Lettera – Psicoanalisi e contemporaneità
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Lettera – Psicoanalisi e contemporaneità
Lettera rivista di clinica e cultura psicoanalitica Lettera rivista di clinica e cultura psicoanalitica n. 3 – 2013 Joyce Sinthomo, arte, follia Lettera Sommario rivista di clinica e cultura psicoanalitica comitato scientifico Laura Bazzicalupo (Università di Salerno), Giovanni Bottiroli (Università di Bergamo), Pierre Bruno (APJL – Parigi), Fulvio Carmagnola (Università di Milano-Bicocca), Roberto Esposito (SUM – Sede di Napoli), Simona Forti (Università del Piemonte Orientale), Costantino Gilardi (Association Lacanienne Internationale – Torino), Patrick Landman (Espace Analytique – Paris), Paola Mieli (Après-Coup Psychoanalytic Association – New York), Isabelle Morin (APJL – Bordeaux), Michel Plon (CNRS – Paris), Gérard Pommier (Espace Analytique – Università di Strasburgo), Massimo Recalcati (Associazione Lacaniana Italiana – Milano, Università di Pavia), Rocco Ronchi (Università dell’Aquila), Pieraldo Rovatti (Università di Trieste), Sarantis Thanopulos (Spi – Napoli), Silvia Vegetti Finzi (Università di Pavia). comitato di redazione Giovanni Mierolo (coordinatore), Arianna Marfisa Bellini, Battistina Bertino, Federico Chicchi, Giorgia Fracca, Monica Manzotti, Antonella Ramassotto, Giancarlo Ricci. segreteria di redazione Federico Chicchi (coordinatore), Arianna Marfisa Bellini, Daniele Benini, Doriana Di Dio, Micaela Riboldi, Claudia Rubini. traduzioni Costanza Costa, Giorgia Fracca, Anna Zanon. La redazione della rivista ha sede in via Irnerio 16 – 40126 Bologna Tel. 051 0452417 [email protected] www.alidipsicoanalisi.it/rivista-lettera Tutti i diritti riservati © 2013 et al. S.r.l. via Aristide de Togni 7 – 20123 Milano Prima edizione: febbario 2013 ISBN 978-88-6463-094-6 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei titolari dei diritti e dell’editore. Progetto grafico della copertina di Davide Fornari In copertina: Edoardo Fraquelli, Senza titolo, 1965 tempera su carta intelata (particolare), 21 × 32 cm, collezione privata www.etal-edizioni.it 1 Editoriale 7 monografia 9 Joyce Glossografo Gérard Pommier 17 A monte del sogno Pierre Bruno 27 Il sinthomo cancella la differenza tra nevrosi e psicosi? Patrick Landman 32 Telemachia Massimo Recalcati 51 Sintomo, sinthome e clinamen: Joyce e la questione del determinismo in psicoanalisi Silvia Lippi 59 Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce Florence Briolais e Michel Mesclier 77 Parole imposte Bibiana Morales 87 “Non serviam.” Tirannia del linguaggio e libertà degli stili Giovanni Bottiroli 101 Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura Muriel Drazien 111 Editoriale formazione dello psicoanalista 113 Farsi un nome o dare un nome? Mariela Castrillejo 122 Come neve al sole Natascia Ranieri 137 Il vomere del significante Anna Zanon 142 Riflessioni di un’analista in formazione sulla pratica del controllo Paola Gottardis 146 Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli Pino Pitasi 159 psicoanalisi implicata 161 Bisogna difendere la poesia Milo De Angelis e Maria Vittoria Lodovichi 169 Zanzotto, la psicoanalisi, il reale Alberto Russo 179 “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” Maria Barbuto 196 La compassione che il godimento domanda Angelo Villa 205 Le modificazioni corporee Lorenzo Vita 215 recensioni 265 edoardo fraquelli 267 Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia Mariella Guzzoni Quando Lacan aveva tre anni, James Joyce e Nora Barnacle arrivarono a Trieste. Era il 1904 e quello che videro era una città portuale dell’Impero austro-ungarico. Trieste era infatti l’unico porto che collegava l’entroterra dell’Impero Asburgico con il mare e quindi con il resto del mondo navigabile: era una città di vitale importanza per il commercio e la vita stessa dell’Impero. Inoltre la posizione strategica, di confine e di collegamento tra Occidente e Oriente, ha reso Trieste, da sempre, una città multietnica e mitteleuropea. Nel censimento del 1910 si contavano circa 120mila italiani, 57mila sloveni, 12mila austriaci, 2500 croati e 40mila persone di varie nazionalità: tra costoro le comunità maggiori erano quella serba e greca, come testimoniato dalle bellissime chiese appunto serbo-ortodossa e greco-ortodossa, frequentate anche da James Joyce, pur non particolarmente credente. Il castello di Miramare invece è il simbolo degli Asburgo. Fatto erigere dallo sfortunato Massimiliano per la sua Carlotta del Belgio, vi vissero solo pochi mesi e non era ancora completato quando egli dovette partire per il Messico, dove morì. Molti poeti e scrittori sono rimasti affascinati arrivando in treno o in nave a Trieste, come per esempio Ibsen, che scrive: “dopo aver passato i tenebrosi tunnel, improvvisamente il treno sboccò a Miramar, rivelando la bellezza, la luminosità di una dolcezza meravigliosa destinata a lasciare la sua impronta su tutta la mia successiva produzione…”. 2 lettera Ma tornando al nostro “Jacomo” – come Joyce amava farsi chiamare a Trieste – anche la sua produzione è stata intrisa dalla sua “triestinità”: a Trieste riscriverà infatti i Dubliners o Gente di Dublino, scriverà – oltre a poesie e alla raccolta Chamber Music – qualche capitolo di Stephen Hero – poi rinominato A Portrait of the Artist as a Young Man – e alcuni capitoli dell’Ulisse, i cui personaggi sono ampiamente ispirati a persone conosciute e frequentate nella città. A Trieste nascono i figli: Giorgio e Lucia, con cui discorre in triestino, il dialetto che vanta parole tedesche, slovene e francesi, a testimonianza del crogiolo di etnie e delle infinite commistioni che rappresentano i tratti caratteristici della triestinità e che ne impregnano tutti gli ambiti della vita, tra cui quello culinario. Allo scrittore, si sa, piacevano i giochi di parole e forse, chissà, la confusione di lingue che troviamo nel Finnegans Wake potrebbe trovare la sua origine nelle strade e nelle osterie della città da lui, peraltro, ampiamente frequentate. Quel che sappiamo di certo è che, negli anni del suo soggiorno triestino, Joyce aveva vissuto “[…] da spiantato e povero nei quartieri dei poveri, assiduo frequentatore delle bettole di San Giacomo e di Città vecchia[…]”.1 Anche il fratello Stanislaus verrà a Trieste, dove lavorerà – come il fratello maggiore – alla Berlitz School come insegnante d’inglese. Vi rimarrà anche quando James, Nora e i bambini se ne andranno a Parigi, tant’è che al cimitero anglicano di Trieste è possibile trovare la sua tomba. Tra le amicizie cittadine impossibile non nominare Ottocaro Weiss, fratello del più noto Edoardo Weiss, allievo di Freud che portò la psicoanalisi in Italia e fu analista di Umberto Saba e del cognato di Svevo. Proprio lo stesso Italo Svevo, al secolo Aron Hector Schmitz, fu allievo del “Professor Zois” – così il cognome dello scrittore irlandese veniva storpiato dai triestini – che lo spinse addirittura a continuare a scrivere, nonostante le critiche, e a pubblicare i suoi racconti. Esiste, inoltre, l’ipotesi che Joyce abbia attinto alla figura di Svevo per il suo Leopold Bloom: “hanno entrambi radici ungheresi, sono entrambi ebrei convertiti sposati a donne cattoliche, hanno entrambi una figlia ma soffrono per la mancanza del maschio e hanno entrambi vent’anni editoriale di differenza”2 (l’irlandese è il più giovane dei due), come accade per Stephen Hero e Leopold Bloom. Per quanto riguarda invece il suo Work in Progress, primo titolo del Finnegans Wake, Joyce scrive a Svevo: “[…] ho dato il nome della signora Schmitz alla protagonista del libro che sto scrivendo […]”.3 Livia Veneziani ‒ moglie di Italo Svevo – è quindi una tra le figure femminili ispiratrici per il personaggio di Anna Livia Plurabelle. Un anno esatto dopo l’attentato all’erede al trono Franz Ferdinand da parte di un nazionalista serbo e la conseguente dichiarazione di guerra da parte dell’Austria alla Serbia, primo atto che porta allo scoppio della Prima guerra mondiale, James Joyce, Nora e i bambini – cittadini britannici – partono da Trieste alla volta di Zurigo. Vi ritorneranno per qualche mese tra il 1919 e il 1920 ma l’atmosfera che troveranno sarà molto cambiata: “Trieste non è più il rigoglioso porto di un Impero, non ci sono più soldi nelle grandi banche triestine, l’attività commerciale è scemata del tutto”,4 non rappresentando Trieste per l’Italia ‒ che ha già porti della maestosità di Venezia, Napoli e Genova – un interesse vitale come era stato per la monarchia asburgica. Anni dopo James dirà agli amici parigini: “Mi è impossibile descrivervi l’atmosfera del vecchio impero asburgico. Era un po’ sgangherato ma affascinante e gaio”.5 Ho deciso di dare un taglio storico al mio intervento d’apertura del colloquio franco- italiano Joyce e l’arte: supplenza, sublimazione, sinthomo perché il parlessere ha bisogno di ri-conoscersi nella propria storia, di appropriarsi delle proprie origini o, come affermava Lacan riferendosi a Joyce, di “farsi un nome”. Amo la mia città anche se, come la maggior parte dei triestini, ho origini miste: il ramo della famiglia materna è milanese, quella paterna per metà triestina e per metà istriana. Ora però, senza le grandi finestre che si affacciano sul mare, è impossibile descrivere i tramonti che dal Carso colorano il mare di un arancio intenso e indorano le finestre delle case, piazza dell’Unità d’Italia, i palazzi storici, le chiese Ivi, p. 38. Ivi, p. 39. 4 Ivi, p. 53. 5 Ibidem. 2 3 1 Willy Piccini, Jacomo, un triestino anomalo, libro pubblicato dall’autore, Trieste 2012, p. 55. 3 4 lettera editoriale di tutte le religioni. A Trieste si può visitare la più grande sinagoga d’Europa, la chiesa serbo-ortodossa accanto a quella greco-ortodossa e a quella cattolica, in stile neoclassico. Non è inusuale trovare lo scrittore Claudio Magris seduto in uno dei caffè storici della città intento a scrivere, come faceva Joyce che – diceva – non poteva smettere di scrivere. Le ragazze, da sempre tra le più emancipate d’Italia, si danno appuntamento in uno di questi caffè per chiacchierare, ascoltare un concerto, assistere a una conferenza. Cultura e svago si mescolano come la bianca roccia carsica a strapiombo sul mare blu, calmo come un lago. Eppure ogni tanto c’è qualcosa che lo smuove, a tratti violentemente: l’impeto incontrollabile della bora. Questo vento gelido, che soffia fino a più di 150 km all’ora, che ti solleva e ti porta dove non vorresti, ha la potenza della pulsione e il fascino dell’inconscio. “Trieste dà ai suoi figli un’anima in tormento e per questo è amata…” scrive Scipio Slataper. Nei giorni del colloquio abbiamo avuto la fortuna di avere una mattinata di bora chiara, con il sole. Ero felice quella mattina perché i nostri ospiti, gli amici di tanti anni, i colleghi italiani, francesi, spagnoli e argentini hanno potuto vivere, come Joyce, da “veri triestini”. Francesca Perini Il ritratto di Trieste che Francesca Perini disegna con passione, indicandoci questa città come emblema di incontri significativi, ci riporta anche al senso che essa assume per la storia della psicoanalisi. È la città da cui entra la psicoanalisi in Italia, grazie a Edoardo Weiss, ma forse anche grazie a quella particolare intensità con cui si è posta la questione della scrittura ( Joyce, Saba, Svevo e tanti altri). Non a caso dunque alipsi ha voluto organizzare a Trieste il colloquio franco-italiano dedicato a Joyce e l’arte: supplenza, sublimazione, sinthomo, svoltosi in collaborazione con l’Association de psychanalise Jacques Lacan ed Espace analityque. “La poesia è il nostro migliore alleato”, diceva Freud, con un’intuizione che accostava la questione dell’arte alla pratica della scrittura, al fare poetico, al gesto inventivo. Se Freud ha avviato un’elaborazione relativa all’arte nella sua connessione con il lavoro dell’inconscio – per esempio nei testi di Dostoev- 5 skij, Goethe, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Shakespeare – è stato Jacques Lacan, nel corso di vari seminari, a riprendere la questione, e in modo radicale, soffermandosi su vari registri: quello relativo all’immagine, allo sguardo e alla visione, quello della scrittura e del testo, quello che avvicina la produzione artistica all’istanza del corpo pulsionale, quello della sublimazione e infine, nodo complesso, quello della struttura e del funzionamento del sintomo. Di sicuro il seminario in cui Lacan affronta in modo determinante la connessione tra l’arte e il sintomo è il Seminario xxiii, Le Sinthome (1975-1976) dedicato a Joyce. È constatabile che a partire da questo seminario la nozione di sintomo giunge a una svolta significativa, parimenti alla questione della sublimazione e al fare artistico da lui letto come supplenza. I vari interventi, di psicoanalisti e studiosi europei, raccolti nella parte monografica di questo numero della rivista, attraversano, ciascuno da varie angolature, la fecondità dell’apporto di Lacan in materia di arte e di scrittura. Sono questioni radicali in cui l’elaborazione giunge al cuore della soggettività, reinterrogando talvolta la clinica da un’angolatura inedita, al punto, per esempio, di riformulare la logica che lega la psicosi alla forclusione del Nome-del-Padre o soffermandosi intorno alle produzioni inedite e inaudite del sintomo. Joyce e la scrittura, dunque. Un accostamento, questo, che come una sorta di crocevia teorico che promuove incontri inattesi produce nella rivista riverberi che si propagano in alcuni articoli dedicati ad altri artisti come Camille Claudel, Milo De Angelis, Andrea Zanzotto. Giancarlo Ricci Monografia errata corrige La traduzione dal francese all’italiano del saggio di Pierre Bruno dal titolo “Padre e Nomi-del-Padre”, pubblicato nel numero 2 di lettera, è stata erroneamente attribuita a Sabine Callegari. La stessa è invece da attribuire a Elena Ferrante. Joyce Glossografo Gérard Pommier Edoardo Fraquelli Senza titolo, 1959 tempera su carta intelata 28 × 20 cm Non so parlare italiano ma, per fare onore a Joyce e aumentare la confusione delle lingue, oggi proverò a farlo. Nel suo ultimo libro Finnegans Wake, Joyce utilizza un procedimento letterario che evoca la glossolalia. In primo luogo ricorderò rapidamente che cos’è la glossolalia: in preda a forze spirituali, qualcuno si mette a parlare, a gridare in una lingua inesistente. Questo fenomeno “vocale” è probabilmente esistito in tutte le religioni, ma ha avuto massima estensione nel cristianesimo, prima ancora di essere classificato come una manifestazione psicotica in psichiatria e ancora prima di trovare rifugio nella letteratura poetica dove diventa glossografia. Nella cristianità essa si manifesta tra i primi discepoli di Gesù nel momento della Pentecoste: “e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi” (At 2, 4). Questo genere di urla fu considerato come la radice di tutte le lingue, manifestazione dell’universalità del messaggio di Cristo, in un linguaggio ecumenico. San Paolo scrive, nella Prima lettera ai Corinzi: le lingue? Esse taceranno. La scienza? Sarà abolita, e un po’ più avanti: “Chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini ma a Dio” (1Cor 14, 2). L’esegesi religiosa vede nel “parlare in lingue” della glossolalia una lingua antecedente la Torre di Babele, la lingua del Paradiso, ma più precisamente il segno postbabelico di una redenzione nel giorno di Pentecoste. È perché gli apostoli sapevano “parlare in lingue” che 10 Gérard Pommier potevano predicare al mondo intero. Si potrebbe dire che si tratta di un tentativo di ritornare all’orda primitiva, sotto la guida del padre, Urvater. Oppure, un tentativo di ricongiungere i genitori, separati tra l’enunciazione paterna e la lingua materna. Quindi evidentemente, sarebbe un errore considerare la glossolalia come un equivalente de lalangue nel senso di Lacan. Una definizione semplice che si potrebbe dare è la seguente: ecco qualcuno che, sotto l’influenza di Dio o di un grande Altro, è in preda a visioni, a rappresentazioni, insomma ad allucinazioni e improvvisamente si mette a urlare, a farneticare, a inventare una lingua propria, in una parola, resiste alla presa allucinatoria. Per farla breve, il padre parla al glossomane che si mette a parlare. Egli parla perché il padre gli parla e si mette a parlare più forte di lui. C’è questo rapporto reattivo originale nel momento della messa in moto della lingua: è la lingua di un’identificazione al padre primitivo. Si ha l’impressione che il glossolalico parli la lingua dell’Altro. Assolutamente no! Si tratta della sua lingua, attraverso un’identificazione al padre primitivo. In Finnegans Wake, Joyce cita il caso di una glossolalica, Hélène Smith, dicendo: “Miss Smith, onamatterpoetic”. Joyce colloca la poetica sotto il segno della matter, vale a dire non già della madre, anche se l’equivoco esiste, ma della materia (matter) delle parole (onoma). Il grido glossolalico è il punto di resistenza a ogni sorta di lingua materna. Resistere all’invasione allucinatoria materna corrisponde a un atto mistico di fede in Dio, nella misura in cui il padre si oppone alla madre. Si tratta di parlare la lingua del padre, piuttosto che di parlare una lalangue. San Paolo diceva che c’era una preghiera ineffabile e segreta rivolta a Dio, l’unico in grado di comprenderla. Il che è un modo di dire, dato che si tratta nel contempo dell’atto di sostituire il padre, il Pater, con il filioque, vale a dire ucciderlo. Dio non potrà mai sentire alcunché delle urla e delle preghiere che gli si rivolgono, perché ne morirebbe! C’è un’esperienza soggettiva di fondamento della parola, fondatrice di ogni significazione ulteriore. Poiché cosa si può fare una volta che abbiamo crocefisso il padre? Ci si mette a parlare per spiegarsi e giustificarsi. Il parricidio è il motore della parola. Questa glossolalia primitiva comporta quindi dall’inizio un’identificazione al padre primitivo. Una volta che l’abbiamo capito, ciò permette di risparmiarsi un mucchio di problemi: non c’è più bisogno di supplenza, di sinthomo, di nodi borromei, che non sono altro che illustrazioni. Joyce Glossografo 11 La resistenza si stabilisce prima per identificazione al padre, successivamente con l’eliminazione di quest’ultimo come nella Pentecoste. Lo Spirito Santo che scende sugli apostoli in fondo non è altro che il parricidio che unisce i figli al padre, che li unisce al padre per un’indissolubile colpevolezza: è la massima pater filioque, che ha opposto Roma a Costantinopoli. Non è quindi la lingua materna, ma il grido di godimento del padre. D’altronde, bisogna chiedersi se la lingua che si tratta di sovvertire sia così tanto materna! Essa è piuttosto femminile, e identificarsi al padre attraverso la glossolalia è un modo per evitare di essere la sua donna – il che è resistere a una forma della forclusione. Nel momento in cui la sodomia divina diventa una minaccia è il momento di cacciare un urlo, come farebbe qualsiasi donna in circostanze analoghe. Comunque sia, se questa lingua glossolalica è quella di Dio, essa è ecumenica, universale, ed è sorprendente che con l’estendersi dell’ateismo, a partire dal xix secolo, siano state inventate decine di nuove “lingue universali”, con lo stesso progetto universalista di sostituire la diversità babelica delle lingue. Faccio questo richiamo alla glossolalia per mostrare la sua storia, dalle religioni politeiste fino al monoteismo, dove è stata immediatamente valorizzata grazie all’iconoclastia, all’assenza d’immagine di Nome-del-Padre, che ha fatto che il padre, l’Urvater, si ritrovasse in ogni manifestazione vocale del figlio. Pater filioque. Dopo Cartesio, la glossolalia è caduta nel campo della psicopatologia e solo da un secolo ha preso una piega letteraria, introducendosi attraverso le novlangues nella psicopatologia, e di lì nella scrittura, mentre è un fenomeno totalmente differente: in primo luogo, la glossolalia è puramente vocale, è l’affermazione della presenza del soggetto nel suo rapportarsi a Dio che, come lui, è senza immagine. Orbene, la lettera è un’immagine! È ciò che San Paolo aveva ben notato dicendo che non si poteva profetizzare parlando in lingua. San Paolo ha contrapposto glossolalia e profezia, per quanto entrambe siano carismatiche. La profezia porta un messaggio mentre la glossolalia è l’espressione pura della presenza divina, senza essere mai destinata alla trascrizione. Non si può trasmettere l’urlo glossolalico, l’urlo di un assassino, pura presenza del soggetto animato dallo Spirito Santo, la Grazia secondo san Paolo, il solo che l’abbia detto così chiaramente: c’è l’assunzione di colpevolezza dell’assassino, redento dal suo atto di 12 Gérard Pommier peccatore. È in seguito la Felix culpa, la felicità della colpa di sant’Agostino, che Lutero ha saputo mettere a frutto, ma scaricando la colpa sui poveri, sugli indiani, i negri, i fumatori e i malati mentali classificati dal dsm. È a questo punto che arriva il tentativo poetico della glossografia, che consiste nello scrivere l’intrasmissibile, scrivere lo Spirito Santo, il gesto parricida, che è l’urlo fondatore dell’umanità, l’urlo dei fratelli dell’orda primitiva. Quindi, siamo là, per la prima volta nella storia dell’umanità, di fronte a dei tentativi glossografici disperati, illeggibili, intrasmissibili. È su questo sfondo che arriva Finnegans Wake che cerca di parlare del nostro wake, della nostra rinascita, di noi che affrontiamo l’ultimo giudizio della soggettività postmoderna. C’è un tentativo più o meno contemporaneo di quelli di Chlebnikov, di Tzara o di Artaud, puramente poetici, illeggibili, e quindi scanditi nell’esposizione in frasi grammaticalmente corrette. Joyce non procede come tutti questi poeti, ma gioca la stessa partita sullo sfondo di uno svolgimento romanzesco che riusciamo a comprendere, e su questo sfondo letterario orizzontale, le parole sono caricate, a intervalli più o meno ravvicinati, di esplosioni verticali che sono, propriamente parlando, glossografiche. Se vogliamo, è lo stesso processo della parola delirante, costruita, o quasi normale negli psicotici, con l’apparizione inattesa di neologismi, brusche ribellioni del soggetto contro la lingua Altra, la sua brusca identificazione soggettiva a una parola nuova, inventata da lui, parola che non è ancora mai stata pronunciata dagli albori dell’umanità, vale a dire, in un certo senso, una parola prebabelica. Nella parola di certi psicotici si sentono bene i momenti di cesura tra lo sviluppo di un delirio di spiegazione e giustificazione, e le brusche esplosioni allucinatorie che rilanciano il flusso redentore del delirio. Sto per suggerire che l’ultimo libro di James Joyce, con il suo sfondo narrativo, è una costruzione delirante. Bisognerà perciò distinguere nella letteratura ciò che proviene, da una parte, dal romanzo familiare, o più esattamente dal dispiegamento delle contraddizioni del fantasma, a rigore effettivamente nevrotico, e ciò che dall’altra parte proviene da un tentativo di spiegare, di giustificare l’esistenza del soggetto, di un soggetto condannato, minacciato di annientamento, sul punto di morire sotto il peso di un godimento che lo depersonalizza: è esattamente questo ciò che è all’opera in Finnegans Wake, nel quale il pretesto narrativo iniziale è la caduta mortale del muratore Joyce Glossografo 13 Tim Finnegan e la veglia funebre, the wake, che ne segue. Finnegans è al plurale: è la resurrezione plurale del soggetto nel molteplice, e a partire da questo un vero fuoco d’artificio attraverso le religioni, i miti, la storia d’Irlanda e quella mondiale, mediante processi analogici, suggestioni, spostamenti, amalgami. È tutta la storia dell’umanità che viene convocata per dare corpo a un soggetto in punto di morte e di resurrezione. È la storia nella quale ogni soggetto anonimo può sostenersi. In Finnegans, il soggetto cerca dappertutto ciò che può dargli consistenza, a dispetto del difetto del suo nome, e il suo scheletro più archetipico è quello delle tre iniziali H.C.E.: “Here comes everybody”. La sigla H.C.E. (acca-ci-e) s’incarna in mille personaggi Hugues Capet Early Fouler, Hugest Commercial Emperialist. H.C.E. è qualunque soggetto, a cominciare dal lettore, ma il più importante, che dimostra l’identificazione al padre primitivo, è che si tratta di Dio padre stesso, “Heavenly one with his constellatria and his emanations”. È il mistero dell’incarnazione: “qui cerca di godere ogni corpo”. “How comes even a body.” H.C.E. è il principio paterno che si ritrova in ciascuno, l’identificazione al padre primordiale se vogliamo: è l’Hecceité (accaci-eità) dell’irlandese Scoto Eriugena: il “io sono” Mishe Mishe. Mishe Mishe si può tradurre “sono colui che sono” in gaelico. Nel Finnegans troviamo numerose allusioni all’episodio del roveto ardente sul monte Sinai, dal quale Jehovah interpella Mosé: “Mosé, Mosé!” e quando Mosè gli chiede: “Qual è il tuo nome Jehovah?” egli risponde: “Io sono colui che sono”, istanza che viene ripresa fin dal prologo del Finnegans mediante quel Mishe Mishe. “Io sono colui che sono” è, dopotutto, un’approssimazione accettabile del soggetto dell’enunciazione. Ma ci sono altre polifonie! Tradotto in latino, risulta Ad Sum, la risposta di Mosè alla chiamata di Dio che può essere deformata in Finnegans in Amsterdam dove risuona come I am who I am e nello stesso tempo che Abraham “sono colui che sono” Mishe Mishe. Oyesesyoses. I am as I am, Hyam Hyam, tanti spostamenti ai quali si aggiunge una parodia del Cogito cartesiano. Il “je suis” è stato “cartesianizzato”: Cog it out, here goes a sum. Come consiglia uno dei personaggi, Shem, a suo fratello: “Sink deep or touch not the cartesian spring”, “Penser” think è ortografato come “sombrer” sink e Schaun risponderà a suo fratello: “Anarch, egoarch, hiresiarch, you habe reared your disunited Kingdom on the vacuum of your own most intensely doubtful soul”. Mishe Mishe. È la ragione per la quale H.C.E. mangia se stesso, mangia le sue stesse pa- 14 Gérard Pommier role, poiché è contemporaneamente bocca e orecchio. Noi non ci rendiamo conto, ma noi mangiamo le nostre proprie parole dalle nostre orecchie che le sentono. Mishe Mishe è spesso associato a Tauf-Tauf che significa in tedesco “il battesimo” e suggerisce anche la defecazione e la punteggiatura. Si vede che il soggetto senza nome H.C.E. entra facilmente nella spirale pulsionale. Mi fermo qui per quel che riguarda la posizione del soggetto, e ora voglio occuparmi della glossografia in questo libro, dove Joyce riesce, senza alterare la narrazione, a operare una sorta di missaggio localizzato di oltre sessanta lingue diverse, oltre alle parole rare, creando con questo missaggio una lingua propria, una lingua di fondo la cui prospettiva è la sua comprensione ecumenica universale. È vero che i termini differenti che servono a creare una nuova parola possono essere riferiti a due o più lingue senza per questo dire che si tratti di glossolalia. Eppure la glossolalia esiste nell’intersezione di queste diverse lingue, perché tale intersezione viene fomentata grazie alla sonorità: grazie a un urlo. All’intersezione del senso, c’è un unico suono. È un tentativo rarissimo in letteratura. Joyce potrebbe ispirarsi allo stile nuovo del Book of Kells, libro scritto tra il vii e il ix secolo, scandaloso per le sue allitterazioni poetiche, improntate all’ebreaico e al greco, molto oscuro ma che ha completamente rinnovato la letteratura. Il Book of Kells è anche inframmezzato di immagini, miniature e numerosi animali in mezzo alle lettere. È un processo di scrittura glossografica più ricco di risorse di quello di Finnegans ma che non ha la stessa ambizione di un’opera scritta per “un lettore ideale che patisce di un’insonnia ideale”. Si tratta di un’esperienza multimediale dove la lingua riflette le immagini delle miniature che, esse stesse, rilanciano le analogie linguistiche. Secondo Umberto Eco, la pagina di Book of Kells dove Joyce trova la più grande aspirazione è la Tenebrous Tunc Page (folio 124e). Joyce parla di una pagina dove “Every person, place and thing in the Chaosmos of Alle anyway connected with the globbydumped turkey was moving and changing every part of the time […] the words which follow may be taken in any order desired”. In qualsiasi ordine, in any order! È ancora la circolarità pulsionale che prevale, allo stesso modo in cui la fine del libro può raccordarsi al suo inizio. Qual è l’effetto prodotto dall’intersezione di lingue diverse, che isola il loro suono come un grido? Il lettore viene bruscamente lasciato cadere nei misteri della musicalità. Ogni lingua è straniera all’altra, xe- Joyce Glossografo 15 nolatica, ma esse si intersecano come nei giorni della Pentecoste, grazie a una rottura interna delle lingue impiegate. Quando voi leggete per esempio “Achtung! Pozor! Attenshune”, voi avete un misto di lingua tedesca, lingua slava e lingua francese. Joyce procede per disgiunzione e congiunzione delle radici linguistiche, egli chiarisce il suo metodo mentre lo applica nel Finnegans. Egli parla di “abnihilisation of the étym”, utilizza delle espressioni come “vociferagitant, viceverssounding et alldconfusalem” e conclude con “how comes every a body in our taylorised world to selve out thishis”. In realtà, basta utilizzare la sovrapposizione di soltanto due lingue, e non di migliaia, per ottenere un effetto di glossolalia, in tutti i casi per il lettore, e prima grâce à lui, ossia grazie a lui. Nel pensare al lettore e grazie al lettore, ed è in questo che consiste la specificità della glossografia, Joyce si forgia un nome proprio, un Nome-del-Padre. Il nome proprio di Joyce è l’urlo glossografato nel punto di annodamento delle due lingue. È la sua firma. In effetti, che cosa caratterizza un nome proprio? È ciò che è intraducibile in qualunque lingua. La lingua prebabelica, è inutile cercarla: è il nome proprio, universale, e i mistici o i poeti che sognano d’inventare una lingua universale cercano in realtà il fondamento del loro nome proprio. Ciò non è nuovo per quanto riguarda Joyce; vi ricorderete che Stephen Hero cerca di pensare il nome di Dio in tutte le lingue, e voi vedete la sua incredibile dimenticanza, che giustamente il Dio del monoteismo non ha alcun nome, e l’urlo glossolalico è quello del soggetto, che designa la sua scomparsa nel prendere il suo nome. In fondo, un nome proprio è un grido glossolalico intraducibile, prebabelico in questo senso, e Joyce prende il suo nome ogni volta che egli produce un effetto par glossographie (mediante la glossografia) nel suo lettore. Il risultato è un tentativo di trasformare tutta la lingua – o almeno tutta la sua opera – nel nome proprio, e di avere un nome tanto trasparente quanto quello di Dio, più grande di quello del suo padre edipico, dunque. Come scrive Saussure: “La questione dell’apparato vocale è secondaria nel problema del linguaggio”. È il contrario della glossolalia, che isola un’identificazione del soggetto dell’enunciazione, impossibile da scrivere. La glossografia non dovrebbe esistere, dal momento che essa toglie il suo contenuto alla glossolalia estraendone il suono. Si potrebbe dire che si tratta di un parricidio di secondo grado. La glossolalia certifica l’esistenza del soggetto che s’identifica al padre. L’atto 16 Gérard Pommier glossografico uccide questo Padre sulla carta. Quando il soggetto mistico si fa da parte lasciando parlare attraverso la sua bocca la parola divina, o quando l’Altro maiuscolo parla attraverso delle allucinazioni verbali, è un modo d’identificazione a Dio, o a questo Altro. Scrivere questo urlo, significa sopprimerlo una seconda volta, in contumacia. È il nome del “sintomo”, o della “supplenza”, se ci tenete. A monte del sogno Pierre Bruno (Traduzione di Patrizia Pecar e di Maria Teresa Rodríguez) Inizierò ponendo una questione: cosa possiamo imparare da Finnegans Wake, tale da incidere sul sapere analitico riguardo al sogno? Questo romanzo, Finnegans Wake, ci porta a ripensare la Traumdeutung di Freud? Per tagliare corto con la suspense, risponderò di sì, questo “sì” che è anche l’ultima parola dell’Ulisse. le due lingue di freud Ci sono nella Traumdeutung due versanti: il primo concerne l’interpretazione (Deutung), il secondo concerne il lavoro (Arbeit) del sogno. In prima istanza, per Freud si tratta di provare che il sogno ha un senso (Sinn), cosa che non è certo una tesi inedita. Poi, ed è questa la scoperta a cui Freud dà il suo nome, che ogni sogno è il compimento di un desiderio (Einen Wunsch erfullt) che l’interpretazione dovrà portare alla luce. Questi due compiti (l’uno concernente il senso, l’altro il desiderio) sono molto diversi e possiamo dire che il secondo riesce molto più raramente del primo. Il primo procede dall’associazione dei pensieri (Gedanken) e costituisce un “tempo per comprendere”, mentre l’altro, la vera e propria interpretazione, è un “momento di concludere” nel quale io non penso ma, nel tempo reale di un dire, divengo il desiderio stesso. Nel desiderio trovo l’essere che sono, con questa riserva fondamentale: poiché c’è “un ombelico del sogno”, 18 pierre bruno l’essere che sono non è “io”. Questo “io” è, in definitiva, insondabile. Veniamo al secondo versante della Traumdeutung, costituito dal capitolo intitolato Il lavoro onirico. Questo capitolo studia il processo di formazione del sogno e concerne solo indirettamente l’interpretazione. Le componenti di questo processo sono diverse, dalla condensazione alla presa in conto della rappresentabilità. Tuttavia, queste componenti sono subordinate a uno stesso obiettivo che caratterizza il lavoro del sogno, e che Freud enuncia così nella prefazione al capitolo: Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione. Noti questi, i pensieri del sogno ci riescono senz’altro comprensibili. Il contenuto del sogno è dato per così dire in una scrittura geroglifica in cui i segni vanno tradotti uno per uno nella lingua dei pensieri del sogno.1 Commento a minima questo passaggio, nel quale due righe più in basso viene introdotto il significante “rebus” per denotare la scrittura in immagini del sogno. I pensieri onirici sono i pensieri latenti, ottenuti tramite le associazioni del sognatore partendo dal contenuto del sogno, detto manifesto. Sottolineo di passaggio che Freud si esprime come se la messa in evidenza dei pensieri latenti coincidesse automaticamente con quella del desiderio realizzato dal sogno, coincidenza che, come ho già osservato, non va da sé nella pratica. Osservo anche il modo in cui Freud usa il termine “lingua” per qualificare i pensieri latenti o pensieri del sogno e come usa il termine “transfert” per definire la trasformazione di questi pensieri in sogno manifesto, e inversamente, la scoperta di questi pensieri partendo dagli elementi in immagini del sogno. D’altronde, per confermare che, in questo lavoro del sogno, si tratta precisamente del passaggio da una lingua all’altra, usa il termine di traduzione. Notiamo malgrado tutto, se leggo bene Freud perché la frase è ambigua, che parla dell’“originale” per designare il sogno e 1 Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni (1899), in Id., Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. iii, p. 257. a monte del sogno 19 la sua “traduzione” in pensieri latenti, cosa che ristabilisce l’anteriorità del sogno manifesto sui pensieri latenti. dal godimento all’inconscio Veniamo ora alla posizione di Lacan sul sogno. Mi sembra incontestabile che tra Lacan e Freud ci sia uno scarto. Prenderò ciò che Lacan dice del sogno in Radiofonia, nel 1971. Qualcuno, non so chi, ha rimproverato a Lacan di aver tradotto, nei suoi Scritti, es entstellt con “esso sposta”. In realtà, Die Entstellung significa deformazione, questa comunque è considerata la traduzione lessicalmente corretta, mentre lo spostamento è Verschiebung. Per rispondere a questa obiezione, dopo aver fatto osservare che Freud convalida questa definizione dell’Entstellung come spostamento, nel suo Mosè, dice: “Far passare il godimento all’inconscio, cioè alla contabilità, è un dannato spostamento”.2 Questa frase non è passata inosservata: concerne direttamente il sogno, e possiamo prendere subito la misura dello scarto tra ciò che la frase dice e ciò che dice Freud. Egli parla di due lingue, e anche se considera il sogno come l’originale, lascia aperta un’interpretazione che contraddirebbe la sua teoria lasciando pensare che la lingua dei pensieri latenti, alla quale si arriva tramite le associazioni, potrebbe sostenere il messaggio originale di cui i singoli sogni sarebbero delle applicazioni. Ma la lettura di Lacan taglia corto: lo spostamento (Enstellung), ciò che Freud chiama transfert, non avviene da una lingua all’altra, ma dal godimento (che è tutto tranne che una lingua) all’inconscio. In altre parole, quando le associazioni prodotte da un sognatore arrivano a questi pensieri latenti, questo non è il rovescio o il contrario del lavoro del sogno. Senza questo lavoro non potrebbe esserci la ricerca dei pensieri latenti. la rivoluzione joyciana Ho scelto di non iniziare da una o più definizioni del godimento in Lacan, ma di procedere con l’esempio di spostamento in Joyce, specialmente in Finnegans Wake, cercando di trarne un qualche insegna Jacques Lacan, Radiofonia, Televisione, Einaudi, Torino 1982, p. 22. 2 20 pierre bruno mento. “Rivoluzione” ho detto: in effetti, in questo romanzo la finzione distrugge la rappresentazione. Metto due coni di segnalazione prima di entrare in questo cantiere. Da una parte, come tutti sanno, Joyce chiama questo romanzo work, lavoro. Non arriva a dire come Freud, di cui tra l’altro diffidava, dreamwork, ma avrebbe potuto. Secondo punto: lo scrittore francese Louis-Ferdinand Céline ha scritto un romanzo, Pantomima per un’altra volta, di cui è stata ritrovata e pubblicata la prima versione. Da questa versione a quella definitiva c’è un cambiamento considerevole. Di fatto, nella versione definitiva c’è tutto lo stile céliniano, quei famosi punti di sospensione che conferiscono un brio danzato a questo racconto, dal contenuto di per sé cupo, mentre nella prima versione parrebbe il romanzo di uno scrittore qualunque. Ma niente a che vedere con l’impresa di Joyce. Finnegans Wake, anche se lo stile è stato modificato e rimodificato mille e una volta, rende impensabile una prima versione che sarebbe stata scritta nell’inglese di un uomo qualunque. Per Joyce si tratta, scrivendo questo libro, d’imitare il lavoro del sogno, nel senso in cui si parla dell’imitazione di Cristo, e di far passare in questo modo il godimento all’inconscio. Oltre al romanzo di Joyce, certamente prioritario, mi sono prevalentemente riferito ai lavori di Richard Ellmann, incomparabile biografo di Joyce, all’ottimo articolo di Jean-Jacques Mayoux nell’Encyclopædia Universalis, ai lavori di Jacques Aubert e agli scambi con lui. Riassumo alcuni dati: Finnegan’s Wake, con una “s” apostrofata, è una vecchia ballata irlandese che racconta la storia di un muratore che cade da una scala, passa per morto e si trova rianimato o risuscitato dall’odore del whisky. Senza l’apostrofo si tratta dunque di raccontare la storia di tutti i Finnegans e della loro veglia funebre (Wake), del loro risveglio e anche della loro scia, questi sono i tre significati del termine inglese. Più precisamente, il libro è concepito come il sogno del vecchio Finn, disteso nella morte lungo il fiume Liffey, mentre ascolta la storia dell’Irlanda e del mondo. Dunque sogno di un morto, è il primo indicatore. Direi che ci vuole la morte del sognatore, ovvero il suo passaggio all’altra scena del sonno, perché si verifichi lo spostamento J/Ics (godimento/inconscio). Ma mi correggo subito: questo romanzo non è un sogno, ma il racconto di un sogno che non è stato sognato tale e quale. Dobbiamo rammentarci che, a eccezione di quando sogniamo, e siamo nel sogno in tempo reale, non abbiamo mai a che fare se non con un racconto. Diciamo che la messa in racconto, nel a monte del sogno 21 caso di Joyce, è l’equivalente della messa in rebus, in immagini, fatta dal lavoro del sogno, ma è una costruzione dell’arte. Oppure: non è né un vero sogno, né un vero racconto del sogno, ma il racconto di un non-sogno che avrebbe le caratteristiche di un sogno, se mi consentite questa formula lambiccata ma giusta.3 In questo racconto, il personaggio centrale è il Signor qualunque, che compare nel romanzo sotto l’acronimo H.C.E., inizialmente sviluppato nella formula Here Comes Everybody, che Gérard Pommier aveva messo a esergo del primo numero del “Courrier de la Cause Freudienne”. In tutto il romanzo, l’acronimo resta invariato ma utilizzato decine di volte in modo differente e sempre molto immaginoso. Questo H.C.E. è incarnato da Earwicker, la cui moglie si chiama Anna, e i figli Shem, Schaun (James Joyce stesso) e Isabelle. Allo stesso tempo Earwicker è un gigante primordiale, una montagna, e sua moglie Anna, un fiume, il famoso fiume Liffey. Queste due annotazioni sono sufficienti ad accreditare il “doppio-piano”, espressione che Joyce aveva chiesto di utilizzare a T.S. Eliot (lettera a Weaver)4 per caratterizzare il suo romanzo. Così come nei dodici capitoli dell’Ulisse ci sono in secondo piano i dodici canti dell’Odissea, anche in Finnegans Wake c’è una sorta di metamorfosi immanente tra gli esseri umani, che all’inizio sono i genitori di Joyce, gli esseri storici, e gli esseri naturali. Quindi tri-piano, tre dimensioni, più che due. Per non lesinare, parlerò anche di pluridimensionalità, la cui conseguenza sta nell’abolire la polarità tra il linguaggio sulla cosa e la cosa stessa. Più esattamente, il linguaggio diventa una cosa fra le altre, che sarebbe da apprezzare per il suo colore, la sua sonorità e altre qualità sensibili e non più per la sua capacità di significare. È un secondo indicatore, che omologa il work di Joyce al lavoro del sogno. Qui Joyce è esplicito: in una lettera a Edmond Jaloux, un autore che neanche i francesi conoscono più, scrive che il romanzo si sarebbe adattato “all’estetica del sogno, dove le forme si prolungano e si moltiplicano, dove le visioni passano dal volgare all’apocalittico, dove il cervello usa le radici di vocaboli per crearne di nuovi che siano capaci di dare un nome ai suoi fanta3 Potremmo dire che il sogno ha luogo in un’altra scena (l’Altra scena) a sipario chiuso, e che al risveglio, colui che ha sognato si ritrova dall’altra parte del sipario. Il sogno, in quanto sognato, è per principio inaccessibile dopo il risveglio e il racconto che se ne fa, è già parte dell’interpretazione. 4 Richard Ellmann, James Joyce (1962), Feltrinelli, Milano 1964, p. 606. 22 pierre bruno smi, alle sue allegorie, alle sue allusioni”.5 Questo secondo indicatore J/Ics si definisce dunque non per l’abolizione, ma per la sospensione della capacità di significazione del linguaggio. Joyce esplicita senza equivoci qual è la sua posizione a questo proposito: “Je suis au bout de l’anglais”6 [in francese nel testo, N.d.R.] scrive a Sutter, e Samuel Beckett riporta un’altra dichiarazione di Joyce: “Ho messo il linguaggio a dormire”.7 Ultima frase che merita di essere citata: “Quando viene il mattino, naturalmente ogni cosa diviene di nuovo chiara… Io voglio restituir loro la loro lingua inglese”.8 Possiamo menzionare un terzo indicatore: l’addormentamento della capacità di significazione del linguaggio va di pari passo con l’innalzamento della lettera, ovvero del segno che prende valore d’ideogramma. “La folla ha bisogno di un rebus”9 scrive in Finnegans Wake. L’uso dell’acronimo H.C.E., già menzionato, va nello stesso senso. In una lettera del 16 aprile 1928, scrive (a Miss Weaver): “Sto facendo una macchina con una sola ruota. Niente raggi, naturalmente. La ruota è un quadrato perfetto”. Cosa che Richard Ellmann commenta così: “Voleva dire che l’opera finiva dove cominciava, come una ruota; che aveva quattro libri o parti, come un quadrato ha quattro lati”. Non abbiamo a che fare con una metafora, ma con la descrizione di un disegno supposto formare ciò che potremmo qualificare come l’ideogramma del libro. E qualche giorno dopo scrive a Miss Weaver: “Il titolo è semplicissimo, e più banale di così non potrebbe essere. […] si accorda col JJ e S e AGS & Company, e dovrebbe risultare assai chiaro dal segno […]”,10 questo segno è una E maiuscola stesa sul dorso [N.d.A.]. Queste considerazioni preliminari sono sufficienti per capire che ne è del luogo da cui Joyce intende scrivere: è il luogo del “démiurgo”. Citazione: “N’est-ce pas? Cet bien ainsi que doit pratiquer le démiurge pour fabriquer notre beau mond”11 [in francese nel testo, N.d.R.] (lettera allo scrittore svizzero Jacques Mercanton). Questo luogo è omologo Ivi, p. 626. Ivi, p. 625. 7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 James Joyce, Finnegans Wake (1939), Mondadori, Milano 2011, libro ii, iii-iv. 10 Richard Ellmann, op. cit., p. 680. 11 Ivi, p. 799. 5 6 a monte del sogno 23 a quello da cui procede il sogno come lavoratore, ma rimane insoluta la questione di sapere come, tramite questo lavoro, il godimento passi all’inconscio. Ellmann segnala la prevalenza nella scrittura di Joyce del tropo della paranomasia (assemblarsi-assomigliarsi, congiunturacongettura). Anche sineddoche e metonimia sono largamente usate, ma bisogna sottolineare che questi tre tropi non oltrepassano la barra della significazione, nella misura in cui restano schiacciati sul piano della contiguità significante, anche se diverse lingue naturali concorrono a questa treccia significante. Allora, una volta che il linguaggio è stato rifiutato come rappresentazione e la significazione (Bedeutung) neutralizzata, fino a produrre un testo che flirta con l’illeggibile, come rendere ancora possibile un effetto di senso (Sinn)? Sicuramente Joyce gode a scrivere in questo modo, ma possiamo dire che questo godimento sia svalorizzato dagli effetti di senso? In effetti è necessario stabilire che, se abbiamo a che fare con l’inconscio, abbiamo a che fare con dell’interpretabile e non solo con una concatenazione maniacale impermeabile al senso, anche se sappiamo che l’inconscio, seppure interpretato, si conferma essere reale – per riprendere l’espressione di Lacan che riformula così l’ombelico del sogno. Eccoci dunque di fronte a un’altra questione. Potrei formularla in modo stupidamente provocatorio: si può interpretare Finnegans Wake? Il che equivale alla domanda: c’è un senso in questo sogno-romanzo? Mi auguro, per non incoraggiare la stupidità, che nessuno si metta a tradurre Joyce in inglese corrente. Tuttavia, è fuori luogo osservare che, da un certo punto di vista, Finnegans Wake sia il romanzo più autobiografico mai scritto, forse per dimostrare l’inanità di ogni pretesa a realizzare un’autobiografia, ovvero una cura psicoanalitica che sarebbe trasparente a se stessa? un godimento svalorizzato? Joyce non nasconde che H.C. Earwicker, il personaggio centrale del romanzo, sia una rappresentazione di suo padre. Nel diventare Here Comes Everybody, poi l’acronimo H.C.E. sviluppato in un centinaio di nomi diversi, ci si può domandare se Joyce non supplisca a una metafora paterna assente con una metonimia senza fine, dopo aver reso suo padre anonimo. Conosciamo la tesi finale di Lacan: l’ego di 24 pierre bruno Joyce supplisce al Nome-del-Padre. Ma non andiamo troppo veloci e diciamo piuttosto che c’è una molteplicità di nomi e che questa profusione di nomi che non si ferma su nessuno è ciò che ci fa supporre l’assenza di una metafora paterna. Bisogna ancora sottolineare che la metafora paterna, pur legando il desiderio e la legge, comporta un inganno, quello che ci sarebbe un nome che converrebbe al padre. Il fantasma rinchiude il nevrotico in questo inganno e Joyce è esente da questo imprigionamento da cui un soggetto esce solo tramite la bestemmia. Bisogna quindi concludere che questo romanzo è un materiale psichiatrico utile per studiare la mania? Per rispondere positivamente, bisognerebbe ammettere che gli psichiatri non leggono un romanzo fino in fondo, perché nell’ultima pagina di Finnegans Wake troviamo un appello al padre e un appello del padre. Cito queste frasi commoventi: “Sì. Portami con te papà [taddy] come facevi alla fiera dei giochi. / … Padre chiama. Arrivo, padre” (“Far calls. Coming, far!”).12 Questo appello reciproco coincide con la resurrezione di Finn. Il sogno, o la veglia funebre, finiscono con il risveglio del padre. Questa emergenza finale di un senso è d’altronde confermata almeno in due modi. Ellmann, sempre lui, cita un’affermazione di Joyce concernente l’ultima parola del suo libro: “Cette fois, j’ai trouvé le mot le plus glissant, le moins accentuè, le plus faible de la langue anglaise, un mot qui n’est même pas un mot, qui sonne à peine entre les dents, un souffle, un rien, l’article the”13 [in francese nel testo, N.d.R.]. Possiamo qualificare meglio l’impresa di Joyce: trovare il punto di svanimento del linguaggio, dal quale retroattivamente sorge un senso, in una contingenza che attesta la condizione dell’essere umano. Raddoppiamo questa prova con un’osservazione che contraddice l’idea di un ritorno maniacale perpetuo: la fine del romanzo non continua nell’inizio del romanzo. Tra la fine e l’inizio non c’è continuità, materia circolare, ma c’è il bianco del linguaggio, l’indice del silenzio senza il quale nessuna significazione produce un effetto di senso. Appena dopo queste parole si legge: “Finn again” (“Finn è di nuovo qui”) che evoca certamente l’equivoco con Finnegan. 13 Richard Ellmann, op. cit., p. 804. 12 a monte del sogno 25 passaggio-limite Lacan, nel suo seminario Il sinthomo, riporta una frase di Joyce: “la coscienza increata della sua razza”.14 Effettivamente è una frase decisiva perché pone un passaggio al limite al di là di un ordinale per definizione senza fine. Così per ciascuno c’è una genealogia, ma a voler esaurire questa genealogia risalendo di antenato in antenato, non si fa che avvicinarsi, in un asintoto, sincronicamente e diacronicamente, a un padre originario o a una dea bianca illusori. “La coscienza increata della sua razza” rompe con il fantasma di un essere generazionale da cui potersi dedurre. Abbiamo un altro passaggio-limite: l’epifania, che Joyce in Stephen l’eroe definisce “il momento in cui la realtà della cosa vi invade come una rivelazione”. Con l’epifania si tratta della manifestazione di una presenza che rende caduco il problema dell’adeguamento della cosa alla sua rappresentazione, giacché la cosa non è rappresentata, ma presentata. Il sogno in questo senso è un’epifania. Ci ritroviamo al di là e al di fuori della questione posta dal principio di realtà. Senza questi due passaggi limite nessun sogno è pensabile. Il linguaggio, in questa prospettiva, non è parlato, parla. O ancora, come dice Samuel Beckett, “la lingua non è ‘a proposito di’ qualche cosa, / … / è questa cosa stessa”.15 sogno e risveglio Per riprendere la mia questione iniziale, quali sono le conseguenze concernenti il sogno che ci possono essere utili? Finnegans Wake è un racconto onirico artificiale, che comporta per Joyce la sua interpretazione. Per coloro che conoscono i due articoli di Lacan su Joyce, non sorprenderà questa formula. L’ego, ovvero il sinthomo, è l’artefice di questo risultato. L’ego non è né l’io, né il soggetto, anzi compare là dove nessun soggetto può dire il vero sul vero. Quanto all’interpretazione, essa non è per niente un metasogno. È un dire fittizio che estrae Jacques Lacan, Il seminario. Libro 2006, p. 23. 15 Citato da Jean-Jacques Mayoux. 14 xxiii. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 26 pierre bruno un senso reale e la cui articolazione inizia con il racconto del sogno e finisce con l’estrazione del desiderio. Questo desiderio, in Joyce, è lo spazio infinito che separa l’articolo definito “The”, ultima parola del romanzo, dalla sua prima parola, “riverrum”, il corso del fiume, parola di cui ora possiamo ricordare che è il fiume Liffey, sua madre. Più lacaniano di così si muore, come dicono i bambini. In ogni caso, l’idea secondo cui la decifrazione del sogno consisterebbe nel ritrovare la lingua iniziale del sogno, deformata a causa della censura o di non so cosa, mi sembrerebbe definitivamente obsoleta. Non che la censura non operi, ma essa consiste nel fatto che, poiché il soggetto è rappresentato da un significante (S1) che il sapere può solo prelevare dall’Altro, cioè lì dove non è il soggetto, questo significante è originariamente rimosso. Dunque siamo già nel simbolico. Per contro, il lavoro del sogno produce del simbolico a partire da quella cosa che chiamiamo godimento che, pur emergendo al nostro ingresso nel linguaggio, non è linguaggio. È perché ne ha l’intuizione che Freud ricorre al termine resistenza (Widerstand = tenersi in piedi contro) e lo distingue dalla censura. Ma proseguire su questa strada mi porterebbe troppo lontano, verso l’enigma dell’origine del linguaggio. Infine, ho fissato ciò che ci insegna l’ultima parola di Finnegans Wake. È una lezione che possiamo applicare al sogno. Ogni sogno, salvo interruzioni provenienti dalla realtà, ha una specie di fine, che è un taglio, e che permette al sognatore di raccontare i suoi sogni. Ho fatto un sogno, due sogni, tre sogni. È proprio un passaggio alla contabilità. A volte il sognatore, senza interruzione esterna, si sveglia e impedisce al sogno di concludersi, oppure il sogno non finisce, fa fatica a trovare la sua conclusione. Conclusione, ovvero quel momento di eclissi del senso che permette al significante di fare lettera e di rendere eventualmente leggibile la metafora che lo costituisce e che compie il desiderio: James Joyce che si alza dal letto di sua madre. Il sinthomo cancella la differenza tra nevrosi e psicosi? Patrick Landman Partiremo da un’ipotesi che è in realtà una domanda: il “passaggio” dal sintomo al sinthomo è privo di conseguenze sulla differenza tra le strutture freudiane della nevrosi e della psicosi? Sembrerebbe in effetti che i criteri di differenziazione tra le due strutture freudiane siano complessi e che tra i teorici non vi sia, in proposito, unanimità. Alcuni per esempio danno la priorità alla natura e alla forza dell’io, altri affermano che la differenza risieda in un’operazione sul significante e sul fallo come rimozione, forclusione e negazione. Se seguiamo queste tesi, che non mancano di argomenti a sostegno, non è detto che la teoria del sinthomo cambi alcunché nella concezione delle strutture cliniche. Al contrario, se prendiamo un’altra via d’accesso alla questione, il cambiamento può diventare radicale. Qual è quest’altra via d’accesso? Ci focalizzeremo su nevrosi versus psicosi. le strutture freudiane si distinguono sulla questione del “padre” La differenza tra psicosi e nevrosi si gioca, tradizionalmente, sul rapporto con la realtà. Il soggetto nevrotico e il soggetto psicotico non hanno lo stesso rapporto con la realtà. Questo elemento di differenziazione è molto discutibile perché è molto difficile definire quel che 28 Patrick Landman s’intende con il termine realtà senza entrare in un dibattito filosofico senza fine e soprattutto senza via d’uscita circa la coscienza, l’empirismo, i sensi e le rappresentazioni. Tutti i dibattiti all’interno della psichiatria europea del xix e xx secolo non hanno mai permesso di giungere all’individuazione di un elemento di differenziazione che permettesse di vederci chiaro. Non possiamo determinare ciò che è la realtà oggettivamente, non possiamo definire una norma di rapporto con la realtà valida per tutti e per tutte le culture, e neppure all’interno di una stessa cultura. Ne concludiamo, malgrado gli apporti di Freud, che non è dal lato della realtà che conviene guardare per distinguere nevrosi e psicosi. Un’altra via classica per segnare la differenza tra nevrosi e psicosi è quella che si sofferma sull’esistenza o meno di idee deliranti. In assenza di idee deliranti si parla di nevrosi, in presenza di idee deliranti si parla di psicosi. La difficoltà si sposta allora dall’impossibilità di una definizione di realtà che sia valida per tutti all’impossibilità della definizione di idea delirante. Non esiste un criterio che permetta di distinguere in ogni circostanza un’idea delirante da un’idea non delirante. Per esempio predire il futuro osservando interiora di uccelli può apparire delirante oppure no a seconda dei casi. Come distinguere tra un’idea culturalmente sovrainvestita e un’idea delirante? Credere che la Torah sia stata data a Mosè direttamente da Dio stesso è un’idea delirante? Non si tratta piuttosto di un’idea sovrainvestita culturalmente? Ce ne sarebbe naturalmente anche per altre religioni. Allora bisogna convenire che non esistono idee deliranti in sé, ma soltanto soggetti deliranti. Si apre dunque un’altra prospettiva che corrisponde a una realtà clinica, cioè che esistono dei soggetti deliranti. Da cui la domanda: in cosa il soggetto delirante si differenzia dal soggetto non delirante? Freud e Lacan hanno risposto: sulla questione del padre. Esamineremo ora questa risposta. dal padre freudiano alla forclusione dell’annodamento Come si presenta la paternità per la teoria psicoanalitica? Riassumeremo velocemente: Freud ha tenuto in sospeso il problema fin dall’inizio del suo lavoro, ma l’asse centrale della sua ricerca è quello Il sinthomo cancella la differenza tra nevrosi e psicosi? 29 dell’Edipo; un soggetto segnato dall’Edipo è nevrotico, un soggetto indenne dall’Edipo è psicotico. L’Edipo è al contempo il padre della rivalità e della seduzione, dunque il padre che permette la costruzione del fantasma e il padre che castra il desiderio della madre, cioè il padre che permette al soggetto di rinunciare a essere il fallo per l’altro. Lacan ha insistito sul fatto che il padre dell’Edipo, per essere efficace, deve appoggiarsi su un’operazione di linguaggio, una metafora, la metafora paterna, quel famoso posto del padre nel discorso della madre, che ha dato luogo a confusioni e derive di cui si comincia solo ora a vedere le conseguenze, in particolare in relazione alla clinica dell’autismo. Nondimeno la tesi di Lacan per differenziare la nevrosi e la psicosi è la più euristica, si riassume in una frase: nella psicosi esiste una forclusione del Nome-del-Padre. Ne consegue la distinzione tra Nome-del-Padre al singolare e Nomi-del-Padre al plurale. In effetti, si può schematizzare la funzione paterna dividendola in tre termini: il padre che dà il nome, che è sempre morto perché il nome evoca la trasmissione inter e transgenerazionale; il padre della rivalità edipica, che è nella realtà della vita psichica perché partecipa alla costruzione del fantasma infine; il padre ideale, divinità o totem, che interviene nell’interazione con il sociale. Lacan ci insegna che ciò che conta nella struttura psichica del soggetto è la maniera in cui le tre funzioni, rappresentate da tre cerchi, sono annodate tra loro. Lacan ha proposto come modello il nodo borromeo: il Nome-del-Padre permette l’annodamento delle tre funzioni paterne, dei tre nomi del padre, con la conseguenza clinica e nosografica dell’opposizione strutturale tra la psicosi infantile e la psicosi adulta. In effetti, se il punto centrale risiede nell’annodamento, la psicosi infantile è un incidente dell’annodamento, mentre la psicosi nell’adulto è un incidente del disannodamento. Nella nevrosi il Nome-del-Padre tiene, l’annodamento dei tre cerchi si realizza grazie al quarto cerchio, che non è altro che il sintomo. Al contrario, nella psicosi esiste una forclusione del Nome-del-Padre; l’annodamento non è dato quindi dal sintomo ma, per esempio, dall’aiuto di un padre ideale o semplicemente di un ideale che permette un intreccio immaginario, non potendo tenere che a condizione che questo ideale sia inaccessibile per il soggetto (come vediamo per esempio nel Messia per gli ebrei, sempre atteso, ma mai raggiunto). Le religioni ci rivelano in modo proficuo elementi di comprensione della 30 Patrick Landman psicosi e non soltanto della nevrosi ossessiva. Questo posto particolare del padre ideale rende difficile la costruzione del fantasma. Il nevrotico può destabilizzarsi se realizza il suo fantasma, se agisce troppo rapidamente il suo fantasma, perché risente di un senso di colpa edipico, mentre lo psicotico sarà destabilizzato se realizza il suo ideale, perché in quel caso incontrerebbe “un padre” dal lato del disannodamento. dal sintomo al sinthomo, conseguenze su nevrosi e psicosi Il sintomo è una scrittura letterale e non solamente un enigma significante; è suscettibile di interpretazione e di decifrazione. Il sintomo è godimento, è un’incisione del reale sul simbolico; sfugge al simbolico, ha una parte fuori senso, da cui l’idea di Lacan di ribattezzarlo sinthomo, affinché non sia inglobato dal simbolico e dalla sua componente principale, “il Padre”. Il padre, o più precisamente l’amore del padre che porta la legge, non è che la sua funzione di soggettivazione, talvolta confusa con una funzione di assoggettamento, poiché la dominazione maschile sinonimo di assoggettamento non ha più alcuna legittimità nelle nostre società occidentali. Questa parte di reale che comporta il sintomo non può essere trattata nella sua totalità dal gioco del simbolico, dei significanti, dell’inconscio strutturato come un linguaggio; sembra che non sia possibile venire a capo del godimento contenuto nel sintomo attraverso i significanti. Ne derivano diverse conseguenze: in primo luogo la fine dell’analisi può essere concepita come identificazione al sintomo, nel senso di fissare la dimensione dell’essere che è stata svuotata della sua sostanza dalla cura, poiché l’identificazione è fissazione. Questa identificazione è paradossale, ma è il sintomo di fine analisi ciò a cui il soggetto si identifica, sintomo che è ben diverso da quello che l’ha fatto entrare in analisi; l’entrata è diversa dall’uscita. Il sintomo è quanto di più particolare ha ciascun soggetto, è il suo rapporto con il mondo. “Io sono il mio sintomo.” L’identificazione è in rapporto con l’Altro da cui si prende in prestito un tratto, e con l’universale; il sintomo è in rapporto con il particolare. Si concepisce allora questa identificazione al sintomo come un modo di far fronte al reale del sintomo, e non come un ridare consistenza all’Altro come nel caso dell’identificazione all’analista che alcuni promuovono. Il sinthomo cancella la differenza tra nevrosi e psicosi? 31 D’altra parte il soggetto a fine analisi deve creare il suo sinthomo. Il sintomo è legato al padre, all’amore del padre, all’amore eterno per il padre, dice Lacan, e il padre è sintomo, nel sintomo c’è la nozione di caduta, caduta sintomatica nel reale. Con il sinthomo il soggetto fa a meno del padre per fare tenere il nodo, è l’ateismo di fine analisi; il sinthomo è una nominazione, una creazione firmata, e questo sinthomo si può ritrovare alla fine delle analisi dei nevrotici come degli psicotici; per i nevrotici il sinthomo sarà più dal lato dell’atto di nominazione attraverso il sinthomo che si sostituisce alla nominazione immaginaria che rappresenta l’inibizione che accompagna il sintomo; per gli psicotici dal lato della sublimazione, il che ci dice dell’importanza dell’arte alla fine dell’analisi degli psicotici. Il sinthomo non cancella la differenza tra i sessi: c’è il sinthomo lui e il sinthomo lei, la donna allora non è più il sintomo dell’uomo costretta a essere bella e a tacere per evitare di pronunciare delle parole di verità che impediscano all’uomo nevrotico di godere del suo inconscio: “sii bella e parlami” sostituisce il famoso “sii bella e taci”. Alla nostra interrogazione iniziale possiamo rispondere: sì, queste due operazioni, identificazione al sintomo da una parte, e creazione del sinthomo dall’altra, cancellano la differenza tra nevrosi e psicosi. Il soggetto a fine analisi non è né psicotico né nevrotico, si suppone che non goda più del suo inconscio, è disabbonato dall’inconscio. Telemachia Telemachia Massimo Recalcati le tesi di lacan su joyce La figura di James Joyce costituisce l’ultimo grande capitolo della meditazione di Lacan sul tema del padre.1 Che cosa Lacan cerca e trova nell’autore di Ulisse e di Finnegans Wake? Cerca e trova una soluzione del problema dell’eredità e della filiazione – che già nel Seminario v aveva collocato al centro della questione paterna – che non dipende più dalla centralità simbolica del Nome-del-Padre. In questo senso il seminario dedicato a Joyce ricupera e si aggancia idealmente alla lezione del 20 novembre del 1963 dedicata ai Nomi-del-Padre trovando una risposta alla problematica che in quella lezione veniva spalancata: cos’è un padre che non sia rappresentante dell’Altro dell’Altro, cos’è un padre che non sia più il significante della Legge che struttura e ordina il campo dell’Altro, insomma, cos’è un padre al di là della funzione trascendentale ricoperta dal suo Nome? Nel corso del Seminario xxiii tutti questi interrogativi vengono ripresi e trovano una loro risposta nell’ipotesi che in James Joyce saremmo di fronte a un’altra filiazione rispetto a quella comandata dal Nomedel-Padre, a una filiazione che non dipenderebbe più dalla dimensione normativa del Nome-del-Padre. James Joyce, il sinthomo, pone il problema di una filiazione al di là dell’Edipo: è possibile essere figli del proprio sinthomo? È possibile essere figli delle proprie opere? Figli senza 1 Si veda Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii. Il sinthomo (1975-76), Astrolabio, Roma 2006. 33 l’Altro, figli senza padri? Cosa sarebbe una filiazione non ortodossa – priva del sostegno del Nome-del-Padre –, cosa sarebbe una filiazione eretica, una filiazione senza alcuna eredità simbolica? Ricapitoliamo le tesi di Lacan su Joyce come si deducono dal Seminario xxiii e nelle due conferenze su Joyce il sintomo:2 1.Joyce patisce una “carenza paterna” (John Joyce sarebbe stato un padre carente, un padre indegno) che cerca di rimediare con la sua arte che diviene, per via di questa funzione correttiva, il suo sintomo, la sua supplenza. Questa carenza viene anche definita una forclusione, non di struttura, ma “di fatto”, effetto della “dimissione paterna”.3 Per rimediare a questa carenza Joyce inventa il sintomo della scrittura che gli assicura una tenuta fallica in assenza di una trasmissione simbolica effettiva del fallo, sebbene “il suo fallo” – precisa Lacan – risenta di questa assenza restando comunque “un po’ moscio”.4 2.Questo sintomo non è un simbolo, non è una formazione dell’inconscio, non è interpretabile, decifrabile, non è strutturato come una metafora, come aveva stabilito l’insegnamento più classico di Lacan; questo sintomo “abolisce il simbolo”.5 Il che significa che il sintomo joyciano non è affatto una formazione dell’inconscio – com’era il sintomo freudiano – ma è un sintomo “disabbonato” dall’inconscio e, per questa ragione, radicalmente anti-freudiano. Esso non esprime una verità rimossa ma una posizione del soggetto, la sua esistenza singolare e contingente, non è articolato al desiderio inconscio – non è una sua manifestazione di compromesso –, ma a un processo di nominazione: il sintomo della scrittura – che non è un simbolo – è ciò che permette a Joyce di farsi un nome – “volendosi dare un nome”6 – senza passare dal Nome-del-Padre, è l’incarnazione di una filiazione eretica, cioè di una filiazione senza eredità. 2 Faccio riferimento alla conferenza titolata allo stesso modo: Joyce il sintomo, in Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., pp. 157-165, e Joyce, le symptôme, in Id., Autres écrits, Seuil, Paris 2001, pp. 565-570. 3 Id., Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 85. 4 Ivi, p. 14. 5 Jacques Lacan, Joyce il sintomo, cit., p. 161. 6 Ivi, p. 90. 34 Massimo Recalcati 3.L’opera è uno sgabello – esca-beau – attraverso la quale egli eleva il suo nome alla dignità dell’artista. In questo senso l’ambizione del suo Ego corregge – come un quarto nodo supplementare7 – la carenza paterna, dando tenuta ai registri del simbolico, dell’immaginario e del reale. Attraverso il suo art-geuil – il suo orgoglio8 – Joyce può godere della sua arte. Il godimento non prende qui le forme del godimento maligno e devastatore dell’Altro – come accade in Schreber – ma quelle di un godimento singolare e sintomatico, fissato sulla pratica della scrittura che si afferma come, al tempo stesso, godimento (estetico) del soggetto e trattamento del godimento minaccioso dell’Altro. 4.“Ulysses è la testimonianza del fatto che Joyce resta radicato nel padre pur rinnegandolo. È proprio questo il suo sintomo”,9 afferma Lacan. Questa è la tesi centrale che sintetizza l’esito del passaggio di Lacan attraverso Joyce e che rivela la verità ultima di Finnegans Wake: il rifiuto del padre – il suo “rinnegamento” – non separa Joyce dal problema dell’eredità simbolica. Il rinnegamento del padre non coincide affatto con il suo oltrepassamento. Al contrario – afferma Lacan – Joyce resta legato al padre proprio in quanto lo rinnega. Questo significa che il rinnegamento del padre comporta la manifestazione di un’idea maniacale della paternità che esploderà in tutta la sua ampiezza solo in Finnegans Wake dove Joyce diventa letteralmente padre di una nuova lingua, l’artificiere che genera dal nulla una lingua che si vorrebbe finalmente libera dall’incombenza teologica del Nome-del-Padre. Si tratta di una lingua senza argini e senza gerarchia, anarchica, una marea dove il significante infarcisce il significato, dove la potenza de lalingua, come direbbe Lacan, si afferma come pura libertà, si emancipa dagli ormeggi simbolici per imporsi come una pura “decisione dell’essere”.10 In gioco è precisamente quel rifiuto di ogni legame con l’Altro che definisce clinicamente la dimensione della mania.11 Contro questo esito maniacalizzante che scaturisce Ivi, p. 148. Jacques Lacan, Joyce, le symptôme, cit., p. 566. 9 Id., Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 66. 10 Id., Discorso sulla causalità psichica, in Id., Scritti, 2 voll, Einaudi, Torino 1974, vol. i, p. 171. 11 “[…] l’ultima opera di Joyce […] assomiglia proprio alla mania. Parlo di Finnegans Wake.” (Id., Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 10) 7 8 Telemachia 35 dal rifiuto della paternità e della sua eredità, Lacan ricorda a Joyce – ma più in generale a tutti coloro che sostengono il sogno prometeico di una filiazione senza padri, di una autogenerazione che prescinda orgogliosamente dal riconoscimento del debito simbolico nei confronti dell’Altro – che per separarsi dal padre bisogna saperne fare uso.12 Tutto il cammino di James Joyce – e del suo Stephen Dedalus – è finalizzato, invece, a fare a meno del padre senza farne alcun uso.13 Le dichiarazioni di TelemacoStephen in Ulysses – come vedremo – sono perentorie. E tuttavia – come precisa Lacan – la “missione” di Joyce, a suo modo, è anche quella di “farsi carico del padre”, di “sostenerlo affinché sussista”.14 Essere un artista per Joyce significa identificarsi al grande Altro della creazione, non al figlio redentore, al figlio del Padre – secondo l’annuncio cristiano. Significa diventare orgogliosamente il Padre dell’Opera, come accade in Finnegans Wake, dove il linguaggio – divenuto puro significante, pura lettera asemantica, priva di ogni significazione – sembra escludere, insieme alla problematica del senso, anche ogni riferimento alla dimensione del Nome-del-Padre. L’elevazione dello scrittore a padre-artificiere di una nuova lingua mai esistita prima lo conduce infatti verso una “illustrazione” assoluta della paternità. Nondimeno, fare a meno del padre senza servirsene comporta fatalmente restare legati eternamente al padre anche se nella forma paradossale di una sua incarnazione suprema. Non è il figlio che deriva dal padre, ma è il figlio che prende il posto del padre in un atto di affermazione superba. In Joyce – commenta Lacan – “l’artista non è il redentore, è Dio stesso, in quanto modellatore”.15 Si veda ivi, p. 133. È la critica che Lacan rivolse ai giovani del ’68: l’odio verso il padre vincola al padre, rende impossibile ogni forma di separazione dal padre. “[…] l’aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del padrone. È ciò di cui l’esperienza ha dato prova. Ciò a cui aspirate, come rivoluzionari, è un padrone. L’avrete.” (Id., Il seminario. Libro xvii. Il rovescio della psicoanalisi [1969-70], Einaudi, Torino 2001, p. 259) 14 Id., Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 21. 