, le cui condizioni si erano
aggravate ormai da un anno.
Camille muore nell’ottobre del 1943 come una vecchia sconosciuta e in totale miseria. È sepolta nel cimitero di Montfavet, nella parte
riservata al manicomio di Montdevergues. Finita la guerra suo nipote
cerca di portare il suo corpo nella tomba di famiglia ma è impossibile
ritrovarne le tracce, scomparse nell’anonimato. Di lei rimane una
pietra commemorativa nella chiesa di Villeneuve, sopra la tomba dei
Claudel-Massary.
Esiliata da un desiderio vitale fin dal suo ingresso nel mondo, ridotta in rovina come le sue opere, Camille si accomiata dalla vita senza lasciare traccia, senza nome, senza memoria, senza lapide, senza
una degna sepoltura, come uno scarto del mondo.
Ma qualcosa della memoria rimane in ciò che è sopravvissuto alla
lacerazione del suo nome nella sua opera.
La storia e il destino di Camille Claudel ci spingono a interrogarci sul nodo tra amore, arte e follia nel soggetto femminile. Tra
l’essere una donna ed essere un’artista, per Camille, nessun compromesso è stato possibile, nessuna mediazione, nessuna scelta.
Nessuna possibilità di dialettizzare i due versanti che il destino di
ogni donna incontra per il fatto di essere non-tutta sotto il dominio del significante fallico. Sparire come donna ha coinciso, per lei,
con lo sparire come artista, entrambe le polarità furono destinate alla devastazione, si cancellarono a vicenda. Nessuna delle due
sopravvisse all’altra, indice forse che qualcosa più che opporle le
legava inesorabilmente fino alla morte. Certo è che, al di là della
distinzione che possiamo porre tra la donna e l’artista, il godimen-
“C’è sempre un’assenza che mi tormenta.”
195
to femminile si avvicina alla Cosa tanto quanto l’arte la contorna
nella creazione. Questi due momenti hanno un punto di congiunzione nell’ex-nihilo e ci conducono a una riflessione importante sui
destini della sublimazione legati alle vicissitudini della posizione
femminile.
Il linguaggio non mi ama
solo il marmo aveva in me fissa dimora
sapevo dire senza parole,
ma da molti anni qui
è un silenzio che rinnega le forme.21
Monica Pavani, op. cit., p. 48.
21
La compassione che il godimento domanda
La compassione che il godimento domanda
Angelo Villa
A Parpar
Occorre essere assolutamente moderni, sentenziava Arthur Rimbaud.1 “Il faut”, recita nel testo originale francese: come intendere
quel monito? Una via potrebbe essere quella di interpretarlo in chiave superegoica, imperativa. Un’altra, forse, potrebbe essere quella di
ricondurlo a quell’idea di necessità così cara a Freud, spesso rievocata
nella sua terminologia greca (Anánke), presupposto logico e ineludibile
di un passaggio che, lo si voglia o meno, s’impone al soggetto. Un’impellenza inderogabile con cui è chiamato a fare i conti e che non può
non palesare una dimensione crudamente traumatica, nel senso più
profondo ed esteso del vocabolo. Traumatica non è solo la nuda irruenza pulsionale, orfana di qualsivoglia simbolizzazione, che devasta
un individuo; traumatico è anche l’impatto con nuovi linguaggi, con
differenti forme espressive e di legame sociale, dove i tre registri reperiscono forme inedite di annodamento.
È impossibile, di conseguenza, non supporre che il moderno non
possa non veicolare, a sua volta, una sua traumaticità. D’altronde, lo
stesso rinvio alla modernità dà sintomaticamente prova, nella vana
ricerca di un significato che la definisca, della precarietà che l’attraversa. Modernità e postmodernità, modernizzazione e occidentalizzazione (westernization) sono di fatto utilizzati come sinonimi, senza
che, come puntualizza Hamadi Redissi,2 il loro contenuto normativo
sia veramente determinato né realmente interrogato. È il cane che si
morde la coda, l’inquietudine che si aggiunge all’inquietudine, senza
che appaiano all’orizzonte lampi di chiarezza in grado di dare tregua
o conforto alle ansie che assillano gli individui in questa particolare
fase storica.
Dal canto suo, tuttavia, nel 1927, Freud invitava opportunamente i
suoi simili a sospendere qualsiasi giudizio frettoloso sull’attualità: “gli
uomini vivono il loro presente in modo per così dire ingenuo, senza poterne valutare i contenuti”,3 scriveva. Meglio sarebbe, dunque,
aspettare, trattenersi, non essere troppo precipitosi e, quindi, inevitabilmente schematici o unilaterali, ammoniva prudentemente Freud:
bisogna attendere che il presente divenga passato per poter trarre
punti fermi in base ai quali giudicare il futuro. L’ingenuità, del resto, è
forse solo il rovescio speculare del ritrarsi fobico, un’identica strategia
differentemente articolata che ha il suo punto in comune: non volerne sapere dell’Altro, di chi è, della sua domanda e, forse, anche della
propria. L’ingenuo si affida, il fobico diffida. Il risultato non cambia.
Faticoso, comunque, seguire il consiglio freudiano, districarsi o
prendere la giusta misura dinnanzi alle insidie della contemporaneità
o, anche solo, alle sue sollecitanti sirene. Il quadro d’insieme è spesso
nebuloso o in costante mutamento. O, forse, così sembra… Si aggiungano due ulteriori elementi destinati a rendere ancor più faticosa la
percezione di quanto stia realmente segnando la vita psichica degli
individui e delle collettività umane in quest’epoca. Il primo, di matrice
freudiana: più volte, il maestro viennese sottolinea il carattere conservatore, regressivo, potremmo dire antimoderno, proprio della pulsione, teso cioè “alla restaurazione di uno stato di cose precedente”.4 Il
secondo elemento è, invece, inconfondibilmente lacaniano: non di
rado Lacan ha ribadito quanto poi, al fondo, poco o nulla sappiamo
di quel che effettivamente sia successo nel passato.
Oggettivamente, la questione non è semplice. Sia in sé sia per sé, in
virtù della ridondante amplificazione che i mass media ne forniscono,
Hamadi Redissi, L’Exception islamique, Seuil, Paris 2004, p. 19.
Sigmund Freud, L’avvenire di un’illusione (1927), in Id., Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. x, p. 436.
4
Id., Al di là del principio di piacere (1920), in Id., Opere, cit., vol. ix, p. 223.
2
3
1
Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno (1873), in Id., Opere, Feltrinelli, Milano 1964,
p. 243.
197
198
Angelo Villa
quotidianamente, in dosi massicce, senza, peraltro, permettere di ben
comprendere quanto siano la causa in luogo dell’effetto del fenomeno
che si incaricano di denunziare. È in rapporto a questa traumaticità (effettiva? indotta?) che, talvolta, il pensiero stesso si trasforma in
ideologia, come se, in forma difensiva, tentasse di recuperare la sua
padronanza su quel presente che ne mette in crisi tanto le certezze
quanto gli assunti di base su cui era solito fondarsi. L’intuizione dello
spaesamento che l’attuale situazione induce è del tutto parallela a
quella che causa l’impatto con una realtà che, forse, a torto o a ragione, appare più complessa di quella precedente, caratterizzata (ma è
proprio vero?) da un rapporto meno lineare tra la rappresentazione e
l’oggetto rispetto al passato.
Se il moderno, o qualsiasi processo storico considerabile sotto questa etichetta, genera una situazione potenzialmente traumatica, ciò
non per forza dovrebbe implicare una resa della riflessione o della
speculazione teorica all’Immaginario, soluzione che ha come risultato
quello di raddoppiare lo stato di confusione attuale. Inevitabilmente,
questo presente rinvia a una condizione di attesa, di indeterminatezza che se alimenta a dismisura l’ansietà non può far dimenticare gli
orrori di cui si è nutrita la “sicurezza” garantita dalle ideologie o dai
grandi ideali, in un tragico passato non troppo lontano. È a fronte di
questo stare obbligatoriamente nel guado (si può fare altrimenti?), cui
ci condanna la contemporaneità, che le seduzioni, suggerite da una
sbrigativa fantasia, spingono ora in avanti, ora indietro. Come se, al
fondo, qualsiasi fuga, in una direzione o in un’altra, fosse una soluzione migliore allo stare nel tempo vissuto in maniera eccessivamente
penosa.
Semplificando, si potrebbe dire che un certo spirito maniacalmente
modernista spinge, a tutti gli effetti, nella prima direzione, laddove un
atteggiamento supposto intellettuale, solcato da un depressivo pessimismo, sembra privilegiare un cupo catastrofismo. Specularmente
opposti, in entrambi si rileva un indubbio risparmio di pensiero, simili
al Witz freudiano. Sia il modernismo sia il catastrofismo partecipano
a quel che mi sembra una loro comune ossessione, cioè un’ontologia
dell’immanenza, a un’idolatria della presenza. La fanfara consumista, alias la sirena del modernismo, martella incessantemente il suo
messaggio: c’è tutto, non manca nulla, non può mancare niente. Che
volere, allora, di più, se non quello che il mercato stesso, domani o al
La compassione che il godimento domanda
199
più tardi dopodomani, si ingegnerà di proporre? Sul versante opposto,
la retorica apocalittica ripete con sconsolata insistenza: non c’è più
niente, ergo non si può più volere, desiderare…
Illusione del pieno, da una parte, illusione del vuoto, dall’altra.
in the mood
In verità, non c’è mai né il primo, il pieno, o solo il pieno, né il secondo, il vuoto, o solo il vuoto.
In quest’epoca, come in altre. E questo non tanto in omaggio a
chissà quale saggia mediazione dal vago sentore aristotelico, quanto
piuttosto in ragione della natura puramente immaginaria che domina
entrambe le illusioni e che non sembra nemmeno disposta a concedere un’opzione possibile all’esistenza di un soggetto. Su entrambe le
illusioni grava probabilmente l’ombra filosofica dell’inguaribile idealismo hegeliano, quello che, per esempio, pretendeva di assicurare
alla storia un senso e una finalità che la sottraesse nella sua evoluzione
a ricadute, regressioni, sbandamenti eccetera eccetera. Insomma, in
una parola, a quella traumaticità che la modernità parrebbe esasperare. Tenerne debito conto, in questo caso, potrebbe essere utile per
declinare al plurale il freudiano disagio della civiltà, introducendo
così l’idea che non solo “la” civiltà non esiste, ma che piuttosto si ha
storicamente a che fare con “le” civiltà: realtà ora differenti ora simili,
secondo tempi e luoghi diversi… Constatazione che potrebbe, di conseguenza, portare a considerare come ciascuna di essa generi al suo
interno un sintomo o dei sintomi che le sono propri.
Si è nella storia, umana anche quando lo è molto poco. Comunque,
impossibile restarne fuori.
Ciò però non toglie che, per contrasto, il trauma della contemporaneità finisca per esaltare una nostalgica e heideggeriana mitologia
dell’origine o, quanto meno, di un “prima” che, non di rado, fa capolino anche negli studi più orientati scientificamente: è quel che, tanto
per fare un nome, denuncia Jean-Loup Amselle in campo antropologico.5 È, quindi, nel confronto veridicamente insostenibile, poiché privo
5
Jean-Loup Amselle, Contro il primitivismo, Bollati Boringhieri, Torino 2012. Scrive
l’africanista: “Di conseguenza, l’oggetto che gli antropologi si danno è sempre ricostruito,
200
Angelo Villa
d’un reale termine di paragone, con questo “prima” che il presente
appare ancor più insopportabile e suscettibile di inventare le formule
più paradossali, quali, per rimanere nel nostro ambito, quella di clinica contemporanea. Definizione tautologica, poiché non c’è clinica,
se si esclude il contesto della ricerca storica, che non sia figlia di un
tempo nel quale s’incontrano e convivono tanto i sintomi del paziente
quanto il desiderio dell’analista.
La modernità è un prisma dalle molte facce. Assolutizzarla, in
un’accezione positiva o negativa, significa far torto a una complessità
che, proiettata su uno schermo sociale, è quella stessa del soggetto,
colto nella contingenza di un processo di transizione; assolutizzarla
comporta l’attribuirle un’omogeneità che non possiede e la ricompatta
strumentalmente, quasi si trattasse di un fenomeno univoco. Si tratta
di un’indebita forzatura che mi pare comporti la sottovalutazione di
due punti in particolare. Il primo: la modernità designa un processo del quale sono parte integrante sia quell’ambizione tecnologica
o quell’apparente disinibizione morale che la caratterizzano sia il
movimento che, come reazione, promuove. Come distinguere l’uno
dall’altro? Come separare la causa da un effetto che diventa causa che,
a sua volta, alimenta. Si prenda, per l’appunto, il caso della religione.
Per molti, modernità è sinonimo di laicità. Ciò non toglie che taluni
nutrano una certa diffidenza nei riguardi di quel famoso disincanto
(Entzauberung) teorizzato da Max Weber.
Lo stesso Lacan, d’altronde, non ha forse affermato che la religione
è inaffondabile? Così, in aperta controtendenza con i leitmotiv più
accreditati, sociologi come Peter Berger scrivono: “The world today,
with some exceptions […] is as furiously religious as it ever was, and
in some places more so than ever”.6 Secondo punto: troppo spesso,
rifacendosi alla modernità, si tralascia di tenere conto dell’uso che il
singolo o una collettività possono fare dei suoi strumenti, vedasi il caso
della vituperata tecnica. Da Winnicott a Wittgenstein e (perché no?)
a Lacan stesso, l’uso chiama in causa la referenza al soggetto, alla sua
implicazione personale, conscia o meno che sia. È il soggetto che muoanche se raramente viene riconosciuto come tale; e anche quando lo è, viene ricondotto a
una omogeneità precoloniale postulata ma mai dimostrata”, p. 12.
6
Peter Berger et al., The Desecularization of the World: Resurgent Religion and World Politics, Ethics and Public Policy Center-Eederman Publications, Washington-Grand Rapids
(Mich.) 1999, p. 2.
La compassione che il godimento domanda
201
ve la macchina, e non viceversa. Anche quando è la seconda a dettare
le azioni del primo. Il parlessere può spegnere la macchina, impossibile
che accada il contrario. Mettere da parte il soggetto vuol dire negarne
la responsabilità. Studiosi del nazismo, quali Herf o Furio Jesi, hanno
a più riprese sottolineato il suo carattere di “modernismo reazionario” o brutalmente regressivo. Come a dire che i fantasmi più arcaici
possono trovare la loro più sensibile traduzione per il tramite delle
tecnologie più sofisticate, come del resto l’immaginario fantascientifico
ben dimostra. Prima di demonizzare gli oggetti, è più proficuo allora
interrogare i soggetti. Una paziente, recentemente, mi confidava che
essendo spesso sola in casa appena entrata nella sua abitazione accendeva la televisione… Non che rimanesse incollata davanti al video
a guardare i programmi, niente di tutto ciò. Lei, personalmente, li
detesta, li considera spazzatura. La donna non possiede una radio e si
direbbe usi la televisione come se lo fosse. Ha bisogno di sentire una
“voce” che la sottragga a una sensazione abbandonica di solitudine;
per il resto sostiene di non prestare alcuna attenzione a quello che
un qualsivoglia speaker o personaggio televisivo va blaterando. Lei
sbriga le sue faccende, ma quella “voce” la conforta, le allontana la
malinconia…
Alla faccia dello share, insomma.
Ora, a non accordare la giusta rilevanza ai due punti sopracitati è
probabilmente l’ingenua supposizione che, in altri tempi, sussistesse
una stretta correlazione tra rappresentazione e oggetto, tra discorso e
verità, di cui con la modernità si è persa traccia e memoria. Eppure,
in psicoanalisi, è stato proprio Lacan, in opposizione allo stesso Freud,
a mettere in luce la serrata dialettica che si dispone tra struttura e
storia nel costituirsi dell’inconscio del soggetto. Mi è sempre parso il
modo acuto e serio per indicare come la tensione che si instaura tra il
significante e il reale sia di duplice natura. Strutturale, per l’appunto,
perché la parola ha i suoi limiti, non è onnipotente. Ma altresì storica:
la parola è sempre “quella” parola, per “quel” particolare soggetto,
anche se il significante verbale non muta. Ancora, una volta, dunque,
dipende… Ciò significa che una sua presa “scivolosa”, cortocircuitante, olofrastica, persino perversa nei riguardi del Reale opera nel
processo stesso di acquisizione della simbolizzazione in quanto tale. È
un’operazione spuria, di ambigua contaminazione e non il contrario.
Per altri versi, senza troppo allontanarci dalla questione, è quel
202
Angelo Villa
che talvolta accade quando si è soliti ritenere i casi freudiani esemplificativi di una clinica che taluni definiscono classica, in opposizione
a quella, per l’appunto, identificata come contemporanea. Eppure,
da Dora all’Uomo dei lupi, essi sono ben lungi dal costituire un modello in tal senso. Senza passare attraverso Roazen o Pohlen o (sic!)
Borch-Jacobsen, basta attenersi alla rilettura che ne fornisce lo stesso
Lacan per rendersi conto che la supposta “classicità”, allorché non la
si intenda in un senso temporale o metaforico, vada più colta dal lato
dell’adesione a un modello teorico, da parte di Freud e cioè l’insistenza sull’ermeneutica edipica, che non obiettivamente da quello della
patologia o, anche, delle risposte del paziente. Alquanto “moderne”,
in tal senso, Dora, in primis.
Qual è, dunque, l’effettivo nodo della questione? Una certa fede
assoluta nella rappresentazione o il riconoscimento della complessità
che vi si associa e, forse, la difficoltà nel renderne esaustivamente ragione? Mi si passi il gioco di parole: è la crisi della rappresentazione o
la rappresentazione della crisi la vera posta in palio?
del sacro
È innegabile che la modernità promuova trasformazioni di cui, al
momento, diventa arduo valutare la portata, nel male ma, anche, nel
bene. Una certa prudenza, in termini di giudizio, mi pare dovuta,
onde evitare di far d’ogni erba un fascio. Ragioni metodologiche, inoltre, mi sembra si debbano frapporre a quel che talvolta appare come
un salto eccessivamente disinvolto dal registro dell’individuale e del
clinico a quello sociologico o viceversa. Modernisti e apocalittici vi
ricorrono, invece, con frequenza, specie rifacendosi a quella nozione
di godimento che sembra il ponte gettato tra i due registri. Per molti di loro, il godimento costituisce la traduzione in chiave personale
dell’essenza stessa della società contemporanea. L’agognata ricerca di
un caposaldo teorico su cui poggiare indagini speculative altrimenti
ha finalmente trovato un suo fondamento, the missing link tra singolo
e collettività, nell’epoca attuale. Non più il padre, come ai tempi di
Freud, ma il godimento, di cui il consumismo offre la sua versione tangibile, democratica e immediatamente fruibile. Poco importa se Lacan
stesso rammentava come “l’uso della funzione della pulsione non ha
La compassione che il godimento domanda
203
per noi altra portata che quella di mettere in questione che cos’è la
soddisfazione”.7 Per un verso o per un altro, i cantori o i detrattori
del nostro tempo gli assicurano un’evidente consistenza che stride di
fronte all’indefinitezza che accompagna altre problematiche. Cosa poi
sia, beh, è ben altra questione…
Un sociologo come Bauman ha costruito le sue fortunate e citatissime tesi sull’idea di liquidità che caratterizzerebbe i rapporti nella
nostra società. Intuizione dubbia, quantomeno, nella misura in cui
tale liquidità, entro la quale si riflette la logica propria dell’economia consumista, testimonia la morbosa tenacia che tiene il soggetto
strettamente ancorato alla domanda inconscia dell’Altro familiare,
letteralmente “a-soggettato” a essa. A quella dialettica, personale e
generazionale, forse, occorrerebbe tornare per cogliere in maniera più
approfondita qualcosa di quel che si articola attorno non al godimento
ma alla questione che il godimento, supposto o reale che sia, apre. In
luogo di farne il game over con cui chiudere, paradossalmente in anticipo, le problematiche che la contemporaneità solleva.
Ciò mi pare possa, quanto meno, indurre due gravi fraintendimenti
epistemologici. Il primo è quello che porta quasi meccanicamente
ad associare al rimando al godimento una valenza moralistica che,
peraltro, è del tutto assente nell’insegnamento di Lacan. Il secondo,
invece, è quello che mira, per l’appunto, a entificarlo. È, insomma,
il “c’è” che si contrappone alla labilità delle rappresentazioni, alla
liquidità dei legami, alle impasse dei discorsi, alle lagnanze sul tempo
scomparso e, ahimè, alla serie infinita di oggetti di cui la modernità
sancisce drasticamente la scomparsa: la storia, il lavoro, la famiglia,
la letteratura e così via. Esigenze comunicative o massmediatiche
spingono, infine, ad accostare ambiguamente a questa deriva quella
che si potrebbe denominare come una volgarizzazione dei “non c’è”
lacaniani, quasi costituissero il perfetto controcanto al “c’è” del godimento. Dimenticando, il più delle volte, come i “non c’è” lacaniani
partecipino di una sottile logica significante per sua natura restia a
venir brutalizzata riducendola a una dimensione prossima, quando
non addirittura omogenea, a quella del segno.
In definitiva, l’uso smodato del termine godimento, il ricorso mar7
Jacques Lacan, Il seminario. Libro xi. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964),
Einaudi, Torino 1979, p. 169.
204
Angelo Villa
tellante e unidirezionale a esso in ogni occasione nella quale si analizza
un aspetto della situazione attuale, gli garantisce una proiezione iperrealistica, quasi allucinata. È così, di fatto, trasformato in un “c’è” che
si direbbe costituisca oggi la longa manus del sacro, scriverebbe Lévinas,
di quel sacro che Rudolph Otto definì come mysterium tremendum.
Se anche, infine, il Reale non ha legge non significa che non abbia
una sua legge, che non risponda a una logica di cui l’inconscio ci
permette di individuare il funzionamento, la possibile genesi causale
e il posto che vi occupa il soggetto. In Ricordare, ripetere e rielaborare,
Freud sottolinea come “l’analizzato non ricorda assolutamente nulla
degli elementi che ha dimenticato e rimosso, e che piuttosto li mette
in atto. Egli riproduce quegli elementi non sotto forma di ricordi, ma
sotto forma di azioni; li ripete senza rendersene conto”.8 E, dunque,
l’agito contro la memoria. Può essere uno spunto, per riannodare i fili
della seconda contro il primo, anche quando di quest’ultima sembrano essersene smarrite le tracce, magari sotto l’imperversare impietoso
della modernità dove tutto (o quasi) cambia, dove tutto (o quasi) si
confonde. A volte, dipende, dal soggetto, of course.
poscritto
Osservo nel cortile di una comunità per tossicomani degli utenti che
passeggiano, chiacchierano. Hanno tutti un’età piuttosto avanzata, i
volti segnati, le braccia tatuate, lo sguardo ora spento ora nervoso, febbricitante. Non è l’Immaginario, ma è la memoria del Reale incisa sulla pietra plastica del corpo. Un educatore mi confida la sua tristezza
e, poi commenta: “Sono vite devastate dalla droga”. Gli rispondo che
“No, non è così”. Sono esistenze che non hanno mai fatto esperienza,
nel loro nascere al mondo, di un incontro con un Altro capace di offrirgli il dono di una sessualità segnata dalla mancanza. Così, quest’è
l’impressione, restituiscono all’Altro una vita non vissuta, una vita che
non riescono a vivere, come fosse un vestito preso a prestito che riconsegnano, appena appena sgualcito, al suo proprietario originario.
8
Sigmund Freud, Ricordare, ripetere e rielaborare (1914), in Id., Opere, cit., vol.
355-356.
vii,
pp.
Le modificazioni corporee
Lorenzo Vita
il corpo nel sociale contemporaneo
Negli ultimi due decenni il corpo viene considerato come il luogo elettivo di espressione della soggettività. In un tempo di crisi degli ideali,
dei valori e delle ideologie, il corpo è il terreno su cui si gioca la partita
della soggettività al punto da essere considerato oggi, in un’ottica sociopolitica, il principale terreno di incontro delle strategie identitarie
e dei modi di godere delle persone.
In questo contesto si diffondono sempre più le pratiche di modificazione corporea nei vari ambiti dell’estetica (chirurgia plastica,
tatuaggi, piercing, body building), del disagio (anoressia e bulimia,
autolesionismo, doping) e della salute (fitness, wellness, igienismo).
Le più importanti interpretazioni sociologiche di questi fenomeni
sono due:
1.La prima considera le pratiche di modificazione corporea come
un elemento costitutivo della società dell’immagine e del successo sociale. Sono pratiche in linea con l’eclettismo e l’autoreferenzialità della società contemporanea secondo la logica del culto
narcisistico della propria immagine corporea. Le modificazioni
corporee costituiscono allora ciò che Jean Baudrillard definisce
come “un carnevale di segni senza significato annesso”;1 pratiche
1
Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture (1970), il Mulino,
Bologna 2010.
206
Lorenzo Vita
un tempo significative da un punto di vista culturale e sociale
sono utilizzate dal soggetto contemporaneo con la finalità di fornire autenticità e senso a ciò che è svuotato di valore.
2.La seconda considera le modificazioni corporee come espressione del malessere e del disorientamento del soggetto contemporaneo, forme patologiche che diventano pratiche espressive e identitarie alla moda. Il corpo è vissuto come imperfetto, sofferente,
fuori controllo e per questo è il luogo elettivo di autocura tramite
le modificazioni corporee. Questo fenomeno di patologizzazione
riconduce le modificazioni corporee a qualcosa di assimilabile
alla dipendenza e alla compulsione. L’ossessione maniaca per la
propria immagine corporea diventa così allo stesso tempo espressione di un malessere ed elemento intorno al quale consolidare
la propria identità.
Da un punto di vista psicoanalitico si può dire che quando l’ordine
simbolico non struttura più l’ordine sociale, il simbolico tende a ridursi a reale, tende cioè a essere incorporato, incarnato direttamente nel
reale del corpo, nella sua carne. La soggettività e la realtà vengono
così materializzate nel marchio corporeo nel tentativo di iscrivere il
soggetto nel suo corpo e il corpo del soggetto nel sociale.
incarnazione e corporizzazione
Politica, religione e scienza hanno sempre determinato il modo
dell’incarnazione del soggetto attraverso riti, leggi, costumi e pratiche di vario genere. Nella contemporaneità assistiamo a un progressivo sganciamento del corpo dalla dimensione simbolica. Nell’epoca
dell’Altro che non esiste la corporizzazione, il cosa fare con il proprio
corpo, non passa più attraverso codici, norme, usi e costumi definiti.
Roberto Esposito, nelle sue analisi sulla biopolitica, fa notare che oggi
sono venuti meno i passaggi politici e culturali dell’incarnazione e
della corporeizzazione della carne. Per la prima volta, oggi il corpo
ha a che fare in maniera preponderante con la carne. Il corpo infatti
non è più il corpo abitato dallo spirito ma la carne in quanto tale, “un
essere insieme singolare e comune, generico e specifico, indifferente e
differente, che non solo è privo di spirito ma non ha neanche più un
Le modificazioni corporee
207
corpo”.2 È questa una delle versioni socialmente e culturalmente più
diffuse del corpo-carne.
Secondo la tradizione fenomenologica, la carne vivente è concepita come il tessuto di relazione fra esistenza e mondo. L’esperienza
sensibile ci mostra che l’uomo è immerso in un universo fisico come
un corpo fra gli altri. Il primo carattere del corpo è l’estensione che
si traduce in termini di spazio, volume e materia. Tuttavia il corpo
umano non è un corpo come tutti gli altri: è una cosa ma è quella cosa
che io sono, è l’incarnazione della persona, è il luogo unico in cui si
manifestano desideri, sensazioni ed emozioni.
Tale statuto contemporaneo del corpo rappresenta un cambiamento di paradigma antropologico rispetto alla sua secolare interpretazione giudaico-cristiana. In essa si affermava la trascendenza del corpo
rispetto alla carne: la carne, in quanto legata alla vita terrena, è esposta al dolore e al peccato. Si tratta quindi di realizzare attraverso il
verbo divino il passaggio dalla carne al corpo. Tale spiritualizzazione
del corpo riscatta l’uomo dalla miseria della sua carne e consente allo
stesso tempo l’ingresso nel corpo sociale della comunità. Il rito dell’eucarestia realizza la corporizzazione della carne attraverso il doppio
passaggio del corpo di Cristo in quello del credente e di quello del
credente nel corpo ecclesiale.
Alcuni filosofi poststrutturalisti francesi, come per esempio Deleuze
e Nancy, considerano tuttavia il concetto fenomenologico di carne
come derivato della tradizione cristiana e affine allo spiritualismo.
Tale modello spiritualistico, oggi diffuso in alcune pratiche new age,
viene letto come cancellazione della concretezza del corpo e come
dominio della trascendenza sul reale del corpo. Sensazione, emozione
e benessere del corpo sarebbero una versione camuffata e rinnovata
della spiritualizzazione della carne.
Accanto a questo sensuale spiritualismo, su un piano sociale assistiamo comunque alla diffusione di nuovi modi di far passare la carne
al corpo e il corpo alla comunità. Alcune pratiche contemporanee di
modificazione corporea sono la risposta al declino delle tradizionali modalità di incarnazione e corporeizzazione. A partire dagli anni
settanta, con il fenomeno per esempio della body art, sino ad arrivare
alle recenti pratiche di modificazione corporea, assistiamo a una pro Roberto Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 175-179.
2
208
Lorenzo Vita
vocatoria e ossessiva presentificazione del corpo-carne. Il corpo-carne
è una delle ossessioni della società contemporanea. Circa la carne,
Lacan scrive:
c’è qui un’orribile scoperta, quella della carne che non si vede mai, il fondo
delle cose, il rovescio della faccia, del viso, gli spurghi per eccellenza, la carne
da cui viene tutto, nel più profondo del mistero, la carne in quanto sofferente,
informe, in quanto la sua forma è per se stessa qualcosa che provoca l’angoscia. Visione d’angoscia, identificazione di angoscia, ultima rivelazione del tu
sei questo. Tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe.3
la psicoanalisi e il corpo dell’isterica: la convulsione
Il fenomeno corporeo scabroso e inspiegabile per eccellenza dell’età
moderna è stato la convulsione. La convulsione è stata per due secoli
e mezzo la posta in gioco di una lunga battaglia tra medicina e religione. Nel Medioevo la convulsione era considerata la prova della
possessione demoniaca del corpo umano; a partire dall’Ottocento la
medicina ha cominciato a considerare la convulsione come il sintomo
di una malattia psichica, l’isteria. L’indemoniata e l’isterica sono le
due figure inventate dalla religione e dalla medicina per designare la
sconnessione, lo slegame tra carne, corpo e società. La convulsione è
la rappresentazione più evidente ed enigmatica di tale sconnessione.
Cos’è la convulsione? È la forma plastica e visibile di un combattimento che si svolge nel corpo. In essa troviamo la rigidità, l’arco di
circonferenza, l’insensibilità ai colpi, l’agitazione e i tremori. Tale manifestazione si oppone in qualche modo all’Altro sociale, in particolare
alla padronanza morale e culturale della religione e della medicina.
“La carne convulsiva” scrive Foucault “è il corpo attraversato dal diritto di esame e sottomesso all’obbligo della confessione esaustiva”.4 È
il corpo che insorge contro l’Altro sociale dominante della medicina
e della religione.
3
Jacques Lacan, Il seminario. Libro ii. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi
(1954-1955), Einaudi, Torino 1991, p. 199.
4
Michel Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano
2004, p. 189.
Le modificazioni corporee
209
A partire dal Novecento, grazie alla psicoanalisi, tale contesa prende una direzione diversa. Freud sovverte il sapere medico e religioso:
considera il corpo dell’isterica non un corpo posseduto né un corpo
malato ma un corpo che parla. Freud vuol fare parlare il corpo sofferente dell’isterica perché pensa che il sintomo isterico sia l’incarnazione di un conflitto psichico.
Il corpo isterico per Freud è un corpo strutturato dal simbolico: i
conflitti psichici si manifestano per il tramite di un processo di conversione nei sintomi corporei. Il corpo dell’isterica allora è il corpo
teatro, il corpo rappresentazione, simbolo di un desiderio conflittuale
e censurato. I sintomi corporei dell’isterica – paralisi, accessi di tosse,
vomito, contorsioni, irrigidimenti, svenimenti, disturbi visivi o pseudogravidanze – sono manifestazioni di linguaggio, metafore incarnate
del desiderio inconscio che invocano la loro interpretazione da parte
dell’Altro. Come sintetizza efficacemente Lacan, parlando di Freud
alle prese con un sintomo di conversione isterica, “Egli interpreta il
simbolo, ed ecco che il sintomo, che lo iscrive in lettere di sofferenza
nella carne del soggetto, si cancella”.5 L’ascolto e l’interpretazione
dello psicoanalista liberano l’isterica dalla soffrenza della sua carne
consegnando al soggetto la verità del suo desiderio inconscio.
il corpo e le performance artistiche
A partire dal fenomeno della body art degli anni settanta, si affermano
nell’arte contemporanea artiste che costruiscono delle performance
molto significative rispetto ai temi che abbiamo trattato.
Assistiamo all’esibizione del corpo dell’artista come incarnazione
pura, diretta e priva di mediazione simbolica del reale osceno del
corpo. Tale esibizione viene finalizzata a un’esigenza di incarnazione
e corporeizzazione, secondo le due figure della contemporaneità del
corpo-carne e del corpo immagine.
Ho scelto come paradigmatiche tre artiste molto conosciute: Orlan,
Beecroft e Abramović́. Ciascuna di loro rappresenta a mio parere un
paradigma del corpo e delle sue modificazioni. In tutte loro ritrovia5
Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953), in Id.,
Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1974, vol. i, p. 299.
210
Lorenzo Vita
mo un tratto della contemporaneità, come scrive Lea Vergine in un
celebre articolo sulla body art, ritroviamo soggetti che vivono “con la
spinta ad agire in funzione dell’altro, con la loro necessità di mostrarsi
per poter essere, con la loro strategia per conquistare il diritto di mettersi al mondo di nuovo”.6
orlan, il corpo-carne
Orlan nel suo Manifesto dell’arte carnale scrive:
L’arte carnale è un lavoro che si muove in direzione dell’autoritratto in senso
classico ma si avvale dei mezzi tecnologici propri del nostro tempo. Oscilla
tra defigurazione e rifigurazione e si incide nella carne perché la nostra epoca
comincia a offrirne la possibilità. Il corpo diviene un ready made modificato,
non essendo più un ready made ideale sul quale basta apporre la propria
firma.
Con le tecniche di defigurazione e rifigurazione direttamente sulla
carne, Orlan ricerca un corpo capace di esibire un’identità nuova.
Per lei il corpo naturale è del tutto obsoleto, come l’artista stessa si
propone, attraverso il corpo ready-made modificato, contro Dio e il
dna, Orlan vuole mostrare che il soggetto ha il potere di modificare la
natura del proprio corpo per affermare l’identità che si sceglie.
In una famosa performance nota come La reincarnazione di Santa
Orlan, l’artista si sottopone a una serie di operazioni chirurgiche. Tali
operazioni fanno parte di un processo di fabbricazione del proprio
corpo alla ricerca della coincidenza progressiva fra l’autoritratto virtuale realizzato al computer e l’autoritratto imposto alla propria carne. Già nel 1967, con sorprendente anticipo rispetto a ciò che oggi è
sotto gli occhi di tutti, Lacan faceva notare che la chirurgia dimostra
che l’uomo dispone del proprio corpo solo per farlo essere il suo stesso
spezzettamento. La stessa Orlan, commentando le sue performance,
riprende il testo della psicoanalista lacaniana Eugénie Lemoine-Luccioni dove si sottolinea questa stessa scissione fra essere e corpo: “Non
ho mai la pelle di quello che sono. Non vi è eccezione alla regola per Lea Vergine, Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Skira, Milano 2000.
6
Le modificazioni corporee
211
ché non sono mai ciò che ho”.7 Eugénie Lemoine, nello stesso testo,
scrive che Orlan modifica il proprio corpo perché non lo riconosce. È
la stessa Orlan ad affermare in un’intervista di non essersi mai riconosciuta allo specchio, nello specchio vede solo il suo scheletro, il lavoro
che fa al computer per costruire la sua immagine ideale è il tentativo
di riconoscersi. Travestendosi con la sua stessa pelle, cerca di fabbricarsi da sola quella maschera femminile nella quale riconoscersi.
Da un punto di vista psicoanalitico possiamo dire che Orlan cerca
di cancellare questa differenza fra essere e avere un corpo. L’uomo
ha un corpo ma non può identificare l’essere con il suo corpo, questa
impossibilità è caratteristica della soggettività umana e il rapporto
stesso con l’immagine è un tentativo di ricomporre questa impossibilità, proprio come fa Orlan con la sua spinta a farsi un corpo attraverso
le modificazioni della sua pelle-immagine.
beecroft, il corpo feticcio
Il corpo è sempre stato oggetto della medicina e della religione e, dalla
seconda metà del Novecento a oggi, diviene anche oggetto privilegiato delle nuove tecnologie, della moda e dello spettacolo. Il corpo è il
luogo del culto dell’immagine, dell’ossessione maniacale per la propria
immagine corporea.
Perché la psicoanalisi parla di corpo feticcio? Il corpo feticcio
nell’ottica psicoanalitica è un oggetto idolo che abbaglia e cattura lo
sguardo. La funzione del feticcio è di riparare il soggetto dall’angoscia di castrazione e di rendere possibile, senza difficoltà dice Freud,
l’accesso al godimento. Il feticcio è un oggetto inumano che viene eletto a esclusivo oggetto del desiderio, oggetto inumano che comporta
l’esclusione dell’Altro in quanto tale. L’oggetto feticcio cattura e fissa
lo sguardo del soggetto distogliendolo dall’esistenza dell’alterità.
Un’artista che si è occupata del corpo femminile come corpo feticcio è Vanessa Beecroft. In controtendenza con gli artisti degli anni
settanta, Vanessa Beecroft rappresenta le sue performance all’interno
della cornice del mondo della moda e dello spettacolo. Le sue perfor7
Eugénie Lemoine-Luccioni, Psicoanalisi della moda, Bruno Mondadori, Milano 2002,
p. 113.
212
Lorenzo Vita
mance hanno come protagoniste le girls – così chiama le modelle di cui
si serve – che incarnano un modello di bellezza idealizzata e utilizzano
come scenografia spazi pubblici collegati al mondo dell’arte e della
moda. Le girls vengono mostrate solitamente nude su tacchi altissimi,
mute e immobili. Puri corpi femminili, incarnazione feticistica di una
bellezza algida, quasi inanimata, congelata nella perfezione, disposti
sulla scena solitamente in maniera anonima, modulare e seriale.
I tratti del corpo femminile che Vanessa Beecroft mostra nelle sue
performance sono tre e corrispondono alla definizione psicoanalitica
di oggetto feticcio:
1.le girls sono private di ogni possibilità di dialogo o di relazione,
esse appaiono congelate al di là di un’invisibile barriera, corpi
statuari irraggiungibili che non entrano in relazione con l’altro.
Non c’è erotismo, questi corpi sono espressione di una perfezione fredda e algida che in quanto tale non è toccata dalla vita.
Corpi femminili ridotti quindi a oggetti inanimati, disumanizzati
e di una perfezione devitalizzata;
2.le performance sono ambientate in spazi pubblici solitamente
molto ampi, spogli, silenziosi. Il nudo nello spazio pubblico contraddice la norma che il nudo sia in relazione con lo spazio privato e intimo, questi spazi pubblici molto ampi e vuoti mostrano
il disagio del corpo che diventa pubblico. L’effetto è perturbante,
lo sguardo allo stesso tempo si fissa sui corpi nudi ma si perde nel
vuoto dello spazio pubblico e anonimo;
3.la serialità dei corpi femminili tutti uguali richiama l’idea del
corpo femminile riprodotto serialmente che cancella la particolarità del singolo. In questo senso è interessante vedere il reclutamento delle girls, materiale scelto su appositi cataloghi per tratti
fisici comuni. Il corpo femminile è rappresentato come insieme
di pezzi di corpo staccati ripetuti tutti uguali (per esempio decine
di donne magre con i capelli rossi oppure di carnagione chiara
e sinuose), rappresentazione che corrisponde al collezionismo
feticista e che riduce la bellezza a una clonazione dell’identico.
Se da un lato la Beecroft sembra agire in combutta con l’industria della moda e dell’arte, dall’altra le sue performance raffinate mettono in
mostra, al di là del corpo feticcio idolo della moda e dello spettacolo,
Le modificazioni corporee
213
un corpo reale che si affloscia. È questo l’elemento di verità perturbante cui la Beecroft tende. Nel corso di varie sue installazioni dal
vivo che durano ore, le modelle si afflosciano visibilmente, si lasciano
cadere lentamente verso il pavimento finendo per contraddire la loro
immagine statuaria di perfezione. L’ideale costruito artificialmente
si incrina facendo apparire il corpo afflosciato. Si produce un effetto
perturbante, lo spettatore prima catturato dal corpo feticcio si ritrova
smarrito nel suo sguardo con l’afflosciarsi dei corpi.
abramović, corpo strumento
Marina Abramović dichiara di essere interessata nelle sue performance alle sensazioni del dolore, della paura e del pericolo. In questo
senso utilizza il proprio corpo per sperimentare e superare i limiti che
dolore, paura e morte impongono nella relazione con l’Altro, nello
specifico il suo pubblico. Nelle sue performance infatti il pubblico è
parte stessa dell’opera: artista e pubblico diventano parte integrante
della performance stessa. In alcune celebri performance il pubblico
viene ingaggiato in un vero e proprio corpo a corpo con l’artista. Nel
1974 a Napoli si presenta agli spettatori del museo dicendo che per
un lasso di tempo di sei ore sarebbe rimasta passiva e priva di volontà,
accanto a lei su un tavolo erano a disposizione del pubblico settanta
strumenti di piacere e dolore, il pubblico poteva usarli liberamente.
Cosa accade? Dopo qualche ora, la performance diventa pericolosa,
una parte del pubblico comincia a diventare violenta nei confronti
dell’artista sino alla situazione estrema in cui le viene messa in mano
un’arma carica e il suo dito viene messo sul grilletto. La Abramović
non reagisce, alcune persone del pubblico capiscono che può succedere l’irreparabile e intervengono in sua difesa.
Nella performance della Abramović, di cui l’esempio precedente
costituisce l’estremo, la psicoanalisi riconosce la sfida perversa che il
masochista ingaggia con l’Altro attraverso il proprio corpo. In questa
sfida artista e pubblico si fronteggiano in un gioco a due dove ognuno
rilancia a partire dal limite che l’altro pone. La sfida perversa, nella sua
dimensione intersoggettiva, punta a far emergere l’affetto dell’angoscia,
la spinta oltre i limiti del corpo si confronta con la sofferenza, la paura e
il pericolo, l’effetto è l’emergere di un certo sentimento della vita.
214
Lorenzo Vita
Dice la Abramović in un’intervista:
Quando raggiungo i limiti della mia resistenza mi sento incredibilmente viva.
Sono arrivata spesso ai limiti estremi, sempre davanti ad un pubblico: mostravo il pericolo, i miei limiti e non davo risposte. Il risultato non era un vero e
proprio pericolo ma solo la struttura che avevo creato. Questa struttura dava
all’osservatore un certo tipo di shock. Non si sentiva più sicuro. Era sbilanciato
e questo gli creava un vuoto dentro e doveva rimanere in quel vuoto, non gli
davo nulla.
Lacan considera il masochismo come una figura del desiderio. Il masochista nel farsi oggetto di godimento dell’Altro mira a quell’angoscia
che può far vibrare nel suo corpo il sentimento della propria esistenza
in uno scenario di annullamento soggettivo. Nelle sue performance
ricerca ossessivamente “l’incarnazione di se stesso come oggetto”,8
oggetto tuttavia incarnato come rifiuto, deiezione.
8
Jacques Lacan, Il seminario. Libro x. L’angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino 2007, p.
114.
Recensioni
Ritratti del desiderio
di Massimo Recalcati
(Raffaello Cortina, Milano 2012)
Nelle pagine che seguono pubblichiamo alcuni interventi relativi alle
presentazioni del libro Ritratti del
desiderio che si sono svolte a Milano
con l’intervento dello psicoanalista
Francesco Giglio e a Torino con l’intervento dello psicoanalista Giovanni
Mierolo.
Edoardo Fraquelli
Senza titolo, 1959-1960
tempera su carta intelata
23,5 × 31 cm
Presentare il nuovo libro sul desiderio di Massimo Recalcati è per me
una grande emozione, ed è insieme
un’opportunità di cui sono al tempo
stesso lusingato e grato. Dico nuovo
e non ultimo perché pur essendo nelle librerie da pochissimo tempo già
oggi non so più se davvero è il suo
ultimo testo pubblicato.
Difficile parlare di un testo sul
desiderio scritto da Recalcati senza
tessere le lodi dello scrittore, poiché
lui stesso si dimostra totalmente animato dalla radicale potenza del suo
stesso desiderio: proverò comunque
ad affrontare il mio incarico cercando di non limitarmi all’esclusivo elogio dell’autore.
Un nuovo testo sul desiderio, dunque, in primo luogo un ulteriore
tangibile segno della fecondità del
desiderio stesso di chi lo ha scritto,
del suo motore desiderante fertile da
ogni lato: figli, istituzioni, libri appunto. Come possa realizzare tutto quello che fa, disponendo delle ventiquattro ore comuni a tutti noi mortali, a
farlo con il rigore che dimostra, senza
essere mai frettoloso e introducendo
continuamente la novità, l’inedito, è
qualcosa che lascia stupiti. Si tratta
di uno stupore capace di mettere al
lavoro, uno stato d’animo che è alla
base della stessa volontà di sapere, e
che in parte rimane avvolto nel mistero, nonostante l’autore stesso sveli
l’arcano utilizzando una spiegazione
che ha direttamente a che fare con il
testo di cui stiamo parlando, egli dice,
infatti, che il segreto di tutta questa
produttività va ricercato nel suo stesso “desiderio” e negli effetti che ne
derivano.
Massimo Recalcati parlando del
suo testo I ritratti del desiderio lo definisce “un libretto”, uno fra i suoi più
noti lettori, Gianni Vattimo, dice, al
contrario, che si tratta di “un’opera memorabile”, si coglie una certa
distanza, dunque, che dire ancora?
Forse, dopo l’affermazione di Vattimo, è meglio chiudere il discorso sul
libro. È ovvio che se un intellettuale
di quella statura giunge a dichiarare
di un testo che si è molto apprezzato:
“È un’opera memorabile”, non resta
molto da aggiungere, le parole in più
diventano una superflua eccedenza.
Dunque sul libro mi limito a dire che
è bello, interessante, chiaro, comprensibile a più livelli e non solo agli
psicoanalisti, non c’è che leggerlo e
farsene direttamente un’idea.
Il concetto di desiderio è poliedrico, così come sfaccettate sono le immagini e le dimensioni del desiderio
che il libro stesso attraversa. Si tratta di un’idea tanto comune quanto
complessa al punto tale che torna alla
mente quel che sant’Agostino dice a
proposito di un’altra nozione, quotidiana quanto difficile, quella di tempo: “Che cos’è, allora, il tempo? Se
nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi
218
lettera
spiegarlo a chi me lo chiede, non lo
so” (Le confessioni, bur, Milano 2003).
Il desiderio è difficile da trattare, lo
è perché, in fin dei conti, è l’essenza
stessa dell’uomo, ciò che rende umani, è il cuore dell’artificialità che ci
caratterizza e ci specifica. L’animale,
come essere di natura, in ogni suo
aspetto occupa il registro del bisogno,
l’uomo in quanto tale, più che il regno
del bisogno abita le terre del desiderio; la soddisfazione del bisogno, pur
essenziale alla vita biologica umana,
non ne dice nulla. Per definire la specificità umana, la categoria del bisogno rimane del tutto insufficiente.
Il desiderio, in una definizione
data da Lacan nel Seminario v, esita
dalla sottrazione del bisogno dalla
domanda, si capisce bene, allora, che
la questione è pressoché infinita. L’interrogativo sul desiderio si pone sin
dal tempo di Adamo ed Eva. Senza
il necessario riferimento al desiderio,
quale necessità può avere mai spinto i
nostri progenitori a farsi cacciare dal
paradiso terrestre? Dal luogo per eccellenza del bisogno soddisfatto? Da
dove origina, altrimenti, la voglia di
cogliere e mangiare il frutto proibito,
al costo delle note conseguenze fatte
di lavoro e sudore e di parto e dolore? Si mostra qui il volto distruttivo
del desiderio, il suo aspetto capace di
disarticolare l’esistente.
Il desiderio di niente, quarto ritratto recalcatiano del desiderio, abbinato dall’autore a Don Giovanni,
il desiderio che si consuma come
desiderio del desiderio e ha la faccia
cangiante della metonimia, del giro
isterico dell’insoddisfazione da un
oggetto all’altro. È lo stesso aspetto
del desiderio su cui fa perno il discor-
recensioni
so del capitalista per alimentare l’insoddisfazione da mancanza di oggetti di consumo sempre nuovi, che si
spinge, infine, sino al consumo degli
stessi umani, ridotti a oggetti gadget
da spremere e gettare.
Sul desiderio il Simposio platonico
è un testo ancora quanto mai attuale,
dalla vicenda del mito dell’androgino e della ricerca della propria metà
perduta, che si spinge sino al punto in
cui con il ritrovamento della propria
altra metà ci si lascia morire d’amore
e di desiderio. Mito radicale del desiderio estremo, il desiderio che brucia
sino a fare morire letteralmente di desiderio. È quanto fa pure il protagonista maschile della ballata dell’amore
cieco (o della vanità) di De Andrè. Si
sottopone a tutte le prove d’amore
che la donna di cui è innamorato gli
domanda, e, in un crescendo d’orrore, prima strappa il cuore dal petto
della madre per i cani della donna,
e poi si lascia morire con le vene
tagliate pur rimanendo contento e
innamorato, mentre al tempo stesso
all’amata non rimane che il pugno di
mosche isterico, il nulla del sangue
rappreso delle vene dell’uomo. Ha
ottenuto tutto ciò che domandava,
ma non può farsene nulla.
Il desiderio puro come desiderio
di morte, lo incontriamo nel nono
ritratto di Recalcati, che lui abbina
ad Antigone, eroina tragica che per
rispetto della legge divina dell’amore per il fratello gli dà sepoltura, violando così la legge senza pietà del
dittatore Creonte che vuole il corpo
di Polinice ridotto a carogna. È la
disobbedienza al dittatore ciò che
porta Antigone alla morte.
Ancora nel Simposio platonico una
riflessione sul desiderio riguarda la
descrizione che Alcibiade fa di Socrate: essere grottesco, esteriormente non attraente, che però quando si
apre rivela il proprio tesoro interiore,
l’agalma, l’attraente brillante oggetto
prezioso capace di causare il desiderio. È la descrizione del puro desiderante, del desiderante che attiva il
desiderio. Si tratta di una riflessione
applicabile a chi ha carisma, a chi
nei fatti dimostra di essere anche lui
un maestro di desiderio appunto.
Proprio come lo psicoanalista autore di questo libro che non è solo
un artefice di sapere, chiarificatore
dell’opera di Lacan, che traduce e
rende accessibili e utilizzabili nella
clinica concetti a volte oscuri e complessi. Non si tratta solo della sua
maestria intellettuale e concettuale,
padronanza di contenuti, che pure
oggi sta contribuendo a condurre la
psicoanalisi fuori dalla riserva indiana in cui era stata e si era essa stessa
rinchiusa. Quel che colpisce e mette
al lavoro di Massimo Recalcati è una
sorta di contagio di cui lui stesso parla nell’introduzione del suo testo. Si
tratta di un incontro, di una sorpresa,
di una tyche capace di modificare l’autòmaton. Dunque è lui stesso maestro
di desiderio contagioso, di desiderio
di desiderio, un untore della peste
della psicoanalisi per riprendere la
definizione di Freud in viaggio verso gli Stati Uniti. Portatore del virus
che mette al lavoro ognuno con la sua
specificità e con la sua ignoranza.
Il virus della sorpresa si articola, infatti, all’incontro con l’ignoranza soggettiva e con il desiderio di saperne di
più. L’ignoranza come passione umana, non ha a che fare con la quantità
219
di sapere saputo, inevitabilmente non
si può sapere tutto. L’illusione di arrivare a sapere ogni cosa del personaggio della Nausea di Sartre che legge in
ordine alfabetico tutto lo scibile umano si commenta da sola. L’ignoranza
utile e lavorabile ha piuttosto a che
fare con la posizione di bordo fra il
conscio e l’inconscio che questa occupa, ed è la posizione che il desiderio
stesso abita, poiché se la volontà sta
dal lato del conscio, il desiderio occupa, invece, il versante inconscio. Il tragico del cedere sul proprio desiderio
è un rischio concreto. Il desiderio si
può mancare, anzi è assai più facile
mancarlo che centrarlo. Non si tratta
di un passaggio evolutivo e in partenza non è mai la via più comoda.
L’etica del desiderio è l’etica di non
gettare la propria vita, è un’etica che
si lega alla castrazione e alla legge. La
legge introducendo l’interdetto avvia
la mancanza e fa nascere il desiderio
che solo nella mancanza può vivere.
Senza mancanza svanisce il desiderio.
L’etica del desiderio è coniugata alla
legge. Senza legge il desiderio degrada a capriccio. Senza desiderio la legge si devitalizza, si trasforma in una
macchina mortificata e mortificante.
La conciliazione fra desiderio e legge
è la sola via umana percorribile sia a
livello universale, perché è la via della
civiltà, sia al livello singolare poiché è
al tempo stesso la via per sostenere la
propria vocazione e per non gettare la
propria vita. Si tratta pure dell’unico
modo davvero efficace per prevenire
e curare le sofferenze nevrotiche che
sempre coincidono con patologie del
desiderio.
Il desiderio nella dialettica fra soggetto e grande Altro dimostra di esse-
220
lettera
recensioni
re il solo motore di ogni eccellenza,
capace di coniugare i tre tempi: il
passato dell’incisione desiderante, il
presente della sintonia con il proprio
inconscio e il futuro della progettualità desiderata. L’agalma del desiderio,
sul lato del soggetto, coincide con la
fertilità, con la capacità di generare
ciò che prima non c’era. Al tempo
stesso, sul lato dell’altro, inteso come
simile, l’essere nel desiderio del soggetto è la fucina dei due grandi sentimenti descritti da Melanie Klein:
l’invidia e la gratitudine. Invidia di
chi, avendo rinunciato al proprio
desiderio, si mette specularmente sul
piano della rivalità e si arrabbia con
il ballerino, con il pattinatore talentuoso, per la semplicità con cui crea
volteggi, disegni leggiadri su quello
stesso ghiaccio che la posizione invidiosa rende scivoloso e inarrivabile.
Di gratitudine di chi, abitando il proprio desiderio, osserva ammirato la
bellezza, l’arte del pattinatore, ed è
meravigliato dalla capacità umana di
spingersi a tanto, aprendo alla possibilità di migliorare sia il proprio, sia
il comune arrancare. Il ghiaccio è il
sistema significante, il linguaggio, la
parola, il pattinatore ballerino è l’autore di questo libro capace di una
danza leggiadra e meravigliosa.
Il desiderio, dunque, l’insegnamento impossibile, l’insegnamento
che non si può insegnare, ma pure
ciò che Massimo Recalcati, con la
sua testimonianza incarnata (per
usare un termine che lui ama), più di
ogni altro essere umano che io conosca, è maestro nel mettere al lavoro.
Francesco Giglio
Milano, 20 aprile 2012
Il libro di Massimo Recalcati porta con sé oltre all’obiettivo – come
sempre raggiunto – di proporre una
lettura, una introduzione al pensiero di Lacan, un altro obiettivo più
ambizioso, che tocca una questione
cruciale per la psicoanalisi. Un obiettivo che non a caso ritorna in molti
suoi scritti e soprattutto negli ultimi
lavori: L’uomo senza inconscio e Cosa resta del padre?.