15 Ivi, p. 77. 12 13 36 Massimo Recalcati il telemaco di omero e quello di joyce Per intendere meglio la tesi centrale di Lacan (il rinnegamento del padre lega Joyce a una rappresentazione assoluta del Padre) proviamo a considerare la Telemachia originale di Joyce. Lacan snobba decisamente il riferimento di Joyce all’Ulisse omerico. Non sembra considerare per nulla l’importanza della denominazione joyciana delle parti che compongono la narrazione del suo Ulisse e che riprendono esplicitamente la suddivisione dei canti omerici. Come sappiamo sarà proprio questo il lamento insistito dello scrittore irlandese nei confronti dei critici che hanno pressoché ignorato questo riferimento, per lui centrale, all’Odissea di Omero.16 Perché allora anche Lacan sceglie di ignorare questo riferimento programmaticamente deciso da Joyce scrittore? Probabilmente perché per Lacan il sintomo joyciano non è un simbolo, ma un sintomo e questo rende necessario evitare ogni lettura ermeneutica del testo di Joyce.17 Piuttosto questo testo si configura come una nuova versione del sintomo che, come abbiamo visto, eccede la sua assimilazione classica alla metafora. Si tratta piuttosto di un uso della lingua e della scrittura che – come mostrerà definitivamente Finnegans Wake – annulla il senso. Anche in questa prospettiva Joyce appare come il rovescio di Schreber; quest’ultimo si pone davvero come un redentore delirante poiché ciò che nel suo universo viene meno è l’esperienza del non-senso, mentre Joyce rinuncia all’idea della ricongiunzione con Dio-Padre e annulla, di conseguenza, la dimensione del senso attraverso una decomposizione radicalissima della lingua. La Telemachia costituisce i primi tre capitoli di Ulysses, raduna a sé i primi canti dell’Odissea, secondo le intenzioni di Joyce, e si può dire che costituisca un ponte ideale tra la narrazione della vita di Stephen in Dedalus e la produzione più matura di Joyce. Di cosa si tratta? È la descrizione della mattina di Stephen-Telemaco, del suo risveglio nella casa-torre sul mare. In primo piano è la condizione di Stephen-Dedalus come quella di un soggetto sradicato: è sfruttato dai suoi inquilini, Si veda Richard Ellmann, James Joyce, Feltrinelli, Milano 1964, p. 606. Lacan legge il testo di Joyce in modo diverso da come legge l’Antigone di Sofocle nel Seminario vii, l’Amleto di Shakespeare nel Seminario vi o il racconto sulla lettera rubata di Poe nel testo che apre gli Scritti. Nel caso di Joyce, Lacan non si addentra mai davvero nel testo perché ciò che gli interessa non è il suo significato ma la sua funzione puramente sintomatica. 16 Telemachia 37 paga loro l’affitto mentre gli saccheggiano le risorse. Vive, insomma, come il Telemaco omerico, sottoposto all’usurpazione. Con l’aggiunta che si attribuisce la colpa di non aver assistito come avrebbe dovuto la madre morente. Il suo lavoro di insegnante gli appare noioso e privo di soddisfazione. È distratto dalle sue elucubrazioni su Dio, sulla trinità, sulla storia come incubo. La sua inquietudine manifesta la sua aspirazione radicale a un “pensiero libero”. La Telemachia joyciana non ricalca lo spirito di quella omerica per una ragione principale: StephenTelemaco – diversamente dal Telemaco di Omero che è nell’attesa del ritorno del padre – vuole essere un figlio senza padri. Nondimeno questa esigenza si scontra con l’assillo che attraversa Stephen-Dedalus e che coinvolge il problema dell’origine, della sua provenienza, della sua stessa filiazione: “Chi ha scelto la mia faccia?” si chiede.18 Mentre l’orgoglio di Stephen intende recidere il legame con il padre, il Telemaco di Omero è alla ricerca del padre. Il suo sguardo scruta il mare attendendo il ritorno del padre come possibilità di ricostituire la Legge della città. I due Telemaco, quello di Omero e quello di Joyce, sono due anti-Edipo.19 Non si dà nel Telemaco omerico né voto, né atto parricida; non è il padre a ostacolare l’accesso al godimento della madre; il padre, piuttosto, è colui che risponde all’invocazione del figlio pagando in prima persona questa risposta. Per salvare la vita di Telemaco neonato parte senza volerlo per una guerra che non è la sua. Cede al terribile ricatto a cui viene sottoposto: impedisce che il vomere dell’aratro tagli la testa di suo figlio, impedisce la morte di suo figlio rinunciando al lavoro della terra, partendo per una guerra assurda e perdendosi in mare. Anche il suo ritorno a Itaca avviene sullo sfondo di una perdita di godimento ancora più radicale; il ritorno implica la rinuncia al godimento dell’immortalità. Ulisse accetta la finitezza della vita per ritornare alla sua terra. Telemaco non affronta il padre in un duello mortale, come accade a Edipo, ma guarda il mare attendendo il ritorno del padre. La domanda di Telemaco è domanda di padre, domanda di Legge rispetto al godimento sregolato dei Proci. È preghiera che qualcosa torni a reintrodurre la Legge della castrazione in una terra dove il godimento appare senza bordi. 17 James Joyce, Ulisse (1922), Mondadori, Milano 1967, p. 10. Sulla figura di Telemaco come anti-Edipo rinvio al mio Il complesso di Telemaco: come è cambiato il disagio della giovinezza (di prossima pubblicazione presso Feltrinelli). 18 19 38 Massimo Recalcati Il Telemaco joyciano è un anti-Edipo in modo diverso. Egli non invoca affatto il padre; è solo ironico e cinico verso i padri. Non crede al Nome-del-Padre, non è in lotta aperta con il padre, semplicemente lo rinnega. Non si attende nulla da questo vuoto. Nessuna trasmissione lega il figlio al padre; né quella del conflitto mortale, né quella della invocazione. Resta solo Bloom – padre disperato che ha perso tragicamente il piccolo Rudolph e marito fallito tradito da sua moglie – a invocare il figlio come erede: “Qualcosa da lasciare in eredità. Se il piccolo Rudy fosse vissuto. Vederlo crescere, sentire la sua voce in casa. A passeggio accanto a Molly […] Mio figlio. Me nei suoi occhi.”.20 una forclusione di fatto Joyce è confrontato alla carenza paterna, è di fronte a una forclusione di fatto del Nome-del-Padre. Ma come dobbiamo intendere questa forclusione di fatto che Lacan introduce nel Seminario xxiii? La forclusione strutturale è quella che implica l’assenza di operatività del significante del Nome-del-Padre come significante che ordina l’insieme dei significanti e che consente l’accesso del soggetto alla realtà. Essa colpisce dunque il Nome-del-Padre come significante guida. La forclusione di fatto sembra invece colpire il padre nel suo atto più che nel suo Nome. E qual è l’atto di un padre? È quello di portare la parola, è quello di portare la legge della parola. E in cosa John Joyce, il padre di James, sarebbe stato carente? Lacan precisa questa carenza così: suo padre non avrebbe saputo parlargli. Gli ha mai parlato? Si è mai rivolto a James come a un soggetto della parola? Ha mai rivolto verso di lui il suo desiderio di padre? La forclusione di fatto comporta l’assenza della parola paterna come costitutiva della legge del riconoscimento. Eppure il ritratto che Ellmann ci fornisce di John non è affatto quello di un uomo silenzioso. Al contrario, John sembra avesse piacere a prodigarsi in monologhi infiniti. La sua voce risuonava imponente in casa Joyce e nei pub che frequentava. Racconta barzellette, canta, sproloquia. John appare davvero come il rovescio speculare del padre educatore di Kafka o di Schreber. Mentre quei padri incarnano il volto spietato e compatto – moralmente solido – di James Joyce, Ulisse, cit., p.123. 20 Telemachia 39 una Legge inumana perché disgiunta dal desiderio, il padre di Joyce è un padre inattendibile, bislacco, inconcludente, donnaiolo, alcolista, sommerso dai debiti, impegnato per tutta la vita in continui e rocamboleschi traslochi per evadere i suoi creditori; carente di fatto, commenta Lacan. È un padre dimissionario che delega ad altri padri – i gesuiti – la responsabilità dell’educazione di suo figlio. È un padre che non assume in nessun modo la sua funzione simbolica che è quella di dare una versione umanizzata della Legge. I suoi atti non sostengono la legge della parola ma si limitano a dedicarsi “con pari impegno a procreare figli e a contrarre ipoteche sulle proprietà ereditate”; 21 tre aborti, quattro maschi e sei femmine e continui debiti. Il padre carente è stato un padre insolvente. Un padre che veniva sempre meno alla propria parola senza farsene un problema. A Louis Gillet che lo interrogava su cosa fosse stato per lui suo padre, James Joyce rispose: “un bancarottiere”.22 Ellmann racconta di una volta che preso dai fumi dell’alcol cercò di strangolare la moglie davanti ai suoi figli. Fu solamente l’intervento di James a salvare la madre dal passaggio all’atto omicida del padre.23 Durante la malattia della moglie John Joyce intensificò drammaticamente il suo alcolismo. Mentre la donna stava agonizzando – ci racconta ancora Ellmann – piombò disperato nella sua stanza urlando: “Sono rovinato! Non ne posso più! Se non riesci a guarire crepa! Crepa maledizione!”.24 Il padre di Joyce ha un vero e proprio godimento della parola. È un guitto, un attore di avanspettacolo. Parla, parla, parla… ma la sua parola – ed è questo l’essenziale – non sa umanizzare il desiderio. Questa parola, la parola del padre, non si è mai rivolta a suo figlio. Ecco l’essenziale secondo Lacan: questo padre non gli ha mai parlato. Possiamo supporre che le parole imposte che aggrediscono Joyce siano dei ritorni nel reale di questa assenza simbolica della parola del padre. La parola ritorna allora allucinatoriamente solo come il reale della pura voce. Abbiamo già in Dedalus una serie di testimonianze precise di questi ritorni nel reale della parola simbolicamente assente del padre.25 Questi ritorni accompagnano costantemente la vita di Richard Ellmann, op. cit., p. 32. Ivi, p. 33. 23 Ivi, p. 56. 24 Ivi, p. 168. 25 “Stephen si era sentito intorno costanti le voci del padre e degli insegnanti, che lo 21 22 40 Massimo Recalcati Joyce e, non a caso, troveranno un punto di scatenamento particolare all’indomani della morte del padre. In quella congiuntura la voce del padre invade il suo corpo, raggiunge il suo essere. Al posto dell’eredità simbolica – al posto della trasmissione del desiderio – qualcosa che resta forcluso dal simbolico ritorna direttamente nel reale. All’indomani della morte del padre, in una lettera inviata alla signorina Weaver, scrisse: “Poveretto! Mi sembra che quasi la sua voce sia trasmigrata in qualche modo nel mio corpo o nella mia gola. Ultimamente ancora di più: specialmente quando sospiro”.26 Possiamo anche supporre che tutta la relazione di Joyce con Lucia, la figlia schizofrenica, riproduca questo stesso fallimento dell’eredità: la corrispondenza telepatica che unisce la figlia al padre e che, secondo Joyce, gli psichiatri e gli psicoanalisti (tra i quali Jung) non erano assolutamente in grado di comprendere, è la manifestazione di una intesa segreta, di una continuità speculare tra i due. Le parole imposte si trasfigurano nella intesa telepatica. Joyce non è solo convinto delle doti profetiche della figlia, ma sembra stabilire tra sé e la figlia una sorta di identificazione speculare, di immedesimazione narcisistica. A questo proposito in una lettera del 21 ottobre del 1934 scrive: “Attribuisco la massima importanza quando Lucia parla di sé; le sue intuizioni sono stupefacenti […] Io e mia moglie vediamo centinaia di esempi della sua chiaroveggenza”.27 Tra il soggetto e l’Altro viene meno ogni forma di separazione; Joycescrittore si identifica integralmente alla figlia folle. James è Lucia e Lucia è James. Nessuno riconosce il loro talento, la loro creatività incitavano a essere un gentiluomo sopra tutto il resto e un buon cattolico sopra tutto il resto. Queste voci gli suonavano ormai vacue nelle orecchie. Quando era stata aperta la palestra, aveva sentito un’altra voce incitarlo a essere robusto, virile e sano, e quando il movimento per la rinascita nazionale era cominciato a farsi sentire nel collegio, ancora un’altra voce gli aveva comandato di non venir meno al suo paese e di aiutarlo a rialzare lingua e tradizioni (…) intanto la voce dei suoi compagni di scuola lo incitava a essere un compagno come si deve, a coprire gli altri dai rimproveri, a chiedere per loro il perdono e a fare del suo meglio per ottenere giornate di vacanza per tutti. Ed era il frastuono di tutte queste voci vacue che lo faceva fermarsi irresoluto nella sua ricerca di fantasmi.” (James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane [1916], Adelphi, Milano 1980, p. 96) 26 Richard Ellmann, op. cit., p. 732. “Ogni tanto restava come inebetito: sento mio padre che mi parla […]” (Ibidem) 27 Ivi, p. 764. Telemachia 41 linguistica, le loro profonde intuizioni, la loro originalità, i loro neologismi. Padre e figlia, Joyce e Lucia, sono una coppia di artisti telepatici della lingua. parole imposte Lacan mette a confronto la scrittura di Joyce con il tema clinico delle parole imposte. Le parole imposte che, nelle allucinazioni, riducono il soggetto a oggetto inerme, parlato dall’Altro, invaso dall’Altro, mostrano che il linguaggio agisce come un “parassita”, una “placcatura”, che “la parola è la forma di cancro che affligge l’essere umano”.28 Questo fenomeno elementare di cui patisce il soggetto psicotico illumina la condizione strutturale dell’esistenza: noi siamo sempre parlati dalle parole dell’Altro. Per Lacan si tratta di un’evidenza che fonda lo statuto alienato del soggetto: “Come mai – si chiede – non avvertiamo tutti che le parole da cui dipendiamo ci sono in qualche modo imposte?”.29 Il soggetto è tracciato, fabbricato, strutturato dalle parole che l’Altro gli impone. Nel fenomeno allucinatorio questa dipendenza costituente emerge nel reale, come accade per i fenomeni telepatici che caratterizzano Lucia, la sua secondogenita schizofrenica. La pratica della scrittura consente a Joyce di produrre una significantizzazione di questo reale adottando le parole imposte come una sorta di materia grezza sulla quale esercitare la propria padronanza di scrittore. Questa operazione gli consente di non essere più mangiato dal linguaggio, ma di divenire artificiere, creatore di un nuovo linguaggio. È questa tutta la differenza che separa Joyce da Schreber: mentre Schreber resta vittima di un Altro che gode di lui e che gli parla incessantemente, mentre la sua psicosi produce una serie infinita di fenomeni elementari dove il soggetto è ridotto a essere mero oggetto del godimento voluttuoso dell’Altro, Joyce attraverso la pratica della scrittura argina questo godimento facendone materia della sua arte. Per questa ragione non vi sono che rarissimi fenomeni elementari in Joyce di fronte alla stabilizzazione resa possibile dalla costruzione del suo sinthomo. Per questo Schreber può ricorrere solo alla metafora delirante laddove Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 91. Ibidem. 28 29 42 Massimo Recalcati Joyce si genera un nome attraverso l’atto della creazione. L’artista viene cioè assimilato al Creatore dell’universo capace di ordinare e dare vita alla materia caotica e informe dell’esistenza. Non a un figlio ma a un Padre. Il saper-fare dello scrittore-artificiere, è per Joyce il modo per provare a esercitare una supplenza sintomatica alla forclusione di fatto del Nome-del-Padre capace di sfruttare lo stesso fenomeno elementare delle parole imposte; il monologo interiore – il flusso di coscienza – come innovazione cruciale della letteratura joyciana eleva il fenomeno elementare delle parole imposte alla dignità di un metodo. In questo senso Joyce riprende e fa sua una intuizione di Lacan avanzata nel Seminario iii: quando la strada del Nome-del-Padre è sbarrata, è forclusa, quando il soggetto è obbligato a seguire l’intricato dedalo delle strade secondarie per raggiungere la sua meta, diventa possibile orientarsi sulle scritte che appaiono sui cartelli al bordo della strada. Queste scritte offrono al soggetto un orientamento in assenza della strada maestra. Lacan individua in questa funzione orientativa suppletiva il significato delle allucinazioni uditive verbali, come se si trattasse di “cartelli indicatori sul bordo del nostro percorso”.30 È l’operazione tentata e realizzata da Joyce: orientarsi a partire dalle scritte secondarie quando la parola simbolica del padre tace, quando non c’è trasmissione del desiderio da una generazione all’altra, quando la carenza del padre – della strada maestra – è irrecuperabile. È questa, precisamente, la funzione che Lacan attribuisce all’arte di Joyce: coltivare la scrittura come supplenza alla strada maestra del Nome-del-Padre. un’altra filiazione Possiamo raccogliere una serie di enunciati joyciani presenti in Dedalus e Ulisse che annunciano e chiariscono il tema di un’altra filiazione 30 “Come fanno coloro che sono chiamati utenti della strada quando non c’è strada maestra, e per andare da un punto all’altro bisogna passare per strade secondarie? Seguono le indicazioni poste sul bordo della strada. Cioè, laddove il significante non funziona, c’è qualcosa che si mette a parlare per suo conto sul bordo della strada. Laddove non c’è strada, delle parole scritte compaiono su dei cartelli. È forse questa la funzione delle allucinazioni uditive verbali delle nostre allucinazioni – sono dei cartelli indicatori sul bordo del loro piccolo percorso.” (Jacques Lacan, Il seminario. Libro iii. Le psicosi [1955-56], Einaudi, Torino 1981, p. 347) Telemachia 43 rispetto a quella stabilita ordinariamente dal Nome-del-Padre. Questi enunciati – ai quali se ne potrebbero aggiungere molti altri – sono lapidari: il padre appare come un puro sembiante (“una finzione legale”), oppure come un fenomeno solo animale-istintuale (un “istante di cieca foia”). Nulla giustifica la funzione simbolica del suo Nome che serve solo a turare un vuoto abissale, nulla lega un padre a un figlio. 1.La celebre conclusione del Dedalus: “Vado a incontrare per la milionesima volta la realtà dell’esperienza e a foggiare nella fucina della mia anima la coscienza increata della mia razza”.31 2.In Telemachia, il dialogo a scuola tra Stephen e Mr Deasy: “Le vie del Creatore non sono le nostre vie, disse Mr Deasy. Tutta la storia si muove verso un’unica grande meta, la manifestazione di Dio. Stephen accennò col pollice alla finestra dicendo: Quello è Dio. Urrà! Ahai! Fiuuu!. Che cosa? chiese Mr. Deasy. Dio è un urlo, rispose Stephen, alzando le spalle”.32 3.Nel corso della discussione shakespeariana in biblioteca Stephen può affermare che: “Un padre è un male necessario”.33 4.Sempre nel corso di questa discussione: “La paternità è fondata […], come il mondo, sul vuoto”; “la paternità è forse una finzione legale? Chi è il padre di un qualsiasi figlio, perché qualsiasi figlio debba amarlo e viceversa?”. Che cosa mai ricongiunge in natura un figlio a un padre? “Un istante di cieca foia.”34 Questi enunciati demoliscono la dimensione simbolica del Nome-delPadre. La trasmissione simbolica del desiderio e l’esperienza stessa dell’eredità deve essere ripensata senza l’ancoramento alla dimensione edipica del padre. Se nella Telemachia joyciana è in gioco il problema dell’eredità lo è nel senso di un suo fallimento simbolico. Ma è possibile esistenza umana senza eredità? È possibile creazione senza filiazione? È possibile farsi un nome senza ricorrere al Nome-del-Padre? Come ci si può fare un nome, un nome proprio, un proprio nome, senza passare dal Nome-del-Padre? James Joyce, Dedalus, cit., p. 309. Id., Ulisse, cit., p. 47. 33 Ivi, p. 283. 34 Ivi, pp. 284-285. 31 32 44 Massimo Recalcati In Ulysses, Stephen-Telemaco fallisce l’eredità del Padre. Ma è possibile rendere fecondo il fallimento dell’eredità? La Telemachia joyciana, ma probabilmente l’intera opera di Joyce, pone il problema dell’esistenza di un’altra filiazione rispetto a quella governata dall’Edipo, rispetto a quella presieduta dal Nome-del-Padre. Si tratta della possibilità di una trasmissione del desiderio senza ricorrere alla funzione paterna. È il problema che attraversa profondamente la filosofia di Nietzsche, è il problema dell’autogenerazione del soggetto nel tempo della morte di Dio, della possibilità che questa morte apra a una nuova umanità, a un oltreuomo (Übermensch), ovvero all’oltrepassamento dell’idea giudaico-cristiana – e freudiana – dell’uomo in quanto figlio. Il rinnegamento del Padre comporta, infatti, il rifiuto di essere un figlio. È il cuore della Telemachia joyciana: costituirsi come il figlio “necessario” delle proprie opere, farsi il padre-creatore, padre-assoluto, farsi carico integralmente del padre, farsi padre-artificiere, un padre che genera da sé – nella fucina della propria anima e nell’arte della scrittura – il suo proprio figlio. Questa è la missione – e la grande illusione – alla quale James Joyce, il sintomo, sembra votarsi. Il rinnegamento del padre comporta il rinnegamento della filiazione come soggettivazione del debito simbolico. Alla filiazione simbolica Joyce oppone l’impresa maniacalizzante dell’autogenerazione. L’idea – già presente in Dedalus – dello “spirito increato della razza”. Non si deve dimenticare il commento di Lacan su questo punto: “credere che ci sia una coscienza increata di una qualsiasi razza è una grande illusione”.35 Eppure lo scrittore si eleva al rango di Dio, dell’Altro assoluto, del “vasaio” che plasma il mondo attraverso il potere della nominazione. È questa la dimensione maniacale di Finnegans Wake: “Si imputa a Dio” commenta Lacan “qualcosa che pertiene all’artista, il cui primo modello è, come tutti sanno, il vasaio. Si dice che abbia dato forma […] a quell’affare che viene chiamato, non a caso, Universo”.36 l’eresia al posto dell’eredità Il Telemaco joyciano è innanzitutto eretico; la sua pista è quella dell’eresia che nella lingua francese evoca – come fa notare Lacan – Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 67. Ivi, p. 60. 35 36 Telemachia 45 foneticamente i tre registri rsi: hérésie.37 Questa eresia è una “opinione singolare” (è questo uno degli etimi del termine eresia) che scalza la versione gesuitica (e giudaico-cristiana) di Dio-Padre come luogo che salva la vita dalla sua derelizione. Se il Telemaco omerico è un personaggio beckettiano, nel senso che rischia la nostalgia melanconica del padre, attendendo impotente il suo ritorno, quello joyciano appare come sradicato, esiliato, eretico, genealogicamente privo di qualunque eredità.38 Tutto il suo destino sembra già scritto nel suo nome: Dedalus, labirinto, impossibilità di trovare casa, di trovare radici, di possedere un’identità definita. Qui si può misurare tutta la differenza che passa tra la Telemachia omerica e quella joyciana. Mentre la prima si compie nel ritorno del padre – nel ristabilimento del diritto naturale dell’erede e nel recupero di una possibile filiazione simbolica, nel ristabilimento della Legge della castrazione – la Telemachia joyciana esclude la possibilità del ritorno del padre perché non crede al Nome-del-Padre. Joyce ironizza su questo Nome e più radicalmente, come abbiamo visto, lo rinnega. Al Nome-del-Padre oppone il mito sintomatico del Nome proprio, l’impresa di “farsi un nome” senza passare dall’Altro, l’eresia al posto dell’eredità. La condizione di esiliato in casa propria diventa per lui una condizione permanente; il figlio resta senza padre, o, più precisamente, il figlio diventa “necessario” solo attraverso le opere del padre. Generarsi da se stessi, autoprodursi, realizzarsi nel proprio sinthomo. Per Joyce-l’eretico, sarà solo la sua Arte a dargli un Nome, a dargli una rinomanza, non certo il Nome-del-Padre. La Telemachia joyciana rovescia così quella omerica alla quale si ispira: Stephen-Telamaco non cerca affatto il padre, piuttosto cerca la liberazione dal padre. Non ne vuole più sapere di padri. “Basta con i padri!”, è il motto di Stephen-Telemaco, sostiene senza mezzi termini Lacan.39 In questo rifiuto dell’Altro, in questa esperienza del senza fondo della lingua, dell’arbitrarietà del segno spinta al suo colmo iperbolico, Joyce può realizzarsi solo facendosi artificiere di se stesso. L’impresa della creazione gli consente di farsi un nome che dovrà essere riconosciuto dall’Altro dell’Università e della 37 Ivi, p. 13. Nondimeno, fa sempre notare Lacan, Stephen-l’eretico è anche un “povero cristo”, un “cet hère” dove “hère” si è pensato come un “eroe”. Non a caso Stephen Hero è il titolo che Joyce aveva scelto per il libro che diverrà Dedalus. Ritratto di un artista da giovane. Si veda ivi, p. 14. 38 Ivi, p. 13. 39 Ivi, p. 66. 46 Massimo Recalcati Cultura, ma solo sullo sfondo desertico dell’assenza della parola paterna. La sublimazione non è più in alternativa – come appare ancora nella classica lezione freudiana – al sintomo, ma si sintomatizza essa stessa, nel senso che non “eleva un oggetto alla dignità della Cosa” – è la celebre formula con la quale Lacan la definisce40 –, ma un soggetto senza nome alla dignità dell’avere un nome, alla dignità dell’artista. In questo senso Lacan può affermare giustamente che l’arte per Joyce è una sostanzializzazione divinatoria del sintomo.41 Questo è il cuore dell’eresia joyciana: è possibile farsi un nome singolare senza ricorrere alla nominazione del Nome-del-Padre? Come farsi un nome in assenza di un atto di nominazione? Come farsi un nome senza l’ausilio del Nome-del-Padre? La soluzione joyciana consiste nel porre la scrittura come scrittura del nome proprio, come generazione di una lingua sinora inesistente, come affermazione orgogliosa del proprio Ego. In questo senso la Telemachia di Joyce è alternativa sia a quella di Edipo (che è parricida), sia a quella del Telemaco omerico (che è invocativa del padre). La Telemachia joyciana è eretica, se l’eresia è ciò che rifiuta senza incertezze ogni forma di eredità dell’Altro. In Joyce l’eredità fallisce per clonazione (è il rapporto di Joyce con Lucia) o per negazione del debito simbolico (è il rapporto di Joyce con la sua stirpe e con la storia stessa della letteratura). Joyce è sul lato dell’ateismo eretico nei confronti dell’Altro, nel senso che, come afferma Lacan, il “nome che gli è proprio” può valorizzarsi solamente “a spese del padre”.42 L’eretico è un disabbonato dall’eredità poiché l’eresia è una negazione delle radici, della provenienza, del debito simbolico. Il Telemaco joyciano vuole essere Padre e figlio delle sue opere. La sua eresia si vorrebbe totalmente priva di eredità. Se c’è una dimensione radicalmente psicotica della sua posizione è questa: l’eresia joyciana, non volendo fare uso del Nome-del-Padre, afferma la libertà della creazione come pura decisione dell’essere. La sua dedizione per la scrittura determina e coinvolge tutto il suo essere. Come abbiamo visto la sua missione folle è quella di fare esistere con la sua arte “lo spirito increato della razza”. 40 Si veda Jacques Lacan, Il seminario. Libro vii. L’etica della psicoanalisi (1959-60), Einaudi, Torino 1994, p. 141. 41 Si veda Id., Il seminario. Libro xiii, cit., p. 37. 42 Ivi, p. 85. Telemachia 47 lo sgabello e la spinta alla scrittura Lo sgabello è, secondo Lacan, una figura chiave dell’estetica joyciana. Joyce non è un redentore, come avrebbe voluto essere, nel suo delirio, Schreber; egli è piuttosto un autore, uno scrittore alla ricerca di uno “sgabello” (escabeau) che gli permetta di elevare il proprio Ego alla dignità dell’artista, cioè alla dignità di colui che si realizza nel suo saper-fare, nel suo artificio, nella generazione della sua opera.43 Mentre Schreber è animato dalla pousse à la femme, punta all’accoppiamento con Dio, trasfigura la sua paranoia fondamentale in una megalomania che lo trasforma nella donna di Dio, in Joyce prevale una pousse alla scrittura che realizza il proprio Ego come ciò che rende possibile l’annodamento del reale, del simbolico e dell’immaginario in assenza del Nome-del-Padre. Questo Ego “correttore” della forclusione di fatto del Nome-del-Padre è l’esito della supplenza sintomatica di Joyce. Non si tratta del moi prigioniero dello specchio, del risultato di una identificazione speculare, non si tratta cioè di una compensazione immaginaria dell’Edipo assente. L’Ego di Joyce realizza la sua funzione di correttore dell’assenza forclusiva del Nome-del-Padre attraverso la produzione del libro come luogo di consistenza del soggetto.44 La sua adorazione, l’adorazione di Joyce, spiega Lacan, non è per l’immagine del suo corpo – come avviene per il narcisismo del moi – ma per il libro. L’idea che Joyce ha di se stesso è quella – come afferma Lacan – di “far di sé un libro!”.45 Joyce è, come diceva di se stesso Flaubert, un uomo-penna, è preso in una spinta alla scrittura – sedici ore al giorno di lavoro, ricorda Ellmann, per scrivere Finnegans Wake – che reagisce all’assenza di trasmissione simbolica del Nome. Per Joyce scrivere è innanzitutto un’esigenza sintomatica. Egli scrive come respira; scrive anche quando le condizioni materiali della sua vita (disordine, traslochi, spazi ristretti, figli piangenti, povertà, alcolismo) sembrerebbero rendere impossibile questa pratica. La spinta alla scrittura è una spinta più forte della realtà perché ne va della sua stessa esistenza. La creazione, l’autogenerazione, la partenogenesi è la sua ambizione estrema e la sua illusione più profonda. Si tratta, come precisa Lacan, di farsi essere il “figlio necessario” che non cessa di scri Si veda Jacques Lacan, Joyce il sintomo, cit., p. 162. Ivi, p. 148. 45 Ivi, p. 67. 43 44 48 Massimo Recalcati versi in ciò che egli stesso genera.46 Farsi essere l’unione indissolubile di necessità e contingenza, di padre e figlio. Non pura contingenza, nemmeno mera necessità. Piuttosto una contingenza che si risolve tutta in pura necessità. Il padre nel figlio, il figlio nel padre. L’opera come figlio ma anche l’opera come padre che assicura il divenire del figlio (delle proprie opere). Tutto questo senza sfruttare in nessun modo lo stratagemma edipico. Si tratta invece di essere un destino, di darsi una missione: diventare, realizzarsi, farsi un nome di artista, insomma essere un libro. Per avere davvero un corpo bisogna essere un libro. l’inesistenza del rapporto con il padre Per Joyce l’incontro con il padre è come l’incontro (impossibile) del rapporto sessuale; è sempre mancato. Possiamo seguire in tutto il corso dell’Ulisse le vicende di questo non-rapporto fondamentale. Bloom e Stephen, il padre e il figlio, non si incontrano mai. La dialettica del riconoscimento si riduce a un pisciare insieme. È la scena finale del loro rapporto: Ambedue, prima Stephen poi Bloom, nella penombra orinarono, i loro fianchi contigui, gli organi mintorii reciprocamente resi invisibili da circumposizione manuale, gli sguardi […] elevati verso l’ombra luminosa e semiluminosa proiettata. Similmente? Le traiettorie delle loro, prima susseguenti, indi simultanee, urinazioni furono dissimili: quella di Bloom più lunga, meno irruenta nella forma […] quella di Stephen più alta, più sibilante, lui che nelle ultime ore del giorno precedente aveva aumentato con consumazioni diuretiche un’insistente pressione vescicale.47 Questa scena è la scena di un non-rapporto; la condivisione dell’intimità non può essere associata in nessun modo alla scena topica e struggente che Philip Roth ci consegna in Patrimonio dove il padre lascia in eredità al figlio il resto umano – impossibile da ripulire – della sua merda, come testimonianza della sua umanizzazione più radicale, Si veda Jacques Lacan, Joyce, le symptôme, cit., p. 568. James Joyce, Ulisse, cit., p. 935. 46 47 Telemachia 49 come dono della sua mancanza.48 In Ulisse la scena dell’incontro tra padre e figlio è la scena di un non-rapporto che non lascia nulla in eredità. Anche gli schizzi di urina si separano, hanno direzioni differenti, moti diseguali. Bloom, il padre, e Stephen, il figlio, non sono solo inconciliabili, non indicano solo modi di godimento irriducibili. La posizione di Stephen sembra ancora più estrema, più eretica; in essa sembra risuonare un’obiezione fondamentale che investe il Nomedel-Padre: Padre non vedi che non esisti? Lo abbiamo visto: la Telemachia joyciana è un disabbonamento dal padre, un suo rinnegamento. Eppure Lacan pone il problema di un modo “giusto” di essere eretici.49 Quale sarebbe il modo giusto dell’eresia? In questa formula – essere eretici nel modo giusto – Lacan non ci invita forse nuovamente a pensare che la condizione per fare davvero a meno del padre è solo quella di servirsene? Nessun universale può dire in che cosa consista la giustizia dell’eresia giusta, nessun universale può guidare la vita al di là del Padre-fondamento, del Padre come Legge che assicura l’esistenza dell’Altro dell’Altro. L’eretico è in rivolta permanente contro ogni universale perché sfida l’esistenza dell’Altro dell’Altro, perché ha incontrato la sua inesistenza. Per questo – come dice Lacan di Joyce – egli è un puro individuale.50 Ma questa inesistenza e questa singolarità assoluta non abolisce il problema dell’eredità che per Lacan resta al cuore dell’umano. Casomai, l’interrogazione è obbligata a radicalizzarsi: come si può essere eredi di un Altro che non esiste? Cosa sarebbe l’eredità giusta se in nessun Altro posso trovare la risposta sul senso della mia esistenza singolare? Per Joyce l’eredità giusta è quella del proprio sintomo, è quella della propria opera. Nondimeno questa soluzione – la soluzione offerta dal sinthomo – come quella proposta dal Nome-del-Padre, non potrà mai arrivare a fare esistere l’Altro, “dato – come afferma Lacan – che non c’è Altro dell’Altro a operare il giudizio universale”.51 L’esistenza umana viene all’essere solo sullo sfondo di un vuoto di garanzia. È quel vuoto alla cui organizzazione si vota in modo sublime la pratica dell’arte. Né il sintomo, né il Nome-del-Padre 48 Si veda Philip Roth, Patrimonio. Una storia vera (1991), Einaudi, Torino 2007. Per un commento di questa scena rinvio al mio Cosa resta del padre?, Raffaello Cortina, Milano 2011, pp. 119-123. 49 Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 14. 50 Si veda Id., Joyce il sintomo, cit., p. 164. 51 Id., Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 57. 50 Massimo Recalcati salvano l’umano da quel vuoto. Dal vuoto interno al linguaggio, dal reale impossibile da dire. Né l’eredità, né l’assenza di eredità, salvano da quel vuoto sebbene rendano possibili modi diversi di abitarlo. Il mistero del nome dell’esistenza resta tale sia nella fede nel Nome-delPadre sia nel suo rinnegamento. “Cosa c’è in un nome?”, si chiedeva Stephen Dedalus in Ulisse. “È quel che ci chiediamo già da fanciulli quando scriviamo il nome che ci hanno detto essere il nostro.”52 In questa ambiguità – è l’Altro che dice cosa è nostro, cosa noi siamo nel nostro nome proprio, ma il nome proprio è anche, nello stesso tempo, il reale intraducibile della mia singolarità – si gioca tutta l’impresa dell’esistenza e dell’eredità. “Chi mi ha scelto questa faccia?” chiede Stephen nelle prime pagine di Ulisse.53 Sintomo, sinthome e clinamen: Joyce e la questione del determinismo in psicoanalisi Silvia Lippi Non parleremo direttamente di Joyce e della sua arte (così speciale), ma degli effetti che l’analisi di Lacan di quello che egli chiama “il sinthome di Joyce”, cioè la scrittura, ha avuto sulla concezione e la funzione del sintomo per la psicoanalisi, nel suo rapporto con la ripetizione e i determinismi nel soggetto. C’è un modo di dire “no” alla domanda dell’Altro, di lottare contro la “necessità” imposta al soggetto dall’esterno. Una delle armi per combatterla – si tratta certo di un’arma “pericolosa” – è il sintomo inteso qui come “deviazione” dalla traiettoria programmata del soggetto e supposta determinarlo. Da lì il rapporto tra sintomo e clinamen. Il clinamen è visto da Lucrezio come una deviazione minimale degli atomi (declinare) nel loro percorso verticale, deviazione che permette loro di produrre un cambiamento.1 Il clinamen, nel campo della fisica come in quello della morale, è una deviazione spaziale allo stesso tempo che una necessità logica. Il clinamen – del resto come il sintomo – è una ribellione alla necessità, o meglio, a una necessità che viene al posto di un’altra necessità: per Lucrezio, è una reazione alla dottrina “traumatica” di Democrito che suppone il mondo retto da una necessità assoluta.2 Lucrezio, De rerum natura. Questo punto merita una precisazione: la necessità, secondo Democrito, non è così radicale, egli lascia un po’ di spazio al caso. Possiamo dire che la necessità di Democrito 1 James Joyce, Ulisse, cit., p. 287. 53 Ivi, p. 10. 52 2 52 silvia lippi Partendo da una deviazione nello spazio la “libertà” fa la sua apparizione nel mondo. Il paradosso è che questa libertà viene dall’esterno: ciò non toglie la possibilità al soggetto di essere, in una certa misura, libero, libero di cambiare la sua sorte. La libertà, come la vita, per Lucrezio ci è data. Così come noi non siamo i responsabili della nostra venuta al mondo, non siamo neppure i creatori della nostra libertà, il risultato di questa declinazione spaziale. L’atomo è sottoposto a qualche cosa che gli fa cambiare percorso, e in modo analogo, anche il sintomo è uno “scarto” rispetto alla via determinata dall’Altro e dal suo desiderio. Il cammino è già tracciato per il soggetto, ma, come per l’atomo, c’è la possibilità di divergere dal percorso “deciso”, dall’itinerario fissato in anticipo dal desiderio dell’Altro. In altre parole, il soggetto può “spostare” i significanti del suo destino. Grazie, o meglio, a partire dal sintomo. Il sintomo è spesso il punto di partenza in una cura. È paradossalmente il solo atto “volontario” del soggetto, nel senso che è il suo inconscio che lo “vuole” e che lo dirige. Il sintomo diventa in questo modo qualcosa di “prezioso” per il soggetto: pure restando nel campo del determinismo, esso è, nello stesso tempo, una via di uscita. Il sintomo è simultaneamente un’emancipazione e una costrizione, poiché esso si ripete malgrado il soggetto. dal sintomo come metafora al sinthome Intorno agli anni cinquanta, Lacan, rileggendo Freud, considera il sintomo come una metafora, una sostituzione simbolica che permette un’organizzazione soggettiva più o meno stabile.3 Il sintomo è un ritorno della verità4 che si interpreta attraverso l’ordine del significante; esso prende senso solamente nella relazione con un altro significante. Il sintomo viene al posto del rimosso per esprimere qualche cosa d’impossibile a dirsi per il soggetto (un’immagine, una parola, un affetto…) relativo all’ordine della sua verità “traumatica”, inconscia. ammette l’aleatorio. Si veda Pierre-Marie Morel, Atome et nécessité. Démocrite, Épicure, Lucrèce, puf, Paris 2000. 3 Jacques Lacan, L’instance de la lettre dans l’inconscient ou la raison depuis Freud (1957), in Id., Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 528. 4 Id., Du Sujet enfin en question (1966), in Id., Écrits, cit., p. 234. sintomo, sinthome e clinamen 53 Secondo questo primo approccio proposto da Lacan, il sintomo dipende interamente dalla storia traumatica del soggetto, come se esso non potesse essere nient’altro che “sostituzione”, “rimpiazzamento”, in altre parole “ripetizione”, autòmaton.5 In quanto “nuova necessità”, il sintomo non sembra essere di molto sollievo: il soggetto dipende sempre, e non può sfuggire, da ciò che lo determina. Tuttavia come questo ritorno del passato – un passato che resta in parte misconosciuto, enigmatico, irrisolto – potrebbe liberare il soggetto? In che modo la deviazione spaziale del clinamen coincide con la ripetizione del sintomo? Roberto Harari critica una clinica psicoanalitica che sottomette l’importanza del sintomo al significante.6 La realtà sarebbe allora la stessa e una sola, permanente, senza posto per il cambiamento, sostituibile dagli stessi elementi che hanno sempre lo stesso valore per il soggetto, valore commemorativo del trauma. In questo primo orientamento di Lacan, il sintomo non può essere l’elemento differente, la rottura rispetto al passato, il clinamen. Lacan, alla fine del suo insegnamento, modifica questa visione deterministica, e per marcare questo cambiamento, scrive “sintomo” diversamente: sinthome,7 che riprende un’antica ortografia francese. Lacan dà come esempio di sinthome, la scrittura di Joyce. In Finnegans Wake, scritto nel 1939, come pure nel poema d’amore Giacomo Joyce del 1914, Joyce rompe l’ordine delle parole e il loro accordo con il significato.8 Joyce può liberarsi così del giogo della parola attraverso il suo uso singolare del linguaggio, uso che gli permette di sviluppare tutte le possibilità del godimento, invece di attenersi a un unico senso della parola. Il sinthome non pratica una sostituzione. In quanto avvenimento psichico innovatore – sempre a partire dal passato – esso aggiunge, è “produttore” di godimento (come Freud aveva già riscontrato nel 5 L’autòmaton si oppone al reale traumatico, alla tyche. Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre Les Quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris 1973, pp. 53-62. Si veda Aristotele, Physique, Flammarion, Paris 2000, pp. 134-145. 6 Roberto Harari, Inconscient: clivage; sinthome: clinamen, in “La Clinique lacanienne”, n. 5, Le Symptôme, Erès, Toulouse 2001. 7 Jacques Lacan, Le Sinthome (1975-1976), versione dattiloscritta, lezione del 17 febbraio 1976. Sebbene questo seminario sia pubblicato in Francia (Id., Le Séminaire. Livre xxiii. Le Sinthome, Seuil, Paris 2005) preferiamo utilizzare la versione dattiloscritta. 8 Ivi, lezione del 10 febbraio 1976. xi. 54 silvia lippi sintomo). In questo senso, il sinthome deve essere differenziato dalla sublimazione, in quanto la funzione per il soggetto è altra (Lacan non parla mai di sublimazione nel caso di Joyce). La sublimazione in senso freudiano si legge ancora come una metafora, essa è una sostituzione, o meglio, uno spostamento: spostamento dell’oggetto e spostamento dello scopo della pulsione.9 Certamente, il fatto di scrivere è per Joyce una forma di sublimazione, cioè una deviazione, uno spostamento, una sostituzione della soddisfazione pulsionale. Ma non è questo aspetto dell’arte di Joyce che interessa Lacan, né un eventuale senso nascosto che le parole “insensate”, dissociate, scatenate dei suoi scritti potrebbero svelare. Le parole infatti si associano attraverso processi analogici (suggestioni, amalgami, neologismi ecc.): la scrittura di Finnegans Wake è una scrittura “pulsionale”. Freud parla di “linguaggio degli organi”10 nella schizofrenia, nel quale le parole sono utilizzate “come le cose” e si associano secondo la sonorità piuttosto che secondo il senso. È così che le parole manifestano il loro valore pulsionale, attraverso le assonanze, le allitterazioni, le onomatopee, le sinestesie, i contrasti, le figure. La scrittura di Joyce si mostra come un “trattamento” del godimento. La scrittura come sinthome interessa Lacan anche da un punto di vista psicopatologico e clinico. Ovvero il sinthome è un “trattamento” del godimento instaurato dal soggetto stesso a partire dalla ripetizione del sintomo e dai suoi determinismi. Poiché il soggetto non può rinunciare a questo godimento, l’iscrizione del sinthome è irreversibile, unica, insostituibile; ma il godimento ha già perso il suo valore distruttivo e annientante per il soggetto. Il trattamento del godimento operato dal sinthome non riesce comunque a canalizzarlo, né lo limita, lo riduce ma lo sfrutta, lo sfrutta a partire dalla contingenza. L’inventiva singolare del sinthome permette un’articolazione del godimento con ciò che il soggetto può assumere attraverso la parola. Ci sembra necessario sottolineare la pertinenza di questa clinica nella psicosi in cui, al di fuori degli standard dell’Edipo, il soggetto deve inventarsi una soluzione che permetta di trattare, attraverso la creazione (artistica o no), ciò che appartiene a un reale inarticolabile e che lo minaccia Sigmund Freud, Metapsicologia, in Id., Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. viii, p. 22. 10 Ivi, pp. 81-83. 9 sintomo, sinthome e clinamen 55 nel corpo. Questa clinica determina un’esperienza che apre il soggetto a un’etica della responsabilità del proprio modo singolare di godimento. le due ripetizioni in lacan Il sinthome è un clinamen. Con l’interruzione della necessità, dovuta alla ripetizione in serie del trauma vissuto anche come godimento, l’avvenimento traumatico non è annullato ma, grazie alla ripetizione del sinthome, il soggetto non è più totalmente dipendente dal godimento traumatico (e perduto). Qualche cosa cambia. La ripetizione nel sinthome è al tempo stesso determinismo e libertà. La concezione della ripetizione di Lacan cambia durante il suo insegnamento. Nel 1964, ne I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Lacan afferma che nella ripetizione, dietro l’autòmaton, ossia l’automatismo della catena significante (il Simbolico), ciò che si ripete è sempre la tyche: il “cattivo incontro”, l’incontro con il Reale in quanto mancanza.11 La tyche determina la catena significante e si ripete (autòmaton) all’insaputa del soggetto. Il soggetto è completamente passivo nel processo, pilotato dal Reale e alienato nel Simbolico. Tuttavia nel 1972, nel seminario …O peggio, la ripetizione diventa “una ripetizione che apre al nuovo”. Attraverso un’analisi originale del necessario e del contingente,12 Lacan dimostra che la ripetizione è un ritorno sempre modificato del reale traumatico. Certamente, il nuovo, nella ripetizione, non è dell’ordine dello straordinario e del prodigioso, ma è solamente “un debolissimo scarto nel senso del godimento”, diceva Lacan nel 1969, in Il rovescio della psicoanalisi.13 L’après-coup del trauma, cioè il reale vissuto nella ripetizione, non è una tautologia, nonostante esso si inserisca nella serie traumatica Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre xi, cit., pp. 53-62. Lacan, in questo seminario distingue il transfert dalla ripetizione. 12 Lacan parla della ripetizione come di una necessità, necessità che egli definisce come “non potere non” (“ne pas pouvoir ne pas”). Lacan riunisce il necessario e il contingente nello stesso enunciato. Esso è composto da due locuzioni: “non potere” (“ne pas pouvoir”), ossia il necessario, e “potere non” (“pouvoir ne pas”), ossia il contingente. Jacques Lacan, …Ou pire (1971-72), versione dattiloscritta, seminario dell’8 dicembre 1971. Oggi questo seminario è pubblicato in Francia: Jacques Lacan, Le Séminaire. Livre xix. …Ou pire, Seuil, Paris 2011. 13 Id., Le Séminaire. Livre xvii. L’envers de la psychanalyse (1969-70), Seuil, Paris 1991, p. 56. 11 56 silvia lippi del soggetto. In altre parole, il necessario (il reale che ritorna sempre allo stesso posto) è già contingente (l’imprevedibile, l’improbabile, ciò che può o non può arrivare) nella ripetizione. E la ripetizione è già differenza, distanza, novità. il sinthome turbolento Harari parla della turbolenza nel sintomo.14 Il sintomo turbolento – il sinthome di Lacan – si può situare tra il necessario e il contingente. Per Joyce il necessario è scrivere “pulsionalmente” senza fermarsi; il contingente riguarda l’interrogativo intorno a che cosa diventerà la scrittura. È da notare che Freud parla del sintomo come di un compromesso: compromesso tra il godimento traumatico (il necessario) e la sua impossibilità che apre al nuovo (il contingente) nella ripetizione del sintomo. L’impossibilità di raggiungere il godimento fa cambiare direzione al sintomo (clinamen) che esce dal circolo vizioso e si fa portatore dell’inatteso. Dove troviamo, in Joyce, il contingente (l’inatteso) che si presenta a partire dal necessario? La scrittura permette a Joyce di “farsi un nome” (anche nel senso patronimico, evidentemente), nome che permetterà la circolazione della sua opera nella comunità. La questione del nome patronimico ha sempre costituito per Joyce un problema, infatti non ha voluto riconoscere suo figlio alla nascita (non riusciva neanche a dargli un nome); non ha voluto sposare Nora – e dargli così il suo nome patronimico – prima di essere arrivato all’età di quarantanove anni. E nel momento in cui lo scrittore ottiene finalmente la cattedra di professore all’università di Trieste, Joyce decide di lasciare definitivamente la città. Joyce ha potuto “assumere” il proprio nome solamente quando questo si è associato alla sua attività di scrittore: la scrittura è il clinamen nella vita “determinata” dell’artista, il sinthome che s’instaura, grazie al nome proprio (il nome patronimico) inscritto nella comunità culturale del mondo intero.15 La visione di Michel Serres16 sul clinamen come Roberto Harari, op. cit. 15 “Joyce ha un sintomo che parte da questo: suo padre era carente, radicalmente carente – non parla che di questo. Ho centrato la cosa intorno al nome proprio, ed ho pensato – fate ciò che volete di questa idea – che è grazie al fatto di volersi fare un nome che Joyce ha compensato la carenza paterna.” (Jacques Lacan, Le Sinthome, cit., la traduzione dal francese è mia) 16 Roberto Harari, op. cit. 14 sintomo, sinthome e clinamen 57 inizio di un movimento vorticoso che rende conto della creazione del mondo non è molto differente dalla concezione altrettanto vorticosa del sinthome di Lacan. In fisica, il nucleo di un vortice (o attrattore) è un punto qualsiasi in un’orbita che sembra attirare verso di sé il sistema, mentre il cosiddetto nucleo strano (étrange) ha un percorso singolare nel quale la struttura non attua mai lo stesso movimento.17 Il sinthome può essere considerato un “attrattore strano”, un’inspiegabile combinazione di caso e di ordine, di determinismo e d’imprevedibilità. È un vettore di squilibrio, ma positivo e fecondo, capace di uscire dalla catena significante metaforica, perché è inclassificabile, indefinibile. Forse incomprensibile, ma sicuramente “trasgressivo”, in quanto rappresenta un tentativo, per il soggetto, di indipendenza dal desiderio dell’Altro. Il sinthome può essere considerato allora come un vettore dissipativo di energia libera. Michel Serres pensa che tutto possa nascere dalla deviazione. E l’inconscio, attraverso questa deviazione, instaura un nuovo equilibrio in un sistema aperto, agli antipodi dell’universalmente stabilito. conclusioni La complessità del sistema inconscio presente nel soggetto partecipa di una struttura che non è né determinista, come la psicologia fa credere, né aleatoria.18 Tuttavia, questa struttura permette l’apparizione puntuale della contingenza: all’improvviso, qualcosa accade. La contingenza si presenta a partire dalla multicausalità iscritta nella rete surdeterminata del significante. È il soggetto stesso che produce la sua contingenza, il suo clinamen, e ciò vale per la nevrosi come per la psicosi. Per Lacan, il sintomo deve “cadere”, come sottintende la sua etimologia (la sillaba pto significa “caduta” che deriva del greco ptosis). 17 Id., Le Sinthome turbulent et dissipatif, in “La Clinique lacanienne”, n. 1, Erès, Toulose 2000, p. 42. 18 In matematica, una serie aleatoria, o serie infinita aleatoria, è una serie di numeri che non possiede nessuna struttura, regolarità, o regola di predizione identificabile. Una tale serie corrisponde alla nozione intuitiva di numeri tirati a caso. Sempre in matematica, l’aleatorio può esprimere anche una regolarità paradossale capace di sfidare le regolarità classiche. 58 silvia lippi Ma il sinthome che costituisce secondo Lacan la “particolarità”19 del soggetto, non cade. Può tuttavia modificarsi, può cambiare traiettoria e correggere il percorso “singolare” del soggetto affinché desiderio e godimento siano ancora possibili. Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce Florence Briolais e Michel Mesclier argomento Lacan distingue il “particolare” che riguarda il sintomo, dal “singolare”, concetto proprio al soggetto. Jacques Lacan, Le Plaisir et la règle fondamentale (1975), in “Lettres de l’École freudienne”, n. 24, 1978. Versione disponibile in rete. 19 Durante i suoi viaggi attraverso gli Stati Uniti, Jack Kerouac non smise mai di scrivere, riempiendo numerosi taccuini di una prosa spontanea sul groove trasposto del Bebop. Questa scrittura dell’erranza rinnovò il romanzo americano con l’opera intitolata Sulla strada che, secondo l’autore, era stata ispirata dallo Spirito Santo. Kerouac scriveva senza sosta, mitragliando sulla sua cara Underwood tanto che potremmo dire che rispondesse a una scrittura imposta. Questa dipendenza dalla lettera, così come le citazioni frequenti che trae dall’Ulisse e dal Finnegans Wake, interroga i suoi lettori. Infatti James Joyce, più che una fonte d’ispirazione, fu proprio l’outsider nel quale Kerouac si riconosceva. Sarà per un’analogia di struttura, derivante da un annodamento soggettivo portatore di un lapsus? Un annodamento simile a quello che Lacan sviluppa a proposito di Joyce: un immaginario sganciato dall’articolazione simbolico-reale. Sul filo di questa ipotesi rimarrà da dimostrare: perché due forme di supplenza – una mediante la trance del jazz, l’altra con la scrittura infinita – non dissuasero Kerouac dal suo lento suicidio alcolico? 60 florence briolais e michel mesclier da james joyce a jacques kerouac, una risonanza James Joyce gettò, come un ciclope, l’isola di Ulisse, poi quella di Finnegans Wake nel mare nostrum della letteratura europea, e ingenerò uno tsunami che spazzò via un secolo di leggibilità. L’illeggibile poteva essere letto, il leggibile perdeva la sua evidenza banalizzante. Il mondo letterario non si riprese mai dal sisma che continua a vibrare sotto i tavoli dei mercanti di libri. Gli scrittori autentici riconobbero, in questo ruvido stravagante, un genio di cui sarebbero stati costretti a mandar giù le cacofonie. Ma ben pochi piegarono il proprio stile alle conseguenze di questo shock. I situazionisti, sempre odiosi agli occhi della gente per bene, decretarono che dopo un tale casino la letteratura era morta. Non sospettavano, questi Orlando furiosi dell’anatema, che Joyce avrebbe fecondato una stirpe di autori di cui Jack Kerouac fu la matrice autogenerata. Quelli della Beat Generation poi, al di là del postmodernismo, i poeti della lalingua diseredata dal senso. Jack Kerouac fu un fervente lettore di Joyce, così come di Proust, due scrittori che esigono dei lettori, quando alla maggior parte degli altri sono sufficienti dei semplici “sfoglia pagine”. Joyce è presente in molti dei suoi testi e possiamo sostenere che il romanzo che rese celebre Kerouac, Sulla strada, non sarebbe mai uscito dalla sua Underwood senza la precessione dell’Ulisse. In un breve saggio, Shakespeare e l’outsider, Kerouac delinea l’altissimo lignaggio di Joyce: James Joyce tentò l’impresa di diventare “Shakespeare in sogno” e ci riuscì. Finnegans Wake non è che un puro delirio shakespeariano di sotto, di sopra e dappertutto: “I no sooner seen a ghist of his frighgteousness than I was bibbering with vear e few versett off fooling for fjorg for my fifth foot” e questa che altro non è che la fine di una lunga frase stravagante, puro Ritmo e Sonorità alla Shakespeare ma con le particolarità irlandesi di ispirazione profonda, scure come la torba in Yeats. La citazione dal Finnegans Wake: “Bibbering with vear”1 non viene per caso: Kerouac ne sapeva qualcosa. 1 L’espressione joyciana: “Bibbering with vear” può essere resa con “Poppare la paura a garganella” (traduzione nostra). Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce 61 È strana la passione di Kerouac per Joyce, dal momento che in apparenza nulla li accomuna. Da dove viene questa affinità che fece di Kerouac il passeur di Joyce nella letteratura nordamericana? Tenteremo di chiarire brevemente questa convergenza. Ipotizzeremo una risonanza topologica tra lo spazio soggettivo di James Joyce e quello di Jack Kerouac. Possiamo parlare di una somiglianza di annodamento soggettivo? Bisognerà verificarlo attraverso la singolarità delle loro opere, là dove la struttura si mette a nudo. Cercheremo di mostrare che si producevano per Kerouac delle epifanie, dei momenti fecondi, fonte della sua scrittura. Sono paragonabili alle epifanie joyciane? Kerouac avrebbe potuto costruirsi un Ego con le proprie supplenze? Che posto aveva nel suo sinthomo la sua profonda dipendenza dall’alcol? La sua personale osteria gli valse una morte simile a quella di James Joyce, altro adepto dei baccanali, ovvero per ulcera perforata, anche se localizzata diversamente. La morte è sempre singolare. nascita epifanica di un poeta “Sono nato e la musica ha iniziato a impregnare il mio essere.” Questa nascita è riportata in una lettera di Kerouac indirizzata a un amico poeta, scritta nel 1941, poi ritrovata e pubblicata nel 1995. Ma di quale nascita si tratta? “Folle nascita crepuscolare”, scrive Kerouac. Folle nascita in un momento di estraneità: il bambino di sei anni, solo, tutti i sensi all’erta, sente “[…] questo filo di crepuscolo invernale”, “[…] questa tristezza fugace”. Ci troviamo forse di fronte all’appercezione del bello nel suo stato nascente, esperienza estetica che crea l’annodamento del simbolico e del reale, come accade nell’epifania joyciana? L’assunzione del corpo proprio necessita il passaggio allo stadio dello specchio. Sotto l’egida di una relazione a un Altro desiderante e gratificante, il bambino incontra la propria immagine unificata, immagine corporea riferita al significante fallico, significante del desiderio, che permette l’annodamento di rsi. Se il significante del Nome-del-Padre e il fallo fanno difetto, gli oggetti del godimento, oggetti legati alla prossimità della Cosa, restano allora estranei alla struttura significante e prendono un carattere reale. Il godimento legato a questi oggetti, sganciato dagli orifizi del 62 florence briolais e michel mesclier corpo, farà ritorno in maniera anarchica in tutto il corpo. Gli scritti di Kerouac rivelano, in molte descrizioni, la presenza di fenomeni elementari. Abbondano le testimonianze sulle sue allucinazioni uditive e visive, sulle esperienze di derealizzazione e di depersonalizzazione, sulle erranze affettive e sessuali, aggravate dall’assunzione di droghe, fino agli episodi mistici e alla sua versatilità politica. La vita di questo autore esemplifica la posizione esistenziale qualificata da Lacan come “non-zimbelli”: “I non-zimbelli-errano” (Les nondupes-errent), in cui l’equivoco con “I-Nomi-del-Padre” (Les-noms-dupère) ci dice quanto la struttura ignorata sia articolata al significante del Nome-del-Padre. In sua assenza, l’annodamento borromeo non ha luogo, e il soggetto disarticolato vive sotto la minaccia di divenire viator, viaggiatore errante. La passione del non-zimbello, nei casi di forclusione del significante del Nome-del-Padre, è il rigetto dell’inconscio. Ciò che predispone il soggetto allo scatenamento di una psicosi. Le conseguenze sull’Io sono radicali. L’Io è il rapporto del soggetto all’immagine del corpo, a ciò che fa sì che egli abbia un corpo attraverso la serie delle identificazioni immaginarie. Colui che strutturalmente non vi arriva deve fabbricarsi un Ego, come James Joyce e, ipotizziamo noi, anche Kerouac. Ed è all’interno di epifanie estetiche che viene alla luce l’Ego, nella misura in cui il corpo immaginato si sostituisce al corpo speculare. Le epifanie di Kerouac sarebbero della stessa natura di quelle joyciane? Per rispondere a questa domanda partiremo da questa particolarità che lo stesso Kerouac ci indica: la sua nascita correlata all’impregnarsi del suo essere di musica, più precisamente di jazz. Ricercheremo la traccia dell’emergenza di questi fenomeni epifanici e di ciò che, nell’esistenza di questo soggetto, avrebbe potuto farli precipitare. La musica non è senza legame con la Beat Generation, movimento letterario e artistico degli anni cinquanta, al quale Kerouac darà una veste spirituale: “Generazione della beatitudine”. La sonorità della parola – per lui che è di lingua madre francese – è da accostare alla beatitudine, “beato” in italiano. Associazione che gli sarebbe venuta in una chiesetta, quando la statua della Vergine si sarebbe voltata verso di lui. Ma gli sarebbero poi venute anche altre associazioni, tutte altrettanto interessanti: beat rinvia al battito cardiaco e al drum, la batteria, strumento centrale nel jazz; così come al ritmo, in modo più corrente, Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce 63 dei colpi della pagaia delle canoe. Il termine beat precedette così l’essenza stessa delle opere che avrebbero prodotto gli scrittori beat: scrittura spontanea, automatica, in cui domina la prosodia libera e ritmata, la pulsazione: “Sono nato e la musica cominciò a impregnare il mio essere, i colori indossavano un’intensità profonda e le mie labbra producevano note flautate come quelle che troviamo in Joyce. Le finestre delle case sprofondavano nella tristezza e sono ogni giorno più tristi”. Questo estratto poetico rivela il legame tra l’avvento del poeta e la musica, tra la musica e la poesia. La musicalità come sorgente prima della poesia. Musicalità che rinvia a un termine coniato da Lacan: lalingua. Musicalità della lalingua che evoca questo tempo primordiale della civilizzazione del godimento tramite lalingua, prima messa in forma del godimento e prima difesa (soggetto primordiale) contro l’angoscia inerente all’imminenza del godimento. Questa materia sonora con la quale Kerouac forgia i suoi scritti sarebbe allora l’ultimo sostegno quando i suoi appigli immaginari iniziano a cedere. E la musica funzionerebbe come un antidoto alla melanconizzazione di Kerouac, alla sua aspirazione a godimenti mortali. Questa sarà la nostra ipotesi. Gli scritti di Kerouac sono il palinsesto della sua vita. Ci rifaremo precisamente a due testi, che si inscrivono sulle tracce cancellate del reale: il primo è un testo “seminale”, Visioni di Gerard,2 scritto tra il 1° e il 16 gennaio del 1956, nell’arco di dodici notti; unico all’interno della sua bibliografia, narra l’esperienza del secondogenito della famiglia Duluoz, soprannominato Ti Jean. Durante il suo quarto anno di vita il bambino vivrà uno sconvolgimento dalle conseguenze irreversibili: la perdita del fratello maggiore Gerard, morto a nove anni in seguito a un reumatismo articolare acuto. Questo racconto ha dunque come cornice gli ultimi mesi della breve vita di Gerard. Ritroviamo in questo testo la presenza della lalingua come ultima risorsa di Ti Jean, lasciato solo, privato del suo supporto immaginario. Il secondo testo è quello a cui ci siamo già riferiti: La mia folle nascita crepuscolare.3 Quale posto occupava Gerard nella vita di Ti Jean, Ti Jack Kerouac, Visioni di Gerard (1963), Mondadori, Milano 1999. Id., Ma folle naissance crépusculaire (1941), in “Nouvelle Revue Française”, giugno 1999, n. 521, pp. 8-9 (traduzione nostra). 2 3 64 florence briolais e michel mesclier Pouce? Quale impronta lasciò questo fratello nella vita e nell’opera di Kerouac? La breve vita di Gerard è raccontata secondo il modello della vita dei santi e sarà solo più tardi che le parole pronunciate da Gerard sveleranno la loro portata profetica. Kerouac attribuirà a suo fratello il ruolo di colui che lo ha iniziato alla propria aspirazione mistica: “Fu solo molti anni dopo, (…) che mi sovvenni dell’assoluto e immortale idealismo impartitomi dal mio santo fratello – E ancor più tardi con la scoperta (…) del Buddismo, Ridestamento –”.4 Le ultime parole mormorate dal bambino morente furono raccolte, ma non rivelate, dalle religiose della scuola parrocchiale di San Luigi di Francia dove si recava Gerard. Queste note criptiche presero una dimensione abissale, lasciando a Jack Kerouac il compito di rispondere a questo segreto: “(…) l’unica ragione per cui mi sono mai messo a scrivere, sfiatandomi a mordere invano con penna e inchiostro, gran dio con indifendibile consumabile matita è per via di Gerard l’idealismo, Gerard mistico eroe – ‘Scrivete in onore della sua morte’ (Écrivez pour l’amour de son mort) (come chi dicesse, scrivete per amore di Dio) – (…)”.5 La perdita reale di Gerard fece precipitare il fallimento dell’immaginario di Ti Jean. Nel paradiso della prima infanzia i due fratelli facevano Uno, essendo Gerard il doppio di Ti Jean. Infatti, finché un soggetto non sperimenta allo specchio l’assunzione soggettiva di se stesso come corpo unificato e separato dall’altro, questo altro resterà un prolungamento del proprio corpo. Il soggetto dovrà allora costruirsi un doppio (un fratello, un animale o il personaggio di un fumetto) che si trovi sul lato dello Stesso, dell’identico e non sul lato dell’alterità: “Nei primi quattro anni della mia esistenza, mentre lui era vivo, io non ero Ti Jean Duluoz, ero Gerard, e il mondo era il suo viso, quel fiore di viso, l’andatura curva e spenta, la santità struggente, i suoi insegnamenti di dolcezza (…)”.6 Privato della presenza di suo fratello malato, Ti Jean si aggrapperà alla loro lingua comune, il francese canadese del Québec (il joual). Lingua orale familiare da cui è uscita la lalingua e le mimiche imitative che sosten Id., Visioni di Gerard, cit., p. 11. Ivi, pp. 112-113. 6 Ivi, p. 7. Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce 65 gono le sue lallazioni: “Tutto solo nel cuore del pomeriggio, siedo sugli alti gradini di legno, in fondo alla sala della Pesca di Beneficienza del St. Louis e mi sforzo di imitare il suono che si sente quando arrivano da Nashua lo zio Mike Duluoz con la moglie e tutti i Duluoz che sono venuti a trovarci e si siedono in salotto a lamentarsi –: ‘E BUÀ! E BUÀ!’ – ”.7 I giochi sonori e di imitazione sono atti a sostenere l’edificio delle identificazioni immaginarie. Ma quando Gerard muore, Ti Jean si trova a vivere un momento di derealizzazione, di estraneità allucinatoria: “Gerard è morto, l’anima è morta, il mondo è morto”, scrive Kerouac.8 Tutto ciò che costituiva il suo mondo appare di colpo svuotato di sostanza e di senso; indizio di una catastrofe soggettiva seguita da un episodio prossimo alla catatonia, segno di grande depressione in un bambino così piccolo. La musica di un vecchio Victrola, un grammofono degli anni venti, farà uscire il bambino dal suo torpore. Egli mimerà e costruirà scenari sonori a partire dalla musica; fantasmagoria che verrà a immaginarizzare il reale e a placare il dolore della perdita reale, fuori senso, fuori simbolico. A otto anni, Jack creerà i propri fumetti, a undici scriverà dei romanzetti e a diciassette il suo primo romanzo alla Ulisse, intitolato Vanità di Duluoz. Come trattare l’innominabile, l’impensabile? Scrivere. Scrivere senza tregua affinché risuoni The Beat o pulsazione, “martellamento ritmico” della pressa di suo padre Leo, mastro tipografo; e “Il suo cuore sotto la camiciuola”.9 Pulsazione che borda il godimento pulsionale e per risonanza dà consistenza al corpo. Questo testo inedito, La mia nascita crepuscolare, scoperto nel 1995, è una lettera indirizzata nel 1941 al suo amico poeta Samy Sampa. Kerouac ha diciannove anni. Autentica testimonianza di un’esperienza soggettiva nella quale si presenta una modificazione spontanea della percezione estremamente acuta della realtà, e l’avvento non tanto di un soggetto quanto di un Ego, nel senso in cui lo intende Lacan a proposito di James Joyce. Questo Ego risulta dagli effetti dell’opera sul suo autore. Ivi, p. 107. Ivi, p. 112. 9 Ivi, p. 13. 4 7 5 8 66 florence briolais e michel mesclier La mia folle nascita crepuscolare. Il giorno in cui sono nato, il suolo era coperto di neve e il sole al tramonto tingeva le finestre di fronte di un’antica malinconia rossa come in sogno. Camminavo verso casa con il mio slittino, avevo sei anni. Tutto ad un tratto mi sono immobilizzato, lo sguardo fisso, sereno sul marciapiede di Centralville.“Cosa c’è?” mi chiesi notando il soffio improvviso di un momento di tristezza mentre sorvolava le falde dei nostri tetti. “Cos’è questa cosa strana che vedo?”. È così che vengo al mondo nel febbraio 1929 appena prima di cena.10 Il 1929 è l’anno del grande crack finanziario, fine ineluttabile della speculazione galoppante che proietta gli Stati Uniti nella miseria più nera. Questo evento si situa due anni dopo la morte di Gerard. La sera del crollo in borsa suo padre, piccolo tipografo, non ancora toccato dalla crisi, porterà la moglie al cinema. Ti Jean e sua sorella Nin, rimasti soli, cantano fino a notte una vecchia canzone francese: Pierre et Jacques dormez-vous, dormez-vous? Canzone che evoca il legame con la madre, attraverso la lalingua che si presenterà come risposta all’assenza della coppia genitoriale; allusione pressoché impercettibile alla scena primaria e al padre reale. “Mi piacerebbe volare nello spazio per raggiungere le autentiche onde sonore prodotte dalle nostre canzoni in questa notte del 1929. Immagino che ora le parole siano da qualche parte al di là di Urano, ma mi piacerebbe tanto salire là in alto per ascoltarle attraversare lo spazio, cantare e risuonare nel buio.” I bambini hanno un bel cantare, questo non tratta nulla del reale della perdita, nella misura in cui non passa per il simbolico, per la castrazione. Jack Kerouac ha a che fare con la voce come La Cosa, vale a dire con un godimento intero non decompletato. Per passare da La Cosa, das Ding freudiano, all’oggetto a in quanto più di godere, vale a dire svuotato del godimento in eccesso, occorre che ci sia la castrazione. Per passare dall’oggetto caricato di un troppo di godimento (l’oggetto causa di angoscia) a un oggetto a svuotato di questo godimento in eccesso (l’oggetto causa di desiderio), è necessario prima di tutto che il significante del Nome-del-Padre sia iscritto nella struttura. È necessario poi che la metafora paterna metta in funzione Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce il fallo simbolico, significante che permette di articolare gli oggetti più di godere a questa struttura simbolica, dopo averli svuotati. È l’operazione della castrazione. Jack Kerouac non sembra disporre né del Nome-del-Padre né del fallo. Gabrielle, sua madre, non sosteneva né la parola né la funzione del padre. Possessiva, sospettosa, presentava molti tratti di una personalità paranoica. Il suo antisemitismo era paragonabile solo alla sua omofobia. Davanti ad Allen Ginsberg, altro poeta celebre della Beat Generation, disse: “Vedo bene che siete uno di quelli, come mio marito” (marito che a quel tempo era morto). Suo figlio Jack e il culto mariano furono le sue passioni più profonde. Kerouac scriverà: “Mi ha fatto semplicemente per benedire il suo cuore? Il suo voto è stato esaudito”.11 Gli oggetti del godimento, legati alla prossimità della Cosa, restano estranei alla struttura significante, slegati da essa, rimangono non avvenuti per il soggetto, vagano in uno spazio infinito. Gli oggetti del godimento per Kerouac sono dei pozzi senza fondo, come il baratro del cosmo al di là di Urano. Non vi è alcun significante che li connetta alla struttura. Voce errante nello spazio infinito. Nel suo lavoro sulla lalingua, sulla pulsazione, egli non cerca forse di catturarli per legarli alla struttura? In questo senso la sua creazione letteraria avrebbe lo scopo di trattare il reale della sessualità e della morte, dal momento che la lettera annoda il reale al simbolico. Come trovare le parole giuste per descrivere questa nascita? Fu qualcosa di singolare un’ossessione intensa. Questo filo di crepuscolo invernale mi colse – per la prima volta nella mia breve vita, fui sorpreso dal suono delle voci infantili, dall’odore della neve al crepuscolo, dalla condensa che esalava dalla mia bocca a ogni espirazione gelata e, soprattutto, da quella vecchia tristezza fugace che planava teneramente al di sopra delle case rosseggianti di Centralville. “Ebbene, allora!” mi dico, “Allora!”12 Nascita, in un momento di inquietante estraneità, nascita del sentimento del bello, esperienza estetica che crea l’annodamento del simbolico e del reale, come nell’epifania quale la definisce Joyce in un passaggio di Stephen Hero: il bagliore di cui parla è in scolastica Id., Desolation Angels, Coward McCann, New York 1965 (traduzione nostra). Id., Ma folle naissance crépusculaire, cit., pp. 8-9 (traduzione nostra). 11 Jack Kerouac, Ma folle naissance crépusculaire, cit., pp. 8-9 (traduzione nostra). 