Uno dei temi fondamentali che
attraversa questi testi riguarda il desiderio e il rischio della sua scomparsa. Nell’Uomo senza inconscio c’è una
presa d’atto che il soggetto del desiderio non è più il protagonista della
scena contemporanea e che il nostro
tempo ci espone al rischio di vedere
estinguersi la possibilità di desiderare. Nel testo è messa in evidenza una
mutazione antropologica in corso:
in un mondo in cui il deserto cresce,
come Recalcati riprende da Heidegger, l’uomo senza inconscio sarebbe l’uomo che rischia di perdere la
sua umanità, l’uomo che si riduce a
funzionare come una macchina, che
trova nel funzionamento seriale delle
macchine il suo modello di condotta. L’automatismo che regola la sua
vita lo riduce a una condizione che
Recalcati definisce inumana e perciò
priva di desiderio. Ci sono due temi
qui da mettere in evidenza, due temi
collegati: l’inumanità e l’eclissi del
desiderio. Ci torneremo.
Nel libro successivo, quello sul padre, Recalcati prende in considerazione il padre o cosa resta del padre,
per verificare se con lui, se grazie
al padre, c’è ancora la possibilità di
generare del desiderio, se è ancora
possibile trasmetterlo. Perché la pos-
sibilità di desiderare non ci è garantita, non ci deriva dall’automatismo di
cui parlavo prima. Qui si ripropone
il tema del desiderio, ma con una domanda in più: cosa lo produce, cosa
lo fa esistere, cosa lo trasmette?
E allora, questi temi tornano nel
libro che viene presentato oggi, e
qui Recalcati li approfondisce. Per
questo dicevo che l’obiettivo più che
divulgativo è ambizioso.
In che senso? Innanzitutto mi
sembra che voglia superare una certa lettura, un po’ riduttiva, sul desiderio, per cogliere il nodo strutturale
che fa del desiderio una questione
cruciale, non solo per la psicoanalisi, ma anche per la nostra esistenza.
Come se dicesse “guardate che qui è
in gioco ben di più dell’ovvio di cui
si parla”.
In effetti, ci sono delle formule,
molto in voga anche tra i lacaniani
che hanno fatto del desiderio una sorta di spirito guida: quando esitiamo
di fronte agli ostacoli, quando siamo
impelagati nel dilemma delle scelte, il
desiderio ci mostrerebbe la via. Queste formule che, come dicevo, sono
molto frequentate, sarebbero indicate soprattutto dal Lacan del Seminario
vii. Un seminario popolato da eroi,
da capitani coraggiosi che fanno del
desiderio la loro guida assoluta. Uno
di questi eroi è Antigone che, come
sappiamo, decide di contrapporsi
alle leggi della città pur di seguire le
ragioni del cuore, che le intimano di
dare sepoltura al corpo di suo fratello.
La frase in cui qualcuno vorrebbe
vedere condensato, in una formula,
il tema del desiderio è quella in cui
Lacan, alla fine del commento alla
tragedia di Antigone, sostiene che
221
se c’è una colpa che non possiamo
perdonarci è quella di non agire
conformemente al nostro desiderio,
di cedere sul desiderio.
Possiamo ridurre la complessità
del desiderio a questa formula? Giustamente, Recalcati ricorda che Lacan non ha mai incoraggiato questa
lettura semplificata. Una lettura che
vede in Antigone una sorta di idealizzazione del desiderio, a cui verrebbe
affidata una valenza eroica, quasi onnipotente e, come sappiamo in fin dei
conti, tragica. Questa retorica del desiderio, e del suo valore assoluto, parte dal presupposto che esista solo una
legge, quella del proprio desiderio.
Se è vero che la psicoanalisi insegna a tener conto del desiderio,
allo stesso tempo ci invita anche a
confrontarci con l’impossibile che il
desiderio porta con sé. C’è dunque
un’altra legge, che ci trascende, con
cui deve confrontarsi la legge particolare del desiderio. È questa la lezione del padre: non posso avere tutto, non posso capire tutto, non posso
evitare di fare i conti con il limite.
Devo, dunque, riuscire a coniugare
il desiderio con la legge. L’eclissi del
desiderio non deriva, allora, dall’incapacità di andare dove ci porta il
cuore, secondo un’altra ben nota
formula. Questa molto più tragica.
Ma allora perché Lacan affida ad
Antigone un ruolo così emblematico?
Provo a spiegarmi prendendo le
cose dall’inizio, dall’inizio della nostra umanità che si costituisce a partire da un’alterazione, da una rottura
di un meccanismo naturale, regolato
dall’istinto, regolato dai cosiddetti
bisogni naturali. In questo nuovo
inizio siamo al di là dell’istinto, al di
222
lettera
là di una condizione di natura, Freud
dirà che siamo al di là del principio
di piacere. Siamo al di là di un principio guida, di istruzioni codificate
che orientano e determinano la condotta. Siamo nel punto di sconnessione e di separazione tra l’animale
e l’umano e, potremmo aggiungere,
tra l’umano e l’inumano.
In questo al di là, si apre un
mondo di infinite possibilità. Basta
guardarsi intorno per vedere come
l’azione dell’uomo tra le sue possibilità abbia fatto valere anche una
valenza distruttiva. Stiamo parlando della pulsione di morte. Ma non
vorrei soffermarmi su questo, quanto sul confine. Perché a partire da
questo punto possiamo fare le nostre
considerazioni sul desiderio. Perché
da questo punto in poi siamo senza
istruzioni, non siamo guidati dall’istinto.
Se non abbiamo un principio a
guidarci, ci ritroviamo in pieno in un
dilemma etico e il punto da cui parte
ogni discorso etico è che l’uomo non
ha un destino biologico, né spirituale, né qualsivoglia altro destino da
perseguire. Se così fosse non ci sarebbe nessuna esperienza etica possibile,
ma solo compiti da realizzare.
Questo non significa che si possa
essere o realizzare qualsiasi cosa. La
testimonianza paterna – come ricordavo prima – ci ricorda proprio
questo. Che non tutto è possibile,
e comunque comporta sempre un
prezzo. Antigone mette bene in evidenza questo, facendoci cogliere il
punto limite del desiderio, perché lo
mostra nella sua purezza, nella sua
forma assoluta.
E allora, cosa ci guida? Cosa è
recensioni
giusto, cosa è bene, cosa desiderare,
chi desiderare? Non c’è una risposta
scritta. Anzi, se andassimo a cercare
la risposta nei libri o attraverso dei
calcoli, la nostra non sarebbe una
scelta, ma la ricerca di istruzioni, di
dispositivi cognitivi che ci guidino.
C’è un passo molto interessante
che Recalcati riprende da Lacan e
dal suo Discorso ai cattolici, in cui Lacan tocca questo tema. Nella conferenza Lacan afferma che la regola
che ha seguito, negli anni, nell’ascoltare le vite che si confidavano davanti a lui, è stata quella di “tacere
l’amore”. Di restare in silenzio, senza
giudicare, di fronte ai dubbi, le scelte
particolari, di fronte a quei segreti
che Lacan definisce “triviali e impareggiabili”. Stiamo parlando della
posizione di Lacan di fronte all’amore, di fronte a una scelta, qualunque
essa sia, che riesce a coniugare il desiderio con la legge, che non perde di
vista l’Altro e il rispetto per l’Altro.
Ma torniamo ai segreti triviali e
impareggiabili. Triviale deriva da
trivium. Il trivium è l’incrocio di tre
strade, per i latini “la pubblica via”,
dove si trovano cose comuni, ordinarie. Perché c’è qualcosa di ordinario
nell’amore. Ma anche di impareggiabile, cioè di assolutamente straordinario. Perché l’amore riguarda ciascuno
di noi, ma ciascuno di noi riesce a
declinarlo in un modo particolare. In
un modo cioè che è al di là – come
dicevo prima – di qualsiasi principio
guida, che stia scritto nel codice genetico o in un libro. Al di là di ogni
commento, di ogni interpretazione
che ci viene proposta dallo psicologo
di turno in qualche salotto televisivo.
Lacan invece si chiede: cosa si
può fare, se non tacere di fronte a
questa straordinarietà dell’amore?
In effetti, un analista non può proprio arrogarsi il diritto di sapere qual
è la cosa migliore per l’altro, qual è
il suo bene. Perché è proprio grazie a
questo, grazie al fatto che un analista
non sa, nel senso che è abitato dalla
passione dell’ignoranza che l’altro
può parlare. Può dire la sua. Può trovare spazio per il proprio desiderio.
Chiunque si ingaggia in una relazione di aiuto non può che partire da
qui. Dall’assumersi un desiderio più
forte di quello di essere il padrone o
di agire in nome di un bene istituito
o di un compito sociale.
Se questa è la lezione di Lacan,
che dobbiamo provare a riproporre,
dobbiamo pensare che solo in questo modo possiamo preservare quella
soglia, di cui parlavo prima, quell’al
di là che ci distingue dall’inumano.
Perché l’umano non è una sostanza
data, una volta per tutte. L’umano si
produce ogni volta, in modo inedito,
straordinario. Altrimenti c’è identificazione anonima, conformista, desoggettivata, alle maschere contemporanee. Il desiderio è la possibilità
di generare del nuovo. Certo, ma
non è detto che vada così.
Quando Nietzsche si chiedeva, nei
Frammenti postumi – siamo nel 1881
– “perché non dobbiamo realizzare
nell’uomo ciò che i cinesi riescono a
fare con l’albero – sicché esso da una
parte produce rose, dall’altra produce delle pere” sta immaginando un
assetto antropologico in cui il genere
umano possa essere diviso in categorie non equivalenti, tra selezionati e
selezionatori, tra chi decide sulle forme di vita e chi no. Il tema, su cui si
223
sofferma anche Heidegger nella sua
Lettera sull’umanesimo, in cui mette in
tensione umanità e animalità, torna
in molta filosofia dei nostri ultimi cinquant’anni, concentrandosi soprattutto sul concetto di Foucault di “biopolitica”. Sulle forme che può assumere
il potere, o la politica, quando prende
in carico la vita, la nuda vita, la vita
ridotta alle sue funzioni essenziali.
Questione emersa tragicamente
durante il nazismo, che era riuscito
a pensare a una distinzione tra vite
degne e vite indegne di essere vissute.
I campi di concentramento sono stati
un mostruoso laboratorio – come li
ha definiti Hannah Arendt – per isolare la nuda vita, ovvero per separare
l’umano dall’inumano, per escludere
alcune categorie di persone dalla vita
umana.
E allora, quando parlavo dell’obiettivo ambizioso di questo libro, e
di un percorso che ha portato Recalcati di nuovo sul tema del desiderio,
facevo riferimento a una attenzione
che attraversa il lavoro di Recalcati,
e a una necessità di dire qualcosa rispetto a questa soglia che incarna il
rischio, mai superato, di una confusione categoriale tra umano e inumano.
E Recalcati ce lo ricorda: “Quando la
felicità diventa un programma cognitivo o comportamentale e si pretende
di misurarla con gli strumenti obiettivi della scienza, essa si trasforma
fatalmente in un incubo totalitario.
Cos’è infatti il totalitarismo se non
imporre all’Altro la nostra misura del
Bene? Perché, è sempre Lacan che lo
ricorda, quando si pretende di agire
in nome del Bene universale, in nome
della Causa giusta, non c’è più limite
alcuno al Male”.
224
lettera
recensioni
Come a dire che i dispositivi immunitari, messi in atto a protezione
del Bene, della vita e, almeno teoricamente, del desiderio che la anima,
si trasformano necessariamente, proprio perché l’umanità si produce solo
in una singolarità irriducibile, in una
minaccia mortale per il desiderio e
per la vita. Come ne usciamo?
Giovanni Mierolo
Torino, 17 marzo 2012
Dieci pensieri sulla politica
di Roberto Esposito
(il Mulino, Bologna 2011)
Nelle pagine che seguono pubblichiamo alcuni interventi relativi alla
presentazione del libro Dieci pensieri
sulla politica che si è svolta a Milano il
23 marzo 2012, coordinata da Pino
Pitasi, con gli interventi del sociologo
Federico Chicchi e dello psicoanalista Giovanni Mierolo.
“Discutere la psicoanalisi” ci consente di ospitare Roberto Esposito,
docente di Filosofia teoretica presso
l’Istituto Italiano di Scienze Umane
di Firenze e di Napoli, e ci offre l’opportunità di presentare questo suo
recente libro, Dieci pensieri sula politica.
Vorrei ricordare che Roberto Esposito ha pubblicato in diverse lingue libri che sono diventati capisaldi
di una riflessione ricca e molto apprezzata. Tra questi cito Communitas.
Origine e destino delle comunità, Immunitas.
Protezione e negazione della vita, Bios. Bio-
politica e filosofia, Pensiero vivente. Origine
e attualità della filosofia italiana.
Non mi addentrerò nei contenuti specifici del libro che andiamo a
presentare poiché saranno Federico
Chicchi, sociologo del lavoro, docente presso l’Università di Bologna,
membro di alipsi, e Giovanni Mierolo, membro analista di alipsi, ad
approfondire le tematiche sulle quali
Esposito si è cimentato con accurata
raffinatezza discorsiva.
Mi preme, però, qui sottolineare,
sia pur per accenni, l’intenso e fecondo percorso di studio e di ricerca nel
campo filosofico e politico che caratterizza, più in generale, la riflessione
di Esposito.
L’autore ci ricorda, anche nell’articolo Il made in Italy della filosofia,
apparso su “la Repubblica” del 24
febbraio 2012, il carattere tendenzialmente antinazionale del pensiero filosofico italiano, da sempre
confrontato e contaminato da altre
tradizioni, ben oltre i propri confini.
In Dieci pensieri sulla politica, Esposito mette in luce questa disposizione
e nel suo ricercato stile metodologico lascia interagire, nell’affrontare le
delicate questioni della politica, della democrazia, del mito, dell’opera,
della violenza ecc., linguaggi e autori
diversi in una sorta di continuo scambio, intreccio e rovescio di piani.
I termini della politica che l’autore indaga sono sottoposti a una
vera e propria torsione, la pluralità
di voci è sempre preservata, la critica pungente esercitata sulle categorie
del pensiero novecentesco, se posso
dirlo, non è mai fondativa. Questo
libro mi è apparso come il tentativo
appassionato di rompere con la pre-
supposta compattezza dei dispositivi
discorsivi attuali.
Il richiamo all’impolitico, che costantemente ritroviamo nel libro, suona come un avvertimento a non fare
di questo termine una categoria contrapposta a quella classica della politica ma, semmai, di pensarlo come
una prospettiva, come una modalità
di sguardo e quindi un modo di guardare alla politica. Difficile, insomma,
dire e cogliere, al tempo stesso, cosa
sia l’impolitico.
L’autore suggerisce nelle prime
pagine del suo libro che, se dovesse dire, solo in negativo, a cosa allude l’idea di impolitico, direbbe che
l’impolitico tenta di interrompere il
circuito tipico della tradizione della
filosofia politica che la rappresenta e
la identifica con il bene, come autolegittimazione di un valore.
Non vorrei qui omettere l’importanza che i concetti di biopolitica, di
comunità e di immunità rivestono
nella riflessione di Esposito che, assieme ad altri autori italiani (Agamben, Negri e altri) ha offerto nuove e
originali formulazioni interpretative
di quanto aveva teorizzato Michel
Foucault sui dispostivi di potere nel
loro rapporto con la vita.
Mi riconosco e parteggio per
l’idea che il nostro autore lancia sulla
già citata pagina di “la Repubblica”
dove sostiene che “quello italiano
più che del potere, è un pensiero della resistenza” e che oggi quello che
più cercano “anche i movimenti di
protesta che riempiono le piazze di
mezzo mondo è una teoria della soggettività politica orientata al conflitto” e che “anzi solo quest’ultimo, se
trattenuto nei confini della politica,
225
può conferire ad essa la vitalità che
sembra aver smarrito”.
In ultimo, un riferimento alla questione della responsabilità, tanto cara
alla nostra comunità di psicoanalisti,
e così mirabilmente descritta con le
parole di Elias Canetti in Massa e Potere: “Questo, secondo me, è il vero
compito degli scrittori. Grazie a una
capacità che una volta era di tutti e
che ora è condannata all’atrofia, capacità che essi ad ogni costo hanno
il dovere di conservare, gli scrittori
dovrebbero tenere aperte le vie di
accesso tra gli uomini. Dovrebbero
essere capaci di diventare chiunque,
anche il più piccolo, il più ingenuo, il
più impotente”.
Ovvero, chiosa Esposito a ulteriore chiarificazione, “anziché potenziarsi, lo scrittore deve aprirsi nel
senso specifico di fare posto al proprio interno a ciò che gli è estraneo:
al sapere, all’esperienza, all’esistenza
dell’altro; solo così egli potrà stare
anche con se stesso. Rispondere di
sé: rispondendo in primo luogo degli
altri, per gli altri, negli altri”.
Questo per discutere la psicoanalisi attraverso e con i Dieci pensieri sulla
politica di Esposito.
Pino Pitasi
In primo luogo permettetemi di dire
che il volume di Roberto Esposito
Dieci pensieri sulla politica è un libro
seducente, che seduce il lettore. In
che senso? Nel senso – come indicava Baudrillard – che non vi è seduzione se non vi è un segreto da fare
proprio. Dieci pensieri sulla politica è un
condensato di sontuose argomenta-
226
lettera
zioni, di dettagliate ricognizioni nella
filosofia del Novecento e di sorprendenti intuizioni, che raccolgono e tematizzano – ampliandone e al contempo circoscrivendone l’ampiezza
concettuale – i nodi irrisolti, le fratture, le forzature della società politica moderna. Occorre allora percorrere, insieme all’autore, un itinerario
interpretativo, denso, mai sazio, mai
completo ma sempre tensivo e recalcitrante a manifestare un approdo
definitivo. O ancora meglio: quando si concede un approdo, questo è
sempre inquieto, ondulatorio, mai
dispiegato. E questo insaturo rappresenta, a mio avviso, al contempo la
trama etica del volume di Esposito.
Il testo è composto da un insieme stratificato di rimandi e di suggestioni che definiscono un quadro
complessivo, certo eterogeneo e molteplice, ma anche sempre teso sulla
questione centrale che l’autore pone
nel volume e che definisce attorno al
tema dell’impolitico. “Come si diceva,
il quadro di pertinenza all’interno
del quale Dieci pensieri sulla politica va
collocato è costituito da quel punto
di vista critico sulle categorie politiche moderne che, nella riflessione
italiana degli anni Ottanta, ha assunto il nome di impolitico” (p. 7). Concetto tutt’altro che semplice, concetto limite, e su cui dovremo tornare,
se non altro perché, per quanto riguarda questa edizione del volume
– con un’operazione che forse Paolo
Virno, via Bergson, chiamerebbe di
ricordo del presente –, ci permette di
rammentare e di illuminare genealogicamente i passaggi di quella che
sarà l’opera successiva di Esposito.
Quella legata prima al paradigma
recensioni
immunitario e biopolitico e poi a quello
più recente dell’impersonale.
Un libro questo che impegna a
fondo il lettore in almeno due modi:
il primo perché lo pone al cospetto
dell’impossibilità della sintesi (sintesi
dialettica che è quindi tanto rifiutata
da Esposito nella sua teoresi, quanto complementariamente nello stile
del volume), espone il lettore, in altri
termini, di fronte alla sua divisione costitutiva, di fronte all’impossibilità di
fare Uno, di fronte alla sua radicale e
perturbante alterità. In secondo luogo lo costringe, vista la minuzia e la
profondità filosofica degli argomenti
e non secondariamente la straordinaria qualità retorica (tangibile, riconoscibile, singolare), a fare i conti con la
passione della propria ignoranza.
Detto questo, senza piaggeria alcuna s’intende, occorre ancora dire
che il libro, nonostante sia solo un
aggiornamento di un volume che ha
oramai quasi vent’anni, porta con sé
tutta la sua sorprendente attualità.
Credo sia una delle ragioni di questa
recentissima riedizione. Perché attuale?
Perché il volume interroga il cuore stesso della crisi sociale ed etica
del nostro presente. E cioè interroga
la politica e il politico dall’interno:
cioè nel cono vuoto della sua insuperabilità. Nell’orizzonte del potere
come costitutivo del soggetto. Come
suo ambiente non oltrepassabile.
Il lessico politico del moderno è
attraversato secondo Esposito da una
crisi irreversibile. Citando Simone
Weil, Esposito ci invita a prendere
consapevolezza che “possiamo prendere tutti i termini, tutte le espressioni del nostro vocabolario politico, e
aprirli; al loro interno troveremo il
vuoto”. E questo naturalmente ha a
che fare anche con la filosofia e con la
sua pretesa di essere strumento e guida della politica. Si può cogliere tra le
pagine del libro il respiro e l’urgenza
di una nuova prospettiva interpretativa capace di raccogliere, ribaltandola
da capo a piedi, la sfida perduta del
politico moderno. Mi riferisco cioè
all’urgenza di pensare a una politica
dopo-moderna che sappia fare i conti
con la nuova e pervasiva mistica del
discorso capitalista. Badate bene, però,
nella proposta di Esposito non vi è
mai una sfrontata palingenesi. In
questo libro, si segue il metodo della
decostruzione, e in parte s’inaugura
e anticipa un’archeologia del discorso. Come scriveva l’autore nella precedente edizione (quella a nove, per
intenderci). I lemmi della filosofia
moderna e occidentale “si prestano
ad una sospensione, a una sorta di
epoché, dall’usuale circuito comunicativo e si rendono disponibili ad una
radicale conversione semantica”. In
questo senso il suo è un deleuziano
lavoro da artigiano del concetto.
Esposito lavora in modo mai meccanico e ripetitivo attorno alle parole, ai
lemmi, cercando di orientarne la semantica – senza abbandonare la tensione con la loro radice etimologica
– in modo nuovo e perturbante. Perturbante perché come lo stesso autore
sottolinea, la torsione che i concetti
del politico subiscono sotto gli acuminati strumenti del filosofo è tale che
questi “sono spinti a ridosso del loro
opposto” mostrandone riserve di significato che alla fine, con sorpresa e
fin quando la traccia mnemonica del
ragionamento si manifesta, si palesano come paradossalmente familiari.
227
L’esemplificazione più chiara è allora proposta, a mio avviso, nel testo
quando Esposito “lavora” il lemma di
Opera attraverso San Paolo e un commento all’Epistola ai Romani di Karl
Barth: ecco allora che l’azione tende
a congiungersi all’inazione, quasi a
farsi tutt’uno con essa.
L’impolitico ha allora a che fare
con l’assunzione di un limite, un’interruzione, interna alla politica stessa. È il limite che segna il rovescio
interno della politica, il suo punto
vuoto. E aggiungiamo noi: quel vuoto necessario a renderla possibile
come prassi. Questo stesso limite
non è mai però una contropolitica,
un contropotere, non è la negazione
dialettica della politica, altrimenti ci
troveremmo già in un nuovo e ribaltato positivo.
La tesi forte e potremmo forse
dire sagittale del libro è dunque che
la modernità ha fallito, ha pregiudicato il suo progetto perché ha, senza
successo, tentato di rimuovere dal
suo contesto storico il tema del conflitto (se volete della differenza, della
potenza della differenza). In altre
parole ha trattato il dissidio (che Lyotard interpretava come una contesa
tra differenti giochi linguistici) come
una scoria da eliminare, come un
problema da ricondurre (aggiungo
io: violentemente) in seno al centripeto ordine costituito. In altre parole
come un elemento di disturbo, un
elemento diabolico da espellere o
quanto meno da addomesticare e
rendere simbolicamente inerme.
Questo fallimento connota in
profondità (nelle latenze culturali e
simboliche) e superficialmente (nella
qualità dei suoi principali istituti di
228
lettera
amministrazione e governo) il nostro
presente storico, che si trova ad agire (nuovamente?) in un luogo orfano
del Terzo, orfano della mediazione
che presidiava, orfano dell’Altro.
Nella crisi più radicale delle istituzioni del moderno. Nelle sabbie mobili dell’inconsistenza (nel bene e nel
male, intendiamoci) dell’attuale sfera
pubblica.
Qui vale la pena di leggere un brevissimo passaggio del volume perché
ci pare in grado di consegnarci la sua
verità argomentativa più profonda.
“Contrariamente a tutte le posizioni
di tipo metapolitico, postpolitico o
antipolitico che, a vario titolo, contestano o almeno sfumano, questa analisi, la prospettiva dell’impolitico non
soltanto la fa integralmente propria,
ma in qualche modo la radicalizza,
escludendo in linea di principio qualsiasi realtà sottratta allo scontro tra
poteri contrastanti. In tal senso essa
si riconosce nella tradizione realistica
che, da Tucidide a Nietzsche, passando per Machiavelli, individua nel
dissidio non il resto eliminabile, ma
il presupposto stesso della convivenza
umana” (p. 9).
Ci sono allora due questioni principali che ne discendono. Questioni
su cui ci dobbiamo trattenere per un
poco.
La prima riguarda la questione
dell’impolitico, che come abbiamo accennato è il concetto che tiene assieme il volume, che attraversa come
uno spettro tutta la sua estensione
concettuale. Come è noto è anche
il primo grande tema della riflessione di Esposito. Tema a cui tra l’altro l’autore ha dedicato, nel 1988,
un’opera chiamata Categorie dell’impo-
recensioni
litico. Ma la negazione che il prefisso
in assume in modo assai particolare è
tanto importante in quanto non abbandona mai la teorica espositiana
ma anzi la caratterizza dal principio
alla fine, riattualizzandosi oggi palesemente all’interno del tema dell’impersonale.
L’impolitico non è, non indica la
fuga dal politico. Quest’ultimo non
può essere superato, è dimensione
costitutiva dell’umano. Il potere segna
la vita fin dal suo esordio. L’impolitico
non definisce quindi una sfera che
sfugge magicamente o per capovolgimento alla presa del potere. Non
figura, immediatamente, un altrove.
Al limite lo evoca come orizzonte.
Potremmo dire che esso s’inscrive
in uno spazio interstiziale che non
ordina nessuna filosofia/teologia/
ideologia politica. Esclude ogni rappresentazione del bene, rifiuta la sua
articolazione dentro la questione
della produzione del bene. Per dirlo
con il Lacan del Discorso ai cattolici sa
tacere sull’amore.
L’impolitico indica dunque, facendo barra, facendosi limite presente, l’essere strutturalmente difettivo
della modernità. La sua impossibilità di ricondurre ad Uno il bios. Ma
forse proprio qui, dove l’impolitico si
mostra, palesando il limite interno/
esterno del progetto politico moderno, rivela contemporaneamente, simultaneamente, il limite stesso
dell’impolitico: la sua intrinseca vocazione al segnalare, al profanare, al
dissimulare ma fondamentalmente
incapace di affermare una svolta in
seno alla trappola del moderno che
contribuisce a rendere palese. Non è
forse questo il punto in cui Esposito
immette la questione dell’impolitico
nella traccia del paradigma immunitario? Iniziando la seconda fase del
suo percorso “in”?
Il punto di rottura inevitabile che
pone sul piatto Esposito è quello
della prigionia dell’azione politica
nell’incavo destinale dell’origine. Il
cosiddetto paradigma della presupposizione, all’interno del quale il futuro
non può che essere legato a doppio
filo all’eredità del passato. L’ontologia
del presente, atteggiamento di interrogazione sui saperi e sui regimi discorsici del presente che Esposito fa propria a partire da Foucault, lo porta
a cercare un punto di interruzione
di questa catena istoriale che trova
disposizione nella democrazia rappresentativa e nella sua logica appunto
trascendentale.
Pensare conflitto e democrazia come aspetti congiuntivi e irriducibili
apre invece allora a uno scenario di
produzione del comune che va nella direzione dell’affermazione della
vita, del bios, uno scenario che fa a
meno del presupposto d’ordine che
la modernità hobbesiana aveva posto
come suo fondamento trascendentale.
Insomma Esposito attraverso quella
che definisce come biopolitica affermativa ci invita a cambiare il segno del
rapporto tra ordine e conflitto, inaugurando in una strana sintonia (solo
di metodo) con il Mario Tronti di
Lenin in Inghilterra, quando invitava a
pensare il rapporto tra Capitale e Lavoro nella sua forma ribaltata. Dove
è il lavoro che è soggetto motore della
storia e non il capitale a cui continua
a sottomettersi.
Al di là della provocazione operaista, qui si apre a nostro avviso la
229
questione centrale del pensiero di
Esposito. La questione che lo spinge
a forzare la sua analisi in una sorta
di torsione del paradigma immunitario che gli era servito per leggere il
rapporto tra vita e politica oltre l’impasse foucaultiana. Tale paradigma
è infatti destinato nella modernità
ad assumere le forme paranoiche e
mortifere della tendenza autoprotettiva e autoimmunitaria. A comporsi
in quella che Lacan chiama la follia
del credersi un Io. Follia identitaria,
dunque. Già in questo libro il tema
del neutro o se preferite il tema
dell’impersonale è allora evocato
come possibile via di uscita. Ma in
quale direzione? Si tratta di affermare una vita al di là del dispositivo della persona, che include differenziando e sottomettendo come già Marx
aveva brillantemente sottolineato
nel Capitale. La pista di ricerca da costruire è allora tesa e incerta tra un
rinnovato naturalismo della pulsione
vitale che eroga spinozianamente
desiderio e articola singolarità e un
pessimismo inoperoso che però pare
destinato a un inerziale e nichilistico
esito. Ma seguendo tale percorso interpretativo usciremmo dal compito
assegnatoci oggi.
La questione, per concludere, credo si ponga in ogni caso sul crinale della relazione tra economia e
politica (nella bioeconomia) dove
questa seconda pare oggi sempre
più soccombere in favore dei regimi di verità della prima. Il rischio è
che, consumandosi fino all’estremo, il capitalismo consumi anche la
vita.
Federico Chicchi
230
lettera
Roberto Esposito ha costituito e
costituisce per la nostra comunità
un riferimento essenziale. Chi avesse avuto modo di leggere nel sito
dell’Associazione Lacaniana Italiana
di Psicoanalisi lo scritto che la presenta, avrà notato il debito evidente
che abbiamo contratto con il lavoro
di Esposito, sui temi della communitas
e dei dispositivi immunitari. Parlo di
debito perché anche grazie al suo lavoro abbiamo provato a pensare alla
forma del legame tra analisti e al tipo
di comunità che degli analisti possono costruire.
In effetti, il tema della comunità
è un tema vitale per la psicoanalisi e
la sua sopravvivenza. Freud e Lacan
hanno pensato alle comunità analitiche come a un riferimento imprescindibile per dare vita alla psicoanalisi e per poterla trasmettere. Ciò
nonostante le comunità che hanno
fondato sono state spesso attraversate
da movimenti interni che ne hanno
minato le fondamenta, mettendone
in dubbio ripetutamente la sopravvivenza.
La nostra stessa associazione nasce da una rottura, da un movimento di separazione da un precedente
legame associativo. Anche per noi,
quindi, è importante capire cosa
concorre a costituire una comunità
e cosa la minaccia.
Per questo mi soffermerò in particolare su uno dei dieci pensieri, dei
dieci temi, contenuti nel testo, che
prende il titolo di Comunità e violenza. Mi soffermerò su uno solo anche
perché ogni tema mostra una complessità e una ricchezza che meriterebbe molto più tempo per essere
trattato e approfondito.
recensioni
Comunità e violenza è anche l’ultimo
tema trattato nel libro. È l’ultimo anche perché con questa riflessione si
chiude una fase del lavoro di Esposito sulle categorie dell’impolitico e se
ne apre un’altra, che troverà una sua
concretizzazione in Bios e soprattutto in Communitas e Immunitas, che ho
citato prima.
Per cominciare, Esposito si sofferma sul fatto che, all’inizio della
comunità, vi sia una violenza omicida; Caino e Abele, Romolo e Remo,
Eteocle e Polinice ne sono l’esempio.
Ma questi omicidi non sono omicidi
qualsiasi: il sangue che cementa le
mura delle città è sangue di famiglia,
è sangue fraterno. Questa comunanza di sangue mostra come la violenza originaria, la violenza che minaccia la comunità, sia una minaccia
che non proviene dall’esterno, ma
dall’interno. La violenza si scatena
proprio perché mette a confronto i
fratelli. Esposito riprende René Girard per mettere in evidenza che gli
esseri umani si combattono a morte
non perché troppo diversi – come
tendiamo ingenuamente a credere –
ma perché troppo simili come sono
appunto i fratelli. Dunque si uccidono reciprocamente non per eccesso,
ma per difetto di differenza. Quando
l’uguaglianza è troppa, quando arriva a toccare l’ordine del desiderio,
concentrandolo sul medesimo oggetto, allora sfocia inevitabilmente nella
violenza reciproca.
È il tema del desiderio mimetico
di Girard. La violenza, alla sua origine, sarebbe scatenata dal fatto che
gli uomini guardano nella stessa direzione, desiderano tutti la medesima
cosa.
Chi ha qualche frequentazione
delle opere di Lacan ricorda il passo che Lacan riprende da sant’Agostino, in cui parla del bambino che
osserva con uno sguardo torvo il
fratello di latte, che gode del seno
materno. La rivalità mortale attecchisce proprio in concomitanza della presenza dell’oggetto desiderato
dall’Altro.
Ho ripreso questo passo non tanto, o non solo, per mettere in evidenza il desiderio mimetico di Girard
nei confronti di Lacan (in effetti Girard dice sostanzialmente le stesse
cose, senza riconoscerlo), ma perché
per me, per noi, è importante capire
questo punto strutturale e strutturante, anche per come lo intende Lacan.
In un passo del Seminario i, Lacan,
dopo l’esempio di sant’Agostino,
parla del “gesto di Caino”. Del gesto
originario che anche Girard prende
in considerazione. Siamo in un giardino di campagna e Lacan osserva il
comportamento di una bambina, in
una età in cui a malapena si regge
sulle gambe. “Non è particolarmente
feroce – dice Lacan – però non impiega molto a prendere una grossa
pietra, per darla sulla testa di un
suo compagno di giochi, attorno al
quale stava costruendo le sue prime
identificazioni.” Lo fa senza neanche
tanti problemi: “Io rompere la testa a
Francesco”. Il gesto di Caino.
“Non le prometto, per questo, un
avvenire criminale – aggiunge Lacan
– manifestava soltanto la struttura
più fondamentale dell’essere umano
sul piano immaginario: distruggere
chi è la sede dell’alienazione.”
Poco prima Lacan aveva affermato che “il desiderio del soggetto
231
non può essere confermato se non
in concorrenza, in rivalità assoluta
con l’altro, nei confronti dell’oggetto
verso cui tende”. Questa aggressività
radicale è tenuta in vita dal desiderio
della scomparsa dell’Altro, in quanto
supporto del desiderio del soggetto.
Quindi non è in gioco semplicemente l’oggetto, l’oggetto conteso,
che trascina i due contendenti nella spirale della violenza. È in gioco
l’esistenza soggettiva, che dobbiamo
costitutivamente all’Altro. È in gioco una vita che ci viene consegnata
dall’Altro perché grazie all’Altro ci
costituiamo come soggetti. Questo assoggettamento, questa mortificazione simbolica, impone una
differenziazione. Un soggetto può
esprimersi solo in quanto differenza
assoluta dall’Altro.
Per questo Esposito dice che non
è la differenza, ma l’assenza di differenze, a farci rischiare il massacro. E
se all’inizio, in un inizio mitico, ritroviamo due soggetti che si apprestano
a fondare una città, una comunità,
è come se uno dicesse all’altro “non
posso confondere il mio desiderio
con il tuo, per questo la comunità
che potremmo fondare non può essere la nostra”. Tutt’al più la mia. Il
desiderio separa, non può fare uno.
Viene in mente Lacan che fonda
la sua Scuola: “fondo – solo come
sono sempre stato nella mia relazione con la causa psicoanalitica”. Ma
cosa si fonda da soli?
È come se Lacan dicesse: non si
può fondare insieme, al massimo uno
per uno.
“A spaventare gli uomini” sostiene
Esposito “e perciò a farli scontrare in
una lotta a morte per la sopravviven-
232
lettera
za, o per la prevalenza, è la mancanza di limiti che li mette a contatto
diretto con altri troppo simili, per
non doversi, prima o poi, colpire a
vicenda per affermarsi.”
E allora – secondo Esposito – ritroviamo da una parte la communitas,
caratterizzata dalla libera circolazione del munus, del dono, che costituisce l’apertura all’Altro, la possibilità
del contatto con l’Altro, con tutti i
rischi che il contatto comporta: indifferenziazione, contagio, violenza.
In questa comunità nuda, spogliata
di ogni forma, in cui non esiste un
confine preciso tra l’uno e l’altro, la
violenza può dilagare. E troviamo
anche, su un altro bordo, sull’altro
versante della comunità, un ricorso
ai dispositivi immunitari, all’immunitas, che disattiva il munus, il contatto
con l’altro, provando a limitare il rischio di contagio che porta con sé.
Carl Schmitt, che ha proposto
una definizione di comunità che
potremmo far coincidere con quella della tradizione occidentale, ha
prospettato l’idea di una comunità
che può essere pensata, innanzitutto, a partire da una opposizione che
esclude. L’opposizione tra un dentro
e un fuori, tra amico e nemico, è un
modo per pensare le differenze, per
assegnargli un posto. Se è compito
del politico consentire a una comunità di identificarsi e riconoscersi, la
via della contrapposizione riduce al
minimo gli equivoci. In questo senso
il nemico svolge un ruolo essenziale,
al punto che Schmitt si è preoccupato
di sottolineare che le guerre sono pericolose soprattutto perché rischiano
di distruggere il nemico; e se non c’è
più nemico non c’è identità. Dunque,
recensioni
l’immunizzazione è una costruzione
di confini, che supera la condizione
confusiva della fratellanza.
Effettivamente, rispetto alla comunità delle origini, senza legge e
senza frontiere, la soluzione immunitaria sembrerebbe in grado di salvarla dal caos e dalla distruzione.
Esposito ha messo molto bene in
luce quali sono le conseguenze del
rimedio cercato. Il sistema immunitario che dovrebbe salvaguardare
il corpo individuale e collettivo, se
è attivato oltre un certo limite, finisce per distruggerli. Le riflessioni di
Foucault sulla biopolitica, riprese e
integrate da Esposito in molti scritti e
soprattutto in Immunitas, hanno messo in evidenza come il paradigma
immunitario, che ha caratterizzato i
nostri anni più recenti, nato per proteggere la vita, allo stesso tempo ne
autorizzi la distruzione.
Basti pensare al nazismo che è
arrivato a pensare a una distinzione
tra vite degne e vite indegne di essere
vissute. A vite da sopprimere perché
potenzialmente portatrici di contagio, minaccia per le altre vite.
Ho trovato molto interessante un
articolo, uscito su “MicroMega” già
qualche anno fa, in cui Esposito, evidenzia come gli ideologi del Reich
abbiano usato, per definire i loro
pretesi nemici, l’appellativo di batteri, virus, parassiti. La biologizzazione del lessico, l’affidare a medici
e biologi la funzione di guida del
progetto immunitario per il popolo
tedesco, mostra bene come il termine di sterminio diventi assurdamente
appropriato se si tratta di distruggere
delle vite ridotte a germi invasori e
contagiosi. L’efficienza dei medici
che si occupano della disinfestazione o di aprire il rubinetto del gas per
la doccia finale (sono i termini usati
dal Reich) è indicativa del ruolo che
assume la medicina in questo processo. Eppure, i nazisti avevano lanciato
una campagna contro il cancro, che
limitava l’uso dei pesticidi, dei coloranti, del tabacco, siamo al punto in
cui – cito Esposito – “mentre a Dachau il camino fumava si produceva
miele biologico”.
E giustamente Esposito si chiede
“cosa significa tutto ciò?”. Non possiamo pensare che sia solo saltato il
confine tra guarigione e assassinio,
dobbiamo pensare questi due princìpi l’uno come la condizione dell’altro, come due versanti di uno stesso
progetto. Che conseguenze può avere, ancora oggi, questo legame? Cosa
significa questo per le comunità a cui
possiamo pensare oggi?
Parliamo di nazismo perché non è
stato solo un incidente, un inciampo
della storia, ma la rappresentazione della deriva immunitaria a cui il
nostro mondo rischia di andare incontro. “I cinquanta milioni di morti
con cui si chiude la seconda guerra
mondiale”, sostiene Esposito, “segnano il punto culminante di questo
processo apocalittico.”
Per citare un esempio più vicino a
noi basta pensare alla espulsione di
Lacan dall’Associazione Psicoanalitica di cui faceva parte: viene scritto
che “è una minaccia per la psicoanalisi”. In effetti minaccia una comunità arroccata a difesa di una identità,
di una idea della psicoanalisi. Il dispositivo – che potremmo, a questo
punto, definire immunitario – lo caccia per difendere la psicoanalisi, da
233
uno psicoanalista. Come ne usciamo se una voce dissonante è una
minaccia? Dove sta il confine con
l’eresia?
Perché – dice Esposito – senza
un sistema immunitario, una comunità, così come un singolo corpo
non potrebbe sopravvivere. Quindi
dobbiamo provare a pensare a una
immunità che non sia in contrasto
con la comunità. Dobbiamo provare
a pensare a questi due princìpi, l’immunitas (che rinvia alla separazione e
alla differenza) e la communitas (che
rinvia alla identità e all’unità), come
due princìpi non escludenti. Che non
si escludono reciprocamente.
Effettivamente, questo salto logico, questa prospettiva diversa, permetterebbe di situare in modo diverso le derive immunitarie che anche
le comunità analitiche hanno conosciuto. Allora una comunità diversa
è possibile se è disposta a rivedere i
propri confini. A situarli come i bordi
del nastro di Moebius, in cui l’interno
e l’esterno sono l’uno la continuazione dell’altro.
Questo ci aiuta a pensare a una
identità che non si contrappone, ma
è in stretto rapporto con la differenza. Nel rispetto di questo rapporto
la comunità non avrà un’identità
da difendere perché sarà in grado
di rinunciare a una rappresentazione compiuta di sé. In questo senso
sarà inappropriabile, non sarà la comunità di qualcuno. E sarà sempre
incompiuta, perché non potremo
dire cos’è una volta per tutte, perché sarà ogni volta l’esito di questo
rapporto.
Giovanni Mierolo
234
lettera
Soggettività e denaro
Logica di un inganno
di Silvano Petrosino
(Jaca Book, Milano 2012)
Costellato da riferimenti a Heidegger, Kojève, Lacan, Lévinas, Simmel e ad alcune pagine di Kafka, il
percorso in cui si inoltra Petrosino
in questo libro è alquanto originale. Si snoda infatti lungo tre termini
che sembrano rincorrersi, annodarsi
per poi dipanarsi: il desiderio, l’oggetto, il denaro. Tre parole cruciali
che tessono lo scenario del nostro
tempo. Scintillano, ciascuna con la
propria lucentezza, portando luce
negli angoli più scabrosi dell’immaginario. Questi tre termini che pure
si affacciano nella clinica psicoanalitica e quasi costituiscono il nocciolo
duro della soggettività, si intersecano
in una serie di rimandi e di inganni
insidiosi. Quasi che il denaro, “scambiatore universale” per eccellenza,
con la sua onnipotenza potesse esaudire tutti i desideri impossessandosi
voracemente di qualsiasi oggetto.
Il denaro: significante privilegiato
che simbolizza, per la psicoanalisi,
tanto la negazione della castrazione
quanto il suo aggiramento. Allude
in definitiva al trionfo dell’onnipotenza, alla possibilità immediata di
raggiungere l’oggetto, ma anche al
fantasma di un possesso interdetto e
irraggiungibile. È il tema dell’avere
e del non avere, del potere e del non
potere. E ancora: il denaro presentifica per il soggetto quella “moneta
vivente” (Klossowski), ossia il corpo
recensioni
stesso, pronta a essere spesa per “incassare il godimento”.
Petrosino muove le sue mosse con
rigore. Il desiderio non è il bisogno.
L’assenza dell’oggetto non coincide
con la mancanza, perché quest’ultima, costitutiva del soggetto, rappresenta la “cifra del desiderio umano”.
L’inganno incomincia quando il
soggetto presume di sapere qual è la
propria mancanza e crede di padroneggiare il desiderio fino a farlo coincidere con il bisogno. In preda a questo meccanismo il soggetto cercherà
ben presto un altro oggetto, ancor
più luccicante, per colmare quello
che ritiene il suo bisogno. Ecco come
la logica dell’autoinganno riproduce
l’abbaglio degli idoli. Ecco come il
denaro, apparentemente “il meno
pericoloso e il più democratico dei
fantasmi”, promuove la proliferazione di questo autoinganno. In tale autoinganno lo psicoanalista riconosce
il trucco della nevrosi, il suo trovarsi
in bilico in un’economia fallimentare, il suo tentativo drammatico di tenere insieme, come annotava Freud,
una “formazione di compromesso”.
Eppure questo stesso autoinganno,
così endemico e oggi così trionfante, proviene anche (e soprattutto) dal
discorso sociale, dalla demagogia
massmediologica, dalla gestione programmatica dell’immaginario sociale. Gli effetti devastanti li ritroviamo
nella clinica.
All’autore abbiamo rivolto qualche domanda. Partiamo appunto
dalla società ipermoderna: “Nel suo
libro in alcune pagine commenta il
passo di Lacan quando afferma che
l’oggetto è fallito, che sarà sempre un
fallimento…”. “È bene chiarire che
l’oggetto fallisce non in quanto oggetto ma in quanto risposta al desiderio
dell’uomo. Ogni qual volta l’uomo
cerca una risposta al proprio desiderio attraverso il possesso di oggetti
– la ‘roba’ di cui parla Verga – ecco
che allora egli va incontro a un fallimento, al proprio fallimento. Questa mi sembra essere un’esperienza
quotidiana, un’evidenza che è sotto
gli occhi di tutti. Tuttavia ciò che è
difficile da comprendere è perché il
soggetto si ostini a percorrere una
simile via chiusa. Su questo punto
non bisogna essere ingenui. In effetti
il possesso di un oggetto garantisce al
soggetto un certo godimento e una
qualche soddisfazione, anche se sempre temporanei; ora, come cerco di
mostrare più puntualmente nel libro,
di fronte allo sconcerto del desiderio
(che non ha oggetto, come ripete con
insistenza Lacan), il soggetto tenta
sempre di tradurre la strana logica
di quest’ultimo nella più famigliare
logica del bisogno che, proprio perché finalizzata all’oggetto, è del tutto
manipolabile e dominabile. In altri
termini, il soggetto tenta di abitare
il proprio desiderio come se fosse un
mero bisogno. Un simile tentativo è
ciò che sta alla base della costruzione
dell’idolo, che non per nulla è opera
delle mani dell’uomo.”
Di sicuro l’altra faccia dell’oggetto è quella del denaro, immaginato
incarnare una potenzialità magica.
“In che misura oggi il denaro promuove il principio secondo cui tutto
è possibile? Come ristabilire una dimensione del limite?” “La forza del
denaro”, riprende Petrosino, “è data
dal fatto che permette il possesso di
oggetti e, di conseguenza, promette
235
quel particolare godimento che il
soggetto tende a interpretare come
la risposta al proprio desiderio. Il denaro non è in sé un male, ma tende
quasi inevitabilmente a diventarlo:
permette l’accesso all’infinità degli
oggetti, alimenta l’illusione che il
loro possesso coincida con la risposta che il soggetto cerca. Del resto,
l’umanità si è spesso consegnata a
follie ben più inquietanti e pericolose di quella del denaro: per esempio
‘la patria’, ‘la razza’, ‘il sangue’, ‘il
popolo’, ‘la terra’, ‘la casta’”.
Un’altra domanda: “I giovani di
oggi quali rischi corrono in una società che permette di avere e consumare tutto e subito?”. “Va precisato
che questa società”, riprende Petrosino, “punta non tanto al possesso
delle singole cose quanto alla promozione della logica del fantasma, ossia
dell’idea onnipotente di poter possedere qualsiasi cosa. I giovani, avendo
un accesso quasi immediato agli oggetti, credono di trovare subito una
risposta immediata al loro desiderio.
Ecco l’inganno, ed è devastante. Capita per esempio che gli adolescenti
riproducano nella realtà quello che
vedono nei videogiochi. Ma il reale è
fatto di sudore, di malattia, di morte,
di gioia, di corpo. Nel virtuale manca il corpo. Mentre una volta l’accesso difficoltoso alle merci rendeva più
difficile l’ubriacatura delle cose, oggi
attraverso il denaro e l’uso di mezzi
tecnologici, l’accesso immediato a
ogni bene di consumo può dare l’illusione di raggiungere la pienezza.
Contro tale logica occorre cercare
di smascherare il potere di questo
fantasma. Occorre lottare contro
l’idolatria del nostro tempo. Contro
236
lettera
recensioni
una simile illusione, e in verità contro ogni idolatria, non si può far altro che riconoscere che il desiderio
non è il bisogno, accettando di vivere
con lo sconcerto che simile evidenza
reca con sé. D’altra parte è proprio
tale sconcerto, quello del desiderio,
l’obiettivo che la società dei consumi
s’impegna con tutte le forze a censurare. Mimando un’affermazione di
Lacan, si potrebbe riassumere così
la sua parola d’ordine: ‘Consumate,
si continui a consumare, il consumo
non si fermi; per il desiderio ripassate’”.
Giancarlo Ricci
Chi è la più cattiva del reame?
Figlie, madri e matrigne
nelle nuove famiglie
di Laura Pigozzi
(et al./edizioni, Milano 2012)
Il nuovo libro di Laura Pigozzi costituisce un viaggio appassionante
e partecipato nell’alfabetizzazione
emotiva, alla ricerca di una grammatica dei sentimenti e degli affetti
della società occidentale in un’epoca
di trasformazioni molari che spesso
ci sovrastano. Matrigna e artista in
proprio, l’autrice traccia una sua
personale linea di ricerca nel panorama psicoanalitico contemporaneo,
in grado di riconfigurare il posto del
materno nelle nuove dinamiche familiari. Mettendo in campo l’esperienza di donna e analista, che vive
nella realtà e ha assimilato tecnica
e teoria al punto di dimenticarle,
Pigozzi ci ha abituato, già con i libri precedenti, a uscire dalla stanza
d’analisi per assolvere il compito più
consono alla psicoanalisi contemporanea, quello di osservare il legame
sociale illuminando intrecci e connivenze a partire dal corpo di “una
donna”.
Riflettendo sulle nuove famiglie
– alle prese con il celeberrimo “cosa
vuole una donna?” dalla posizione
della matrigna – l’autrice mette a
nudo quei nessi iatrogeni atti a rilevare la presenza della distruttività,
proprio là dove il conformismo celebra l’amore senza condizioni della
madre e di un vincolo familiare che
la società italiana vuole intangibile e immodificabile. Nel solco della
miglior tradizione della psicoanalisi
impegnata – e basti qui rimandare
ai lavori di André Green sui processi terziari e a quelli di Didier Anzieu
sulla creatività nel fare artistico – anche questo terzo volume di Laura Pigozzi sonda il terreno del mito, della
fiaba, della tragedia antica sino a interrogare il corpus religioso, poetico e
legislativo dell’Occidente per mettere
a fuoco le ripercussioni sociali, giuridiche ed etiche che il ruolo della matrigna suscita nella contemporaneità.
L’assetto delle nuove famiglie poggia
sulla collaborazione tra le figure genitoriali – là dove possibile anche e
soprattutto della madre – e un’altra
donna, quella che giunge per i figli
in un secondo tempo, potrei scrivere
nell’après-coup essendo colei che desidera ed è desiderata. Ben lungi dal
ricoprire il ruolo di strega-orchessa
o di sirena ammaliante, la matrigna
della contemporaneità può rilanciare
allora dinamiche virtuose in grado di
veicolare un materno che non esito
a definire culturale, proprio perché
consapevole dei vissuti invidiosi e
autoinvidiosi. Lavorando sull’elaborazione e sull’integrazione, l’autrice
denunzia le trappole di un rimosso
sociale che slega e paranoicizza; riconoscendo alla madre biologica il
ruolo di vittima sacrificale, la società attuale si garantisce il controllo su
un materno da sempre refrattario a
qualsivoglia trasformazione strutturale. Alla spettacolarizzazione dell’immagine animale e asessuata della
donna che genera si accompagna il
nuovo mito di questa nostra surmodernità: la finzione di un’ecologia del
materno (biomonitoraggio del latte,
parto naturale a ogni costo ecc.) volta
a coprire l’esercizio della superstizione che serve la mascherata del potere. Proprio là dove sacralizzazione e
santificazione si fanno operazione di
marketing, la finta emancipazione
instaura, come ben argomenta l’autrice, “un nuovo matriarcato”. Ecco
allora che il ruolo emergente della
matrigna nelle nuove famiglie può disinnescare le trappole di una socialità
effimera e posticcia e gettare le basi
del “fare legame”. Con la necessità e
l’urgenza di ricomporre e integrare i
vissuti scissionali del singolo, il libro
si inscrive nel solco della freudiana
Kulturarbeit per riscoprire le potenzialità di un inconscio del corpo sociale
e delle strutture familiari allargate in
grado di riconfigurare l’Edipo. Un
esempio particolarmente felice di
questo impegno è fornito dalla rilettura del “caso Dora”: Laura Pigozzi
va oltre certa ortodossia e dogmati-
237
ca lacaniane per rintracciare il ruolo
della matrigna sin nell’atto fondativo
della psicoanalisi, che inizia con la
fuga di una donna. Con stile lieve e
argomentazioni feraci il libro dipana
un filo d’Arianna per uomini e donne che si riconoscano nel desiderio e
nell’eros, senza per questo rinunziare
alla funzione sociale di una famiglia
ridisegnata alla luce di nuovi legami e nuove aperture. Partendo dalla
propria esperienza, Laura Pigozzi
offre le coordinate per navigare nel
magma dei conformismi e dei narcisismi attuali che offuscano l’orizzonte sociale con vissuti proiettivi volti a
slegare, distruggere e denegare. Decostruendo le identificazioni paranoidee di un materno arcaico – oggi
riproposto in chiave ipertecnologica
e spettacolarizzata – l’autrice propone una via di uscita dal labirinto di
un’omologazione vorace e assolutizzante, dove vittimismo e ipercontrollo vengono rovesciati nella retorica di
una biologicizzazione dell’inconscio
e di un ritorno alla natura, proposta
come madre assolutamente e incondizionatamente buona. Solo volgendosi al sociale la psicoanalisi contemporanea può, nelle sue punte più
avanzate, cogliere le trasformazioni
in atto a partire dal posto della matrigna: donna desiderante e oggetto di
desiderio del padre agli occhi dei figli,
la matrigna può sostenerli nel difficile e doloroso processo di crescita che
comporta l’accettazione del limite e
della differenza. Muovendo da questa
pattuizione, diviene allora possibile
fare del singolo atto creativo – il desiderio del padre e della donna come
esempio da donare ai figli – il gesto
fondativo di una socialità in grado
238
lettera
recensioni
di far parlare il passato del singolo e
della specie. Il libro offre così – a partire dalla figura della matrigna – una
rilettura appassionata e rigorosa del
legame sociale per un’etica occidentale che punti dritto al futuro della
psicoanalisi come sonda e sestante
delle trasformazioni culturali.