10 67 12 68 florence briolais e michel mesclier Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce 69 quidditas, l’essenza dell’oggetto. L’artista percepisce questa qualità suprema nel momento in cui la sua immaginazione concepisce l’immagine estetica. In questo istante misterioso lo stato dello spirito è stato mirabilmente paragonato da Shelley alla brace prossima a estinguersi.13 L’esperienza di Kerouac bambino è un’epifania che annuncia la nascita dell’Ego del poeta. L’Ego in quanto corpo immaginato si sostituisce all’immagine speculare. Ma l’accesso allo speculare resta problematico per Kerouac. L’esperienza epifanica non produce in lui un immaginario consistente. Egli resta prigioniero dell’identità del doppio, cioè di un’immagine reale.14 Appoggiato a un fratello idealizzato, è nel misticismo imitativo che cercherà una supplenza. Prima con la religiosità cattolica, poi con l’iniziazione al buddhismo e con il ritorno al fondamentalismo cristiano. Nelle sue estasi, nei suoi satori, Kerouac raggiunge il proprio “corpo astrale”, equivalente del corpo glorioso del fratello morto. Poco più in là in questa lettera, Kerouac scriverà: “Camminavo dunque così sul marciapiede con la mia slitta, e improvvisamente ho visto tutto. L’antico chiarore del sole agonizzante, i camini da cui fuoriusciva un filo di fumo cupo, i banchi di neve rosa e tristemente ingobbiti – e sono nato”. la voce, con la narrazione, con i personaggi e con i sogni. Thomas Wolfe invece gli insegnò “a vedere l’America come un poema e non come un luogo dove battersi e sbavare”.15 Lacan preciserà nel 1973, nel suo seminario Les non-dupes-errent che: Avvento di un poeta nella folgorazione evanescente dell’esperienza. Nascita di un poeta nell’istante in cui il sole muore e si consuma il bagliore della brace. La scrittura sorge per Kerouac là dove si cancella la luce del padre. E l’ultima frase ci indica come entri in “parentela” con James Joyce, autore che egli aveva letto e al quale si riferisce con queste parole: “Sono nato e la musica cominciò a impregnare il mio essere, i colori indossavano un’intensità profonda e le labbra emanavano note flautate come quelle che troviamo in Joyce. Le finestre delle case sprofondavano nella tristezza e sono ogni giorno più tristi”. Parentela nel senso che Kerouac si è appoggiato a degli S1 che ha prelevato da grandi scrittori, come Joyce e Shakespeare, per il loro saperci fare con quando le supplenze non creano un ego consistente: 13 James Joyce, Le gesta di Stephen (Stephen Hero) (1944), “I Meridiani”, Mondadori, Milano 1974, pp. 543-790. 14 Si veda Jacques Lacan, Nota sulla relazione di Daniel Lagache (1960), in Id., Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1966, vol. ii, pp. 674-679. In queste due espressioni, dei Nomi-del-padre (Noms-du-père) e dei Nonzimbelli-che errano (Non-dupes qui errent), c’è in gioco lo stesso sapere, nel senso che l’inconscio è un sapere grazie al quale il soggetto può decifrarsi. E, c’è decifrazione del soggetto dell’inconscio, fino al punto in cui un senso pone termine alla decifrazione stessa. Il senso si situa nella dimensione (dit-mansion) immaginaria, nella misura in cui l’immaginario è un’intuizione di ciò che bisogna simbolizzare. Quanto al simbolico, esso veicola il reale in una forma cifrata.16 Con la sua scrittura Kerouac resta nel campo della finzione romanzesca. Questa produzione incessante è un tentativo di immaginarizzare il reale, di costruirsi un immaginario, di delimitare il godimento. Ma l’annodamento tra il reale e il simbolico, generato dall’epifania e dall’accompagnamento ideale dei grandi autori, non gli permetterà per questo di costruirsi un Ego. La lettera si rivelerà impotente a cifrare il reale. il nodo di kerouac Chiunque legga le sue biografie non può sospettare la presenza di una struttura psicotica in Kerouac. Ora, le sue opere sono una miniera clinica per lavorare sulle psicosi contemporanee, quelle del tempo dell’erranza e della cornucopia di godimenti. E simultaneamente vi troviamo, agente come un pharmakon, la marca degli effetti della lettera nel reale. L’intenso e continuo lavoro di scrittura al quale si votò Kerouac dall’adolescenza finì per generare uno spazio reticolare che riparava le lacune del simbolico. Ma l’atto di scrivere, divenuto per lui imperativo superegoico, lo spingeva, così come il suo dolore di esistere, alla dipen Jack Kerouac, Vanity of Duluoz, Coward-McCann, New York 1968 (traduzione nostra). Jacques Lacan, Les non-dupes-errent, 1973, inedito. 15 16 70 florence briolais e michel mesclier denza dagli stupefacenti e dall’alcol; ricerca di sostanze disinibitrici atte a modificare la realtà corrente. Questo spazio, fatto di una scrittura realmente imposta, prese la consistenza di un immaginario virtuale che veniva per lui al posto del corpo. In questo spazio finzionale si operava il sorgere di un corpo non avvenuto nel campo speculare. Dal momento che l’opera agiva come supplenza dell’immaginario inconsistente, la sua produzione non doveva cessare pena il crollo di questa precaria ripresa esistenziale. La costrizione della scrittura imposta era vitale per Kerouac. Egli scriveva senza tregua, ovunque. Come il ragno che fila la sua seta, Kerouac tesseva la trama di un Ego la cui consistenza differiva da quella di Joyce. James Joyce aveva avuto un corpo, scollegato poi perduto come una buccia in occasione di una memorabile scarica di botte. Kerouac non disponeva che del corpo come precipitato di oggetti prespeculari e del corpo glorioso del fratello morto. Joyce si costruì un Ego rispettabile, collocato stabilmente all’Università. Mentre Kerouac non riuscì a costruirsi altro che un Ego senza fissa dimora, sostenuto da supplenze vacillanti. La testimonianza di Jack Kerouac sulla sua “folle nascita crepuscolare” mostra come il fenomeno epifanico, a partire da un’esperienza originale, sorgesse dal reale per fecondare la creazione del poeta. Questa epifania precoce, così come quelle che seguirono, si manifestavano come un luccichio al cuore del campo scopico, lì dove il campo visivo minacciava di disgregarsi; a differenza delle epifanie di James Joyce che si producevano nell’alone sonoro delle voci della strada. La grafomania che registrava questi istanti si dispiegava come un riparo dalla regressione al di qua dello stadio dello specchio. Potremmo ipotizzare che questo neoimmaginario, annodandosi al simbolico, ingenerasse un godimento che bisognerebbe qualificare con un’olofrase ossimorica: un godimento “fallico-forcluso”, a cui furono sensibili generazioni di lettori. Così l’incessante scrittura divenne opera. In altri termini, sinthomo. Quando parliamo di supplenza, supponiamo che il sintomo che supplirà all’assenza del Nome-del-Padre sarà di stampo nevrotico, altrimenti non arginerebbe la follia. Ora, Lacan fa di questo tipo di sintomo, nevrotico nella psicosi, una categoria nuova che designa con un termine dalla grafia antica: sinthomo. E poi mette in funzione il sinthomo a proposito dell’opera di James Joyce. Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce 71 La clinica psicoanalitica attuale tende a generalizzarlo, ma non senza confusione. Infatti non fa sinthomo tutto ciò che si presenta come produzione cosiddetta creativa. Il sinthomo, per meritare il suo statuto di firma unica e irriducibile di un parlessere, deve provocare una risonanza presso gli altri parlesseri, i dissimili dei legami sociali. Il sinthomo deve ristabilire il legame sociale rotto dalla psicosi. È questa la sua virtù fondamentale. Può, secondo la sua qualità, provocare più di un’eco; può generare delle turbolenze nella soggettività contemporanea, così come in quella futura, se la perturbazione che induce è sufficientemente geniale da modificarne il regime. Il sinthomo non è un sintomo ridotto né un fantasma attraversato. Il sinthomo è una creazione emanata da un corpo che gode, creazione che prende molteplici e singolari forme alle quali altri corpi saranno sensibili. Per riprendere un termine utilizzato da molto tempo dai musicisti, molto prima che questa parola si diffondesse in tutti i media, ciò che segnala la presenza di un sinthomo è il groove che provoca, come lo swing nel jazz o il duende nel flamenco: il momento di grazia. Tuttavia l’opera maggiore di Kerouac, Sulla strada, è una sfida per l’imprudente che vi si avventura. La prospettiva che vi si trova è incessantemente falsata da un gioco di specchi e le finte porte pullulano come in un labirinto borgesiano. Scritto negli anni della fine della Seconda guerra mondiale, Sulla strada rompeva con il modello romanzesco che andava per la maggiore negli Stati Uniti intorno a Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Dashiell Hammett, o John Dos Passos. Questo testo, che Kerouac considerava alla stregua di un romanzo-poema, sovvertiva i tre principi che al tempo stesso orientavano i romanzieri e i critici che di essi si nutrivano: il senso, la coerenza, l’unitarietà del testo. Sulla strada, che si presenta come il resoconto dal vivo delle tribolazioni di due amici in viaggio da est a ovest degli Stati Uniti, ha conosciuto un lungo purgatorio dal momento che fu proposto agli editori nel 1951 fino al 1957 quando venne pubblicato in versione purgata. Soltanto nel 2010 fu pubblicato nella sua versione integrale, a partire dal rotolo dattiloscritto. Quest’opera segna un mutamento nella produzione nascente dell’autore. Il suo primo romanzo, Città e metropoli, apparso nel 1950, resta di fattura classica mentre Sulla strada, nel quale Kerouac si volle 72 florence briolais e michel mesclier “libero come Joyce”, inaugura uno stile radicalmente nuovo. Tutte le risorse dell’inglese nordamericano, con le sue origini semantiche poliglotte, il suo tempo flessibile, la sua musicalità concreta, vengono mobilitate per trascrivere l’immediatezza della vita, ricevuta come una trance immanente, captata, come preciserà l’autore stesso in questa intervista “Ai margini del linguaggio, là dove inizia il balbettio del subconscio”. Questa scrittura parlata, spontaneista, progredisce in reticoli per realizzare la cartografia di uno spazio interiore soggettivamente vissuto nelle fibre dello spazio geografico percorso dal viaggiatore. Potremmo, per abbordare questo romanzo e le opere posteriori, fare appello alla nozione topologica delle trecce. Ma per il momento ci atterremo a una topologia dei nodi classica, per come ci viene indicata nel seminario Il sinthomo. Per mostrare il differenziale nodologico Joyce/Kerouac, riprendiamo due allacciamenti: l’allacciamento egoico joyciano e il nodo di Lacan, il cui scacco ci è parso rispondere del mancato annodamento di Kerouac. Perché scegliere per Kerouac lo scacco del nodo a cinque incroci di Lacan? Perché per ripararlo occorre nominare almeno due supplenze, dal momento che il lapsus porta su un indecidibile tra gli incroci 4 e 5. Un errore su uno dei due riporta il nodo a zero. Abbiamo affermato in precedenza che la supplenza della scrittura funzionava per Kerouac soltanto se il suo testo si metamorfizzava nell’analogo di una partitura jazz. La supplenza tramite la creazione letteraria viene raddoppiata da una supplenza fondata sul rapporto al jazz. Lo afferma lui stesso, nella sua testimonianza sulla sua nascita come poeta, ma anche in questa intervista: “Voglio essere considerato come un poeta del Jazz che suona un lungo blues durante una Jamsession una domenica pomeriggio. Prendo 242 cori, le mie idee variano e a volte passano di coro in coro o dal bel mezzo di un coro al centro del coro seguente”. Questi cori, del suo sassofono mentale, sono quelli della raccolta Mexico City Blues, la più jazz di tutte, che egli compose in occasione di un viaggio in Messico nel 1955. Inoltre, non possiamo trascurare il suo intenso e permanente rapporto con la religione che partecipa, vedremo come, alla costruzione del suo sinthomo. Ci ritorneremo dopo aver mostrato questi schemi: Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce 73 2 R 3 1 4 5 S L’Ego correttore Nodo di Lacan Nodo di Kerouac Attraverso questa serie di nodi intendiamo mostrare che il sinthomoKerouac differisce dall’Ego joyciano. Kerouac non dispone di un’articolazione S-R. Per lui c’è continuità del reale e del simbolico su uno scacco del nodo a cinque.17 La sua riparazione si effettua localmente, 17 La figura in alto a sinistra, l’Ego correttore, è quella proposta da Lacan per mostrare la correzione del lapsus di annodamento in Joyce grazie a un Ego. Si veda Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 148. La figura in alto a destra, Il nodo di Lacan, è quella del nodo, derivato dal nodo di Listing, a cui Lacan dà il suo nome. Si veda ivi, p. 89. La figura in basso, il nodo di Kerouac, è una proposta per mostrare un’ipotesi di annodamento per Kerouac. Abbiamo volontariamente invertito i colori. Il simbolico, essendo 74 florence briolais e michel mesclier per effetto di una curva lemniscata,18 come nel nodo del fantasma,19 con un punto doppio all’incrocio dell’anello. Tale potrebbe essere l’Ego di Kerouac, anche se la sua instabilità non gli permette di sostenersi stabilmente come soggetto, come nel caso di Joyce. Questa labilità dell’Ego dipende dalla proprietà del punto doppio. Il punto doppio (detto anche punto critico) nella teoria dei nodi (invariante di Vassiliev), segnalato da Jacques-Alain Miller nell’appendice del Seminario xxiii, Il sinthomo,20 è equivalente a un taglio, o a un allacciamento. Esso permette ai fili del nodo di attraversarsi, di sovrapporsi, modificando la qualità stessa del nodo. Potete immaginare un punto doppio come due piccole calamite a contatto: finché la polarità è +/–, rimangono solidali; se la polarità si inverte, si respingono e il nodo si può aprire. Nell’annodamento del sinthomo di Jack Kerouac questo punto doppio è la religione. Il suo misticismo è in effetti delirante, esito della sua relazione melanconica con il fratello morto. Posizione molto instabile. Dal momento in cui si tuffa nel buddhismo, egli si identifica molto velocemente con un santo, poi al Buddha della Compassione. Alla fine della vita vira verso un cattolicesimo integralista. È precisamente a questo punto che la supplenza sinthomatica di Kerouac può sfaldarsi e far precipitare il soggetto in una regressione topica al di là dello speculare. Secondo questa configurazione, una supplenza “a punto doppio” diviene l’equivalente di un sogno o di uno pseudofantasma. Così, il sinthomo-Kerouac aggancia un immaginario di sintesi alla continuità reale, diventa blu (tratteggiato in figura) e il reale rosso (puntinato in figura). (I): lo pseudoimmaginario è un ibrido, da cui la sua colorazione composita (tratteggiato e puntinato in figura). Va notato che l’errore di annodamento sfocia in modo indecidibile su uno degli incroci interni, là dove avviene la riparazione grazie alla curva lemniscata. 18 Una lemniscata è una curva piana a forma di otto piatto (∞). Possiede due assi di simmetria perpendicolari. Questi si tagliano in un punto doppio della curva, al tempo stesso suo centro di simmetria. Questa curva, descritta da Giovanni Domenico Cassini nel 1680, fu riscoperta nel 1694 da Jacques Bernoulli nel corso dei sui studi sull’ellissi e le sue variazioni. Nella scrittura matematica simbolizza l’infinito. 19 Nei seminari Ancora (1973) e Il sinthomo (1975), Lacan ci propone una scrittura nodale del fantasma. Il nodo del fantasma si presenta come un annodamento semplice a 8 piatto, paragonabile a una lemniscata senza punto doppio e tenuta da un anello che gli conferisce la qualità borromea. 20 Jacques-Alain Miller, Note passo passo, in Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., pp. 214 e sgg. Di una scrittura infinita. Kerouac Sulla strada di Joyce 75 R-S caratteristica della schizofrenia. Designeremo questo allacciamento come il nodo di Kerouac che, al cuore, custodisce la scrittura infinita. della musica prima di ogni “cosa” In un senso clinico più generale, il punto doppio può mostrare la bipolarità maniaco-depressiva di un soggetto. Al polo depressivo il punto doppio è in posizione bloccata. Il falso nodo si stringe sull’oggetto e il soggetto aderisce alla superficie. Nel caso di Kerouac abbiamo reperito questo punto di melanconia nella persona del fratello. Possiamo dunque ipotizzare che Gerard sia stato, nel reale, il nome del buco dell’oggetto orale primitivo. La dipendenza dall’alcol trova qui la sua causa. Al polo maniacale questo punto doppio è aperto. Il nodo si disfa, l’oggetto evapora e il soggetto si dilata all’infinito. È allora che Kerouac subisce il richiamo irresistibile dello Spazio, dell’Aperto. Nella sua schizofrenia controllata Jack Kerouac viveva queste grandi oscillazioni timiche, mal regolate dal ricorso all’alcol. Le sue erranze geografiche corrispondevano probabilmente a queste oscillazioni dell’umore con un movimento periodico di ritorno, di nostos, al grembo materno. La sua scommessa di poeta di fare musica del significante, ritmo, sonorità, testimonia la volontà di realizzare, in questo punto di incrocio di supplenze, l’unione mistica di due arti: la poesia che immaginarizza il simbolico e la musica che immaginarizza il reale. Il corpo è il luogo di risonanza di questa commistione paradossale. Infatti il jazz, più di ogni altro genere musicale, eccita le armoniche del corpo. Kerouac adolescente fu attraversato dal genio del jazz, di cui abbiamo sottolineato il valore contromelanconico. Il jazz rappresentò per lui la voce profonda che cantava all’interno della propria voce. Egli fu il solo scrittore nordamericano che si spinse a infondere in un’opera letteraria il groove proveniente da questa sorgente pulsante. Sulla strada ce ne offre dei begli esempi, così come molti altri testi quali Washington D.C. Blues o anche quelli contenuti nella raccolta, già citata, Mexico City Blues.21 Jack Kerouac, Mexico City Blues (1959), Newton Compton, Roma 2011. 21 76 florence briolais e michel mesclier È nella 90ma strofa che ritroviamo la figura patetica di Gerard, il fratello morto santificato. Parole imposte Bibiana Morales Credevo d’essere un fantasma, io, proprio io. A soffrire. Una notte vidi Mio fratello maggiore Gerard Chino sulla mia culla coi capelli Scarmigliati, (…) quel fantasma era mio fratello22 Questo fratello che fu precocemente il suo doppio, che occultò l’accesso strutturante allo stadio dello specchio e del quale abbiamo mostrato il ruolo nel rendere melanconico Kerouac bambino. Era necessario che Kerouac mescolasse le sincopi della poesia alla tristezza infinita del blues per domare questa apparizione che attraversava lo specchio? Ma, al di là del blues, l’incontro decisivo fu quello con il Bebop, che nasceva tra i vagiti del sassofono di Charlie Parker. Un passaggio del romanzo Bella bionda e altre storie rivela che Jack Kerouac non poteva concepire questa invenzione se non sotto forma di epifania: Il Bop è cominciato con il Jazz, ma un pomeriggio da qualche parte su un marciapiede, forse nel 1939, 1940, Dizzy Gillespie o Charley Parker o Thelonious Monk passarono davanti ad un negozio di vestiti da uomo, sulla 42ma strada o South Main a L A e nell’altoparlante hanno sentito di colpo un errore folle impossibile nel jazz che non avrebbe potuto essere ascoltato che all’interno della loro testa immaginaria, e questa è un’arte nuova. Bop.23 Sì, avete inteso bene, il Bebop ebbe inizio con un’epifania, proprio come il poeta Jack Kerouac, con un rosso crepuscolo d’inverno. La lezione che Lacan tiene nel seminario Il sinthomo in data 17 febbraio del 1976 è dedicata alla questione delle parole imposte e procede dall’insegnamento relativo alla presentazione di un malato. Venerdì 13 febbraio 1976 ha luogo la presentazione che è l’occasione per Lacan di parlare delle “parole imposte” nell’ambito del seminario su Joyce. È quindi un insegnamento che ci mostra il modo in cui Lacan si lasciava insegnare dal soggetto. Lacan mette in relazione questa presentazione e il seminario su Joyce nella forma di una conseguenza logica tra l’uno e l’altro. Il paziente, il signor Gérard Primeau si presenta a Lacan come “disgiunto a livello del linguaggio”, “disgiunto tra il sogno e la realtà”. Anche il suo nome è spezzato da una sorta di omofonia tra geai (la ghiandaia, un uccello) e rare (raro, la rarità). Lacan gli chiede di parlare di ciò che egli chiama “la parola imposta”. Egli spiega a Lacan: la parola imposta è un’emergenza che s’impone al mio intelletto e che non ha nessun significato nel senso comune. Sono delle frasi che emergono, che non sono riflessive, non sono già pensate, ma che sono dell’ordine dell’emergenza, ed esprimono l’inconscio […]. Esse emergono come se io fossi stato manipolato, non so come avvenga, ma quest’emergenza s’impone al mio cervello. Id., Mexico City Blues, cit., p. 115. Id., Good, Blonde and Others, Greyfox press, Mechanicsville (va) 1993 (traduzione nostra). 22 23 Le frasi imposte sono accompagnate da un “ma” che si aggiunge a una “frase riflessiva”, “cioè una frase che gli appartiene, una frase non 78 Bibiana Morales imposta, che secondo i significanti del paziente compensano le parole imposte”. “Tendo a recuperare le frasi imposte.” Per Lacan, il “ma” è nella lingua l’indicatore dell’eccezione. “Tutto ma non questo.” Il “ma non questo” è la prima definizione di sinthomo che dà nel seminario. Con questo “ma” il soggetto prova a sottrarsi a questa imposizione della parola e a recuperare il suo posto di soggetto. Il soggetto cerca di dare un senso a questo messaggio venuto dal nulla e che lo invade in maniera parassitaria. Sollecitato da Lacan, il paziente offre un esempio di parola imposta: “sporco assassinio politico” che fa equivalere a “sporco assistentato politico”. Egli spiega a Lacan che si tratta di “contrazione di parole” tra “assassinio e assistentato”. Lacan s’interessa a questo scivolamento significante, a questo “garbuglio sonoro” tra assistentato e assassinare. Poiché questo implica la morte del soggetto. Questa frase resta senza possibilità di riflessione, da parte del soggetto. Lacan dirà a questo proposito, nell’ambito del seminario: “si vede bene come il significante si riduca qui a quello che è, ossia all’equivoco, a una torsione di voce”.1 Per questo paziente certe frasi restano imposte, non le può fare sue. Benché cerchi di “compensare”, come dice, o di opporre a una frase imposta un’altra frase “riflessiva” entro la quale egli è soggetto, questa compensazione non è sufficiente. In assenza di un delirio o di un’altra invenzione da parte sua le frasi imposte precipitano verso un altro sintomo, la telepatia. Lo dice il soggetto stesso: “la telepatia accade a livello della parola”. La parola imposta diventa telepatia. Questa telepatia lascia il soggetto nell’angoscia di essere spiato dall’Altro. Sono gli altri che percepiscono i suoi pensieri. Il suo tentativo di trattare la parola imposta diventa una parola percepita dall’Altro. Diventa un telepatico emittente. Le sue frasi riflessive sono percepite dai suoi simili, ma non trovano una significazione. I suoi pensieri sono trasmessi via radio o televisione, non gli appartengono più. Poteva gestire il suo sintomo iniziale, le parole imposte. Poteva stabilire un margine, un limite a questa imposizione dell’Altro, raggiungendo una propria riflessione. Con la telepatia, si trova a essere costantemente invaso. Questo soggetto ha un certo rapporto con la scrittura. Dice a Lacan di essere un poeta e un creatore. La parola imposta ha per lui Parole imposte una forza creatrice, “la parola può fare la forza del mondo”, dice a Lacan. “Avevo scritto un poema che si chiamava Venurio, che è una contrazione tra Venere e Mercurio. Era una sorta di Elegia.” Ma la sua scrittura non fa da limite al Reale di questa parola imposta che diventa telepatia. Questo caso permette a Lacan di formulare diverse domande. La prima: “Come mai non avvertiamo tutti che le parole da cui dipendiamo ci sono in qualche modo imposte?”.2 La seconda questione lo porta a interrogare i limiti di un uomo normale, che non si rende conto dell’imposizione della parola e quelli di un malato che sente questa imposizione della parola. Per Lacan, la questione delle parole imposte, introdotte dal suo paziente durante la presentazione del malato, è sensata, normale. È così che ciascun soggetto deve avere a che fare con la parola imposta. La parola ci preesiste, siamo anche noi manipolati dall’Altro, ma il fatto di dare senso a questa parola implica una posizione soggettiva. La parola non appartiene più all’Altro ma al soggetto. Questo spiega i tentativi di questo soggetto per fare propria questa parola imposta. La parola è imposta a tutti, la parola è il parassita, il cancro che affligge l’uomo, ci dice Lacan. “Come mai alcuni arrivano ad avvertirlo? Certo è che in Joyce sembra esservene traccia.”3 Per Lacan Joyce ha fatto della parola imposta un sinthomo, arrivando a decomporre la lingua inglese. La sua arte è un modo di liberarsi di questa parola ma contemporaneamente la parola s’impone sempre di più. “Difficile non evocare a proposito di Joyce il mio paziente, come la faccenda era iniziata per lui. Riguardo alla parola, non si può negare che qualcosa fosse, a Joyce, imposto.”4 Il progredire dell’opera di Joyce verso la dissoluzione della lingua, evidenzia questa imposizione della parola. La sua opera è costruita in modo tale che Joyce arriva a fare di questa imposizione della parola un sinthomo che s’impone al linguaggio stesso. Joyce ci mostra, nella sua opera, come l’autonomia della lettera invada i suoi scritti, al punto di farli divenire totalmente illeggibili, e al contempo distruggendo il senso della lingua. La scrittura gli permette di scomporre la parola. Tra il Ritratto dell’artista da giovane e Finnegans Wake Ibidem. Ibidem. 4 Ivi, p. 92. 2 Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 91. 1 79 3 80 Bibiana Morales esiste tutto un lavoro dove la parola che all’inizio si impone, finisce per essere disarticolata dal soggetto stesso. Il percorso del suo lavoro mostra il viraggio prodotto da questo Altro che si impone al soggetto e il soggetto che si impone all’Altro attraverso l’arte. “Ho scoperto che posso fare con il linguaggio tutto quello che desidero”, diceva Joyce. La parola imposta implica la voce e nell’opera di Joyce essa occupa un posto particolare, soprattutto la voce del padre. In Ritratto dell’artista da giovane e nell’Ulisse sono numerosi i paragrafi che alludono a voci invasive per il soggetto. Un estratto del Ritratto dell’artista da giovane può servire da esempio: Finché la sua mente aveva continuato a seguire i suoi fantasmi intangibili o a desistere irresoluta da una simile ricerca, Stephen si era sentito intorno costanti le voci del padre e degli insegnanti, che lo incitavano a essere un gentiluomo sopra tutto il resto e un buon cattolico sopra tutto il resto. Queste voci gli suonavano ormai vacue nelle orecchie. […] Nel mondo profano, come prevedeva, una voce mondana gli avrebbe ordinato di risollevare coi suoi sforzi la condizione del padre e intanto la voce dei suoi compagni di scuola lo incitava ad essere un compagno come si deve, a coprire gli altri dai rimproveri, a chieder per loro il perdono e a fare del suo meglio per ottenere giornate di vacanza per tutti. Ed era il frastuono di tutte queste voci vacue che lo faceva fermarsi irresoluto nella sua ricerca di fantasmi. Non prestava orecchio a queste voci che per un momento, ma si sentiva felice soltanto quando ne era lontano, oltre il loro richiamo, solo o in compagnia di compagni fantastici.5 Troviamo in queste righe una voce che invade il soggetto ma allo stesso tempo, egli riesce a sbarazzarsi delle voci. Bisogna anche notare che la voce nella sua opera evidenzia tutta la musicalità e la sonorità. Richard Ellmann segnala nella sua biografia di Joyce come questi mettesse l’accento sulla “sonorità, il ritmo e il gioco verbale; il senso gli appariva indifferente o trascurabile”. Questo ci ricorda che non si legge il senso di uno scritto. Diceva, parlando dell’Ulisse, che se il lettore non riusciva a capirlo, non doveva fare altro che leggerlo ad alta voce. In una lettera a sua figlia Lucia ecco cosa scriveva Joyce: “Sa il cielo che cosa significa la mia prosa […] ma è piacevole a udirsi”.6 Per Joyce, Finnegans Wake James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane (1943), Adelphi, Milano 2005, p. 110. Richard Ellmann, James Joyce (1962), Feltrinelli, Milano 1964, p. 793. Parole imposte 81 è musica e non letteratura, per non parlare del suo testo Musica da camera. Non bisogna dimenticare che non era solo un grande scrittore ma anche un grande cantante. Diceva di avere la voce del padre, un grande tenore del suo tempo. È necessario segnalare la differenza tra voce e parola. La voce è un oggetto che si articola alla catena significante, la voce, secondo Lacan, “non si situa in rapporto alla musica o alla sonorità ma in rapporto alla parola”. Dopo la morte del padre (nel 1931), Joyce diceva di sentire la sua voce. “Sento mio padre che mi parla. Chissà dov’è.”7 Lacan ci mostra come la voce che s’impone al soggetto e che egli non riconosce come sua, forzi il soggetto a dare una risposta per cercare di articolare questa voce o per sbarazzarsene. (L’abbiamo visto nel caso della presentazione del malato, dove la frase imposta era articolata con un “ma” posto dopo la frase riflessiva, così che il soggetto la riconosceva come propria.) Scrivere è un mezzo per sbarazzarsi di queste voci, di poubelliser,8 dirà Lacan con un gioco di parole tra “pubblicare” e “gettare nella spazzatura”. Nel caso della presentazione del malato, non è la questione della parola imposta che inquieta Lacan, ma l’evoluzione di questo sintomo in telepatia. È su questo punto che si introduce tutta la differenza relativa a ciò che può fare il soggetto con questa parola imposta. Riuscirà o meno a prendere le distanze da questa posizione? Non trova più vie di scampo a questa invasione dell’Altro. E questo lo porta di fatto a due tentativi di suicidio. Questo rapporto con la telepatia permetterà a Lacan di scorgere, nel rapporto di Joyce con sua figlia Lucia da lui ritenuta essere telepatica, la sua psicosi. Lucia era schizofrenica. Anche lei era la rivelatrice della carenza del padre di Joyce; cioè la telepatia mette in questione la trasmissione simbolica da padre a figlio per tre generazioni. Pertanto quel che arriva a Lucia è un indice della carenza paterna di Joyce e della sua impossibilità ad assumere la malattia della figlia. Questa questione della carenza del padre fa riferimento a un rapporto tra padre e figlio dove è il figlio che si trova a dover supplire all’inefficacia della funzione del padre. Il sinthomo di Joyce viene a supplire la carenza del padre, perché suo padre non ha potuto operare per lui. Nel Ritratto dell’artista da giovane è evidente la valenza poco signi7 6 8 Ivi, p. 732. Trasformare in spazzatura, “spazzaturizzare” (N.d.T.). 5 82 Bibiana Morales ficativa che ha la parola del padre. Il padre non ha voce per i figli, evidentemente egli ha una voce ma la sua parola non sortisce effetti sui figli. È il figlio che deve sostenere il padre, fabbricare il padre con il suo nome perché non può fare appello al nome di suo padre. Così il padre di Stephen gli dice: “Io ti parlo come a un amico. Stephen. Non credo che un figlio debba avere paura del padre. No, ti tratto come tuo nonno trattava me quand’ero un giovincello. Somigliavamo più a fratelli che a padre e figlio”.9 Il signor Dedalus parla poi a suo figlio di suo padre, cioè del nonno di Stephen: Non dimenticherò mai il primo giorno che mi colse a fumare. […] D’un tratto passa il genitore. Non dice nulla e non si ferma neanche. Ma il giorno dopo, domenica, eravamo usciti insieme a passeggio, tornando a casa, tira fuori il portasigari e dice: “A proposito, Simon, non sapevo che fumavi” […] “Se vuoi fare una buona fumata,” mi dice “prova uno di questi sigari.”10 Il padre tratta il figlio da amico, si somigliano l’un l’altro. In questo modo il padre non occupa il posto necessario per operare (da cui il tema della carenza del padre che Lacan aveva usato per parlare della fobia di Hans). La carenza del padre risale qui a tre generazioni (il nonno, il padre e il figlio). Il rapporto con sua figlia è allora rivelatore della carenza del padre, non perché lei sia schizofrenica, ma perché Joyce crede alla sua telepatia. Nelle lettere di Joyce possiamo vedere come lui stesso non amasse fare la parte del padre severo. Egli era simile a sua figlia: “Lucia si fida solo di me e crede che nessun altro capisca una parola di quello che dice. Ma approfitta anche del mio carattere indulgente”.11 La fiducia cieca in sua figlia è un indice del rapporto con il suo sintomo, tanto più che per Lacan la conseguenza logica delle parole imposte è la telepatia. La convinzione circa la telepatia di sua figlia è riscontrabile in quello che Lacan chiama il prolungamento del suo sintomo. “Se la mia prosa è difficile da comprendere, perdiana, anche la tua scrittura è difficile da decifrare, facciamo il paio.”12 Per Joyce, sua figlia parla un linguaggio curioso e tronco che è la sua particolari James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, cit., p. 119. Ibidem. 11 Richard Ellmann, op. cit., s.p. 12 Gilbert Stuart, Lettres de James Joyce, Gallimard, Paris 1961, p. 460. 9 Parole imposte 83 tà. Lui è il solo a capirlo. Condivide con la figlia un codice inaccessibile agli altri. Egli ha, con sua figlia, una sorta di rapporto di complementarietà. Questo prolungamento del sintomo al quale Lacan allude è in qualche modo un prolungamento della relazione duale. Jung, che è stato per un breve periodo il terapeuta di Lucia, diceva a proposito del rapporto particolare tra Joyce e sua figlia: “Lucia e suo padre […] erano come due persone che vogliono toccare il fondo del fiume, una cadendo, l’altro immergendosi”. Lucia era l’ispirazione di suo padre. “La sua Anima, cioè la sua psiche inconscia, si è così solidamente identificata a sua figlia che ammettere la sua follia sarebbe stato come ammettere per se stesso una psicosi latente.”13 Questa idea di Jung conferma quella di Lacan relativa a un prolungamento del sintomo nella relazione duale con sua figlia. Questo dimostra la carenza del padre nella misura in cui il rapporto tra la figlia e il padre non è simbolico. Al suo posto, c’è un rapporto puramente immaginario, un rapporto di complementarietà. L’idea di Lacan è, giustamente, che l’ego abbia una funzione riparatrice per Joyce. L’ego di Joyce è legato alla scrittura. In questa logica, l’io (moi) di Lucia è un prolungamento dell’ego di Joyce. Ciò spiega la sua fede nell’arte della figlia e l’impossibilità per Joyce di accettare la follia di quest’ultima. Se crede alla telepatia di sua figlia (conseguenza logica delle parole imposte) è in quanto il sintomo di lei tocca il suo. Crede al proprio sintomo quindi le crede. Intanto bisogna tenere conto della differenza tra i due sintomi. Benché esista un rapporto logico tra il sintomo del padre e quello della figlia, non sono assolutamente equivalenti. Joyce aveva la certezza che sua figlia fosse dotata di una seconda vista. D’altra parte la scelta del suo nome è legata alla santa patrona della vista, santa Lucia. Non dimentichiamo la grave malattia che lascia Joyce quasi cieco. La sua fede in Lucia è altrettanto cieca. Questa fede è per Lacan in rapporto con il suo proprio sintomo. Joyce non poteva riconoscere la follia in sua figlia, perché, secondo la logica proposta da Lacan, questo avrebbe implicato riconoscere la propria follia. Per lui, sua figlia era un genio, un’innovatrice incompresa. Ammetteva apertamente: “‘Ogni scintilla di talento che io possiedo, è stata trasmessa a Lucia’ diceva con amarezza, ‘e le ha acceso un fuoco nel cervello’”.14 10 Ibidem. Richard Ellmann, op. cit., p. 737. 13 14 84 Bibiana Morales Joyce difendeva sua figlia dalla diagnosi dei medici e ancor di più degli psicoanalisti. Credeva che sua figlia sarebbe guarita per mezzo dell’arte. L’ha spinta a scrivere e a disegnare. Pensava che sarebbe diventata, come lui, una grande artista. Troviamo nella sua biografia e nelle sue lettere i tentativi disperati di Joyce per tenerla fuori dalla casa di cura e per guarirla. È Joyce stesso che decide le cure più adeguate per guarire la figlia e arriva a pensare di poterla guarire lui stesso opponendosi quindi a qualsiasi intervento psicoanalitico. Scrisse alla signorina Weaver: “L’ultima terapia che aveva ideato fu di dare a Lucia quattromila franchi per comprarsi una pelliccia, ‘giacché sono convinto che ciò le farà passare il complesso d’inferiorità assai meglio della visita d’uno psicanalista’”.15 Più sua figlia si aggravava, più lei diventava importante per Joyce. Anche riuscire a terminare il suo ultimo libro, Finnegans Wake, diventa difficile a causa della malattia di sua figlia. Lui stesso si ammala e si deprime. Nel febbraio 1934 Lucia è internata in una casa di cura e pertanto allontanata definitivamente dalla casa di famiglia. Qualche mese dopo la sua partenza, Joyce scrive una poesia, Epilogue to Ibsen’s “Ghosts”. In questa poesia parla di un padre (il capitano Alving) che ha due figli, uno sano e l’altro malato. Il figlio malato si scopre essere il figlio di qualcun altro; il padre era stato ingannato. My spouse bore me a blighted boy, Our slavey pupped a bouncing bitch. Paternity, thy name is joy When the wise sire knows which is which. Both swear I am that self-same man By whom their infant were begotten. Explain, fate, if you care and can Why one is sound and one is rotten.16 Ivi, p. 749. Ivi, p. 758. (Epilogo per “Spettri” di Ibsen: “Mia moglie mi diede un figlio malato / la serva una florida puttanella. / Paternità il tuo nome è gioia / per il saggio, quando si sa chi è il padre. // Codeste giurano che sono stato io / a generare i due rampolli. / Spiega, destino, se puoi e vuoi, /perché l’uno è sano e l’altro è marcio”. Trad. it. di J. Rodolfo Wilcock in James Joyce, Poesie, Mondadori, Milano 1951, p. 759.) 15 16 Parole imposte 85 Questa poesia è la sola in cui è evocata la malattia della figlia, tanto che Joyce stesso si stupisce del proprio testo. Nella misura in cui la malattia della figlia avanzava, Joyce si ammalava sempre di più. L’allontanamento dalla figlia lo deprimeva e metteva in ansia Lucia. In una lettera a Miss Weaver datata maggio 1935 Joyce scrive: “quando lei era vicino a me sentivo sempre che avrei potuto capirla quanto me stesso, e, in effetti, era così”.17 Riscontriamo qui una sorta di complementarietà tra padre e figlia che non dà a Lucia uno spazio di soggetto. Il termine di Finnegans Wake implica la fine della scrittura. “Ho tentato di tutto” diceva Joyce. Soffriva d’insonnia e diceva di avere allucinazioni uditive e visive. A proposito del rapporto con sua figlia diceva: “La gente parla dell’influenza mia su mia figlia, […] ma perché non parla dell’influenza sua su di me?”.18 Joyce crede anche di aver predetto nei suoi testi dei fatti che si sono realizzati. Come sua figlia si ritiene dotato di una seconda vista. Come spiegare dunque questa sorta di reciprocità tra padre e figlia? Lucia risponde con il suo sintomo a quello del padre. Ma il suo sintomo non è equivalente a quello del padre. Anche se entrambi sono colpiti da questa parola imposta, ciascuno risponde diversamente. È proprio nella stessa lezione del suo seminario che Lacan – dopo aver sottolineato il rapporto tra Joyce e sua figlia – si sofferma sull’elaborazione intorno all’equivalenza e al rapporto. Quando non c’è equivalenza sessuale, c’è rapporto, e dove c’è rapporto, c’è sintomo. Così il prolungamento di un sintomo rientra in questa logica del rapporto tra due, sostenuto dalla non equivalenza sessuale. Questa parola imposta, sintomo del padre, diventa per la figlia, in maniera molto più grave, il messaggio dell’Altro che la invade completamente. Essa non fabbrica un sinthomo come suo padre. Il sintomo della figlia è in rapporto a quello del padre ma a lei manca l’arte del padre che le consenta di trattare la parola imposta. La telepatia è così la conseguenza logica di questo messaggio invasivo dell’Altro. L’arte si è imposta a Joyce ma per Lucia le cose vanno diversamente, malgrado i tentativi di suo padre di farla diventare una ballerina, una pittrice o una scrittrice. Questa parola imposta diventa, nell’impossibilità del soggetto di liberarsi da questa imposizione dell’Altro, un messaggio via via più invasivo. Gilbert Stuart, op. cit., p. 458. Richard Ellmann, op. cit., p. 772. 17 18 86 Bibiana Morales Per concludere possiamo affermare che il caso della presentazione del malato e il rapporto tra Joyce e Lucia mettono in evidenza la differenza che c’è tra il sintomo e il sinthomo (come riparatore). Il soggetto risponde sempre con un sintomo, costruito in rapporto all’Altro, per tutti più o meno imposto. Ma saperci fare con questa parola imposta, implica una risposta inventata dal soggetto. Così Lacan mette l’invenzione al posto del sinthomo. “Ridurre questa risposta a essere sintomatica vuol anche dire ridurre ogni invenzione al sintomo.”19 Lacan evoca l’imposizione dell’Arte e dell’invenzione. Parlando del rapporto con il reale, afferma: “ […] ho inventato, giacché mi si è imposto”.20 L’invenzione è così l’unica possibilità di saperci fare con il reale. A fianco della parola imposta, possiamo aggiungere l’invenzione imposta. “Non serviam.” Tirannia del linguaggio e libertà degli stili Giovanni Bottiroli 1.“I will not serve”, io non servirò, dice più di una volta Stephen Dedalus nel Portrait.1 A che cosa intende ribellarsi Stephen, a quale norma? A quale disciplina, a quale “torturante” disciplina? Che quest’aggettivo possa venir riferito alla presa che il linguaggio esercita sulla condizione umana, è Lacan ad affermarlo: “La psicoanalisi dovrebbe essere la scienza del linguaggio abitato dal soggetto. Nella prospettiva freudiana, l’uomo è il soggetto preso e torturato dal linguaggio”.2 Poche righe sopra, Lacan parla di un ritorno alla verità di Freud, attraverso la linguistica moderna. Dunque la linguistica aiuta Lacan a dire la verità sulla verità di Freud: la linguistica, quella saussuriana in particolare, svolge per Lacan un ruolo “aléthico” (mi riferisco ovviamente alla concezione della verità come alétheia, che più di una volta egli riprende da Heidegger). Possiamo dire che, reciprocamente, nell’alleanza tra psicoanalisi e discipline linguistiche, la psicoanalisi è in grado di svolgere un ruolo aléthico per quanto riguarda la verità del linguaggio? Senza dubbio questa è la convinzione di Lacan. E se alétheia significa “trarre fuori dal nascondimento”,3 dobbiamo chiederci che cosa è nascosto nel fenomeno del linguaggio: che cosa non si manifesta in ciò che 1 Jacques Lacan, Il seminario. Libro xxiii, cit., p. 130. 20 Ivi, p. 129. 19 James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane (1943), Adelphi, Milano 2009. Jacques Lacan, Il seminario. Libro iii. Le psicosi (1955-56), Einaudi, Torino 1985, p. 276. 3 Martin Heidegger, Essere e tempo (1927), Longanesi, Milano 2005. 2 88 giovanni bottiroli chiamiamo fenomeno, e che dovrebbe essere, etimologicamente e concettualmente, manifestazione. Si ricordi che nascosto non equivale a “celato nelle profondità”. L’inconscio non sta in cantina più di quanto non stia in soffitta, e il nascondimento riguarda la superficie non meno della profondità. Nascosto vuol dire latente, non accessibile a uno sguardo che crede di vedere. Nelle lezioni del Séminaire ii che anticipano l’ouverture degli Écrits, cioè Le Séminaire sur “La Lettre volée”, Lacan osserva: Nel reale, l’idea stessa di un nascondiglio è delirante – per quanto uno scenda nelle viscere della terra a portare qualcosa, non lo nasconde, poiché se c’è andato lui potete andarci anche voi. Non può essere nascosto che ciò che appartiene all’ordine della verità. È la verità che è nascosta, e non la lettera. Per i poliziotti, la verità non è importante, per loro c’è solo la realtà, ed è per questa ragione che non la trovano.4 Non c’è verità senza conflitto con la non-verità. Questo passo è molto heideggeriano, tuttavia non dobbiamo limitare la nozione di alétheia al conflitto tra essere-nascosto e svelamento (o scoprimento): quest’opposizione è troppo semplice, rischia di essere ripetuta sterilmente, come un refrain. Non è esattamente questo che è accaduto nel campo dell’ermeneutica? L’alétheia resta suggestiva e oscura, senza un’ulteriore analisi. 2. Quando si affronta la questione del linguaggio, sembra necessario mettere Lacan contro se stesso: occorre ritrovare una conflittualità feconda, grazie a cui Lacan ha inaugurato – parallelamente a Heidegger – una via difficile e complessa. Cercherò adesso di indicarla, di ritrovarla, nel periodo in cui, come si dice frequentemente, Lacan privilegiava il registro del Simbolico. Anziché insistere sull’evoluzione che ha poi condotto Lacan ad accentuare il ruolo del reale, vorrei mostrare la disomogeneità nella concezione del Simbolico. Questa disomogeneità attraversa l’intero movimento strutturalista. Il fatto che non sia stata percepita adeguatamente dai suoi protagonisti non ci deve sorprendere: un ritardo di consapevolezza metodologica è del tutto normale quando si sperimentano nuove forme di pensiero. A distanza di tempo, però, la frattura che attraversava il movimento 4 Jacques Lacan, Il seminario. Libro ii. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955), Einaudi, Torino 2006, p. 231. “non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili 89 è diventata visibile. Vorrei distinguere allora tra due versioni dello strutturalismo: uno strutturalismo che chiamerò grammaticale, e che ha i suoi rappresentanti più emblematici in Jakobson e Lévi-Strauss, e uno strutturalismo che chiamerò trasformazionale, una linea di ricerca minoritaria dal punto di vista delle adesioni, e che trova la sua espressione più convincente in Lacan (ma anche in alcuni saggi di Barthes). Contro questa distinzione si potrebbero avanzare delle riserve, ricordando i debiti di Lacan nei confronti di Jakobson e di Lévi-Strauss. Non intendo negarli: la mia tesi è che la vera concezione lacaniana del linguaggio non poteva essere jakobsoniana e neppure lévi-straussiana. Che cosa caratterizza lo strutturalismo grammaticale – che è anche la posizione rispetto a cui si è definito polemicamente, in maniera semplicistica ma non del tutto ingiustificata, il post-strutturalismo? Potremmo sintetizzarlo in tre tesi: i) il soggetto è un effetto del linguaggio o, se si vuole, è interamente avvolto dal linguaggio; ii) il linguaggio è un fenomeno eteroclito; può essere studiato solo se si introduce la distinzione saussuriana tra langue e parole (e si concentra la ricerca sulla langue); iii) la langue ha due significati: è un insieme di abitudini sociali, ed è un campo di virtualità. Ma poiché queste virtualità sono governate dalle abitudini sociali, da convenzioni diffuse, il primo significato prevale sul secondo. L’ambito della libertà e della singolarità può essere trovato soltanto nelle realizzazioni individuali (la parole). A queste tesi occorre probabilmente aggiungerne una quarta: per lo strutturalismo, la linguistica è la scienza pilota, ma per lo strutturalismo grammaticale c’è un settore che svolge un ruolo “pilotante” e modellizzante, ed è la fonologia. Di qui la nozione di struttura, definita in base a un inventario limitato di elementi e alle regole di una combinatoria.5 5 “Ora la struttura del significante, come si dice comunemente del linguaggio, è di essere articolato. Questo vuol dire che le sue unità, da dovunque si parta per disegnare le loro sovrapposizioni reciproche e i loro inglobamenti crescenti, sono sottomesse alla doppia condizione di ridursi a elementi differenziali ultimi, e di comporsi secondo le leggi di un ordine chiuso.” (Jacques Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud [1957], in Id., Scritti [1966], 2 voll., Einaudi, Torino 1974, p. 496) 90 giovanni bottiroli Qual è la posizione di Lacan? Senza dubbio egli condivide la prima tesi, che potremmo anche chiamare “tesi di avvolgimento”. Per esempio, in Fonction et champ scrive: I simboli avvolgono infatti la vita dell’uomo con una rete così totale da congiungere prima ancora della sua nascita coloro che lo genereranno “in carne e ossa”, da apportare alla sua nascita insieme ai doni degli astri, se non ai doni delle fate, il disegno del suo destino […].6 Dobbiamo ritenere che Lacan condivida anche le altre tesi? Io parlerei di un consenso provvisorio e parziale. Non attribuirei frettolosamente a Lacan un consenso rispetto alla terza tesi – che, in ogni caso, esige dei chiarimenti. In Saussure non sembra esserci contrasto tra le due accezioni della langue, come insieme di abitudini e come sistema virtuale. Tuttavia, possiamo attribuire a Lacan anche “la tesi di abitudine”? Nei termini del Seminario xi: l’autòmaton della langue sarebbe eluso soltanto dalla tyche della parole? 3. Dobbiamo tornare a Heidegger e a quella che è forse l’affermazione maggiore di Essere e tempo: nel paragrafo 7 si dice che “Più in alto della realtà (Wirklichkeit) si trova la possibilità”.7 La “maggiore altezza”, il rango maggiore o superiore del possibile rispetto all’effettuale non va inteso nel senso dell’universalità (perché l’essere – precisa Heidegger – non è un concetto di genere, e non va pensato come una svaporante generalità). Qualunque domanda sull’essenza – anche le domande non essenzialiste, costrette a presentarsi nella forma grammaticalmente fuorviante del “che cos’è” – qualunque domanda sull’essenza va intesa come una domanda sulla possibilità, sul poter-essere. L’affermazione del paragrafo 7 va compresa e sviluppata tenendo conto della differenza tra modi d’essere: la possibilità dell’ente che noi stessi siamo (il Dasein) è diversa da quella che caratterizza l’ente intramondano, inteso come semplice-presenza (Vorhandenheit), oppure utilizzabilità (Zuhandenheit). Ora, qual è il modo d’essere del linguaggio? Qual è il suo statuto ontologico? Somiglia, o quantomeno si avvicina, a quello del Dasein? Forse questa domanda non viene mai posta Id., Funzione e campo della parola e del linguaggio (1953), in Id., Scritti, cit., p. 272. Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 66. 6 7 “non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili 91 esplicitamente da Heidegger, tuttavia dai suoi scritti è derivabile una risposta non ambigua: – il linguaggio è la casa dell’essere. Dunque la sua dimensione è ontologica, e non ontica; – il linguaggio è attraversato dal conflitto tra modi. A questo proposito c’è un passo molto perspicuo in Che cosa significa pensare: Le parole non sono termini (Die Worte sind keine Wörter) e quindi non sono simili a secchi e botti, da cui si possa far uscire un contenuto esistente (vorhanden). Le parole sono sorgenti che il dire scava, sorgenti che di continuo devono essere cercate e scavate, che facilmente franano, ma che a volte anche sgorgano all’improvviso. Senza il continuo rinnovarsi dell’accesso alle sorgenti, i secchi e le botti restano vuoti o ciò che li riempie (ihr Inhalt) resta qualcosa di stantio.8 La quasi totalità dei lettori – almeno a mia conoscenza – si ferma alla prima definizione: il linguaggio è la casa dell’essere, dunque non è un mero strumento, un utilizzabile. Noi non parliamo, piuttosto siamo parlati dal linguaggio. Non si può che concordare, evidentemente, con la critica alla concezione strumentale del linguaggio. Ma Heidegger dice molto di più, presenta una visione conflittuale del linguaggio: un conflitto modale, perché riguarda i differenti modi del linguaggio. Questi modi li chiamerò stili di pensiero, o anche regimi di senso. Quali sono i modi più essenziali? Questo è un problema di articolazione. Dobbiamo recuperare la definizione più bella, e più saussuriana, del Corso di linguistica generale: “Si potrebbe definire la lingua il regno delle articolazioni”.9 Si noti che in questo passo Saussure non parla di significanti e di significati – eppure sta definendo la langue! Egli sceglie come prospetti8 Id., Che cosa significa pensare? (1954), 2 voll., SugarCo, Milano 1978, vol. ii, p. 23. Giocando su una particolarità della lingua tedesca, per cui das Wort ha un plurale Wörter che indica le parole come meri vocaboli, Heidegger si richiama al principio di non-coincidenza: “le parole non sono parole”. Si noti ancora la contrapposizione tra il contenuto dei segni verbali inteso come semplicemente-presente (come una Vorhandenheit) e il significato che sgorga, come un getto d’acqua che può assumere forme diverse. Due concezioni del significato, due diversi modi semantici. 9 Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), Laterza, Roma-Bari 1970, p. 137. 92 giovanni bottiroli va un concetto che “sta più in alto” (cioè che ha una forza prospettica superiore) di significante e significato: il concetto di “articolazione”. 4. Siamo in una zona decisiva di convergenza tra il pensiero di Heidegger e quello di Lacan. Il linguaggio viene pensato a partire dalle possibilità dell’Esserci, e non dalla semplice-presenza o dall’utilizzabilità. Cerchiamo di precisare molto rapidamente questa differenza: le possibilità di uno strumento sono quelle previste da chi lo ha progettato, sono delimitate dal suo funzionamento (senza escludere usi “impropri”, contestualmente imprevedibili, ma che non mutano lo statuto strumentale dell’oggetto). Naturalmente, in una certa misura, anche il linguaggio può essere concepito e impiegato come uno strumento. Ma quali sono invece le sue possibilità non strumentali? Queste possibilità dipendono dalla pluralità dei tipi di articolazione. La langue dei linguisti presenta soltanto un tipo, cioè l’articolazione che chiamerò separativa – quella che Saussure mostra nello schema dei due flussi.10 Vorrei aprire una breve parentesi: per valutare se la novità e la forza del pensiero strutturalista sono state adeguatamente comprese, possiamo usare come criterio anzitutto la presenza o l’assenza di questo schema (non strettamente nella sua forma grafica, ma nel suo ruolo concettuale). Se non ci sono riferimenti allo schema dei due flussi, ciò implica che il pensiero di Saussure non è stato capito, e anche i discorsi sul primato del significante, così frequenti in ambito lacaniano, sono di corto respiro. Che Lacan abbia compreso bene il significato rivoluzionario della linguistica di Saussure, è provato dai suoi riferimenti: lo schema viene descritto e compare esplicitamente nel Séminaire iii (capitolo xxi); viene menzionato nell’Instance de la lettre dans l’inconscient, quando Lacan scrive: Si impone dunque la nozione di uno scivolamento incessante del significato sotto il significante – illustrato da Saussure con un’immagine che assomiglia alle due sinuosità delle Acque superiori e inferiori nelle miniature dei manoscritti della Genesi. Doppio flusso in cui sembra troppo tenue il tratto di riferimento costituito dalle sottili righe di pioggia disegnate dai punteggiati verticali presunti limitare dei segmenti di corrispondenza.11 Ibidem. Jacques Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio, cit., p. 497. “non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili Da questa descrizione allegorico-metaforica vorrei trarre due aspetti: – la metafora della pioggia, delle righe di pioggia – così Lacan indica ciò che per Saussure sono le articolazioni, cioè “la serie delle suddivisioni contigue proiettate, nel medesimo tempo, sia sul piano indefinito delle idee confuse, sia su quello non meno indeterminato dei suoni”.12 – ma anche il carattere tenue (mince) delle righe di pioggia. Questa percezione ci suggerisce uno sviluppo del pensiero di Saussure. Senza dubbio, la finezza o sottigliezza delle articolazioni non basta a mettere in discussione il loro stile, che è il separativo. Le articolazioni descritte da Saussure sono rigide – il che non significa, si badi, che siano statiche. Anzi, possono cambiare e tendono a cambiare continuamente: ma una rigidità che subentra a un’altra rigidità non cambia il regime articolatorio, non lo rende flessibile. Tuttavia la tenuità può essere intesa come una resistenza superabile: possiamo allora immaginare articolazioni non separative (o disgiuntive), bensì congiuntive. Possiamo immaginare una versione estrema del congiuntivo, che chiameremo confusivo – un regime fatto di sovrapposizioni, sconfinamenti, accavallamenti, ibridazioni. Joyce è il maggior rappresentante di questo regime, in letteratura. La lingua di Finnegans Wake è una lingua congiuntiva/confusiva: è costituita da una serie interminabile di puns, o calembour, che in italiano vengono chiamati parole-valigia. Un esempio: sansglorians – un termine che condensa diverse parole di diverse lingue: sang, sans, sanglot, glory, gloria, glorians, e altre ancora, se si vuole proseguire questo esercizio di articolazione nei confronti di un termine denso. Userò la parola densità per indicare questa forte concentrazione semantica. Il principio di densità è una delle forze che governano i sogni, Freud l’ha chiamata condensazione (Verdichtung). 5. C’è tuttavia un punto essenziale che va chiarito. I fenomeni congiuntivi/confusivi nascono nell’ambito della parole, della performance (Chomsky), insomma del discorso e della realizzazione individuale? 10 11 93 Ferdinand de Saussure, op. cit., p. 136. 12 94 giovanni bottiroli Una lettura canonica di Saussure e della linguistica moderna risponderebbe affermativamente. Dunque, tutti i casi di trasgressione delle frontiere separative avrebbero un carattere derivato, e non originario. Qual è il postulato implicito in questa posizione? È il postulato letteralista, cioè la tesi di un’anteriorità del linguaggio letterale rispetto al linguaggio figurale (metafora ecc.). Questa concezione è stata rifiutata da filosofi come Vico e Nietzsche che hanno affermato invece l’anteriorità del figurale. Per Nietzsche, il linguaggio letterale è prodotto di una consunzione, dunque di una riduzione, della ricchezza figurale. Le parole del linguaggio ordinario sono paragonabili a monete che hanno perduto la loro effigie, cancellata dall’uso, e circolano ormai soltanto come puro metallo.13 Mi pare che la psicoanalisi non possa che guardare favorevolmente all’anteriorità del figurale. Credo però che sia necessario procedere oltre questo dibattito, e affrontarlo con nuove categorie: dovremmo pensare al linguaggio come a una dimensione abitata dal conflitto non tra originario e derivato, ma tra rigidità e flessibilità. “Originario” è il conflitto, cioè un insieme di divisioni. Sin dall’inizio il linguaggio è determinato da diverse possibilità di articolazione, da diversi regimi di articolazione. Che il separativo affermi la propria dominanza, è comprensibile. La vita non può essere troppo fluida. C’è bisogno di forme, e queste forme, per poter essere sufficientemente stabili, e utilizzabili, inevitabilmente si irrigidiscono. In una certa misura la vita ha bisogno della rigidità, di una buona rigidità – che diventa cattiva quando dimentica e tenta di annullare il principio che la contrasta, e che rende conto delle forme di vita superiori. In una certa misura la vita ha bisogno della rigidità – vivere è far lavorare la rigidità a proprio vantaggio – ma, nella sua essenza, la vita non è rigidità. Essa esige trasformazioni, metamorfosi, dunque plasticità. La vita ambisce costantemente a ritrovare quella plasticità che è il tratto maggiore delle pulsioni, secondo Freud, e alla cui “sfrenatezza” bisogna in parte rinunciare. Dunque il linguaggio – meglio ancora: la langue – non è un insieme di abitudini collettive, ma un ventaglio di possibilità. Il secondo dei significati che Saussure assegna alla langue deve dominare sul primo (su quel13 Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale (1873), in Id., Opere, 22 voll., Adelphi, Milano 1980, vol. iii, t. ii. “non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili 95 lo, per così dire, sociologico). Per i parlanti, le scelte non iniziano con l’esecuzione (con la parole, con la performance), ma con i tagli che articolano il sistema in una pluralità di regimi. Questa è la grande lezione della letteratura e degli altri linguaggi dell’arte. Ed è uno di quei risultati in cui, per riprendere un famoso passo di Freud, la letteratura e la psicoanalisi convergono, e confermano reciprocamente il loro valore di conoscenza.14 Se ci sono articolazioni che tagliano la langue, che scindono conflittualmente le possibilità del linguaggio (e non soltanto degli atti di parola), se il linguaggio è linguaggio diviso – possiamo ancora dire IL linguaggio? Non dovremmo forse dire che IL linguaggio non esiste, così come non esiste LA donna?15 Perché dovremmo esitare ancora a rinunciare alla superstizione grammaticale dell’articolo determinativo? 6. Si noti però che la dissoluzione dell’Uno non avviene, per la psicoanalisi, in direzione del molteplice: sono le filosofie della differenza (Derrida, Deleuze) che privilegiano questa via. Senza escludere il passaggio al molteplice, la psicoanalisi assegna il primato al diviso. Il nome con cui chiamare le divisioni maggiori del linguaggio – che sono anche le possibilità maggiori del linguaggio – è già stato introdotto più volte: stili di pensiero, regimi di senso (un regime contempla diverse varianti). Vorrei rendere più perspicua questa prospettiva. Ripartiamo dalla lettura canonica di Saussure, e da un autore che è indiscutibilmente un grande linguista, ma in diverse occasioni ha semplificato e irrigidito il pensiero saussuriano. Mi sto riferendo a Jakobson. Talvolta Jakobson parla della lingua come di un codice, e questa è una semplificazione che va assolutamente respinta. Anzitutto perché i codici sono sistemi di corrispondenze rigide tra significanti e significati rispetto a cui i soggetti possono essere padroni – mentre nessuno è padrone della lingua (su questo Saussure è inequivocabile). In secondo luogo, se il linguaggio fosse un codice, i messaggi verrebbero trasmessi e decodificati senza perdita di contenuto, di informazione: non sarebbe necessaria quell’attività inferenziale e interpretativa che caratterizza molte ricezioni, anche quotidiane, e che non soltanto l’ermeneuti14 Sigmund Freud, Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen (1906), in Id., Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. v, p. 333. 15 D’altronde Lacan si è pronunciato anche sulla prima di queste due inesistenze: “[…] il linguaggio, anzitutto, non esiste. Il linguaggio è quel che si cerca di sapere circa la funzione di lalingua” (Il seminario. Libro xx. Ancora [1972-1973], Einaudi, Torino 1983, p. 139). 96 giovanni bottiroli ca, ma anche la pragmatica, gli studi sulla conversazione ecc. hanno evidenziato a partire dagli anni sessanta del secolo scorso. Dunque l’equivalenza tra lingua e codice è arretrata e inaccettabile, per chiunque conosca gli sviluppi della linguistica dopo Saussure. Tra le più devastanti semplificazioni di Jakobson vi è la sua presentazione dell’asse paradigmatico come un ambito che contiene scelte prefabbricate, disponibili ai parlanti (si tratta, come si è già detto, di opzioni che non intaccano la langue). Ma il primato del paradigmatico, che secondo Barthes contraddistingue la rivoluzione strutturalista, è un’idea che appare del tutto incomprensibile se l’asse paradigmatico contiene soltanto scelte prefabbricate. Come si potrebbe parlare di interpretazione, nell’analisi dei testi, e non di una semplice decodifica? Barthes ha spiegato che il primato del paradigmatico è una novità straordinaria in quanto sconvolge la linearità del testo, ne disfa l’ordinamento sequenziale, getta lo scompiglio nella fissità del testo come artefatto, e permette di inventare nuove forme di coerenza. “L’attività strutturalista comporta due operazioni tipiche: ritaglio e coordinamento (découpage et agencement).”16 Così avviene nella lettura della Phèdre di Racine, che Barthes legge come un’opera conflittuale (“Dire o non dire? Questo è il problema”),17 e che analizza come conflitto tra due paradigmi, le figure del mutismo e le levatrici.18 A partire da questo modo di lavorare sui testi, l’asse paradigmatico va reinterpretato. Ciò che avviene in un’opera d’arte non è descrivibile mediante lo schema dei due assi, bensì con uno schema che mostra la conflittualità “originaria”: “non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili 97 I tre che scindono l’asse paradigmatico visualizzano gli stili che articolano il Simbolico, e che chiamo separativo, distintivo, confusivo. Nella mia lettura, la barratura del Grande Altro non indica solamente una de-totalizzazione e neanche solo l’impossibilità del metalinguaggio, ma anche – e forse in modo particolare – la scissione tra regimi. O meglio: per la psicoanalisi le ragioni dell’impossibilità del metalinguaggio non sono quelle indicate da Wittgenstein o da altri filosofi: per la psicoanalisi non c’è metalinguaggio perché il linguaggio è diviso. Diviso da scissioni non sintetizzabili, non superabili, non hegeliane. I regimi di senso zampillano da sorgenti, a cui bisogna imparare ad accedere sempre di nuovo, per riprendere il passo prima citato di Heidegger; e ricadono intrecciando le righe sottili delle articolazioni grammaticali, facendole slittare, spostandole, confondendole, mescolandole: è così che nasce una lingua della densità, come è quella di Joyce. Indico questo schema con l’espressione pioggia degli stili.19 7. “I will not serve.” Questa è l’enunciazione di Stephen nel Portrait e, prima ancora, è il pensiero che, nel capitolo iii, il predicatore attribuisce a Lucifero, l’angelo ribelle: “non serviam”. Un pensiero orgoglioso, e concepito per un attimo. “Quest’attimo fu la sua rovina. Egli offese la maestà di Dio con il pensiero colpevole di un attimo e Dio per sempre lo cacciò dal cielo nell’inferno.”20 È con piena consapevolezza che in seguito Stephen Dedalus riprende quest’atto di ribellione: “Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questa la casa, la patria o la Chiesa: e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita o di arte, quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia”.21 Si può smettere di credere in Dio, e anche nella patria. Forse, e sia pure con difficoltà maggiori, nella famiglia: Stephen Dedalus, il giovane protagonista dell’Ulisse, non sembra avere completato il distacco dalla famiglia. Nelle prime pagine, viene menzionato un altro momento di ribellione. “Ti potevi inginocchiare, Kinch, porca miseria, quando tua madre te l’ha chiesto in punto di morte”, gli dice Buck Roland Barthes, Saggi critici (1964), Einaudi, Torino 1972, p. 311. Id., L’uomo raciniano (1963), ora in ivi, p. 109. 18 Perciò la Phèdre viene anche definita “una tragedia del parto” (“une tragédie de l’accouchement”, ivi, p. 112). 19 Per questo schema mi permetto di rinviare a Giovanni Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino 2006, p. 335. Va osservato che questa pioggia non è la pioggia siberiana di Lituraterre, è una pioggia più articolata e feconda. 20 James Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, cit., p. 178. 21 Ivi, p. 334. 16 17 98 giovanni bottiroli Mulligan. “E tu hai rifiutato. C’è qualcosa di sinistro in te…”22 Ma ciò a cui Joyce ha rifiutato obbedienza è, più di tutto, la lingua: la lingua inglese, come lingua in qualche modo estranea; e non per muovere verso una lingua “più materna”, il gaelico. Io non servirò. Non servirò il linguaggio indiviso. Non obbedirò a regole che mi inaridiscono né mi piegherò ad abitudini socialmente acquisite. Non introietterò modelli (se non per appoggiarmi a essi) e non accetterò limiti se non per oltrepassarli. Chiederò allo stile di non esser semplicemente l’espressione di una individualità, la mia, ma di scendere fino al luogo di articolazione della lingua, e di scinderla nei regimi. Sperimenterò le possibilità “non separative” del linguaggio, inventerò una lingua in cui prevalgono i legami. Un linguaggio denso, che nessuno potrà mai articolare separativamente, rigidamente. Anche l’Università dovrà rinunciare a farlo. Non obbedirò al significante padrone, qualunque esso sia. E per riprendere i versi in cui Ovidio racconta l’impresa di Dedalo, imprigionato da Minosse: il significante rigido ha chiuso le vie della terra e del cielo.23 Ma le vie dell’aria – le vie degli stili – restano aperte, e per quelle io fuggirò. 8. Vorrei tornare rapidamente ai possibili rapporti tra gli autori a cui ho fatto riferimento. “C’è verità solo perché e fintanto che l’Esserci è”, afferma Heidegger in Essere e tempo.24 Analogamente, non c’è inconscio se non c’è la psicoanalisi. Questi due enunciati non vanno intesi banalmente nella prospettiva dell’idealismo, ma in quella dell’articolazione. In questa seconda prospettiva comprendiamo la tesi di Heidegger secondo cui prima di Newton non esistevano le leggi di Newton25 – e, possiamo aggiungere, prima di Freud esisteva un inconscio, ma non era quello di Freud. Con Saussure possiamo dire che non esiste nessuna lingua senza articolazione, proprio perché la lingua, quale che sia la sua forma di esistenza storica, è “il regno delle articolazioni”. James Joyce, Ulisse (1922), Mondadori, Milano 1970, p. 22. “Che Minosse mi sbarri pure le vie della terra e del mare, ma almeno il cielo è sempre aperto. Passeremo di lì! Sarà padrone di tutto, ma non dell’aria!” (Ovidio, Metamorfosi, Einaudi, Torino 1979, l. viii, vv.185 e sgg.) 24 Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 273. 25 Ibidem. “non serviam.” tirannia del linguaggio e libertà degli stili 99 E la lingua “congiuntiva” di Joyce? È una lingua della densità, cioè una lingua che afferma il primato del significante in quanto contemporaneamente afferma il primato del significato – del significato denso. È una lingua della sublimazione, dunque non una lingua collassata; ma certamente è una lingua che collega continuamente ciò che le articolazioni separative si prefiggono e si sforzano di tenere separato. Non è una lingua informe, benché sia possibile percepirla così nell’immediato, a una prima lettura. Lingua del godimento, sempre sul punto di sprofondare in das Ding, ma anche lingua del desiderio, favorita da un padre a cui si rivolge il giovane Dedalus – per esempio con l’invocazione che chiude il Portrait: “Old father, old artificer, stand me now and ever in good stead”.26 E precedentemente come “una forma alata”, “l’artefice favoloso”, “un uomo in forma di falco che vola verso il sole sopra il mare”,27 che impedisce agli stili di annodarsi con nodi troppo stretti e di unificarsi e incollarsi in un unico filo, ma anche alla colla di sciogliersi e di spargersi – questa sarebbe la caduta nell’inarticolato. Difficile equilibrio tra gli opposti. Nel Seminario vii Lacan menziona una sostanza che somiglia alla colla, in quanto rischia sempre di essere o troppo dura o troppo fluida. Si tratta del miele – “Il miele, cerco di portarvi il mio miele – il miele della mia riflessione su quel che faccio da un certo numero di anni”, dice Lacan riferendosi alle categorie fondamentali, ai registri; e aggiunge: “Se questo effetto di comunicazione a volte presenta qualche difficoltà, pensate all’esperienza del miele. Il miele può essere molto duro oppure molto fluido. Se è duro, si taglia male, perché non ci sono sfaldature naturali. Se è molto fluido […] dopo un po’ ce n’è dappertutto. Da qui il problema dei vasetti”.28 Da qui la necessità – parziale – dello stile separativo, per riprendere la mia terminologia. Joyce ha spinto il piacere della lingua – di lalangue – fino al limite estremo. Ha rischiato di veder sciogliere le sue ali, rasentando il sole di das Ding. Perciò i due possibili effetti della sua lingua, che letteralmente s’incolla al palato dei lettori separativi, incapaci di pronunciarla, che annoda le articolazioni come si potrebbero dispettosamente allacciare 22 23 26 “Vecchio genitore, vecchio artefice, fammi ora e sempre buona guardia.” (James Joyce, Ritratto dell’artista da giovane, cit., p. 341) 27 Ivi, p. 241. 28 Jacques Lacan, Il seminario. Libro vii. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 2008, p. 23. 