Rosalba Maletta
Le mie sere con Lacan
Conversazioni con Marie-Charlotte
Cadeau, Marcel Czermak, Muriel
Drazien, Claude Landman, Charles
Melman, Jean-Jacques Tyszler
(Editori Internazionali Riuniti,
Roma 2012)
Si tratta di un testo polifonico che
raccoglie notevoli interviste agli allievi diretti di Lacan, modulate tra ricordi personali e urgenze teoriche intorno alla contemporaneità. Cosa c’è
in questo libro di così attuale? Innanzitutto ci restituisce il ritratto di un
Lacan lontanissimo dalla stereotipia
del guru eccentrico, per comporre,
invece, il ritratto di un uomo singolare, spesso anche taciturno. Emerge il tratto umano della sua misura
nella dismisura dei temi radicali che
affronta, del rigore del suo discorso
pur nell’assoluta originalità. Misura
e dismisura: non a caso si tratta dei
due poli implicati sia nell’analisi che
nell’arte.
La scelta di raccontare anche un
Lacan quotidiano, intimo e “serotino”, illumina ancor di più l’incandescenza della sua teoria, lontana dal
discorso universitario e del maître.
Questo può portare a chi beneficia di
una trasmissione lacaniana – se non
la si tradisce scolarizzandola – la possibilità di produrre pensieri brillanti
e audaci, battute teoriche sintetiche
e folgoranti, intuizioni felici. Il libro
ne è pieno. Come questa, di Charles
Melman: “La scrittura è implacabile
e fa a meno del consenso del soggetto”. Trattare la scrittura come un
atto mancato è qualcosa dell’ordine
della trovata e permette di non idealizzare la capacità creativa e di non
confondere sublime e sublimazione. Non è poca cosa. Libro attuale
(inattuale direbbe Nietzsche) perché
mostra – in un’epoca il cui il confort
è il “bene” supremo – quanto Lacan
sia splendidamente inconfortevole
e sovversivo. Sovversivo e non rivoluzionario, perché egli pensava che
la rivoluzione, come in astronomia,
ritorni all’identico, mentre nella sovversione il soggetto “passa sotto”,
dice Charles Melman.
Questo testo è animato da una
forte vocazione per una psicoanalisi implicata con la modernità: cruciale è, per esempio, la denuncia di
Jean-JacquesTyszler sul pericoloso
divorzio tra psicoanalisi e psichiatria:
mentre in Lacan l’interrogazione sulla follia aveva un posto d’onore, oggi
non a caso il paradigma generale
della psicosi, nel dsm, è diventata la
schizofrenia al posto della paranoia:
perché? Per imporre una lettura deficitaria della malattia mentale al posto della ricchezza del delirio. Prima
di approfondire i contenuti del libro,
una nota di merito va alla casa editrice, che nasce da un rinnovamento
della storica Editori Riuniti a cui si è
aggiunto il significante Internazionali proprio perché, cosa unica in Italia, vengono pubblicati, e distribuiti
all’estero, i testi nelle lingue implicate.
Il libro inizia – come in una partitura – con una Ouverture di Charles
Melman che mette in moto diverse
riflessioni: “Pensiamo di essere originali e ciononostante diciamo sempre
le stesse cose. E se diciamo sempre
le stesse cose è perché da qualche
parte c’è una legge”. Sottolineare
la legge come legame – in un’epoca illusoriamente trasgressiva – è
un’operazione sovversiva. La legge
è la trama e l’ordito su cui il soggetto può creare, è l’ancoraggio da
cui può partire un’invenzione non
chimerica. La legge è la tela del quadro, la sua grana, su cui mi autorizzo a dipingere. La legge è il tempo e
l’architettura armonica entro cui la
melodia può inventarsi. La legge è
il ritmo, senza il quale il suono non
ha impulso. Ora, però, neppure la
legge è l’ultima parola, “non c’è mai
un’ultima parola” (Melman), se così
fosse saremmo nel discorso del maître
e non dello psicoanalista. Se ci fosse
un’ultima parola, una religione, vorrebbe dire che siamo in un godimento pieno da cui ogni essere umano è,
invece, strutturalmente in esilio (un
altro modo per dire questo esilio è
che “non c’è rapporto sessuale”).
Al contrario, il linguaggio rivela che
al posto del maître viene l’oggetto di
scarto, discorso che il maître rigetta.
“Vi rendete conto, c’è mai stato nella cultura qualcuno che abbia osato
mettere in rilevo una cosa simile?”
239
chiede Melman. E questo è il cuore
della questione perché, ricorda Melman, è ciò che “permette al soggetto
di essere comandato dall’oggetto del
suo fantasma, l’oggetto scarto”.
Paradossalmente l’ultima parola è
lalangue, che è anche la prima. Melman parla di matriarcato: la lingua
materna “è il fantasma di una lingua
che mi lascerebbe faccia a faccia con
mia madre, facendomi posto senza
che io abbia nulla da pagare”. Credere che l’amore possa avere forma
compiuta, non arrendersi all’impossibilità della compiutezza, si paga caro.
Con la psicosi, per esempio: “La
psicosi è una sorta di fallimento nel
compimento di ciò che è chiamato
amore”, dice Lacan a Yale nel 1975,
citazione ricordata nelle ricche note
del libro curate da Cristiana Fanelli,
direttrice di questa collana chiamata
Scilicet. Sull’impossibilità dell’amore
leggiamo un Witz di Melman: “Oggi
l’incontro tra un uomo e una donna
dipende dalla fede, dalla speranza e
dalla carità”. Come fanno un uomo e
una donna a stare insieme? In effetti,
ogni volta è un’invenzione che onora
l’alterità e risveglia dall’illusione contenuta in quello che Melman chiama
il complesso di Colombo, cioè la lingua originaria, materna, fonte di ogni
delizia, che si crede possibile e rieditabile nell’incontro amoroso.
La coraggiosa intervista a Czermak tocca un tabù ancora resistente:
la questione dell’odio nel cuore stesso dell’amore, l’odio nella donna,
nella madre. Quello delle donne che
“possono scopare solo nell’odio… ci
sono altrettante donne assassine che
uomini assassini. Ma non sta scritto nella nostra dottrina”. E ancora:
240
lettera
“Forse che la Vergine Maria sarebbe la versione rimossa del fatto che i
bambini non ignorano che una donna può essere un’assassina?”.
Il contributo di Marie-Charlotte
Cadeau è un bel regalo sulle questioni del femminile: il Godimento Altro
e il ravage, cioè il classico “né con te,
né senza di te” che lega una figlia
alla madre e che le donne spesso ritrovano nelle relazioni con un uomo
ma anche con amiche particolarmente intime. L’abisso delle relazioni
declinate al femminile ha un legame
con quel Godimento Altro così affine
alla voce nel suo farsi silenzio e urlo.
L’urlo del quadro di Munch, ricordato da Cadeau, sembra rappresentare
la femminilità della voce: “La parte femminile degli esseri parlanti è
muta o canta”, dice Melman.
Sempre sulla voce, notevole è la
domanda che si pone Jean-Jacques
Tyszler intorno alla clinica della nascita della voce allucinatoria. È la
voce che viene da fuori, che il soggetto non riconosce come propria, forse non troppo diversamente da chi,
spaesato, ascolta la propria voce registrata. Possiamo dire che la voce allucinatoria è una speciale enfasi, una
parabola della voce come oggetto in
perdita, estranea, non riconosciuta
dal soggetto stesso quando si ascolta o
riascolta. Tyszler si domanda: “Come
si produce in un soggetto l’idea che
la propria voce si emancipi al punto
di mettersi addirittura a criticarlo?”.
Il fenomeno resta incomprensibile
e misterioso; il soggetto interroga se
stesso. La voce nello psicotico è ingiuriosa, tratta il soggetto come oggetto di scarto, cioè né più né meno
di quel che essa stessa è. “I giochi di
recensioni
parole dello psicotico non sono veri
giochi: sono le lettere che si divertono da sole… C’è un arresto del rinvio
significante: quella cosa gli fa segno,
non sa di cosa, ma è per lui, è una significazione personale… la macchina
rossa è lì per lui. C’è un divorzio tra
lettera e significante… Anche nelle
cliniche in cui apparentemente non ci
sono voci, riteniamo che sia comunque l’oggetto voce a determinare il
campo degli altri oggetti.” L’oggetto
voce è traumatico perché appartiene
al campo del Reale.
Muriel Drazien, allieva e amica di
Lacan, da lui destinata alla trasmissione della psicoanalisi lacaniana in
Italia (il famoso tripode), rivisita la
passione per il Reale di Lacan, quindi il nocciolo più duro e originale,
più spiazzante e interessante dell’insegnamento di Lacan. Qui, al sapere
come passione, si aggiunge il sapere
dell’orrore, cruciale in un’epoca in
cui il sintomo è sempre più in presa
diretta sul reale del corpo che viene
ridotto a carne. Come quella della
lingua che il paziente di Drazien si
mangia. “Il soggetto non integra la
lingua del padre”, dice Lacan nella
brillante interpretazione che, in supervisione, dà del caso. Mangia la lingua e così la riduce a cibo: forse latte?
Potremmo dire che mangia la lalangue, l’ultima parola, quella che, appunto, rende muti. Drazien ricorda la
stagione in cui Lacan, lasciata l’ipa, è
espulso dal Sainte-Anne e dall’École
Normale: incontra, cioè, quello che
si potrebbe chiamare il trauma istituzionale (non meno Reale), trattamento che l’Istituzione spesso riserva
ai suoi membri meno conformisti.
Momento decisivo per un soggetto
che può, come difatti accadde anche
a Lacan, aprire un periodo di straordinari pensieri e produzioni. Altra
questione capitale è la marcatura di
Drazien su quanto Lacan aspirasse a
far conoscere il suo insegnamento in
ambiti diversi dalla psicoanalisi: Lacan aveva fatto uscire la psicoanalisi
dallo studio, l’aveva portata in piazza.
Questo è un insegnamento vitale per
la nostra comunità in cui a volte sembra che la passione degli psicoanalisti sia, invece, fare politica “tra” gli
psicoanalisti, pratica che porta amori
fugaci e resistenti rotture.
Sempre sulla questione del Reale,
c’è un punto teorico molto importante, spesso oscuro ma reso limpido da
Claude Landman: è evidente che il
simbolico produce effetti sul corpo
vivente dell’uomo, cioè marca il soggetto per esempio nella sua postura,
nella sua voce. Tuttavia è necessario
“dare una prova di ciò che del corpo vivente è suscettibile di sfuggire
a questa presa dell’ordine costitutivo del simbolico”, cosa che Lacan
dimostrerà nella elaborazione del
godimento Altro. Il che implica che
il fine di un’analisi non è enunciare
il desiderio inconscio che, al contrario, resta irriducibilmente sconosciuto. La fine di un’analisi avrebbe più
a che fare con un “atto etico che si
fonda su questo sapere non saputo
del soggetto” di cui è, in ogni caso,
responsabile. Significa, come dice Lacan, “accettare di farsi zimbello (dupe)
del proprio inconscio per evitare di
errare” (Les non dupes errent, assonante con Les noms du père). Il soggetto è
incastrato nel nodo borromeo, tirato,
“stirato” dice Lacan, da ogni punto
dell’intersezione. Qui sono all’opera
241
le “differenti distribuzioni del godimento” osserva Landman. Dal che
si deduce che essendo la clinica contemporanea essenzialmente una clinica del godimento, la topologia del
nodo RSI (Reale, Simbolico, Immaginario), è cruciale: perché è importante sapere dove – e non solo come
– un soggetto gode.
Chiude il libro l’intenso e personale ricordo di Jacqueline Risset
– poetessa, saggista e traduttrice di
Dante – che rende palpabile la passione di Lacan per la psicoanalisi
che lui definisce “lampo di verità”
perché la verità è sempre di sbieco,
si vede e non si vede, non la si ha; è
anamorfica, riguarda un breve istante
in cui lo sguardo “vede” da un’altra
prospettiva. Lampo, perché Lacan,
come Freud, era un visivo. Qualcuno,
ricorda Risset, chiese a Lacan quale
fosse la vera religione. Con ironia lui
rispose: “Mais la romaine! ” (in francese
anche insalata cappuccina). Attraverso questi ricordi, Risset riporta in vita
l’estro e il rigore che in Lacan sono
mirabilmente congiunti: uno stile che
mi sembra possa felicemente essere il
cuore della trasmissione del pensiero
di Lacan.
Vorrei ricordare infine che c’è un
libro nel libro: le generose note della
psicoanalista Cristiana Fanelli, brillanti e precise, inaugurano un nuovo
modo di pensare le note di un libro;
s’inseriscono “a tempo” nel ritmo del
discorso e fanno venir voglia di andare a scoprire a quali opere, pensieri e
testi la curatrice ha desiderato rimandarci. Il libro è corredato dall’ottimo
glossario dell’altra scrupolosa curatrice Janja Jerkov – psicoanalista e slavista – strumento indispensabile che
242
lettera
recensioni
rende l’opera anche un importante
testo di approfondimento. Cristiana
Fanelli e Janja Jerkov sono anche le
intervistatrici: le loro domande hanno saputo mirare all’annodamento
della teoria agli eventi, del sapere alla
vita. In puro stile Lacan.
Laura Pigozzi
Il tempo della precarietà
Sofferenza soggettiva
e disagio della postmodernità
a cura di Mario Giorgetti
Fumel e Federico Chicchi
(Mimesis, Milano 2012)
Questo libro, pensato e curato da
Mario Giorgetti Fumel e Federico
Chicchi, ha indubbiamente il merito di procedere lungo l’impervio,
ma fecondo, crocevia già indicato da
Freud in Psicologia delle masse e analisi
dell’Io e ne Il disagio della civiltà. La psicologia individuale è un’astrazione,
non esiste, l’individualità è sempre
implicata in legami sociali, è costituita dall’Altro direbbe Lacan.
Il tema, o meglio il tempo della
precarietà, viene sin dalle prime
battute analizzato come prodotto
storico-materiale del capitalismo all’epoca della globalizzazione e senza
indugi gli autori non mancano di
sottolineare come gli effetti di questo sistema “tardo-capitalista” ormai
“fuori controllo” abbiano innervato, plasmato e minato al contempo
le vite, le storie, le esistenze di quei
soggetti che, per età, appaiono particolarmente esposti alle più recenti
trasformazioni nel mondo del lavoro.
Sono questi ultimi, infatti, a dover pagare un conto pesantissimo,
giovani lavoratori e lavoratrici in
cerca di prima o nuova occupazione che sono drammaticamente confrontati con le curiose alchimie di un
mercato lasciato libero di fare piazza
pulita di diritti e garanzie conquistati
faticosamente nella stagione politica
e sociale più conflittuale degli anni
sessanta/settanta.
Sottolineo qui la questione decisiva del conflitto poiché, forse per
un pudore eccessivo (lo domando
agli autori), viene poco nominata e
analizzata nel libro e poiché proprio
l’assenza di una certa conflittualità, a
mio parere, condiziona non poco, tra
le molte altre ragioni, la difficoltà di
pensare e di assumere criticamente
e soggettivamente la precarietà per
invertirne gli esiti nefasti, ormai sotto
gli occhi di tutti.
Se Massimo Recalcati nella sua
prefazione e Mario Giorgetti Fumel
nell’introduzione al libro ci illustrano
con chiarezza quale economia paradossale di morte e quale macchina
produttivistica di iperconsumo abbia
introdotto “il discorso del capitalista”
(Lacan, 1972) e se, citando il Pasolini
degli Scritti corsari e delle Lettere luterane e il Calvino di Una pietra sopra,
ci illustrano non solo la profonda
mutazione antropologica ma la più
cinica degradazione e barbarie delle
forme del legame sociale, spinta fino
all’impossibilità di pensare o rendere
possibile una “comunità dei vincoli e
delle solidarietà” (Pietro Barcellona,
Il ritorno del legame sociale, Bollati Bo-
ringhieri, Torino 1990), il titolo che
apre l’intervento di Uberto Zuccardi
Merli pone l’accento su una parola
– “generazione” – sulla quale vorrei,
poco più avanti, provare a riflettere
per evidenziarne il rapporto stretto
con quell’assenza di conflitto che
oggi complica non poco le prove di
risposta alla precarietà.
La tesi sostenuta con passione da
Uberto Zuccardi Merli è diretta. Il
capitalismo nella sua sventata e illimitata corsa verso la premessa e promessa di un benessere pieno, avido e
ingordo al tempo stesso, ha creato di
fatto povertà e precarietà senza tutele, “così vanno le cose per adesso per
le persone”.
Verissimo, così vanno le cose! Cioè,
vanno male per le persone!
La precarietà, che la psicoanalisi
e la sociologia più inclini alla contaminazione dei loro saperi ci ricordano essere anche un dato ontologico
e strutturale dell’esistenza umana, a
oggi però ha essenzialmente il volto
e il nome della sofferenza individuale e della frantumazione del corpo
sociale.
Con e oltre la psicoanalisi e la sociologia, siamo, tuttavia, confrontati
da una parte con gli effetti tragici
dell’attuale crisi di sistema e dall’altra con l’inconsistenza simbolica e
immaginaria delle attuali narrazioni
storico-politiche, pena il rischio forte
e grave di essere fraintesi.
E quindi, come non sottolineare
le responsabilità della politica, dentro cui si è formata questa generazione, che è, suo malgrado, investita
dalla caduta vertiginosa di questa
illusoria, quanto compulsiva, ideologia di una soddisfazione conseguita
243
nel ricambio continuo di oggetti e di
adrenaliche sensazioni.
Qui Uberto Zuccardi Merli sembra non dare scampo, o più teneramente chance, né all’una, la politica,
troppo passiva e tecnicamente astrusa
con i suoi compromessi interessati da
difendere, né all’altra, la generazione
dei “senza futuro”, giustamente arrabbiata e indignata, che tenta di ricostruire l’ideale del comune, del Noi,
ma non ha potuto ancora, dentro
questo collasso inatteso (?), né analizzare a sufficienza i motivi più propri,
più “intimi” della crisi né disporre di
un tempo necessario per ripensare
con categorie nuove quel conflitto
che la generazione del Sessantotto ha
posto in essere, promuovendo una rivoluzione culturale e un’affermazione
dei diritti nel campo del lavoro e della
vita di portata storica.
E se, prosegue Uberto Zuccardi
Merli, il limite allora fu politico, poiché tutti gli sbocchi immaginati e praticati si infransero e deflagrarono per
i più svariati motivi (la posta in gioco
toccò punti molto alti, mancandoli
decisamente, la questione del potere
e del consenso, le fughe in avanti dei
movimenti, la repressione, i ripiegamenti e il riflusso, per dirne in modo
riduttivo solo alcuni), oggi la prospettiva non è affatto migliore, se tutto
e troppo in fretta sembra ridurre la
protesta a una gestualità episodica e
senza radicamento, senza internità,
si sarebbe detto un tempo. Indignati e agitati, ma per quanto e fino a
dove? Lo dico senza polemica verso
i movimenti, conoscendo da dentro
la generosità dei soggetti che vi fanno
parte, ma è questo il nocciolo duro e
ineludibile dell’attuale “scontro” tra
244
lettera
diverse opzioni culturali, politiche e
di sistema. Sebbene di una tale conflittualità, per lo più evocata, non si
veda traccia neppure laddove viene
strumentalmente e mediaticamente
sovradimensionata per esprimerne la
condanna e la censura.
Poiché, se quanto accaduto nell’ultimo ventennio della nostra perversa democrazia ha incentivato
l’imperativo capitalistico e consumistico del “Godi finché più puoi” senza limiti e se, non senza molte colpe
della generazione che fu, “è venuta
meno la contraddizione tra godimento egoistico e ideale collettivo, il
compito che si presenta è inevitabilmente quello di non restare troppo a
lungo nella posizione infantile della
pura, pur se sacrosanta, protesta”
(qui cito, parafrasandolo, Zuccardi).
Sappiamo quanto lungo e faticoso
sia il tempo della separazione e della
costruzione di una propria e collettiva particolarità e di quanto invece gli
individui e i gruppi tendano a ristagnare nel tempo alienato del discorso
dell’Altro, come ben sottolinea Simona Bani, quando, con gli strumenti
classici e mai tramontati della psicoanalisi, incoraggia la via del desiderio,
richiamando all’assunzione soggettiva (etica e politica) della precarietà e
aprendo, quasi in conclusione, a una
domanda fondamentale. “Come può
il sociale [inteso qui freudianamente
N.d.A.] arrivare ad appassionarsi al
desiderio, a crederci, a promuoverlo […] se il discorso del padrone lo
ha prima prodotto come scarto e poi
soffocato e se il discorso del capitalista dopo tende a non produrlo proprio, a distruggerlo.”
Provo a rispondere con una sug-
recensioni
gestiva lettura che della parola “generazione” ritrovo in: Come noi coi
fantasmi, lettere sull’anno sessantottesimo
del secolo tra due che erano giovani in tempo di Erri De Luca e Angelo Bolaffi
(Bompiani, Milano 1998).
Si legge, a tal proposito, “volevo
rispondere anche per lui [ovvero per
il padre, N.d.A.], perché si eredita del
tutto solo il debito, l’inadempienza o
il torto del padre. In questo per me
si è figli, discendenti da un obbligo e
non spavalda primizia, cima di niente. Ora so che la nostra gioventù non
andava a inaugurare niente. Non
siamo stati parte di un esordio. La
nostra tendenza comunista fu l’iscrizione a un compito già intrapreso dal
secolo e che doveva essere esaurito
da noi. Si era al mondo per terminare un’opera, sigillare un secolo visionario e antibiotico. […] L’intero
accaduto [ovvero quel che ne resta,
N.d.A.] mi spiega soltanto che dopo
di noi nessuno ha voluto raccogliere il debito. Quelli di dopo hanno
sottoscritto una rinuncia all’eredità
e loro sì sono nuovi del tutto e possono inaugurare un altro tempo. Sono
pionieri senza viaggio, in cerca di
nuove consistenze”.
Aggiungo quindi che se il re è
nuovamente nudo e se questa generazione ha davvero alle spalle e non
più di fronte le sirene del capitalismo,
se questa generazione si incaricherà
di svelare che la mistica del mercato libero da regolazioni è un sistema
senza alcuna fondatezza, senza alcuna verità, se questa generazione,
assumendo qualche piccola quota di
questo debito simbolico, evita di cedere all’immaginaria illusione che si
è figli di se stessi, allora qualcosa del
desiderio non andrà perduto, qualcosa del desiderio potrà orientare i nostri passi dentro e fuori la dimensione
dell’attuale precarietà.
Non si tratta di fare di questo libro un manifesto politico ma se, a
mio parere, non lo si vuole ridurre
nella sua portata di critica assidua
della contemporaneità, quale è, bisognerà provare non solo a interrogare
le giustapposizioni tra capitalismo
e distruzione del desiderio, tra crisi
(insicurezza) economica e attacchi
di panico, tra collasso del mondo del
lavoro tradizionale e cadute depressive, tra evaporazione del legame
sociale e solitudini suicidarie, ma cimentarsi, come suggeriscono gli autori di questa idea della psicoanalisi
e della sociologia, se non la si vuole
tenere chiusa negli ambiti “privati”
di parola, in coraggiose “prove di
risposta”. Soprattutto se non si vuole perdere in silenzio la partita e la
scommessa attorno al desiderio e al
cospetto inquietante di un malessere,
di una pulsione di morte che circola
e si mostra a più livelli e sempre più
in forma di epidemia.
Non mi spiegherei altrimenti la
bellissima riflessione di Mario Giorgetti Fumel su Il desiderio non ha prezzo, che mette proprio fuori mercato
questo bene prezioso e lo propone
come grimaldello, come operatore
(operaio) soggettivo e trasformativo. “Il consumismo e il suo sogno
di libertà assoluta non sono che una
falsa chimera.” L’autore, invece, con
Lacan ci fa intravedere il rischio di
una schiavitù generalizzata, il risultato parossistico di “essere tutti servi
dunque rispetto all’economia, unico
e vero padrone”. Se il consumo si
245
apre come effetto di una mancanza
dove è la mancanza a originare il
consumo, al rovescio il consumismo
non ha alcun rapporto con le reali
esigenze di benessere e di decoro, il
consumismo chiede, esige di consumarsi per potersi automaticamente
riverberare nell’incessante sostituzione di oggetti deperibili e reperibili in
un avvitamento senza fine. La cifra
di quanto è accaduto poi nel tempo
aveva fatto già dire a Lacan nel Seminario xvii, Il rovescio della psicoanalisi,
che la nostra epoca si sarebbe definita nei termini “di una mutazione
che dà al discorso del padrone il suo
stile capitalista”. Ho molto apprezzato la chiusura di Mario Giorgetti
Fumel laddove nel panorama fosco
e apparentemente senza via d’uscita
sovverte lo spadroneggiamento del
mercato e dell’economia dei consumi
con l’appello a un’esistenza più semplice, al desiderio di tornare a poter
amare e a scegliere l’incontro umano
con l’altro.
Se tale dimensione del desiderio
fallisce e se la possibilità di una qualche “realizzazione lavorativa” decade
non possiamo che rivolgere la nostra
attenzione clinica e politica ai cosiddetti nuovi sintomi, a quelle patologie
più insistenti nella generazione precaria. Il disagio dell’ipermodernità si
rispecchia con evidenza negli attacchi
di panico e la crisi economica rende
le “vite di scarto” (Zygmunt Bauman): questo fa riflettere Roberto
Pozzetti sull’effetto di miseria materiale (le nuove povertà) e di disinserimento sociale in cui ci si imbatte
quando si decide di non domandare
più nulla, quando lo stesso spazio vitale si riduce a poca cosa.
246
lettera
La vita è dunque o sotto un sintomo panico o paga il prezzo altissimo
della miseria e dell’esclusione sociale.
Per dirla con Franco Berardi Bifo, il
panico è l’effetto più immediatamente leggibile di una condizione
che investe “la comunicazione, la
produzione, il linguaggio a partire
dalla moltiplicazione di linee di deterritorializzazione acentrica e se la
percezione singolare si perde nell’indistinzione cosmica lo scontornamento del desiderio produce panico,
e infine depressione”.
E mentre il pubblico di casa, come
ci rammenta Franco Lolli, sprofonda
nella più “impalpabile” perversione
da talk show televisivo e gode nella
modalità, forse più decadente, cui
rinvia la “figura televisiva” della “nomination”, poco fuori, nelle periferie
reali e non negli schemi da reality, si
possono osservare come forse non
capitava dagli anni delle prime migrazioni dal sud Italia, campi più o
meno attrezzati che ospitano, si fa
per dire, vite straniere, escluse e recluse.
Un modo come un altro, quello
dei talk show e delle celebrazioni dei
personaggi “alla Corona” per allontanarci dalla comprensione di una
realtà ormai confusa volutamente
con lo spettacolo a getto continuo,
con l’addormentamento contemporaneo di desiderio inconscio e crescita di una soggettività collettiva che
dovrebbe spingere chiunque, singolo
o gruppo, a incaricarsi di ben altro.
Verrebbe da dire che le versioni laiche, almeno così sono propenso a
pensarle, di fede, speranza e carità
abbiano per inedia e miopia lasciato
spazio a Fede, Mora e Corona. Per
recensioni
dire come si può compiere un destino tragicomico laddove si è cessato
per troppo tempo di interrogare le
sorti “progressive” dello sviluppo a
tutti i costi e dove si è dismesso colpevolmente e con troppa fretta quel
bagaglio culturale e politico che aveva funzionato come dispositivo critico di un discorso, quello del primo
e del tardo capitalismo, che, invece,
incurante di tutto e di tutti, si è fatto
sempre più invasivo e pervasivo.
Forse occorre riattivarlo, nonostante tutto, aggiornandone analisi,
teorie, contenuti critici e pratiche del
conflitto che da più parti e troppo
spesso, magari sotto traccia, si sono
volute neutralizzare, come se le radici del pensiero non fossero eminentemente politiche e quindi tutt’altro
che assuefatte al pensiero unico,
all’omologazione e alle stereotipie
culturali, all’uniforme.
Federico Chicchi non manca, infatti, di rilevare che, pur all’interno
di un cambiamento antropologico
epocale (che lui nomina l’in/civiltà
del godimento) e di una concezione
del lavoro profondamente trasformata, parcellizzata e frantumata assieme alla progressiva distruzione del
capitale simbolico che preservava il
legame sociale delle comunità (Pierre
Bourdieu), “la capacità di aspirare”
delle soggettività sociali non pare
essersi sopita, “ci sono sciami di lucciole che attraversano questa notte
con la spavalda pretesa di voler immaginare l’avvio di una nuova e costituente fase democratica” (Federico
Chicchi), se con questo, mi auguro,
intenda sostenere una rottura radicale e una discontinuità profonda
nell’ordine formale preesistente.