100 giovanni bottiroli tra di loro le stringhe delle scarpe, per far incespicare, ma che altri lettori percepiscono nella sua fluidità, sovrabbondante, sempre con il sapore del miele.29 Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura Muriel Drazien 9. Vorrei concludere con il problema delle sostanze, che trovano nel miele e nella colla due esempi paradigmatici, e però divergenti: questa divergenza dei sapori rende polisemica (e comunque più problematica) anche la nozione di lalangue. Si tratta di sostanze troppo fluide o troppo friabili o troppo viscose o troppo enigmatiche. La più enigmatica di queste sostanze è la letteratura. Al termine di un anno di lavoro e con l’approssimarsi dell’interruzione estiva, Lacan aveva l’abitudine di annunciare il tema che avrebbe trattato l’anno seguente. Nel 1975 però le cose sono andate un po’ diversamente. Il 13 maggio, in occasione dell’ultima seduta del seminario RSI, Lacan disse che l’anno successivo avrebbe parlato di 4,5,6. Titolo enigmatico ma in esso era possibile riconoscere gli esiti di un anno in cui Lacan si era preoccupato di interrogare le varie possibilità offerte dai tre anelli del nodo borromeo1 per congegnare il rapporto tra le categorie del Reale, del Simbolico e dell’Immaginario – le cui iniziali sono appunto RSI. Con questo titolo 4,5,6, Lacan lasciava intendere che avrebbe tentato di riprendere il lavoro a partire da un nodo a quattro, e poi a cinque e anche a sei anelli. Nel corso del seminario RSI, Lacan aveva già accennato en passant a Joyce. Fu comunque una sorpresa quando, su invito di Jacques Aubert,2 il 16 giugno di quell’anno, nel grande anfiteatro della Sorbonne, Lacan tenne una conferenza dal titolo Joyce il sintomo. Questa Il tratto semantico /fluidità/ va privilegiato rispetto a quello della /dolcezza/. Il ruolo della pulsione orale non va escluso, evidentemente, ma non deve oscurare la dimensione dell’instabilità fluida. 29 1 Il nodo borromeo è una figura topologica la cui proprietà distintiva è il tipo di legame che unisce i tre anelli che lo compongono. Se uno degli anelli si scioglie dal nodo i due rimanenti cadono liberi. Nella storia della famiglia nobiliare Borromeo questo nodo rappresentava la forza della coalizione tra casati alleati, e la debolezza nel caso in cui un componente avesse disertato. 2 Jacques Aubert è professore di Letteratura Francese all’Università di Lione. Studioso di Joyce, ha curato l’edizione Pleiade delle opere dello scrittore. 102 Muriel Drazien Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura 103 conferenza su Joyce inaugurava la nuova direzione presa dalla sua ricerca. Così, invece di quello preannunciato, il nuovo seminario ebbe per titolo Il sinthomo. Sinthomo (scritto con la h, altro titolo enigmatico, come lo saranno tutti gli altri seminari da quel momento in poi). Il fatto di interrogare Joyce, di studiare il rapporto di Joyce con la sua arte e il suo linguaggio a partire dalla richiesta di Aubert, aveva operato uno spostamento nell’interesse di Lacan per i nodi, l’aveva fatto approdare a una nuova lettura della clinica delle psicosi e persino a una nuova teoria sulla fine dell’analisi. Così nel seminario Il sinthomo, Lacan, basandosi sullo studio rinnovato dei testi joyciani, incoraggiato dalla sua antica ammirazione per lo scrittore, confortato dalla propria inclinazione per una scrittura basata su giochi di parole e sull’uso asintattico del linguaggio, rimase comunque folgorato dalle perplessità, dalle questioni che Joyce gli poneva. Gli effetti delle sue scoperte ebbero ripercussioni decisive per il suo insegnamento. Lacan dichiarò l’intenzione di rinnovare la clinica a partire dai rapporti tra le categorie del Reale, del Simbolico e dell’Immaginario, ma soprattutto a partire dal primato del Reale. Intendeva riformulare la funzione del padre fino alle sue incidenze cliniche nel quadro del complesso di Edipo. Discendeva da qui un nuovo approccio alla questione del sintomo, in particolare al rapporto del sintomo con la funzione paterna. Infine, attraverso Joyce, Lacan si è addentrato nell’esplorazione del rapporto tra lettera e significante. Lacan ha saputo interrogare la follia e la normalità partendo dalla problematica del Nome-del-Padre e della forclusione.3 In nessun altro seminario Lacan si lascia scoprire così implicato in prima persona. Lo si coglie dall’insistenza con cui interroga Joyce in quanto sintomo, dimostrando come, nel suo caso, sia stata la scrittura (è questa la sua ipotesi) ad avere un effetto risolutivo – perciò Lacan ne parla come del sinthomo di Joyce (parleremo in un altro momento dell’introduzione della lettera “h” nella parola sintomo). Nevrosi, psicosi o perversione? Nel seminario viene presa in esame ciascuna di queste possibilità per giungere, infine, a una nuova formulazione clinica e a una prospettiva diagnostica che sconvolge le consuete categorie psichiatriche. Lacan procede come se l’analisi del caso Joyce non solo potesse guidare la sua ricerca verso direzioni che interrogano la propria formazione e la propria pratica, ma potesse anche far luce per Lacan sul proprio caso, il “caso Lacan”. “A partire da quando si è pazzi?”,4 si chiede nel seminario con ovvio riferimento a Joyce ma, come dice, anche a se stesso – benché dichiari “non ho automatismi”. Quali sono le differenze tra nevrosi e psicosi? Che cosa le distingue? Che cos’è l’essere normale? Si chiede. Sono alcune delle questioni brucianti che lo impegneranno nel corso dell’anno e che, anzi, lo seguiranno sino alla fine del suo insegnamento quando perverrà a questa possibile risposta radicale: “l’essere normale, è essere fuori discorso, è essere pazzo”.5 Infine, sempre nell’ambito dell’“approccio al sintomo” di Lacan, qual è il rapporto tra sinthomo e fine dell’analisi? C’è un irriducibile del sinthomo nell’analisi? È una questione da riprendere. Come lo è anche la questione della funzione dell’arte – o dell’artigianato nella sua espressione più creativa – nel prodursi del sinthomo. L’artigianato cui si riferisce Lacan potrebbe ben essere l’attività del vasaio, la figura arcaica già apparsa nel seminario L’etica della psicoanalisi, che simbolizza la creazione ex nihilo e, per estensione, la creazione del mondo. Non per niente Joyce è stato affascinato dal tema della creazione del mondo – ne è testimone Finnegans Wake opera che critici e studiosi hanno letto e interpretato proprio in tali termini. Nelle ultime righe del Ritratto dell’artista, Joyce chiama in causa il “vecchio genitore, vecchio artefice” per sostenerlo nei suoi sforzi. Può l’arte – in questo caso l’arte di scrivere esercitata da Joyce – scongiurare la verità del sintomo? Dopo anni in cui Lacan ha provato a imparare a manipolare i nodi, a interrogare i modi con cui, attraverso il nodo, si aderisce alla struttura soggettiva, egli giunge ne Il sinthomo a valorizzare la categoria del 3 La forclusione, traduzione di Lacan del termine di Verwerfung da lui individuato nel testo di Freud nel caso clinico dell’Uomo dei lupi. Lacan in Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento delle psicosi (1958), in Id., Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1974, vol. i, ci spiega che la forclusione è un “difetto che dà alla psicosi la sua condizione essenziale, con la struttura che la separa dalla nevrosi” (si veda Roland Chemama e Bernard Vandermersch, a cura di, Dizionario di psicanalisi, Gremese Editore, Roma 2004). 4 Il termine “automatismo” presente nell’espressione “automatismo mentale”, riguarda fenomeni come l’anticipazione del pensiero descritti da Gaétan-Henri Gatian de Clérambault nel quadro clinico delle psicosi – è ciò che Lacan descriverà nell’uomo “normale” come equivalente del parassitaggio dalla parola. 5 Erik Porge, Jacques Lacan, un psychanalyste. Parcours d’un enseignement, Erès, Paris 2000, p. 59. 104 Muriel Drazien Reale, a sottolinearne l’importanza rispetto alle altre due istanze – ma sempre rimarcando la loro interdipendenza. Lacan ci dice in questo seminario che Joyce nella sua scrittura tenta di mettere da parte l’immaginario per re-inventare la lingua, una lingua “reale” fatta di neologismi, giochi di parole translinguistici, enunciazioni senza enunciati; lo scrittore sconvolge la sintassi eliminando il senso, poiché il senso rinvia all’immaginario. Nelle mie trascrizioni delle parole di Lacan, cito dai miei appunti della conferenza alla Sorbonne: è perché il senso è sacrificato che “il sintomo in Joyce è un sintomo che non vi riguarda in niente. È il sintomo in quanto non c’è alcuna chance che esso agganci qualcosa del vostro inconscio”. Ecco perché la lettura di Joyce risulta ostica, i suoi testi sono enigmatici, ermetici. Infatti, senza la mediazione dell’immaginario, il lettore non trova alcuna porta d’ingresso al testo. In proposito vorrei aprire alcune parentesi e rileggere ciò che scrive il fratello di Joyce, Stanislaus, in un volume d’importanza eccezionale sugli anni di gioventù dell’autore, intitolato My Brother’s Keeper, cioè Guardiano di mio fratello.6 Parlando della poesia, Stanislaus ci fa partecipi delle preferenze di Joyce per le storie senza trama. Senza trama vuol dire senza rinvio all’immaginario, senza accenni a quell’esperienza vitale di ciascuno che permetterebbe di “agganciarne l’inconscio”, secondo l’espressione di Lacan. Joyce intende favorire lo stile, il ritmo, il mood, le parole “reali”, epurate dall’immaginario, si potrebbe dire. Aveva sempre avversione per una classe di poeti per la quale solo ciò che è immaginario possiede valore poetico; il suo principio era rigettare questa poesia che a lui sembrava falsa dal punto di vista emozionale. La sua preferenza era per le poesie il cui interesse non dipendeva dall’espressione di un pensiero poetico ma piuttosto dall’indefinibile suggerimento della parola, della frase e del suo ritmo. Ne Il sinthomo, Lacan dimostra che, nell’annodamento, i tre registri risultano equivalenti ma poiché il nodo è reale, il primato è dato al Reale. Lacan dichiara che anche nell’analisi si deve mirare a “un più di reale”. Non è facile definire questo Reale che Lacan conta tra le sue vere scoperte personali. A lungo l’ha definito dicendo che esso fa tre 6 Stanislaus Joyce, My Brother’s Keeper: James Joyce’s Early Years, Da Capo Press, BostonNew York 2003. Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura 105 con l’Immaginario e con il Simbolico. Lacan affronta la questione del Reale sin dalla prima lezione del seminario, ma la sua definizione presenta non poche difficoltà proprio perché il Reale non è simbolizzabile. Allora come parlarne? Anche perciò Lacan lo definisce l’impossibile, impossibile da dire o da immaginare visto che il Reale corrisponde a un punto di faglia nel sistema simbolico. È l’impossibile del Reale che ha condotto Lacan all’uso che fa lui, del tutto personale, del nodo borromeo. Il nodo borromeo procura un supporto al reale dell’inconscio: la scrittura, fatta di lettere o di simboli matematici, permette di svuotare il senso, di eliminare l’immaginario e, in tal modo, essa permette di “acchiappare un pezzettino di quel Reale”. Il nodo borromeo è ciò che Catherine Millot, nella sua conferenza a Roma, ha chiamato la “metafora del rapporto di Lacan con l’inconscio”. Lacan teneva molto a dare una base scientifica alla psicoanalisi anche, ma non solo, per favorire la possibilità della sua trasmissione; trasmissione da lui augurata e da lui attuata attraverso i matemi introdotti nel seminario Ancora. Questo rendeva necessario un nuovo posizionamento dell’Immaginario, nato dalla fase dello specchio insieme al campo del narcisismo, dei fantasmi, del corpo e dei suoi oggetti, e del senso. A partire dalla conferenza del 1952, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, conosciuta come il Discorso di Roma, si era stabilita una certa supremazia del Simbolico, supremazia avvertita dagli allievi più anziani come un’imposizione inaccettabile, una sorta di Super-io lacaniano. Invece il Reale di cui Lacan tratta ne Il sinthomo emerge, come era già accaduto nelle Psicosi, a partire dalla forclusione, la Verwerfung di cui parla Freud, dall’assenza nell’Altro del significante Nome-del-Padre. L’Immaginario è legato al corpo in quanto nasce dallo stadio dello specchio, anche se il corpo non appartiene solo al registro dell’Immaginario, ma partecipa anche del Reale – consideriamo i casi di allucinazioni visive e uditive in cui il Reale interviene “da fuori” per fare incursione nel mondo dello psicotico. Consideriamo reali sia questa particolare ek-sistenza (neologismo di Lacan che indica ciò che “esiste” un po’ dentro, un po’ fuori dal corpo), sia la consistenza del corpo. Le pulsioni sono “l’eco nel corpo del fatto che c’è un dire”. È necessario però che il corpo sia sensibile, che il corpo senta questo dire. Come sente questo dire? Attraverso gli orifizi; e l’orecchio è il più importan- 106 Muriel Drazien te, l’unico che non può chiudersi e al quale perciò risponde, nel corpo, a ciò che Lacan ha chiamato “la voce”. Sappiamo che Lacan ha riletto molti dei casi celebri di Freud come quello della “bella macellaia”, caso esaminato nella Traumdeutung, o quello della “giovane omosessuale”, tratto dalla Psicogenesi di un caso d’omosessualità femminile del 1920. Lacan ha ripreso laddove Freud ha lasciato traccia, e la sua lettura ha conferito un valore paradigmatico a questi come ad altri casi. Il primo, quello della “bella macellaia” (così chiamato perché la sognatrice, una bella signora, era moglie di un macellaio), costituisce, a partire dalla rilettura di Lacan, la metafora del desiderio di avere un desiderio non appagato; è ciò che caratterizza il desiderio dell’isterica. La giovane omosessuale è diventata paradigma del passaggio all’atto, nella definizione di Lacan che lo differenzia dall’acting out. In questa prospettiva, Joyce è il paradigma del “sintomo”. Lacan fa di Joyce un “caso”; egli diventa l’illustrazione magistrale della problematica del sintomo nella nuova strutturazione clinica da lui introdotta – clinica inoltre segnata dalla topologia dei nodi. Quel che traiamo dal sinthomo è l’intento di Lacan di rinnovare la lettura del sintomo attraverso la lettera e la scrittura, e non solo attraverso il significante come avveniva nei casi che aveva studiato in passato. L’arte di Joyce è la scrittura, la pratica della lettera, la lettera è il materiale, la materia attraverso cui forgerà il veicolo per compiere la sua “missione”: quella di sostenere suo padre carente e, attraverso la sua arte, farlo sussistere e distinguerlo. Joyce ha poi esteso questa sua missione anche alla patria – the Fatherland – l’Irlanda. Redimere il padre e la patria è la missione che si legge in filigrana attraverso tutta la sua opera (come ho mostrato nel mio testo Il ritorno,7 trattando della pièce Exiles di Joyce: “Gli esiliati”, o “Gli esìli” nella traduzione che ne dà Lacan). È attraverso la scrittura che Joyce intende realizzare questa missione. Essa costituisce un quarto anello del “nodo bo”, il nodo specifico che Lacan utilizza per illustrare la problematica di Joyce. Il “nodo bo” non è il nodo borromeo di cui si è parlato finora, è un nodo che si scioglie visto che gli anelli che lo compongono sono solo sovrapposti 7 Muriel Drazien, Psicanalisi e cultura oggi, in Psicanalisi e cultura oggi. Atti di Mazara del Vallo, 2-3 novembre 2001, Edizioni Cosa Freudiana, Roma 2002, pp. 39-45. Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura 107 e non legati tra di loro; a questo nodo, l’anello del sinthomo, il quarto anello, è necessario per tenere legati insieme gli altri tre. Il sinthomo di Joyce compenserebbe la carenza radicale del padre, evidenziata dalla fragilità del suo nodo e del simbolico. Il sinthomo costituisce una “supplenza” che fa tenere insieme gli anelli e i registri che compongono la struttura. In tal modo, malgrado la forclusione del Nome-del-Padre, Joyce non sarebbe pazzo. La sua scrittura funzionerebbe come supplenza, non del padre, ma piuttosto del proprio ego. Se nel nodo ogni anello corrisponde a un registro, nel suo caso è l’anello dell’Immaginario che scappa via, che si slega. A proposito dell’ego di Joyce, Stanislaus Joyce nel suo My Brother’s Keeper, vera cronaca degli anni di gioventù di Joyce, racconta come il fratello, non ancora giunto all’età di quattro anni, fece un ingresso partendo dalla scala di casa fino alla sala dove si riuniva la famiglia esclamando: “Here’s me! Here’s me!” (“Sono qui, eccomi qua, eccomi qua”). Riguardo l’insistenza e la precoce manifestazione dell’ego – appello di riconoscimento da parte di un bambino che, diventato autore, intitolerà la sua ultima opera H.C.E., o Here Comes Everybody, vale a dire “Sta arrivando il mondo intero” – Stanislaus commenterà che il fratello non ha mai dubitato di se stesso, della sua importanza, “imperturbabile in ogni occasione”. L’ego di Joyce si lega alla sua reale presenza corporea. La lettura di Lacan mette in evidenza il modo in cui Joyce tenta di purificare la sua lingua dall’Immaginario, di spazzare via il senso delle parole e di legarsi al Simbolico. Lacan ripete con insistenza che il significante di per sé non significa nulla: cosa sarebbe allora una “lingua pura”, purificata dall’Immaginario? Il sintomo di Joyce fa sì che la sua scrittura “non agganci niente dell’inconscio” del lettore. Bene, inventando un neologismo degno di Joyce stesso, Lacan dichiara che Joyce era legato alla “croce della propria finzione”, una croce-finzione. Joyce era “Bound to the cross of his own cruel fiction”. Nel seminario RSI che precede Il sinthomo, Lacan definisce il sintomo in base al modo in cui ciascuno gode dell’inconscio, in quanto è l’inconscio che lo determina. Stanislaus racconta che Joyce diceva di non vedere le cose, ma di assorbirle. Rileggiamolo a proposito della scrittura, quando ci racconta che Joyce ha fondato la certezza della propria vocazione di scrittore sulla sua capacità di captare quei momenti fugaci dell’esistenza che 108 Muriel Drazien ha chiamato “epifanie”. D’altronde il fenomeno delle epifanie deriva dalle sue antiche frequentazioni della dottrina di san Tommaso d’Aquino. Joyce, lui, concepisce l’epifania come una manifestazione del sacro, visibile e udibile (ricordiamo che Joyce ha sempre avuto problemi con la vista e che, alla fine della sua vita, era divenuto quasi cieco), vere e proprie irruzioni del Reale – in questo senso, dice Lacan, simili all’allucinazione. La questione del padre, il padre di Joyce, occupa un posto centrale nel seminario Il sinthomo. Padre, Nomi-del-Padre diventano anelli del nodo, bouts de ficelle, con i quali Lacan giostrerà per raffigurare e costruire ciò che vuole che sia un nodo consistente. Lacan parla nel seminario rsi del legame tra il padre, il Simbolico e la nominazione. Il padre è colui che nomina. Simbolico, Reale e Immaginario sono altrettanti Nomi-del-Padre che fanno la consistenza del nodo. Il quarto anello, il complesso d’Edipo di Freud – ossia il sintomo – è ciò che tiene insieme il nodo. In tal senso, il padre è un sintomo come un altro, il mito di Edipo in quanto centrato dal padre viene sgretolato. Fare a meno del padre, è anche fare a meno del “religioso”. Lacan ricorre a una frase enigmatica nello stile, ma che mi impone una continua rilettura: “Del Nome-del-Padre si può fare a meno. Se ne può fare a meno a condizione di servirsene”. Far funzionare il padre di per sé, in valore di ciò che è stato da lui trasmesso, permetterebbe di eliminare il padre-sintomo, mi pare un’interpretazione possibile di questa frase. “È possibile fare a meno del religioso?”, si è chiesto all’epoca della Troisième di Roma nel 1974. E a tale questione ne segue un’altra: vincerà la religione o la psicoanalisi? Joyce ha provato a fare a meno del religioso. Non è chiaro in quale misura vi sia riuscito, anche se ha abbandonato il clericato, se ha rifiutato le forme esterne che richiede la chiesa, ed è passato per un eretico; tuttavia ha sempre sostenuto la validità dell’educazione religiosa. Se si può fare a meno del padre e della religione, vuole dire che si va verso una laicizzazione della cura stessa, ossia verso una cura meno “edipica”. Invece si apre il varco delle supplenze, che sono proprio in rapporto con la funzione del sinthomo (si va verso una clinica delle supplenze; questo per quanto riguarda “l’attualità” delle formulazioni di Lacan). Il Reale insiste nel sinthomo, ci dice Lacan. Lo psicoanalista è chiamato a combattere contro il Reale, pur non potendo operare senza. Joyce con Lacan: sintomo, sinthomo e scrittura 109 Se la psicoanalisi riuscisse nel suo scopo, finirebbe: paradosso, la psicoanalisi può sussistere solo fallendo nel proprio scopo. “La sessualità è trou-matique, [gioco di parole tra buco, tromba e trauma, N.d.A.] visto che c’è un buco al livello di ciò che farebbe rapporto sessuale. Il sintomo è il segno di qualcosa che inciampa nel rapporto con il sessuale e il sinthomo dice più precisamente che a inciampare è la possibilità di stabilire un rapporto sessuale tra l’uomo e la donna (un altro punto, da esplorare un’altra volta). Il sinthomo dice (traduce) il Reale del sintomo”, è la parte di Reale insita nel sintomo. Il sintomo, come il godimento fallico, è ciò che non va. Sintomo e godimento sono equivalenti. Il godimento fallico si situa tra Reale e Simbolico. Il Nome-del-Padre è il sinthomo che lega insieme i tre registri e i tre anelli del nodo. In questa prospettiva la funzione paterna diventa sinonimo di père-versione o “versione del padre”. La père-versione non è senza godimento, come d’altronde accade per qualsiasi altro sintomo. Però Lacan esiterà nel situare Joyce dalla parte della perversione – ipotesi verso cui lascerebbe propendere l’episodio delle botte ricevute da Stephen, l’alter ego di Joyce, nel passaggio del Ritratto dell’artista reso famoso dalla lettura data da Lacan in questo seminario. Esita soprattutto perché sembra che mancasse un vero godimento da parte del ragazzo di allora – mentre le epifanie sembrano, infatti, affini al delirio. Sono alcune ipotesi articolate da Lacan per interrogare il “caso Joyce”. Formazione dello psicoanalista Farsi un nome o dare un nome? Nominazione e trasmissione in James Joyce Mariela Castrillejo Joyce è un figlio capace di sostituire con un artificio quello che non gli è stato trasmesso dal Padre ma, al momento di diventare padre lui stesso, ha delle difficoltà nel dare un nome al proprio figlio. Il nome assegnato alla figlia, invece, non è innocente ma in continuità con il sintomo del padre ed è complementare a una carenza paterna non simbolizzata. Sono queste le idee che hanno ispirato il titolo del mio lavoro: la questione è che, diversamente da Joyce, prima gli ho dato il nome e poi l’ho visto nascere. Studiando la biografia di Joyce, sono venuta a conoscenza di uno scatenamento psicotico con delle allucinazioni uditive risalente al tempo della morte del padre. Di fronte a questa novità il mio intervento ha seguito altri percorsi. il nome del figlio Edoardo Fraquelli Senza titolo, 1959 tempera su carta intelata 34 × 24 cm “Figlio nato. Jim.” Con un telegramma di sole tre parole, James Joyce informa il fratello Stanislaus dalla nascita del figlio. Più tardi, in una lettera scriverà che il bimbo, nonostante abbia già due mesi, è privo di un nome. Nella stessa missiva, riflettendo sul tema della paternità, Joyce sostiene che un figlio, raggiunta la maggiore età, dovrebbe essere libero di scegliere il cognome del padre o quello della madre, termi- 114 Mariela Castrillejo nando con una frase che Stephen Dedalus farà propria nell’Ulisse: “La paternità è una finzione legale”.1 Dunque, che cosa può trasmettere un padre quando vacilla nel dare un nome che particolarizza il figlio? Quando non trasmette un significante della propria mancanza? C’è la sola via della follia come risposta alla carenza paterna? Quanto è determinante la struttura e qual è la capacità di manovra del soggetto? Secondo Joyce, un figlio dovrebbe essere libero di scegliere il suo nome. Lui pensava che farsi un nome fosse compito di un figlio, non badava troppo alla responsabilità paterna di nominare, di dare un nome alle cose, non considerava l’importanza del nome come un dono ricevuto dal padre. La posizione che Joyce assume, sia come figlio che come padre, mette in rilievo la dimensione della scelta del soggetto: per lo scrittore irlandese la dimensione della trasmissione paterna è meno importante che l’insondabile decisione dell’essere. La paternità è per Joyce una finzione e, quindi, fa a meno della sua funzione e della sua trasmissione. Joyce si fa un nome da sé, servendosi della sua arte, del suo sinthomo. joyce con schreber Lacan nel suo Seminario xxiii pone il noto quesito sulla follia di Joyce: Joyce era forse pazzo? Preferirei riformulare la sua domanda in questi termini: in che modo Joyce era diverso da Schreber? Si potrebbe provare a rispondere dicendo che lì dove Schreber usa il delirio come modalità di stabilizzazione della psicosi, Joyce usa l’arte, il Nome proprio e il sinthomo. Lacan, come sapete, spiegherà l’assenza dello scatenamento psicotico nell’autore dell’Ulisse riflettendo sull’uso che Joyce fa dell’opera artistica. Dedicherà gran parte del Seminario xxiii a studiare che funzione ha l’arte in Joyce, considerando la funzione artistica nello scrittore come un artificio che si colloca al posto del significante del Nome-del-Padre, un artificio che supplisce la carenza paterna joyciana. Questa supplenza artistica si colloca al posto del significante mancante dando stabilità alla struttura. 1 Renzo S. Crivelli, James Joyce: itinerari triestini – James Joyce: triestine itineraries, Mgs Press, Trieste 1996. Farsi un nome o dare un nome? 115 Dunque, come è costruito quest’artificio da Joyce? Si dice che lo scrittore mentre scriveva rideva, giocando con le parole cercava il godimento di quello che Lacan chiama la lalingua. Joyce cercava di ricreare quel godimento antico che si riconosce nella lallazione e nella balbuzie infantile precedenti alla conquista della parola. Tramite la scrittura, l’autore avvia un processo progressivo di disassemblaggio fonetico e di invenzione di parole che lo immerge in una dimensione di godimento infantile, un godimento diverso e separato dall’ambito del dialogo e della comunicazione. Questo processo, questo suo work in progress, si sviluppa fino ad arrivare al Finnegans Wake, la sua ultima opera, che si caratterizza per l’uso che l’autore fa degli equivoci, dei giochi di parole, delle omofonie e dove Joyce “finisce col dissolvere il linguaggio stesso”. Il lavoro artistico di dissolvere il linguaggio nella lalingua diventerà un sapere-fare che particolarizza Joyce e gli dà un nome rilevante nella letteratura di tutti i tempi. Dunque perché Joyce non delirava come Schreber? Perché la nominazione di Joyce, come l’artista capace di “tenere occupati i critici per i prossimi trecento anni”,2 ha un effetto di supplenza del Nome-delPadre e della significazione fallica. Quest’operazione joyciana che è aliena al lavoro inconscio dell’interpretazione e agli effetti di senso e di verità, questa operazione di supplenza degli elementi mancanti nella storia e nella soggettività, viene chiamata da Lacan sinthomo. la voce del padre, le allucinazioni e lo scatenamento psicotico Sono tanti gli psicoanalisti che sostengono con Lacan che non si trovano tracce di un esordio psicotico in Joyce, sia nella celebre biografia di Richard Ellmann, sia nel vasto epistolario joyciano. Cercando nelle sue note, nei ricordi di amici oppure nei testi di suo fratello Stanislaus, non ci sono indizi di uno scompenso. Non ci sono – si afferma – nei principali testi che raccontano la vita dello scrittore, passaggi 2 Max Eastman, The Cult of Unintelligibility, in “Harper’s Magazine”, aprile 1929, pp. 632-639. Jacques Lacan dice agli studenti di Yale: “Quand je m’intéresse à Joyce, c’est parce que Joyce essaie de passer au-delà; il a dit que les universitaires parleraient de lui pendant trois cents ans” (Jacques Lacan, Conférences et entretiens dans des universités nord-américaines, in “Scilicet”, n. 6/7, Seuil, Paris 1975, p. 36). 116 Mariela Castrillejo che permettano di constatare uno scatenamento psicotico. Eppure, Richard Ellmann descrive, in pochissime linee e con precisione, lo scatenamento clinico della psicosi di Joyce al tempo della morte del padre. È Lacan stesso a confidare all’uditorio del suo seminario che pure lui si perde nel lavoro di Ellmann. Davanti a quel vasto materiale biografico, che Lacan definisce farraginoso, lo psicoanalista sceglie di farsi orientare dalla sua pratica: il biografo, dunque, descrive uno scatenamento psicotico in Joyce ma quest’ultimo creerà una soluzione diversa da quella di Schreber. La soluzione joyciana non è la ricostruzione delirante di un nuovo ordine ma una stabilizzazione a opera della scrittura. Scrive Ellmann che – dopo la morte del padre – per una settimana lo scrittore irlandese non riuscì a dormire, a eccezione di brevi momenti in cui faceva angoscianti incubi. Racconta che Joyce si sentiva come un pesce fuor d’acqua e che durante il giorno aveva delle allucinazioni uditive. A causa di questi disturbi consultò il dottor Debray, il suo medico curante che, come altre volte, sostenne che il problema era di origine nervosa e la cura consigliata per Joyce fu di lavorare al suo libro.3 Le allucinazioni scomparvero quando Joyce, seguendo l’indicazione del suo medico, riprese la stesura del Finnegans Wake. Una serie simultanea di eventi sconvolsero radicalmente la vita di James Joyce al momento delle allucinazioni: in primis la morte del padre il 29 dicembre 1931, poi l’aggravarsi della malattia della figlia – Lucia aggredì violentemente la madre e il fratello Giorgio durante la festa per i cinquant’anni di Joyce, il 2 febbraio 1932, e di conseguenza venne ricoverata in una clinica psichiatrica –, la nascita del nipote Stephen James, il 16 febbraio 1932 e la perdita progressiva della vista. Questa serie di eventi mette Joyce di fronte a quello che Lacan chiama “la carenza della funzione paterna”. Joyce, dunque, si troverà ad affrontare la dimensione impositiva dell’oggetto voce che, in una struttura psicotica, può essere un indicatore reale e decisivo per una diagnosi clinica. Così Joyce parlò delle sue allucinazioni: in una lettera del 22 luglio 1932 James Joyce scrive a un’amica americana – che l’ha sempre sostenuto economicamente e incoraggiato nella scrittura, Miss Harriet Weaver – raccontandole che la voce del padre si era immessa nel suo Richard Ellmann, James Joyce (1959), Feltrinelli, Milano 1964, p. 773. 3 Farsi un nome o dare un nome? 117 corpo o in qualche modo si era inserita nella sua gola, particolarmente nel momento in cui egli singhiozza.4 A Eugene Jolas – sostenitore appassionato di Joyce che ebbe un ruolo molto attivo nell’incoraggiare la stesura del Finnegans Wake quando era ancora in forma embrionale, suddiviso in una serie di racconti dal titolo Work in Progress – disse chiaramente: “Sento parlare mio padre”.5 Altri indizi di una possibile struttura psicotica di Joyce si trovano nella biografia di Ellmann. Il celebre biografo sottolinea una tendenza alle idee deliranti in Joyce, per esempio quando sostiene che l’esilio autoimposto dalla terra d’origine è organizzato in modo persecutorio, dal momento che Joyce aveva la convinzione che era persona non gradita nel suo paese e che sarebbe stato aggredito nel caso di un suo eventuale ritorno in Irlanda. Un altro esempio esplicativo di questa idea delirante è relativo all’episodio in cui Nora e i figli si trovarono casualmente in mezzo a un conflitto sociale durante la guerra civile irlandese, evento che è stato interpretato da Joyce non come un avvenimento comune dovuto a tali circostanze, ma come un’azione indirizzata contro la sua persona.6 lucia Fin da piccola la figlia Lucia ebbe segni di disturbi psichici ma i genitori leggevano tale comportamento come delle eccentricità infantili. La psicosi di Lucia ebbe il suo esordio clinico dopo l’innamoramento, il rifiuto e la conseguente delusione amorosa di Samuel Beckett. Lacan interpreta la follia della figlia di Joyce come un prolungamento del sintomo del padre, sottolineando l’implicazione di questo nella psicosi di Lucia. Lucia aveva studiato danza nella scuola di Isadora Duncan e Beckett, ormai amico di famiglia, accompagnava ogni tanto James e Nora a vedere gli spettacoli della figlia. Lucia non solo ballava ma era anche una brava cantante. Era una ragazza slanciata e graziosa Id., Letters of James Joyce, Faber and Faber, London 1966, vol. iii, p. 250. Eugene Jolas, My friend James Joyce, in Seon Givens, a cura di, James Joyce: Two Decades of Criticism, Vanguard Press, New York 1948, p. 9. 6 Ivi, p. 535. 4 5 118 Mariela Castrillejo ma mai soddisfatta del suo aspetto. Affetta da un lieve strabismo aveva tentato, con insuccesso, di correggere il difetto che la disturbava.7 Il difetto agli occhi ha l’effetto, su Lucia, di mettere in evidenza un aspetto non simbolizzato della castrazione, un elemento non simbolizzato legato alla vista. Lacan afferma che quello che succede a Lucia è indice della carenza paterna di Joyce, unendo in questo modo tre generazioni. Lucia aveva avuto diverse infatuazioni prima che i suoi sentimenti si focalizzassero su Beckett. Lui non ricambiava la sua passione ma la portava fuori a cena o a teatro, più che altro per rinsaldare il legame con la famiglia Joyce. Beckett, pur non amando la ragazza che si era infatuata di lui, permise che nascesse una relazione fra loro. Tuttavia, nel maggio 1931, Beckett disse francamente a Lucia che non era innamorato di lei. Questo gettò la giovane in preda alla disperazione. Quando il giovane Samuel decise di rompere, Nora Joyce s’infuriò e lo accusò di avere sfruttato la figlia per garantirsi l’accesso al padre. Lucia, invece, incolpò sua madre della separazione. L’incidente provocò una frattura tra i due scrittori irlandesi e l’allontanamento di Joyce segnò profondamente l’autore di Aspettando Godot. Anni più tardi, Samuel Beckett disse alla sua amica Peggy Guggenheim di essere morto, di non avere sentimenti umani e per questa ragione non era stato capace di innamorarsi di Lucia.8 Ma tornando su Lucia Joyce, su di lei scrive Natalia Aspesi: Sfortunata nei suoi frenetici amori (tra cui il poeta surrealista Emile Fernandez – l’artista di “mobiles” –, Alexander Calder – l’insegnante di russo di Joyce –, Alexander Ponisovsky e la lesbica Myrsine Moschos), Lucia amò soprattutto il padre, il quale la adorava ed era orgoglioso delle sue danze smodate e conturbanti. Di lei il padre diceva: “Qualunque scintilla o dono io possieda, è stato trasmesso a Lucia ed ha acceso una fiamma nella sua mente”, ciononostante o forse per questa loro unione la teneva chiusa per ore nella stanza dove lui si tormentava con l’eterna riscrittura di Finnegans Wake.9 7 Brett Foster, Biography of James Joyce, in Harold Bloom, a cura di, James Joyce, Chelsea House Publications, Philadelphia 2003, p. 64. 8 Richard Ellmann, op. cit. 9 Natalia Aspesi, Bloomsday. Una lunga giornata particolare, in “la Repubblica”, 16 giugno 2004, p. 39. Farsi un nome o dare un nome? 119 Lo stato di Lucia peggiorò ulteriormente quando si aggravò la malattia alla vista del padre e suo fratello Giorgio si sposò e diventò padre. Lo scrittore attribuiva la causa della malattia della figlia alla vita nomade e alla varietà di lingue che egli stesso aveva imposto ai membri della famiglia, si sentiva responsabile per aver scelto l’esilio e per la sua totale dedizione alla letteratura.10 Joyce misconosceva la follia di Lucia, preferiva credere che sua figlia fosse dotata di una chiaroveggenza prodigiosa e questa convinzione del padre aumentava con l’aggravarsi della psicosi della figlia.11 A questo proposito Jung, in una lettera a Patricia Graecen, equiparava James e Lucia Joyce a due individui che affondano in un fiume, uno perché vi cade dentro e l’altro perché vi si è tuffato. Jung sosteneva, infatti, che nell’arte di Joyce sono presenti degli elementi psicotici e che l’ostinazione con la quale lo scrittore si rifiutava di considerare malata la figlia era dovuta alla paura di ammettere che anche in lui fosse presente una psicosi latente.12 Sempre nella stessa lettera alla Graecen, Jung aggiungeva: Lo stile di lui è in ultima analisi schizofrenico, con la differenza, però, che il paziente ordinario non può fare a meno di parlare e di pensare a quel modo, mentre Joyce l’ha voluto e per giunta l’ha sviluppato con tutte le sue forze creative: il che, per inciso, spiega perché personalmente egli non abbia oltrepassato il limite. La figlia invece sì, perché non era un genio come il padre, ma semplicemente una vittima del proprio squilibrio.13 Joyce, dunque, assegnava il nome di chiaroveggenza alla follia di Lucia, follia che non è che un’estensione del sintomo che colpiva il padre. Entrambi sperimentano il fenomeno delle parole imposte, uno traduce questa esperienza in letteratura, l’altra in chiaroveggenza. Joyce considerava Lucia un’artista, come lui. Non vedeva una carenza nella figlia che potesse riferirsi a una disfunzione del registro simbolico, ma riteneva che la chiaroveggenza fosse l’invenzione di Lucia. Purtroppo per Lucia la sua chiaroveggenza fu più un’interpretazione del padre Richard Ellmann, op. cit. Ivi, p. 764. 12 Carl Gustav Jung, Letters, 2 voll., Princeton University Press, Princeton 1976, vol. ii, p. 266. 13 Ivi, p. 229. 10 11 120 Mariela Castrillejo che un sinthomo, un artificio che funziona come supplenza alla carenza del padre. La chiaroveggenza fu piuttosto, quindi, complementare a una carenza paterna non simbolizzata. Lucia, il nome italiano scelto per la bambina dal padre affetto da una patologia oculare, è il nome che evoca la luce e la santa protettrice degli occhi e della vista. Così, in un certo modo, la chiaroveggenza è stata imposta alla figlia fin dall’inizio. Al culmine della follia, infatti, questo significante ritorna nell’attribuzione alla ragazza del dono della chiaroveggenza. La chiaroveggenza in eccesso di Lucia è complementare alla cecità del padre: ciò che è accaduto nel corpo del padre ha provocato la risposta folle della figlia.14 stephen Farsi un nome o dare un nome? 121 rapaci e rapaci ditini se ne impossessino”.15 Oggi finalmente tutto l’insieme dell’opera joyciana è pubblico. Mi domando fino a dove un erede può difendere il diritto alla privacy a scapito della ricerca accademica. Mi pongo anche un’altra domanda, più clinica che giuridica: come si articolano i diritti di proprietà intellettuale quando sono la conseguenza di un’eredità familiare, l’eredità di un nome? Un nome può diventare proprio solo quando un soggetto riesce a soggettivare ciò che gli è stato dato oppure costruendo il nome proprio attraverso un lavoro di sublimazione. Se queste operazioni di soggettivazione e di sublimazione vengono a mancare, al posto del nome proprio troviamo l’appropriazione di un nome e l’appropriazione di un’opera che non circola, che è in ostaggio e di conseguenza la trasmissione viene ostacolata dal nome. L’enigma attorno a Lucia Joyce resterà per sempre irrisolto perché centinaia di documenti, lettere scritte da lei o a lei, soprattutto dal padre, sono andate intenzionalmente distrutte, ma da gennaio di quest’anno, leggere un testo di James Joyce in pubblico non è più un delitto contro i diritti d’autore. Diritti che gestiva, in modo paranoico, l’unico discendente di James Joyce, Stephen James Joyce. Il nipote di Joyce, Stephen James, è l’unico figlio di Giorgio Joyce, quel figlio senza nome citato all’inizio del mio intervento. Stephen è l’unico erede, è figlio di un padre alcolizzato e della prima moglie di quest’ultimo, la ricca Helen Fleischmann, di undici anni più anziana del marito, affetta da schizofrenia e, con l’aggravarsi della malattia, abbandonata da Giorgio. L’erede, agguerrito difensore dei segreti e del buon nome dei Joyce, trascorre la sua vita a minacciare spietatamente chiunque voglia scrivere della famiglia. Addirittura, in un congresso a Venezia nel 1988, annunciò con soddisfazione, davanti allo stupore e alla desolazione di molti studiosi, di aver distrutto tutte le lettere di Lucia in suo possesso e di aver convinto Beckett a fare lo stesso, per evitare “che occhietti Per una trattazione approfondita dell’argomento si veda Sérgio Laia, Los escritos fuera de sí: Joyce, Lacan y la locura, Asociación Galega de Saúde Mental, “Colección La Otra psiquiatría”, Vigo 2006, p. 319. 14 Si vedano James Caryn, The Fate of Joyce Family Letters Causes Angry Literary Debate, in “The New York Times”, 15 agosto 1988 e Natalia Aspesi, Bloomsday. Una lunga giornata particolare, cit. 15 Come neve al sole Come neve al sole Natascia Ranieri Incontro Elisa con regolarità da cinque anni in Jonas onlus,1 si presenta sempre con largo anticipo per essere sicura di arrivare puntuale al suo appuntamento. Ha quarantacinque anni, è un’insegnante, ama il suo lavoro, prepara con grande rigore il programma delle lezioni e il materiale didattico da portare in classe; per questo è molto benvoluta dai suoi allievi. Elisa non è sposata né ha mai avuto un compagno, vive con sua madre, non ha amici, i suoi legami sociali sono limitati agli incontri scolastici. l’ingresso nel luogo di cura Cinque anni fa la donna decide di domandare aiuto a uno psicologo perché nel luogo di lavoro si sente vittima di “ingiustizie e gravi cattiverie”. Si è già rivolta alle associazioni di categoria in cerca di una tutela, ma le risposte ricevute non l’avrebbero pacificata. I sindacati, infatti, le avrebbero offerto delle indicazioni legali che secondo Elisa non sarebbero sufficienti a salvarla. Chi la odia ha il preciso progetto 1 Jonas onlus, Centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi, è un’istituzione di psicoanalisi applicata fondata nel 2003 da Massimo Recalcati. Jonas si occupa della prevenzione e della cura delle nuove forme del disagio psichico: anoressie-bulimie, depressioni, attacchi di panico, fenomeni psicosomatici, disagio della famiglia ecc. 123 di distruggerla: “Sono pronti a tutto, non c’è legge che tenga”. Elisa mi spiega che, dopo anni di precariato a scuola, questo è il suo “anno di prova” in cui ha la possibilità, se supera un esame finale, di diventare insegnante di ruolo, una vera maestra. L’esame consiste nella presentazione di una tesina sul lavoro didattico svolto nell’anno scolastico in corso, al cospetto di una commissione di valutazione. I componenti di tale commissione sarebbero precisamente il gruppo di insegnanti a lei ostile e che le avrebbe reso la vita un inferno. La direttrice didattica della sua scuola definita da Elisa “bestia dittatrice comunista”, capo del gruppo a lei nemico, sarebbe una “dirigente del Partito comunista messa nella scuola italiana per smembrarne gli organi e prendersi il potere”. Tutti gli altri colleghi, pilotati dalla direttrice, starebbero tramando alle sue spalle, avendo l’intento preciso di impedirle di presentarsi all’esame, ostacolandola in ogni modo. La sua è una certezza monolitica e fuori discussione: “Mi bocceranno”. A scuola Elisa si sente costantemente seguita e controllata, le colleghe le tenderebbero ogni genere di tranello per impedirle di rispettare le norme che regolano l’anno di prova, i Decreti Delegati della scuola, la Costituzione italiana. La quotidiana vita scolastica è fonte di continue minacce angosciose: ogni parola o movimento dei colleghi diventa un chiaro segno del complotto. È un’evidenza, lo sanno tutti che c’è un gruppo a lei ostile e che vuole farla fuori. La fatica quotidiana di Elisa è quella di non farsi mai cogliere in fallo. Ogni volta che riesce a salvarsi da un attacco nemico incontra nello sguardo delle colleghe la delusione: “Si aspettavano che sarei caduta nel loro tranello, ma io li frego, vedranno di cosa sono capace!”. La paziente infatti annota su un diario di bordo tutto quello che accade a scuola: le circolari che le consegnano, le riunioni, gli incontri ecc. Questo diario, che Elisa aggiorna quotidianamente, è la modalità che ha trovato per tutelarsi da possibili accuse dei colleghi; il diario sarebbe l’unico strumento che le permetterebbe in futuro di dimostrare che ha svolto tutto in conformità alle regole scolastiche o alle indicazioni dei suoi superiori. L’esistenza di questo diario è segreta e rimarrà tale fino al giorno del suo esame, Elisa infatti è decisa ad allegare queste memorie alla sua tesi finale, pur non essendo in alcun modo richiesto. 124 Natascia Ranieri la storia familiare Elisa non si è mai sentita desiderata, i genitori sarebbero sempre stati premurosi nel soddisfare i suoi bisogni, ma mai attenti ai suoi sentimenti: “Mia madre non mi ha mai amata e mio padre era rigido e violento”. “Questo” spiega la paziente “può avere effetti catastrofici per una bambina.” Tale catastrofe affettiva sarebbe la causa dell’abissale senso di vuoto che invade ogni aspetto della sua vita e per cui soffre costantemente. Il padre di Elisa avrebbe costretto la famiglia a una vita di rinunce e di stenti per accumulare denaro. “Mio padre aveva il brutto vizio di non pagare niente: le tasse, le auto, le multe…” L’uomo, pur accumulando debiti, era riuscito ad acquistare vari immobili, che tuttavia con la sua morte non verranno ereditati da Elisa. Dopo la morte dell’uomo, infatti, seguirà un lungo percorso giudiziario, al termine del quale la paziente avrebbe preferito accollarsi gli ingenti debiti lasciati dal padre piuttosto che proseguire nella trafila legale; le proprietà verranno ereditate dai suoi fratellastri nonostante a Elisa ne spettasse una parte per testamento. I genitori di Elisa non si sono mai sposati perché suo padre non si sarebbe mai separato legalmente dalla sua prima compagna e moglie. L’uomo infatti all’inizio degli anni cinquanta aveva sposato una donna con la quale aveva avuto due figli. La donna dopo pochi anni lo avrebbe abbandonato portando con sé i suoi figli. La paziente ha scoperto l’esistenza di questa famiglia legalmente riconosciuta solo in età adolescenziale, quando, durante un litigio tra i genitori, sarebbe stata sua madre a rivelarlo. Elisa è molto arrabbiata con suo padre per non aver sciolto quel matrimonio e per non aver mai sposato sua madre. L’assenza di legalità che sancisce l’unione tra i suoi genitori è per la paziente l’onta irreparabile di cui sarà costretta a portare il peso per tutta la vita. Né la legge, né l’amore tenevano uniti i suoi genitori ma solo “la passione sessuale”. Il padre di Elisa militava attivamente in politica e negli anni ottanta avrebbe scoperto un giro di tangenti all’interno del suo partito, che avrebbe denunciato anche ai suoi colleghi, ma l’effetto sarebbe stato un’espulsione coatta dall’ambiente politico. L’uomo, inoltre, aveva una dote speciale nelle mani, che utilizzava per imporle sul corpo di un malato e curarlo, o per localizzare oggetti; Come neve al sole 125 era un pranoterapeuta e veggente, “uno dei pochi al mondo capace di fare queste cose”. Con la sola imposizione delle mani su una cartina geografica l’uomo era capace di localizzare con chiarezza dove fosse l’oggetto o la persona ricercata. Così anche le forze dell’ordine frequentavano la casa di Elisa per ottenere indicazioni sulle tracce di pericolosi ricercati o carichi di stupefacenti. Nelle parole della madre di Elisa il padre viene descritto come un uomo aggressivo, disonesto e misogino. Elisa sarebbe nata dopo ripetuti aborti. Durante l’infanzia la madre la picchiava spesso e le ripeteva continuamente di non averla mai desiderata. Elisa spiega: “Mia madre mi ha fatto pagare i suoi errori come donna e come madre”; come donna per essere stata con un uomo che non amava e per di più senza sposarsi, come madre per non aver mai amato sua figlia. il percorso di cura Primo tempo: diventare maestra “Se sono malata mi farò curare”, avrebbe pensato Elisa dopo essere stata tacciata di pazzia dalle colleghe. In realtà si convince fin da subito di non essere lei quella malata, ma che sono coloro che la circondano, le altre maestre, a essere folli. La paziente mi spiega fin dalla prima seduta che l’angoscia per questo anno di prova è legata principalmente alla paura di essere in procinto di un esame: l’unico esame che Elisa ha dovuto sostenere nella sua vita è associato a un trauma. Terminati gli studi magistrali, infatti, si era iscritta all’università, ma fu bocciata al primo esame. In tale occasione, suo padre si arrabbiò molto, la picchiò ma soprattutto la derise davanti a tutti. “Questo è il mio trauma,” spiega Elisa “mio padre mi prendeva sempre in giro per non aver passato l’esame, mi derideva davanti agli altri, diceva che ero un’incapace; io mi vergognavo molto.” Una sera intorno ai diciannove anni, ospiti in casa di parenti, suo padre la mise in ridicolo per non aver superato l’esame sostenuto e tutti i parenti presenti la derisero. Il racconto di questa scena traumatica è associato a un altro evento simile, accaduto quando la paziente aveva tre anni. La piccola Elisa era in vacanza con la famiglia e dopo aver mangiato una merendina chiese a suo padre di poterne 126 Natascia Ranieri mangiare ancora un’altra, l’uomo si arrabbiò molto e la picchiò rincorrendola per tutto il campeggio. Questi eventi, che Elisa racconta ripetutamente, come un ritornello, sempre con le stesse parole, sempre con la stessa intonazione della voce, rappresentano per la paziente i traumi fondamentali della sua vita che avrebbero prodotto in lei una chiusura sociale e una difficoltà a relazionarsi con il gruppo. Quando arriva in Jonas, Elisa vive un senso di isolamento sociale radicale che prende la forma del timore di essere annientata, fatta fuori: “C’è una volontà alta che vuole discriminarmi e isolarmi: la direttrice”. I soprusi sarebbero iniziati un anno prima, quando, durante un collegio docenti, Elisa si sarebbe ribellata rispetto alla violazione di alcune norme della scuola da parte di qualche collega. Parla molto confusamente di questo evento, tuttavia ritiene che l’attuale complotto contro di lei sia voluto dalla direttrice scolastica, alla quale in quell’occasione lei avrebbe rivolto pesanti imprecazioni. Elisa avrebbe protestato per difendere i diritti delle insegnanti precarie che nella scuola italiana vengono considerati professionisti di “serie B”. La paziente associa la sua contestazione a quella portata avanti da suo padre nelle fila del partito politico. Così è convinta che, come suo padre, anche lei verrà esclusa: “È una certezza: non avrò più un lavoro”. Con il tempo il racconto del litigio scolastico si arricchisce di particolari ed emerge che in tale occasione Elisa, rivolgendosi alle colleghe, avrebbe urlato: “Porco Dio!”. La pronuncia di queste parole blasfeme in pubblico rappresenterebbe un motivo sufficiente per toglierle l’idoneità al lavoro. Elisa non avrebbe tenuto una retta condotta, questo sarebbe un sufficiente motivo di licenziamento. Con il tempo la costruzione delirante di Elisa si modifica e la matrice del complotto non sarebbero più le colleghe con la perfida direttrice, ma direttamente Dio, che vorrebbe punirla per l’imprecazione pronunciata. Il padre divino di Elisa ha gli stessi attributi assegnati da sua madre al padre reale: punitivo, intransigente, capriccioso e dotato della capacità di vedere tutto. Dio l’avrebbe sentita pronunciare quella bestemmia e adesso vorrebbe punirla privandola del lavoro, sua unica linfa vitale. La paziente si sente priva di ogni diritto: del diritto di essere figlia, del diritto di avere un lavoro, del diritto di essere donna con un uomo, del diritto di vivere. In questo primo tempo della cura il rischio di passaggio all’atto è alto: Elisa teme di essere bocciata, ma in realtà lei stessa si sta mettendo nelle condizioni di non superare l’anno di prova. Le numerose assen- Come neve al sole 127 ze, i continui screzi con i colleghi, il mancato rispetto delle scadenze nelle consegne del materiale per l’esame finale possono compromettere seriamente la sua assunzione in ruolo. La direzione della cura in questo primo anno è stata innanzitutto orientata ad accogliere l’angoscia della paziente, offrirle un posto per l’articolazione dei suoi pensieri deliranti e ridurre il rischio di passaggio all’atto. Durante i nostri incontri, Elisa legge il suo diario di bordo e mi consegna tutti i documenti circolati a scuola e vissuti da lei come minacciosi. Inizia un lavoro di ricerca sulle leggi che tutelano il suo posto di lavoro: le norme che regolamentano la sua iscrizione in ruolo, il suo contratto e i suoi diritti di insegnante. Le ripeto che non è così facile mandarla via perché ci sono delle leggi che la tutelano e garantiscono il suo posto di lavoro. Elisa inizia a lavorare sul suo senso di radicale isolamento e sul suo rapporto con il desiderio materno. Il percorso di cura in questo tempo è stato inoltre orientato a mostrare a Elisa la dissimmetria tra sua madre e le altre persone che incontra ogni giorno, per permetterle di trovare uno spazio diverso dalla ripetizione in cui è avvolta: come si è sentita rifiutata da sua madre, così si sente isolata e non voluta da tutti, ma non tutti sono come sua madre. Inoltre, sua madre non si è sposata con suo padre, ma al contrario lei è stata riconosciuta da suo padre che le ha dato un cognome e le ha assegnato un’eredità che lei tuttavia si è rifiutata di ricevere. Elisa decide alla fine di non consegnare il diario di bordo e presenta la sua tesina. Nonostante la commissione di valutazione giudichi il suo lavoro finale frammentato e a tratti incomprensibile, Elisa supera il suo anno di prova e diventa una maestra. Secondo tempo: il vuoto abissale e l’erotomania L’impossibilità di Elisa di soggettivare la nomina appena ricevuta produce un periodo di grandi sconvolgimenti. Un rigonfiamento narcisistico e maniacale è la prima reazione all’assunzione in ruolo, Elisa orgogliosa per aver vinto il gruppo a lei ostile si sente invulnerabile. Crede di aver superato l’esame per le sue eccezionali doti di maestra, la sua tesina finale è un capolavoro e per questo è convinta di volerla pubblicare. Il suo elaborato è straordinario e tutti ne sono rimasti stupiti. La sua bravura è chiara ed evidente, non solo a scuola, ma 128 Natascia Ranieri in tutto il suo paese. Adesso non è più una mina vagante ma molte persone le si avvicinano e le sono solidali. Tutti la guardano e la ammirano; è troppo bella e gli uomini cadono ai suoi piedi. Essere una semplice insegnante non le basta, il suo obiettivo adesso è diventare la direttrice di una scuola. Per questo si iscrive all’università, nonostante sia terrorizzata all’idea di dover sostenere degli esami, ma la spinta a diventare una dirigente vince su ogni timore. “Dal momento in cui non ho passato l’esame all’università la mia personalità si è frantumata, disciolta come neve al sole”, il progetto dell’iscrizione all’università sarebbe orientato a ricostruire la sua personalità. “Diventare una maestra di ruolo” comporta la perdita della posizione di precarietà precedente e l’assunzione di una responsabilità inedita e inelaborabile per questo soggetto paranoico. Così la nuova nomina, rifiutata nel simbolico, si ripresenta nel reale in due differenti versioni: 1.si rivolge a un notaio per redigere un testamento; 2.si sottopone a due interventi di asportazione chirurgica di nei. In questo periodo Elisa si assenta dalle sedute. Quando si ripresenta ai nostri appuntamenti è radicalmente trasformata nel sembiante: è truccata, indossa abiti eccentrici e scollati. In maniera concitata mi racconta che sarebbe nato un feeling particolare con il chirurgo incontrato per questi interventi. Eccone il racconto: Quando sono entrata nell’ambulatorio ho sentito la sua voce: “Buongiorno!”. I medici che erano accanto a lui sono rimasti folgorati nel guardarmi: a uno sono cadute le carte che aveva in mano, un altro è rimasto a bocca aperta… sembravano tutti impazziti! Poi è iniziato l’intervento e a quel punto ogni distanza fisica con Alessandro (il medico) era annullata, lui mi chiamava “Elisa!”, oppure diceva “lei è mia!”… era dolcissimo! Poi, facendo finta di prendere delle carte che l’infermiera aveva poggiato sulle mie gambe mi ha toccata… mi ha toccata proprio lì! Dopo qualche giorno sono tornata per la medicazione e lui mi ha detto: “Che bella ferita!”, urlando davanti a tutti! È chiaro che si riferiva alla mia vagina che aveva toccato qualche giorno prima. Io non ho frainteso niente, le sue parole sono state chiare e inequivocabili: Alessandro ha una cotta per me! Crede che lui sia un po’ timido e riservato, così dopo vari tentativi di Come neve al sole 129 avvicinamento decide di prendere l’iniziativa e di invitarlo lei stessa a cena; il brusco rifiuto dell’uomo fa cadere Elisa in uno stato di profonda depressione. La paziente mi spiega che il senso di vuoto fa parte strutturalmente del suo animo, ma adesso è arrivato il momento di colmarlo costruendo una vita sentimentale. Così diverse passioni erotomaniche si susseguono in questo periodo, in un cliché che si ripete sempre identico a se stesso. Elisa incontra uomini che per lei occupano una certa posizione di prestigio sociale: un avvocato, un notaio, un chirurgo ecc. Prova un certo interesse per questi uomini e inizia subito a interrogare la loro posizione nei suoi confronti. Così frasi come “Ci vediamo”, “Ci aggiorniamo” diventano significanti monolitici che si slegano dalla catena significante per divenire indici di una certezza: “Quell’uomo vuole avere un rapporto sessuale con me”. Si tratta sempre di uomini che lei immagina condurre una vita triste e solitaria e che abbiano bisogno proprio di lei per riempirla. Così Elisa se ne innamora e dopo aver interpretato le parole di questi uomini come un chiaro riferimento sessuale decide di passare all’atto invitandoli direttamente lei, per aiutarli a vincere la timidezza. Crede che per lei sia più difficile stare nel dubbio che accettare di essere scartata. Quando poi incontra il rifiuto si deprime molto, soffre e non riesce a rintracciare un senso alla sua vita. Crede che gli uomini siano tutti codardi, come suo padre che non si è mai separato da sua moglie per sposare sua madre. La paziente interpreta il suo difficile rapporto con l’altro sesso annodandolo alla sua storia familiare. Così Elisa associa il rifiuto maschile al rifiuto materno: “Gli uomini non mi vogliono come mia madre non mi ha mai voluta”. Gli uomini percepirebbero in lei il vuoto causato dall’assenza dell’amore materno e se ne allontanerebbero spaventati, così la lascerebbero cadere come sua madre l’ha lasciata cadere non desiderandola. In questo tempo, Elisa riformula la sua domanda di cura; se un anno prima era arrivata chiedendomi un aiuto rispetto al timore di essere annientata dai suoi persecutori, oggi vuole continuare il suo percorso di terapia per trattare il suo vuoto dell’animo che, dopo l’assunzione in ruolo, è emerso con maggiore violenza: “Prima il mio nemico era esterno, adesso il mio nemico è interno, il mio nemico è il mio vuoto”. Sceglie così di parlarmi del suo vuoto e della sua immen- 130 Natascia Ranieri sa fatica di esistere. La paziente inoltre abbandona l’università, l’idea di sottoporsi a degli esami la angoscia troppo, ma si iscrive a vari corsi di aggiornamento professionale perché si sente un’insegnante non completa. Tale lavoro sul decompletamento della sua posizione lavorativa produce una pacificazione sul posto di lavoro e nei legami a scuola. Terzo tempo: il corpo come difesa dall’Altro Due anni fa, all’uscita da scuola Elisa subisce un borseggio che la terrorizza; da quel momento in poi in metropolitana, per strada, al supermercato vede gente pronta a rubarle qualcosa. Si sente costantemente minacciata da sguardi criminali, ma anche di ammirazione per la sua evidente e indubbia bellezza: “Non mi posso vestire bene quando vado in giro, mi devo imbruttire un po’ altrimenti mi si avvicinano tutti”. Per difendersi dall’incursione invadente di questi sguardi decide di iscriversi a un corso di difesa personale. Deve imparare a difendersi, non può permettersi che le rubino ancora qualcosa, ha già fatto troppe rinunce nella sua vita, inoltre non può concedersi a tutti quelli che la ammirano. Elisa pratica ormai da due anni con costanza e disciplina gli allenamenti del corso di difesa personale, è una pratica molto faticosa, ma lei vuole imparare a “dare un pugno da k.o.”. Pensa che quando diventerà brava andrà in Terra Santa per prendere un brevetto da istruttore. Elisa parla molto dei suoi allenamenti e del rapporto con la sua insegnate Karima che un giorno durante un’esercitazione le avrebbe urlato: “Excellent!”. “So bene cosa vuol dire – mi spiega – significa che ho raggiunto la capacità di dare un pugno da k.o., adesso posso uccidere qualcuno.” Crede che la sua insegnante le proporrà di avanzare in un corso da professionisti; Elisa è insieme eccitata e terrorizzata dall’idea. Crede che Karima abbia pianificato un progetto preciso per lei: “Vuole fare di me una spia”. Cerco di pacificarla dicendole che lei non è obbligata ad accettare un avanzamento di corso, che è da poco tempo che pratica questa disciplina, che c’è sempre da imparare e che è meglio che rimanga nel suo corso base. La paziente sceglie di rimanere nel corso da principianti, ma le idee di isolamento e controllo non si arrestano. La pratica della difesa personale per lei rappresenta una metafora Come neve al sole 131 dell’aggressore e dell’aggredito. Mi spiega che per la prima volta ha la possibilità di controllare l’aggressore, di prevederne i colpi, di difendersi dagli attacchi. La palestra diviene pian piano un luogo di socialità per la paziente, qui si sente a suo agio perché quello è il luogo in cui può incontrare tutti coloro che come lei sono stati aggrediti. L’investimento in questa attività svuota i vissuti paranoici di Elisa dall’ambiente scolastico che oggi non è più il luogo dell’isolamento e del controllo persecutorio. Colleghe, segretarie e commessi scolastici diventano amici con cui condivide uscite serali e trascorre dei week-end fuori città. Ogni tanto teme di andare fuori dalle righe e di essere male interpretata a scuola, così mi chiede dei consigli al fine di modulare i suoi legami sociali. Spiega che in passato sentiva di avere tutti contro, adesso crede che esistano dei bastardi, ma che non tutti lo siano e che comunque la bastardaggine faccia parte del genere umano: “Mi sento come in un limbo, prima mi sentivo schiacciata da tutti questi bastardi, ora mi sento in un momento di passaggio tra l’essere schiacciata e l’esserci, sopravvivere, nonostante tutto”. Elisa segue con impegno gli allenamenti, spesso salta le sedute per l’appuntamento in palestra o per partecipare a degli stage, in uno dei quali le hanno anche insegnato a sparare. I vissuti di controllo e isolamento si localizzano adesso in palestra, ma mi spiega che lei già conosce questa sensazione, l’ha già provata con sua madre e con la direttrice scolastica: “Io vengo isolata perché sono una figlia di zoccola” riferendosi a sua madre che non ha mai legalizzato l’unione con suo padre. “Anche se in palestra non mi vogliono – prosegue – io continuerò ad andarci perché la vita è una lotta per la sopravvivenza e il corso di difesa personale mi permette di imparare a sopravvivere.” commenti sul caso clinico Per fare luce sul caso fin qui esposto cercheremo di isolare dei punti che permettano di approfondire maggiormente il particolare rapporto di Elisa con il godimento, con il linguaggio e con l’amore. La psicosi paranoica e il godimento 132 Natascia Ranieri L’ingresso di questa paziente nel luogo di cura coincide con un momento di vacillamento del soggetto in coincidenza di una nomina che la investirà. Come per il caso del presidente Schreber, la tenuta del mondo per Elisa vacilla quando è chiamata a occupare una funzione per lei autorevole; quando si trova in procinto di essere investita da una promozione lavorativa: diventare una maestra. La paziente non ha gli strumenti per elaborare e assumersi la responsabilità di questo passaggio simbolico. Nella storia di Elisa, infatti, si rintraccia un’inattività del trauma edipico, il padre non ha funzionato da agente della castrazione. Il padre di Elisa non ha testimoniato, presso la propria figlia, una sottomissione all’ordine universale del linguaggio, piuttosto una sua sovversione. È un uomo che non rispetta la legge ma al contrario che fa la sua legge: non paga le tasse, le multe, intrattiene il legame con la madre di Elisa senza alcun vincolo di ordine simbolico conservando inalterato il precedente legame matrimoniale. È ancora un uomo che vede e prevede tutto oltre ogni limite. È l’Altro che gode senza freni e che si ripresenta nelle costruzioni deliranti della paziente. Inoltre sua madre non promuove quest’uomo agli occhi di Elisa, né d’altra parte la iscrive entro delle coordinate di desiderio; è una madre che lascia cadere la propria figlia. I pensieri deliranti della paziente dunque hanno la funzione di ricucire la sua difficoltà strutturale ad assumere il nuovo posto in ruolo. Emerge una nuova significazione che Elisa è chiamata ad assumersi: “diventare maestra”, ma il soggetto non ha gli strumenti per simbolizzarlo. È evidente come la paziente manchi di qualcosa, di quell’elemento che le permetta di fare ordine. Tale mancanza non è virtuosa e fonte di desiderio come accade nella nevrosi, ma è un vuoto radicale che emerge in ogni momento nella vita di questa donna. Il suo vuoto è in primo piano e riduce costantemente il soggetto a oggetto del godimento in un doppio versante: 1.del godimento dell’Altro persecutore; 2.del godimento dell’Altro amante nelle passioni erotomaniche. In ogni caso il godimento è tutto nel campo dell’Altro: del persecutore che vuole farla fuori, o dell’uomo di potere che la ama follemente. Per questa paziente il simbolico non è stato efficace nell’operare una Come neve al sole 133 castrazione del godimento che, non orientato dall’ordine fallico, resta ingovernabile riducendo il soggetto a puro oggetto in balia di un reale caotico. L’erotomania rappresenta l’altra faccia della persecuzione paranoica: l’Altro che odia e l’Altro che ama sono in ugual misura onnipotenti e idealizzati. Nel rapporto con l’altro sesso questa donna incontra la dimensione della sessualità come ciò che assolutamente non può simbolizzare e l’enigma diventa una voragine turbinosa e annichilente. Su questo vuoto strutturale la paziente costruisce il suo delirio di erotomania come possibilità di far fronte alla montata pulsionale ingovernabile. Così Elisa produce un sapere sull’uomo, pian piano conosce i suoi gusti, le sue abitudini, sa leggere nei suoi pensieri. I partner delle sue passioni sono sempre timidi, poco coraggiosi nell’incontro a causa di qualche trauma subito nell’infanzia o per mano di una donna. Uno sguardo, una stretta di mano, un’inflessione particolare nella voce, una parola che olofrasticamente inizia a vivere di vita propria, divengono così per Elisa segni inequivocabili della sua posizione di amata. Soluzioni soggettive In questi anni di trattamento Elisa non ha inventato una costruzione sinthomatica che ricucisse la lassità del suo legame con il simbolico. Fino a oggi i suoi tentativi di fare ordine sono sempre stati operati nel senso di ricucire il ritorno nel reale di ciò che è forcluso nel simbolico, tuttavia in modo fallimentare, come si vede bene nella trama sfilacciata e frammentata delle sue costruzioni deliranti. Anche il corso di difesa personale intrapreso da Elisa non rappresenta una stampella che offra tenuta simbolica al soggetto. Questa pratica del corpo, infatti, non le restituisce un nome, non le permette una sua iscrizione sociale, piuttosto può essere interpretata come una qualche ricerca di trattamento del godimento attraverso il corpo, tuttavia fallimentare, perché strutturalmente il corpo non ha una tenuta stabile. La difesa personale non rappresenta Elisa presso un altro significante, nel sociale. La pratica sportiva non funziona come un “paravento” per proteggersi dalle infinite risonanze di senso dei significan- 134 Natascia Ranieri ti,2 perché non supplisce il capitonaggio assente a causa della forclusione del Nome-del-Padre. Piuttosto l’attività fisica può rappresentare il tentativo di organizzare il disordine strutturale del godimento, che appartiene al soggetto, ma che localizza nell’Altro. Così la paziente cerca attraverso questa disciplina uno strumento di difesa dall’incursione enigmatica dell’Altro e del suo godimento. Il progetto di Elisa è quello di utilizzare il suo corpo per difendersi dalle aggressioni sempre incombenti dall’esterno. La sua esigenza urgente è quella di difendersi dall’Altro, vissuto come luogo di minaccia costante. La difesa per Elisa è presa alla lettera, con il suo corpo deve difendersi dalle incursioni di un altro corpo, in una specularità che la inchioda a una via ripetitiva e senza uscita. L’olofrase paranoica In questo caso clinico emerge con chiarezza la dimensione olofrastica del significante nella psicosi, di cui Lacan ci parla nel Seminario xi.3 Così la parola dell’Altro si scorpora dal contesto significante, si svincola dalla catena rappresentativa, ed emerge come un’evidenza olofrastica ed enigmatica. Per Elisa ogni parola, gesto e movimento dell’Altro è segno di qualcosa di ignoto da interrogare. Spesso, infatti, quando si trova dinanzi a particolari significazioni per lei oscure, procede per interrogativi: cosa vorranno da me? Cosa si nasconde dietro? Gli interrogativi divengono sempre più incalzanti, la ricerca incessante di un senso non fa mai presa, tutto diventa segno di qualcosa d’ignoto, il significato sfugge continuamente e il soggetto è in balia di una morsa enigmatica annichilente. In questa prospettiva il luogo della terapia con questa paziente, in alcuni momenti, ha funzionato come possibilità di limitazione e riduzione dell’enigmaticità del significante. L’amore morto Nel Seminario iii Lacan affronta il tema dell’amore nella psicosi defi2 Jacques-Alain Miller, Lacan con Joyce. Seminario di Barcellona ii, in “La Psicoanalisi”, n. 23, Astrolabio, Roma 1998, p. 40. 3 Jacques Lacan, Il seminario. Libro xi. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 1979, p. 241. Come neve al sole 135 nendolo un “amore morto”.4 Per spiegare meglio cosa si intenda fa ricorso a due paradigmi: 1. L’amore fisico e l’amore estatico: Lacan riprende la distinzione operata da Pierre Rousselot che si era occupato del problema dell’amore nel Medioevo operando una distinzione tra “amore fisico” e “amore estatico”. Il primo è l’amore per se stessi, di tipo narcisistico e speculare. L’amore estatico, in opposizione all’amore fisico, è il sentimento di chi ha rinunciato all’amore per se stesso aprendosi verso l’amore nei confronti dell’Altro. È un amore che fa i conti con l’Altro in quanto simbolico, che ne presuppone la sua esistenza. L’amore nella psicosi, secondo Lacan, è maggiormente prossimo all’amore fisico di chi, non acconsentendo alla castrazione, non ha rinunciato all’amore per se stesso. L’amore fisico non preserva la differenza tra l’amante e l’amata ma tende a cancellarla, puntando all’unità ideale e monolitica della coppia. 2. L’amore nel romanzo medioevale: Lacan rileva una prossimità tra la degradazione del discorso amoroso che incontriamo nel romanzo medioevale di stile arcadico e il legame d’amore nella psicosi. In questi romanzi si raccontano le disavventure amorose dei protagonisti alla costante ricerca di conquistare l’amore della loro amata. Tali peripezie si dispiegano in un clima a metà tra il comico e l’eroico. In ogni caso, sottolinea Lacan, si tratta sempre di un amore platonico, casto, irrealizzato, ridicolo, con il carattere di puro miraggio, al punto che, ironizza Lacan, se dinanzi al cavaliere ci fosse stata realmente la donna in oggetto o uno schermo cinematografico, non avrebbe fatto differenza! È uno stile d’innamoramento che va nel senso della follia del puro miraggio, perché si è perso il carattere imprevisto dell’incontro con una dimensione enigmatica che metta in gioco la responsabilità del soggetto nel rapporto con l’amata. L’amore nella psicosi, come raccontato nei romanzi medioevali, tende a preservare questo carattere ideale di puro miraggio. Lo psicotico fa fatica ad accedere a una forma di amore “vivo” che Id., Il seminario. Libro iii. Le psicosi (1955-1956), Einaudi, Torino 2010, pp. 289-291. 4 136 Natascia Ranieri metta in gioco il desiderio, l’impossibile da dire, il segno della mancanza. Se l’amore, come ci insegna Lacan, è il velo sull’inesistenza del rapporto sessuale, lo psicotico tende a fare esistere La donna e il rapporto sessuale, facendo obiezione dunque all’impossibile del discorso amoroso. L’amore nella psicosi è morto perché non ha in sé il carattere virtuoso dell’enigma e del dubbio circa il posto dell’amante per l’amato ma, come si vede bene nel caso di questa paziente, l’amore diventa una certezza monolitica. Elisa ama di un amore morto, che non fa segno ma che la abolisce come soggetto inchiodandola in una posizione di puro oggetto di godimento. Il vomere del significante Anna Zanon Porrò la questione del limite a partire da due frammenti clinici, nei quali si può cogliere in che modo il lavoro significante nella cura arrivi a costruire un limite sia nella nevrosi che nella psicosi, pur seguendo strade opposte: nell’una, lasciando lavorare la rimozione, nell’altra lavorando intorno al buco forclusivo. All’inizio della terapia, che dura da otto-nove anni, per Giovanni la preoccupazione è tenere bassa la tensione, stare tranquillo: quello che accade giorno dopo giorno non si scrive, non ricorda facilmente quello che ha fatto il giorno prima. Il tempo è un flusso continuo che non deve essere spezzato, scandito dall’evento. Ogni evento è traumatico, tutte le ricorrenze festive le passa a casa a dormire con una buona dose di sonnifero, quindi si tratta di procedere a una cancellazione sistematica perché nulla si scriva, nulla faccia trauma. Non poter cogliere il rilievo della parola o di un evento significa dover restare insensibile a ogni impressione, qualunque essa sia, e concepire il discorso solo come un’uniformità sullo sfondo della quale nessun messaggio risalta.1 Gran seduttore, Giovanni è subissato dalle richieste di amiche e colleghe. Lo sguardo è la sua arma di seduzione per catturare il riconoscimento dello sguardo dell’Altro, ma si tratta di una parata sessuale fasulla; getta l’amo e poi si blocca, non vive con passione l’incontro Si veda Marie-Claude Lambotte, Il discorso melanconico (1993), Borla, Roma 1999. 1 138 Anna Zanon con una donna e il seduttore, che porta le insegne dell’amore, si rivela soltanto una sagoma da richiamo. Giovanni vive in un appartamento adiacente a quello dei genitori, i quali tengono la porta che dà sul vano scale sempre aperta in modo da controllare ogni movimento del figlio, e se Giovanni al suo rientro non passa a salutare, deve subire le recriminazioni della madre. I genitori litigano moltissimo da sempre: il padre, taciturno, viene costantemente attaccato dalla moglie che vorrebbe parlare, avere attenzioni. Rivendicativa e lamentosa, quello che non riesce a ottenere dal marito lo pretende dal figlio. Rumore disarticolato, suono senza senso, l’alterco violento, sottraendosi all’impegno del ben-dire, provoca un’emorragia della significazione cancellando i tratti distintivi del significante. Nastro sonoro indifferenziato, esso trascina via come un ciclone pensieri, sensazioni, sentimenti, lasciando dopo il suo assalto un paesaggio desertico e rovinoso. Questa caduta del senso che trascina con sé il soggetto sembra l’effetto di una parola traumatica, invasiva che, anziché significare il soggetto in modo particolare, lo colpisce dolorosamente come un proiettile di godimento. Una manovra preliminare all’avvio di un’articolazione possibile della sofferenza di Giovanni è stata quella di ottenere dai genitori che la porta del loro appartamento rimanesse chiusa, e si aprisse solo quando Giovanni chiedeva di entrare. Questo abbozzo di gioco simbolico tra presenza e assenza, questa soglia tra interno ed esterno avvia una modulazione significante del “tutto o niente”: in questa prima fase della cura, il ben-dire si pone come obiettivo da raggiungere, affinché il niente di senso rappresentato nei cupi silenzi e il senso-tutto affidato al turpiloquio si snodino lungo la catena significante. Molte volte sono intervenuta a temperare certi termini piuttosto forti che Giovanni usava per esprimere i suoi stati d’animo: per esempio, quando diceva “Quella tal cosa mi ha totalmente scompensato”, gli facevo notare che tra l’irritazione o il turbamento e lo scompenso c’era una notevole differenza. In questo tempo, che potremmo definire di educazione linguistica e affettiva, l’intervento clinico tende a effettuare un lavoro di bonifica nel campo dell’Altro, dove i litigi familiari, le urla e le parolacce hanno fatto scempio del “tesoro del significante”. Giovanni ha il mito della perfezione fisica: certe imperfezioni del suo corpo, o qualche dolore più o meno persistente qua e là lo angosciano molto. Un intervento di chirurgia plastica, che gli restituisce Il vomere del significante 139 lineamenti più armoniosi e soddisfacenti, ha in lui l’effetto di un abbaglio: l’immagine ideale finalmente raggiunta imprime una svolta ipomaniacale alla sua condotta, inducendo una serie di acting-out. Ma il punto di maggior fragilità di questo soggetto sono le relazioni amorose: Giovanni non riesce a trovare la giusta distanza tra sé e l’altro, per cui oscilla tra pericolosi scivolamenti dentro lo specchio da cui si sente inghiottito e l’essere buttato fuori nel nulla, abbandonato. Non riesce a stare vicino a una donna, non riesce a starne separato. Possiamo dire che in questo soggetto è la funzione dell’ideale dell’Io a essere stata perturbata. Nella strutturazione immaginaria, dice Lacan, il soggetto si reperisce nella misura in cui trova una guida al di là dell’immaginario, cioè sul piano simbolico, sul piano dello scambio legale, che s’incarna solo nello scambio verbale tra esseri umani. Questa guida che comanda il soggetto è l’ideale dell’Io. L’ideale dell’Io è l’altro in quanto parlante, l’altro con cui s’intrattiene una relazione simbolica. Lo scambio simbolico è ciò che lega tra loro gli esseri umani, cioè la parola, e che permette d’identificare il soggetto. Non basta l’identificazione narcisistica perché il soggetto si compiaccia di se stesso. L’immagine speculare veste come un abito il corpo frammentato del bambino, a condizione tuttavia che egli possa aggrapparsi al riferimento del genitore che, davanti allo specchio, lo porta, lo guarda e gli parla. Insomma, perché il soggetto possa apparire amabile a se stesso bisogna che qualcuno, in posizione di terzo, si interessi a lui. È l’ideale dell’Io, come istanza terza, simbolica, che regola la strutturazione dell’io ideale, puramente immaginario. Cosa avviene quando la funzione dell’ideale dell’Io è perturbata, come nel caso di Giovanni, quando non la parola articolata, ma il suono disarticolato dell’aggressione verbale tra i genitori gli ha fatto da guida? Avviene che il corpo si trova esposto alla frammentazione e l’io, per farvi fronte, si protende pericolosamente verso lo specchio alla ricerca dell’immagine ideale che calmi l’angoscia della frammentazione. In cosa è consistito, e consiste tutt’ora, il lavoro con Giovanni? Essenzialmente esso segue due direttrici: 1. educazione linguistica e affettiva. La bonifica del campo dell’Altro, in cui il vomere del significante traccia solchi sulla terra bruciata del senso, crea alloggi dove il godimento può ripartirsi e 140 Anna Zanon defluire, e il pensiero, prima soggetto a un resettaggio sistematico, può articolarsi in unità significanti discrete; 2. interventi direttivi volti a temperare le tendenze maniacali che caratterizzano le sue performance sportive e sessuali. L’altro frammento clinico riguarda un caso di anoressia isterica. Tiziana, oggi trentenne, diventa anoressica verso i diciassette anni non appena la sorella, maggiore di otto, guarisce. Fin da piccola, da quando la sorella si ammala di anoressia, i genitori esigono da lei rigore, controllo e senso del dovere, assegnandole il ruolo della mediatrice, cioè di colei che smista le comunicazioni in famiglia: Tiziana non occupa un posto suo, ma deve tenere una posizione neutra, è il perno. I suoi desideri, la sua particolarità vengono sacrificati in nome della stabilità della famiglia, già impegnata a far fronte alla malattia della sorella. Tiziana diventa anoressica appena la sorella guarisce: ciò che aveva appreso in quegli anni è che per essere presa in considerazione bisognava ammalarsi. La madre, di origini umili e poco colta, misura il benessere attraverso il cibo; il prestigio sta tutto dalla parte del padre, uomo tutto d’un pezzo, dirigente di alto livello. Rigore, controllo e senso del dovere sono tratti prelevati dal padre, per cui Tiziana deve primeggiare per mantenerne gli standard. Dopo il pensionamento, questo padre comincia a soffrire di depressione e di periodici attacchi di gastralgia, a cui fanno eco le coliche di Tiziana che spesso richiedono il ricovero in ospedale. Padre e figlia hanno lo stesso sintomo. La magrezza di Tiziana è tale che le si vedono le ossa, “le mie armi”, come lei le definisce, ostentandole contro la morbidezza del corpo femminile, in particolare del corpo materno. Tale passione anoressica per le ossa realizza una fallicizzazione dell’immagine del corpo, in cui la femminilità si sottrae allo scambio sessuale.2 Ma di questo caso, ciò che m’interessa mettere in rilievo è un preciso passaggio della cura segnato da un sogno di transfert che ha impresso una svolta alla vita di questo soggetto. Questo è il sogno: “Sono a tavola con lei e mangio. Entra molta luce dalla finestra, e noto la luce, non quello che è sulla tavola”. Dopo questo sogno, che segna il passaggio al lettino, fa un altro sogno che si ripete due notti di seguito: Il vomere del significante Sono nella casa che abitavo da bambina e mia sorella mi abbraccia. Mentre mi abbraccia, divento piccola, di cinque-sei anni. Stefania mi dice: ‘Non hai visto il buco sul soffitto? È da lì che sono iniziati i nostri guai’. Effettivamente, vedo sul soffitto della camera dei miei un buco grande da cui si vede il cielo. Il letto matrimoniale è sfatto. Racconta il sogno alla sorella, la quale con grande emozione le dice che a quell’epoca, quando Tiziana aveva cinque-sei anni, il padre si era innamorato di un’altra donna per cui i genitori stavano per separarsi. Quando litigavano Stefania, per proteggere la sorella minore, l’abbracciava e la portava via. Dunque, il padre aveva un desiderio, non era quell’uomo irreprensibile, tutto dovere, esigente, perfetto che Tiziana credeva. Il padre ideale è il padre morto, dice Lacan, e un desiderio è ciò che lo rende vivo, umanamente imperfetto. Potremmo leggere l’anoressia di Tiziana come la risposta alla viltà morale del padre che non ha saputo incarnare la passione del suo desiderio e non ha potuto trasmettere la mancanza, ha preferito cioè essere un modello esemplare anziché dare testimonianza di una debolezza. La testimonianza è ciò che buca necessariamente ogni esemplarità e ogni universalità. Non esiste una testimonianza esemplare o universale. Anzi, l’intenzione di dare il buon esempio è spesso fonte di morali autoritarie e ideologiche. La verità che si trasmette in una testimonianza è necessariamente indebolita, perché non può vantare modelli esemplari o universali.3 Se per un verso la rinuncia al desiderio da parte del padre ha rinsaldato il legame incestuoso di entrambe le figlie, che hanno imboccato prima una poi l’altra la strada della dipendenza, della rinuncia alla femminilità, indugiando oltre il dovuto nei desideri infantili, dall’altro il reperimento della mancanza nel padre grazie al lavoro analitico è ciò che ha permesso a Tiziana di porre un limite al godimento anoressico. Solo l’amore – anche l’amore di transfert – permette al godimento di accondiscendere al desiderio.4 Id., Cosa resta del padre?, Raffaello Cortina, Milano 2011. Si veda Jacques Lacan, Il seminario. Libro x. L’angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino 2007. 3 4 Si veda Massimo Recalcati, Clinica del vuoto, FrancoAngeli, Milano 2002. 2 141 riflessioni di un’analista in formazione… Riflessioni di un’analista in formazione sulla pratica del controllo Paola Gottardis Il presente lavoro propone alcune riflessioni in merito alla pratica del controllo, dando una breve testimonianza di come il senso di questa prassi si sia trasformato nel corso della mia formazione in progress. A tale proposito, posso articolare l’esperienza del controllo in tre tempi. primo tempo: l’altro come garante All’inizio della mia formazione come psicologa all’interno del Servizio Pubblico, erano due le logiche alle quali mi sentivo di dover aderire. La prima riguardava una posizione di maternage da tenere nella cura: il paziente andava accolto, ascoltato, accontentato ma anche scusato, sgridato e comunque sempre perdonato e riaccolto. In questa ottica ero soprattutto io, la psicologa, che dovevo dire qualcosa al cliente/paziente, in una sorta di “ingozzamento” senza fine e, a volte, senza senso. La seconda questione era la posizione di un sapere quasi onnisciente che, in quanto psicologa rappresentante il servizio, ero tenuta a sostenere. Infatti, all’interno di un’istituzione pubblica lo specialista è colui che “sa”, senza farsi troppe domande sulla direzione della cura. Se si verificavano degli intoppi nel percorso terapeutico, poteva essere colpa del paziente scellerato, degli altri servizi non disponibili, o del destino sfortunato. 143 Quali parole trovare, dunque, per descrivere l’impatto teorico, il rovesciamento dialettico, l’assunzione etica così tanto diversi che scoprii accostandomi al discorso psicoanalitico lacaniano? Essendomi avvicinata alla psicoanalisi per la via del transfert in una piovigginosa mattina del marzo 2001, ciò che colpì il mio profano ma entusiasta interesse fu un modo nuovo e diverso di ascolto del paziente che veniva chiamato “analizzante”. Nei primi anni di pratica e formazione lacaniana le questioni erano: cosa ero tenuta a fare e a dire come apprendista analista? “L’analista non si autorizza che da sé” dice Lacan in Radiofonia e Televisione. “Oddio, ma veramente?” pensavo allarmata quando facevo la “colloquista” negli incontri preliminari presso l’aba di Trieste. Da parte mia, infatti, non volevo autorizzarmi per niente, non ne volevo proprio sapere. Correvo in supervisione pretendendo che la risposta giusta sul cosa fare venisse da un Altro infallibile, piacevolmente non barrato, che avrebbe dovuto garantire per me la buona riuscita della terapia. Seguire alla lettera le indicazioni dell’analista esperto mi dava la confortante illusione di non correre rischi, cercando di allontanare castrazione e fallimento. Molto spesso, invece, la risposta dell’analista controllore alle mie domande ansiose era prevalentemente: “Ascolta quello che dice il paziente! Poi vedremo…”. Quel vuoto di sapere ovviamente mi mise al lavoro nell’analisi personale, nell’approfondimento teorico, e soprattutto nello spostamento dell’attenzione verso il discorso del soggetto. Manovra quest’ultima apparentemente semplice e dal sapore zen, ma di importanza fondamentale. Quindi le supervisioni presero un altro senso. secondo tempo: la questione diagnostica Con il progredire della formazione teorica, il problema della diagnosi strutturale divenne il discorso principale nelle mie richieste di supervisione. Terrorizzata dal rischio di trattare uno psicotico come un nevrotico, o di non capire come differenziare un sintomo isterico da uno ossessivo, radiografavo, sezionavo, scandagliavo nel controllo il povero paziente. Ogni virgola del discorso avrebbe potuto essere importante 144 paola gottardis ai fini diagnostici e l’incasellamento che pretendevo di attuare non ammetteva eccezioni. Meno male che, a differenza delle farfalle, la clinica e l’inconscio sono piuttosto refrattari a essere catalogati! Illuminante per me fu la frase di Mariela Castrillejo: “Tengo sempre a mente la diagnosi… senza pensarci mai”. Questo per sottolineare come la conoscenza teorica sia stata e sia uno strumento necessario ma non sufficiente. Infatti, per quanto l’ipotesi diagnostica sia fondamentale per non nuocere grossolanamente nella direzione della cura, c’è qualcos’altro che deve entrare in gioco nel lavoro analitico. terzo tempo: il desiderio dell’analista Molte ore di controllo, di teoria e di analisi personale dopo, cosa vuol dire per me chiedere controllo oggi? Sicuramente qualcosa che include e al tempo stesso va al di là di interrogazioni teoriche e tecniche per la conduzione della cura, ovvero qualcosa chiamato il desiderio dell’analista. Jacques Lacan, nella Proposta del 6 ottobre 1967 intorno allo psicoanalista della Scuola, dice che non sono la stessa cosa “il desiderio di essere analista” e “il desiderio dell’analista”. Quindi, nella direzione della cura, la variabile dell’analista non viene presa in considerazione per il contro-transfert, bensì a partire dal desiderio dal quale l’analista stesso si autorizza come tale. Mi piace molto la questione, ripresa dagli annali del Comitato d’azione della Scuola Una, che intende il desiderio dell’analista nel suo doppio versante: quello del desiderio dell’analista in formazione e quello della formazione del desiderio dell’analista. Da quale posizione inconscia mi autorizzavo fino a non molto tempo fa e di come questa stia cambiando ve lo racconterò un’altra volta. Diciamo che oggi, per me, chiedere controllo è necessario per vegliare proprio su questo desiderio, vigilare sulla mia posizione inconscia per non scivolare verso antiche identificazioni. La nuova sfida è cercare un modo nuovo di incarnare la funzione dell’analista al di là del fantasma, pur tenendone conto. Oltre a ciò, attualmente mi rendo anche conto che, rispetto al passato, non seguo più alla lettera le indicazioni riflessioni di un’analista in formazione… 145 date dal controllore, in quanto qualche volta è meglio “disubbidire” quando non si è convinti piuttosto che rischiare di applicare qualcosa di cui non si condivide il senso. Mi avvio alla conclusione con un paio di questioni in merito alla figura dell’analista controllore. Lacan nell’atto di fondazione dice: “L’insegnamento della psicoanalisi non può trasmettersi da un soggetto a un altro che attraverso un transfert di lavoro”. In una delle prime riunioni con gli amici e colleghi di ali di psicoanalisi si sono aperte le discussioni se ci siano, e quali dovrebbero essere, i criteri “minimi” per la scelta dell’analista controllore. Sono concorde con il fatto che il supervisore non sia soltanto il proprio analista, per evitare di sclerotizzare il transfert distribuendolo invece all’interno della comunità analitica e scientifica di cui si è scelto di far parte. Ciò che non mi è ancora chiaro è se un caso possa essere supervisionato da più controllori. Da un lato mi sembra non opportuno spingere verso derive immaginarie e controlli globetrotter, ma dall’altro perché non poter avere pareri diversificati rispetto a un’empasse? Nel frattempo cercherò di ricavare uno stile personale oltre la grammatica fondamentale, al fine di incarnare il Soggetto supposto Sapere per un altro soggetto, rappresentare il sembiante di un posto che deve essere mantenuto vuoto, avere il coraggio di attuare delle manovre al momento opportuno, tacendo sull’amore e attendendo la sorpresa. Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli Pino Pitasi Un’anticipazione… … proviamo a seguire nel tempo i vari movimenti di dissidenza giovanile del nostro e degli altri paesi ad alto sviluppo industriale. Quello che colpisce, a prima vista, è lo scarto tra la fragilità dei contenuti programmatici e dei comportamenti, da un lato, e, dall’altro, la capacità di resistere ai numerosi tentativi di riassorbimento e di conciliazione. In modo dapprima irriflesso, poi sempre più consapevole, il gruppo ha messo in moto la dialettica del desiderio. Ogni meta e proposta è superata nel momento stesso in cui è raggiunta. Dunque ciò che conta non è la meta, non è la proposta in sé, più o meno “reale”; il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio. Perché questo permanga, bisogna perdere l’illusione di un’incarnazione definitiva del desiderio: il desiderio appagato è morto come desiderio, e alla sua morte fa seguire la morte del gruppo…1 aut” dedica alla figura e all’opera di Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio2 e a un’antologia di testi Intorno al ’68,3 a cura di Marco Conci e Francesco Marchioro, con interventi e testimonianze di vari autori (Luciano Amodio, Sergio Benvenuto, Enzo Morpurgo, Francesca Oldrini, Enrico Palandri, Mario Perniola). Mi sono parsi utili questi due riferimenti per dire, assai in breve, qualcosa dello stile di Fachinelli e spero, in modo più articolato, qualcosa di più della sua “originale e inclassificabile”, forse, idea della psicoanalisi e della formazione degli analisti. Franco Lolli su “il manifesto” descrive Elvio Fachinelli come “uno psicoanalista a misura del mondo”4 e sulle stesse pagine Paulo Barone ne fa un ritratto che gli fa dire “intramontabile Fachinelli”, specificando che “ciò che non tramonta è la grazia rivoluzionaria”.5 Fachinelli prendeva la parola e lo faceva pubblicamente senza mai strizzare l’occhio alle mode del momento (… parlo dei cosiddetti tumultuosi anni settanta, ma perché mai solo tumultuosi e non anche fecondi perché tumultuosi e traumatici?…), era un cittadino del mondo che, con il proprio bagaglio di sapere psicoanalitico, non delegava ad altri il compito impervio e appassionante di costruire e frequentare, insieme ad altri, quell’immaginario collettivo che fece pratica di trasformazione operando nel vivo della società. Si ricordi la bellissima esperienza dell’asilo autogestito, non autoritario, nel quartiere Ticinese a Milano, poi raccolta, raccontata e discussa a più voci e nelle prime pagine del libro L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola.6 Oggi suonerebbe come un azzardo fuori tempo massimo, ma quella sfida dovrebbe più che mai tornare attuale, visto lo stato d’abbandono in cui versano i quartieri della periferia milanese, poiché incontrando e scontrandosi con l’opera di Fachinelli non si può fare a meno Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio, numero monografico di “aut aut”, n. 352, il Saggiatore, Milano 2011, pp. 3-7. 3 Elvio Fachinelli, Intorno al ’68: un’antologia di testi, a cura di Marco Conci e Francesco Marchioro, Massari, Bolsena 1998. 4 Franco Lolli, Uno psicoanalista a misura del mondo. Le passioni cliniche e politiche, in “il manifesto”, 18 dicembre 2009. 5 Paulo Barone, La sua era una grazia rivoluzionaria intramontabile, in “il manifesto”, 18 dicembre 2009. 6 Elvio Fachinelli, Luisa Muraro Vaiani e Giuseppe Sartori, a cura di, L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, Einaudi, Torino 1971. 2 lo stile e le idee di elvio fachinelli… Per affrontare il tema piuttosto delicato della formazione dell’analista farò riferimento a un recente numero monografico che la rivista “aut Elvio Fachinelli, Il desiderio dissidente, in “Quaderni Piacentini”, n. 33, febbraio 1988. 1 147 148 Pino Pitasi di affermare con le parole di Silvia Vegetti Finzi che si trattò di “un intellettuale lacaniano che sposò psicoanalisi e politica”.7 pesi e contrappesi della formazione… I luoghi della formazione teorica e pratica per Fachinelli raramente furono le cittadelle accademico-universitarie e la sua originalissima riflessione culturale si ritrova a macchia di leopardo in numerose riviste dal carattere collettivo. Si pensi all’esperienza della rivista “Quaderni Piacentini”, che sarebbe diventata in quegli anni l’organo ufficiale del movimento studentesco. Sempre viva in Fachinelli la necessità di affiancare ai propri contributi teorici la costruzione di una prassi alternativa. Rinvio, per meglio comprendere questa sua tensione etico-politica, a tre importanti contributi teorici comparsi sull’omonima rivista “L’erba voglio”, fondata con Lea Melandri, sul paradosso della ripetizione. Qui l’autore si chiede come sia possibile per gli esseri umani esprimere e realizzare autonomamente il loro desiderio in modo tale da superare il freudiano Wiederholunswang, ossia la coazione a ripetere. Sappiamo bene quanto sia decisiva nell’esperienza analitica questa spinta, la forza di questa insistenza che fa dire a Lacan: “È la legge propria di questa catena a reggere gli effetti psicoanalitici determinanti per il soggetto”.8 Sarebbe interessante riprendere e approfondire, in altra sede, tale questione per il modo in cui Fachinelli confrontandosi con Freud e Lacan cerchi una via terza per dire la “ripetizione”, quella che chiamerà la “ripresa” – posta tra la “replica” (una riproduzione, un facsimile) e la “riduzione” (un impoverimento dell’originale, un’obbedienza) – per sottolineare “un ricominciamento aperto verso l’avanti, […] come si parla della ripresa […] (nella voga, la ripresa è quando il remo uscito dall’acqua, viene spostato in aria prima di essere rituffato)”.9 Elvio Fachinelli appare instancabile in questa sua funzione critica. 7 Silvia Vegetti Finzi, Elvio Fachinelli: i tumulti di un lungo decennio, in “Corriere della Sera”, 11 dicembre 1998, p. 35. 8 Jacques Lacan, Il seminario su “La lettera rubata” (1966), in Id., Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1974, vol. i, p. 7. 9 Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit., p. 173. Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli 149 Affianca lo svizzero Berthold Rothschild nell’organizzazione del controcongresso che movimentò le giornate del xxvi Congresso dell’International Psychoanalytic Association (ipa), tenutosi a Roma nel 1969 e che fece molto discutere proprio per la denuncia, come scrive molti anni dopo lo stesso Rothschild, della struttura autoritaria, conservatrice e reazionaria dell’establishment psicoanalitico. Proprio da qui e dalla lunga conversazione tenuta con Fachinelli da Sergio Benvenuto mi sforzerò di suggerire qualche spunto e di gettare uno sguardo nella vexata quaestio della formazione degli analisti. Lo stesso Lacan ebbe a dire a questo proposito e in modo per lui insolitamente dubbioso quanto mai fosse difficile e rischioso indicare una via e una soltanto per rendere possibile la trasmissione della psicoanalisi e la formazione degli analisti. Poiché sempre aleggia in questo controverso dibattito l’esito ambivalente/ambiguo di una certa nostalgia per una figura di maestro (figura genitoriale, la definisce Fachinelli) piena, senza buchi, magari buona (via transfert) per fare carriera e così via. Forse, proprio su questo punto, tanto Freud quanto Lacan, almeno secondo Fachinelli, avrebbero potuto e dovuto analizzare di più il loro desiderio di trasmettere e formare attraverso la fondazione/ istituzione di una Scuola, di un gruppo organizzato. Gli approdi, o forse è più corretto parlare di derive, delle diverse Scuole o scolastiche psicoanalitiche sulla base dell’esperienza storica, almeno per quel che si mostra a oggi, non sono stati affatto incoraggianti e soprattutto non hanno incoraggiato la libertà dell’esperienza psicoanalitica che ha visto i suoi discepoli, anche i migliori, sempre preoccupati di preservare piuttosto che di riformare e/o rinnovare la presenza della psicoanalisi stessa nella società. Fachinelli, forse proprio per mostrare tale insofferenza verso l’identico, a chi gli chiedeva un controllo, tripode essenziale della formazione analitica, rispondeva con supervisioni brevi, perché, aggiungeva, forse provocatoriamente, “nel giro di sei mesi uno capisce abbastanza come lavoro, e voglio evitare il pericolo di diventare un modello impositivo, uno che mette il timbro, il placet…”, e così, concludeva “può andare da altri”.10 Fachinelli dice chiaramente, al riguardo di questo momento fon Ivi, p. 209. 10 150 Pino Pitasi dativo della trasmissione/formazione psiconalitica, che le supervisioni troppo durature hanno lo stesso rischio delle analisi didattiche. Il supervisore in un modo o nell’altro imprime sul supervisionato il suo marchio. Va detto, incalzando, che sono gli stessi allievi che “desiderano avere la punzonatura”.11 Insomma, ed è bene rammentarlo, c’è sempre dietro l’angolo il pericoloso desiderio di un intento pedagogico, se non addirittura di un rapporto autoritario, “il transfert viene inflesso in questo senso”,12 ancora Fachinelli! Se ne potrebbe discutere, è una prospettiva che ci interessa, lo domando?!? A volte, dovremmo poter riconoscere che c’è più spirito di ricerca e di innovazione all’esterno che non all’interno delle nostre scuole o dei nostri gruppi psicoanalitici. Questa critica che Fachinelli rivolgeva ai suoi andrebbe raccolta, fatta nostra, con tutte le differenze del caso. Qui sarebbe molto istruttivo riprendere il frammento di un’analisi di gruppo pubblicato sui “Quaderni Piacentini” dal titolo Gruppo chiuso o gruppo aperto?.13 Magari, in un’altra occasione! Certo è che la questione della formazione degli analisti si impone, più di altre, come problema inaggirabile sull’etica e sulla politica della psicoanalisi e per questo credo che lo sforzo di Jacques Lacan, quando pensa, senza forse ripensarla sufficientemente, la passe,14 meriti un esercizio critico ed è per questo che ho trovato di estremo interesse la conversazione che, qui di seguito, provo a riportare e commentare negli aspetti che mi sono parsi più significativi. la conversazione e l’impossibile formazione degli analisti Sergio Benvenuto precisa che, nel maggio del 1987, Fachinelli acconsente a una conversazione sui temi della formazione degli analisti. Una conversazione alla quale Fachinelli tiene molto e con la quale spera di “innescare un dibattito tra psicoanalisti, di smuovere le acque Ivi, p. 210. 12 Ibidem. 13 Elvio Fachinelli, Gruppo chiuso o gruppo aperto?, in “Quaderni Piacentini”, n. 36, novembre 1968, pp. 107-124. 14 Si veda Jacques Lacan, Proposta del 9 ottobre 1967, in “La Psicoanalisi”, n. 15, Astrolabio, Roma 1994. 11 Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli 151 su una questione che egli considerava della massima importanza per la sopravvivenza stessa della psicoanalisi come attività creativa”.15 Senza voler tralasciare i contenuti della prima parte di questa conversazione, a cui farò un brevissimo accenno, mi soffermerò in particolare sulla seconda poiché chiama in causa la richiesta reiterata di essere formati come analisti da parte degli analizzanti e la problematica lacaniana della passe. Decisivo partire da uno snodo di fondo, ovvero dal non poter fare a meno di notare che il rapporto tra Fachinelli, la spi, l’ipa e forse più in generale con le istituzioni psicoanalitiche è fortemente segnato da una serie di scelte indiscutibilmente impopolari, dalla sua decisione di non far carriera fino alla sua volontà di rimanere sempre nella posizione laterale di associato. Campeggia, tra le altre eresie, la proposta di abolire, nel corso di un’assemblea della spi, il titolo di didatta, la sua diffidenza naturale per “per tutti, ma soprattutto per gli ultimi gradini, vale in fin dei conti un criterio di cooptazione. […] Proprio per rifiuto di queste corse a tappe, di queste procedure nelle quali si coniugano burocrazia e infantilismo”,16 la sua analisi con Musatti, che oggi si direbbe selvaggia e che invece fu per lui “una buona analisi”: “[…] ho ricevuto sorprese e questo per me è fondamentale in ogni analisi, ho imparato e mi sono anche divertito”.17 In fondo l’analisi è […] come un’avventura [ma molto dipende da come si inizia e da quale punto di sofferenza ci si arriva, aggiungo io, N.d.A], un viaggio privato compiuto dentro una figura storica di rapporto tra uno che parla il più liberamente possibile e uno che sta a sentire, essenzialmente. […] È una configurazione su cui a ciascuno è consentito di esercitarsi, che non esaurisce certo l’ambito delle relazioni umane e che ben poco ha a che fare con le Società che si richiamano ad essa.18 15 Conversazione di Sergio Benvenuto con Elvio Fachinelli, Sull’“impossibile” formazione degli analisti, versione rivista e corretta dall’autore dell’intervista apparsa nel libro di Sergio Benvenuto e Oscar Nicolaus, La bottega dell’anima, FrancoAngeli, Milano 1990, p. 200. 16 Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit, p. 202. 17 Conversazione di Sergio Benvenuto con Elvio Fachinelli, Sull’“impossibile” formazione degli analisti, cit., p. 200. 18 Ivi, p. 208. 152 Pino Pitasi Per queste, ribadisce Fachinelli, valgono altre regole e servirebbero altri tipi di osservazione. Ed è a partire da qui che l’intervista di Sergio Benvenuto prende una piega, direi anche un respiro, che lascia riecheggiare l’acutezza mite e tagliente, a tutto campo, del pensiero di Fachinelli sulle problematiche, di cui ancora si fatica molto a parlare, della formazione degli analisti. Alla domanda di Benvenuto che rinvia al tentativo di Lacan di affrontare il groviglio delle reiterate richieste di essere formati come analisti (sarebbe questo un sintomo nevrotico da analizzare!) e alla sua proposta/formula della passe, Fachinelli replica, facendo un giro un po’ largo ma necessario, che “nessuno evidentemente ha mai finito la propria analisi ed il supporlo vorrebbe dire, ammettere una sorta di trasparenza ed addomesticabilità dell’inconscio, una fine dell’inconscio, certo non augurabile!”.19 Per poi riprendere che, nel delicato frangente “del passaggio alla posizione di analista [la passe di Lacan, N.d.A.], c’è una dinamica personale e a questa si sovrappone il passaggio istituzionale”,20 questo punto rende di fatto ingarbugliato e complesso il problema formativo e di riconoscimento da parte dell’istituzione. Credo, rileggendo buona parte delle riflessioni di Lacan sull’esperienza della passe, che sia in più passaggi menzionata dallo stesso psicoanalista francese la “prudenza umana, troppo umana” con cui si è avvicinato alla formulazione di una tale proposta. Non deve sfuggire, infatti, la preoccupazione di Lacan, nel clima rovente del maggio francese, sull’esito mercificato del sapere (lo definì propriamente mercato del sapere), da qui forse anche le numerose avvertenze attorno al “non ne so niente” di cosa passa e garantisce di un’analisi e di come si trasmette la psicoanalisi. Ed è assai curioso ritenere che proprio mentre la sua proposta vivacizza e frattura il dibattito sulla formazione degli analisti, lo stesso Lacan, in definitiva, si smarchi da questo compito “impossibile” arrivando a dire: non ho mai parlato di formazione analitica, ho parlato di formazioni dell’inconscio. Non c’è formazione analitica. Dall’analisi si snoda un’esperienza che Ivi, p. 216. Ivi, p. 217. 19 20 Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli 153 a torto si qualifica didattica. L’esperienza non è didattica. Perché mai credete che abbia tentato di cancellare completamente il termine didattica e abbia parlato di psicanalisi pura?.21 Su questo punto, si arriva alla massima convergenza, sia pur non dichiarata, tra Fachinelli e Lacan, entrambi palesemente lontani dall’idea che della psicoanalisi si possa fare una didattica. Certo è che con la proposta della passe Lacan vuole e chiede di affrontare il nodo del riconoscimento che implica sempre e necessariamente l’Altro, ma sottolinea Fachinelli “sono i modi di questo riconoscimento che sono in discussione”.22 Fachinelli è sorprendente quando, di seguito, ironizza sul fatto che “in ogni caso, per me è sempre stata più interessante la persona che non desidera fare l’analista. Almeno nel primo colloquio. Quando viene uno psicologo e mi dice che vuole fare l’analista, provo un senso di peso… mi sembra uno che vuol stare sempre dentro la stessa macina e che trascina anche me dentro questa macina…”.23 Inquietante, quando “ci sono più futuri colleghi, che veri e propri pazienti”, e come mai?!? Proprio nel mezzo di una disquisizione sulla formazione, sul passaggio alla posizione di analista, sulla titolarità d’esercizio della professione, Fachinelli, psicoanalista, che “non ridusse mai il proprio mestiere a specializzazione”,24 getta lo scompiglio preferendo chi non vuole diventarlo e ci mette in guardia, proprio per il danno formativo, dal rischio che l’analista diventi “mi sembra uno che vuol stare sempre dentro la stessa macina e che trascina anche me dentro questa macina…”.25 Qui salto, poiché sarebbe troppo lungo, anche se piuttosto divertente, commentare e assegnare valenza di insegnamento ad alcuni affreschi che Elvio Fachinelli propone con tenerezza a proposito di analisti, analizzanti, di istituzioni, società e scuole psicoanalitiche, di comunità dalle bocche chiuse ed eccessi logorroici. Ma cosa pensa, in buona sostanza, della proposta di passe formulata da Lacan? 21 Jacques Lacan, Sull’esperienza della passe (1973), in “La Psicoanalisi”, n. 42, Astrolabio, Roma 2007. 22 Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit., p. 217. 23 Ibidem. 24 Antonello Schiacchitano, Un freudiano di giudizio, in “aut aut”, n. 352, cit., p. 8. 25 Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit., p. 217. 154 Pino Pitasi Il giudizio che Fachinelli esprime sul dispositivo della passe di Jacques Lacan è duplice, poiché lo ritiene tanto una delle sue trovate “più controverse e note”, quanto una sorta di “oggetto misterioso”, almeno per chi non fa parte della più o meno ristretta cerchia dei gruppi lacaniani. Si tratta, a parere di Fachinelli, di legare e intrecciare per Lacan due momenti diversi tra di loro, uno “personale ed autonomo”, un “movimento reale”, quello del passaggio alla posizione di analista, con quello invece relativo “alle esigenze dell’istituzione, vista come garante dell’autenticità di questo passaggio”.26 In questo schema si colgono la figura del testimone o passeur al quale chi fa domanda d’accesso all’École, cioè il passant, il passante, dovrà riferire della propria analisi. Passeur e passant si trovano in fondo nella stessa posizione, cioè nella posizione di passe, a quest’ultimo il compito di riportare al jury d’agrément, la commissione di accettazione, quanto ha ascoltato, dopo la decisione del jury di accettare o meno il passant. Sappiamo che questa proposta formulata da Lacan ebbe, in breve tempo, effetti di frattura nel gruppo e si risolse, questo nota Fachinelli, in una vera e propria impasse. La formula della passe lacaniana avrebbe il merito di distanziare candidato e istituzione attraverso la figura del passeur e di evitare, secondo Fachinelli, la “cooptazione paternalistica e burocratica delle società analitiche”, ma allo stesso tempo accentua e appesantisce il significato della società accogliente, “che diventa ancora più incombente e onnipresente attraverso la figura ambigua del passeur”.27 Ma perché questo tentativo, almeno secondo Fachinelli, finisce per amplificare il peso specifico dell’École e come mai risulta ambigua questa figura (il passeur)? Anche qui, la risposta di Fachinelli si divide su due piani ineludibili e inaggirabili, si direbbero forse anche “reali” e per questo “impossibili” (dove c’è del reale, c’è dell’impossibile…). Da una parte, per quel che concerne l’École Freudienne, Fachinelli non crede affatto che si possa parlare di un’istituzione soft (l’espulsione di Luce Irigaray e le ripetute “epurazioni” interne ne renderebbero una qualche testimonianza), ma al contrario si trattò, nella tenacis Ivi, p. 226. Ivi, p. 227. 26 27 Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli 155 sima convinzione di Lacan, “di una vera e propria istituzione, […] con un suo peso ed un suo destino, propriamente, istituzionale”.28 Lo stesso psicoanalista francese volle restare sordo ad alcune critiche e preferì pensare che “il suo discorso, il testo Lacan, avesse bisogno di un supporto istituzionale”. E qui l’osservazione di Fachinelli appare illuminante, soprattutto se si va con la memoria ai numerosi tentativi di immaginare sempre qualche dispositivo che garantisca sulla e della completezza del percorso formativo, laddove aggiunge che “un tale supporto… di fatto lo isolava, limitava le sue possibilità di comunicazione” e “per usare una sua definizione, la parola piena diventava, attraverso il salmodiare lacaniano dell’istituzione, una parola vuota”.29 La “debolezza” fluida e movimentista del lacanismo in Italia per Fachinelli era, invece, un suo punto di forza e poteva essere “il nucleo di un’irradiazione a tutto il resto”, se fosse rimasto un luogo di ricerca e di critica, invece “c’è stato invece il conato di costruire un’istituzione”.30 Elvio Fachinelli coglie qui e in profondità la contraddizione di Lacan che, “pur avendo parlato in modo straordinariamente lucido dell’analista come soggetto supposto sapere, nel momento in cui dirigeva la sua scuola e dispensava il suo insegnamento era il sapere, anzi l’unico assoluto sapere, e lo affermava orgogliosamente”.31 Quando Giovanni Mierolo nel giorno della costituzione associativa di alipsi invita a non eludere qualcosa di questo impossibile, “a non eludere la propria sintomaticità […] perché è soprattutto il virus di questo sintomo che si trasmette, si trasmette la capacità di farsene qualcosa”, lascia una traccia da tenere a mente: “il legame sociale è una certa esperienza della sconnessione”.32 Prosegue Mierolo: “è una sconnessione del come-Uno, in questa sconnessione dell’appartenenza possiamo intravedere il concetto di democrazia”.33 Nel suo contrario, l’ombra oscura del regime dell’Uno. Ivi, p. 225. Ivi, p. 226. 30 Ibidem. 31 Ivi, p. 229. 32 Jacques Derrida, La parola d’accoglienza, in Silvano Petrosino, a cura di, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998. 33 Giovanni Mierolo, È possibile una democrazia analitica?, intervento al primo incontro di alipsi, 25 aprile 2009, Bologna, inedito. 28 29 156 Pino Pitasi In questo senso, forse, si può ripensare all’incombenza, cui faceva cenno Fachinelli, al peso che dall’istituzione finisce per gravitare sul passeur rendendo poi, di fatto, tale figura ambivalente. “Questi, infatti, ha in sé i connotati indecisi, e forse indicibili, del testimone per la verità, del testimone a favore del reo e ‘del testimone della corona’, per usare termini giudiziari” [punto che andrebbe meglio chiarito, N.d.A.] e dall’altra la “[…] rottura della riservatezza analitica che si viene a compiere attraverso questo parlare della propria analisi ad un estraneo e delle conseguenze – le dicerie circolanti – che questo ha nei rapporti tra le varie figure di ‘fratelli’ in fase di passe.”34 Insomma, la passe si rivelerebbe, a ben vedere, “un procedimento confusivo che rischia di creare un certo tipo di società perversa […] un po’ come nella repubblica di Venezia al tempo delle accuse anonime”.35 Rischio reale, non così lontano dalla realtà che non poche volte ha segnato scuole, società e istituzione analitiche, pur animate dalle migliori intenzioni e invenzioni. Occorre, in buona sostanza, prima ancora di produrre e riprodurre macchinosi dispositivi di garanzia, verifica e tutela (di chi? e a partire da quali fini?) domandarsi se non sia più fecondo per chi desidera far parte di un’associazione, scuola, istituzione e per chi dovrebbe accogliere questo desiderio, provare a interrogare insieme, in una linea di prossimità, nella pratica di una democrazia degli uni e degli altri, dove la parola possa circolare più liberamente, quale è oggi la causa analitica, cosa e come “ci” causa la psicoanalisi, soprattutto oggi che se ne potrebbe cominciare a tracciare un’assidua storia critica, senza il sovraccarico di inutili orpelli e stucchevoli cerimoniali. Meglio sarebbe, credo, testimoniare, nei luoghi che già si danno, di un reale interesse critico per la propria analisi, per le proprie supervisioni e per il proprio lavoro formativo attorno a un sapere non dogmatico e scolastico. E se proprio si dovesse pensare a dei dispositivi di testimonianza, li immaginerei comunque sganciati da pericolosi e tortuosi effetti di nominazione: in fondo non si tratta di riconoscere che se c’è qualcosa dell’analista e della sua “capacità di guarire una Sull’“impossibile” formazione degli analisti, Elvio Fachinelli nevrosi”36 questo nulla o poco c’entra con la passe, quanto piuttosto, se ci fosse una trasmissione/formazione in psicoanalisi, di essere giocoforza e per effetto di un transfert di lavoro e al lavoro, di fronte al compito (“costrizione”, la chiama Lacan) di reinventare il modo in cui la psicoanalisi possa durare?! Ancora una volta, Fachinelli è molto chiaro sull’argomento, “ogni gruppo rivela, presto o tardi, problemi difficili e soprattutto invischianti. In fondo, credo soltanto a ciò che si può ottenere, alla lunga, con l’intelligenza personale, con il proprio minimo personale”.37 Evitare, quindi, ostracismi e tendenze feudatarie, chiusure e autoreferenzialità. Questa mi pare la cifra davvero collettiva, senza però esserne apparato di cattura, del nostro inaugurale e movimentato lavoro di riflessione sulla formazione degli analisti, non senza un vincolo simbolico con ciò che abbiamo ereditato e che continuamente proprio per questo ci espone quanto più all’alterità. Secondo Fachinelli, Lacan si accorse “dello scacco e lo dichiarò apertamente”, forse da questo esito contraddittorio prese la decisione di sciogliere la stessa École da lui fortemente voluta e di cui voleva fermamente facesse parte lo stesso Elvio Fachinelli che, però, sempre rifiutò. Forse perché, come magistralmente avverte nelle pagine de Il paradosso della ripetizione,38 è soprattutto nelle istituzioni, in certi atti fondativi, che si annida e si mostra qualcosa di già visto, “la prevalenza della vischiosità del passato nel presente, la dissoluzione a breve scadenza”.39 Quale la ragione, si domanda Fachinelli. La si può intuire in ciò che è caratteristico di molte di queste iniziative: quasi un vento d’ebbrezza, un eccesso di grazia, la facilità dei gesti all’opera, con la continua minaccia di veder sorgere all’orizzonte, e poi dentro di sé, quel negativo che essa intendeva eliminare. Il passato è troppo duro, aboliamolo dal programma del presente e del futuro: ma il passato abolito con un gesto ritorna come un fantasma che distrugge quel programma. È questo il tragico circolo vizioso in cui molti di noi sono passati in questi anni, e di cui molti potrebbero fare il resoconto.40 Ibidem. Ivi, p. 224. 38 Elvio Fachinelli, Il paradosso della ripetizione, in “L’erba voglio”, n. 1, luglio, Einaudi, Torino 1971. 39 Id., Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, Milano 1974, p. 246. 40 Ibidem. 36 37 Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit., p. 227. Ibidem. 34 35 157 158 Pino Pitasi Passo di grande bellezza espositiva e di cui una comunità “qualsivoglia” e al lavoro potrebbe incaricarsi. Fachinelli, forse, sostenendo questo “impossibile” nella formazione degli analisti, non fa altro che rammentarci un adagio, assai noto, di Lacan, “[…] ancora uno sforzo se volete essere […]”41 … che cosa? “Mah,” conclude questo intellettuale lacaniano, “è uno degli scherzi che Lacan ci ha giocato”.42 Psicoanalisi implicata Jacques Lacan, Kant con Sade (1962), in Id., Scritti, cit., vol. ii, p. 767. Elvio Fachinelli, Intorno al ’68, cit., p. 229. 41 42 Bisogna difendere la poesia Milo De Angelis e Maria Vittoria Lodovichi L’interesse e il piacere della lettura dei versi di Milo De Angelis, tra cui Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010) ma anche lo splendido racconto fiabesco La corsa dei mantelli (ripubblicato di recente da Marcos y Marcos) mi hanno spinto a pensare di intervistare Milo De Angelis, innanzitutto per riuscire ad aiutare le persone che ignorano la grandezza della poesia a incontrarla. È vero che la poesia ce la dobbiamo meritare, che la dobbiamo scoprire e che per comprenderla dobbiamo dedicarle tempo, dolore, affetto e studio. Invece di un’intervista man mano ha preso forma l’idea di rivolgere a De Angelis una lettera, una lettera aperta: Edoardo Fraquelli Senza titolo, 1959 tempera su carta intelata 31,5 × 23 cm Dedicandomi allo studio delle tue poesie, annotando in margine alle pagine strane congetture, mi sono persuasa che la tua poesia, caro Milo, divenga prima di tutto esperienza uditiva. Come se la parola in sé, direi ciascuna parola che compone il verso, aprisse e propagasse un suono “inaudito” nel collegarla all’altra e infine a tutto il suo insieme. Per esempio mi colpisce l’uso anaforico del si che interviene ad armonizzare la prima poesia di Alfabeto del momento (in Quell’andarsene nel buio dei cortili). Insieme alle allitterazioni questa poesia propone un lussureggiante invito al silenzio, a quel silenzio che produce senso, attraverso parole appropriate e potenti: “sospesi, respiro e sangue”. Nello scorrere il testo si incontrano e ci sorprendono altre forme di accoglienza, di comprensione, di affetto, di insegnamento espresse 162 milo de angelis-maria vittoria lodovichi attraverso l’invenzione di nuove voci, per esempio, per citarne una, quella del ritmo. E ancora continua a interrogarmi quella poesia intitolata … allora mi chiamò un drappello. È un incipit? Chi lo chiama? A chi risponde? In quale composizione “si rivela l’appello dell’altro”? Domande che ci conducono a una serie affollata di altre domande: quando ha avuto inizio questa storia? Si viene a sapere, leggendo la poesia, che “allora” il poeta fu chiamato da un drappello. Poi repentinamente la poesia cambia scena: si scopre che questo gruppo è formato “di anime sole”… le quali, avvicinatesi alle finestre, “scostano le tende”. L’atmosfera suggerisce che quest’atto di “scostare le tende” sia fatto con la premura di chi non voglia disturbare e si preoccupi di parlar piano, “bisbigliando”. Il valore del bisbigliare è oggi un’arte alla quale pochi sanno tornare; invece il bisbiglio è forse quel parlare umano che sa confortare le “anime sole” dei bambini, dei malati, di chi soffre gravi dolori, grevi ingiustizie. I bambini hanno bisogno di poesia (Françoise Dolto) per comprendere l’infanzia come sentimento (Tolstoj). Nessun adolescente è senza problemi, senza sofferenza. Forse è il periodo più ricco di dolore della vita, ma anche quello delle gioie più intense. Si desidera fuggire tutto ciò che si presenta difficile. Fuggire fuori da sé gettandosi in avventure dubbie o pericolose, trascinati da persone che conoscono la fragilità degli adolescenti. O fuggire dentro di sé, chiudendosi in gusci fasulli. Dolto scrive che un mito è poesia che possiede una propria verità: per questo i bambini hanno bisogno di poesia. Tolstoj invita gli educatori a saper sostenere la frustrazione, dato che il bambino proietta sull’educatore l’incertezza e il bisogno d’amore; i bambini hanno bisogno di comprensione. Dobbiamo studiare l’infanzia come sentimento. I bambini crescono fuori dal tempo di produzione, per questo gli adulti non sanno attenderli. A questi potenti pensieri e sollecitazioni la poesia di De Angelis risponde con la sua stessa vita. Che cosa sappiamo della vita di un poeta? Chi è Milo De Angelis? Sappiamo che insegna in un carcere, che ha composto versi anche in lingua piemontese, sappiamo che ringrazia i suoi insegnanti, che sa vivere il lavoro del lutto e sa “tornare a ricostruire”. Questo poeta riesce a dare con i propri versi l’intera sua vita. Forse l’autore è sempre lì, a fianco di ognuno di noi, nello sforzo di rinnovare con le sue parole la forza della loro sagacia, il loro volto di crudeltà. Bisogna difendere la poesia 163 La pulsione uditiva incontra l’oggetto fonico e il bisbigliare è quel modo di parlare nel quale respiro e parola incrociano l’orecchio di chi ascolta. Bisognerebbe tornare al buon uso della prosodia, alla conoscenza delle parole con i loro accenti, riconoscere le parole tronche, piane, sdrucciole, bisdrucciole, trisdrucciole. Riconoscere l’endecasillabo, la divisione dei suoni, il sussurro che la poesia porta con il suo narrare aperto: è pacificazione, è incontro con la libertà. Posso pensare belle parole in qualunque circostanza della vita e questo è il più bello dei riscatti umani. Raccontare ai bambini è straordinario, specialmente ai più deboli o a quelli che hanno avuto un’esperienza di vita difficile. È straordinario esporsi alla narrazione di una poesia articolata in una prosodia e in seguito insegnare a leggere le parole. Devi autorizzarti, mi sono detta aprendo Quell’andarsene nel buio dei cortili. Appare il brano poetico che si posa sulla pagina avvolto nel respiro del grande margine bianco. A eccezione della poesia 19 Marzo – composta di quattro strofe, la più lunga – le altre appaiono discrete; fanno capolino avvolte nel biancore delle pagine. Quei versi suscitatori di antiche lingue rimestano nel lettore responsabilità annodate che, nel continuo atto del rileggerle, si sciolgono poi in sensi differenti. Sprigionano mille coriandoli di senso, suscitano piacere e nostalgia. Tu scrivi: Nostre amate sillabe che raccogliamo a mani giunte Feroce ordine dei canti linea colpita in quella rimasta Bisogna aver sofferto di una coperta troppo corta, di un lino che litura… (il lituraterre di Lacan), di un reale che non perdona, affinché quella ferita possa parlarci e dettare al poeta la sua potenza, la verità nel rispetto del soffrire ubbidendo alla responsabilità. E ancora: Mani giunte che scendono in oscure cantine e incontrano un nonnulla collera storica e celeste per ciò che non si compie. 164 milo de angelis-maria vittoria lodovichi Bisogna difendere la poesia Ecco: forse solo ora si disegnano nitide alcune domande che vorrei rivolgerti. I pensieri che ho cercato di formulare hanno, nella loro fonte, autori che ho amato. Sono autori, li riconoscerai, che ben conosci: Lacan sul tema del linguaggio, Freud sul disagio della civiltà, Tolstoj sul sentimento dell’adolescenza o Dolto sul bisogno di poesia da parte dei bambini. La prima domanda che vorrei rivolgere a Milo De Angelis è questa: come e per quali vie egli si è avvicinato così pericolosamente alle problematiche relative al linguaggio? E ancora: su quale disagio della civiltà si aprono i suoi versi e che cosa sanno trasmettere di fronte alle difficoltà del vivere umano?… Come psicoanalista, come persona e donna interessata alla poesia ti chiederei inoltre di dire qualcosa sul quel sentimento dell’adolescenza che pervade la tua poesia. Dolto ci insegna che i bambini hanno bisogno di poesia, ma forse nella tua esperienza possiamo aggiungere che anche i carcerati ne necessitano. Un abbraccio. Maria Vittoria Lodovichi Milano, gennaio 2012 Carissima Maria Vittoria, le tue parole fluiscono come un ruscello primaverile e meritano qualcosa di più della solita intervista, del consueto e immobile meccanismo di domanda e risposta. Cercherò dunque di bagnarmi anch’io in quest’acqua e di farmi portare dalla corrente, costeggiando i tuoi autori e i tuoi interrogativi, cercando di entrare con la stessa naturalezza nel flusso di questo incontro. Mi ha colpito innanzitutto la tua osservazione sul bisbiglio. Nessuno finora aveva notato la presenza di questa figura nei miei libri. Eppure è insistente. Potrei fare una piccola antologia di poesie “bisbigliate”. Il bisbiglio, il sussurro, la parola pronunciata sottovoce hanno una rispettabile genealogia nella nostra letteratura. Pensa ai Madrigali del Tasso, a certe atmosfere lunari di Leopardi o anche – per passare ai giorni nostri – a una poetessa come Antonella Anedda. Ma c’è un poeta che più di ogni altro è attraversato da un incessante bisbigliare. Questo poeta è Giovanni Pascoli, che per me è stato essenziale e continua a esserlo. 165 Nei suoi versi appaiono sempre le ombre. E le ombre non si esprimono con timbro solare, con voce limpida e scandita. Il loro regno è la notte. E Pascoli è il nostro poeta più notturno. Pascoli è sempre notturno. Lo è nelle tante scene ambientate di notte. Ma lo è anche in piena luce, poiché di questa luce Pascoli mette in rilievo la parte segreta e riposta, la parte vicina al mistero. Una delle prime poesie che ho imparato a memoria è La mia sera. Mi fermo a citare gli ultimi versi, che mi sono sempre suonati meravigliosi: Don…Don… E mi dicono, Dormi! Mi cantano, Dormi! sussurrano, Dormi! bisbigliano. Dormi! Là, voci di tenebra azzurra… Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com’era… Sentivo mia madre… poi nulla… sul far della sera. Tu, Maria Vittoria, che lavori con i bambini e conosci il sentimento dell’infanzia, avrai letto e riletto quel testo fondamentale che è Il fanciullino. Sì, il famoso fanciullino: quello che “nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime e ci salva”, quello che “nella gioia pazza pronuncia, senza pensarci, la parola grave che ci frena”, quello infine che “getta la sua parola, la quale tutti gli altri, non appena esso l’ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziato loro”. Insomma, è il poeta! Ho sempre pensato la poesia in questo equilibrio instabile tra la piena gioia e la mortalità, tra il lutto supremo e una brezza che proviene da qualche parte del cuore e ci redime. E sa dirlo con la parola che ognuno attendeva senza saperlo. E Pascoli, come un antico fanciullino, è stato un poeta che mi ha sempre accompagnato in questo viaggio notturno tra dolore e risveglio, tra il fiore della cronaca e il fiore senza età. Dall’infanzia all’adolescenza. Mi chiedi di quel sentimento adolescente che pervade la mia poesia. Non mi stanco mai di parlarne. È smisurata, l’adolescenza, con le sue domande totali e repentine. L’adolescenza è un tempo assoluto: pochi anni che si estendono all’infinito e sono improsciugabili. L’infanzia è trascorsa, i genitori sono alle spalle, la maturità è ancora lontana, laggiù, oltre i cortili. Rimane 166 milo de angelis-maria vittoria lodovichi questo tempo sospeso, tempo di gare, di partite di calcio, di corse puntate al filo di lana, di porte disegnate con il gesso sui muri. E qui ogni ragazzo comincia a misurare se stesso, le sue doti e i suoi limiti, le qualità interiori, il coraggio, la lealtà, la precisione, il genio, la costanza. Impara dunque a esplorarsi e a scegliere i suoi compagni di avventura, quelli che, con altri nomi, gli saranno vicini per tutta la vita. Sì, l’adolescenza punta alle affinità elettive, ai fratelli di anima, al legame inesorabile tra due creature che non si conoscevano prima e che proprio lì, in quel cortile, in quella partita, trovano la loro alleanza, fondano un patto giurato. I valori dell’adolescenza sono eroici: il rischio, l’eccesso, il pericolo, l’avventura senza risparmio al limite delle proprie forze, il senso di un nobile destino da attuare. L’adolescenza è il tempo in cui tutti i valori ereditati dalla famiglia appaiono nella loro sconcertante pochezza. Ma anche quelli che ci aspettano tra pochi anni, oltre i muri del cortile, sembrano vuoti e privi di eroismo, figli di un subdolo accordo sociale. Tutti i grandi libri dell’adolescenza, dai Ragazzi della Via Pál di Molnár ai Turbamenti del giovane Törless di Musil, da La città e i cani di Vargas Llosa, a Il grande Meaulnes di Alain-Fournier, al Signore delle Mosche di Golding, tutti insistono su questa guerra di valori: da una parte le gerarchie inflessibili ma giuste della banda giovanile, dall’altra i proclami retorici del mondo adulto, di un preside, di un politico, di un padre. L’adolescenza è uno scisma. È un luogo di separazioni violente, di rotture definitive, di solitudini imperscrutabili. L’adolescenza, come la poesia, è illegale. Non è il luogo degli accordi o della trattativa. Nell’accordo c’è una forma di menzogna, che il ragazzo magico ha deciso di sventare. E così tenta di mantenere l’assoluto attraverso abbandoni fulminei, un istante prima che il buon senso lo catturi. Come nelle intercettazioni telefoniche: bisogna smettere di parlare un attimo prima di essere localizzati. Così nella banda adolescente: bisogna cambiare gioco e luogo un attimo prima che il mondo feriale si avvicini. E per questo il luogo adolescente risulta introvabile da qualunque indagine adulta, ossia poliziesca: nelle mappe che vorrebbero definirlo manca sempre qualcosa: se c’è il massimo dettaglio, mancheranno le coordinate; se ci sono le coordinate, la singola scena scompare. È giusto, Maria Vittoria, quello che scrivi verso la fine: “Bisognerebbe tornare al buon uso della prosodia, alla conoscenza delle parole con i loro accenti…”. Proprio così! Ogni poeta è invaghito di certe parole… Bisogna difendere la poesia 167 quelle e non altre… e con loro ha un rapporto propriamente amoroso. Un rapporto con singole parole, come diceva Paul Celan, con parole prese una alla volta, sentite, custodite e fatte entrare nel proprio sangue. Anch’io, nei lunghi intervalli tra un libro e l’altro, ho dei legami sentimentali con parole isolate. Tutto comincia al mattino presto, nella piccola odissea metropolitana che mi conduce al carcere di Opera. Prendo la prima corsa del tram numero 2, verso le sei… scendo in centro e salgo sul 24, fermo al capolinea, pronto ad accompagnarmi in fondo a via Ripamonti, dove concludo il mio percorso sull’autobus 99, che mi porta al penitenziario. Un’ora e mezzo di viaggio. Ho tutto il tempo di osservare, leggere, ascoltare, prendere appunti sul mio quaderno blu. Qualche anno fa in tram, all’altezza di via Farini, mi ha incuriosito un dialogo tra due anziane signore. Una, rimasta vedova da poco, parlando del marito, a un certo punto ha detto: “Non ha potuto fare nulla di meglio che andarsene”. Insieme al tono amaro e un po’ trasognato, mi è rimasto impresso quel verbo: “andarsene”. Intanto perché ha un bel suono sdrucciolo, con quell’assonanza finale delle due sillabe “se” e “ne”. E poi perché è un verbo quotidiano e al tempo stesso metafisico. Porta in sé un significato comune e un significato mortale, il breve distacco di ogni giorno e il distacco definitivo. Pensai, quel martedì di febbraio sul tram numero 2, che avrei dovuto far entrare quel verbo nel mio prossimo libro. E infatti “andarsene” è entrato non solo nel libro ma anche nel titolo. Ed è entrato insieme a “buio”, altro termine prediletto, dal suono puerile e allarmante, fiabesco e letale, che evoca paure arcaiche. E poi ci sono i “cortili”, immagine rituale dei miei versi, così vicini al mondo giovanile: il cortile è un luogo di confine tra la casa e il mondo, tra i genitori e la donna, è la cerniera tra il noto e l’ignoto. I cortili sono l’incarnazione spaziale dell’adolescenza. E i cortili vengono nominati anche nella poesia che hai citato, quando quel drappello di solitari scosta le tende e ci spalanca lo sguardo sulle epoche della nostra vita, sulle grandi vetrate del tempo. Ci affacciamo alla finestra e vediamo i nostri cortili che se ne vanno nella notte. “Quell’andarsene dei cortili nel buio.” Non siamo più noi che ce ne andiamo nella loro zona d’ombra, ma sono i cortili stessi che vengono risucchiati da una misteriosa oscurità! E poi il cortile – a proposito della tua domanda sul carcere – è anche un’immagine del mio lavoro quotidiano, quando vedo i detenuti che nell’ora d’aria camminano tra un muro e l’altro del loro angusto rettangolo di cemento e sento 168 milo de angelis-maria vittoria lodovichi il desiderio di farli camminare in un luogo più ampio, tra un’epoca e l’altra, tra una poesia e l’altra. Rileggo nelle tue domande l’aggettivo “piemontese” e, trovandomi oggi nei luoghi di Pavese, approfitto della coincidenza per dire una parola su questo grande scrittore. Ho avuto molti maestri nella mia vita, ma il più severo è stato Pavese. E un ragazzo ha bisogno di severità, di un giudizio netto – se necessario anche spietato – senza l’inutile zucchero consolatorio. Pavese aveva il diritto di essere severo con gli altri perché lo è stato, in modo inflessibile, con se stesso. Ogni suo gesto, ogni suo incontro, ogni sua lettura avevano un’importanza suprema, sembravano decidere la vita intera, sembravano avvenire nel giorno del giudizio. Ed è uno scrittore del ritorno, come tutti gli scrittori che amo. Per lui ritornare è un’arte e una missione, un comandamento. Sente il richiamo dei luoghi attraversati come se fosse il grido di un essere umano. E sente che questi luoghi sono inesauribili, regalano sorprese a ogni ritorno. E davvero la poesia, come tu hai notato, è un’esperienza dell’udito che porta a una pagina inaudita. Si scrive, in un certo senso, sotto dettatura. Non sempre è chiara, questa voce dettante, e allora noi tendiamo l’orecchio, cerchiamo di coglierne ogni tono e semitono, ogni pausa, ogni fruscio. Il gioco di varianti, che ogni poeta ben conosce, non è mai sperimentale, non si affanna a provare nuove vie, come un curioso o un turista. Procede invece all’indietro, alla ricerca di quella prima voce, per trascriverla in modo ineccepibile. È un tentativo di restituire la dizione più esatta, di ripetere precisamente quelle parole. Mi ricordo i dettati delle scuole elementari e quel mio compagno di classe, Cesare Novellone, che seguiva con udito spasmodico la voce del maestro, ingrandiva o rimpiccioliva le lettere a seconda della pronuncia, alternava stampatello e corsivo, lasciava degli spazi tra una parola e l’altra, andava a capo quando l’intervallo di silenzio lo richiedeva e insomma trasformava il dettato in poesia. Concludo così, con un ricordo di giovinezza, questo colloquio con le tue parole, cara Maria Vittoria, che hanno anch’esse una forza giovanile e al tempo stesso antica, come se risuonassero da sempre in qualche parte di me. Con affetto. Milo De Angelis Nizza Monferrato, 31 marzo 2012 Zanzotto, la psicoanalisi, il reale Prospettive di implicazione Alberto Russo Forse non-si-sa per un sordo movimento di luce si distilla in un suono effimero, e sa Andrea Zanzotto, Non si sa quanto verde, 1996 Per l’interpretazione della poesia di Andrea Zanzotto il ricorso alla psicoanalisi lacaniana si è imposto alla critica come un atto necessario. Questa necessità si è presentata soprattutto a partire da La Beltà, del 1968, ovvero dal libro che segna il punto di svolta fondamentale nell’itinerario poetico zanzottiano. Uno dei tratti peculiari che concorrono al carattere innovativo di quest’opera, e che animerà la produzione successiva di Zanzotto, è un modo nuovo di fare interagire la poesia con altri saperi. Nel rinnovamento delle scienze umane avvenuto durante gli anni cinquanta e sessanta, lo sviluppo di discipline come la linguistica, la retorica, la semiotica e la psicoanalisi ha cambiato profondamente le possibilità di concepire la poesia. Zanzotto, “uomo di viva cultura, con letture elette che pertengono ai più disparati campi del sapere”,1 si è confrontato con queste nuove teorie, e si è ritrovato a farne il terreno di coltura dei suoi versi. La sua poesia è dunque attraversata e doppiata da riferimenti precisi alla teoria, la quale non è però da leggersi soltanto come una presenza tematica, poiché il luogo stesso in cui i suoi versi vengono a prodursi, nel senso sia della genesi che della finalità del messaggio, è il significante quale la teoria permette di pensarlo. È dunque l’autore stesso a mettere il critico sulle tracce operative da Fernando Bandini, Zanzotto dalla “Heimat” al mondo, in Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999, p. liii. D’ora in avanti citeremo quest’opera con la sigla pps. 1 170 Alberto Russo seguire per entrare nei suoi testi, attraverso la disseminazione concettuale (da “significante scancellato” a “fonemi monemi”, da “trauma” a “sintomo”, da “Witz” a “transfert” ecc.),2 fino al riferimento diretto.3 Vediamo così come dal confronto di Zanzotto con lo strutturalismo il nome di Lacan emerga in modo preponderante: “Lacan, difficile ma ormai obbligatorio punto di riferimento per chi voglia tener presenti alcune ragioni prime della realtà letteraria”.4 Il punto di questo ancoraggio è noto, è il primato del significante nell’inconscio lacaniano strutturato come un linguaggio. L’evidenza di questa predilezione rende però doveroso ripeterne le ragioni. Dal punto di vista della poesia, la portata della scoperta lacaniana è immensa: le leggi della funzione poetica del linguaggio presiedono alle dinamiche fondamentali della psiche dell’uomo. “La struttura significante del sintomo” dice Lacan “mostra impressa sulla carne l’onnipresenza per l’essere umano della funzione simbolica.”5 In questo passaggio dal linguistico allo psichico si realizza senza dubbio uno degli apici dello strutturalismo, ed è qui che Zanzotto si allea con Lacan, sulla spinta di esigenze soggettive, cliniche, prima che estetiche. Tutto ciò è dichiarato da Zanzotto nel suo più noto intervento su Lacan, Nei paraggi di Lacan: Quanto al nome di Lacan, cominciai a sentirlo sussurrato da psichiatri non ortodossi che “dovevo” frequentare […]. Il trasformarsi di ogni discorso, anzi di “tutto” in mero significante, anzi in lettera. Il sospetto che l’io fosse una produzione grammaticalizzata dell’immaginario, un punto di fuga e non una realtà. Ma si poteva veramente affermare, dire, enunciare tutto questo? Non ne sarebbe rimasta la bocca irreparabilmente muta? […] Le prime letture di Lacan e su Lacan, prima che uscissero gli attesissimi Écrits mi provocarono veri traumi […]. Sentivo comunque tutta l’incombente necessità del discorso lacaniano, quale punto di arrivo – entro un mondo ormai inguaribile – della stessa idea di psicoanalisi, o meglio di analisi.6 Andrea Zanzotto, La Beltà, pps, pp. 335, 284, 341 e Id., Pasque, pps, pp. 434 e 421. “oui, je lis scilicet, la revue paraissant trois fois l’an / à Paris, sous la direction du docteur J. Lacan”; Id., La Pasqua a Pieve di Soligo, in Id., Pasque, cit., p. 425. Si veda anche la poesia Microfilm, in Id., Pasque, cit., p. 413. 4 Id., La Beltà, cit., p. 1145. 5 Jacques Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi (1966), in Id., Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 2002, vol. i, p. 406. 6 Andrea Zanzotto, Nei paraggi di Lacan, pps, pp. 1211-1212. 2 Zanzotto, la psicoanalisi, il reale 171 È dunque esplorando questo nucleo denso di interazioni che la critica ha potuto avanzare nell’interpretazione del testo zanzottiano, raggiungendo i suoi migliori risultati nei lavori di Stefano Agosti.7 I riferimenti diretti al testo di Lacan da parte di Zanzotto possono certamente innescare la tentazione di stabilire un primato del lavoro filologico, mirante a una precisa ricostruzione della ricca trama ipotestuale delle fonti. La critica di Agosti non asseconda questa tentazione, la giustezza della sua démarche trova ritmo e direzione nel suo operare dentro il nucleo teorico dell’alleanza, ed è in questo orizzonte che la sua finissima analisi testuale può permettergli di interpretare le ragioni profonde dell’atto poetico zanzottiano. L’attenzione di Zanzotto per la riflessione lacaniana va comunque al di là degli Écrits. Non poteva sfuggire alla sensibilità e agli interessi di Zanzotto il passaggio dal Lacan del linguaggio al Lacan della linguisteria, ovvero il passaggio dalla langue a lalangue. Questo passaggio trova riflesso anche nel macrotesto zanzottiano, all’altezza di quell’opera capitale che è Il Galateo in Bosco. È ancora Zanzotto a metterci sulle tracce di Lacan: [la] storia-storiografia quale viene inscritta nel Galateo in Bosco è senza dubbio riferibile a ciò che traspare nel “tema” di lalingua lacaniano (non lo direi nozione). […] L’indecidibile linguistico/lalinguistico ha certo un rapporto con quanto mi sono trovato davanti (per affrontarlo o per lasciarmene travolgere) anche nel Galateo in Bosco. [...] Nel Galateo in Bosco frequente mi sembra anche il passaggio di “lalingua” attraverso il teschio o nei suoi dintorni e aloni: a dire, in cartiglio come nel famoso quadro del Guercino: Et in Arcadia Ego.8 Non è facile situare queste riflessioni rispetto all’alleanza stretta nei territori del significante. Potrebbe dunque apparire promettente e necessaria un’indagine sulla lettura zanzottiana di lalangue, volta da un lato a cogliere la prospettiva in cui il poeta la colloca nel proprio universo concettuale, e dall’altro a offrire un contributo all’interpretazione della 3 7 Si vedano soprattutto: Stefano Agosti, Introduzione alla poesia di Zanzotto, in Andrea Zanzotto, Poesie 1938-1972, Mondadori, Milano 1973; Id., Introduzione alla poesia di Zanzotto, in Andrea Zanzotto, Poesie 1938-1986, Mondadori, Milano 1993; Id., L’esperienza di linguaggio di Andrea Zanzotto, in pps, pp. ix-xlix; Id., Zanzotto o la conquista del dire, in Id., Il testo poetico. Teoria e pratiche di analisi, Rizzoli, Milano 1972, pp. 209-218. 8 Andrea Zanzotto, Il Galateo in Bosco, pps, p. 1220. 