Qui mi piace richiamare ancora
in causa Pietro Barcellona, che non
nasconde la difficoltà e la durezza
dell’attuale momento storico e non
immagina facili vie d’uscita dalla
crisi e dal suo persistere in soluzioni
tecniche a senso e pensiero unico.
“Il conflitto non è la ginnastica
dell’antagonismo in astratto, ma il
modo concreto in cui si produce la
socialità dell’ordine in cui siamo comunque inseriti, nel conflitto si verifica, si mette alla prova la tensione
tra la libertà, l’irriducibilità individuale e la vincolatività del contesto
sociale e delle condizioni materiali a
cui è affidata la produzione e la riproduzione della vita.”
Solo così si pone e si apre il problema della democrazia nel suo punto più alto.
Non è forse, allora, il tema della
precarietà (ben articolato dagli interventi di tutti gli autori di questo libro)
e delle possibili risposte ai suoi esiti,
non ultime le esperienze dei gruppi
di presa di parola sperimentati in Jonas Trieste e Pesaro con i lavoratori
precari e/o licenziati, che può riabilitare con forza e passione il discorso
sul desiderio inconscio, sulla singolarità, su un ritorno del legame sociale
e di una comunità possibile!?!
Vorrei chiudere questo mio commento con un ringraziamento particolare a Daniele Benini che sceglie
felicemente di intrecciare in modo
fecondo il pensiero di Lacan, Habermas e Heidegger sul tema ampio
e complesso, almeno per me, della
crisi d’identità nel suo rapporto con
la crisi economica. Non da ultimo
va ringraziato per la sua postfazione
Danilo Gruppi che nella quotidia-
247
na sfida alla crisi e alla precarietà
ci rammenta il “lavoro come valore” e ancor di più l’importanza che
le istanze sociali che vanno sotto il
nome dei diritti non siano mai acquisite una volta per tutte.
Non è che l’inizio…
Pino Pitasi
Appunti per una nuova epistemologia
Psicanalisi, scienza, verità
di Giovanni Sias
(Zona Franca, Lucca 2012)
Ci sono eserghi che introducono o
ispirano il lavoro di un autore. I due
eserghi che Giovanni Sias pone in
apertura al suo libro sono molto di
più: un programma di ricerca e una
precisa direzione indicata dall’ago
di una bussola. Ecco il primo esergo. È di Lacan (da Funzione e campo
della parola): “Se la psicoanalisi può
diventare una scienza – dato che
non lo è ancora – e se non deve degenerare nella sua tecnica – e forse è
cosa già fatta – dobbiamo ritrovare il
senso della sua esperienza”. La frase – siamo all’inizio degli anni cinquanta – luccica ancora oggi, dopo
più di mezzo secolo, trasmettendo
alcuni interrogativi nell’opaca indifferenza dei nostri tempi. È una frase
che interroga la contemporaneità,
che mette il dito nella piaga su quei
discorsi (mediatici, culturali, sociologici, universitari) ormai colonizzati
da uno scientismo trionfante, dove
il riferimento alla tecnica decide il
248
lettera
vero e il falso, l’utile e il superfluo, il
profitto e il dispendio. Siamo nell’era
della misurabilità. Proprio per questo occorre un “progetto per la psicoanalisi”, come Sias auspicava già
in un suo precedente libro dal titolo
Fuga a cinque voci (Antigone Edizioni,
2008).
In questi Appunti per una nuova epistemologia (sottotitolo) il cui titolo effettivo, Psicanalisi, scienza, verità, vuole
mantenere la posta in gioco di una
scommessa alta, l’autore ripercorre
i fili implicati nella frase di Lacan,
esplorandone trama e ordito. I nodi
del dibattito sono cruciali: la psicoanalisi non è ancora una scienza; può
diventarlo se ritrova il senso della sua
esperienza; ha già imboccato (siamo
negli anni cinquanta) la rovinosa via
del tecnicismo. L’autore esplora gli
orizzonti che queste tre considerazioni dischiudono. E si premura di sottolineare, approfondendo man mano
varie tematiche, che simile respiro è
ben differente da quella severità (così
utilitariamente pragmaticista) con
cui molta epistemologia si è precipitata a rispondere in modo binaristico se la psicoanalisi fosse scienza o
no. Dibattiti, polemiche, accuse tra
i contendenti. Pochi ponevano la
questione forse essenziale: che cosa
si intende per scienza? Domanda
inattuale. Infatti l’ipermodernità si è
impadronita in modo monopolistico
di questa parola magica, riferendosi unicamente al tempo fondativo
di Galileo, Newton, Copernico.
No, ci sono altre vie che, passando
dall’imprescindibile connessione tra
soggetto e verità, conducono ad altri
approcci di conoscenza del mondo.
Che cosa si intende per scienza?
recensioni
Domanda che oggi sembra taciuta, esiliata, tanto la parola scienza
si fa strada a colpi di effetti speciali
imponendo i suoi trucchi. Nulla di
strano se può accadere che a colpi
di “nuove” tecnoscienze e “nuove”
neuroscienze, la psicoanalisi venga
considerata dalla “scienza forte” ormai uno scomodo reperto museale.
Del resto di scienza ciascuno parla e continua a parlarne, ignorando
spesso il funzionamento ideologico
del suo discorso (discorso del padrone) e soprattutto ignorando il funzionamento dei laboratori di ricerca, la
logica dei finanziamenti che sostengono o aboliscono programmi di
ricerca, gli orientamenti relativi alla
pubblicazione presso riviste “prestigiose” che sanciscono la validità di
una teoria. Pierre Bourdieu ha descritto con rigore questa logica quando annotava per esempio che “l’universo della scienza è un mondo che
riesce a imporre universalmente la
credenza delle sue finzioni”. “Ritrovare il senso dell’esperienza psicoanalitica”, ammoniva Lacan nell’esergo in questione. Evidentemente la
psicoanalisi di quegli anni – appena
un decennio dopo sarebbe giunta la
“scomunica” anglosassone – era agli
occhi di Lacan già abbondantemente “degenerata nella sua tecnica”, e
quindi ben lontana dal poter affrontare un tema così complesso come
quello della scientificità. Figuriamoci
oggi, vien da pensare.
Tutto ciò porta a una radicale interrogazione che l’autore non smette, in queste pagine, di riformulare
attraverso varie coniugazioni: quale
psicoanalisi? Di quale psicoanalisi stiamo parlando? Dimenticavo,
a tal proposito, il secondo esergo,
dopo quello di Lacan. È una frase di
Kafka: “Da un certo punto in là non
c’è più ritorno. È questo il punto da
raggiungere”. Dunque il tema della
scientificità della psicoanalisi esige
un punto di non ritorno che interroga radicalmente la sua esperienza.
Le pagine di questo libro lo dicono:
il punto di non ritorno coincide con
lo statuto etico della psicoanalisi,
condizione da cui discende la portata scientifica del suo atto, pratica
che si confronta incessantemente con
un’altra razionalità. “La grande resistenza che la psicoanalisi incontrava
(e ancora oggi incontra) è, io credo,
da ascriversi al fatto che essa si contrapponeva (e si contrappone) alla
razionalità scientifica e all’ideologia
scientista senza essere né intuizionista né irrazionalista, ma in quanto
propositiva di un’altra razionalità
con cui tutta la conoscenza avrebbe
dovuto (e dovrebbe) fare i conti.”
Originali in queste pagine i riferimenti ad alcuni studiosi italiani –
spesso scrittori, poeti e filosofi come
Gadda, Lavagetto, Machiavelli,
Pontiggia, Ranchetti, Spirito – di
sicuro poco “accreditati” in materia
di scienza. Anche questa è la testimonianza di una forma di laicità. In
tal senso vi sono pagine abbastanza perentorie. E giustamente. Per
esempio la notazione secondo cui
gran parte della prima generazione
di psicoanalisti, a partire dagli anni
venti ma soprattutto dopo gli anni
cinquanta, si sia orientata prevalentemente verso una dimensione “terapeutica” che, assumendo alcuni
princìpi psichiatrici, rinunciava allo
spirito inventivo e pionieristico che
249
aveva guidato l’avventura freudiana.
Avventura – ricordiamolo – che fin
dall’inizio aveva dovuto farsi largo
denunciando “l’oscurantismo scientifico degli eruditi” e “l’autorità della
scienza esatta”. Le critiche verso la
psicoanalisi nei decenni successivi si
sono radicalizzate, “soprattutto con
le modificazioni della modernità
avvenute nel dopoguerra, quando il
pensiero scientifico non era più rappresentato dalla meccanica e dalla
fisica in generale, ma dalla medicina
e dove tutte le altre scienze acquistavano valore solo se considerate di
ausilio alla medicina”. In tal senso la
parabola di Lacan resta esemplare:
dalla psichiatria alla psicoanalisi, la
rilettura di Freud, la “scomunica”,
la fondazione dell’École e poi, potremmo dire, l’invenzione di un’altra
psicoanalisi (quanto meno rispetto
a quella esistente al suo tempo). Lo
spostamento da lui operato, privilegiando il nodo tra scienza e verità,
certo risultava parecchio stretto ai
criteri epistemologici dell’epoca. “Si
può agevolmente intendere” conclude Sias “come l’epistemologia non
sia immediatamente applicabile alla
psicanalisi. Se si intende per epistemologia quel ‘parlare sulla scienza’,
nel tentativo di definire e separare
ciò che è scienza e ciò che non lo è,
a partire dai contenuti stessi di una
pratica scientifica e dai suoi dati sperimentali (verificabili, falsificabili,
osservabili, riproducibili, e così via),
occorre registrare, per la psicanalisi,
la sua totale estraneità a un simile
modo di intendere il processo scientifico.”
Giancarlo Ricci
250
lettera
Racconti analitici
di Sigmund Freud
(Progetto editoriale
e introduzione
di Mario Lavagetto, note
e apparati di Anna Buia,
traduzione di Giovanna
Agabio, illustrazioni
di Lorenzo Mattotti,
Einaudi, Torino 2011)
Con l’ideazione e la cura dell’elegante volume di Sigmund Freud, Racconti analitici, il critico freudiano Mario
Lavagetto ha compiuto un autentico
atto innovativo, che come tale non
può che aprire il campo alla riflessione. L’atto: Sigmund Freud è uno scrittore, un grande scrittore del Novecento. Atto
decisivo, non lanciato però ex abrupto, ma fatto scaturire da un lungo e
ormai magistrale percorso critico.
Un atto che non è certo al riparo da
rischi, primo su tutti quello di apparire tanto innovativo quanto banale,
mera formalizzazione paratestuale delle doti stilistiche di Freud, già
universalmente note. È tuttavia sufficiente leggere l’indice e le prime righe del saggio introduttivo per capire che non si tratta solo di questo, di
una ridenominazione, o di un’estensione logica applicata ai “casi clinici”
– divenuti ora anche “racconti analitici”. Il progetto editoriale è infatti il
prodotto di un approfondito lavoro
critico, che ha determinato la formazione di un corpus di testi eterogeneo,
nel quale, oltre ai casi clinici più noti,
sono inclusi anche il saggio sulla Gra-
recensioni
diva di Jensen, quello su Leonardo,
e altri materiali, come la lettera a
Martha (del 1883) in cui Freud cerca
di spiegare il suicidio dell’amico Nathan Weiss, e, tradotto integralmente
per la prima volta in italiano, il Diario
dell’uomo dei topi.
Nel saggio introduttivo, Lavagetto
illustra e motiva il suo progetto attraverso un’appassionante ricostruzione filologica dei problemi narratologico-epistemologici che Freud,
nella necessità di mettere a punto
un metodo capace di dare una forma ai suoi casi clinici, ha progressivamente incontrato nello sviluppo
delle sue teorie. Il critico ci mostra
così come di fronte alla povertà dei
referti della scienza psichiatrica, il
padre della psicoanalisi sia stato costretto a fare appello alla letteratura,
alla sua giovanile vocazione letteraria. Una necessità scientificamente
imbarazzante, fardello di un intero
percorso teorico, che ha obbligato
Freud a reinterrogarsi più volte sul
posto da assegnare alla psicoanalisi
nella topografia del sapere. Lavagetto ci conduce così nelle profondità
della relazione ambivalente di Freud
con la (propria) scrittura letteraria,
la quale, lungo lo straordinario cammino d’invenzione della psicoanalisi,
lo ha condotto (lui, amante dei testi
classici) a inoltrarsi negli stessi ignoti
territori formali fatti esistere, negli
stessi anni, da autori come Proust e
Joyce, Kafka e Conrad.
Inizialmente, per la stesura degli
Studi sull’isteria, Freud rivendica la legittimità di una scrittura del caso clinico da leggersi come una novella, in
un paradigma ancorato alle soluzioni formali del diario e del racconto
naturalistico, considerate le migliori
per servire la necessità scientifica del
resoconto oggettivo. Posto davanti
alla scrittura del caso di Dora, Freud
giudica però insufficienti queste soluzioni. È così obbligato ad “anteporre alla logica di un resoconto fedele
quella della dimostrazione”, cedendo campo alla letteratura, alla sua
libertà diegetica, alle sue velature.
La barriera tra scienza e letteratura comincia a sfaldarsi, per crollare
nell’analisi della Gradiva di Jensen.
Abolendo il confine tra personaggio clinico e personaggio letterario,
Freud apre la strada a un avvicendamento: non è più la letteratura a dover servire la scienza, “è tutto il contrario”, scrive, “la scienza non regge
di fronte all’opera dello scrittore”.
Posizione fondamentale, che aprirà
il campo all’idea di una psicoanalisi implicata alla letteratura, ma che
non è un approdo definitivo.
Lavagetto ci presenta un Freud
che, in seguito, soprattutto di fronte
ai casi dell’Uomo dei topi e dell’Uomo dei lupi, è alle prese con nuovi e
più complessi problemi. Tra personaggio clinico e personaggio letterario sembra persistere uno scarto: “è
convinzione di Freud che nonostante
gli ingegnosi stratagemmi narrativi
messi in atto di volta in volta […]
nessuna lettura potrà mai supplire
all’esperienza o recuperare quanto delle ‘singolari bellezze del caso’
scompare, si dissolve inevitabilmente
quando si cerca di trasferirlo su carta”. Questo scarto si manifesta con
tutta la sua forza nel caso dell’Uomo
dei lupi, nell’incontro con la scena
dei lupi sull’albero. Di fronte alla
mancata conferma, da parte del pa-
251
ziente, dell’interpretazione che vede
nella scena dei lupi una sostituzione
della scena primaria, Lavagetto ci
presenta la necessità, per Freud, di
una “legittimazione teorica del pezzo mancante”, chiedendosi: “è possibile mettere fra parentesi la realtà di
quel pezzo e trascurare la differenza
[…] tra una ‘fantasia’ […] e un ‘ricordo’?”. Nella capacità di Freud di
“lasciare la cosa in sospeso”, il critico non legge un rischio per la tenuta
delle sue teorie, quanto “una vittoria
della probità del suo operato e, ancor più, una vittoria della sua arte di
narratore”. La filologia lavagettiana
incontra così la riflessione lacaniana,
che si dipana aggrovigliandosi proprio attorno a quel pezzo mancante:
“[l]a realtà dell’evento è una cosa,
ma c’è anche qualcos’altro: la storicità dell’evento […]. È proprio questo
a costituire l’importanza essenziale
della discussione di Freud attorno
all’evento traumatico iniziale, che
fu ricostruito molto indirettamente
grazie al sogno dei lupi”. (Jacques
Lacan, Seminario su “L’uomo dei lupi”,
1952, pp. 6-7.)
Vediamo così che due grandi rischi di questo progetto editoriale –
confermare da un lato le critiche alla
scarsa scientificità della psicoanalisi,
e dall’altro, datandola al contesto
culturale tra Otto e Novecento, la
sua presunta obsolescenza – sono
fondati solo se si asseconda una
concezione debole, rappresentativa,
della letteratura. Lavagetto ci restituisce un’opera di Freud che, in quanto
autentico prodotto di scrittura in cui
un reale è seriamente in questione,
si sottrae alla temporalità storica per
entrare nella dimensione inesauribile
252
lettera
recensioni
dei grandi testi; un’opera che ricorda allo psicoanalista l’importanza di
un’altra facies dell’implicazione della
psicoanalisi alla letteratura: la letteratura non solo come avanguardia
operativa, luogo di sedimentazione
di saperi preziosi da ascoltare e rielaborare, ma anche come bagaglio di
tecniche, stili e modelli, indispensabili per poter dare una forma alla clinica, per poterne dire nel modo più
etico – seppure a mezzo – le verità.
Alberto Russo
L’epoca dell’inconshow
Dimensione clinica e scenario sociale
del fenomeno borderline
di Franco Lolli
(Mimesis, Milano 2012)
All’ultima fatica letteraria di Franco
Lolli, L’epoca dell’inconshow. Dimensione clinica e scenario sociale del fenomeno
borderline, sono personalmente convinto si possa attribuire l’utilità e il
valore che, per usare un’analogia,
appartengono a quelle invenzioni
della tecnica che hanno modificato
l’esistenza umana, potendone facilitare il corso. Più d’ogni altra, ho in
mente la bussola. Beninteso: non che
prima dell’invenzione della bussola
l’uomo non navigasse, solo lo faceva
attendendo che la volta celeste gli illuminasse la via. E dunque: non che
prima di questo libro lo psicoanalista non trattasse, nella sua pratica, le
cosiddette patologie del limite, ovvia-
mente, solo lo faceva senza l’ausilio
di uno strumento utile e altamente
chiarificatore quale propriamente è
questo lavoro di Franco Lolli.
Vorrei soffermarmi su tre qualità salienti che definiscono l’estrema
pregevolezza di questo lavoro.
Individuo il pregio maggiore di
questo libro nel saper indicare al
clinico una rotta possibile per portarsi fuori da quel mare caotico, increspato da definizioni inerenti alla
diagnosi borderline, che è l’odierno
universo psy. Borderline come “quarta
struttura” – oltre a nevrosi, psicosi e
perversione. Borderline come possibile
“terra di mezzo” – area psichica di
continuità tra nevrosi e psicosi. Borderline come “diagnosi di comodo” –
sorta di cestino al quale destinare il
paziente “difficile”. Attraverso una
cartografia precisa, facendo cioè sapiente uso di quei punti cardinali che
la teoria e la clinica lacaniana offrono, Lolli individua i fondali sicuri ai
quali assicurare un saldo ormeggio
alla dimensione borderline.
Scrive Lolli: “[…] la diagnosi di
soggetto borderline – nella quale la
psichiatria e la psicologia contemporanee tendono, come vedremo,
troppo frettolosamente a rifugiarsi
di fronte alla complessità delle attuali
configurazioni patologiche – rischia
di sottovalutare l’aspetto perverso
che caratterizza la maschera border,
aspetto che va, invece, interrogato
e decostruito affinché la struttura
di personalità possa emergere dalle
nebbie del fenomeno osservabile”
(p. 10).
La diagnosi di disturbo di personalità
borderline, di cui non solo la psichiatria fa sovente utilizzo, rischia cioè
di immergere il paziente in un’acqua densa e opaca. Per non lasciar
affogare il soggetto è necessario, lacanianamente, recuperare la struttura
di personalità sottostante, tenuta cioè
celata, occultata, resa difficilmente
leggibile dal fenomeno sintomatico.
Per questo motivo indicherei come
pregio maggiore di questo lavoro il
suo rigore etico rispetto alla clinica.
Qualità che riassumerei nel saper
preservare la soggettività del paziente,
recuperando la particolarità del singolo smarrita nell’universale dell’etichetta diagnostica.
È per questo che l’autore definisce non tanto un soggetto quanto
una società borderline. Ancora, infatti,
possiamo leggere: “La società borderline è la società che promuove e favorisce una nuova modalità esistenziale
la cui estremizzazione patologica si
incarna nei soggetti che la psichiatria
definisce borderline” (p. 11).
A essere border è dunque la società. Società paragonabile a quel mare
tempestoso dei consumi mirabilmente descritto da Italo Calvino, società
della diffusione illimitata delle immagini, del narcisismo dilagante, del
superamento-abbattimento di ogni
limite, epifania senza sosta, viaggio
senza approdo, esistenza liquida in
cui si trova a cercare di galleggiare
il soggetto contemporaneo. “Il fenomeno border è allora, in questo senso,
un sintomo dell’Occidente […]” (p.
19). Ecco perché, con il suo connaturato incitamento al consumo e all’assenza di limite, il discorso del capitalista – che Jacques Lacan teorizzava
a metà degli anni settanta – rappresenta l’humus ideale per il proliferare
di condotte borderline.
253
Ma se il soggetto borderline è il prodotto di una società border, chi ritroviamo nello studio del clinico, chi è
quel paziente che – cessato di definirlo borderline – ascoltiamo in seduta,
vediamo nei SerT, incontriamo nelle
strutture dedicate ai cosiddetti nuovi
sintomi che operano sul territorio?
Ecco, è questo il vero cuore inerente
alla teoria della clinica psicoanalitica
che Lolli finalmente sviscera in maniera precisa. Motivo per il quale definirei il secondo maggior pregio di
questo lavoro la precisione e il rigore
teorico-clinico che s’incontrano fra le
righe del testo, in un intrecciarsi di
teoria e clinica, unite a quella particolare curiosità che l’autore dedica
alla “fenomenologia del quotidiano”.
A partire, infatti, da quello che
Lolli definisce come lo “speciale
osservatorio” di cui lo psicoanalista
dispone nel quotidiano incontro con
la clinica dei nuovi sintomi, è possibile fare luce sulla natura e sulle –
paradossali – esigenze della condotta
borderline. Nella sua pur patologica dimensione, infatti, la condotta del paziente borderline si pone per essere una
soluzione perfettamente adattata, e
per questo in fondo semplicemente
adatta, in risposta a quella perversione
generalizzata che imperversa nella società contemporanea.
Un’ulteriore difficoltà si pone perciò al clinico e alla sua capacità di
riconoscere, dietro a questa assurda
forma di accomodamento del paziente ai canoni perversi del vivere contemporaneo, la presenza di un quadro patologico anche grave. Al punto
che: “La perversione che è al fondo
del fenomeno borderline – a livello sia
individuale che sociale – si profila,
254
lettera
pertanto, come soluzione estrema per
scongiurare il rischio di precipitare
nel vuoto psicotico” (p. 79).
Questo, a ben vedere, non significa
che dietro a ogni condotta borderline si
nasconda un soggetto perverso o psicotico, quanto il fatto che, per usare la
precisione e la chiarezza delle parole
dell’autore: “Primato dell’oggetto e
del godimento, instabilità del desiderio e della rimozione, caduta dell’ideale e ipertrofia dell’io, predominio
dell’immaginario e difficoltà di soggettivazione, prevalenza del vissuto
di vuoto e spinta all’eccesso, assenza
di limiti e sconfinatezza pulsionale,
frammentazione del legame sociale,
sono i fattori psicopatologici che il
soggetto borderline presenta in maniera acuta ma che, in forma mitigata
quanto diffusa, contraddistinguono
il contesto sociale contemporaneo e
consentono di etichettare come perversa la maschera che indossa; maschera che copre e nasconde la struttura di personalità sottostante che
– come si ha spesso modo di constatare in fasi avanzate del trattamento
– una volta liberata dal camuffamento
sintomatico, non necessariamente risulterà perversa” (p. 80).
Ma c’è un terzo pregio, accanto
ai due già menzionati. Lo indico
immediatamente in una particolare
vena letteraria che si apre all’indagine di quei fenomeni della quotidianità socioculturale, e soprattutto
massmediatica, del nostro paese,
che rende questo libro assolutamente originale. In questo lavoro s’intersecano, infatti, la prospettiva più
classica della psicoanalisi, attraversata dalle teorizzazioni più recenti,
per arrivare a un confronto con la
recensioni
sociologia culturale e le scienze della
comunicazione.
Perciò, leggendo questo libro, il
lettore potrà scoprire in che modo e
perché il fenomeno del berlusconismo
assieme al “fenomeno” Fabrizio Corona, la saga cartoons dei Simpson accanto ai suv (Suburban Utility Vagon),
e ancora la nomination nei realities o la
réclame televisiva, possano arrivare,
pur nella loro assoluta eterogeneità,
a interessare la clinica psicoanalitica e a indicare qualcosa di prezioso
sia allo psicoanalista sia allo studioso ma, soprattutto, rappresentando
un’attrattiva certa anche per la semplice curiosità di chi abbia interesse
a sapere in quali “diavolo” d’acque
stiamo navigando oggi.
Mario Giorgetti Fumel
Vuoto e inaugurazione
La condizione umana nel pensiero
di María Zambrano
e Jean-Luc Nancy
di Salvatore Piromalli
(Il Poligrafo, Padova 2009)
Salvatore Piromalli ci invita a un percorso di lettura dei lavori di María
Zambrano e di Jean-Luc Nancy attraverso alcuni concetti-figure che,
pur concepiti all’interno del pensiero filosofico, proprio per come e da
dove sono costruiti, offrono aperture
e confluenze molto interessanti per
lo psicoanalista. Possiamo infatti riconoscere qualcosa di prossimo al
lavoro psicoanalitico in quel situarsi
alla frontiera, al punto di intersezione tra vita e pensiero, tra esistenza e
riflessione che, per stessa ammissione di Piromalli, costituisce la spinta,
l’origine del moto che ha portato alla
scrittura di questo libro. È la necessità etica di articolare quella soglia,
di abitare quella frontiera che ha
provocato la scrittura, a dar corpo ai
concetti-figure che sono i fili portanti della trama del pensiero che vi si
dipana. Figure sguardo, angolature,
che approssimano il pensiero degli
autori nel tentativo, ben calibrato, di
fermare almeno per un attimo il fluire di un pensiero vivo e difficilmente,
per fortuna, classificabile. Per la precisione sono tre concetti-figura per
ciascun autore: il poeta, l’esiliato, la
pietà, l’essere abbandonato, la libertà, l’essere singolare plurale. Figure
che vengono messe in tensione tra
loro sullo sfondo di un’idea potente:
è il patimento del vuoto a inaugurare la
possibilità del soggetto di pensarsi e
di esserci.
Il vuoto, la fecondità del vuoto
viene declinata in tre modi. Il vuoto esistenziale che riguarda le figure
dell’esilio e dell’abbandono: figure metaforiche in grado di evocare
l’assoluta nudità di ogni esistenza
presa nella sua inermità, sospesa
all’impossibilità di sentirsi a casa
propria nel mondo, sospesa all’impossibilità di fare uno con se stessa.
Il vuoto metafisico, scenario apocalittico conseguente all’annuncio della
morte di Dio, apre a un’esperienza
di orfanità e di abbandono radicali, a
un’assenza di garanzia sulla propria
esistenza che venga dall’Altro. Il vuoto
epistemico conoscitivo, come effetto del-
255
la consapevolezza dell’insufficienza
di ogni categoria conoscitiva a dar
conto della realtà, insufficienza del
simbolico, diremmo noi lacaniani,
a ricoprire senza strappi il reale. La
questione si fa ancora più interessante nel momento in cui l’autore prende nettamente posizione a favore
di un’intrinseca fecondità di questo
vuoto in quanto luogo generativo
del soggetto. Il soggetto non appare in quanto opposizione dialettica
al vuoto, ma piuttosto come effetto
dell’esperienza del vuoto, esperienza
vissuta e attraversata fino in fondo.
Assunta in modo radicale, l’esperienza del vuoto nelle sue tre declinazioni conduce alla possibilità di un varco, a una apertura essa stessa inizio e
inaugurazione.
La lettura del testo offre immagini
particolarmente avvincenti e stimolanti. Su tutte ve ne propongo una.