172 Alberto Russo stessa lalangue. Un tentativo in questo senso è riscontrabile nello studio di Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto,9 in cui, a partire da un confronto tra gli interventi di Zanzotto e il testo di Lacan, viene costruita una concettualizzazione di lalangue come bussola per orientarsi nell’oscurità compatta dei testi de Il Galateo. L’effetto intertestuale è di grande densità, lo scavo nell’interpretazione zanzottiana di lalingua offre al critico strumenti affinati per una lettura che permette di attivare al senso alcune fondamentali virtualità del testo, mentre allo psicoanalista offre una serie molto promettente di variazioni sul tema di lalangue. Questa apertura innovativa di Sartori sul tema errante di lalingua ci conduce immediatamente all’incontro con un problema metodologico fondamentale: seguire Lacan nei territori arlecchinesco-demoniaci di lalingua significa seguirlo nella sua svolta verso il Reale. Proprio qui si annida la difficoltà di situare le riflessioni zanzottiane su lalingua. Ciò che dunque è in questione nel confronto di Zanzotto con il Lacan della linguisterie, al di là dell’elaborazione “leggibile” e delle sue applicazioni, è la possibilità di apertura di un’altra grande prospettiva di ricerca, sovrapponibile a quella che fino a oggi ha dato lustro alla critica zanzottiana a orientamento psicoanalitico: da la poesia di Zanzotto e il registro lacaniano del Simbolico, a la poesia di Zanzotto e il registro lacaniano del Reale. La necessità di aprire questa prospettiva si motiva innanzitutto nel tentativo di rispettare l’interezza dell’elaborazione lacaniana, la quale, com’è ormai noto, alla fine della sua parabola si presenta sempre più orientata sull’asse del godimento, sul sintomo come residuo insimbolizzabile, partner più proprio del soggetto.10 Ma la profondità del tentativo deve andare oltre, verso la dimensione più autentica in cui può esistere una psicoanalisi della letteratura che non tradisca il suo nome. La poesia di Zanzotto, la psicoanalisi di Lacan e la critica di Agosti, nella loro alleanza implicativa nel registro del simbolico, hanno dimostrato le loro percussive potenzialità di “novazione”.11 Tuttavia, Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto, Quodlibet, Macerata 2011. Per una presentazione e alcune considerazioni di base su questo studio si veda Alberto Russo, recensione di Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto, in “lettera”, n. 2, 2012, pp. 223-225. 10 Si veda Jacques-Alain Miller, I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001. 11 “[…] scienze dell’intersoggettività, od anche […] scienze congetturali, termine con cui indico l’ordine di quelle ricerche che stanno facendo virare l’implicazione delle scienze uma9 Zanzotto, la psicoanalisi, il reale 173 l’implicazione della psicoanalisi alla letteratura trova il suo più autentico spazio di esistenza nel vuoto di sapere che il Reale apre in seno alla struttura, poiché è proprio da quel vuoto plasmante e resistente al lavoro del significante che può scaturire un sapere inedito.12 Questo spazio di implicazione si rivela decisivo anche per le finalità più intime della critica letteraria. Se infatti per la psicoanalisi si tratta di estrarre dalla letteratura un insegnamento sul Reale, di isolare una pratica di ben dire attorno o dentro l’assenza del rapporto sessuale, per la critica si tratta di riuscire a situare le analisi sul funzionamento significante del testo rispetto a ciò che, in posizione di extimité, ne determina la singolarità, le divisioni interne e l’inesauribilità. Cercare un’alleanza con la poesia di Zanzotto in questa dimensione determina dunque un ribaltamento dell’asse sul quale si costruisce l’alleanza simbolica: la pietra fondante non sarà più una convergenza in un medesimo spazio teorico, ma una passione tragica per il non sapere, per l’impossibile, per il vuoto. Occorre cioè ricollocarsi nel senso più profondo dell’alleanza freudiana con i poeti,13 ovvero mettersi in ascolto del testo al fine di riconoscervi le tracce di un sapere bottinato in territori sconosciuti. A guidare in questa ricerca non sarà dunque un sapere comune tra poeta, critico e psicoanalista, ma una comune preliminare sospensione di sapere, ovvero un predisporsi del critico e dello psicoanalista a incontrare l’ignoto fatto esistere dal poeta nel suo coraggioso avanzare déreglé. Se ci avviciniamo alla poesia di Zanzotto da questa prospettiva, sentiamo immediatamente che è la sua singolare posizione di poeta, ovvero il suo “titanismo esistenziale e cosmico”14 nei confronti del “ricchissimo nihil”,15 a intrecciare l’affinità profonda con la psicoanalisi lacaniana. Zanzotto descrive così questa posizione: Credo che la poesia non debba né creare mondi sghembi rispetto al nostro né ripetere una realtà che si presume marmificata e codificata una volta per ne. Ma una tale direzione si manterrà solo grazie a un vero insegnamento, che non cessa cioè di sottomettersi a quel che si chiama novazione.” (Jacques Lacan, La cosa freudiana, cit., p. 427) 12 Si veda Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 37. 13 Si veda Sigmund Freud, Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di W. Jensen (1906), in Id., Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. v, p. 264. 14 Franco Fortini, Saggi italiani, Garzanti, Milano 1987, p. 113. 15 Andrea Zanzotto, Da un’altezza nuova, in Vocativo, pps, p. 169. 174 Alberto Russo sempre: la poesia mi pare piuttosto come un continuo riporto e ricamo: da invenzione (“dal nulla”) a scoperta (dell’essere-fieri) e viceversa, in una sintesi dinamica che ha tutti i titoli per apparire come specchio della realtà e insieme come sua componente “in eruzione”, mentre questo andar oltre dà sempre nuovo, più profondo senso all’origine e a tutto l’insieme.16 Dobbiamo a questo punto, quale atto preliminare, neutralizzare il rischio di un’ascrizione della poesia di Zanzotto alle esperienze estreme di poeti come Artaud o Hölderlin, o al paradigma sinthomale di Joyce. Diciamolo perentoriamente: nonostante il suo oltranzismo fondante, la struttura della scrittura di Zanzotto resta nevrotica. Il suo esporsi al reale avviene sempre a partire da un riconoscimento della lingua come unico possibile luogo di umanizzazione, come luogo del senso e del debito simbolico. Nell’atto poetico di Zanzotto, infatti, il lasciarsi parlare dalla lingua17 coesiste con una resistenza a “una resa incondizionata al potere d’attrazione del caos. L’atto intenzionale (cioè affermare o negare, amare o odiare) è sempre vivo in lui”.18 L’oltrepassamento del limite è in Zanzotto la condizione inevitabile per cercare un’autenticità del dire, ma è anche causa di sofferenza, poiché nell’oltranza il soggetto è costretto a fronteggiare l’“immenso scotoma”,19 a lambire il “gorgo implosivo”.20 L’esperienza poetica si presenta allora caratterizzata da un movimento di esplorazione e di ritorno, da un “andirivieni della tessitura”,21 in cui è la realtà stessa a essere implicata: il poeta ha già una sua isteria, e non deve coltivarla, ma in qualche modo superarla, deve riportare la sua “parola” alla “lingua”. Egli, che è per sua natura “eccentrico”, deve ritessere i fili che lo legano al centro per ricondurre alle sedi umane la sua esperienza fatta nel deserto: la sua è sempre esperienza del limite, ma egli ha il compito di arricchire con la terra incognita lo spazio noto, e di farlo così entrare in ebollizione. Ma il terreno comune, riflesso nella lingua-norma, non deve essere mai perduto di vista.22 Id., Il mestiere di poeta, pps, p. 1133. Si veda Id., Qualcosa al di fuori e al di là dello scrivere, pps, p. 1227. 18 Fernando Bandini, Zanzotto dalla “Heimat” al mondo, cit., p. 84. 19 Andrea Zanzotto, Ecloga ix, in ix Ecloghe, pps, p. 257. 20 Id., Ligonàs, in Sovrimpressioni, Mondadori, Milano 2001, p. 15. 21 Id., Profezie o memorie o giornali murali (xiii), in La Beltà, cit., p. 336. 22 Id., Il mestiere di poeta, cit., p. 1125. Si veda anche Id., Intervento, pps, p. 1282. 16 17 Zanzotto, la psicoanalisi, il reale 175 Questa attenzione alla civitas s’incarna soprattutto nel grande tema della Pedagogia, nel quale precipitano tutti gli interrogativi zanzottiani sul senso della poesia. L’utopia del docente-poeta Zanzotto è quella di fondare una pedagogia nutrita dalla poesia, intesa come attività modellata sul non-sapere e sul desiderio, binomio nel quale riporre le speranze di una trasmissione non menzognera dell’umano. Un umano, mai dato una volta per tutte, per il quale Zanzotto invita a “tener presente come più che mai l’uomo sia creatore del proprio destino/ volere; l’uomo è sempre in pericolo di regredire enormemente, come può andare avanti”.23 Incontriamo così un altro tema-problema fondante della poesia di Zanzotto, quello della Norma. La Norma assume nella poesia di Zanzotto un’irradiazione plurale di significati interconnessi. Essa è innanzitutto la Legge rappresentata dal linguaggio, ma è anche la lingua nazionale che sovrasta il dialetto, ovvero l’italiano. Per il diglotta Zanzotto l’italiano è ovviamente, soprattutto, l’italiano letterario, lingua formatasi nella sedimentazione storica di diversi tipi di convenzione. La bellezza stessa, di cui la poesia è la realizzazione, è normata, prodotto di poetiche; il reale eccedente della bellezza trova, appunto, il suo doppio simbolico: la beltà. In ognuna di queste sue declinazioni, la Norma, in quanto convenzione senza fondamento, costruzione in balìa dei movimenti insensati della storia, è per Zanzotto il luogo dell’inautentico, della menzogna, ma è anche il luogo in cui si realizza l’idea dell’umano. Il movimento di trasgressione nella Norma si attua quindi in Zanzotto come tentativo di riportare nelle strutture della Norma stessa qualcosa dell’autentico inumano incontrato nel Reale. In questo passaggio possiamo osservare da vicino la differenza fra la posizione di Zanzotto e quella di Artaud: il rifiuto in Artaud dell’inautentico, della menzogna del Padre-Madre, è assoluto e senza compromessi. L’utopia di Artaud è quella di fare una poesia pura dell’autentico invivibile e inumano della Cosa. In Zanzotto invece l’accettazione dell’inautentico resta il gesto primo per rendere possibili la vita, la poesia e l’umano. Impossibile uscire dal simbolico, se non nel gesto del barone di Münchhausen, che si salva dalla palude tirandosi per i capelli.24 Ma altrettanto Id., Alcune osservazioni dell’autore, in Gli Sguardi i Fatti e Senhal, pps, p. 1536. Si vedano il finale della poesia Al Mondo, in La Beltà, cit., p. 301, e Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953), in Id., Scritti, cit., vol. i, p. 256. 23 24 176 Alberto Russo Zanzotto, la psicoanalisi, il reale 177 obbligato è il confronto con il Reale della Cosa. “Si tratta infatti della Cosa in quanto è definita dal fatto di definire l’umano – ancorché, appunto, l’umano ci sfugga.”25 L’infondatezza variabile della Norma è infatti un effetto della presenza ineludibile del Reale senza legge della Cosa, che la Norma cerca appunto di domare e occultare. Perché la poesia abbia qualche speranza di farsi luogo dell’autentico non resta dunque a Zanzotto che trasgredire la Norma, riportando poi ex nihilo nelle trame della forma effetti rivitalizzanti di Reale. È una pratica che Zanzotto presenta nel componimento finale di La Beltà, nel testo programmatico E la Madre-Norma: “E mi faccio spazio davanti / indietro e intorno, straccio le carte / scritte le reti di ogni arte, / lingua o linguistica: torno / senza arte né parte: ma attivante. / E torna, per questo fare, la norma”.26 Questo testo meriterebbe un’analisi approfondita che non possiamo fornire in questa sede. Ci limitiamo qui ad alcune considerazioni rispetto al titolo, in cui colpisce la scelta di Zanzotto di ascrivere la Norma al lato materno. Lo spostamento metonimico dall’atto della trasgressione all’oggetto in cui si realizza la trasgressione (la Madre), e la conseguente proiezione sull’oggetto trasgredito (il Padre-Norma), realizza una fusione tra significanti di matrice metaforica. Tentiamo di questo doppio movimento figurale due ipotesi interpretative. La prima riguarda il desiderio del soggetto poetante, che potrebbe tentare di dispiegarsi nell’erotismo di una singolare libertà poetica destituendo la Norma, avvertita come rigidamente superegoica, rendendola Madre, dunque suo oggetto originario. Questa prospettiva ermeneutica troverebbe una conferma nel riuso, nella seconda parte del componimento (vv. 20-26), del classico congedo di canzone (Va’ nella chiara libertà, / libera il sereno la pastura ecc.) che, come commenta Dal Bianco, è “rivolto alla poesia stessa”.27 Ma la parola composta che scaturisce dal doppio movimento impone, in modo più implicativo, di essere interpretata come una formazione dinamica, nella quale viene formalizzato il movimento di assimilazione del Reale nelle forme del dire. Fare della Norma una Madre, ovvero metaforizza- re la Norma attraverso il focus del “materno”, significa certamente accentuare gli effetti generativi e creativi della trasgressione. La fusione in un solo significante permette di significare l’operazione di interazione sincronica tra Reale e senso e l’alterazione strutturale che ne consegue. Essendo la trasgressione della Norma un modo di confermarla e di rivitalizzarla, ma anche l’unico modo per tentare un dire capace di accogliere l’autentico, la Norma diventa luogo di germinazione, di riproduzione, di rinascita continua, luogo femminile dell’apertura, dell’invenzione singolare, della proliferazione in devianza. L’atto poetico, come atto di rottura, realizza l’incontro del significante con il Reale, e apre così nel dire uno spazio di fertilità materno-mortifero in cui può accadere la poesia. In questa prospettiva potrebbero facilmente trovare posto le variazioni zanzottiane su lalingua (dialetto, petèl, xenoglossia, glossolalia ecc.) come pratiche di trasgressione linguistica in massima vicinanza alla Cosa (le quali andrebbero fatte interagire, al fine di poter penetrare in sede di analisi nell’eterogeneità del testo zanzottiano,28 con pratiche significanti meno intrise di godimento). Si carica allora di senso l’ut pictura poesis tra il quadro del Guercino e la poesia del Galateo,29 in cui Zanzotto ci invita a osservare il passaggio di lalingua attraverso e intorno all’EgoTeschio, il quale (come nel quadro Gli ambasciatori di Holbein) è il simulacro dell’irrappresentabile che infrange, sostiene e rigenera ogni cristallizzazione convenzionale del senso. Il suddetto spazio di fertilità dovrebbe però soprattutto dare dimora a quello che si presenta come il problema fondamentale in una critica del Reale della poesia di Zanzotto: identificare le caratteristiche e la funzione dell’oggetto Paesaggio nei processi di sublimazione e di strutturazione del testo. Porre al centro della riflessione critica il Paesaggio come oggetto a potrebbe permetterci di avanzare verso una più profonda interpretazione dell’atto poetico zanzottiano, la cui grandezza risiede, lo ripetiamo, nel riuscire a congiungere un’esperienza del Reale con una strenua ricerca del senso, in una divaricazione in cui si realizza 25 Jacques Lacan, Il seminario. Libro vii. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 1994, p. 159. 26 Andrea Zanzotto, E la Madre-Norma, in La Beltà, cit., p. 348. 27 Stefano Dal Bianco, Profili dei libri e note alle poesie, pps, p. 1516. 28 Sul testo letterario come formazione eterogenea e conflittuale si veda Giovanni Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Einaudi, Torino 2006, pp. 253 e sgg. 29 Si veda nota 8. 178 Alberto Russo “il momento di massimo raccordo tra conscio e inconscio”,30 e in cui la poesia si rivela “come un intrattenibile tic, un’imbastitura vaga, un mormorio contraddittorio appena al di sopra del nulla, ma prepotente come la sillabazione di un tutto”.31 “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” L’artista e la donna in Camille Claudel Maria Barbuto Una notte sono scivolata giù dal paradiso e l’ho rinnegato da allora ho il cuore che sanguina Monica Pavani1 1. “le figure pronte a scaturire dalla mia voragine”2 Sono due ragazzi, sul limitare del bosco, là dove si sente solo il rumore del vento, gli alberi che graffiano, la terra inzuppata dalla pioggia e le pietre altere, intoccabili. Sono insieme, circondati dall’ombra come di fronte a una specie di appuntamento: “Ascolta, sto per confidarti un segreto. Vorrei essere… Vorrei scolpire! Ho visto un libro, delle statue, sai, come faccio con la terra… Adesso lo so: voglio essere una grande scultrice!”.3 Sono due ragazzi illuminati dalla luna, un fratello e una sorella, Paul e Camille Claudel. Di fronte al mondo saranno, rispettivamente, un poeta e una scultrice. Camille ama confondersi con la terra, appropriarsi dell’umidità del fango, affondare i piedi nella sabbia, mentre Paul esclama: Se ti vedesse la mamma! Sembri un basilisco! Un che? Basilisco. È un serpente favoloso il cui sguardo ha la facoltà di uccidere.4 Andrea Zanzotto, Intervento, cit., p. 1281. Su questa divaricazione si vedano anche i fondamentali concetti di Agosti, “afasia-amnesia” e “verbalizzazione-memoria”, che guidano la sua lettura de La Beltà. Si veda Stefano Agosti, Zanzotto o la conquista del dire, cit., pp. 209-218. 31 Andrea Zanzotto, Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo), pps, p. 1319. 30 1 Monica Pavani, Luce ritirata, poema interamente dedicato a Camille Claudel, Premio Senigallia, Spiaggia di Velluto, La Fenice, Roma 2005. 2 Il titolo dei paragrafi è liberamente tratto dal poema di Monica Pavani, op. cit. 3 Anne Delbée, Una donna chiamata Camille Claudel (1982), Longanesi, Milano 1988, p. 19. 4 Ivi, p. 18. 180 Maria Barbuto “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” 181 Lo sguardo. Camille. Il fratello Paul non ha mai visto occhi più belli. Occhi che brillano sotto la luna, selvaggi, sempre cangianti. Sono blu, a volte viola o verdi, sono intensi, pieni di una vibrazione che va dritto al cuore. Paul pensa che gli occhi di Camille sappiano guardare. Lei è lo sguardo, imprendibile, fuggitivo, che Paul incontra e che non smetterà di inseguirlo, dentro l’animo, così come dentro le parole, nella sua poesia: “Ci sono i suoi occhi che brillano come quelli di un gatto”.5 2. “scolpire è pensare la luce resistente al marmo” Camille Claudel scultrice: una storia in cui si scrive un talento precoce, trent’anni dedicati esclusivamente alla scultura ma, anche, trent’anni di vita in manicomio che decretano la fine del suo genio artistico. Entra in manicomio a quarantanove anni, qualche giorno dopo la morte del padre, l’unico nella sua famiglia ad avere sostenuto il talento della figlia che si era manifestato fin dagli anni della fanciullezza. In un momento in cui durante gli anni del lungo e definitivo ricovero veniva spinta a fare della scultura senza riuscirvi, confida in una lettera al fratello Paul che il pensiero la riporta alla madre, che non ha visto mai più dal giorno del suo ingresso in manicomio: “Penso a quel bel ritratto che le avevo fatto all’ombra del nostro bel giardino. I grandi occhi in cui si leggeva un dolore segreto […]”.6 In effetti, “il dolore segreto” della madre determinerà il posto destinato a Camille: essere l’usurpatrice. Per la madre Camille aveva la colpa di aver usurpato il posto del primogenito, Charles-Henri, cui era rimasta visceralmente legata a causa della sua precoce e tragica perdita, avvenuta quindici giorni dopo la nascita. La donna, che avrebbe quindi desiderato un maschio, non voleva riconoscere l’arrivo di questa bambina, che al momento della nascita fu accolta solo dalle braccia della governante, mentre lei volgeva altrove lo sguardo, nel silenzio più oscuro. Di fronte al suo primo Altro, la piccola Camille incontra quindi un’assenza, un vuoto di parole, l’equivalenza di un rifiuto. Camille nasce così, senza una parola e senza uno sguardo che le riconoscano un posto di soggetto. Quello sguardo precluso al suo riconoscimento, primo ostacolo per il suo accesso al simbolico, ritornerà nelle sue opere con variazioni diverse, spesso sotto forma di vuoto, di sguardo eliso, indeterminato, o sotto forma di sguardo accecante, invasivo, come quello di Medusa a cui Camille dedicherà una bellissima opera dal titolo Persée et la Gorgone (1910, Fig. 1). In tutti i casi, il rifiuto incontrato diventa materia di una devastazione madre-figlia senza limiti, presagio “che un giorno l’una metterà a morte l’altra […]. Camille ha tredici anni, ma tutto ciò la soffoca: non capisce come si possa venire dopo qualcuno”.7 L’assenza di calore e di desiderio da parte della madre, che sperava di ritrovare al posto di Camille un nuovo figlio maschio in grado di sostituire quello perduto, la lascia sola come di fronte a uno specchio vuoto. Privata di quel riconoscimento simbolico in grado di mettere la sua esistenza in rapporto al desiderio dell’Altro, la piccola Camille si trova a occupare un posto totalmente ingombrato dal fantasma del fratello morto.8 Philippe Claudel, Le Soulier de satin (1925), Gallimard, Paris 2000, p. 167. 6 Reine-Marie Paris, Camille Claudel. Frammenti di un destino d’artista (1984), Marsilio, Venezia 1989, p. 110. Anne Delbée, op. cit., p. 40. La lettura data da Massimo Recalcati alla vita e alle opere di Vincent Van Gogh nel bel libro Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh (Bollati Boringhieri, Torino 2009) evidenzia, in modo significativo, la similarità delle vicende biografiche di Vincent Fig. 1 – Camille Claudel, Persée et la Gorgone 7 5 8 182 Maria Barbuto Fin da subito, dunque, è confrontata con l’indegnità, con il suo non poter neanche essere all’altezza di occupare il posto del fratello scomparso e, in un parallelismo fortemente evocativo della storia di Van Gogh, anche per lei è una lapide a farle da specchio. In uno strano gioco di destini incrociati, anche Camille sarà destinata a essere “parassitata da un’immagine ideale che non l’abbandona e che sovrasta la sua esistenza”.9 Al posto di quello che lei avrebbe potuto essere nel desiderio dell’Altro le risponde un vuoto, un silenzio che la paralizza, “sa già che agli occhi del mondo sarà eternamente la triste eco dell’essere amato”.10 Questa immagine dell’eco in quanto parola che sfuma, che viene da lontano, udibile solo nella risonanza, sanziona la distanza tra Camille e il mondo, distanza incolmabile, frattura innominabile, muta, tranne quando Camille scolpisce. Scolpire è fare emergere dalla materia grezza una forma, creare un volume attraverso un processo di scavo, di svuotamento, che dà corpo e luce all’oggetto. Il primo lavoro fatto dalla giovane Camille per Rodin, appena arrivata nell’atelier del maestro, fu la forma di un piede. Dettaglio interessante se si pensa che Claudel significa claudicante e che Camille stessa era leggermente affetta da una simile andatura. Il piede scolpito, restituito alla forma perfetta, è offerto allo sguardo di Rodin, sguardo che, a differenza di quello materno, ha per la giovane allieva una funzione evidentemente “ortopedizzante”. L’esigenza di scolpire fu per Camille talmente forte, talmente imperativa, da imporsi sopra ogni cosa. Ben presto diventerà il punto cardine intorno al quale farà ruotare la sua intera esistenza, fino a determinare il trasloco dell’intera famiglia a Parigi dove, con lo scopo di formarsi e approfondire i suoi studi, incontrando Auguste Rodin incontrerà il maestro ma anche l’uomo con il quale condividerà la passione per la scultura e le vicissitudini di una controversa vicenda sentimentale. Camille diventerà l’allieva ma anche la collaboratrice, la modella, l’amante di Rodin, nel corso di una lunga vicenda in cui si intrecceranno la vita professionale e quella affettiva, con ambiguità e bagliori e Camille, anche nel destino che accompagnerà la loro vita e la loro supplenza artistica. 9 Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, cit., p. 36. 10 Anne Delbée, op. cit., p. 41. “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” 183 che si spegneranno definitivamente negli anni che precedono il ricovero di Camille nel manicomio di Ville-Evrard a partire dal marzo 1913. Nel momento della fioritura del loro incontro amoroso, la scultura di Rodin si apre al lirismo e a una sensualità non sperimentati prima, in un nuovo ciclo in cui emergono opere come L’Eternelle idole, La Danaide, per la quale Camille sarà la modella, e poi ancora Les Sirènes, Le Baiser. Il volto e il corpo dell’amata ritornano nelle sculture dal titolo La Pensèe, L’Aurore, St. George e in numerosi ritratti. Proprio durante questo periodo Camille afferma d’improvviso il suo stile, uno stile la cui impronta era già presente nel busto del fratello Paul, scolpito a soli sedici anni nel 1884. Solo più tardi, dimostra un interesse particolare per l’arte giapponese che scopre quando si separa da Rodin, e di quest’arte diviene una sostenitrice a Parigi. Alla fine del 1888, Rodin aggiunge ai suoi luoghi di lavoro La Folie Neubourg, in boulevard d’Italie, una sontuosa dimora classica circondata da un enorme giardino ma in condizioni rovinose; questo luogo diventerà la sede privilegiata dei loro incontri. Non si sa con precisione se Camille sia stata, già all’epoca, dotata di una sufficiente autonomia personale per potervi convivere con il maestro. In quel periodo lei diventa certamente la più importante collaboratrice di Rodin, per il quale esegue diversi lavori ottenendo anche dei compensi finanziari. Si sa, inoltre, che Rodin le affidava spesso la scultura delle mani e dei piedi in opere che lui stesso creava e, conoscendo l’importanza che Rodin attribuiva alle mani, queste committenze mostrano un’indiscussa fiducia del maestro nei confronti del talento di Camille. Nel 1887 i due fanno un primo viaggio in Touraine dove scoprono lo Château de l’Islette a Azay-le-Rideau, che diventerà una delle tappe più note della loro vicenda amorosa, con i soggiorni presso la dimora di Madame Courcelles. Gli incontri in Touraine cesseranno nel 1894 e ci introdurranno a uno dei misteri della vita di Camille: non si sa, infatti, se proprio qui Camille abbia nascosto delle gravidanze e abbia avuto dei figli da Rodin o, piuttosto, vi sia rimasta convalescente in seguito a un aborto difficile. Sono di quest’epoca La convalescente e L’Adieu (1892) ma anche la composizione di un meraviglioso volto di bambina dallo sguardo sperduto, La Petite de l’Islette o anche Jeanne enfant (1893). 184 Maria Barbuto “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” 185 che comincia e il bacio che finisce? Sembra che danzino, forse vacillano, insieme, quasi già separati.11 Fig. 2 – Camille Claudel, Amants Certo è che il loro rapporto comincia a deteriorarsi a partire dal 18921893: Camille si sentiva utilizzata da un maestro opportunista che teneva nell’ombra il suo talento artistico. Inoltre, in conflitto con la compagna di Rodin, Rose Beuret che, vedendosi minacciata dalla presenza della rivale diventava sempre più aggressiva, Camille comincia a veder naufragare il suo legame col maestro. Prima di questo momento fatale, che funzione poteva avere per Camille il sentirsi in coppia con Rodin? 3. “sola, la porta aperta sull’inferno” Camille fanciulla rimane rapita da una scultura in cui veniva rappresentato l’abbraccio tra un uomo e una donna. L’immagine le si impone, ci sono le pietre che la guardano, le scruta, si fa guardare: Di fronte, felici, abbracciati, gli amanti. La pietra spaccata in due, è come attorcigliata. La fanciulla si domanda spesso: si separano, si ritrovano? Perché chi può dire, se si ferma il movimento in quell’attimo, la differenza tra il bacio Questa immagine fornisce emblematicamente le coordinate del destino di Camille, creatura impossibilitata a trovare una scrittura dell’amore tanto quanto quella del suo essere donna. Ancora adolescente le rimane vuoto di significato il legame della coppia coniugale e non riesce a formulare alcun interrogativo utile a orientarla nel registro del desiderio: “Camille si è fermata: come possono vivere insieme padre e madre? Che orrore il matrimonio! Il solo pensiero le fa disgusto: pensa al grande letto senza poter capire. Ecco, lei è nata da costoro […]”.12 Se l’accesso alla sessualità avviene tramite un trattamento simbolizzato del reale sessuale, per Camille questa operazione rimane abitata da un vuoto e l’identificazione su cui costruisce la sua supplenza di fronte all’inefficacia del registro simbolico farà sì che la “scultrice” prenda il posto impossibile della “donna”. Ogni donna è segnata da una profonda divisione tra l’essere un soggetto inscritto nel linguaggio e la sua singolarità di donna che, in quanto tale, attinge a un al di là rispetto al campo dei significanti. Questo al di là, terra di confine avvolta d’indicibile, la rende assolutamente Altra, aliena rispetto al fallo, esposta all’eccedenza di un godimento supplementare al campo del linguaggio. Quest’ultimo impone a ciascuna la necessità di fronteggiare, accanto a questo supplemento, l’inesistenza del significante che la rappresenti. Per ogni donna si tratta, dunque, di imparare a incontrare un vuoto, un’assenza, una figura del das Ding. È perciò nella natura femminile saper attingere alla sublimazione per incarnare questa intimità straniera, e l’amore può essere un modo significativo per arginare la terra senza nome del godimento Altro, per incanalare l’eccesso, la vicinanza del das Ding e dare forma al vuoto. Infatti essere “la donna di un uomo”, posizione che assegna un ruolo attraverso l’amore, è senz’altro un nome importante dell’identificazione femminile. Ma l’intreccio e la sinergia tra il posto della donna e quello dell’artista sarà segnato per Camille da un destino infausto proprio a causa della sua psicosi e in conseguenza del suo legame travagliato con Rodin. Ivi, p. 16. Ivi, p. 21. 11 12 186 Maria Barbuto Ciò che, infatti, renderà fragile la sua supplenza artistica ha a che fare con il momento in cui la posizione femminile emerge nella sua differenza rispetto a quella dell’artista, ne allenta il legame che può funzionare solo a patto di un annodamento tra la “donna” e la “scultrice”, come effetto dell’unione con il maestro-amante-scultore.13 Incontrando Rodin, Camille incontra il suo sogno, il suo doppio speculare, con tutto il carico minaccioso che il doppio speculare può incarnare come Lacan ci ha segnalato a proposito del caso di Aimée nella sua tesi di dottorato.14 Aimée coltiva l’idea di essere una donna di lettere e di successo come l’attrice, molto nota al pubblico, che lei stessa un giorno accoltella per strada in preda a un delirio di persecuzione, attrice che Aimée aveva inconsciamente messo nel posto di un ideale da emulare. Un ideale che ha le caratteristiche destabilizzanti del doppio che può manifestarsi all’improvviso sotto la forma di un’estraneità minacciosa. Di fatto Camille, al posto di colpire Rodin, il doppio che ritorna con il carattere unheimlich, nel momento culminante della sua psicosi distruggerà le sue sculture a colpi di martello: corpi smembrati, frantumati in mille pezzi, teste, braccia, piedi e mani, i dettagli corporei che Rodin le faceva scolpire, staccati dal corpo, ridotti in macerie. Rodin sarà il punto focale del delirio persecutorio di Camille. Avvicinandosi a Rodin come uomo, divenendone l’amante, Camille aveva potuto andare incontro alla realtà sessuale solo a condizione che essa potesse essere ricoperta dal significante dell’artista. Nell’assoluta specularità immaginaria del rapporto col maestro, Camille fa il tentativo di annodare insieme i due litorali, l’indicibile dell’essere donna e il suo potersi dire nell’opera in quanto artista. Purtroppo, l’impossibilità di un legame stabile tra i due che le riconosca un posto nella coppia, rendendo sempre più fragile la sua costruzione, sarà motivo dell’incalzare dello scatenamento e l’emergenza del significante della donna in opposizione a quello dell’artista solleciterà l’incrinatura della costruzione fatta per tamponare il vuoto della significazione fallica. 13 Si veda Francesca Biagi-Chai, Camille Claudel, deux suppleances?, in “Bibliothèque confluents”, supplemento al n. 19 di “Confluents”, Association freudienne Île-de-France, Ville Evrard 1996. 14 Jacques Lacan, Il caso Aimée o la paranoia di autopunizione (1932), in Id., Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Einaudi, Torino 1980. “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” 187 Supplenza simbolica e compensazione immaginaria15 hanno funzionato per Camille per tamponare il vuoto della metafora paterna. Se la supplenza simbolica si esprime nel lavoro della scultura dove Camille produce una sua realizzazione sociale, un suo stile, un suo prodotto dotato di un valore riconoscibile, Rodin rappresenta, sul piano della compensazione immaginaria, l’ideale con cui fare Uno. Ciò avviene in un rapporto di condivisione passionale per la scultura, rapporto fatto di comunione spirituale ma anche di spinte erotiche e amorose che segneranno il declino della supplenza artistica stessa. È proprio in questo scorgersi come donna accanto a Rodin, fatalmente scartata in favore della vecchia compagna del maestro, che Camille incontra l’inconciliabilità dell’artista e della donna. È proprio nell’impossibilità di fondere insieme i due significanti, nella non-corrispondenza assoluta tra l’opera e la donna, che si interrompe tragicamente l’estasi dell’Uno. Quindi, nella faglia aperta tra l’ideale artistico e la frustrazione legata allo scacco amoroso, si apre la voragine di una pericolosa dissimmetria tra il suo essere artista e il suo essere donna che determinerà lo scatenamento della sua psicosi. In una lettera del 1892 scrive, dal soggiorno in Touraine, quella che a tutt’oggi è la sola lettera intima nei confronti di Rodin di cui abbiamo testimonianza: Dato che non ho nulla da fare vi scrivo ancora. Non potete immaginare come il tempo sia bello all’Islette. Oggi ho fatto colazione nella sala di mezzo (quella che funge da serra e da dove si può vedere il giardino da ambo le parti). M.me Courcelle mi ha proposto (senza che io glene parlassi, ve l’assicuro) che, se ciò vi farà piacere, vi potrete far colazione quando lo vorrete o se preferite anche sempre (credo ne abbiate un gran desiderio). È così bello là! Ho passeggiato nel parco, tutto è falciato, fieno, grano, avena, si può farne il giro, è molto piacevole. Se sarete così gentile da mantenere la vostra promessa noi, qui, guadagneremo il paradiso. Avrete la camera che volete per lavorare e io credo che avrete la vecchia ai vostri piedi. Mi ha detto che posso fare senza rischi il bagno nel fiume, come sua figlia e la sua governante; con il vostro permesso lo farò e ciò sarà un grande piacere, Si veda Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, cit., p. 41. 15 188 Maria Barbuto “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” 189 mi eviterà di andare ai bagni caldi di Azay. Sareste così gentile da comperarmi un piccolo costume da bagno blu scuro con guarnizioni bianche? Lo vorrei in due pezzi: blusa e pantaloni (taglia media). Lo troverete al Louvre o al Bon Marché (in sargia) oppure al Tours. Dormo nuda per credere che voi siate qui, ma quando mi sveglio non è più la stessa cosa. Soprattutto non mi ingannate più.16 “Noi, qui, guadagneremo il paradiso”: in queste parole, Camille mostra che l’approssimarsi di Rodin assume per lei un valore assoluto. Ma il “paradiso” sarà presto perduto perché il luogo della beatitudine, dal momento che il significante della donna e quello dell’artista disgiungeranno i loro destini, coinciderà con lo svelamento delle tenebre e, infine, con l’irrimediabile frantumazione del suo essere e delle sue opere. Di fatto, la supplenza che Camille si era inventata per tamponare la forclusione della funzione paterna dimostra un suo primo vacillamento nel momento in cui, dopo il trionfo di Rodin all’Esposizione universale del 1889, decide di separarsi da lui. Si allontana, si isola, decide di lavorare “per se stessa”. In quegli anni comincerà ad avere una serie di sue personali frequentazioni, durante le quali incontrerà il musicista Claude Debussy col quale condividerà una passione che coinvolse molto di più il cuore del giovane compositore che il suo, forse eccessivamente occupato dalle sue problematiche con Rodin. Robert Godet, scrittore e critico svizzero, descrive così i due artisti che incontrava regolarmente: Debussy, al piano, suonava i suoi pezzi, Camille ascoltava silenziosa e rapita. Sembra che Camille, sensibile all’arte giapponese, abbia coinvolto anche Debussy attraverso la Mangua di Hokusai. È difficile stabilire la natura del loro legame; all’epoca il pianista vive con Gabrielle Dupont che è stata per molti anni la sua compagna. Certo è che a partire dal 1891 i due artisti cessano di incontrarsi, senza che se ne possa conoscere la ragione. Ecco cosa scrive Debussy in una dolorosa lettera indirizzata a Godet nel 1891: Ah! L’amavo veramente, e in più con ardore triste poiché sentivo, da segni evidenti, che mai lei avrebbe fatto certi passi che impegnano tutta un’anima e che Lettera (22 giugno 1892) dall’Archivio del Museo Rodin, Parigi. 16 Fig. 3 – Camille Claudel, La Valse sempre si manteneva inviolabile a ogni sondaggio sulla solidità del suo cuore! Ora resta da sapere se lei contenesse tutto ciò che io cercavo! E se ciò non fosse il nulla. Malgrado tutto, piango sulla scomparsa del Sogno di questo Sogno.17 Sembra che Debussy abbia conservato, per sempre, fino alla sua morte, sul caminetto del suo studio, la scultura di Camille intitolata La Valse (la prima versione in gesso, andata perduta, è del 1898; la versione in bronzo è del 1905). Sono gli anni in cui Camille, senza chiudere definitivamente con Rodin, interrompe la sua coabitazione e si ritira nella sua casa situata in boulevard d’Italie. Ha circa trent’anni e Morhardt, suo amico e suo critico, la descrive parecchio attratta dallo spettacolo della vita quotidiana nelle strade. Nelle ore in cui non scolpisce girovaga, osservando la gente che incontra per strada e fa delle lunghe visite al Museo del Louvre o al Museo Guimet. In questo periodo di solitudine pare che abbia accu Anne Delbée, op. cit., p. 35. 17 190 Maria Barbuto mulato numerosi schizzi che riproducono la quotidianità dei gesti, frutto delle sue osservazioni rivolte ai passanti o ai lavoratori. La sua ricerca si orienta verso una scultura di piccole dimensioni dalle suggestioni psicologiche e le sue opere appariranno coperte da drappeggi in opposizione a quelle di Rodin, contraddistinte dal nudo integrale. Il dettaglio dei drappeggi mostra la necessità di “vestire” l’opera e sembra avere, da questo momento, una particolare funzione nel “tenere insieme” le sue sculture, indice che la supplenza artistica comincia a vacillare nello stesso momento in cui le sue creazioni evocano l’idea di un corpo coperto, come sul punto di andare in frammenti. In una scena del film dedicato alla sua vita,18 mentre Camille (interpretata dall’attrice Isabelle Adjani) sta lavorando di fronte a un modello e, poco più che fanciulla, comincia a sviluppare il suo talento, ecco che cosa le suggerisce Rodin (interpretato da Gérard Depardieu): “Avete compreso la testa e il collo ma non avete trattato il corpo […]. Il corpo umano è un mondo che freme, che palpita, è la vita […]. Voi avete l’audacia necessaria per poter scolpire un uomo nudo, ma voi nascondete il suo corpo”. Nel momento in cui la collaborazione con Rodin si è allentata, anche l’affetto si tramuta in odio e, in preda alla disperazione, Camille pensa di essere stata depredata della sua energia vitale e del suo genio artistico. Comincia a non tollerare più di essere considerata l’allieva di Rodin, sebbene questo potesse risuonare come un elogio. Presa in un crescente disordine mentale rifiuta nel 1902 di esporre a Praga per il fatto di non voler vedere le sue opere esposte vicino a quelle di Rodin. Perciò mentre di fronte al mondo Rodin vedeva crescere la sua fama, Camille sprofondava sempre di più nelle tenebre delle sue ossessioni e della sua solitudine. La rottura del legame narcisistico-speculare con Rodin spingerà sempre di più Camille verso la solitudine e verso l’esilio dal mondo dell’arte, finché le sue sculture distrutte da lei stessa, ridotte a brandelli, non potranno più funzionare come argine all’assenza del Nomedel-Padre, ma incomberanno come una feroce minaccia, qualcosa di terribile, persecutorio, unheimlich, di cui doversi disfare senza pietà. La forma creata ritornerà a essere polvere, frammento inerte sottratto all’insieme della composizione, materia morta. Camille Claudel, regia di Bruno Nuytten, Francia 1988. 18 “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” 191 Dal momento dello scatenamento psicotico, la scultura non sarà più per Camille il bello che copre l’informe, non più un’operazione sul vuoto della Cosa,19 ma un’eco lugubre del reale che incombe con tutto il suo carico di angoscia e di morte. “C’è come un’assenza che mi tormenta” non è forse, nelle parole di Camille, il presagio melanconico che il vuoto, trattato con il velo dell’immagine scultorea, ritorni a essere nucleo informe, buco nero, abisso tormentoso incapace di arginare la voragine della Cosa? Una vena malinconica percorre molte delle sue sculture, in particolare quelle intitolate Sakountala (1888) e Le Dieu envolé (1907), appartenenti al gruppo scultoreo intitolato L’Âge mûr che può essere considerato il suo capolavoro. La visione bronzea di Sakountala è nota anche con il significativo titolo di L’Abandon. Fu presentata nel 1888 al Salon des Artistes français e poi segnalata con una menzione speciale che costituisce il primo (e quasi unico) riconoscimento ufficiale ottenuto da Camille. La fonte d’ispirazione è tratta dalla leggenda della ninfa Sakountala che cerca il suo sposo, scomparso in seguito a un malefico sortilegio. La trama letteraria è desunta dal dramma dell’antico poeta indù Kalidasa. La composizione immortala l’epilogo della vicenda con il ritrovamento dello sposo perduto e l’incontro amoroso. Viene fissato il momento dell’abbraccio che richiama l’attenzione sul particolare intreccio dei volti. L’unico occhio che appare nell’insieme scultoreo elide lo sguardo perché appare chiuso. È l’occhio dell’uomo, tratteggiato dalla palpebra abbassata, che cancella lo sguardo e fa ricordare le immagini del Buddha dove si conferma, nella fenditura della palpebra che sottolinea l’oblio dello sguardo, la forza di fascinazione dell’occhio. L’impressione è che tutta la composizione ruoti intorno a questo punto di elisione dello sguardo che connota l’opera di una marcata impronta di misticismo. La scultura intitolata L’Âge mûr ha contemplato un lungo e travagliato iter di trasformazioni e modifiche successive, a testimonianza anche del percorso biografico di Camille. Quest’opera testimonia del momento dell’allontanamento da Rodin. 19 Si veda su questo tema Massimo Recalcati, Lavoro del lutto, melanconia e creazione artistica, Poiesis, Alberobello (Bari) 2009, p. 31. 192 Maria Barbuto “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” 193 Camille traspone il suo dolore nell’allegoria formata da tre figure, un uomo e due donne. Anche qui una giovane donna inginocchiata, presentata poi anche separatamente con il significativo titolo di Le Dieu envolé (nota pure come L’Implorante), è protesa verso l’uomo che cerca di trattenere presso di sé afferrandone la mano. Ma è un gesto vano, l’uomo è ormai indirizzato verso un’orrida figura femminile che sembra assumere le sembianze della morte. Fig. 4 – Camille Claudel, L’Abandon Fig. 5 – Camille Claudel, Le Dieu envolé Nel 1905 il suo delirio è ormai conclamato, come evidenziano anche le lettere scritte al fratello Paul. Rodin è il suo persecutore, si è servito di lei, arriva a non distinguere più le sue opere da quelle prodotte da Rodin. La sua famiglia di certo non l’aiuta e la sua presenza nella casa di Villeneuve è, di fatto, sgradita: “sua madre, che misura l’estensione della sua disgrazia di educatrice austera, la subissa di rimproveri e la condanna. La sorella Louise, di natura poco incline all’indulgenza, e che non aveva mai guardato senza dispetto ai successi della sorella a Parigi e allo sbocciare delle sue qualità, trionfa”.20 La separazione dal fratello Paul, assente dall’Europa tra gli anni 1895-1909, con il quale Camille mantiene una costante confidenza, è stata un fatto determinante nel culmine della sua malattia; solo il padre le mandava, di nascosto, del denaro. La sua ultima mostra presso Eugène Blot è del 1907, dopo non farà più apparizioni pubbliche e non incontrerà più i suoi amici. Inizia per lei un lento suicidio culminato nella distruzione delle sue opere, dei suoi amori, dei suoi amici e dei suoi affetti familiari. Dal manicomio dove, per volontà della famiglia, verrà internata per trent’anni anche a dispetto del parere dei medici curanti che non ritenevano i suoi disturbi tali da dover richiedere questo trattamento, Camille scrive diverse lettere a sua madre, a suo fratello, alla sua amica Marie Paillette, a Eugène Blot. In esse domanda spesso di poter lasciare il manicomio, lo domanda con rassegnazione più che con rabbia, chiede un ritiro solitario a Villeneuve, non chiede di riprendere né la vita sociale né la sua attività artistica. Sembra avere abdicato a se stessa e alla vita. Chiede solo un po’ di silenzio e accetta la sua condizione senza opposizioni. Ivi, p. 50. 20 194 Maria Barbuto Morto Rodin, il nemico di Camille diviene sua madre. Louise Claudel, da donna austera e di vecchi principi, non accetta mai la vita di Camille, che considera essere dissoluta, e non vuole mai comprendere i conflitti che tormentano la figlia. Una volta adempiuto al suo ruolo tradizionale di madre si sente con la coscienza a posto e ritiene che non sia compito suo occuparsi di un essere tanto incomprensibile come Camille. Eppure, malgrado la violenza dell’abbandono subìto, Camille spera vivamente di ritornare nella casa paterna. Il fratello Paul è stato l’unico a rispondere quasi sempre ai suoi appelli e nel settembre del 1943 attraversa la Francia occupata, per poter rivedere un’ultima volta la sorella, le cui condizioni si erano aggravate ormai da un anno. Camille muore nell’ottobre del 1943 come una vecchia sconosciuta e in totale miseria. È sepolta nel cimitero di Montfavet, nella parte riservata al manicomio di Montdevergues. Finita la guerra suo nipote cerca di portare il suo corpo nella tomba di famiglia ma è impossibile ritrovarne le tracce, scomparse nell’anonimato. Di lei rimane una pietra commemorativa nella chiesa di Villeneuve, sopra la tomba dei Claudel-Massary. Esiliata da un desiderio vitale fin dal suo ingresso nel mondo, ridotta in rovina come le sue opere, Camille si accomiata dalla vita senza lasciare traccia, senza nome, senza memoria, senza lapide, senza una degna sepoltura, come uno scarto del mondo. Ma qualcosa della memoria rimane in ciò che è sopravvissuto alla lacerazione del suo nome nella sua opera. La storia e il destino di Camille Claudel ci spingono a interrogarci sul nodo tra amore, arte e follia nel soggetto femminile. Tra l’essere una donna ed essere un’artista, per Camille, nessun compromesso è stato possibile, nessuna mediazione, nessuna scelta. Nessuna possibilità di dialettizzare i due versanti che il destino di ogni donna incontra per il fatto di essere non-tutta sotto il dominio del significante fallico. Sparire come donna ha coinciso, per lei, con lo sparire come artista, entrambe le polarità furono destinate alla devastazione, si cancellarono a vicenda. Nessuna delle due sopravvisse all’altra, indice forse che qualcosa più che opporle le legava inesorabilmente fino alla morte. Certo è che, al di là della distinzione che possiamo porre tra la donna e l’artista, il godimen- “C’è sempre un’assenza che mi tormenta.” 195 to femminile si avvicina alla Cosa tanto quanto l’arte la contorna nella creazione. Questi due momenti hanno un punto di congiunzione nell’ex-nihilo e ci conducono a una riflessione importante sui destini della sublimazione legati alle vicissitudini della posizione femminile. Il linguaggio non mi ama solo il marmo aveva in me fissa dimora sapevo dire senza parole, ma da molti anni qui è un silenzio che rinnega le forme.21 Monica Pavani, op. cit., p. 48. 21 La compassione che il godimento domanda La compassione che il godimento domanda Angelo Villa A Parpar Occorre essere assolutamente moderni, sentenziava Arthur Rimbaud.1 “Il faut”, recita nel testo originale francese: come intendere quel monito? Una via potrebbe essere quella di interpretarlo in chiave superegoica, imperativa. Un’altra, forse, potrebbe essere quella di ricondurlo a quell’idea di necessità così cara a Freud, spesso rievocata nella sua terminologia greca (Anánke), presupposto logico e ineludibile di un passaggio che, lo si voglia o meno, s’impone al soggetto. Un’impellenza inderogabile con cui è chiamato a fare i conti e che non può non palesare una dimensione crudamente traumatica, nel senso più profondo ed esteso del vocabolo. Traumatica non è solo la nuda irruenza pulsionale, orfana di qualsivoglia simbolizzazione, che devasta un individuo; traumatico è anche l’impatto con nuovi linguaggi, con differenti forme espressive e di legame sociale, dove i tre registri reperiscono forme inedite di annodamento. È impossibile, di conseguenza, non supporre che il moderno non possa non veicolare, a sua volta, una sua traumaticità. D’altronde, lo stesso rinvio alla modernità dà sintomaticamente prova, nella vana ricerca di un significato che la definisca, della precarietà che l’attraversa. Modernità e postmodernità, modernizzazione e occidentalizzazione (westernization) sono di fatto utilizzati come sinonimi, senza che, come puntualizza Hamadi Redissi,2 il loro contenuto normativo sia veramente determinato né realmente interrogato. È il cane che si morde la coda, l’inquietudine che si aggiunge all’inquietudine, senza che appaiano all’orizzonte lampi di chiarezza in grado di dare tregua o conforto alle ansie che assillano gli individui in questa particolare fase storica. Dal canto suo, tuttavia, nel 1927, Freud invitava opportunamente i suoi simili a sospendere qualsiasi giudizio frettoloso sull’attualità: “gli uomini vivono il loro presente in modo per così dire ingenuo, senza poterne valutare i contenuti”,3 scriveva. Meglio sarebbe, dunque, aspettare, trattenersi, non essere troppo precipitosi e, quindi, inevitabilmente schematici o unilaterali, ammoniva prudentemente Freud: bisogna attendere che il presente divenga passato per poter trarre punti fermi in base ai quali giudicare il futuro. L’ingenuità, del resto, è forse solo il rovescio speculare del ritrarsi fobico, un’identica strategia differentemente articolata che ha il suo punto in comune: non volerne sapere dell’Altro, di chi è, della sua domanda e, forse, anche della propria. L’ingenuo si affida, il fobico diffida. Il risultato non cambia. Faticoso, comunque, seguire il consiglio freudiano, districarsi o prendere la giusta misura dinnanzi alle insidie della contemporaneità o, anche solo, alle sue sollecitanti sirene. Il quadro d’insieme è spesso nebuloso o in costante mutamento. O, forse, così sembra… Si aggiungano due ulteriori elementi destinati a rendere ancor più faticosa la percezione di quanto stia realmente segnando la vita psichica degli individui e delle collettività umane in quest’epoca. Il primo, di matrice freudiana: più volte, il maestro viennese sottolinea il carattere conservatore, regressivo, potremmo dire antimoderno, proprio della pulsione, teso cioè “alla restaurazione di uno stato di cose precedente”.4 Il secondo elemento è, invece, inconfondibilmente lacaniano: non di rado Lacan ha ribadito quanto poi, al fondo, poco o nulla sappiamo di quel che effettivamente sia successo nel passato. Oggettivamente, la questione non è semplice. Sia in sé sia per sé, in virtù della ridondante amplificazione che i mass media ne forniscono, Hamadi Redissi, L’Exception islamique, Seuil, Paris 2004, p. 19. Sigmund Freud, L’avvenire di un’illusione (1927), in Id., Opere, 12 voll., Boringhieri, Torino 1967-1980, vol. x, p. 436. 4 Id., Al di là del principio di piacere (1920), in Id., Opere, cit., vol. ix, p. 223. 2 3 1 Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno (1873), in Id., Opere, Feltrinelli, Milano 1964, p. 243. 197 198 Angelo Villa quotidianamente, in dosi massicce, senza, peraltro, permettere di ben comprendere quanto siano la causa in luogo dell’effetto del fenomeno che si incaricano di denunziare. È in rapporto a questa traumaticità (effettiva? indotta?) che, talvolta, il pensiero stesso si trasforma in ideologia, come se, in forma difensiva, tentasse di recuperare la sua padronanza su quel presente che ne mette in crisi tanto le certezze quanto gli assunti di base su cui era solito fondarsi. L’intuizione dello spaesamento che l’attuale situazione induce è del tutto parallela a quella che causa l’impatto con una realtà che, forse, a torto o a ragione, appare più complessa di quella precedente, caratterizzata (ma è proprio vero?) da un rapporto meno lineare tra la rappresentazione e l’oggetto rispetto al passato. Se il moderno, o qualsiasi processo storico considerabile sotto questa etichetta, genera una situazione potenzialmente traumatica, ciò non per forza dovrebbe implicare una resa della riflessione o della speculazione teorica all’Immaginario, soluzione che ha come risultato quello di raddoppiare lo stato di confusione attuale. Inevitabilmente, questo presente rinvia a una condizione di attesa, di indeterminatezza che se alimenta a dismisura l’ansietà non può far dimenticare gli orrori di cui si è nutrita la “sicurezza” garantita dalle ideologie o dai grandi ideali, in un tragico passato non troppo lontano. È a fronte di questo stare obbligatoriamente nel guado (si può fare altrimenti?), cui ci condanna la contemporaneità, che le seduzioni, suggerite da una sbrigativa fantasia, spingono ora in avanti, ora indietro. Come se, al fondo, qualsiasi fuga, in una direzione o in un’altra, fosse una soluzione migliore allo stare nel tempo vissuto in maniera eccessivamente penosa. Semplificando, si potrebbe dire che un certo spirito maniacalmente modernista spinge, a tutti gli effetti, nella prima direzione, laddove un atteggiamento supposto intellettuale, solcato da un depressivo pessimismo, sembra privilegiare un cupo catastrofismo. Specularmente opposti, in entrambi si rileva un indubbio risparmio di pensiero, simili al Witz freudiano. Sia il modernismo sia il catastrofismo partecipano a quel che mi sembra una loro comune ossessione, cioè un’ontologia dell’immanenza, a un’idolatria della presenza. La fanfara consumista, alias la sirena del modernismo, martella incessantemente il suo messaggio: c’è tutto, non manca nulla, non può mancare niente. Che volere, allora, di più, se non quello che il mercato stesso, domani o al La compassione che il godimento domanda 199 più tardi dopodomani, si ingegnerà di proporre? Sul versante opposto, la retorica apocalittica ripete con sconsolata insistenza: non c’è più niente, ergo non si può più volere, desiderare… Illusione del pieno, da una parte, illusione del vuoto, dall’altra. in the mood In verità, non c’è mai né il primo, il pieno, o solo il pieno, né il secondo, il vuoto, o solo il vuoto. In quest’epoca, come in altre. E questo non tanto in omaggio a chissà quale saggia mediazione dal vago sentore aristotelico, quanto piuttosto in ragione della natura puramente immaginaria che domina entrambe le illusioni e che non sembra nemmeno disposta a concedere un’opzione possibile all’esistenza di un soggetto. Su entrambe le illusioni grava probabilmente l’ombra filosofica dell’inguaribile idealismo hegeliano, quello che, per esempio, pretendeva di assicurare alla storia un senso e una finalità che la sottraesse nella sua evoluzione a ricadute, regressioni, sbandamenti eccetera eccetera. Insomma, in una parola, a quella traumaticità che la modernità parrebbe esasperare. Tenerne debito conto, in questo caso, potrebbe essere utile per declinare al plurale il freudiano disagio della civiltà, introducendo così l’idea che non solo “la” civiltà non esiste, ma che piuttosto si ha storicamente a che fare con “le” civiltà: realtà ora differenti ora simili, secondo tempi e luoghi diversi… Constatazione che potrebbe, di conseguenza, portare a considerare come ciascuna di essa generi al suo interno un sintomo o dei sintomi che le sono propri. Si è nella storia, umana anche quando lo è molto poco. Comunque, impossibile restarne fuori. Ciò però non toglie che, per contrasto, il trauma della contemporaneità finisca per esaltare una nostalgica e heideggeriana mitologia dell’origine o, quanto meno, di un “prima” che, non di rado, fa capolino anche negli studi più orientati scientificamente: è quel che, tanto per fare un nome, denuncia Jean-Loup Amselle in campo antropologico.5 È, quindi, nel confronto veridicamente insostenibile, poiché privo 5 Jean-Loup Amselle, Contro il primitivismo, Bollati Boringhieri, Torino 2012. Scrive l’africanista: “Di conseguenza, l’oggetto che gli antropologi si danno è sempre ricostruito, 200 Angelo Villa d’un reale termine di paragone, con questo “prima” che il presente appare ancor più insopportabile e suscettibile di inventare le formule più paradossali, quali, per rimanere nel nostro ambito, quella di clinica contemporanea. Definizione tautologica, poiché non c’è clinica, se si esclude il contesto della ricerca storica, che non sia figlia di un tempo nel quale s’incontrano e convivono tanto i sintomi del paziente quanto il desiderio dell’analista. La modernità è un prisma dalle molte facce. Assolutizzarla, in un’accezione positiva o negativa, significa far torto a una complessità che, proiettata su uno schermo sociale, è quella stessa del soggetto, colto nella contingenza di un processo di transizione; assolutizzarla comporta l’attribuirle un’omogeneità che non possiede e la ricompatta strumentalmente, quasi si trattasse di un fenomeno univoco. Si tratta di un’indebita forzatura che mi pare comporti la sottovalutazione di due punti in particolare. Il primo: la modernità designa un processo del quale sono parte integrante sia quell’ambizione tecnologica o quell’apparente disinibizione morale che la caratterizzano sia il movimento che, come reazione, promuove. Come distinguere l’uno dall’altro? Come separare la causa da un effetto che diventa causa che, a sua volta, alimenta. Si prenda, per l’appunto, il caso della religione. Per molti, modernità è sinonimo di laicità. Ciò non toglie che taluni nutrano una certa diffidenza nei riguardi di quel famoso disincanto (Entzauberung) teorizzato da Max Weber. Lo stesso Lacan, d’altronde, non ha forse affermato che la religione è inaffondabile? Così, in aperta controtendenza con i leitmotiv più accreditati, sociologi come Peter Berger scrivono: “The world today, with some exceptions […] is as furiously religious as it ever was, and in some places more so than ever”.6 Secondo punto: troppo spesso, rifacendosi alla modernità, si tralascia di tenere conto dell’uso che il singolo o una collettività possono fare dei suoi strumenti, vedasi il caso della vituperata tecnica. Da Winnicott a Wittgenstein e (perché no?) a Lacan stesso, l’uso chiama in causa la referenza al soggetto, alla sua implicazione personale, conscia o meno che sia. È il soggetto che muoanche se raramente viene riconosciuto come tale; e anche quando lo è, viene ricondotto a una omogeneità precoloniale postulata ma mai dimostrata”, p. 12. 6 Peter Berger et al., The Desecularization of the World: Resurgent Religion and World Politics, Ethics and Public Policy Center-Eederman Publications, Washington-Grand Rapids (Mich.) 1999, p. 2. La compassione che il godimento domanda 201 ve la macchina, e non viceversa. Anche quando è la seconda a dettare le azioni del primo. Il parlessere può spegnere la macchina, impossibile che accada il contrario. Mettere da parte il soggetto vuol dire negarne la responsabilità. Studiosi del nazismo, quali Herf o Furio Jesi, hanno a più riprese sottolineato il suo carattere di “modernismo reazionario” o brutalmente regressivo. Come a dire che i fantasmi più arcaici possono trovare la loro più sensibile traduzione per il tramite delle tecnologie più sofisticate, come del resto l’immaginario fantascientifico ben dimostra. Prima di demonizzare gli oggetti, è più proficuo allora interrogare i soggetti. Una paziente, recentemente, mi confidava che essendo spesso sola in casa appena entrata nella sua abitazione accendeva la televisione… Non che rimanesse incollata davanti al video a guardare i programmi, niente di tutto ciò. Lei, personalmente, li detesta, li considera spazzatura. La donna non possiede una radio e si direbbe usi la televisione come se lo fosse. Ha bisogno di sentire una “voce” che la sottragga a una sensazione abbandonica di solitudine; per il resto sostiene di non prestare alcuna attenzione a quello che un qualsivoglia speaker o personaggio televisivo va blaterando. Lei sbriga le sue faccende, ma quella “voce” la conforta, le allontana la malinconia… Alla faccia dello share, insomma. Ora, a non accordare la giusta rilevanza ai due punti sopracitati è probabilmente l’ingenua supposizione che, in altri tempi, sussistesse una stretta correlazione tra rappresentazione e oggetto, tra discorso e verità, di cui con la modernità si è persa traccia e memoria. Eppure, in psicoanalisi, è stato proprio Lacan, in opposizione allo stesso Freud, a mettere in luce la serrata dialettica che si dispone tra struttura e storia nel costituirsi dell’inconscio del soggetto. Mi è sempre parso il modo acuto e serio per indicare come la tensione che si instaura tra il significante e il reale sia di duplice natura. Strutturale, per l’appunto, perché la parola ha i suoi limiti, non è onnipotente. Ma altresì storica: la parola è sempre “quella” parola, per “quel” particolare soggetto, anche se il significante verbale non muta. Ancora, una volta, dunque, dipende… Ciò significa che una sua presa “scivolosa”, cortocircuitante, olofrastica, persino perversa nei riguardi del Reale opera nel processo stesso di acquisizione della simbolizzazione in quanto tale. È un’operazione spuria, di ambigua contaminazione e non il contrario. Per altri versi, senza troppo allontanarci dalla questione, è quel 202 Angelo Villa che talvolta accade quando si è soliti ritenere i casi freudiani esemplificativi di una clinica che taluni definiscono classica, in opposizione a quella, per l’appunto, identificata come contemporanea. Eppure, da Dora all’Uomo dei lupi, essi sono ben lungi dal costituire un modello in tal senso. Senza passare attraverso Roazen o Pohlen o (sic!) Borch-Jacobsen, basta attenersi alla rilettura che ne fornisce lo stesso Lacan per rendersi conto che la supposta “classicità”, allorché non la si intenda in un senso temporale o metaforico, vada più colta dal lato dell’adesione a un modello teorico, da parte di Freud e cioè l’insistenza sull’ermeneutica edipica, che non obiettivamente da quello della patologia o, anche, delle risposte del paziente. Alquanto “moderne”, in tal senso, Dora, in primis. Qual è, dunque, l’effettivo nodo della questione? Una certa fede assoluta nella rappresentazione o il riconoscimento della complessità che vi si associa e, forse, la difficoltà nel renderne esaustivamente ragione? Mi si passi il gioco di parole: è la crisi della rappresentazione o la rappresentazione della crisi la vera posta in palio? del sacro È innegabile che la modernità promuova trasformazioni di cui, al momento, diventa arduo valutare la portata, nel male ma, anche, nel bene. Una certa prudenza, in termini di giudizio, mi pare dovuta, onde evitare di far d’ogni erba un fascio. Ragioni metodologiche, inoltre, mi sembra si debbano frapporre a quel che talvolta appare come un salto eccessivamente disinvolto dal registro dell’individuale e del clinico a quello sociologico o viceversa. Modernisti e apocalittici vi ricorrono, invece, con frequenza, specie rifacendosi a quella nozione di godimento che sembra il ponte gettato tra i due registri. Per molti di loro, il godimento costituisce la traduzione in chiave personale dell’essenza stessa della società contemporanea. L’agognata ricerca di un caposaldo teorico su cui poggiare indagini speculative altrimenti ha finalmente trovato un suo fondamento, the missing link tra singolo e collettività, nell’epoca attuale. Non più il padre, come ai tempi di Freud, ma il godimento, di cui il consumismo offre la sua versione tangibile, democratica e immediatamente fruibile. Poco importa se Lacan stesso rammentava come “l’uso della funzione della pulsione non ha La compassione che il godimento domanda 203 per noi altra portata che quella di mettere in questione che cos’è la soddisfazione”.7 Per un verso o per un altro, i cantori o i detrattori del nostro tempo gli assicurano un’evidente consistenza che stride di fronte all’indefinitezza che accompagna altre problematiche. Cosa poi sia, beh, è ben altra questione… Un sociologo come Bauman ha costruito le sue fortunate e citatissime tesi sull’idea di liquidità che caratterizzerebbe i rapporti nella nostra società. Intuizione dubbia, quantomeno, nella misura in cui tale liquidità, entro la quale si riflette la logica propria dell’economia consumista, testimonia la morbosa tenacia che tiene il soggetto strettamente ancorato alla domanda inconscia dell’Altro familiare, letteralmente “a-soggettato” a essa. A quella dialettica, personale e generazionale, forse, occorrerebbe tornare per cogliere in maniera più approfondita qualcosa di quel che si articola attorno non al godimento ma alla questione che il godimento, supposto o reale che sia, apre. In luogo di farne il game over con cui chiudere, paradossalmente in anticipo, le problematiche che la contemporaneità solleva. Ciò mi pare possa, quanto meno, indurre due gravi fraintendimenti epistemologici. Il primo è quello che porta quasi meccanicamente ad associare al rimando al godimento una valenza moralistica che, peraltro, è del tutto assente nell’insegnamento di Lacan. Il secondo, invece, è quello che mira, per l’appunto, a entificarlo. È, insomma, il “c’è” che si contrappone alla labilità delle rappresentazioni, alla liquidità dei legami, alle impasse dei discorsi, alle lagnanze sul tempo scomparso e, ahimè, alla serie infinita di oggetti di cui la modernità sancisce drasticamente la scomparsa: la storia, il lavoro, la famiglia, la letteratura e così via. Esigenze comunicative o massmediatiche spingono, infine, ad accostare ambiguamente a questa deriva quella che si potrebbe denominare come una volgarizzazione dei “non c’è” lacaniani, quasi costituissero il perfetto controcanto al “c’è” del godimento. Dimenticando, il più delle volte, come i “non c’è” lacaniani partecipino di una sottile logica significante per sua natura restia a venir brutalizzata riducendola a una dimensione prossima, quando non addirittura omogenea, a quella del segno. In definitiva, l’uso smodato del termine godimento, il ricorso mar7 Jacques Lacan, Il seminario. Libro xi. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 1979, p. 169. 204 Angelo Villa tellante e unidirezionale a esso in ogni occasione nella quale si analizza un aspetto della situazione attuale, gli garantisce una proiezione iperrealistica, quasi allucinata. È così, di fatto, trasformato in un “c’è” che si direbbe costituisca oggi la longa manus del sacro, scriverebbe Lévinas, di quel sacro che Rudolph Otto definì come mysterium tremendum. Se anche, infine, il Reale non ha legge non significa che non abbia una sua legge, che non risponda a una logica di cui l’inconscio ci permette di individuare il funzionamento, la possibile genesi causale e il posto che vi occupa il soggetto. In Ricordare, ripetere e rielaborare, Freud sottolinea come “l’analizzato non ricorda assolutamente nulla degli elementi che ha dimenticato e rimosso, e che piuttosto li mette in atto. Egli riproduce quegli elementi non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete senza rendersene conto”.8 E, dunque, l’agito contro la memoria. Può essere uno spunto, per riannodare i fili della seconda contro il primo, anche quando di quest’ultima sembrano essersene smarrite le tracce, magari sotto l’imperversare impietoso della modernità dove tutto (o quasi) cambia, dove tutto (o quasi) si confonde. A volte, dipende, dal soggetto, of course. poscritto Osservo nel cortile di una comunità per tossicomani degli utenti che passeggiano, chiacchierano. Hanno tutti un’età piuttosto avanzata, i volti segnati, le braccia tatuate, lo sguardo ora spento ora nervoso, febbricitante. Non è l’Immaginario, ma è la memoria del Reale incisa sulla pietra plastica del corpo. Un educatore mi confida la sua tristezza e, poi commenta: “Sono vite devastate dalla droga”. Gli rispondo che “No, non è così”. Sono esistenze che non hanno mai fatto esperienza, nel loro nascere al mondo, di un incontro con un Altro capace di offrirgli il dono di una sessualità segnata dalla mancanza. Così, quest’è l’impressione, restituiscono all’Altro una vita non vissuta, una vita che non riescono a vivere, come fosse un vestito preso a prestito che riconsegnano, appena appena sgualcito, al suo proprietario originario. 8 Sigmund Freud, Ricordare, ripetere e rielaborare (1914), in Id., Opere, cit., vol. 355-356. vii, pp. Le modificazioni corporee Lorenzo Vita il corpo nel sociale contemporaneo Negli ultimi due decenni il corpo viene considerato come il luogo elettivo di espressione della soggettività. In un tempo di crisi degli ideali, dei valori e delle ideologie, il corpo è il terreno su cui si gioca la partita della soggettività al punto da essere considerato oggi, in un’ottica sociopolitica, il principale terreno di incontro delle strategie identitarie e dei modi di godere delle persone. In questo contesto si diffondono sempre più le pratiche di modificazione corporea nei vari ambiti dell’estetica (chirurgia plastica, tatuaggi, piercing, body building), del disagio (anoressia e bulimia, autolesionismo, doping) e della salute (fitness, wellness, igienismo). Le più importanti interpretazioni sociologiche di questi fenomeni sono due: 1.La prima considera le pratiche di modificazione corporea come un elemento costitutivo della società dell’immagine e del successo sociale. Sono pratiche in linea con l’eclettismo e l’autoreferenzialità della società contemporanea secondo la logica del culto narcisistico della propria immagine corporea. Le modificazioni corporee costituiscono allora ciò che Jean Baudrillard definisce come “un carnevale di segni senza significato annesso”;1 pratiche 1 Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture (1970), il Mulino, Bologna 2010. 206 Lorenzo Vita un tempo significative da un punto di vista culturale e sociale sono utilizzate dal soggetto contemporaneo con la finalità di fornire autenticità e senso a ciò che è svuotato di valore. 2.La seconda considera le modificazioni corporee come espressione del malessere e del disorientamento del soggetto contemporaneo, forme patologiche che diventano pratiche espressive e identitarie alla moda. Il corpo è vissuto come imperfetto, sofferente, fuori controllo e per questo è il luogo elettivo di autocura tramite le modificazioni corporee. Questo fenomeno di patologizzazione riconduce le modificazioni corporee a qualcosa di assimilabile alla dipendenza e alla compulsione. L’ossessione maniaca per la propria immagine corporea diventa così allo stesso tempo espressione di un malessere ed elemento intorno al quale consolidare la propria identità. Da un punto di vista psicoanalitico si può dire che quando l’ordine simbolico non struttura più l’ordine sociale, il simbolico tende a ridursi a reale, tende cioè a essere incorporato, incarnato direttamente nel reale del corpo, nella sua carne. La soggettività e la realtà vengono così materializzate nel marchio corporeo nel tentativo di iscrivere il soggetto nel suo corpo e il corpo del soggetto nel sociale. incarnazione e corporizzazione Politica, religione e scienza hanno sempre determinato il modo dell’incarnazione del soggetto attraverso riti, leggi, costumi e pratiche di vario genere. Nella contemporaneità assistiamo a un progressivo sganciamento del corpo dalla dimensione simbolica. Nell’epoca dell’Altro che non esiste la corporizzazione, il cosa fare con il proprio corpo, non passa più attraverso codici, norme, usi e costumi definiti. Roberto Esposito, nelle sue analisi sulla biopolitica, fa notare che oggi sono venuti meno i passaggi politici e culturali dell’incarnazione e della corporeizzazione della carne. Per la prima volta, oggi il corpo ha a che fare in maniera preponderante con la carne. Il corpo infatti non è più il corpo abitato dallo spirito ma la carne in quanto tale, “un essere insieme singolare e comune, generico e specifico, indifferente e differente, che non solo è privo di spirito ma non ha neanche più un Le modificazioni corporee 207 corpo”.2 È questa una delle versioni socialmente e culturalmente più diffuse del corpo-carne. Secondo la tradizione fenomenologica, la carne vivente è concepita come il tessuto di relazione fra esistenza e mondo. L’esperienza sensibile ci mostra che l’uomo è immerso in un universo fisico come un corpo fra gli altri. Il primo carattere del corpo è l’estensione che si traduce in termini di spazio, volume e materia. Tuttavia il corpo umano non è un corpo come tutti gli altri: è una cosa ma è quella cosa che io sono, è l’incarnazione della persona, è il luogo unico in cui si manifestano desideri, sensazioni ed emozioni. Tale statuto contemporaneo del corpo rappresenta un cambiamento di paradigma antropologico rispetto alla sua secolare interpretazione giudaico-cristiana. In essa si affermava la trascendenza del corpo rispetto alla carne: la carne, in quanto legata alla vita terrena, è esposta al dolore e al peccato. Si tratta quindi di realizzare attraverso il verbo divino il passaggio dalla carne al corpo. Tale spiritualizzazione del corpo riscatta l’uomo dalla miseria della sua carne e consente allo stesso tempo l’ingresso nel corpo sociale della comunità. Il rito dell’eucarestia realizza la corporizzazione della carne attraverso il doppio passaggio del corpo di Cristo in quello del credente e di quello del credente nel corpo ecclesiale. Alcuni filosofi poststrutturalisti francesi, come per esempio Deleuze e Nancy, considerano tuttavia il concetto fenomenologico di carne come derivato della tradizione cristiana e affine allo spiritualismo. Tale modello spiritualistico, oggi diffuso in alcune pratiche new age, viene letto come cancellazione della concretezza del corpo e come dominio della trascendenza sul reale del corpo. Sensazione, emozione e benessere del corpo sarebbero una versione camuffata e rinnovata della spiritualizzazione della carne. Accanto a questo sensuale spiritualismo, su un piano sociale assistiamo comunque alla diffusione di nuovi modi di far passare la carne al corpo e il corpo alla comunità. Alcune pratiche contemporanee di modificazione corporea sono la risposta al declino delle tradizionali modalità di incarnazione e corporeizzazione. A partire dagli anni settanta, con il fenomeno per esempio della body art, sino ad arrivare alle recenti pratiche di modificazione corporea, assistiamo a una pro Roberto Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 175-179. 2 208 Lorenzo Vita vocatoria e ossessiva presentificazione del corpo-carne. Il corpo-carne è una delle ossessioni della società contemporanea. Circa la carne, Lacan scrive: c’è qui un’orribile scoperta, quella della carne che non si vede mai, il fondo delle cose, il rovescio della faccia, del viso, gli spurghi per eccellenza, la carne da cui viene tutto, nel più profondo del mistero, la carne in quanto sofferente, informe, in quanto la sua forma è per se stessa qualcosa che provoca l’angoscia. Visione d’angoscia, identificazione di angoscia, ultima rivelazione del tu sei questo. Tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe.3 la psicoanalisi e il corpo dell’isterica: la convulsione Il fenomeno corporeo scabroso e inspiegabile per eccellenza dell’età moderna è stato la convulsione. La convulsione è stata per due secoli e mezzo la posta in gioco di una lunga battaglia tra medicina e religione. Nel Medioevo la convulsione era considerata la prova della possessione demoniaca del corpo umano; a partire dall’Ottocento la medicina ha cominciato a considerare la convulsione come il sintomo di una malattia psichica, l’isteria. L’indemoniata e l’isterica sono le due figure inventate dalla religione e dalla medicina per designare la sconnessione, lo slegame tra carne, corpo e società. La convulsione è la rappresentazione più evidente ed enigmatica di tale sconnessione. Cos’è la convulsione? È la forma plastica e visibile di un combattimento che si svolge nel corpo. In essa troviamo la rigidità, l’arco di circonferenza, l’insensibilità ai colpi, l’agitazione e i tremori. Tale manifestazione si oppone in qualche modo all’Altro sociale, in particolare alla padronanza morale e culturale della religione e della medicina. “La carne convulsiva” scrive Foucault “è il corpo attraversato dal diritto di esame e sottomesso all’obbligo della confessione esaustiva”.4 È il corpo che insorge contro l’Altro sociale dominante della medicina e della religione. 3 Jacques Lacan, Il seminario. Libro ii. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955), Einaudi, Torino 1991, p. 199. 4 Michel Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano 2004, p. 189. Le modificazioni corporee 209 A partire dal Novecento, grazie alla psicoanalisi, tale contesa prende una direzione diversa. Freud sovverte il sapere medico e religioso: considera il corpo dell’isterica non un corpo posseduto né un corpo malato ma un corpo che parla. Freud vuol fare parlare il corpo sofferente dell’isterica perché pensa che il sintomo isterico sia l’incarnazione di un conflitto psichico. Il corpo isterico per Freud è un corpo strutturato dal simbolico: i conflitti psichici si manifestano per il tramite di un processo di conversione nei sintomi corporei. Il corpo dell’isterica allora è il corpo teatro, il corpo rappresentazione, simbolo di un desiderio conflittuale e censurato. I sintomi corporei dell’isterica – paralisi, accessi di tosse, vomito, contorsioni, irrigidimenti, svenimenti, disturbi visivi o pseudogravidanze – sono manifestazioni di linguaggio, metafore incarnate del desiderio inconscio che invocano la loro interpretazione da parte dell’Altro. Come sintetizza efficacemente Lacan, parlando di Freud alle prese con un sintomo di conversione isterica, “Egli interpreta il simbolo, ed ecco che il sintomo, che lo iscrive in lettere di sofferenza nella carne del soggetto, si cancella”.5 L’ascolto e l’interpretazione dello psicoanalista liberano l’isterica dalla soffrenza della sua carne consegnando al soggetto la verità del suo desiderio inconscio. il corpo e le performance artistiche A partire dal fenomeno della body art degli anni settanta, si affermano nell’arte contemporanea artiste che costruiscono delle performance molto significative rispetto ai temi che abbiamo trattato. Assistiamo all’esibizione del corpo dell’artista come incarnazione pura, diretta e priva di mediazione simbolica del reale osceno del corpo. Tale esibizione viene finalizzata a un’esigenza di incarnazione e corporeizzazione, secondo le due figure della contemporaneità del corpo-carne e del corpo immagine. Ho scelto come paradigmatiche tre artiste molto conosciute: Orlan, Beecroft e Abramović́. Ciascuna di loro rappresenta a mio parere un paradigma del corpo e delle sue modificazioni. In tutte loro ritrovia5 Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953), in Id., Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1974, vol. i, p. 299. 210 Lorenzo Vita mo un tratto della contemporaneità, come scrive Lea Vergine in un celebre articolo sulla body art, ritroviamo soggetti che vivono “con la spinta ad agire in funzione dell’altro, con la loro necessità di mostrarsi per poter essere, con la loro strategia per conquistare il diritto di mettersi al mondo di nuovo”.6 orlan, il corpo-carne Orlan nel suo Manifesto dell’arte carnale scrive: L’arte carnale è un lavoro che si muove in direzione dell’autoritratto in senso classico ma si avvale dei mezzi tecnologici propri del nostro tempo. Oscilla tra defigurazione e rifigurazione e si incide nella carne perché la nostra epoca comincia a offrirne la possibilità. Il corpo diviene un ready made modificato, non essendo più un ready made ideale sul quale basta apporre la propria firma. Con le tecniche di defigurazione e rifigurazione direttamente sulla carne, Orlan ricerca un corpo capace di esibire un’identità nuova. Per lei il corpo naturale è del tutto obsoleto, come l’artista stessa si propone, attraverso il corpo ready-made modificato, contro Dio e il dna, Orlan vuole mostrare che il soggetto ha il potere di modificare la natura del proprio corpo per affermare l’identità che si sceglie. In una famosa performance nota come La reincarnazione di Santa Orlan, l’artista si sottopone a una serie di operazioni chirurgiche. Tali operazioni fanno parte di un processo di fabbricazione del proprio corpo alla ricerca della coincidenza progressiva fra l’autoritratto virtuale realizzato al computer e l’autoritratto imposto alla propria carne. Già nel 1967, con sorprendente anticipo rispetto a ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti, Lacan faceva notare che la chirurgia dimostra che l’uomo dispone del proprio corpo solo per farlo essere il suo stesso spezzettamento. La stessa Orlan, commentando le sue performance, riprende il testo della psicoanalista lacaniana Eugénie Lemoine-Luccioni dove si sottolinea questa stessa scissione fra essere e corpo: “Non ho mai la pelle di quello che sono. Non vi è eccezione alla regola per Lea Vergine, Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Skira, Milano 2000. 6 Le modificazioni corporee 211 ché non sono mai ciò che ho”.7 Eugénie Lemoine, nello stesso testo, scrive che Orlan modifica il proprio corpo perché non lo riconosce. È la stessa Orlan ad affermare in un’intervista di non essersi mai riconosciuta allo specchio, nello specchio vede solo il suo scheletro, il lavoro che fa al computer per costruire la sua immagine ideale è il tentativo di riconoscersi. Travestendosi con la sua stessa pelle, cerca di fabbricarsi da sola quella maschera femminile nella quale riconoscersi. Da un punto di vista psicoanalitico possiamo dire che Orlan cerca di cancellare questa differenza fra essere e avere un corpo. L’uomo ha un corpo ma non può identificare l’essere con il suo corpo, questa impossibilità è caratteristica della soggettività umana e il rapporto stesso con l’immagine è un tentativo di ricomporre questa impossibilità, proprio come fa Orlan con la sua spinta a farsi un corpo attraverso le modificazioni della sua pelle-immagine. beecroft, il corpo feticcio Il corpo è sempre stato oggetto della medicina e della religione e, dalla seconda metà del Novecento a oggi, diviene anche oggetto privilegiato delle nuove tecnologie, della moda e dello spettacolo. Il corpo è il luogo del culto dell’immagine, dell’ossessione maniacale per la propria immagine corporea. Perché la psicoanalisi parla di corpo feticcio? Il corpo feticcio nell’ottica psicoanalitica è un oggetto idolo che abbaglia e cattura lo sguardo. La funzione del feticcio è di riparare il soggetto dall’angoscia di castrazione e di rendere possibile, senza difficoltà dice Freud, l’accesso al godimento. Il feticcio è un oggetto inumano che viene eletto a esclusivo oggetto del desiderio, oggetto inumano che comporta l’esclusione dell’Altro in quanto tale. L’oggetto feticcio cattura e fissa lo sguardo del soggetto distogliendolo dall’esistenza dell’alterità. Un’artista che si è occupata del corpo femminile come corpo feticcio è Vanessa Beecroft. In controtendenza con gli artisti degli anni settanta, Vanessa Beecroft rappresenta le sue performance all’interno della cornice del mondo della moda e dello spettacolo. Le sue perfor7 Eugénie Lemoine-Luccioni, Psicoanalisi della moda, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 113. 212 Lorenzo Vita mance hanno come protagoniste le girls – così chiama le modelle di cui si serve – che incarnano un modello di bellezza idealizzata e utilizzano come scenografia spazi pubblici collegati al mondo dell’arte e della moda. Le girls vengono mostrate solitamente nude su tacchi altissimi, mute e immobili. Puri corpi femminili, incarnazione feticistica di una bellezza algida, quasi inanimata, congelata nella perfezione, disposti sulla scena solitamente in maniera anonima, modulare e seriale. I tratti del corpo femminile che Vanessa Beecroft mostra nelle sue performance sono tre e corrispondono alla definizione psicoanalitica di oggetto feticcio: 1.le girls sono private di ogni possibilità di dialogo o di relazione, esse appaiono congelate al di là di un’invisibile barriera, corpi statuari irraggiungibili che non entrano in relazione con l’altro. Non c’è erotismo, questi corpi sono espressione di una perfezione fredda e algida che in quanto tale non è toccata dalla vita. Corpi femminili ridotti quindi a oggetti inanimati, disumanizzati e di una perfezione devitalizzata; 2.le performance sono ambientate in spazi pubblici solitamente molto ampi, spogli, silenziosi. Il nudo nello spazio pubblico contraddice la norma che il nudo sia in relazione con lo spazio privato e intimo, questi spazi pubblici molto ampi e vuoti mostrano il disagio del corpo che diventa pubblico. L’effetto è perturbante, lo sguardo allo stesso tempo si fissa sui corpi nudi ma si perde nel vuoto dello spazio pubblico e anonimo; 3.la serialità dei corpi femminili tutti uguali richiama l’idea del corpo femminile riprodotto serialmente che cancella la particolarità del singolo. In questo senso è interessante vedere il reclutamento delle girls, materiale scelto su appositi cataloghi per tratti fisici comuni. Il corpo femminile è rappresentato come insieme di pezzi di corpo staccati ripetuti tutti uguali (per esempio decine di donne magre con i capelli rossi oppure di carnagione chiara e sinuose), rappresentazione che corrisponde al collezionismo feticista e che riduce la bellezza a una clonazione dell’identico. Se da un lato la Beecroft sembra agire in combutta con l’industria della moda e dell’arte, dall’altra le sue performance raffinate mettono in mostra, al di là del corpo feticcio idolo della moda e dello spettacolo, Le modificazioni corporee 213 un corpo reale che si affloscia. È questo l’elemento di verità perturbante cui la Beecroft tende. Nel corso di varie sue installazioni dal vivo che durano ore, le modelle si afflosciano visibilmente, si lasciano cadere lentamente verso il pavimento finendo per contraddire la loro immagine statuaria di perfezione. L’ideale costruito artificialmente si incrina facendo apparire il corpo afflosciato. Si produce un effetto perturbante, lo spettatore prima catturato dal corpo feticcio si ritrova smarrito nel suo sguardo con l’afflosciarsi dei corpi. abramović, corpo strumento Marina Abramović dichiara di essere interessata nelle sue performance alle sensazioni del dolore, della paura e del pericolo. In questo senso utilizza il proprio corpo per sperimentare e superare i limiti che dolore, paura e morte impongono nella relazione con l’Altro, nello specifico il suo pubblico. Nelle sue performance infatti il pubblico è parte stessa dell’opera: artista e pubblico diventano parte integrante della performance stessa. In alcune celebri performance il pubblico viene ingaggiato in un vero e proprio corpo a corpo con l’artista. Nel 1974 a Napoli si presenta agli spettatori del museo dicendo che per un lasso di tempo di sei ore sarebbe rimasta passiva e priva di volontà, accanto a lei su un tavolo erano a disposizione del pubblico settanta strumenti di piacere e dolore, il pubblico poteva usarli liberamente. Cosa accade? Dopo qualche ora, la performance diventa pericolosa, una parte del pubblico comincia a diventare violenta nei confronti dell’artista sino alla situazione estrema in cui le viene messa in mano un’arma carica e il suo dito viene messo sul grilletto. La Abramović non reagisce, alcune persone del pubblico capiscono che può succedere l’irreparabile e intervengono in sua difesa. Nella performance della Abramović, di cui l’esempio precedente costituisce l’estremo, la psicoanalisi riconosce la sfida perversa che il masochista ingaggia con l’Altro attraverso il proprio corpo. In questa sfida artista e pubblico si fronteggiano in un gioco a due dove ognuno rilancia a partire dal limite che l’altro pone. La sfida perversa, nella sua dimensione intersoggettiva, punta a far emergere l’affetto dell’angoscia, la spinta oltre i limiti del corpo si confronta con la sofferenza, la paura e il pericolo, l’effetto è l’emergere di un certo sentimento della vita. 214 Lorenzo Vita Dice la Abramović in un’intervista: Quando raggiungo i limiti della mia resistenza mi sento incredibilmente viva. Sono arrivata spesso ai limiti estremi, sempre davanti ad un pubblico: mostravo il pericolo, i miei limiti e non davo risposte. Il risultato non era un vero e proprio pericolo ma solo la struttura che avevo creato. Questa struttura dava all’osservatore un certo tipo di shock. Non si sentiva più sicuro. Era sbilanciato e questo gli creava un vuoto dentro e doveva rimanere in quel vuoto, non gli davo nulla. Lacan considera il masochismo come una figura del desiderio. Il masochista nel farsi oggetto di godimento dell’Altro mira a quell’angoscia che può far vibrare nel suo corpo il sentimento della propria esistenza in uno scenario di annullamento soggettivo. Nelle sue performance ricerca ossessivamente “l’incarnazione di se stesso come oggetto”,8 oggetto tuttavia incarnato come rifiuto, deiezione. 8 Jacques Lacan, Il seminario. Libro x. L’angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino 2007, p. 114. Recensioni Ritratti del desiderio di Massimo Recalcati (Raffaello Cortina, Milano 2012) Nelle pagine che seguono pubblichiamo alcuni interventi relativi alle presentazioni del libro Ritratti del desiderio che si sono svolte a Milano con l’intervento dello psicoanalista Francesco Giglio e a Torino con l’intervento dello psicoanalista Giovanni Mierolo. Edoardo Fraquelli Senza titolo, 1959-1960 tempera su carta intelata 23,5 × 31 cm Presentare il nuovo libro sul desiderio di Massimo Recalcati è per me una grande emozione, ed è insieme un’opportunità di cui sono al tempo stesso lusingato e grato. Dico nuovo e non ultimo perché pur essendo nelle librerie da pochissimo tempo già oggi non so più se davvero è il suo ultimo testo pubblicato. Difficile parlare di un testo sul desiderio scritto da Recalcati senza tessere le lodi dello scrittore, poiché lui stesso si dimostra totalmente animato dalla radicale potenza del suo stesso desiderio: proverò comunque ad affrontare il mio incarico cercando di non limitarmi all’esclusivo elogio dell’autore. Un nuovo testo sul desiderio, dunque, in primo luogo un ulteriore tangibile segno della fecondità del desiderio stesso di chi lo ha scritto, del suo motore desiderante fertile da ogni lato: figli, istituzioni, libri appunto. Come possa realizzare tutto quello che fa, disponendo delle ventiquattro ore comuni a tutti noi mortali, a farlo con il rigore che dimostra, senza essere mai frettoloso e introducendo continuamente la novità, l’inedito, è qualcosa che lascia stupiti. Si tratta di uno stupore capace di mettere al lavoro, uno stato d’animo che è alla base della stessa volontà di sapere, e che in parte rimane avvolto nel mistero, nonostante l’autore stesso sveli l’arcano utilizzando una spiegazione che ha direttamente a che fare con il testo di cui stiamo parlando, egli dice, infatti, che il segreto di tutta questa produttività va ricercato nel suo stesso “desiderio” e negli effetti che ne derivano. Massimo Recalcati parlando del suo testo I ritratti del desiderio lo definisce “un libretto”, uno fra i suoi più noti lettori, Gianni Vattimo, dice, al contrario, che si tratta di “un’opera memorabile”, si coglie una certa distanza, dunque, che dire ancora? Forse, dopo l’affermazione di Vattimo, è meglio chiudere il discorso sul libro. È ovvio che se un intellettuale di quella statura giunge a dichiarare di un testo che si è molto apprezzato: “È un’opera memorabile”, non resta molto da aggiungere, le parole in più diventano una superflua eccedenza. Dunque sul libro mi limito a dire che è bello, interessante, chiaro, comprensibile a più livelli e non solo agli psicoanalisti, non c’è che leggerlo e farsene direttamente un’idea. Il concetto di desiderio è poliedrico, così come sfaccettate sono le immagini e le dimensioni del desiderio che il libro stesso attraversa. Si tratta di un’idea tanto comune quanto complessa al punto tale che torna alla mente quel che sant’Agostino dice a proposito di un’altra nozione, quotidiana quanto difficile, quella di tempo: “Che cos’è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi 218 lettera spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so” (Le confessioni, bur, Milano 2003). Il desiderio è difficile da trattare, lo è perché, in fin dei conti, è l’essenza stessa dell’uomo, ciò che rende umani, è il cuore dell’artificialità che ci caratterizza e ci specifica. L’animale, come essere di natura, in ogni suo aspetto occupa il registro del bisogno, l’uomo in quanto tale, più che il regno del bisogno abita le terre del desiderio; la soddisfazione del bisogno, pur essenziale alla vita biologica umana, non ne dice nulla. Per definire la specificità umana, la categoria del bisogno rimane del tutto insufficiente. Il desiderio, in una definizione data da Lacan nel Seminario v, esita dalla sottrazione del bisogno dalla domanda, si capisce bene, allora, che la questione è pressoché infinita. L’interrogativo sul desiderio si pone sin dal tempo di Adamo ed Eva. Senza il necessario riferimento al desiderio, quale necessità può avere mai spinto i nostri progenitori a farsi cacciare dal paradiso terrestre? Dal luogo per eccellenza del bisogno soddisfatto? Da dove origina, altrimenti, la voglia di cogliere e mangiare il frutto proibito, al costo delle note conseguenze fatte di lavoro e sudore e di parto e dolore? Si mostra qui il volto distruttivo del desiderio, il suo aspetto capace di disarticolare l’esistente. Il desiderio di niente, quarto ritratto recalcatiano del desiderio, abbinato dall’autore a Don Giovanni, il desiderio che si consuma come desiderio del desiderio e ha la faccia cangiante della metonimia, del giro isterico dell’insoddisfazione da un oggetto all’altro. È lo stesso aspetto del desiderio su cui fa perno il discor- recensioni so del capitalista per alimentare l’insoddisfazione da mancanza di oggetti di consumo sempre nuovi, che si spinge, infine, sino al consumo degli stessi umani, ridotti a oggetti gadget da spremere e gettare. Sul desiderio il Simposio platonico è un testo ancora quanto mai attuale, dalla vicenda del mito dell’androgino e della ricerca della propria metà perduta, che si spinge sino al punto in cui con il ritrovamento della propria altra metà ci si lascia morire d’amore e di desiderio. Mito radicale del desiderio estremo, il desiderio che brucia sino a fare morire letteralmente di desiderio. È quanto fa pure il protagonista maschile della ballata dell’amore cieco (o della vanità) di De Andrè. Si sottopone a tutte le prove d’amore che la donna di cui è innamorato gli domanda, e, in un crescendo d’orrore, prima strappa il cuore dal petto della madre per i cani della donna, e poi si lascia morire con le vene tagliate pur rimanendo contento e innamorato, mentre al tempo stesso all’amata non rimane che il pugno di mosche isterico, il nulla del sangue rappreso delle vene dell’uomo. Ha ottenuto tutto ciò che domandava, ma non può farsene nulla. Il desiderio puro come desiderio di morte, lo incontriamo nel nono ritratto di Recalcati, che lui abbina ad Antigone, eroina tragica che per rispetto della legge divina dell’amore per il fratello gli dà sepoltura, violando così la legge senza pietà del dittatore Creonte che vuole il corpo di Polinice ridotto a carogna. È la disobbedienza al dittatore ciò che porta Antigone alla morte. Ancora nel Simposio platonico una riflessione sul desiderio riguarda la descrizione che Alcibiade fa di Socrate: essere grottesco, esteriormente non attraente, che però quando si apre rivela il proprio tesoro interiore, l’agalma, l’attraente brillante oggetto prezioso capace di causare il desiderio. È la descrizione del puro desiderante, del desiderante che attiva il desiderio. Si tratta di una riflessione applicabile a chi ha carisma, a chi nei fatti dimostra di essere anche lui un maestro di desiderio appunto. Proprio come lo psicoanalista autore di questo libro che non è solo un artefice di sapere, chiarificatore dell’opera di Lacan, che traduce e rende accessibili e utilizzabili nella clinica concetti a volte oscuri e complessi. Non si tratta solo della sua maestria intellettuale e concettuale, padronanza di contenuti, che pure oggi sta contribuendo a condurre la psicoanalisi fuori dalla riserva indiana in cui era stata e si era essa stessa rinchiusa. Quel che colpisce e mette al lavoro di Massimo Recalcati è una sorta di contagio di cui lui stesso parla nell’introduzione del suo testo. Si tratta di un incontro, di una sorpresa, di una tyche capace di modificare l’autòmaton. Dunque è lui stesso maestro di desiderio contagioso, di desiderio di desiderio, un untore della peste della psicoanalisi per riprendere la definizione di Freud in viaggio verso gli Stati Uniti. Portatore del virus che mette al lavoro ognuno con la sua specificità e con la sua ignoranza. Il virus della sorpresa si articola, infatti, all’incontro con l’ignoranza soggettiva e con il desiderio di saperne di più. L’ignoranza come passione umana, non ha a che fare con la quantità 219 di sapere saputo, inevitabilmente non si può sapere tutto. L’illusione di arrivare a sapere ogni cosa del personaggio della Nausea di Sartre che legge in ordine alfabetico tutto lo scibile umano si commenta da sola. L’ignoranza utile e lavorabile ha piuttosto a che fare con la posizione di bordo fra il conscio e l’inconscio che questa occupa, ed è la posizione che il desiderio stesso abita, poiché se la volontà sta dal lato del conscio, il desiderio occupa, invece, il versante inconscio. Il tragico del cedere sul proprio desiderio è un rischio concreto. Il desiderio si può mancare, anzi è assai più facile mancarlo che centrarlo. Non si tratta di un passaggio evolutivo e in partenza non è mai la via più comoda. L’etica del desiderio è l’etica di non gettare la propria vita, è un’etica che si lega alla castrazione e alla legge. La legge introducendo l’interdetto avvia la mancanza e fa nascere il desiderio che solo nella mancanza può vivere. Senza mancanza svanisce il desiderio. L’etica del desiderio è coniugata alla legge. Senza legge il desiderio degrada a capriccio. Senza desiderio la legge si devitalizza, si trasforma in una macchina mortificata e mortificante. La conciliazione fra desiderio e legge è la sola via umana percorribile sia a livello universale, perché è la via della civiltà, sia al livello singolare poiché è al tempo stesso la via per sostenere la propria vocazione e per non gettare la propria vita. Si tratta pure dell’unico modo davvero efficace per prevenire e curare le sofferenze nevrotiche che sempre coincidono con patologie del desiderio. Il desiderio nella dialettica fra soggetto e grande Altro dimostra di esse- 220 lettera recensioni re il solo motore di ogni eccellenza, capace di coniugare i tre tempi: il passato dell’incisione desiderante, il presente della sintonia con il proprio inconscio e il futuro della progettualità desiderata. L’agalma del desiderio, sul lato del soggetto, coincide con la fertilità, con la capacità di generare ciò che prima non c’era. Al tempo stesso, sul lato dell’altro, inteso come simile, l’essere nel desiderio del soggetto è la fucina dei due grandi sentimenti descritti da Melanie Klein: l’invidia e la gratitudine. Invidia di chi, avendo rinunciato al proprio desiderio, si mette specularmente sul piano della rivalità e si arrabbia con il ballerino, con il pattinatore talentuoso, per la semplicità con cui crea volteggi, disegni leggiadri su quello stesso ghiaccio che la posizione invidiosa rende scivoloso e inarrivabile. Di gratitudine di chi, abitando il proprio desiderio, osserva ammirato la bellezza, l’arte del pattinatore, ed è meravigliato dalla capacità umana di spingersi a tanto, aprendo alla possibilità di migliorare sia il proprio, sia il comune arrancare. Il ghiaccio è il sistema significante, il linguaggio, la parola, il pattinatore ballerino è l’autore di questo libro capace di una danza leggiadra e meravigliosa. Il desiderio, dunque, l’insegnamento impossibile, l’insegnamento che non si può insegnare, ma pure ciò che Massimo Recalcati, con la sua testimonianza incarnata (per usare un termine che lui ama), più di ogni altro essere umano che io conosca, è maestro nel mettere al lavoro. Francesco Giglio Milano, 20 aprile 2012 Il libro di Massimo Recalcati porta con sé oltre all’obiettivo – come sempre raggiunto – di proporre una lettura, una introduzione al pensiero di Lacan, un altro obiettivo più ambizioso, che tocca una questione cruciale per la psicoanalisi. Un obiettivo che non a caso ritorna in molti suoi scritti e soprattutto negli ultimi lavori: L’uomo senza inconscio e Cosa resta del padre?. Uno dei temi fondamentali che attraversa questi testi riguarda il desiderio e il rischio della sua scomparsa. Nell’Uomo senza inconscio c’è una presa d’atto che il soggetto del desiderio non è più il protagonista della scena contemporanea e che il nostro tempo ci espone al rischio di vedere estinguersi la possibilità di desiderare. Nel testo è messa in evidenza una mutazione antropologica in corso: in un mondo in cui il deserto cresce, come Recalcati riprende da Heidegger, l’uomo senza inconscio sarebbe l’uomo che rischia di perdere la sua umanità, l’uomo che si riduce a funzionare come una macchina, che trova nel funzionamento seriale delle macchine il suo modello di condotta. L’automatismo che regola la sua vita lo riduce a una condizione che Recalcati definisce inumana e perciò priva di desiderio. Ci sono due temi qui da mettere in evidenza, due temi collegati: l’inumanità e l’eclissi del desiderio. Ci torneremo. Nel libro successivo, quello sul padre, Recalcati prende in considerazione il padre o cosa resta del padre, per verificare se con lui, se grazie al padre, c’è ancora la possibilità di generare del desiderio, se è ancora possibile trasmetterlo. Perché la pos- sibilità di desiderare non ci è garantita, non ci deriva dall’automatismo di cui parlavo prima. Qui si ripropone il tema del desiderio, ma con una domanda in più: cosa lo produce, cosa lo fa esistere, cosa lo trasmette? E allora, questi temi tornano nel libro che viene presentato oggi, e qui Recalcati li approfondisce. Per questo dicevo che l’obiettivo più che divulgativo è ambizioso. In che senso? Innanzitutto mi sembra che voglia superare una certa lettura, un po’ riduttiva, sul desiderio, per cogliere il nodo strutturale che fa del desiderio una questione cruciale, non solo per la psicoanalisi, ma anche per la nostra esistenza. Come se dicesse “guardate che qui è in gioco ben di più dell’ovvio di cui si parla”. In effetti, ci sono delle formule, molto in voga anche tra i lacaniani che hanno fatto del desiderio una sorta di spirito guida: quando esitiamo di fronte agli ostacoli, quando siamo impelagati nel dilemma delle scelte, il desiderio ci mostrerebbe la via. Queste formule che, come dicevo, sono molto frequentate, sarebbero indicate soprattutto dal Lacan del Seminario vii. Un seminario popolato da eroi, da capitani coraggiosi che fanno del desiderio la loro guida assoluta. Uno di questi eroi è Antigone che, come sappiamo, decide di contrapporsi alle leggi della città pur di seguire le ragioni del cuore, che le intimano di dare sepoltura al corpo di suo fratello. La frase in cui qualcuno vorrebbe vedere condensato, in una formula, il tema del desiderio è quella in cui Lacan, alla fine del commento alla tragedia di Antigone, sostiene che 221 se c’è una colpa che non possiamo perdonarci è quella di non agire conformemente al nostro desiderio, di cedere sul desiderio. Possiamo ridurre la complessità del desiderio a questa formula? Giustamente, Recalcati ricorda che Lacan non ha mai incoraggiato questa lettura semplificata. Una lettura che vede in Antigone una sorta di idealizzazione del desiderio, a cui verrebbe affidata una valenza eroica, quasi onnipotente e, come sappiamo in fin dei conti, tragica. Questa retorica del desiderio, e del suo valore assoluto, parte dal presupposto che esista solo una legge, quella del proprio desiderio. Se è vero che la psicoanalisi insegna a tener conto del desiderio, allo stesso tempo ci invita anche a confrontarci con l’impossibile che il desiderio porta con sé. C’è dunque un’altra legge, che ci trascende, con cui deve confrontarsi la legge particolare del desiderio. È questa la lezione del padre: non posso avere tutto, non posso capire tutto, non posso evitare di fare i conti con il limite. Devo, dunque, riuscire a coniugare il desiderio con la legge. L’eclissi del desiderio non deriva, allora, dall’incapacità di andare dove ci porta il cuore, secondo un’altra ben nota formula. Questa molto più tragica. Ma allora perché Lacan affida ad Antigone un ruolo così emblematico? Provo a spiegarmi prendendo le cose dall’inizio, dall’inizio della nostra umanità che si costituisce a partire da un’alterazione, da una rottura di un meccanismo naturale, regolato dall’istinto, regolato dai cosiddetti bisogni naturali. In questo nuovo inizio siamo al di là dell’istinto, al di 222 lettera là di una condizione di natura, Freud dirà che siamo al di là del principio di piacere. Siamo al di là di un principio guida, di istruzioni codificate che orientano e determinano la condotta. Siamo nel punto di sconnessione e di separazione tra l’animale e l’umano e, potremmo aggiungere, tra l’umano e l’inumano. In questo al di là, si apre un mondo di infinite possibilità. Basta guardarsi intorno per vedere come l’azione dell’uomo tra le sue possibilità abbia fatto valere anche una valenza distruttiva. Stiamo parlando della pulsione di morte. Ma non vorrei soffermarmi su questo, quanto sul confine. Perché a partire da questo punto possiamo fare le nostre considerazioni sul desiderio. Perché da questo punto in poi siamo senza istruzioni, non siamo guidati dall’istinto. Se non abbiamo un principio a guidarci, ci ritroviamo in pieno in un dilemma etico e il punto da cui parte ogni discorso etico è che l’uomo non ha un destino biologico, né spirituale, né qualsivoglia altro destino da perseguire. Se così fosse non ci sarebbe nessuna esperienza etica possibile, ma solo compiti da realizzare. Questo non significa che si possa essere o realizzare qualsiasi cosa. La testimonianza paterna – come ricordavo prima – ci ricorda proprio questo. Che non tutto è possibile, e comunque comporta sempre un prezzo. Antigone mette bene in evidenza questo, facendoci cogliere il punto limite del desiderio, perché lo mostra nella sua purezza, nella sua forma assoluta. E allora, cosa ci guida? Cosa è recensioni giusto, cosa è bene, cosa desiderare, chi desiderare? Non c’è una risposta scritta. Anzi, se andassimo a cercare la risposta nei libri o attraverso dei calcoli, la nostra non sarebbe una scelta, ma la ricerca di istruzioni, di dispositivi cognitivi che ci guidino. C’è un passo molto interessante che Recalcati riprende da Lacan e dal suo Discorso ai cattolici, in cui Lacan tocca questo tema. Nella conferenza Lacan afferma che la regola che ha seguito, negli anni, nell’ascoltare le vite che si confidavano davanti a lui, è stata quella di “tacere l’amore”. Di restare in silenzio, senza giudicare, di fronte ai dubbi, le scelte particolari, di fronte a quei segreti che Lacan definisce “triviali e impareggiabili”. Stiamo parlando della posizione di Lacan di fronte all’amore, di fronte a una scelta, qualunque essa sia, che riesce a coniugare il desiderio con la legge, che non perde di vista l’Altro e il rispetto per l’Altro. Ma torniamo ai segreti triviali e impareggiabili. Triviale deriva da trivium. Il trivium è l’incrocio di tre strade, per i latini “la pubblica via”, dove si trovano cose comuni, ordinarie. Perché c’è qualcosa di ordinario nell’amore. Ma anche di impareggiabile, cioè di assolutamente straordinario. Perché l’amore riguarda ciascuno di noi, ma ciascuno di noi riesce a declinarlo in un modo particolare. In un modo cioè che è al di là – come dicevo prima – di qualsiasi principio guida, che stia scritto nel codice genetico o in un libro. Al di là di ogni commento, di ogni interpretazione che ci viene proposta dallo psicologo di turno in qualche salotto televisivo. Lacan invece si chiede: cosa si può fare, se non tacere di fronte a questa straordinarietà dell’amore? In effetti, un analista non può proprio arrogarsi il diritto di sapere qual è la cosa migliore per l’altro, qual è il suo bene. Perché è proprio grazie a questo, grazie al fatto che un analista non sa, nel senso che è abitato dalla passione dell’ignoranza che l’altro può parlare. Può dire la sua. Può trovare spazio per il proprio desiderio. Chiunque si ingaggia in una relazione di aiuto non può che partire da qui. Dall’assumersi un desiderio più forte di quello di essere il padrone o di agire in nome di un bene istituito o di un compito sociale. Se questa è la lezione di Lacan, che dobbiamo provare a riproporre, dobbiamo pensare che solo in questo modo possiamo preservare quella soglia, di cui parlavo prima, quell’al di là che ci distingue dall’inumano. Perché l’umano non è una sostanza data, una volta per tutte. L’umano si produce ogni volta, in modo inedito, straordinario. Altrimenti c’è identificazione anonima, conformista, desoggettivata, alle maschere contemporanee. Il desiderio è la possibilità di generare del nuovo. Certo, ma non è detto che vada così. Quando Nietzsche si chiedeva, nei Frammenti postumi – siamo nel 1881 – “perché non dobbiamo realizzare nell’uomo ciò che i cinesi riescono a fare con l’albero – sicché esso da una parte produce rose, dall’altra produce delle pere” sta immaginando un assetto antropologico in cui il genere umano possa essere diviso in categorie non equivalenti, tra selezionati e selezionatori, tra chi decide sulle forme di vita e chi no. Il tema, su cui si 223 sofferma anche Heidegger nella sua Lettera sull’umanesimo, in cui mette in tensione umanità e animalità, torna in molta filosofia dei nostri ultimi cinquant’anni, concentrandosi soprattutto sul concetto di Foucault di “biopolitica”. Sulle forme che può assumere il potere, o la politica, quando prende in carico la vita, la nuda vita, la vita ridotta alle sue funzioni essenziali. Questione emersa tragicamente durante il nazismo, che era riuscito a pensare a una distinzione tra vite degne e vite indegne di essere vissute. I campi di concentramento sono stati un mostruoso laboratorio – come li ha definiti Hannah Arendt – per isolare la nuda vita, ovvero per separare l’umano dall’inumano, per escludere alcune categorie di persone dalla vita umana. E allora, quando parlavo dell’obiettivo ambizioso di questo libro, e di un percorso che ha portato Recalcati di nuovo sul tema del desiderio, facevo riferimento a una attenzione che attraversa il lavoro di Recalcati, e a una necessità di dire qualcosa rispetto a questa soglia che incarna il rischio, mai superato, di una confusione categoriale tra umano e inumano. E Recalcati ce lo ricorda: “Quando la felicità diventa un programma cognitivo o comportamentale e si pretende di misurarla con gli strumenti obiettivi della scienza, essa si trasforma fatalmente in un incubo totalitario. Cos’è infatti il totalitarismo se non imporre all’Altro la nostra misura del Bene? Perché, è sempre Lacan che lo ricorda, quando si pretende di agire in nome del Bene universale, in nome della Causa giusta, non c’è più limite alcuno al Male”. 224 lettera recensioni Come a dire che i dispositivi immunitari, messi in atto a protezione del Bene, della vita e, almeno teoricamente, del desiderio che la anima, si trasformano necessariamente, proprio perché l’umanità si produce solo in una singolarità irriducibile, in una minaccia mortale per il desiderio e per la vita. Come ne usciamo? Giovanni Mierolo Torino, 17 marzo 2012 Dieci pensieri sulla politica di Roberto Esposito (il Mulino, Bologna 2011) Nelle pagine che seguono pubblichiamo alcuni interventi relativi alla presentazione del libro Dieci pensieri sulla politica che si è svolta a Milano il 23 marzo 2012, coordinata da Pino Pitasi, con gli interventi del sociologo Federico Chicchi e dello psicoanalista Giovanni Mierolo. “Discutere la psicoanalisi” ci consente di ospitare Roberto Esposito, docente di Filosofia teoretica presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze e di Napoli, e ci offre l’opportunità di presentare questo suo recente libro, Dieci pensieri sula politica. Vorrei ricordare che Roberto Esposito ha pubblicato in diverse lingue libri che sono diventati capisaldi di una riflessione ricca e molto apprezzata. Tra questi cito Communitas. Origine e destino delle comunità, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Bios. Bio- politica e filosofia, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana. Non mi addentrerò nei contenuti specifici del libro che andiamo a presentare poiché saranno Federico Chicchi, sociologo del lavoro, docente presso l’Università di Bologna, membro di alipsi, e Giovanni Mierolo, membro analista di alipsi, ad approfondire le tematiche sulle quali Esposito si è cimentato con accurata raffinatezza discorsiva. Mi preme, però, qui sottolineare, sia pur per accenni, l’intenso e fecondo percorso di studio e di ricerca nel campo filosofico e politico che caratterizza, più in generale, la riflessione di Esposito. L’autore ci ricorda, anche nell’articolo Il made in Italy della filosofia, apparso su “la Repubblica” del 24 febbraio 2012, il carattere tendenzialmente antinazionale del pensiero filosofico italiano, da sempre confrontato e contaminato da altre tradizioni, ben oltre i propri confini. In Dieci pensieri sulla politica, Esposito mette in luce questa disposizione e nel suo ricercato stile metodologico lascia interagire, nell’affrontare le delicate questioni della politica, della democrazia, del mito, dell’opera, della violenza ecc., linguaggi e autori diversi in una sorta di continuo scambio, intreccio e rovescio di piani. I termini della politica che l’autore indaga sono sottoposti a una vera e propria torsione, la pluralità di voci è sempre preservata, la critica pungente esercitata sulle categorie del pensiero novecentesco, se posso dirlo, non è mai fondativa. Questo libro mi è apparso come il tentativo appassionato di rompere con la pre- supposta compattezza dei dispositivi discorsivi attuali. Il richiamo all’impolitico, che costantemente ritroviamo nel libro, suona come un avvertimento a non fare di questo termine una categoria contrapposta a quella classica della politica ma, semmai, di pensarlo come una prospettiva, come una modalità di sguardo e quindi un modo di guardare alla politica. Difficile, insomma, dire e cogliere, al tempo stesso, cosa sia l’impolitico. L’autore suggerisce nelle prime pagine del suo libro che, se dovesse dire, solo in negativo, a cosa allude l’idea di impolitico, direbbe che l’impolitico tenta di interrompere il circuito tipico della tradizione della filosofia politica che la rappresenta e la identifica con il bene, come autolegittimazione di un valore. Non vorrei qui omettere l’importanza che i concetti di biopolitica, di comunità e di immunità rivestono nella riflessione di Esposito che, assieme ad altri autori italiani (Agamben, Negri e altri) ha offerto nuove e originali formulazioni interpretative di quanto aveva teorizzato Michel Foucault sui dispostivi di potere nel loro rapporto con la vita. Mi riconosco e parteggio per l’idea che il nostro autore lancia sulla già citata pagina di “la Repubblica” dove sostiene che “quello italiano più che del potere, è un pensiero della resistenza” e che oggi quello che più cercano “anche i movimenti di protesta che riempiono le piazze di mezzo mondo è una teoria della soggettività politica orientata al conflitto” e che “anzi solo quest’ultimo, se trattenuto nei confini della politica, 225 può conferire ad essa la vitalità che sembra aver smarrito”. In ultimo, un riferimento alla questione della responsabilità, tanto cara alla nostra comunità di psicoanalisti, e così mirabilmente descritta con le parole di Elias Canetti in Massa e Potere: “Questo, secondo me, è il vero compito degli scrittori. Grazie a una capacità che una volta era di tutti e che ora è condannata all’atrofia, capacità che essi ad ogni costo hanno il dovere di conservare, gli scrittori dovrebbero tenere aperte le vie di accesso tra gli uomini. Dovrebbero essere capaci di diventare chiunque, anche il più piccolo, il più ingenuo, il più impotente”. Ovvero, chiosa Esposito a ulteriore chiarificazione, “anziché potenziarsi, lo scrittore deve aprirsi nel senso specifico di fare posto al proprio interno a ciò che gli è estraneo: al sapere, all’esperienza, all’esistenza dell’altro; solo così egli potrà stare anche con se stesso. Rispondere di sé: rispondendo in primo luogo degli altri, per gli altri, negli altri”. Questo per discutere la psicoanalisi attraverso e con i Dieci pensieri sulla politica di Esposito. Pino Pitasi In primo luogo permettetemi di dire che il volume di Roberto Esposito Dieci pensieri sulla politica è un libro seducente, che seduce il lettore. In che senso? Nel senso – come indicava Baudrillard – che non vi è seduzione se non vi è un segreto da fare proprio. Dieci pensieri sulla politica è un condensato di sontuose argomenta- 226 lettera zioni, di dettagliate ricognizioni nella filosofia del Novecento e di sorprendenti intuizioni, che raccolgono e tematizzano – ampliandone e al contempo circoscrivendone l’ampiezza concettuale – i nodi irrisolti, le fratture, le forzature della società politica moderna. Occorre allora percorrere, insieme all’autore, un itinerario interpretativo, denso, mai sazio, mai completo ma sempre tensivo e recalcitrante a manifestare un approdo definitivo. O ancora meglio: quando si concede un approdo, questo è sempre inquieto, ondulatorio, mai dispiegato. E questo insaturo rappresenta, a mio avviso, al contempo la trama etica del volume di Esposito. Il testo è composto da un insieme stratificato di rimandi e di suggestioni che definiscono un quadro complessivo, certo eterogeneo e molteplice, ma anche sempre teso sulla questione centrale che l’autore pone nel volume e che definisce attorno al tema dell’impolitico. “Come si diceva, il quadro di pertinenza all’interno del quale Dieci pensieri sulla politica va collocato è costituito da quel punto di vista critico sulle categorie politiche moderne che, nella riflessione italiana degli anni Ottanta, ha assunto il nome di impolitico” (p. 7). Concetto tutt’altro che semplice, concetto limite, e su cui dovremo tornare, se non altro perché, per quanto riguarda questa edizione del volume – con un’operazione che forse Paolo Virno, via Bergson, chiamerebbe di ricordo del presente –, ci permette di rammentare e di illuminare genealogicamente i passaggi di quella che sarà l’opera successiva di Esposito. Quella legata prima al paradigma recensioni immunitario e biopolitico e poi a quello più recente dell’impersonale. Un libro questo che impegna a fondo il lettore in almeno due modi: il primo perché lo pone al cospetto dell’impossibilità della sintesi (sintesi dialettica che è quindi tanto rifiutata da Esposito nella sua teoresi, quanto complementariamente nello stile del volume), espone il lettore, in altri termini, di fronte alla sua divisione costitutiva, di fronte all’impossibilità di fare Uno, di fronte alla sua radicale e perturbante alterità. In secondo luogo lo costringe, vista la minuzia e la profondità filosofica degli argomenti e non secondariamente la straordinaria qualità retorica (tangibile, riconoscibile, singolare), a fare i conti con la passione della propria ignoranza. Detto questo, senza piaggeria alcuna s’intende, occorre ancora dire che il libro, nonostante sia solo un aggiornamento di un volume che ha oramai quasi vent’anni, porta con sé tutta la sua sorprendente attualità. Credo sia una delle ragioni di questa recentissima riedizione. Perché attuale? Perché il volume interroga il cuore stesso della crisi sociale ed etica del nostro presente. E cioè interroga la politica e il politico dall’interno: cioè nel cono vuoto della sua insuperabilità. Nell’orizzonte del potere come costitutivo del soggetto. Come suo ambiente non oltrepassabile. Il lessico politico del moderno è attraversato secondo Esposito da una crisi irreversibile. Citando Simone Weil, Esposito ci invita a prendere consapevolezza che “possiamo prendere tutti i termini, tutte le espressioni del nostro vocabolario politico, e aprirli; al loro interno troveremo il vuoto”. E questo naturalmente ha a che fare anche con la filosofia e con la sua pretesa di essere strumento e guida della politica. Si può cogliere tra le pagine del libro il respiro e l’urgenza di una nuova prospettiva interpretativa capace di raccogliere, ribaltandola da capo a piedi, la sfida perduta del politico moderno. Mi riferisco cioè all’urgenza di pensare a una politica dopo-moderna che sappia fare i conti con la nuova e pervasiva mistica del discorso capitalista. Badate bene, però, nella proposta di Esposito non vi è mai una sfrontata palingenesi. In questo libro, si segue il metodo della decostruzione, e in parte s’inaugura e anticipa un’archeologia del discorso. Come scriveva l’autore nella precedente edizione (quella a nove, per intenderci). I lemmi della filosofia moderna e occidentale “si prestano ad una sospensione, a una sorta di epoché, dall’usuale circuito comunicativo e si rendono disponibili ad una radicale conversione semantica”. In questo senso il suo è un deleuziano lavoro da artigiano del concetto. Esposito lavora in modo mai meccanico e ripetitivo attorno alle parole, ai lemmi, cercando di orientarne la semantica – senza abbandonare la tensione con la loro radice etimologica – in modo nuovo e perturbante. Perturbante perché come lo stesso autore sottolinea, la torsione che i concetti del politico subiscono sotto gli acuminati strumenti del filosofo è tale che questi “sono spinti a ridosso del loro opposto” mostrandone riserve di significato che alla fine, con sorpresa e fin quando la traccia mnemonica del ragionamento si manifesta, si palesano come paradossalmente familiari. 227 L’esemplificazione più chiara è allora proposta, a mio avviso, nel testo quando Esposito “lavora” il lemma di Opera attraverso San Paolo e un commento all’Epistola ai Romani di Karl Barth: ecco allora che l’azione tende a congiungersi all’inazione, quasi a farsi tutt’uno con essa. L’impolitico ha allora a che fare con l’assunzione di un limite, un’interruzione, interna alla politica stessa. È il limite che segna il rovescio interno della politica, il suo punto vuoto. E aggiungiamo noi: quel vuoto necessario a renderla possibile come prassi. Questo stesso limite non è mai però una contropolitica, un contropotere, non è la negazione dialettica della politica, altrimenti ci troveremmo già in un nuovo e ribaltato positivo. La tesi forte e potremmo forse dire sagittale del libro è dunque che la modernità ha fallito, ha pregiudicato il suo progetto perché ha, senza successo, tentato di rimuovere dal suo contesto storico il tema del conflitto (se volete della differenza, della potenza della differenza). In altre parole ha trattato il dissidio (che Lyotard interpretava come una contesa tra differenti giochi linguistici) come una scoria da eliminare, come un problema da ricondurre (aggiungo io: violentemente) in seno al centripeto ordine costituito. In altre parole come un elemento di disturbo, un elemento diabolico da espellere o quanto meno da addomesticare e rendere simbolicamente inerme. Questo fallimento connota in profondità (nelle latenze culturali e simboliche) e superficialmente (nella qualità dei suoi principali istituti di 228 lettera amministrazione e governo) il nostro presente storico, che si trova ad agire (nuovamente?) in un luogo orfano del Terzo, orfano della mediazione che presidiava, orfano dell’Altro. Nella crisi più radicale delle istituzioni del moderno. Nelle sabbie mobili dell’inconsistenza (nel bene e nel male, intendiamoci) dell’attuale sfera pubblica. Qui vale la pena di leggere un brevissimo passaggio del volume perché ci pare in grado di consegnarci la sua verità argomentativa più profonda. “Contrariamente a tutte le posizioni di tipo metapolitico, postpolitico o antipolitico che, a vario titolo, contestano o almeno sfumano, questa analisi, la prospettiva dell’impolitico non soltanto la fa integralmente propria, ma in qualche modo la radicalizza, escludendo in linea di principio qualsiasi realtà sottratta allo scontro tra poteri contrastanti. In tal senso essa si riconosce nella tradizione realistica che, da Tucidide a Nietzsche, passando per Machiavelli, individua nel dissidio non il resto eliminabile, ma il presupposto stesso della convivenza umana” (p. 9). Ci sono allora due questioni principali che ne discendono. Questioni su cui ci dobbiamo trattenere per un poco. La prima riguarda la questione dell’impolitico, che come abbiamo accennato è il concetto che tiene assieme il volume, che attraversa come uno spettro tutta la sua estensione concettuale. Come è noto è anche il primo grande tema della riflessione di Esposito. Tema a cui tra l’altro l’autore ha dedicato, nel 1988, un’opera chiamata Categorie dell’impo- recensioni litico. Ma la negazione che il prefisso in assume in modo assai particolare è tanto importante in quanto non abbandona mai la teorica espositiana ma anzi la caratterizza dal principio alla fine, riattualizzandosi oggi palesemente all’interno del tema dell’impersonale. L’impolitico non è, non indica la fuga dal politico. Quest’ultimo non può essere superato, è dimensione costitutiva dell’umano. Il potere segna la vita fin dal suo esordio. L’impolitico non definisce quindi una sfera che sfugge magicamente o per capovolgimento alla presa del potere. Non figura, immediatamente, un altrove. Al limite lo evoca come orizzonte. Potremmo dire che esso s’inscrive in uno spazio interstiziale che non ordina nessuna filosofia/teologia/ ideologia politica. Esclude ogni rappresentazione del bene, rifiuta la sua articolazione dentro la questione della produzione del bene. Per dirlo con il Lacan del Discorso ai cattolici sa tacere sull’amore. L’impolitico indica dunque, facendo barra, facendosi limite presente, l’essere strutturalmente difettivo della modernità. La sua impossibilità di ricondurre ad Uno il bios. Ma forse proprio qui, dove l’impolitico si mostra, palesando il limite interno/ esterno del progetto politico moderno, rivela contemporaneamente, simultaneamente, il limite stesso dell’impolitico: la sua intrinseca vocazione al segnalare, al profanare, al dissimulare ma fondamentalmente incapace di affermare una svolta in seno alla trappola del moderno che contribuisce a rendere palese. Non è forse questo il punto in cui Esposito immette la questione dell’impolitico nella traccia del paradigma immunitario? Iniziando la seconda fase del suo percorso “in”? Il punto di rottura inevitabile che pone sul piatto Esposito è quello della prigionia dell’azione politica nell’incavo destinale dell’origine. Il cosiddetto paradigma della presupposizione, all’interno del quale il futuro non può che essere legato a doppio filo all’eredità del passato. L’ontologia del presente, atteggiamento di interrogazione sui saperi e sui regimi discorsici del presente che Esposito fa propria a partire da Foucault, lo porta a cercare un punto di interruzione di questa catena istoriale che trova disposizione nella democrazia rappresentativa e nella sua logica appunto trascendentale. Pensare conflitto e democrazia come aspetti congiuntivi e irriducibili apre invece allora a uno scenario di produzione del comune che va nella direzione dell’affermazione della vita, del bios, uno scenario che fa a meno del presupposto d’ordine che la modernità hobbesiana aveva posto come suo fondamento trascendentale. Insomma Esposito attraverso quella che definisce come biopolitica affermativa ci invita a cambiare il segno del rapporto tra ordine e conflitto, inaugurando in una strana sintonia (solo di metodo) con il Mario Tronti di Lenin in Inghilterra, quando invitava a pensare il rapporto tra Capitale e Lavoro nella sua forma ribaltata. Dove è il lavoro che è soggetto motore della storia e non il capitale a cui continua a sottomettersi. Al di là della provocazione operaista, qui si apre a nostro avviso la 229 questione centrale del pensiero di Esposito. La questione che lo spinge a forzare la sua analisi in una sorta di torsione del paradigma immunitario che gli era servito per leggere il rapporto tra vita e politica oltre l’impasse foucaultiana. Tale paradigma è infatti destinato nella modernità ad assumere le forme paranoiche e mortifere della tendenza autoprotettiva e autoimmunitaria. A comporsi in quella che Lacan chiama la follia del credersi un Io. Follia identitaria, dunque. Già in questo libro il tema del neutro o se preferite il tema dell’impersonale è allora evocato come possibile via di uscita. Ma in quale direzione? Si tratta di affermare una vita al di là del dispositivo della persona, che include differenziando e sottomettendo come già Marx aveva brillantemente sottolineato nel Capitale. La pista di ricerca da costruire è allora tesa e incerta tra un rinnovato naturalismo della pulsione vitale che eroga spinozianamente desiderio e articola singolarità e un pessimismo inoperoso che però pare destinato a un inerziale e nichilistico esito. Ma seguendo tale percorso interpretativo usciremmo dal compito assegnatoci oggi. La questione, per concludere, credo si ponga in ogni caso sul crinale della relazione tra economia e politica (nella bioeconomia) dove questa seconda pare oggi sempre più soccombere in favore dei regimi di verità della prima. Il rischio è che, consumandosi fino all’estremo, il capitalismo consumi anche la vita. Federico Chicchi 230 lettera Roberto Esposito ha costituito e costituisce per la nostra comunità un riferimento essenziale. Chi avesse avuto modo di leggere nel sito dell’Associazione Lacaniana Italiana di Psicoanalisi lo scritto che la presenta, avrà notato il debito evidente che abbiamo contratto con il lavoro di Esposito, sui temi della communitas e dei dispositivi immunitari. Parlo di debito perché anche grazie al suo lavoro abbiamo provato a pensare alla forma del legame tra analisti e al tipo di comunità che degli analisti possono costruire. In effetti, il tema della comunità è un tema vitale per la psicoanalisi e la sua sopravvivenza. Freud e Lacan hanno pensato alle comunità analitiche come a un riferimento imprescindibile per dare vita alla psicoanalisi e per poterla trasmettere. Ciò nonostante le comunità che hanno fondato sono state spesso attraversate da movimenti interni che ne hanno minato le fondamenta, mettendone in dubbio ripetutamente la sopravvivenza. La nostra stessa associazione nasce da una rottura, da un movimento di separazione da un precedente legame associativo. Anche per noi, quindi, è importante capire cosa concorre a costituire una comunità e cosa la minaccia. Per questo mi soffermerò in particolare su uno dei dieci pensieri, dei dieci temi, contenuti nel testo, che prende il titolo di Comunità e violenza. Mi soffermerò su uno solo anche perché ogni tema mostra una complessità e una ricchezza che meriterebbe molto più tempo per essere trattato e approfondito. recensioni Comunità e violenza è anche l’ultimo tema trattato nel libro. È l’ultimo anche perché con questa riflessione si chiude una fase del lavoro di Esposito sulle categorie dell’impolitico e se ne apre un’altra, che troverà una sua concretizzazione in Bios e soprattutto in Communitas e Immunitas, che ho citato prima. Per cominciare, Esposito si sofferma sul fatto che, all’inizio della comunità, vi sia una violenza omicida; Caino e Abele, Romolo e Remo, Eteocle e Polinice ne sono l’esempio. Ma questi omicidi non sono omicidi qualsiasi: il sangue che cementa le mura delle città è sangue di famiglia, è sangue fraterno. Questa comunanza di sangue mostra come la violenza originaria, la violenza che minaccia la comunità, sia una minaccia che non proviene dall’esterno, ma dall’interno. La violenza si scatena proprio perché mette a confronto i fratelli. Esposito riprende René Girard per mettere in evidenza che gli esseri umani si combattono a morte non perché troppo diversi – come tendiamo ingenuamente a credere – ma perché troppo simili come sono appunto i fratelli. Dunque si uccidono reciprocamente non per eccesso, ma per difetto di differenza. Quando l’uguaglianza è troppa, quando arriva a toccare l’ordine del desiderio, concentrandolo sul medesimo oggetto, allora sfocia inevitabilmente nella violenza reciproca. È il tema del desiderio mimetico di Girard. La violenza, alla sua origine, sarebbe scatenata dal fatto che gli uomini guardano nella stessa direzione, desiderano tutti la medesima cosa. Chi ha qualche frequentazione delle opere di Lacan ricorda il passo che Lacan riprende da sant’Agostino, in cui parla del bambino che osserva con uno sguardo torvo il fratello di latte, che gode del seno materno. La rivalità mortale attecchisce proprio in concomitanza della presenza dell’oggetto desiderato dall’Altro. Ho ripreso questo passo non tanto, o non solo, per mettere in evidenza il desiderio mimetico di Girard nei confronti di Lacan (in effetti Girard dice sostanzialmente le stesse cose, senza riconoscerlo), ma perché per me, per noi, è importante capire questo punto strutturale e strutturante, anche per come lo intende Lacan. In un passo del Seminario i, Lacan, dopo l’esempio di sant’Agostino, parla del “gesto di Caino”. Del gesto originario che anche Girard prende in considerazione. Siamo in un giardino di campagna e Lacan osserva il comportamento di una bambina, in una età in cui a malapena si regge sulle gambe. “Non è particolarmente feroce – dice Lacan – però non impiega molto a prendere una grossa pietra, per darla sulla testa di un suo compagno di giochi, attorno al quale stava costruendo le sue prime identificazioni.” Lo fa senza neanche tanti problemi: “Io rompere la testa a Francesco”. Il gesto di Caino. “Non le prometto, per questo, un avvenire criminale – aggiunge Lacan – manifestava soltanto la struttura più fondamentale dell’essere umano sul piano immaginario: distruggere chi è la sede dell’alienazione.” Poco prima Lacan aveva affermato che “il desiderio del soggetto 231 non può essere confermato se non in concorrenza, in rivalità assoluta con l’altro, nei confronti dell’oggetto verso cui tende”. Questa aggressività radicale è tenuta in vita dal desiderio della scomparsa dell’Altro, in quanto supporto del desiderio del soggetto. Quindi non è in gioco semplicemente l’oggetto, l’oggetto conteso, che trascina i due contendenti nella spirale della violenza. È in gioco l’esistenza soggettiva, che dobbiamo costitutivamente all’Altro. È in gioco una vita che ci viene consegnata dall’Altro perché grazie all’Altro ci costituiamo come soggetti. Questo assoggettamento, questa mortificazione simbolica, impone una differenziazione. Un soggetto può esprimersi solo in quanto differenza assoluta dall’Altro. Per questo Esposito dice che non è la differenza, ma l’assenza di differenze, a farci rischiare il massacro. E se all’inizio, in un inizio mitico, ritroviamo due soggetti che si apprestano a fondare una città, una comunità, è come se uno dicesse all’altro “non posso confondere il mio desiderio con il tuo, per questo la comunità che potremmo fondare non può essere la nostra”. Tutt’al più la mia. Il desiderio separa, non può fare uno. Viene in mente Lacan che fonda la sua Scuola: “fondo – solo come sono sempre stato nella mia relazione con la causa psicoanalitica”. Ma cosa si fonda da soli? È come se Lacan dicesse: non si può fondare insieme, al massimo uno per uno. “A spaventare gli uomini” sostiene Esposito “e perciò a farli scontrare in una lotta a morte per la sopravviven- 232 lettera za, o per la prevalenza, è la mancanza di limiti che li mette a contatto diretto con altri troppo simili, per non doversi, prima o poi, colpire a vicenda per affermarsi.” E allora – secondo Esposito – ritroviamo da una parte la communitas, caratterizzata dalla libera circolazione del munus, del dono, che costituisce l’apertura all’Altro, la possibilità del contatto con l’Altro, con tutti i rischi che il contatto comporta: indifferenziazione, contagio, violenza. In questa comunità nuda, spogliata di ogni forma, in cui non esiste un confine preciso tra l’uno e l’altro, la violenza può dilagare. E troviamo anche, su un altro bordo, sull’altro versante della comunità, un ricorso ai dispositivi immunitari, all’immunitas, che disattiva il munus, il contatto con l’altro, provando a limitare il rischio di contagio che porta con sé. Carl Schmitt, che ha proposto una definizione di comunità che potremmo far coincidere con quella della tradizione occidentale, ha prospettato l’idea di una comunità che può essere pensata, innanzitutto, a partire da una opposizione che esclude. L’opposizione tra un dentro e un fuori, tra amico e nemico, è un modo per pensare le differenze, per assegnargli un posto. Se è compito del politico consentire a una comunità di identificarsi e riconoscersi, la via della contrapposizione riduce al minimo gli equivoci. In questo senso il nemico svolge un ruolo essenziale, al punto che Schmitt si è preoccupato di sottolineare che le guerre sono pericolose soprattutto perché rischiano di distruggere il nemico; e se non c’è più nemico non c’è identità. Dunque, recensioni l’immunizzazione è una costruzione di confini, che supera la condizione confusiva della fratellanza. Effettivamente, rispetto alla comunità delle origini, senza legge e senza frontiere, la soluzione immunitaria sembrerebbe in grado di salvarla dal caos e dalla distruzione. Esposito ha messo molto bene in luce quali sono le conseguenze del rimedio cercato. Il sistema immunitario che dovrebbe salvaguardare il corpo individuale e collettivo, se è attivato oltre un certo limite, finisce per distruggerli. Le riflessioni di Foucault sulla biopolitica, riprese e integrate da Esposito in molti scritti e soprattutto in Immunitas, hanno messo in evidenza come il paradigma immunitario, che ha caratterizzato i nostri anni più recenti, nato per proteggere la vita, allo stesso tempo ne autorizzi la distruzione. Basti pensare al nazismo che è arrivato a pensare a una distinzione tra vite degne e vite indegne di essere vissute. A vite da sopprimere perché potenzialmente portatrici di contagio, minaccia per le altre vite. Ho trovato molto interessante un articolo, uscito su “MicroMega” già qualche anno fa, in cui Esposito, evidenzia come gli ideologi del Reich abbiano usato, per definire i loro pretesi nemici, l’appellativo di batteri, virus, parassiti. La biologizzazione del lessico, l’affidare a medici e biologi la funzione di guida del progetto immunitario per il popolo tedesco, mostra bene come il termine di sterminio diventi assurdamente appropriato se si tratta di distruggere delle vite ridotte a germi invasori e contagiosi. L’efficienza dei medici che si occupano della disinfestazione o di aprire il rubinetto del gas per la doccia finale (sono i termini usati dal Reich) è indicativa del ruolo che assume la medicina in questo processo. Eppure, i nazisti avevano lanciato una campagna contro il cancro, che limitava l’uso dei pesticidi, dei coloranti, del tabacco, siamo al punto in cui – cito Esposito – “mentre a Dachau il camino fumava si produceva miele biologico”. E giustamente Esposito si chiede “cosa significa tutto ciò?”. Non possiamo pensare che sia solo saltato il confine tra guarigione e assassinio, dobbiamo pensare questi due princìpi l’uno come la condizione dell’altro, come due versanti di uno stesso progetto. Che conseguenze può avere, ancora oggi, questo legame? Cosa significa questo per le comunità a cui possiamo pensare oggi? Parliamo di nazismo perché non è stato solo un incidente, un inciampo della storia, ma la rappresentazione della deriva immunitaria a cui il nostro mondo rischia di andare incontro. “I cinquanta milioni di morti con cui si chiude la seconda guerra mondiale”, sostiene Esposito, “segnano il punto culminante di questo processo apocalittico.” Per citare un esempio più vicino a noi basta pensare alla espulsione di Lacan dall’Associazione Psicoanalitica di cui faceva parte: viene scritto che “è una minaccia per la psicoanalisi”. In effetti minaccia una comunità arroccata a difesa di una identità, di una idea della psicoanalisi. Il dispositivo – che potremmo, a questo punto, definire immunitario – lo caccia per difendere la psicoanalisi, da 233 uno psicoanalista. Come ne usciamo se una voce dissonante è una minaccia? Dove sta il confine con l’eresia? Perché – dice Esposito – senza un sistema immunitario, una comunità, così come un singolo corpo non potrebbe sopravvivere. Quindi dobbiamo provare a pensare a una immunità che non sia in contrasto con la comunità. Dobbiamo provare a pensare a questi due princìpi, l’immunitas (che rinvia alla separazione e alla differenza) e la communitas (che rinvia alla identità e all’unità), come due princìpi non escludenti. Che non si escludono reciprocamente. Effettivamente, questo salto logico, questa prospettiva diversa, permetterebbe di situare in modo diverso le derive immunitarie che anche le comunità analitiche hanno conosciuto. Allora una comunità diversa è possibile se è disposta a rivedere i propri confini. A situarli come i bordi del nastro di Moebius, in cui l’interno e l’esterno sono l’uno la continuazione dell’altro. Questo ci aiuta a pensare a una identità che non si contrappone, ma è in stretto rapporto con la differenza. Nel rispetto di questo rapporto la comunità non avrà un’identità da difendere perché sarà in grado di rinunciare a una rappresentazione compiuta di sé. In questo senso sarà inappropriabile, non sarà la comunità di qualcuno. E sarà sempre incompiuta, perché non potremo dire cos’è una volta per tutte, perché sarà ogni volta l’esito di questo rapporto. Giovanni Mierolo 234 lettera Soggettività e denaro Logica di un inganno di Silvano Petrosino (Jaca Book, Milano 2012) Costellato da riferimenti a Heidegger, Kojève, Lacan, Lévinas, Simmel e ad alcune pagine di Kafka, il percorso in cui si inoltra Petrosino in questo libro è alquanto originale. Si snoda infatti lungo tre termini che sembrano rincorrersi, annodarsi per poi dipanarsi: il desiderio, l’oggetto, il denaro. Tre parole cruciali che tessono lo scenario del nostro tempo. Scintillano, ciascuna con la propria lucentezza, portando luce negli angoli più scabrosi dell’immaginario. Questi tre termini che pure si affacciano nella clinica psicoanalitica e quasi costituiscono il nocciolo duro della soggettività, si intersecano in una serie di rimandi e di inganni insidiosi. Quasi che il denaro, “scambiatore universale” per eccellenza, con la sua onnipotenza potesse esaudire tutti i desideri impossessandosi voracemente di qualsiasi oggetto. Il denaro: significante privilegiato che simbolizza, per la psicoanalisi, tanto la negazione della castrazione quanto il suo aggiramento. Allude in definitiva al trionfo dell’onnipotenza, alla possibilità immediata di raggiungere l’oggetto, ma anche al fantasma di un possesso interdetto e irraggiungibile. È il tema dell’avere e del non avere, del potere e del non potere. E ancora: il denaro presentifica per il soggetto quella “moneta vivente” (Klossowski), ossia il corpo recensioni stesso, pronta a essere spesa per “incassare il godimento”. Petrosino muove le sue mosse con rigore. Il desiderio non è il bisogno. L’assenza dell’oggetto non coincide con la mancanza, perché quest’ultima, costitutiva del soggetto, rappresenta la “cifra del desiderio umano”. L’inganno incomincia quando il soggetto presume di sapere qual è la propria mancanza e crede di padroneggiare il desiderio fino a farlo coincidere con il bisogno. In preda a questo meccanismo il soggetto cercherà ben presto un altro oggetto, ancor più luccicante, per colmare quello che ritiene il suo bisogno. Ecco come la logica dell’autoinganno riproduce l’abbaglio degli idoli. Ecco come il denaro, apparentemente “il meno pericoloso e il più democratico dei fantasmi”, promuove la proliferazione di questo autoinganno. In tale autoinganno lo psicoanalista riconosce il trucco della nevrosi, il suo trovarsi in bilico in un’economia fallimentare, il suo tentativo drammatico di tenere insieme, come annotava Freud, una “formazione di compromesso”. Eppure questo stesso autoinganno, così endemico e oggi così trionfante, proviene anche (e soprattutto) dal discorso sociale, dalla demagogia massmediologica, dalla gestione programmatica dell’immaginario sociale. Gli effetti devastanti li ritroviamo nella clinica. All’autore abbiamo rivolto qualche domanda. Partiamo appunto dalla società ipermoderna: “Nel suo libro in alcune pagine commenta il passo di Lacan quando afferma che l’oggetto è fallito, che sarà sempre un fallimento…”. “È bene chiarire che l’oggetto fallisce non in quanto oggetto ma in quanto risposta al desiderio dell’uomo. Ogni qual volta l’uomo cerca una risposta al proprio desiderio attraverso il possesso di oggetti – la ‘roba’ di cui parla Verga – ecco che allora egli va incontro a un fallimento, al proprio fallimento. Questa mi sembra essere un’esperienza quotidiana, un’evidenza che è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia ciò che è difficile da comprendere è perché il soggetto si ostini a percorrere una simile via chiusa. Su questo punto non bisogna essere ingenui. In effetti il possesso di un oggetto garantisce al soggetto un certo godimento e una qualche soddisfazione, anche se sempre temporanei; ora, come cerco di mostrare più puntualmente nel libro, di fronte allo sconcerto del desiderio (che non ha oggetto, come ripete con insistenza Lacan), il soggetto tenta sempre di tradurre la strana logica di quest’ultimo nella più famigliare logica del bisogno che, proprio perché finalizzata all’oggetto, è del tutto manipolabile e dominabile. In altri termini, il soggetto tenta di abitare il proprio desiderio come se fosse un mero bisogno. Un simile tentativo è ciò che sta alla base della costruzione dell’idolo, che non per nulla è opera delle mani dell’uomo.” Di sicuro l’altra faccia dell’oggetto è quella del denaro, immaginato incarnare una potenzialità magica. “In che misura oggi il denaro promuove il principio secondo cui tutto è possibile? Come ristabilire una dimensione del limite?” “La forza del denaro”, riprende Petrosino, “è data dal fatto che permette il possesso di oggetti e, di conseguenza, promette 235 quel particolare godimento che il soggetto tende a interpretare come la risposta al proprio desiderio. Il denaro non è in sé un male, ma tende quasi inevitabilmente a diventarlo: permette l’accesso all’infinità degli oggetti, alimenta l’illusione che il loro possesso coincida con la risposta che il soggetto cerca. Del resto, l’umanità si è spesso consegnata a follie ben più inquietanti e pericolose di quella del denaro: per esempio ‘la patria’, ‘la razza’, ‘il sangue’, ‘il popolo’, ‘la terra’, ‘la casta’”. Un’altra domanda: “I giovani di oggi quali rischi corrono in una società che permette di avere e consumare tutto e subito?”