La figura dell’esiliato di Zambrano e
quella dell’essere abbandonato di Nancy, vengono messe in dialogo tra loro
come due voci di un’unica partitura. “L’esiliato è dunque ogni uomo
e ogni donna, nella sua costitutiva
sospensione tra la nascita biologica
– il venire alla luce originario – e la
possibilità di un percorso incessante
di rinascita di sé.” L’esiliato è colui
che vive al limite e allo stesso tempo incarna il limite della condizione
umana. È la sua un’esperienza che
diventa una figura della condizione
umana, incarna lo straniero in quanto apolide che abita in ciascuno di
noi, e su questo passaggio incrocia la
figura dell’essere abbandonato di Nancy.
La morte di Dio lascia una traccia,
un alone di assenza attorno al quale
l’uomo, orfano e dunque senza un
256
lettera
recensioni
destino predeterminato, può aprirsi
agli infiniti possibili. Qui si incontra
quella regione psichica accessibile
solo attraverso una decostruzione
radicale dell’Io, una spoliazione dalle
identificazioni, assumendo il rischio
di perdersi per aprirsi alla possibilità
di un riscatto di ciò che intimamente
sentiamo come proprio ma mai del
tutto dominabile. È il percorso di
un’analisi ma anche, per certi versi,
il cammino dell’esperienza estatica
che trova nel mistico una sua manifestazione radicale ma che in quanto
esperienza è accessibile, almeno fugacemente, a ogni soggetto anche urbano, nel suo lasciarsi attraversare da
quella gioia eccessiva che Fachinelli in
La mente estatica aveva indicato come
l’altra faccia del godimento. Esperienza che noi psicoanalisti facciamo fatica a trattare e a formalizzare
perché spesso ci lasciamo schiacciare dalle parole denigratorie di Freud
sul sentimento oceanico, in quanto
lette solo come ritorno all’atavico,
all’ineffabile come primordiale presimbolico.
L’esilio e l’abbandono come figure della condizione umana aprono a
una particolare concezione di passività che offre la possibilità al soggetto
di deporre il suo presunto potere di
cattura assoluto sulla realtà a favore
di un’apertura, un’accoglienza, capace di ricevere il senso in quanto
evento inatteso, non più pienamente
dominato, non più costruito a partire dalla razionalità operativa. Un
senso che si fa luogo del possibile a
partire dall’incontro con il vuoto che
ospita.
Mauro Milanaccio
Soggettività smarrita
di Federico Chicchi
(Bruno Mondadori, Milano 2012)
Intervista a cura della redazione di
lettera.
1. L’attuale crisi finanziaria, “cifra pervertita della produzione del valore contemporaneo”, viene analizzata nel libro come
lo specchio di un sintomo ben più ampio e
articolato che annoda ambiti simbolici differenti. Parli di schizofrenia sociale, di uomo
senza inconscio, di un’anomia generalizzata,
di disgregazione dei legami sociali: da dove
iniziare? Dopo una stagione ideologica che si
è consumata nel dibattere sul primato della
struttura o della sovrastruttura, dell’economicismo o dell’antieconomicismo, quale può
considerarsi, in modo sintetico, la questione
più urgente, il filo che annoda e ingarbuglia
la matassa? È sufficiente dire che a “farla
da padrone” è il “discorso del capitalista”?
L’attuale crisi economica, la sua natura finanziaria e la sua crescente
asprezza sociale ci consegnano la cifra tonda della crisi del nostro tempo.
Il libro, oltre che tentare di chiarirne
le profonde ragioni strutturali, cerca
di indagare da vicino la dimensione
soggettiva della crisi. Per dirla in altri
termini, Soggettività smarrita ha inteso
prima di tutto tematizzare, da una
prospettiva interpretativa peculiarmente transdisciplinare, il reale del
capitalismo contemporaneo. La mia
assunzione di partenza è stata la convinzione che il nostro presente fosse
caratterizzabile come una vera e propria crisi di civiltà. Lo smarrimento del
soggetto sarebbe in tal senso la lettera
fenomenologica di questa piuttosto
evidente, mi pare, apocalisse culturale
della modernità, per dirla con un concetto di Ernesto De Martino. Il discorso
del capitalista così come Lacan lo aveva descritto a Milano all’inizio degli
anni settanta è molto astuto ma destinato
a scoppiare. Questa definizione, oltre
alle precise caratteristiche analitiche
che tale discorso presenta, è stata per
me un momento fondante del volume
ma al contempo, certamente, non lo
esaurisce teoreticamente. In questo
libro, infatti, ho tentato di articolare
assieme, non senza alcuni inevitabili rischi metodologici, Lacan con
Marx e Foucault, la psicoanalisi con
il postoperaismo italiano, Freud con
Bauman, solo per citare alcuni degli
intrecci teorici del volume. Per quanto
riguarda più propriamente il merito
teorico due sono invece gli assi attorno ai quali ho cercato di organizzare
la mia argomentazione: il tema della
reificazione/perversione tra soggetto
e oggetto, e il tema della libertà come
retorica fondamentale per la disposizione della soggettività all’interno del
discorso capitalista. E su questi temi i
lavori di Massimo Recalcati sono stati
per me un riferimento inaggirabile e
importantissimo.
2. Una delle tesi centrali del libro è la tematica dell’inciviltà del godimento, che mi
sembra una formulazione molto efficace.
Essa apre una prospettiva assolutamente
nuova nel senso che segna un punto di svolta, una “mutazione antropologica”, rispetto
a pochissimi decenni fa, quando la spinta
sociale puntava semplicemente all’accesso
al godimento. In che misura questo tema
dell’inciviltà del godimento costituisce uno
spartiacque decisivo ed essenziale per il nostro futuro?
257
Sì, in effetti, nel volume propongo,
anche per tentare un effetto perturbante nel lettore, l’espressione
inciviltà del godimento. Ci tengo però
a precisare fin da subito che il mio
intento non è stato per nulla quello
di demonizzare il godimento come
tale, come se questo fosse sempre e
comunque un momento meramente
distruttivo e mortifero dell’esperienza soggettiva. Quello che mi premeva denunciare, seguendo qui alcune
suggestioni di Slavoj Žižek, era invece l’imperante generalizzazione della
spinta a godere a ogni costo, accompagnata dal rischio di rendere evanescente il limite che la normatività
intrinseca alla relazione sociale porta
necessariamente con sé. Questo imperativo osceno, oltre che consumare
e distruggere desiderio, produce una
sorta di delirio autistico nel soggetto,
all’interno del quale non trova cittadinanza che una cinica, perversa e
maniacale vanità egoica. E questo
non è altro che il programma antropologico dell’inciviltà neoliberale. Programma che va a mio avviso
contrastato senza titubanza alcuna.
In particolare è nel quarto capitolo
che introduco il tema dell’inciviltà del
godimento e definisco il contemporaneo come quella fase storica in cui la
civiltà così come la avevamo (anche
freudianamente) intesa nella modernità, è definitivamente tramontata. Il capitalismo contemporaneo e
postfordista abbisogna, infatti, di inscrivere in suo seno soggettività creative, comunicative e indisciplinate,
questo al fine di favorire la produzione di valore nelle nuove filiere immateriali e reticolari del capitalismo
cognitivo. La precarietà e il governo
258
lettera
dei desideri sono i dispositivi di regolazione che si sostituiscono alla rigida azione sovranitaria e disciplinare
del moderno. L’analisi del potere nel
capitalismo e contemporaneamente
l’analisi dei nuovi processi di soggettivazione che si producono in resistenza a esso, rappresentano, allora,
un tema fondamentale per poter
costruire una nuova e radicale prassi
collettiva di messa in forma di una
nuova democrazia.
3. Il tuo libro dimostra la fecondità dell’incontro tra sociologia e psicoanalisi, forse
proprio grazie alla consapevolezza teorica
che l’individuo e la società sono strutturalmente implicati e grazie al fatto che l’inconscio si effettua in modo “estroflesso” rispetto
all’individuo. Radicalizzando questa notazione: in che misura possiamo affermare
che oggi il lavoro del sociologo non può fare
a meno di avvalersi della psicoanalisi per
analizzare l’attuale disagio della civiltà?
La questione dell’incontro tra sociologia e psicoanalisi inzuppa il volume
da capo a piedi. Se ne sente, credo e
spero, l’odore. Psicoanalisi e sociologia, ma anche antropologia e filosofia, e tutte le altre scienze sociali con
loro, se vogliono sopravvivere alle
attuali profonde trasformazioni dei
fenomeni sociali, credo, anzi sono
convinto, che debbano rinnovarsi
attraverso una inquieta e incessante
ricerca di reciproci (senza egemonie),
coraggiosi e fecondi incontri transdisciplinari. Questo naturalmente
se si vuole tentare di comprendere
qualche cosa che riguarda il Reale del
contemporaneo. Tale questione nel
mio volume arriva ad assumere uno
recensioni
statuto, direi, etico. Nel senso che si
vuole assumere la transdisciplinarietà come una pratica oggi assolutamente necessaria per produrre un
sapere che non sia autoreferenziale
e ripiegato sui problemi di coerenza
interna dei diversi paradigmi implicati. Questo in primo luogo perché
i recinti disciplinari così come sono
stati pensati nella scienza moderna
non sono più efficaci euristicamente,
in quanto non riescono a tener conto delle sempre più intense porosità
e coalescenze tra le diverse sfere del
sociale, e in secondo luogo perché
questi stessi confini rispondono a un
deleterio criterio di differenziazione
funzionale che esercita una perversa
ed eccessiva frammentazione/specializzazione dei saperi.
La sociologia infine e in particolare secondo me oggi non può più
fare a meno della psicoanalisi perché quest’ultima le consente di osservare in modo molto più efficace
e dirimente la dimensione normativa e produttiva di soggettività della
relazione sociale. D’altro canto la
psicoanalisi deve poter assumere e
trattare con maggiore consapevolezza i rapporti tra i diversi modelli di
azione sociale (e le forme istituzionali
che ne derivano), le cangianti forme
organizzative del potere e il comportamento psicopatologico che la pratica clinica permette di individuare
e di evidenziare. Ci si dimentica
troppo spesso quanto, fin dalla loro
fondazione, che risale per entrambe
le discipline più o meno alla seconda metà del diciannovesimo secolo,
sociologia e psicoanalisi si siano continuamente influenzate e suggestionate reciprocamente.
4. Parafrasando Melman quando afferma
che la nostra società ormai non è più in grado di trasmettere cos’è la morte, potremmo
dire che oggi non sappiamo più trasmettere
che cos’è il godimento in quanto lo immaginiamo ormai senza più limite? Non riaffiora allora, in questa incapacità, un’altra
versione della morte, più sottile e più insinuante, una versione mortifera dello statuto
umano? Ci troviamo, forse a nostra insaputa, in una nuova versione (biotecnologica e
biopolitica) del nichilismo?
Questa è davvero un’annosa e spinosa questione. Ma desidero qui, e
il libro si è posto questo stesso obiettivo, resistere a una lettura tutta pessimistica del presente. Ci troviamo a
mio avviso di fronte a un delicatissimo e per certi aspetti assai rischioso
bivio storico. La fine della modernità, la crisi ineluttabile del suo ordine
simbolico e la crisi della presenza che
ne deriva, spinge il godimento a determinarsi come l’unico e illusorio
motivo immanente per cui valga la
pena continuare a vivere. Il tema del
godimento, in questo modo, tende a
fare tutt’uno con la vita, senza scarti
e senza freni. In questo movimento
di generalizzazione del godimento
si perde però la responsabilità del
soggetto verso il mondo che abita;
s’interrompe, in modo tanto tragico
quanto per certi versi farsesco, il continuum che lega, o dovrebbe legare,
l’uno all’altro in modo indissolubile.
Personalmente credo che, oggi come
oggi, il limite al godimento passi
dalla riappropriazione condivisa di
uno spazio di progettazione sociale
del vivere in comune. In altre parole
passi dalla possibilità di rinnovare lo
spazio e il discorso politico al di là
259
delle macerie del moderno. La strada per tornare indietro, infatti, non è
più percorribile. Non è più auspicabile innalzare totem cui identificarsi
e conformarsi in modo irriflesso e
subordinato; anche se resta alto il rischio di tornare a emularne in forme
inedite certe caratteristiche autoritarie se non addirittura dittatoriali.
Dobbiamo quindi fare in modo che
prevalga un desiderio di costruzione
di una nuova democrazia, di una
nuova legalità del vivere in comune.
Mi piace allora in questo senso concludere questa intervista allo stesso
modo in cui termina il mio libro, e
cioè con le seguenti parole di DidiHuberman: “dire sì nella notte attraversata da bagliori, e non accontentarsi di descrivere il no della luce che
ci rende ciechi”.
Jacques Lacan
Desiderio, godimento
e soggettivazione – Vol. i
di Massimo Recalcati
(Raffaello Cortina, Milano 2012)
In occasione della pubblicazione dell’ultimo saggio di Massimo Recalcati, la redazione di lettera ha rivolto
alcune domande all’autore.
Perché questo libro oggi? Quale contributo
intende offrire nel panorama delle pubblicazioni su Lacan e sul suo insegnamento?
Ci sono due ragioni che mi hanno
spinto a radunare vent’anni di lavoro
su Lacan di cui oggi viene pubblica-
260
lettera
to, lo ricordo, solo il primo volume
che sarà seguito da un secondo interamente dedicato alla clinica psicoanalitica. La prima ragione è intima,
personale. Sentivo la necessità di
concludere il mio lavoro teorico sul
testo di Lacan nel momento in cui
la mia ricerca si sta spingendo in
direzioni più autonome, meno vincolate alla filologia e alla dottrina
del maestro. Preciso: io resterò per
tutta la vita lacaniano. Il vero amore
è “per sempre”. Tuttavia, faccio mia
l’indicazione fondamentale che Lacan dava ai suoi allievi: “fate come
me, non imitatemi!”. Penso, parlo,
scrivo, insegno, analizzo non avendo Lacan come modello. Sarebbe
assurdo farlo, del resto. Questo non
significa nemmeno che con questo
libro ho saldato il debito che mi lega
a Lacan una volta per tutte. Noi siamo sempre le nostre radici. La mia
ricerca, che vuole essere lacaniana,
o, se volete, postlacaniana, sarebbe
semplicemente impossibile senza
Lacan. Dunque nel momento in cui
mi sono spinto nei miei ultimissimi
lavori – penso in particolare a Cosa
resta del padre? – in una direzione che
non so se Lacan avrebbe condiviso,
l’esigenza di scrivere un’opera per
me ricapitolativa sull’insegnamento di Lacan, mi si è imposta come
una sorta di dovere misto all’amore.
Niente di obbligatorio; un segno di
riconoscenza.
La seconda ragione è di ordine
culturale. In Italia abbiamo lottato in
molti per dare diritto di cittadinanza
all’opera di Lacan, la quale era circondata da pregiudizi e incomprensioni in gran parte dovuti al fatto che
la sua recezione italiana, avvenuta
recensioni
nel corso degli anni settanta, è stata
fortemente condizionata dal “fenomeno Verdiglione” e da tutto quello
che tale fenomeno ha prodotto. Ora
non siamo più in quel tempo. L’opera di Lacan è riconosciuta come un
classico, nel senso che Italo Calvino
attribuiva a questo termine: diventa
classico un testo che viene stimato
come “inesauribile”. Rimasi colpito qualche anno fa quando un mio
analizzante mi regalò una raccolta
di scritti di Lacan pubblicati nella
collana dei “Meridiani” di Mondadori… Era il segno irreversibile di
una vittoria.
Adesso siamo in un tempo due.
Il problema non è più quello di dare
cittadinanza a Lacan, ma il conflitto
delle interpretazioni. Quale Lacan?
Di quale Lacan parliamo quando
parliamo di Lacan? Cosa ci interessa
del suo insegnamento? Oggi non è
più il tempo della cittadinanza, ma
delle letture di Lacan. E questo libro,
che pure vuole offrire al lettore un
quadro ampio dei principali concetti
che hanno popolato il suo insegnamento, vuole dare un contributo a
questa nuova fase proponendo una
certa lettura di Lacan.
In più occasioni lei ha parlato di letture
diverse di Lacan, riconducibili a periodi
storici diversi e anche a lettori diversi. In
questo testo ci propone una sua lettura.
Qual è la sua specificità? Quanto è dovuta
alle contingenze che la psicoanalisi si trova
ad attraversare?
In questo libro c’è il tentativo di offrire al lettore un quadro concettuale
ampio dell’insegnamento di Lacan.
Tolta la topologia che non capisco
e che non mi interessa si trovano
tutti i maggiori temi lacaniani. Ma
si trovano ordinati da una prospettiva neoesistenzialista che mette in
valore il carattere irrinunciabile del
riferimento alla soggettività, al desiderio e alla responsabilità etica
del soggetto. Questo non significa
cancellare la nozione di godimento.
Anzi. L’essere umano è per Lacan,
come del resto lo era già per Freud,
un essere di godimento. Ma questo
essere non può cancellare l’insistenza
del desiderio inconscio. Il problema
per Lacan è come annodare, tenere insieme desiderio e godimento.
Non si tratta di porre l’opposizione
di godimento e desiderio in termini morali: il godimento è il male e
il desiderio è il bene o viceversa; il
godimento è il bene e il desiderio è il
male. Si tratta, come indica Lacan in
chiusura del suo scritto Sovversione del
soggetto e dialettica del desiderio, di fare in
modo che vi sia possibilità nuova di
raggiungere il godimento sulla “scala
rovesciata del desiderio”. Questo Altro godimento è anche quello che è
in gioco nella sessuazione femminile.
È godimento irriducibile all’Uno. È
godimento che non esclude l’Altro.
Non può essere il cinismo del godimento Uno l’ultima parola della
psicoanalisi. Non perché questa problematica non sia presente in Lacan,
o, come dimostra Miller, nell’ultimissimo Lacan, nella centralità che la
lettura milleriana attribuisce all’aforisma lacaniano “il y a de l’Un” (c’è
dell’Uno), ma perché il mio Lacan, o
quello che io vedo come decisivo in
Lacan, non è affatto il culto del godimento fine a se stesso, non è il culto
del carattere acefalo della pulsione.
261
Quello che io vedo come decisivo in
Lacan è la promessa analitica come
promessa di liberazione dall’inferno
della ripetizione del godimento Uno.
Il pensiero di Lacan, il suo itinerario teorico,
si snoda nel cuore del Novecento, attraversa
i suoi punti più fecondi e più problematici.
Che cosa ci consegna sullo scenario della
nostra contemporaneità, scenario così radicalmente alterato e degradato? Quali potrebbero essere le sue formulazioni teoriche che
maggiormente toccano nel vivo dell’attualità del nostro tempo? E soprattutto: le sue
formulazioni sono in grado di aprire una
breccia rispetto alla progettualità relativa a
un possibile futuro?
Una delle tesi del mio lavoro è che
Lacan sia stato in assoluto il più
grande pensatore del soggetto di
tutto il Novecento. Penso che oggi lo
strumento-Lacan possa essere usato
per difendere la singolarità del soggetto da tutte quelle forme di pensiero e da quelle pratiche della cura
che tendono ad abrogarlo. Il nostro
tempo ha mostrato come l’affermazione strutturalista della morte del
soggetto (Foucault) e quella falsamente libertaria del desiderio ridotto
a macchina impersonale di godimento (Deleuze) siano diventate sostegni
ideologici involontari del discorso del
capitalista. Lo scientismo ipermoderno ha enfatizzato la dimensione
anonima e sovrasoggettiva della cifra, del numero, della quantificazione, delle procedure della valutazione.
In questo modo l’affermazione del
potere disantropico delle strutture liberandoci dalla retorica narcisistica
dell’umanesimo antropocentrico ci
ha portati verso una disumanizza-
262
lettera
zione tecnologica dell’uomo. Verso
una nuova forma dell’alienazione. A
sua volta il culto trasgressivo del godimento senza Legge, della cancellazione del reale come impossibile, del
tutto è possibile, è finito direttamente
nelle braccia mortifere del discorso
del capitalista che promette un godimento finalmente libero dai lacci
repressivi della castrazione. Ebbene,
contro queste due derive ipermoderne (scientismo e iperedonismo) il riferimento di Lacan alla dimensione
irrinunciabile della soggettività agisce da punto di resistenza. Una chiave di lettura che propongo è quella
che vede Lacan sorgere dallo stesso
campo delle filosofie dell’esistenza
e dell’antropologia cristiana: il soggetto è sempre responsabile della
sua posizione e questa responsabilità
è tanto più illimitata quanto priva
di ogni illusione di padronanza. È
questo uno dei centri assolutamente
vivi del suo pensiero. Il riferimento
all’algebra, alla matematizzazione,
ai grafi, alle strutture, non deve far
dimenticare la fedeltà di Lacan alla
lezione di Freud che pone il soggetto
dell’inconscio come espressione incarnata di una singolarità incomparabile, fuori serie, disadattata, anormale, impossibile da disciplinare.
Ma anche la centralità che nel suo
pensiero assume il riferimento all’atto, all’incarnazione, al corpo vivente,
erogeno, alla plasticità della pulsione,
all’invenzione irregolare, fuori serie
edipica, del sintomo. La vocazione
strutturalista del suo insegnamento
non conduce mai verso un formalismo che sopprime il piano contingente dell’esistenza e della sua singolarità etica, così come la sua critica
recensioni
alla morale tradizionale non avalla
mai alcun naturalismo vitalistico.
Alcune recenti interpretazioni dell’insegnamento lacaniano, in particolare quelle che
si richiamano a Jacques-Alain Miller, sottolineano il fatto che accanto all’inconscio
transferale di Freud sarebbe possibile identificare in Lacan, nell’ultimo Lacan, un altro
inconscio, un inconscio reale. Quest’ultimo
sarebbe il fondamento di quello che lo psicoanalista francese chiamava, con un provocante neologismo, il parlessere. Il nome
dell’inconscio reale, appunto. Qual è la sua
posizione teorica al riguardo? E qual è la
posizione che il suo volume assume riguardo
agli effetti sulla pratica clinica che questa
spinosa questione produce inevitabilmente?
Come voi sapete Jacques-Alain Miller è stato il mio analista e il mio maestro. Conclusi la mia analisi poco
prima che una ennesima tempesta
istituzionale mettesse alla prova il
mio rapporto critico con la macchina istituzionale che egli governava.
Il mio debito e la mia riconoscenza
profonda nei suoi confronti non sono
stati sufficienti a farmi restare in una
organizzazione che mi pareva tradire
sistematicamente lo spirito della psicoanalisi e dell’insegnamento di Lacan. Lasciai la sua Scuola con grande sofferenza. Continuai a sognare il
mio analista ancora per diverso tempo. In uno di questi ripetevo un sogno di fine analisi. Perdevo la chiave
dorata della Chiesa di cui ero responsabile e che il mio analista mi aveva
consegnato in eredità… C’erano altri
che avevano il fantasma di divenire
papa, nel senso del capo della Chiesa… Il mio era piuttosto quello di
divenire un poeta. Perdere la chiave
della Chiesa è stato un alleggerimento che ha consentito una buona separazione. Una separazione che non
cancella il debito, una separazione
non senza gratitudine. Il lavoro di
Miller sul testo di Lacan è stato per
me e per molti della mia generazione
di fondamentale importanza. Non so
senza Miller se sarei mai riuscito a
leggere Lacan… La sua capacità di
lavorare sui concetti lacaniani è unica; la sua finezza di lettore di Lacan
non ha paragoni. Almeno a mio giudizio. Eppure nel millerismo io vedo
due grandi limiti. Il primo è quello
di aver scatenato una doxa che ha assunto la lettura di Miller come l’unica
lettura possibile di Lacan, cioè come
una espropriazione di fatto dell’enunciazione di Lacan. Lo scopo della lettura di Miller è quello di stabilire ciò
che Lacan ha veramente detto. Non
propone una lettura, ma La Lettura
che però, come La Donna, non esiste. Questo finisce inevitabilmente
per produrre e cementare una nuova ortodossia che, probabilmente,
avrebbe fatto accapponare la pelle
a Lacan. Il secondo limite riguarda
il contenuto della sua lettura. Miller
ha concepito il testo di Lacan come
animato da una teleologia; dalle illusioni dell’Immaginario, attraverso
l’autonomia sovraindividuale dell’ordine simbolico sino alla celebrazione
eroica del reale. Questa teleologia ha
promosso il godimento Uno come
l’ultima parola, la più alta, di Lacan.
Con la conseguenza che tutto ciò che
precede e accompagna la categoria
del godimento-Uno viene declassato
d’importanza. Per esempio, questo
avviene con la categoria di desiderio.
Ma non solo. Come se l’aver indicato
263
una tendenza uniana del godimento
e tutti i limiti che contrassegnano la
dialettica simbolica della parola, significasse automaticamente mettere
in soffitta la nozione di desiderio, di
soggetto, di mancanza a essere, di
parola piena ecc. La psicoanalisi non
può limitarsi a enfatizzare la ripetizione del godimento Uno, la sostanza
godente, la pulsione acefala che vuole
godere perché questa enfatizzazione attraversa per intero il discorso
del capitalista. La forza sovversiva
dell’insegnamento di Lacan non è
quella di opporre l’inconscio strutturato come un linguaggio all’inconscio
reale come spinta al godimento Uno,
ma è nell’annodare questi due poli
strutturali del soggetto. Altrimenti
la psicoanalisi viene meno nella sua
promessa di liberazione. Smarrisce
il senso della sua prassi convalidando il godimento Uno come sostanza
autistica. Non a caso ancora in Televisione Lacan ribadisce che l’insistenza
del desiderio definisce la dimensione
etica del soggetto. Era quello che si
trovava già esposto chiaramente in
apertura del Seminario xi: l’inconscio
non è dell’ordine dell’ontico, non
è una semplice presenza, ma è una
chiamata che esige una risposta etica.
Il tema dell’amore attraversa l’insegnamento
di Lacan fin dal suo primo seminario. La
cosa sorprendente è che questo stesso tema
torna a essere cruciale anche nell’ultimo
periodo della sua riflessione teorica. In particolare, nel Seminario xx, l’amore sembra
svolgere un’importante funzione di “tamponamento” della lacaniana inesistenza
del rapporto sessuale. Qual è secondo lei a
partire da qui il destino e anche il dramma
dell’amore nella società contemporanea?
264
lettera
Il fatto che il tema dell’amore sia
veramente un tema capitale per Lacan si spiega con la natura specifica
dell’esperienza analitica. L’analisi è
un’esperienza attraversata dall’amore. Non solo perché si parla d’amore
ma anche perché c’è dell’amore in
atto. C’è spostamento, trasporto, movimento, innamoramento primario,
in una parola, transfert. Non sono
d’accordo con l’idea che l’amore sia
un “tamponamento” della inesistenza del rapporto sessuale. Lacan usa a
questo proposito l’espressione “supplenza”. Non è mettere un tampone,
richiudere la beanza dell’insistenza
del rapporto sessuale con un artificio. Supplire significa qui venire al
posto di, prendere il posto di. Non si
tratta di chiudere la beanza ma di far
in modo che questa beanza, l’incontro solitario con questo trauma impossibile da evitare, generi un nuovo
rapporto, un rapporto nuovo col non
rapporto. Questo definisce la contingenza dell’incontro d’amore che ho
particolarmente enfatizzato nel mio
libro. L’esilio dal rapporto sessuale
non viene tamponato dall’incontro
d’amore perché questo incontro si
rende davvero possibile solo se si
assume l’inesistenza del rapporto
sessuale. Nel nostro tempo c’è crisi
del discorso amoroso perché sembra
venir meno l’esperienza del Reale
come impossibile. Se non si può scrivere il rapporto sessuale ci si dedica
a – in questo caso il termine è appropriato – tamponare il non rapporto
scrivendo altri rapporti dove non è in
gioco l’alterità irriducibile dell’Altro
sesso. Sono i rapporti con l’oggetto
inumano che la clinica ipermoderna
delle dipendenze patologiche mette
in rilievo in modo esemplare. La crisi
del discorso amoroso è crisi del rapporto con l’impossibile. Si preferisce
l’accesso immediato al godimento Uno piuttosto di fare il giro più
lungo che l’amore impone attorno
all’inesistenza del rapporto sessuale.
Edoardo Fraquelli
Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia
Mariella Guzzoni
La vita non può essere che un’opera d’arte – se è di vita
umana che parliamo, ovvero della vita di esseri umani
dotati di volontà e di libertà di scelta.
Zygmunt Bauman1
“Una mostra da non perdere” mi disse il mio maestro di disegno. Fu
così che incontrai le tempere di Fraquelli per la prima volta. Tempere
su carta. Piccole. Chi si ammala di carta non guarisce più. La carta
risponde al gesto dell’artista, si ondula, si sciupa, si lacera, si rompe.
Vive in corso d’opera. Ma le carte di Fraquelli hanno resistito alla
potenza del gesto pittorico. Hanno resistito alla forza con leggerezza.
Una leggerezza esplosiva. È forse questo che più mi ha colpito. E
quella forza, che pare voler esplodere dal foglio che pur la contiene,
mi ha portato a voler sapere di più.2
Fraquelli non conosceva le grande tele di Franz Kline, negli anni
cinquanta era fornaciaro, girava in bicicletta in Brianza, aveva fatto la
quinta elementare: nel suo studio sono stati trovati i suoi quaderni di
scritti e disegni e tre libri – il Vangelo, Van Gogh, Montale.
Eppure in queste piccole carte la forza del segno e la potenza espressiva della forma parlano di un evento. “Una congiunzione modale tra
l’evento della forza e quello della forma”. Il miracolo della forma.3
Edoardo Fraquelli
Senza titolo, 1965
tempera su carta intelata
21 × 32 cm
1
Zygmunt Bauman, Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido (2010), Laterza,
Roma-Bari 2012, p. 200.
2
Le tempere di Fraquelli sono state esposte in modo articolato per la prima volta a
Bergamo, alla galleria Olim, Opere su carta, nell’aprile 2005, su iniziativa di Pierantonio
Verga (Edoardo Fraquelli, Segni forti e materie. Tempere 1959-1994, catalogo a cura di Flaminio Gualdoni).
3
Le tempere di Fraquelli esprimono bene, a mio avviso, quello che Massimo Recalcati
268
Mariella Guzzoni
La storia di Fraquelli ha dell’incredibile. Qualcuno potrebbe dire:
“tante storie sono così, in quegli anni!”, ma la realtà è che l’essere
stato pittore, l’aver dedicato le sue notti a dipingere, la sua arte giovanile riconosciuta dai critici a cavallo degli anni cinquanta e sessanta
lo hanno salvato dalla morte civile, tra i corridoi dei matti annichiliti
dai farmaci. L’arte, nella seconda parte della sua vita, gli ha ridato la
voglia di esistere. Ma veniamo a questa storia vera.4
Edoardo Fraquelli nasce a Tremezzo, in Brianza, nel 1933. Il padre è
giardiniere nelle grandi ville brianzole. La mamma muore nel 1938,
poco dopo aver dato alla luce una bimba che morirà anche lei. Edoardo conosce la morte da vicino a cinque anni. Doppia morte. È un
bambino introverso, parla pochissimo. Su richiesta del padre, che non
vuole estranei in casa, una cugina tredicenne, Carla, acconsente a
vivere stabilmente in famiglia, per crescere Edoardo e suo fratello
poco più grande di lui. Si affeziona a Edoardo, gli vuol bene, ma, se
lo coccola, lo deve fare di nascosto: il padre non vuole, è molto severo.
Dopo circa cinque anni Carla si sposa, desidera una sua famiglia; il
padre si risposa. Carla, che aveva rappresentato per lui un riferimento
affettivo fondamentale, viene, agli occhi di Edoardo undicenne, sostituita da una donna adulta, la nuova moglie del padre, con la quale
sembra non sia mai nato un legame affettivo. Dopo la quinta elementeorizza nel libro Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica – testo in cui, (entrando poi
nel vivo del dibattito artistico sull’informe), Recalcati mette al centro “la pratica dell’arte
come pratica in grado di interrogare il reale”: “L’opera d’arte non vive affatto di questa
scissione rigida di forma e informe. I modelli estetici proposti da Nietzsche e Heidegger,
e quelli che possiamo ricavare da Freud e Lacan, condividono, a mio giudizio, l’idea che
l’opera d’arte sia un luogo agonico, abitato da una tensione conflittuale, da una lotta continua, mai risolta una volta per tutte, tra la tendenza all’integrazione formale e la dissonanza
irriducibile dell’informe. […] Ancora più radicalmente dovremmo cominciare a pensare
che la coppia ‘forza-forma’ possa davvero recidere ogni legame con quella metafisica,
di matrice crociano-idealistica, ‘forma-contenuto’” (Massimo Recalcati, L’icona scissa dal
coinema, postfazione alla seconda edizione di Id., Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica [2007], Bruno Mondadori, Milano 2011, pp. 211-217, testo apparso dapprima in
Id., Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, pp. 133-143, Bollati Boringheri, Torino 2009).
4
Le notizie qui riportate sono il frutto di una mia intervista del settembre 2008 (citata
fra virgolette nel testo) ad Aldo e Linda Consonni che, come vedremo, hanno riportato
Fraquelli a dipingere, dopo più di dieci anni di storia psichiatrica. A loro un particolare
ringraziamento per avermi a suo tempo fornito la documentazione necessaria allo studio
di questo artista.
Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia
269
tare (siamo verso la fine della guerra), Edoardo inizia a lavorare da
un ciclista di Usmate. Poi da un intagliatore di cornici. E lì, in quel
capannone, la sera modella statue, inizia a disegnare. Dopo il servizio
militare, tornato in Brianza, trova lavoro in fornace, il lavoro è duro,
con i compagni incomincia a bere. Vent’anni. La notte dipinge i suoi
primi paesaggi. Un unico autoritratto a olio, uno a matita. Qualche
volta, la domenica mattina, frequenta un corso d’arte locale, disegna,
dipinge. Conosce il pittore Carlo Carrà, che ha lo studio vicino a lui.
Esordisce nel mondo artistico nel 1957 in una mostra alla Galleria
del Prisma di Milano. Le critiche sono molto positive, i suoi quadri
suscitano enorme interesse. Nel 1958 partecipa alla Biennale di Porta
Venezia e al Premio San Fedele. Paesaggio, Paesaggio con figure, Brianza
primaverile, Paesaggio invernale, Serata invernale. In quegli anni conosce
Morlotti, Scaccabarozzi, Dozio, Arturo Vermi, il corniciaio Crippa e,
grazie a lui, Piero Manzoni, Bonalumi, Mulas. Enio Morlotti è il suo
faro espressivo, ma Edoardo è più bravo di lui.
Se ne accorgono tutti, a quanto pare. Preferiscono lasciarlo a casa.
Non lo invitano, non lo aiutano, non lo sostengono. È facile, Edoardo
è un ragazzo, ha solo la bicicletta… e in più alza il gomito, ogni tanto.
Eppure i mercanti poco onesti, sempre pronti a lucrare sul destino
avverso dei pittori ingenui, ma bravissimi come lui, lo fanno dipingere
in cambio di qualche bottiglia, per poi rivendere i suoi quadri come
dei Morlotti.
Dipinge paesaggi straordinari, liriche quasi monocrome tra forza
e forma, inscrivibili tra gli “ultimi naturalisti” descritti da Francesco
Arcangeli: “Natura è la cosa immensa che non vi dà tregua, perché la
sentite vivere tremando fuori, entro di voi: strato profondo di passione
e di sensi, felicità, tormento.”5
La sua pittura è magmatica, usa il colore come materia da plasmare. Eppure il magma è come fluido, è un magma che si scioglie, si
mescola, talora si addentra come un sentimento che si consuma e poi
rinasce in nuovi improbabili percorsi. Solo frammenti – resti di vita?
– compaiono qua e là nelle sue tele. Stefano Agosti parla di “grumi
materici di natura”, di “simbiosi confusiva fra i due Soggetti di sapere
– il sapere dell’Io e il sapere d’Oggetto. […] Nessuna prevalenza di
5
Francesco Arcangeli, Gli ultimi naturalisti, in “Paragone”, n. 59, novembre 1954, pp.
29-43.
270
Mariella Guzzoni
un sapere sull’altro ma una sorta di miracolosa, eccezionale compenetrazione dell’uno nell’altro.”6
Ma Edoardo a venticinque anni è solo, taciturno, senza amore.
Tenuto a distanza di sicurezza dai benpensanti del sistema dell’arte…
È solo anche in famiglia, il fratello Francesco ora si è sposato. Beve.
Un piccolo disegno a matita – forse di quel periodo – sembra tracciare il ritratto del suo dramma: un fagotto di vestiti, senza gambe,
senza braccia, ciò che resta all’osteria accanto alla bottiglia e al bicchiere vuoto. Non conosce l’ubriaco accasciato sul tavolo di Charles
Degroux,7 eppure, quel disegno sembra l’evoluzione astratta del capolavoro dell’artista belga. Un resto un avanzo uno scarto una deriva,
non degno d’amore, non degno d’affetto, ecco chi sono. Non degno.
Ci vuole un gran dolore per vedersi così. Per rappresentarsi così. La
carta sembra l’unica testimone di questo grido muto.8
L’indegnità fondamentale della propria esistenza, sentirsi niente,
senza valore, insignificante, emerge con forza dalla matita di questo
piccolo ritratto, quasi un’incisione: la cifra della sua melanconia.
Inizia a scrivere liriche. La pittura e la poesia lo aiutano a sopportare l’inutilità della sua esistenza, i suoi vent’anni scanditi da esperienze di rifiuto: disabbonato dal desiderio, un padre legislatore che fa la
predica alla cugina Carla prima, e farà la predica allo psichiatra poi
– un padre che si vergogna e si vergognerà di lui. I compaesani che
lo usano come un pagliaccio… gli amici pittori che non lo chiamano.
Ed ecco l’immagine del suo corpo, un fagotto inutile, abbandonato
come una cosa da buttar via, lì, sul tavolo. Ecco l’immagine di un
corpo-cosa, non amabile, senza significato allo sguardo dell’Altro.
6
“È comunque a partire da quelle date, 1956-1958, che l’informale attuato ed elaborato da Morlotti spalanca, in Fraquelli, quella che sarà la sua propria visione-percezioneassunzione del visibile: ove la simbiosi confusiva fra i due Soggetti di sapere – il sapere
dell’Io e il sapere d’Oggetto (in questo caso solo l’oggetto di natura) – riveste caratteri di
tale solidarietà e pariteticità quali non si erano dati negli esempi – pur grandissimi – da
noi precedentemente citati. Nessuna prevalenza di un sapere sull’altro ma una sorta di
miracolosa, eccezionale compenetrazione dell’uno nell’altro.” (Stefano Agosti, Un vertice
dell’informale, in Fraquelli, un vertice dell’informale, catalogo della mostra al Museo Valtellinese
di Storia e Arte, Sondrio 2006, pp. 15-21. Si veda anche Stefano Agosti, Il testo visivo, forme
e invenzioni della realtà da Cézanne a Morandi a Klee, Christian Marinotti, Milano 2006)
7
Charles Camille Auguste Degroux, The Drunkard, 1853 circa, olio su tela, Musée
Royaud des Beaux-Arts de Belgique.
8
Edoardo Fraquelli, Senza titolo, data incerta, matita su carta intelata, 27 × 21,5 cm.
Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia
271
Il soggetto sembra coincidere con l’oggetto. L’oggetto melanconcio.9
Pattume:
Quali tratti si lasciano vedere di un oggetto così velato, mascherato, oscuro? Il
soggetto non può prendersela con nessuno dei tratti di quest’oggetto che non
si vede, ma noi analisti, quando seguiamo un soggetto simile, possiamo identificarne alcuni attraverso quelle che egli indica come le proprie caratteristiche.
Io non sono niente, sono soltanto pattume.10
Alla fine degli anni cinquanta iniziano le prime crisi; dipinge il ciclo
delle tempere che qui presentiamo, tutte di piccole dimensioni, tutte
su carta fragile e leggera che aggiunge un che di esplosivo al gesto
dell’artista. Uno si domanda: com’è possibile? Non è tela, questa! Una
sfida Senza titolo, corpo a corpo con il suo mondo su carta. Un mondo freddo, un mondo caldo in due cicli – uno di neri glaciali ma vivi
9
Melanconcio, un neologismo nato per caso, ecco come: circa un anno fa scrissi a
un’amica artista, citando Lacan e l’oggetto melanconico – invertendo inavvertitamente
le due lettere. Lei se ne accorse subito, e da allora il termine melanconcio (melanconicomalconcio) è diventato parte del nostro lessico.
10
Jacques Lacan, L’analista e il suo lutto, in Id., Il seminario. Libro viii. Il transfert (19601961), Einaudi, Torino 2008, p. 432.
272
Mariella Guzzoni
e mobili in acqua di fango, un secondo ciclo di ocra di terra, qualche
guizzo di vita in poco verde muschio, qualche arancio rovente annerito dal fumo. Ecco i colori.
Nel 1964 un ricovero di quattro mesi. Nel 1965 i titoli delle sue
opere saranno, per la prima volta, non più Paesaggi, ma Rovine, Sera
derelitta, Vittime dell’eruzione, Rovine, Rovine di Dresda, Paesaggio desolante,
Tragedia. Forze sparse corrono sulla tela, elementi autonomi entrano
in scena in un divenire di reticoli bombardati impigliati strappati tra
colore e forma: appaiono.
Necessità interiore e tumultuosa. Come scrive Paul Klee nel 1928,
“La via alla forma, che deve essere dettata da una necessità interiore
o esteriore, trascende la meta, va al di là del termine stesso della via…
La formazione determina la forma e pertanto la trascende. La forma
non è quindi mai e poi mai da considerarsi conclusione, risultato, fine,
bensì genesi, divenire, essenza…”.11
Nel 1966 un premio, la Colonnina d’oro, Manlio Rho, e una personale a Como. Poi un ricovero, poi una mostra a Lecco, poi un ricovero,
poi una mostra a Merate. Prima del temporale, una tela, tra le ultime della
sua stagione, è un groviglio di forze chiuse, un gomitolo di tensioni non
dipanabili. Scrive poesie. Si dedica alla scrittura. Desidera con tutte
le sue forze un riconoscimento della parola scritta. Vive con il padre e
la sua nuova moglie che lo sorvegliano a vista. Si chiude in camera e
scrive. Scrive e memorizza. Avanti e indietro dai presidi psichiatrici ci
va con il padre, sei volte nel 1972, nove volte nel 1973, sette volte nel
1974, quel padre che presenzia ai colloqui, che lo controlla dalla finestra
quando va al bar, che teme per lui, che sembra non aver fiducia in lui…
Diario medico, 24 luglio 1972:
Il padre è un uomo vecchio, magro, dalla voce chioccia e bizzosa. Fa la predica al paziente e a me: al p. perché ha ricominciato a bere, e anche perché non
lavora assiduamente, a me perché gli ho cambiato la cura. […] Il p. sembra
ad ogni modo aver fatto la sua scelta: beve come altri si chiudono in un mondo
autistico. Il rapporto col padre è davvero molto cattivo: durante il colloquio
si parla anche del fratello del p., che il padre definisce “una perla”, implicitamente affermando, è ovvio, che quest’altro figlio è la sua croce.
11
Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione (1970), 2 voll., Mimesis, Milano 2011,
vol. ii, Storia naturale infinita, p. xliii.
Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia
273
Ma a fine novembre 1972, grazie agli sforzi del padre, esce finalmente
il volumetto di poesie tanto desiderato da Edoardo. Il titolo è: Per la
certezza dell’esistere. Quella certezza, finalmente da toccare, nella collana
“Poeti d’oggi”, canta anche i suoi amori platonici, A Bruna, A Ida,
A Feliciana, canta l’amore di una gioventù perduta, di un cane visto
morire:
In morte di Borlino
Prima non passeranno del dolore
le tue spoglie
agli occhi miei di febbre.
Ora sei più in pace
celato sotto la musica
del cielo.
La tua intesa tra gli uomini
indifferenti qualora un tuo saluto
scodinzolando iniziavi, di troppa
delicatezza era un complimentoso
tuo segno. Non era la tua
di animale semplice delicatezza,
era irrequietudine dolce che a girare ti portava.
Fu per quei giorni divisi
e brucianti al sole, per la
noncuranza nostra la tua morte,
e pochi ti videro inerte
denti schiusi, i tuoi
cani amici ti ricorderanno
presso la terra che ti copre
nel cielo delle notti.
Il cane, Borlino, è il cane del paese, di tutti e di nessuno. Non è il cane
randagio di Neruda che “fiuta il mondo e scuote il trifoglio”, non è
il cane solo, in perpetua erranza di Giacometti, è l’animale gentile
senza un padrone che mendica un po’ d’affetto tra l’indifferenza degli
uomini.12
12
Le poesie di Fraquelli sono state recentemente ripubblicate (e illustrate), con degli
274
Mariella Guzzoni
1° ottobre 1973, diario medico: “Il p. viene a prendere le medicine:
mi appare né più né meno del solito, ma il padre, oggi in una vena
castratoria dice ‘cosa vuole, non ha iniziativa, è molle, molle; pensa
solo a scrivere poesie, e a bere’.”.
Fine 1974, il padre muore, mentre Edoardo è ricoverato. Diario
medico, 9 dicembre 1974, relazione dell’assistente sociale:
La madre che pare sinceramente affezionata al paziente, nell’ultimo colloquio
ha affermato, piangendo, di aver paura a vivere da sola con lo stesso ora che
il padre è morto. Non pare che, a detta della madre, il fratello che risiede a
Carnate, possa prendere con sé il paziente. Assai problematica si presenterà
perciò la situazione del p. quando e se lo stesso sarà dimissibile dall’O.P.P.
Tre mesi dopo, il 12 marzo 1975, il fratello scrive una lettera al direttore dell’ospedale spiegando che
La matrigna non è in grado di seguire e sorvegliare mio fratello […] che,
quando trasmoda un po’ nel bere diventa pericoloso per gli altri e per se stesso. Io come fratello, essendogli affezionato, desidererei vederlo sistemato in
modo un po’ sicuro, perché a casa è sempre in pericolo […]. A una madre si
potrebbe chiedere l’eroismo di tenerlo assieme, […] ma non a una matrigna.
Le circostanze che hanno portato Edoardo al reparto pericolosi
dell’ospedale psichiatrico di Como sono ancora oggi poco chiare.
Una denuncia? Una telefonata? Da parte di chi? Una ribellione di
Edoardo ai carabinieri, qualche offesa, qualche spintone – ecco che
viene chiamato il medico condotto, anzi un suo sostituto, una firma e
via –, viene ricoverato in manicomio. Disturbo della quiete pubblica.
Ritenuto violento. Non aveva mai dato una sberla a nessuno. Anzi, era
divenuto il personaggio strano, il clown. L’artista fuori dai ranghi, il
poeta, il pittore, per un bicchier di vino gli facevano fare il pagliaccio.
Scomodo alla famiglia che rimaneva dopo la morte del padre. Una
vergogna. “C’eran due nipoti, due ragazze da sposare…” Forse meglio non averlo in giro, in paese.
Sei anni in Psichiatria senza uscire. Mandare i suoi versi a memoinediti, nella collana “Atelier. Poesia” diretta da Stefano Crespi: Edoardo Fraquelli, Di terra,
di cielo, con una testimonianza di David Maria Turoldo, Le Lettere, Firenze 2010.
Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia
275
ria, comporre a memoria e tenere a memoria era l’unica cosa che lo
faceva sentire in qualche modo vivo, che gli restituiva una minima
identità. Non scriveva: temeva gli rubassero le sue poesie. La memoria
era la sua forza, l’unica forma di resistenza. Un parafulmine – forse
– come per Van Gogh che, sottochiave, senza pennelli tele o colori,
rileggeva Shakespeare per non impazzire.
Ma il caso ha voluto che un suo dipinto esposto in un museo di
Graz fosse entrato nel cuore di un amante dell’arte, che subito inizia
a raccogliere i suoi lavori sparsi tra cantine e solai brianzoli – o “addirittura usati come tappabuchi di finestre o di mobili sforacchiati
dai topi” – e decide di fare una mostra: prepara il menabò del libro
che parlerà di lui. Va a cercare Fraquelli, siamo nel 1980, chiede un
incontro, e lo trova “con occhi sbarrati, via con la testa. […] Forse
hanno ragione quelli che dicono che è finito… chiuso… matto”, si
dice. Ma poi ci torna, nell’ospedale dei matti, lo trova lucido, allora
capisce di essere arrivato “prima delle 90 gocce di Serenase”. Siamo
a Villa Rosa. Va a conoscere il primario: “Guardi che qui c’è una persona che non è una persona qualsiasi, ecco il menabò del libro, delle
opere giovanili, Edoardo è un artista!”. Una sorpresa per tutti, “non
lo sapevano…” – e così “si sono spalancate le porte”. Fraquelli ritorna a dipingere. Il suo primo quadro è dell’agosto 1981. Sono passati
quindici anni. Lo fa in ospedale, dove avrà uno spazio per lavorare. Il
lavoro lo assorbe e, poco a poco, niente più gocce. Un miracolo? Una
prima riflessione, senza scomodare Freud, apre almeno due grandi
temi, opposti e complementari – da un lato il risvolto inerziale di molti
trattamenti farmacologici, dall’altro l’attenzione spesso nulla o quasi
per l’individuo. La questione è quanto mai attuale.13
Il Decreto Legge del febbraio 2012, relativo alla tanto attesa chiusura di quella realtà
aberrante che sono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (entro marzo 2013), sta sollevando
molti punti interrogativi da parte di Psichiatria Democratica e del Comitato Stop opg, legati
al fatto che “l’attenzione sembra solo concentrata sull’apertura delle strutture residenziali
sanitarie ‘speciali’, molto simili agli ospedali psichiatrici (‘mini opg’). Rischiamo di ritrovarci
con numerosi piccoli manicomi regionali! […] È doveroso affermare il valore della Legge
Basaglia, fondamentale per la democrazia e le libertà del nostro Paese, contro ogni tentativo
di riportarci agli anni bui dei manicomi e della psichiatria come strumento di repressione. […]
Chiudere gli opg significa fare buona assistenza nel territorio per la salute mentale, come dice
la Legge 180, e come è successo dove si è applicata. non strutture residenziali segreganti, dove
i farmaci sono l’unica risposta al bisogno di cura, o peggio: pratiche di contenzione meccanica
e farmacologica, e perfino elettroshock. […]” (Trieste, 25 settembre 2012, dal comunicato
13
276
Mariella Guzzoni
Agosto 1981: Edoardo Fraquelli dipinge… è di nuovo un artista. Un
quadro la settimana per l’amico sincero che lo va a trovare ogni giovedì. In novembre, per la mostra antologica a lui dedicata, Un’acerba
estate, Edoardo esce, i parenti si oppongono – “è pericoloso! Non bisogna farlo uscire di lì!”. Ma alla mostra ci sono tutti, vecchi conoscenti,
vecchi amici, il primario dell’ospedale. Edoardo rimane una notte a
dormire dal suo nuovo amico che gli ha portato tele e colori in corsia.
Ha, di nuovo, la certezza di esistere. Per l’arte.
Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia
in un ciclo geometrizzante, elementi ordinati prendono forma sulle
grandi campiture. Cerca la luce, la libertà dai grovigli: un centro, due
centri, qualche geometria silenziosa. Un silenzio strano, una pace inquieta. Questa seconda vita regalata all’arte durerà quattordici anni,
tante mostre, piccole e grandi tele, il calore di una famiglia che lo ospita ogni settimana, il giovedì – uno spazio d’affetto per lui, un armadietto dove custodisce gelosamente le sue poesie – un bravo infermiere
lo accompagnerà senza sosta. Prima di morire, riprende la tempera, di
nuovo la carta. Tre volte più grande. Tra i gialli e le terre c’è un vuoto
costante, in centro, velato di bianco. Pennellate trasparenti e distese,
quasi come per non far male alla carta. La velatura di un vuoto, un
vuoto Senza titolo.14
Si inaugura così una nuova stagione di pittura che riprende l’energia
dal colore. Il giallo di cadmio inonda le sue tele, i grovigli inestricabili
con i quali aveva interrotto il suo cammino riprendono a vivere sulla
tela, come se niente fosse successo – in mezzo. Ma ora sono frammenti, segmenti, detriti sparsi l’uno in fila all’altro, senza volto e senza
nome. Da quando riprende a dipingere non c’è un solo titolo. Il tempo
è sospeso, lo spazio senza nome. Qualche orizzonte azzurro compare
stampa per la Giornata di mobilitazione per la chiusura degli opg, Comitato Stop opg Friuli
Venezia Giulia).
277
Edoardo Fraquelli, Senza titolo, 1994, tempera su carta intelata, 70 × 100 cm.
14
La redazione di lettera e la comunità di alipsi hanno appreso con
grande e profondo dispiacere la notizia della scomparsa, dopo una
lunga malattia, di Eugenio Gaburri. Eugenio Gaburri è stato un amico di Jonas e uno dei primi docenti dell’irpa. La sua intelligenza e la
sua generosa disponibilità hanno colpito molti di noi. Il suo lavoro
come clinico e come teorico ha costituito e costituisce nella storia
della psicoanalisi in Italia e anche nella nostra comunità, soprattutto
per quanto riguarda il campo gruppale, un riferimento destinato a
restare nel tempo. Ululare coi lupi, scritto con la sua compagna Laura
Ambrosiano, è un testo che spicca tra gli altri per originalità e poesia.
A Laura e alla presenza viva di Eugenio va il ricordo della Associazione Lacaniana Italiana di Psicoanalisi
Lettera
rivista di clinica e cultura psicoanalitica
1.2011
I legami e l’inconscio
2.2012
Psicoanalisi e legge
Nella collana “lacaniana”:
Pierre Bruno, Marie-Jean Sauret
Ego e io
prefazione di Massimo Recalcati
Pierre Bruno
Antonin Artaud. Realtà e poesia
prefazione e cura di Alberto Russo
Eugénie Lemoine-Luccioni
Il taglio femminile. Saggio psicoanalitico sul narcisismo
a cura di Ombretta Prandini
postfazione di Annarosa Buttarelli
Il reale del capitalismo
a cura di Alex Pagliardini
contributi di Massimo Recalcati, Alex Pagliardini,
Laura Bazzicalupo, Davide Acampora, Massimo Adinolfi,
Marco Gatto, Antonio Lucci, Sergio Benvenuto,
Luciano De Fiore, Pietro Barcellona, Rocco Ronchi
Elsa Coriat
Puoi perdermi? La psicoanalisi nella clinica dei piccoli bambini con grandi problemi
a cura di Maria Teresa Rodríguez
Françoise Dolto
I Vangeli alla luce della psicoanalisi. La liberazione del desiderio
Dialoghi con Gérard Sévérin
Nella collana “Punctum”:
Daniela Barcella
Sintomi, strappi, anacronismi. Il potere delle immagini secondo Georges Didi-Huberman
postfazione di Fulvio Carmagnola
Mariella Guzzoni
L’infinito specchio. Il problema della firma e dell’autoritratto in Vincent Van Gogh
prefazione di Massimo Recalcati
2.2010 Annali del dipartimento clinico “G. Lemoine”
irpa – Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata
Follia, psicosi e delirio
a cura di Franco Lolli
contributi di Franco Lolli, Massimo Recalcati,
Mario Rossi Monti, Bruno Moroncini, Antonello Correale,
Laure Thibaudeau
3.2011 Annali del dipartimento clinico “G. Lemoine”
irpa – Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata
L’altro sesso
a cura di Anna Zanon
contributi di Anna Zanon, Silvia Vegetti Finzi,
Massimo Recalcati, Isabelle Morin, Rosella Prezzo
Jean-Claude Maleval, Mariela Castrillejo
4.2012 Annali del dipartimento clinico “G. Lemoine”
irpa – Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata
Il padre
a cura di Francesco Giglio
contributi di Francesco Giglio, Massimo Recalcati,
Roberto Esposito, Maurizio Balsamo, Elsa Coriat,
Piere Bruno
Le informazioni sulle pubblicazioni di et al./edizioni
si trovano all’indirizzo www.etal-edizioni.it