. “Va precisato che questa società”, riprende Petrosino, “punta non tanto al possesso delle singole cose quanto alla promozione della logica del fantasma, ossia dell’idea onnipotente di poter possedere qualsiasi cosa. I giovani, avendo un accesso quasi immediato agli oggetti, credono di trovare subito una risposta immediata al loro desiderio. Ecco l’inganno, ed è devastante. Capita per esempio che gli adolescenti riproducano nella realtà quello che vedono nei videogiochi. Ma il reale è fatto di sudore, di malattia, di morte, di gioia, di corpo. Nel virtuale manca il corpo. Mentre una volta l’accesso difficoltoso alle merci rendeva più difficile l’ubriacatura delle cose, oggi attraverso il denaro e l’uso di mezzi tecnologici, l’accesso immediato a ogni bene di consumo può dare l’illusione di raggiungere la pienezza. Contro tale logica occorre cercare di smascherare il potere di questo fantasma. Occorre lottare contro l’idolatria del nostro tempo. Contro 236 lettera recensioni una simile illusione, e in verità contro ogni idolatria, non si può far altro che riconoscere che il desiderio non è il bisogno, accettando di vivere con lo sconcerto che simile evidenza reca con sé. D’altra parte è proprio tale sconcerto, quello del desiderio, l’obiettivo che la società dei consumi s’impegna con tutte le forze a censurare. Mimando un’affermazione di Lacan, si potrebbe riassumere così la sua parola d’ordine: ‘Consumate, si continui a consumare, il consumo non si fermi; per il desiderio ripassate’”. Giancarlo Ricci Chi è la più cattiva del reame? Figlie, madri e matrigne nelle nuove famiglie di Laura Pigozzi (et al./edizioni, Milano 2012) Il nuovo libro di Laura Pigozzi costituisce un viaggio appassionante e partecipato nell’alfabetizzazione emotiva, alla ricerca di una grammatica dei sentimenti e degli affetti della società occidentale in un’epoca di trasformazioni molari che spesso ci sovrastano. Matrigna e artista in proprio, l’autrice traccia una sua personale linea di ricerca nel panorama psicoanalitico contemporaneo, in grado di riconfigurare il posto del materno nelle nuove dinamiche familiari. Mettendo in campo l’esperienza di donna e analista, che vive nella realtà e ha assimilato tecnica e teoria al punto di dimenticarle, Pigozzi ci ha abituato, già con i libri precedenti, a uscire dalla stanza d’analisi per assolvere il compito più consono alla psicoanalisi contemporanea, quello di osservare il legame sociale illuminando intrecci e connivenze a partire dal corpo di “una donna”. Riflettendo sulle nuove famiglie – alle prese con il celeberrimo “cosa vuole una donna?” dalla posizione della matrigna – l’autrice mette a nudo quei nessi iatrogeni atti a rilevare la presenza della distruttività, proprio là dove il conformismo celebra l’amore senza condizioni della madre e di un vincolo familiare che la società italiana vuole intangibile e immodificabile. Nel solco della miglior tradizione della psicoanalisi impegnata – e basti qui rimandare ai lavori di André Green sui processi terziari e a quelli di Didier Anzieu sulla creatività nel fare artistico – anche questo terzo volume di Laura Pigozzi sonda il terreno del mito, della fiaba, della tragedia antica sino a interrogare il corpus religioso, poetico e legislativo dell’Occidente per mettere a fuoco le ripercussioni sociali, giuridiche ed etiche che il ruolo della matrigna suscita nella contemporaneità. L’assetto delle nuove famiglie poggia sulla collaborazione tra le figure genitoriali – là dove possibile anche e soprattutto della madre – e un’altra donna, quella che giunge per i figli in un secondo tempo, potrei scrivere nell’après-coup essendo colei che desidera ed è desiderata. Ben lungi dal ricoprire il ruolo di strega-orchessa o di sirena ammaliante, la matrigna della contemporaneità può rilanciare allora dinamiche virtuose in grado di veicolare un materno che non esito a definire culturale, proprio perché consapevole dei vissuti invidiosi e autoinvidiosi. Lavorando sull’elaborazione e sull’integrazione, l’autrice denunzia le trappole di un rimosso sociale che slega e paranoicizza; riconoscendo alla madre biologica il ruolo di vittima sacrificale, la società attuale si garantisce il controllo su un materno da sempre refrattario a qualsivoglia trasformazione strutturale. Alla spettacolarizzazione dell’immagine animale e asessuata della donna che genera si accompagna il nuovo mito di questa nostra surmodernità: la finzione di un’ecologia del materno (biomonitoraggio del latte, parto naturale a ogni costo ecc.) volta a coprire l’esercizio della superstizione che serve la mascherata del potere. Proprio là dove sacralizzazione e santificazione si fanno operazione di marketing, la finta emancipazione instaura, come ben argomenta l’autrice, “un nuovo matriarcato”. Ecco allora che il ruolo emergente della matrigna nelle nuove famiglie può disinnescare le trappole di una socialità effimera e posticcia e gettare le basi del “fare legame”. Con la necessità e l’urgenza di ricomporre e integrare i vissuti scissionali del singolo, il libro si inscrive nel solco della freudiana Kulturarbeit per riscoprire le potenzialità di un inconscio del corpo sociale e delle strutture familiari allargate in grado di riconfigurare l’Edipo. Un esempio particolarmente felice di questo impegno è fornito dalla rilettura del “caso Dora”: Laura Pigozzi va oltre certa ortodossia e dogmati- 237 ca lacaniane per rintracciare il ruolo della matrigna sin nell’atto fondativo della psicoanalisi, che inizia con la fuga di una donna. Con stile lieve e argomentazioni feraci il libro dipana un filo d’Arianna per uomini e donne che si riconoscano nel desiderio e nell’eros, senza per questo rinunziare alla funzione sociale di una famiglia ridisegnata alla luce di nuovi legami e nuove aperture. Partendo dalla propria esperienza, Laura Pigozzi offre le coordinate per navigare nel magma dei conformismi e dei narcisismi attuali che offuscano l’orizzonte sociale con vissuti proiettivi volti a slegare, distruggere e denegare. Decostruendo le identificazioni paranoidee di un materno arcaico – oggi riproposto in chiave ipertecnologica e spettacolarizzata – l’autrice propone una via di uscita dal labirinto di un’omologazione vorace e assolutizzante, dove vittimismo e ipercontrollo vengono rovesciati nella retorica di una biologicizzazione dell’inconscio e di un ritorno alla natura, proposta come madre assolutamente e incondizionatamente buona. Solo volgendosi al sociale la psicoanalisi contemporanea può, nelle sue punte più avanzate, cogliere le trasformazioni in atto a partire dal posto della matrigna: donna desiderante e oggetto di desiderio del padre agli occhi dei figli, la matrigna può sostenerli nel difficile e doloroso processo di crescita che comporta l’accettazione del limite e della differenza. Muovendo da questa pattuizione, diviene allora possibile fare del singolo atto creativo – il desiderio del padre e della donna come esempio da donare ai figli – il gesto fondativo di una socialità in grado 238 lettera recensioni di far parlare il passato del singolo e della specie. Il libro offre così – a partire dalla figura della matrigna – una rilettura appassionata e rigorosa del legame sociale per un’etica occidentale che punti dritto al futuro della psicoanalisi come sonda e sestante delle trasformazioni culturali. Rosalba Maletta Le mie sere con Lacan Conversazioni con Marie-Charlotte Cadeau, Marcel Czermak, Muriel Drazien, Claude Landman, Charles Melman, Jean-Jacques Tyszler (Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012) Si tratta di un testo polifonico che raccoglie notevoli interviste agli allievi diretti di Lacan, modulate tra ricordi personali e urgenze teoriche intorno alla contemporaneità. Cosa c’è in questo libro di così attuale? Innanzitutto ci restituisce il ritratto di un Lacan lontanissimo dalla stereotipia del guru eccentrico, per comporre, invece, il ritratto di un uomo singolare, spesso anche taciturno. Emerge il tratto umano della sua misura nella dismisura dei temi radicali che affronta, del rigore del suo discorso pur nell’assoluta originalità. Misura e dismisura: non a caso si tratta dei due poli implicati sia nell’analisi che nell’arte. La scelta di raccontare anche un Lacan quotidiano, intimo e “serotino”, illumina ancor di più l’incandescenza della sua teoria, lontana dal discorso universitario e del maître. Questo può portare a chi beneficia di una trasmissione lacaniana – se non la si tradisce scolarizzandola – la possibilità di produrre pensieri brillanti e audaci, battute teoriche sintetiche e folgoranti, intuizioni felici. Il libro ne è pieno. Come questa, di Charles Melman: “La scrittura è implacabile e fa a meno del consenso del soggetto”. Trattare la scrittura come un atto mancato è qualcosa dell’ordine della trovata e permette di non idealizzare la capacità creativa e di non confondere sublime e sublimazione. Non è poca cosa. Libro attuale (inattuale direbbe Nietzsche) perché mostra – in un’epoca il cui il confort è il “bene” supremo – quanto Lacan sia splendidamente inconfortevole e sovversivo. Sovversivo e non rivoluzionario, perché egli pensava che la rivoluzione, come in astronomia, ritorni all’identico, mentre nella sovversione il soggetto “passa sotto”, dice Charles Melman. Questo testo è animato da una forte vocazione per una psicoanalisi implicata con la modernità: cruciale è, per esempio, la denuncia di Jean-JacquesTyszler sul pericoloso divorzio tra psicoanalisi e psichiatria: mentre in Lacan l’interrogazione sulla follia aveva un posto d’onore, oggi non a caso il paradigma generale della psicosi, nel dsm, è diventata la schizofrenia al posto della paranoia: perché? Per imporre una lettura deficitaria della malattia mentale al posto della ricchezza del delirio. Prima di approfondire i contenuti del libro, una nota di merito va alla casa editrice, che nasce da un rinnovamento della storica Editori Riuniti a cui si è aggiunto il significante Internazionali proprio perché, cosa unica in Italia, vengono pubblicati, e distribuiti all’estero, i testi nelle lingue implicate. Il libro inizia – come in una partitura – con una Ouverture di Charles Melman che mette in moto diverse riflessioni: “Pensiamo di essere originali e ciononostante diciamo sempre le stesse cose. E se diciamo sempre le stesse cose è perché da qualche parte c’è una legge”. Sottolineare la legge come legame – in un’epoca illusoriamente trasgressiva – è un’operazione sovversiva. La legge è la trama e l’ordito su cui il soggetto può creare, è l’ancoraggio da cui può partire un’invenzione non chimerica. La legge è la tela del quadro, la sua grana, su cui mi autorizzo a dipingere. La legge è il tempo e l’architettura armonica entro cui la melodia può inventarsi. La legge è il ritmo, senza il quale il suono non ha impulso. Ora, però, neppure la legge è l’ultima parola, “non c’è mai un’ultima parola” (Melman), se così fosse saremmo nel discorso del maître e non dello psicoanalista. Se ci fosse un’ultima parola, una religione, vorrebbe dire che siamo in un godimento pieno da cui ogni essere umano è, invece, strutturalmente in esilio (un altro modo per dire questo esilio è che “non c’è rapporto sessuale”). Al contrario, il linguaggio rivela che al posto del maître viene l’oggetto di scarto, discorso che il maître rigetta. “Vi rendete conto, c’è mai stato nella cultura qualcuno che abbia osato mettere in rilevo una cosa simile?” 239 chiede Melman. E questo è il cuore della questione perché, ricorda Melman, è ciò che “permette al soggetto di essere comandato dall’oggetto del suo fantasma, l’oggetto scarto”. Paradossalmente l’ultima parola è lalangue, che è anche la prima. Melman parla di matriarcato: la lingua materna “è il fantasma di una lingua che mi lascerebbe faccia a faccia con mia madre, facendomi posto senza che io abbia nulla da pagare”. Credere che l’amore possa avere forma compiuta, non arrendersi all’impossibilità della compiutezza, si paga caro. Con la psicosi, per esempio: “La psicosi è una sorta di fallimento nel compimento di ciò che è chiamato amore”, dice Lacan a Yale nel 1975, citazione ricordata nelle ricche note del libro curate da Cristiana Fanelli, direttrice di questa collana chiamata Scilicet. Sull’impossibilità dell’amore leggiamo un Witz di Melman: “Oggi l’incontro tra un uomo e una donna dipende dalla fede, dalla speranza e dalla carità”. Come fanno un uomo e una donna a stare insieme? In effetti, ogni volta è un’invenzione che onora l’alterità e risveglia dall’illusione contenuta in quello che Melman chiama il complesso di Colombo, cioè la lingua originaria, materna, fonte di ogni delizia, che si crede possibile e rieditabile nell’incontro amoroso. La coraggiosa intervista a Czermak tocca un tabù ancora resistente: la questione dell’odio nel cuore stesso dell’amore, l’odio nella donna, nella madre. Quello delle donne che “possono scopare solo nell’odio… ci sono altrettante donne assassine che uomini assassini. Ma non sta scritto nella nostra dottrina”. E ancora: 240 lettera “Forse che la Vergine Maria sarebbe la versione rimossa del fatto che i bambini non ignorano che una donna può essere un’assassina?”. Il contributo di Marie-Charlotte Cadeau è un bel regalo sulle questioni del femminile: il Godimento Altro e il ravage, cioè il classico “né con te, né senza di te” che lega una figlia alla madre e che le donne spesso ritrovano nelle relazioni con un uomo ma anche con amiche particolarmente intime. L’abisso delle relazioni declinate al femminile ha un legame con quel Godimento Altro così affine alla voce nel suo farsi silenzio e urlo. L’urlo del quadro di Munch, ricordato da Cadeau, sembra rappresentare la femminilità della voce: “La parte femminile degli esseri parlanti è muta o canta”, dice Melman. Sempre sulla voce, notevole è la domanda che si pone Jean-Jacques Tyszler intorno alla clinica della nascita della voce allucinatoria. È la voce che viene da fuori, che il soggetto non riconosce come propria, forse non troppo diversamente da chi, spaesato, ascolta la propria voce registrata. Possiamo dire che la voce allucinatoria è una speciale enfasi, una parabola della voce come oggetto in perdita, estranea, non riconosciuta dal soggetto stesso quando si ascolta o riascolta. Tyszler si domanda: “Come si produce in un soggetto l’idea che la propria voce si emancipi al punto di mettersi addirittura a criticarlo?”. Il fenomeno resta incomprensibile e misterioso; il soggetto interroga se stesso. La voce nello psicotico è ingiuriosa, tratta il soggetto come oggetto di scarto, cioè né più né meno di quel che essa stessa è. “I giochi di recensioni parole dello psicotico non sono veri giochi: sono le lettere che si divertono da sole… C’è un arresto del rinvio significante: quella cosa gli fa segno, non sa di cosa, ma è per lui, è una significazione personale… la macchina rossa è lì per lui. C’è un divorzio tra lettera e significante… Anche nelle cliniche in cui apparentemente non ci sono voci, riteniamo che sia comunque l’oggetto voce a determinare il campo degli altri oggetti.” L’oggetto voce è traumatico perché appartiene al campo del Reale. Muriel Drazien, allieva e amica di Lacan, da lui destinata alla trasmissione della psicoanalisi lacaniana in Italia (il famoso tripode), rivisita la passione per il Reale di Lacan, quindi il nocciolo più duro e originale, più spiazzante e interessante dell’insegnamento di Lacan. Qui, al sapere come passione, si aggiunge il sapere dell’orrore, cruciale in un’epoca in cui il sintomo è sempre più in presa diretta sul reale del corpo che viene ridotto a carne. Come quella della lingua che il paziente di Drazien si mangia. “Il soggetto non integra la lingua del padre”, dice Lacan nella brillante interpretazione che, in supervisione, dà del caso. Mangia la lingua e così la riduce a cibo: forse latte? Potremmo dire che mangia la lalangue, l’ultima parola, quella che, appunto, rende muti. Drazien ricorda la stagione in cui Lacan, lasciata l’ipa, è espulso dal Sainte-Anne e dall’École Normale: incontra, cioè, quello che si potrebbe chiamare il trauma istituzionale (non meno Reale), trattamento che l’Istituzione spesso riserva ai suoi membri meno conformisti. Momento decisivo per un soggetto che può, come difatti accadde anche a Lacan, aprire un periodo di straordinari pensieri e produzioni. Altra questione capitale è la marcatura di Drazien su quanto Lacan aspirasse a far conoscere il suo insegnamento in ambiti diversi dalla psicoanalisi: Lacan aveva fatto uscire la psicoanalisi dallo studio, l’aveva portata in piazza. Questo è un insegnamento vitale per la nostra comunità in cui a volte sembra che la passione degli psicoanalisti sia, invece, fare politica “tra” gli psicoanalisti, pratica che porta amori fugaci e resistenti rotture. Sempre sulla questione del Reale, c’è un punto teorico molto importante, spesso oscuro ma reso limpido da Claude Landman: è evidente che il simbolico produce effetti sul corpo vivente dell’uomo, cioè marca il soggetto per esempio nella sua postura, nella sua voce. Tuttavia è necessario “dare una prova di ciò che del corpo vivente è suscettibile di sfuggire a questa presa dell’ordine costitutivo del simbolico”, cosa che Lacan dimostrerà nella elaborazione del godimento Altro. Il che implica che il fine di un’analisi non è enunciare il desiderio inconscio che, al contrario, resta irriducibilmente sconosciuto. La fine di un’analisi avrebbe più a che fare con un “atto etico che si fonda su questo sapere non saputo del soggetto” di cui è, in ogni caso, responsabile. Significa, come dice Lacan, “accettare di farsi zimbello (dupe) del proprio inconscio per evitare di errare” (Les non dupes errent, assonante con Les noms du père). Il soggetto è incastrato nel nodo borromeo, tirato, “stirato” dice Lacan, da ogni punto dell’intersezione. Qui sono all’opera 241 le “differenti distribuzioni del godimento” osserva Landman. Dal che si deduce che essendo la clinica contemporanea essenzialmente una clinica del godimento, la topologia del nodo RSI (Reale, Simbolico, Immaginario), è cruciale: perché è importante sapere dove – e non solo come – un soggetto gode. Chiude il libro l’intenso e personale ricordo di Jacqueline Risset – poetessa, saggista e traduttrice di Dante – che rende palpabile la passione di Lacan per la psicoanalisi che lui definisce “lampo di verità” perché la verità è sempre di sbieco, si vede e non si vede, non la si ha; è anamorfica, riguarda un breve istante in cui lo sguardo “vede” da un’altra prospettiva. Lampo, perché Lacan, come Freud, era un visivo. Qualcuno, ricorda Risset, chiese a Lacan quale fosse la vera religione. Con ironia lui rispose: “Mais la romaine! ” (in francese anche insalata cappuccina). Attraverso questi ricordi, Risset riporta in vita l’estro e il rigore che in Lacan sono mirabilmente congiunti: uno stile che mi sembra possa felicemente essere il cuore della trasmissione del pensiero di Lacan. Vorrei ricordare infine che c’è un libro nel libro: le generose note della psicoanalista Cristiana Fanelli, brillanti e precise, inaugurano un nuovo modo di pensare le note di un libro; s’inseriscono “a tempo” nel ritmo del discorso e fanno venir voglia di andare a scoprire a quali opere, pensieri e testi la curatrice ha desiderato rimandarci. Il libro è corredato dall’ottimo glossario dell’altra scrupolosa curatrice Janja Jerkov – psicoanalista e slavista – strumento indispensabile che 242 lettera recensioni rende l’opera anche un importante testo di approfondimento. Cristiana Fanelli e Janja Jerkov sono anche le intervistatrici: le loro domande hanno saputo mirare all’annodamento della teoria agli eventi, del sapere alla vita. In puro stile Lacan. Laura Pigozzi Il tempo della precarietà Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità a cura di Mario Giorgetti Fumel e Federico Chicchi (Mimesis, Milano 2012) Questo libro, pensato e curato da Mario Giorgetti Fumel e Federico Chicchi, ha indubbiamente il merito di procedere lungo l’impervio, ma fecondo, crocevia già indicato da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io e ne Il disagio della civiltà. La psicologia individuale è un’astrazione, non esiste, l’individualità è sempre implicata in legami sociali, è costituita dall’Altro direbbe Lacan. Il tema, o meglio il tempo della precarietà, viene sin dalle prime battute analizzato come prodotto storico-materiale del capitalismo all’epoca della globalizzazione e senza indugi gli autori non mancano di sottolineare come gli effetti di questo sistema “tardo-capitalista” ormai “fuori controllo” abbiano innervato, plasmato e minato al contempo le vite, le storie, le esistenze di quei soggetti che, per età, appaiono particolarmente esposti alle più recenti trasformazioni nel mondo del lavoro. Sono questi ultimi, infatti, a dover pagare un conto pesantissimo, giovani lavoratori e lavoratrici in cerca di prima o nuova occupazione che sono drammaticamente confrontati con le curiose alchimie di un mercato lasciato libero di fare piazza pulita di diritti e garanzie conquistati faticosamente nella stagione politica e sociale più conflittuale degli anni sessanta/settanta. Sottolineo qui la questione decisiva del conflitto poiché, forse per un pudore eccessivo (lo domando agli autori), viene poco nominata e analizzata nel libro e poiché proprio l’assenza di una certa conflittualità, a mio parere, condiziona non poco, tra le molte altre ragioni, la difficoltà di pensare e di assumere criticamente e soggettivamente la precarietà per invertirne gli esiti nefasti, ormai sotto gli occhi di tutti. Se Massimo Recalcati nella sua prefazione e Mario Giorgetti Fumel nell’introduzione al libro ci illustrano con chiarezza quale economia paradossale di morte e quale macchina produttivistica di iperconsumo abbia introdotto “il discorso del capitalista” (Lacan, 1972) e se, citando il Pasolini degli Scritti corsari e delle Lettere luterane e il Calvino di Una pietra sopra, ci illustrano non solo la profonda mutazione antropologica ma la più cinica degradazione e barbarie delle forme del legame sociale, spinta fino all’impossibilità di pensare o rendere possibile una “comunità dei vincoli e delle solidarietà” (Pietro Barcellona, Il ritorno del legame sociale, Bollati Bo- ringhieri, Torino 1990), il titolo che apre l’intervento di Uberto Zuccardi Merli pone l’accento su una parola – “generazione” – sulla quale vorrei, poco più avanti, provare a riflettere per evidenziarne il rapporto stretto con quell’assenza di conflitto che oggi complica non poco le prove di risposta alla precarietà. La tesi sostenuta con passione da Uberto Zuccardi Merli è diretta. Il capitalismo nella sua sventata e illimitata corsa verso la premessa e promessa di un benessere pieno, avido e ingordo al tempo stesso, ha creato di fatto povertà e precarietà senza tutele, “così vanno le cose per adesso per le persone”. Verissimo, così vanno le cose! Cioè, vanno male per le persone! La precarietà, che la psicoanalisi e la sociologia più inclini alla contaminazione dei loro saperi ci ricordano essere anche un dato ontologico e strutturale dell’esistenza umana, a oggi però ha essenzialmente il volto e il nome della sofferenza individuale e della frantumazione del corpo sociale. Con e oltre la psicoanalisi e la sociologia, siamo, tuttavia, confrontati da una parte con gli effetti tragici dell’attuale crisi di sistema e dall’altra con l’inconsistenza simbolica e immaginaria delle attuali narrazioni storico-politiche, pena il rischio forte e grave di essere fraintesi. E quindi, come non sottolineare le responsabilità della politica, dentro cui si è formata questa generazione, che è, suo malgrado, investita dalla caduta vertiginosa di questa illusoria, quanto compulsiva, ideologia di una soddisfazione conseguita 243 nel ricambio continuo di oggetti e di adrenaliche sensazioni. Qui Uberto Zuccardi Merli sembra non dare scampo, o più teneramente chance, né all’una, la politica, troppo passiva e tecnicamente astrusa con i suoi compromessi interessati da difendere, né all’altra, la generazione dei “senza futuro”, giustamente arrabbiata e indignata, che tenta di ricostruire l’ideale del comune, del Noi, ma non ha potuto ancora, dentro questo collasso inatteso (?), né analizzare a sufficienza i motivi più propri, più “intimi” della crisi né disporre di un tempo necessario per ripensare con categorie nuove quel conflitto che la generazione del Sessantotto ha posto in essere, promuovendo una rivoluzione culturale e un’affermazione dei diritti nel campo del lavoro e della vita di portata storica. E se, prosegue Uberto Zuccardi Merli, il limite allora fu politico, poiché tutti gli sbocchi immaginati e praticati si infransero e deflagrarono per i più svariati motivi (la posta in gioco toccò punti molto alti, mancandoli decisamente, la questione del potere e del consenso, le fughe in avanti dei movimenti, la repressione, i ripiegamenti e il riflusso, per dirne in modo riduttivo solo alcuni), oggi la prospettiva non è affatto migliore, se tutto e troppo in fretta sembra ridurre la protesta a una gestualità episodica e senza radicamento, senza internità, si sarebbe detto un tempo. Indignati e agitati, ma per quanto e fino a dove? Lo dico senza polemica verso i movimenti, conoscendo da dentro la generosità dei soggetti che vi fanno parte, ma è questo il nocciolo duro e ineludibile dell’attuale “scontro” tra 244 lettera diverse opzioni culturali, politiche e di sistema. Sebbene di una tale conflittualità, per lo più evocata, non si veda traccia neppure laddove viene strumentalmente e mediaticamente sovradimensionata per esprimerne la condanna e la censura. Poiché, se quanto accaduto nell’ultimo ventennio della nostra perversa democrazia ha incentivato l’imperativo capitalistico e consumistico del “Godi finché più puoi” senza limiti e se, non senza molte colpe della generazione che fu, “è venuta meno la contraddizione tra godimento egoistico e ideale collettivo, il compito che si presenta è inevitabilmente quello di non restare troppo a lungo nella posizione infantile della pura, pur se sacrosanta, protesta” (qui cito, parafrasandolo, Zuccardi). Sappiamo quanto lungo e faticoso sia il tempo della separazione e della costruzione di una propria e collettiva particolarità e di quanto invece gli individui e i gruppi tendano a ristagnare nel tempo alienato del discorso dell’Altro, come ben sottolinea Simona Bani, quando, con gli strumenti classici e mai tramontati della psicoanalisi, incoraggia la via del desiderio, richiamando all’assunzione soggettiva (etica e politica) della precarietà e aprendo, quasi in conclusione, a una domanda fondamentale. “Come può il sociale [inteso qui freudianamente N.d.A.] arrivare ad appassionarsi al desiderio, a crederci, a promuoverlo […] se il discorso del padrone lo ha prima prodotto come scarto e poi soffocato e se il discorso del capitalista dopo tende a non produrlo proprio, a distruggerlo.” Provo a rispondere con una sug- recensioni gestiva lettura che della parola “generazione” ritrovo in: Come noi coi fantasmi, lettere sull’anno sessantottesimo del secolo tra due che erano giovani in tempo di Erri De Luca e Angelo Bolaffi (Bompiani, Milano 1998). Si legge, a tal proposito, “volevo rispondere anche per lui [ovvero per il padre, N.d.A.], perché si eredita del tutto solo il debito, l’inadempienza o il torto del padre. In questo per me si è figli, discendenti da un obbligo e non spavalda primizia, cima di niente. Ora so che la nostra gioventù non andava a inaugurare niente. Non siamo stati parte di un esordio. La nostra tendenza comunista fu l’iscrizione a un compito già intrapreso dal secolo e che doveva essere esaurito da noi. Si era al mondo per terminare un’opera, sigillare un secolo visionario e antibiotico. […] L’intero accaduto [ovvero quel che ne resta, N.d.A.] mi spiega soltanto che dopo di noi nessuno ha voluto raccogliere il debito. Quelli di dopo hanno sottoscritto una rinuncia all’eredità e loro sì sono nuovi del tutto e possono inaugurare un altro tempo. Sono pionieri senza viaggio, in cerca di nuove consistenze”. Aggiungo quindi che se il re è nuovamente nudo e se questa generazione ha davvero alle spalle e non più di fronte le sirene del capitalismo, se questa generazione si incaricherà di svelare che la mistica del mercato libero da regolazioni è un sistema senza alcuna fondatezza, senza alcuna verità, se questa generazione, assumendo qualche piccola quota di questo debito simbolico, evita di cedere all’immaginaria illusione che si è figli di se stessi, allora qualcosa del desiderio non andrà perduto, qualcosa del desiderio potrà orientare i nostri passi dentro e fuori la dimensione dell’attuale precarietà. Non si tratta di fare di questo libro un manifesto politico ma se, a mio parere, non lo si vuole ridurre nella sua portata di critica assidua della contemporaneità, quale è, bisognerà provare non solo a interrogare le giustapposizioni tra capitalismo e distruzione del desiderio, tra crisi (insicurezza) economica e attacchi di panico, tra collasso del mondo del lavoro tradizionale e cadute depressive, tra evaporazione del legame sociale e solitudini suicidarie, ma cimentarsi, come suggeriscono gli autori di questa idea della psicoanalisi e della sociologia, se non la si vuole tenere chiusa negli ambiti “privati” di parola, in coraggiose “prove di risposta”. Soprattutto se non si vuole perdere in silenzio la partita e la scommessa attorno al desiderio e al cospetto inquietante di un malessere, di una pulsione di morte che circola e si mostra a più livelli e sempre più in forma di epidemia. Non mi spiegherei altrimenti la bellissima riflessione di Mario Giorgetti Fumel su Il desiderio non ha prezzo, che mette proprio fuori mercato questo bene prezioso e lo propone come grimaldello, come operatore (operaio) soggettivo e trasformativo. “Il consumismo e il suo sogno di libertà assoluta non sono che una falsa chimera.” L’autore, invece, con Lacan ci fa intravedere il rischio di una schiavitù generalizzata, il risultato parossistico di “essere tutti servi dunque rispetto all’economia, unico e vero padrone”. Se il consumo si 245 apre come effetto di una mancanza dove è la mancanza a originare il consumo, al rovescio il consumismo non ha alcun rapporto con le reali esigenze di benessere e di decoro, il consumismo chiede, esige di consumarsi per potersi automaticamente riverberare nell’incessante sostituzione di oggetti deperibili e reperibili in un avvitamento senza fine. La cifra di quanto è accaduto poi nel tempo aveva fatto già dire a Lacan nel Seminario xvii, Il rovescio della psicoanalisi, che la nostra epoca si sarebbe definita nei termini “di una mutazione che dà al discorso del padrone il suo stile capitalista”. Ho molto apprezzato la chiusura di Mario Giorgetti Fumel laddove nel panorama fosco e apparentemente senza via d’uscita sovverte lo spadroneggiamento del mercato e dell’economia dei consumi con l’appello a un’esistenza più semplice, al desiderio di tornare a poter amare e a scegliere l’incontro umano con l’altro. Se tale dimensione del desiderio fallisce e se la possibilità di una qualche “realizzazione lavorativa” decade non possiamo che rivolgere la nostra attenzione clinica e politica ai cosiddetti nuovi sintomi, a quelle patologie più insistenti nella generazione precaria. Il disagio dell’ipermodernità si rispecchia con evidenza negli attacchi di panico e la crisi economica rende le “vite di scarto” (Zygmunt Bauman): questo fa riflettere Roberto Pozzetti sull’effetto di miseria materiale (le nuove povertà) e di disinserimento sociale in cui ci si imbatte quando si decide di non domandare più nulla, quando lo stesso spazio vitale si riduce a poca cosa. 246 lettera La vita è dunque o sotto un sintomo panico o paga il prezzo altissimo della miseria e dell’esclusione sociale. Per dirla con Franco Berardi Bifo, il panico è l’effetto più immediatamente leggibile di una condizione che investe “la comunicazione, la produzione, il linguaggio a partire dalla moltiplicazione di linee di deterritorializzazione acentrica e se la percezione singolare si perde nell’indistinzione cosmica lo scontornamento del desiderio produce panico, e infine depressione”. E mentre il pubblico di casa, come ci rammenta Franco Lolli, sprofonda nella più “impalpabile” perversione da talk show televisivo e gode nella modalità, forse più decadente, cui rinvia la “figura televisiva” della “nomination”, poco fuori, nelle periferie reali e non negli schemi da reality, si possono osservare come forse non capitava dagli anni delle prime migrazioni dal sud Italia, campi più o meno attrezzati che ospitano, si fa per dire, vite straniere, escluse e recluse. Un modo come un altro, quello dei talk show e delle celebrazioni dei personaggi “alla Corona” per allontanarci dalla comprensione di una realtà ormai confusa volutamente con lo spettacolo a getto continuo, con l’addormentamento contemporaneo di desiderio inconscio e crescita di una soggettività collettiva che dovrebbe spingere chiunque, singolo o gruppo, a incaricarsi di ben altro. Verrebbe da dire che le versioni laiche, almeno così sono propenso a pensarle, di fede, speranza e carità abbiano per inedia e miopia lasciato spazio a Fede, Mora e Corona. Per recensioni dire come si può compiere un destino tragicomico laddove si è cessato per troppo tempo di interrogare le sorti “progressive” dello sviluppo a tutti i costi e dove si è dismesso colpevolmente e con troppa fretta quel bagaglio culturale e politico che aveva funzionato come dispositivo critico di un discorso, quello del primo e del tardo capitalismo, che, invece, incurante di tutto e di tutti, si è fatto sempre più invasivo e pervasivo. Forse occorre riattivarlo, nonostante tutto, aggiornandone analisi, teorie, contenuti critici e pratiche del conflitto che da più parti e troppo spesso, magari sotto traccia, si sono volute neutralizzare, come se le radici del pensiero non fossero eminentemente politiche e quindi tutt’altro che assuefatte al pensiero unico, all’omologazione e alle stereotipie culturali, all’uniforme. Federico Chicchi non manca, infatti, di rilevare che, pur all’interno di un cambiamento antropologico epocale (che lui nomina l’in/civiltà del godimento) e di una concezione del lavoro profondamente trasformata, parcellizzata e frantumata assieme alla progressiva distruzione del capitale simbolico che preservava il legame sociale delle comunità (Pierre Bourdieu), “la capacità di aspirare” delle soggettività sociali non pare essersi sopita, “ci sono sciami di lucciole che attraversano questa notte con la spavalda pretesa di voler immaginare l’avvio di una nuova e costituente fase democratica” (Federico Chicchi), se con questo, mi auguro, intenda sostenere una rottura radicale e una discontinuità profonda nell’ordine formale preesistente. Qui mi piace richiamare ancora in causa Pietro Barcellona, che non nasconde la difficoltà e la durezza dell’attuale momento storico e non immagina facili vie d’uscita dalla crisi e dal suo persistere in soluzioni tecniche a senso e pensiero unico. “Il conflitto non è la ginnastica dell’antagonismo in astratto, ma il modo concreto in cui si produce la socialità dell’ordine in cui siamo comunque inseriti, nel conflitto si verifica, si mette alla prova la tensione tra la libertà, l’irriducibilità individuale e la vincolatività del contesto sociale e delle condizioni materiali a cui è affidata la produzione e la riproduzione della vita.” Solo così si pone e si apre il problema della democrazia nel suo punto più alto. Non è forse, allora, il tema della precarietà (ben articolato dagli interventi di tutti gli autori di questo libro) e delle possibili risposte ai suoi esiti, non ultime le esperienze dei gruppi di presa di parola sperimentati in Jonas Trieste e Pesaro con i lavoratori precari e/o licenziati, che può riabilitare con forza e passione il discorso sul desiderio inconscio, sulla singolarità, su un ritorno del legame sociale e di una comunità possibile!?! Vorrei chiudere questo mio commento con un ringraziamento particolare a Daniele Benini che sceglie felicemente di intrecciare in modo fecondo il pensiero di Lacan, Habermas e Heidegger sul tema ampio e complesso, almeno per me, della crisi d’identità nel suo rapporto con la crisi economica. Non da ultimo va ringraziato per la sua postfazione Danilo Gruppi che nella quotidia- 247 na sfida alla crisi e alla precarietà ci rammenta il “lavoro come valore” e ancor di più l’importanza che le istanze sociali che vanno sotto il nome dei diritti non siano mai acquisite una volta per tutte. Non è che l’inizio… Pino Pitasi Appunti per una nuova epistemologia Psicanalisi, scienza, verità di Giovanni Sias (Zona Franca, Lucca 2012) Ci sono eserghi che introducono o ispirano il lavoro di un autore. I due eserghi che Giovanni Sias pone in apertura al suo libro sono molto di più: un programma di ricerca e una precisa direzione indicata dall’ago di una bussola. Ecco il primo esergo. È di Lacan (da Funzione e campo della parola): “Se la psicoanalisi può diventare una scienza – dato che non lo è ancora – e se non deve degenerare nella sua tecnica – e forse è cosa già fatta – dobbiamo ritrovare il senso della sua esperienza”. La frase – siamo all’inizio degli anni cinquanta – luccica ancora oggi, dopo più di mezzo secolo, trasmettendo alcuni interrogativi nell’opaca indifferenza dei nostri tempi. È una frase che interroga la contemporaneità, che mette il dito nella piaga su quei discorsi (mediatici, culturali, sociologici, universitari) ormai colonizzati da uno scientismo trionfante, dove il riferimento alla tecnica decide il 248 lettera vero e il falso, l’utile e il superfluo, il profitto e il dispendio. Siamo nell’era della misurabilità. Proprio per questo occorre un “progetto per la psicoanalisi”, come Sias auspicava già in un suo precedente libro dal titolo Fuga a cinque voci (Antigone Edizioni, 2008). In questi Appunti per una nuova epistemologia (sottotitolo) il cui titolo effettivo, Psicanalisi, scienza, verità, vuole mantenere la posta in gioco di una scommessa alta, l’autore ripercorre i fili implicati nella frase di Lacan, esplorandone trama e ordito. I nodi del dibattito sono cruciali: la psicoanalisi non è ancora una scienza; può diventarlo se ritrova il senso della sua esperienza; ha già imboccato (siamo negli anni cinquanta) la rovinosa via del tecnicismo. L’autore esplora gli orizzonti che queste tre considerazioni dischiudono. E si premura di sottolineare, approfondendo man mano varie tematiche, che simile respiro è ben differente da quella severità (così utilitariamente pragmaticista) con cui molta epistemologia si è precipitata a rispondere in modo binaristico se la psicoanalisi fosse scienza o no. Dibattiti, polemiche, accuse tra i contendenti. Pochi ponevano la questione forse essenziale: che cosa si intende per scienza? Domanda inattuale. Infatti l’ipermodernità si è impadronita in modo monopolistico di questa parola magica, riferendosi unicamente al tempo fondativo di Galileo, Newton, Copernico. No, ci sono altre vie che, passando dall’imprescindibile connessione tra soggetto e verità, conducono ad altri approcci di conoscenza del mondo. Che cosa si intende per scienza? recensioni Domanda che oggi sembra taciuta, esiliata, tanto la parola scienza si fa strada a colpi di effetti speciali imponendo i suoi trucchi. Nulla di strano se può accadere che a colpi di “nuove” tecnoscienze e “nuove” neuroscienze, la psicoanalisi venga considerata dalla “scienza forte” ormai uno scomodo reperto museale. Del resto di scienza ciascuno parla e continua a parlarne, ignorando spesso il funzionamento ideologico del suo discorso (discorso del padrone) e soprattutto ignorando il funzionamento dei laboratori di ricerca, la logica dei finanziamenti che sostengono o aboliscono programmi di ricerca, gli orientamenti relativi alla pubblicazione presso riviste “prestigiose” che sanciscono la validità di una teoria. Pierre Bourdieu ha descritto con rigore questa logica quando annotava per esempio che “l’universo della scienza è un mondo che riesce a imporre universalmente la credenza delle sue finzioni”. “Ritrovare il senso dell’esperienza psicoanalitica”, ammoniva Lacan nell’esergo in questione. Evidentemente la psicoanalisi di quegli anni – appena un decennio dopo sarebbe giunta la “scomunica” anglosassone – era agli occhi di Lacan già abbondantemente “degenerata nella sua tecnica”, e quindi ben lontana dal poter affrontare un tema così complesso come quello della scientificità. Figuriamoci oggi, vien da pensare. Tutto ciò porta a una radicale interrogazione che l’autore non smette, in queste pagine, di riformulare attraverso varie coniugazioni: quale psicoanalisi? Di quale psicoanalisi stiamo parlando? Dimenticavo, a tal proposito, il secondo esergo, dopo quello di Lacan. È una frase di Kafka: “Da un certo punto in là non c’è più ritorno. È questo il punto da raggiungere”. Dunque il tema della scientificità della psicoanalisi esige un punto di non ritorno che interroga radicalmente la sua esperienza. Le pagine di questo libro lo dicono: il punto di non ritorno coincide con lo statuto etico della psicoanalisi, condizione da cui discende la portata scientifica del suo atto, pratica che si confronta incessantemente con un’altra razionalità. “La grande resistenza che la psicoanalisi incontrava (e ancora oggi incontra) è, io credo, da ascriversi al fatto che essa si contrapponeva (e si contrappone) alla razionalità scientifica e all’ideologia scientista senza essere né intuizionista né irrazionalista, ma in quanto propositiva di un’altra razionalità con cui tutta la conoscenza avrebbe dovuto (e dovrebbe) fare i conti.” Originali in queste pagine i riferimenti ad alcuni studiosi italiani – spesso scrittori, poeti e filosofi come Gadda, Lavagetto, Machiavelli, Pontiggia, Ranchetti, Spirito – di sicuro poco “accreditati” in materia di scienza. Anche questa è la testimonianza di una forma di laicità. In tal senso vi sono pagine abbastanza perentorie. E giustamente. Per esempio la notazione secondo cui gran parte della prima generazione di psicoanalisti, a partire dagli anni venti ma soprattutto dopo gli anni cinquanta, si sia orientata prevalentemente verso una dimensione “terapeutica” che, assumendo alcuni princìpi psichiatrici, rinunciava allo spirito inventivo e pionieristico che 249 aveva guidato l’avventura freudiana. Avventura – ricordiamolo – che fin dall’inizio aveva dovuto farsi largo denunciando “l’oscurantismo scientifico degli eruditi” e “l’autorità della scienza esatta”. Le critiche verso la psicoanalisi nei decenni successivi si sono radicalizzate, “soprattutto con le modificazioni della modernità avvenute nel dopoguerra, quando il pensiero scientifico non era più rappresentato dalla meccanica e dalla fisica in generale, ma dalla medicina e dove tutte le altre scienze acquistavano valore solo se considerate di ausilio alla medicina”. In tal senso la parabola di Lacan resta esemplare: dalla psichiatria alla psicoanalisi, la rilettura di Freud, la “scomunica”, la fondazione dell’École e poi, potremmo dire, l’invenzione di un’altra psicoanalisi (quanto meno rispetto a quella esistente al suo tempo). Lo spostamento da lui operato, privilegiando il nodo tra scienza e verità, certo risultava parecchio stretto ai criteri epistemologici dell’epoca. “Si può agevolmente intendere” conclude Sias “come l’epistemologia non sia immediatamente applicabile alla psicanalisi. Se si intende per epistemologia quel ‘parlare sulla scienza’, nel tentativo di definire e separare ciò che è scienza e ciò che non lo è, a partire dai contenuti stessi di una pratica scientifica e dai suoi dati sperimentali (verificabili, falsificabili, osservabili, riproducibili, e così via), occorre registrare, per la psicanalisi, la sua totale estraneità a un simile modo di intendere il processo scientifico.” Giancarlo Ricci 250 lettera Racconti analitici di Sigmund Freud (Progetto editoriale e introduzione di Mario Lavagetto, note e apparati di Anna Buia, traduzione di Giovanna Agabio, illustrazioni di Lorenzo Mattotti, Einaudi, Torino 2011) Con l’ideazione e la cura dell’elegante volume di Sigmund Freud, Racconti analitici, il critico freudiano Mario Lavagetto ha compiuto un autentico atto innovativo, che come tale non può che aprire il campo alla riflessione. L’atto: Sigmund Freud è uno scrittore, un grande scrittore del Novecento. Atto decisivo, non lanciato però ex abrupto, ma fatto scaturire da un lungo e ormai magistrale percorso critico. Un atto che non è certo al riparo da rischi, primo su tutti quello di apparire tanto innovativo quanto banale, mera formalizzazione paratestuale delle doti stilistiche di Freud, già universalmente note. È tuttavia sufficiente leggere l’indice e le prime righe del saggio introduttivo per capire che non si tratta solo di questo, di una ridenominazione, o di un’estensione logica applicata ai “casi clinici” – divenuti ora anche “racconti analitici”. Il progetto editoriale è infatti il prodotto di un approfondito lavoro critico, che ha determinato la formazione di un corpus di testi eterogeneo, nel quale, oltre ai casi clinici più noti, sono inclusi anche il saggio sulla Gra- recensioni diva di Jensen, quello su Leonardo, e altri materiali, come la lettera a Martha (del 1883) in cui Freud cerca di spiegare il suicidio dell’amico Nathan Weiss, e, tradotto integralmente per la prima volta in italiano, il Diario dell’uomo dei topi. Nel saggio introduttivo, Lavagetto illustra e motiva il suo progetto attraverso un’appassionante ricostruzione filologica dei problemi narratologico-epistemologici che Freud, nella necessità di mettere a punto un metodo capace di dare una forma ai suoi casi clinici, ha progressivamente incontrato nello sviluppo delle sue teorie. Il critico ci mostra così come di fronte alla povertà dei referti della scienza psichiatrica, il padre della psicoanalisi sia stato costretto a fare appello alla letteratura, alla sua giovanile vocazione letteraria. Una necessità scientificamente imbarazzante, fardello di un intero percorso teorico, che ha obbligato Freud a reinterrogarsi più volte sul posto da assegnare alla psicoanalisi nella topografia del sapere. Lavagetto ci conduce così nelle profondità della relazione ambivalente di Freud con la (propria) scrittura letteraria, la quale, lungo lo straordinario cammino d’invenzione della psicoanalisi, lo ha condotto (lui, amante dei testi classici) a inoltrarsi negli stessi ignoti territori formali fatti esistere, negli stessi anni, da autori come Proust e Joyce, Kafka e Conrad. Inizialmente, per la stesura degli Studi sull’isteria, Freud rivendica la legittimità di una scrittura del caso clinico da leggersi come una novella, in un paradigma ancorato alle soluzioni formali del diario e del racconto naturalistico, considerate le migliori per servire la necessità scientifica del resoconto oggettivo. Posto davanti alla scrittura del caso di Dora, Freud giudica però insufficienti queste soluzioni. È così obbligato ad “anteporre alla logica di un resoconto fedele quella della dimostrazione”, cedendo campo alla letteratura, alla sua libertà diegetica, alle sue velature. La barriera tra scienza e letteratura comincia a sfaldarsi, per crollare nell’analisi della Gradiva di Jensen. Abolendo il confine tra personaggio clinico e personaggio letterario, Freud apre la strada a un avvicendamento: non è più la letteratura a dover servire la scienza, “è tutto il contrario”, scrive, “la scienza non regge di fronte all’opera dello scrittore”. Posizione fondamentale, che aprirà il campo all’idea di una psicoanalisi implicata alla letteratura, ma che non è un approdo definitivo. Lavagetto ci presenta un Freud che, in seguito, soprattutto di fronte ai casi dell’Uomo dei topi e dell’Uomo dei lupi, è alle prese con nuovi e più complessi problemi. Tra personaggio clinico e personaggio letterario sembra persistere uno scarto: “è convinzione di Freud che nonostante gli ingegnosi stratagemmi narrativi messi in atto di volta in volta […] nessuna lettura potrà mai supplire all’esperienza o recuperare quanto delle ‘singolari bellezze del caso’ scompare, si dissolve inevitabilmente quando si cerca di trasferirlo su carta”. Questo scarto si manifesta con tutta la sua forza nel caso dell’Uomo dei lupi, nell’incontro con la scena dei lupi sull’albero. Di fronte alla mancata conferma, da parte del pa- 251 ziente, dell’interpretazione che vede nella scena dei lupi una sostituzione della scena primaria, Lavagetto ci presenta la necessità, per Freud, di una “legittimazione teorica del pezzo mancante”, chiedendosi: “è possibile mettere fra parentesi la realtà di quel pezzo e trascurare la differenza […] tra una ‘fantasia’ […] e un ‘ricordo’?”. Nella capacità di Freud di “lasciare la cosa in sospeso”, il critico non legge un rischio per la tenuta delle sue teorie, quanto “una vittoria della probità del suo operato e, ancor più, una vittoria della sua arte di narratore”. La filologia lavagettiana incontra così la riflessione lacaniana, che si dipana aggrovigliandosi proprio attorno a quel pezzo mancante: “[l]a realtà dell’evento è una cosa, ma c’è anche qualcos’altro: la storicità dell’evento […]. È proprio questo a costituire l’importanza essenziale della discussione di Freud attorno all’evento traumatico iniziale, che fu ricostruito molto indirettamente grazie al sogno dei lupi”. (Jacques Lacan, Seminario su “L’uomo dei lupi”, 1952, pp. 6-7.) Vediamo così che due grandi rischi di questo progetto editoriale – confermare da un lato le critiche alla scarsa scientificità della psicoanalisi, e dall’altro, datandola al contesto culturale tra Otto e Novecento, la sua presunta obsolescenza – sono fondati solo se si asseconda una concezione debole, rappresentativa, della letteratura. Lavagetto ci restituisce un’opera di Freud che, in quanto autentico prodotto di scrittura in cui un reale è seriamente in questione, si sottrae alla temporalità storica per entrare nella dimensione inesauribile 252 lettera recensioni dei grandi testi; un’opera che ricorda allo psicoanalista l’importanza di un’altra facies dell’implicazione della psicoanalisi alla letteratura: la letteratura non solo come avanguardia operativa, luogo di sedimentazione di saperi preziosi da ascoltare e rielaborare, ma anche come bagaglio di tecniche, stili e modelli, indispensabili per poter dare una forma alla clinica, per poterne dire nel modo più etico – seppure a mezzo – le verità. Alberto Russo L’epoca dell’inconshow Dimensione clinica e scenario sociale del fenomeno borderline di Franco Lolli (Mimesis, Milano 2012) All’ultima fatica letteraria di Franco Lolli, L’epoca dell’inconshow. Dimensione clinica e scenario sociale del fenomeno borderline, sono personalmente convinto si possa attribuire l’utilità e il valore che, per usare un’analogia, appartengono a quelle invenzioni della tecnica che hanno modificato l’esistenza umana, potendone facilitare il corso. Più d’ogni altra, ho in mente la bussola. Beninteso: non che prima dell’invenzione della bussola l’uomo non navigasse, solo lo faceva attendendo che la volta celeste gli illuminasse la via. E dunque: non che prima di questo libro lo psicoanalista non trattasse, nella sua pratica, le cosiddette patologie del limite, ovvia- mente, solo lo faceva senza l’ausilio di uno strumento utile e altamente chiarificatore quale propriamente è questo lavoro di Franco Lolli. Vorrei soffermarmi su tre qualità salienti che definiscono l’estrema pregevolezza di questo lavoro. Individuo il pregio maggiore di questo libro nel saper indicare al clinico una rotta possibile per portarsi fuori da quel mare caotico, increspato da definizioni inerenti alla diagnosi borderline, che è l’odierno universo psy. Borderline come “quarta struttura” – oltre a nevrosi, psicosi e perversione. Borderline come possibile “terra di mezzo” – area psichica di continuità tra nevrosi e psicosi. Borderline come “diagnosi di comodo” – sorta di cestino al quale destinare il paziente “difficile”. Attraverso una cartografia precisa, facendo cioè sapiente uso di quei punti cardinali che la teoria e la clinica lacaniana offrono, Lolli individua i fondali sicuri ai quali assicurare un saldo ormeggio alla dimensione borderline. Scrive Lolli: “[…] la diagnosi di soggetto borderline – nella quale la psichiatria e la psicologia contemporanee tendono, come vedremo, troppo frettolosamente a rifugiarsi di fronte alla complessità delle attuali configurazioni patologiche – rischia di sottovalutare l’aspetto perverso che caratterizza la maschera border, aspetto che va, invece, interrogato e decostruito affinché la struttura di personalità possa emergere dalle nebbie del fenomeno osservabile” (p. 10). La diagnosi di disturbo di personalità borderline, di cui non solo la psichiatria fa sovente utilizzo, rischia cioè di immergere il paziente in un’acqua densa e opaca. Per non lasciar affogare il soggetto è necessario, lacanianamente, recuperare la struttura di personalità sottostante, tenuta cioè celata, occultata, resa difficilmente leggibile dal fenomeno sintomatico. Per questo motivo indicherei come pregio maggiore di questo lavoro il suo rigore etico rispetto alla clinica. Qualità che riassumerei nel saper preservare la soggettività del paziente, recuperando la particolarità del singolo smarrita nell’universale dell’etichetta diagnostica. È per questo che l’autore definisce non tanto un soggetto quanto una società borderline. Ancora, infatti, possiamo leggere: “La società borderline è la società che promuove e favorisce una nuova modalità esistenziale la cui estremizzazione patologica si incarna nei soggetti che la psichiatria definisce borderline” (p. 11). A essere border è dunque la società. Società paragonabile a quel mare tempestoso dei consumi mirabilmente descritto da Italo Calvino, società della diffusione illimitata delle immagini, del narcisismo dilagante, del superamento-abbattimento di ogni limite, epifania senza sosta, viaggio senza approdo, esistenza liquida in cui si trova a cercare di galleggiare il soggetto contemporaneo. “Il fenomeno border è allora, in questo senso, un sintomo dell’Occidente […]” (p. 19). Ecco perché, con il suo connaturato incitamento al consumo e all’assenza di limite, il discorso del capitalista – che Jacques Lacan teorizzava a metà degli anni settanta – rappresenta l’humus ideale per il proliferare di condotte borderline. 253 Ma se il soggetto borderline è il prodotto di una società border, chi ritroviamo nello studio del clinico, chi è quel paziente che – cessato di definirlo borderline – ascoltiamo in seduta, vediamo nei SerT, incontriamo nelle strutture dedicate ai cosiddetti nuovi sintomi che operano sul territorio? Ecco, è questo il vero cuore inerente alla teoria della clinica psicoanalitica che Lolli finalmente sviscera in maniera precisa. Motivo per il quale definirei il secondo maggior pregio di questo lavoro la precisione e il rigore teorico-clinico che s’incontrano fra le righe del testo, in un intrecciarsi di teoria e clinica, unite a quella particolare curiosità che l’autore dedica alla “fenomenologia del quotidiano”. A partire, infatti, da quello che Lolli definisce come lo “speciale osservatorio” di cui lo psicoanalista dispone nel quotidiano incontro con la clinica dei nuovi sintomi, è possibile fare luce sulla natura e sulle – paradossali – esigenze della condotta borderline. Nella sua pur patologica dimensione, infatti, la condotta del paziente borderline si pone per essere una soluzione perfettamente adattata, e per questo in fondo semplicemente adatta, in risposta a quella perversione generalizzata che imperversa nella società contemporanea. Un’ulteriore difficoltà si pone perciò al clinico e alla sua capacità di riconoscere, dietro a questa assurda forma di accomodamento del paziente ai canoni perversi del vivere contemporaneo, la presenza di un quadro patologico anche grave. Al punto che: “La perversione che è al fondo del fenomeno borderline – a livello sia individuale che sociale – si profila, 254 lettera pertanto, come soluzione estrema per scongiurare il rischio di precipitare nel vuoto psicotico” (p. 79). Questo, a ben vedere, non significa che dietro a ogni condotta borderline si nasconda un soggetto perverso o psicotico, quanto il fatto che, per usare la precisione e la chiarezza delle parole dell’autore: “Primato dell’oggetto e del godimento, instabilità del desiderio e della rimozione, caduta dell’ideale e ipertrofia dell’io, predominio dell’immaginario e difficoltà di soggettivazione, prevalenza del vissuto di vuoto e spinta all’eccesso, assenza di limiti e sconfinatezza pulsionale, frammentazione del legame sociale, sono i fattori psicopatologici che il soggetto borderline presenta in maniera acuta ma che, in forma mitigata quanto diffusa, contraddistinguono il contesto sociale contemporaneo e consentono di etichettare come perversa la maschera che indossa; maschera che copre e nasconde la struttura di personalità sottostante che – come si ha spesso modo di constatare in fasi avanzate del trattamento – una volta liberata dal camuffamento sintomatico, non necessariamente risulterà perversa” (p. 80). Ma c’è un terzo pregio, accanto ai due già menzionati. Lo indico immediatamente in una particolare vena letteraria che si apre all’indagine di quei fenomeni della quotidianità socioculturale, e soprattutto massmediatica, del nostro paese, che rende questo libro assolutamente originale. In questo lavoro s’intersecano, infatti, la prospettiva più classica della psicoanalisi, attraversata dalle teorizzazioni più recenti, per arrivare a un confronto con la recensioni sociologia culturale e le scienze della comunicazione. Perciò, leggendo questo libro, il lettore potrà scoprire in che modo e perché il fenomeno del berlusconismo assieme al “fenomeno” Fabrizio Corona, la saga cartoons dei Simpson accanto ai suv (Suburban Utility Vagon), e ancora la nomination nei realities o la réclame televisiva, possano arrivare, pur nella loro assoluta eterogeneità, a interessare la clinica psicoanalitica e a indicare qualcosa di prezioso sia allo psicoanalista sia allo studioso ma, soprattutto, rappresentando un’attrattiva certa anche per la semplice curiosità di chi abbia interesse a sapere in quali “diavolo” d’acque stiamo navigando oggi. Mario Giorgetti Fumel Vuoto e inaugurazione La condizione umana nel pensiero di María Zambrano e Jean-Luc Nancy di Salvatore Piromalli (Il Poligrafo, Padova 2009) Salvatore Piromalli ci invita a un percorso di lettura dei lavori di María Zambrano e di Jean-Luc Nancy attraverso alcuni concetti-figure che, pur concepiti all’interno del pensiero filosofico, proprio per come e da dove sono costruiti, offrono aperture e confluenze molto interessanti per lo psicoanalista. Possiamo infatti riconoscere qualcosa di prossimo al lavoro psicoanalitico in quel situarsi alla frontiera, al punto di intersezione tra vita e pensiero, tra esistenza e riflessione che, per stessa ammissione di Piromalli, costituisce la spinta, l’origine del moto che ha portato alla scrittura di questo libro. È la necessità etica di articolare quella soglia, di abitare quella frontiera che ha provocato la scrittura, a dar corpo ai concetti-figure che sono i fili portanti della trama del pensiero che vi si dipana. Figure sguardo, angolature, che approssimano il pensiero degli autori nel tentativo, ben calibrato, di fermare almeno per un attimo il fluire di un pensiero vivo e difficilmente, per fortuna, classificabile. Per la precisione sono tre concetti-figura per ciascun autore: il poeta, l’esiliato, la pietà, l’essere abbandonato, la libertà, l’essere singolare plurale. Figure che vengono messe in tensione tra loro sullo sfondo di un’idea potente: è il patimento del vuoto a inaugurare la possibilità del soggetto di pensarsi e di esserci. Il vuoto, la fecondità del vuoto viene declinata in tre modi. Il vuoto esistenziale che riguarda le figure dell’esilio e dell’abbandono: figure metaforiche in grado di evocare l’assoluta nudità di ogni esistenza presa nella sua inermità, sospesa all’impossibilità di sentirsi a casa propria nel mondo, sospesa all’impossibilità di fare uno con se stessa. Il vuoto metafisico, scenario apocalittico conseguente all’annuncio della morte di Dio, apre a un’esperienza di orfanità e di abbandono radicali, a un’assenza di garanzia sulla propria esistenza che venga dall’Altro. Il vuoto epistemico conoscitivo, come effetto del- 255 la consapevolezza dell’insufficienza di ogni categoria conoscitiva a dar conto della realtà, insufficienza del simbolico, diremmo noi lacaniani, a ricoprire senza strappi il reale. La questione si fa ancora più interessante nel momento in cui l’autore prende nettamente posizione a favore di un’intrinseca fecondità di questo vuoto in quanto luogo generativo del soggetto. Il soggetto non appare in quanto opposizione dialettica al vuoto, ma piuttosto come effetto dell’esperienza del vuoto, esperienza vissuta e attraversata fino in fondo. Assunta in modo radicale, l’esperienza del vuoto nelle sue tre declinazioni conduce alla possibilità di un varco, a una apertura essa stessa inizio e inaugurazione. La lettura del testo offre immagini particolarmente avvincenti e stimolanti. Su tutte ve ne propongo una. La figura dell’esiliato di Zambrano e quella dell’essere abbandonato di Nancy, vengono messe in dialogo tra loro come due voci di un’unica partitura. “L’esiliato è dunque ogni uomo e ogni donna, nella sua costitutiva sospensione tra la nascita biologica – il venire alla luce originario – e la possibilità di un percorso incessante di rinascita di sé.” L’esiliato è colui che vive al limite e allo stesso tempo incarna il limite della condizione umana. È la sua un’esperienza che diventa una figura della condizione umana, incarna lo straniero in quanto apolide che abita in ciascuno di noi, e su questo passaggio incrocia la figura dell’essere abbandonato di Nancy. La morte di Dio lascia una traccia, un alone di assenza attorno al quale l’uomo, orfano e dunque senza un 256 lettera recensioni destino predeterminato, può aprirsi agli infiniti possibili. Qui si incontra quella regione psichica accessibile solo attraverso una decostruzione radicale dell’Io, una spoliazione dalle identificazioni, assumendo il rischio di perdersi per aprirsi alla possibilità di un riscatto di ciò che intimamente sentiamo come proprio ma mai del tutto dominabile. È il percorso di un’analisi ma anche, per certi versi, il cammino dell’esperienza estatica che trova nel mistico una sua manifestazione radicale ma che in quanto esperienza è accessibile, almeno fugacemente, a ogni soggetto anche urbano, nel suo lasciarsi attraversare da quella gioia eccessiva che Fachinelli in La mente estatica aveva indicato come l’altra faccia del godimento. Esperienza che noi psicoanalisti facciamo fatica a trattare e a formalizzare perché spesso ci lasciamo schiacciare dalle parole denigratorie di Freud sul sentimento oceanico, in quanto lette solo come ritorno all’atavico, all’ineffabile come primordiale presimbolico. L’esilio e l’abbandono come figure della condizione umana aprono a una particolare concezione di passività che offre la possibilità al soggetto di deporre il suo presunto potere di cattura assoluto sulla realtà a favore di un’apertura, un’accoglienza, capace di ricevere il senso in quanto evento inatteso, non più pienamente dominato, non più costruito a partire dalla razionalità operativa. Un senso che si fa luogo del possibile a partire dall’incontro con il vuoto che ospita. Mauro Milanaccio Soggettività smarrita di Federico Chicchi (Bruno Mondadori, Milano 2012) Intervista a cura della redazione di lettera. 1. L’attuale crisi finanziaria, “cifra pervertita della produzione del valore contemporaneo”, viene analizzata nel libro come lo specchio di un sintomo ben più ampio e articolato che annoda ambiti simbolici differenti. Parli di schizofrenia sociale, di uomo senza inconscio, di un’anomia generalizzata, di disgregazione dei legami sociali: da dove iniziare? Dopo una stagione ideologica che si è consumata nel dibattere sul primato della struttura o della sovrastruttura, dell’economicismo o dell’antieconomicismo, quale può considerarsi, in modo sintetico, la questione più urgente, il filo che annoda e ingarbuglia la matassa? È sufficiente dire che a “farla da padrone” è il “discorso del capitalista”? L’attuale crisi economica, la sua natura finanziaria e la sua crescente asprezza sociale ci consegnano la cifra tonda della crisi del nostro tempo. Il libro, oltre che tentare di chiarirne le profonde ragioni strutturali, cerca di indagare da vicino la dimensione soggettiva della crisi. Per dirla in altri termini, Soggettività smarrita ha inteso prima di tutto tematizzare, da una prospettiva interpretativa peculiarmente transdisciplinare, il reale del capitalismo contemporaneo. La mia assunzione di partenza è stata la convinzione che il nostro presente fosse caratterizzabile come una vera e propria crisi di civiltà. Lo smarrimento del soggetto sarebbe in tal senso la lettera fenomenologica di questa piuttosto evidente, mi pare, apocalisse culturale della modernità, per dirla con un concetto di Ernesto De Martino. Il discorso del capitalista così come Lacan lo aveva descritto a Milano all’inizio degli anni settanta è molto astuto ma destinato a scoppiare. Questa definizione, oltre alle precise caratteristiche analitiche che tale discorso presenta, è stata per me un momento fondante del volume ma al contempo, certamente, non lo esaurisce teoreticamente. In questo libro, infatti, ho tentato di articolare assieme, non senza alcuni inevitabili rischi metodologici, Lacan con Marx e Foucault, la psicoanalisi con il postoperaismo italiano, Freud con Bauman, solo per citare alcuni degli intrecci teorici del volume. Per quanto riguarda più propriamente il merito teorico due sono invece gli assi attorno ai quali ho cercato di organizzare la mia argomentazione: il tema della reificazione/perversione tra soggetto e oggetto, e il tema della libertà come retorica fondamentale per la disposizione della soggettività all’interno del discorso capitalista. E su questi temi i lavori di Massimo Recalcati sono stati per me un riferimento inaggirabile e importantissimo. 2. Una delle tesi centrali del libro è la tematica dell’inciviltà del godimento, che mi sembra una formulazione molto efficace. Essa apre una prospettiva assolutamente nuova nel senso che segna un punto di svolta, una “mutazione antropologica”, rispetto a pochissimi decenni fa, quando la spinta sociale puntava semplicemente all’accesso al godimento. In che misura questo tema dell’inciviltà del godimento costituisce uno spartiacque decisivo ed essenziale per il nostro futuro? 257 Sì, in effetti, nel volume propongo, anche per tentare un effetto perturbante nel lettore, l’espressione inciviltà del godimento. Ci tengo però a precisare fin da subito che il mio intento non è stato per nulla quello di demonizzare il godimento come tale, come se questo fosse sempre e comunque un momento meramente distruttivo e mortifero dell’esperienza soggettiva. Quello che mi premeva denunciare, seguendo qui alcune suggestioni di Slavoj Žižek, era invece l’imperante generalizzazione della spinta a godere a ogni costo, accompagnata dal rischio di rendere evanescente il limite che la normatività intrinseca alla relazione sociale porta necessariamente con sé. Questo imperativo osceno, oltre che consumare e distruggere desiderio, produce una sorta di delirio autistico nel soggetto, all’interno del quale non trova cittadinanza che una cinica, perversa e maniacale vanità egoica. E questo non è altro che il programma antropologico dell’inciviltà neoliberale. Programma che va a mio avviso contrastato senza titubanza alcuna. In particolare è nel quarto capitolo che introduco il tema dell’inciviltà del godimento e definisco il contemporaneo come quella fase storica in cui la civiltà così come la avevamo (anche freudianamente) intesa nella modernità, è definitivamente tramontata. Il capitalismo contemporaneo e postfordista abbisogna, infatti, di inscrivere in suo seno soggettività creative, comunicative e indisciplinate, questo al fine di favorire la produzione di valore nelle nuove filiere immateriali e reticolari del capitalismo cognitivo. La precarietà e il governo 258 lettera dei desideri sono i dispositivi di regolazione che si sostituiscono alla rigida azione sovranitaria e disciplinare del moderno. L’analisi del potere nel capitalismo e contemporaneamente l’analisi dei nuovi processi di soggettivazione che si producono in resistenza a esso, rappresentano, allora, un tema fondamentale per poter costruire una nuova e radicale prassi collettiva di messa in forma di una nuova democrazia. 3. Il tuo libro dimostra la fecondità dell’incontro tra sociologia e psicoanalisi, forse proprio grazie alla consapevolezza teorica che l’individuo e la società sono strutturalmente implicati e grazie al fatto che l’inconscio si effettua in modo “estroflesso” rispetto all’individuo. Radicalizzando questa notazione: in che misura possiamo affermare che oggi il lavoro del sociologo non può fare a meno di avvalersi della psicoanalisi per analizzare l’attuale disagio della civiltà? La questione dell’incontro tra sociologia e psicoanalisi inzuppa il volume da capo a piedi. Se ne sente, credo e spero, l’odore. Psicoanalisi e sociologia, ma anche antropologia e filosofia, e tutte le altre scienze sociali con loro, se vogliono sopravvivere alle attuali profonde trasformazioni dei fenomeni sociali, credo, anzi sono convinto, che debbano rinnovarsi attraverso una inquieta e incessante ricerca di reciproci (senza egemonie), coraggiosi e fecondi incontri transdisciplinari. Questo naturalmente se si vuole tentare di comprendere qualche cosa che riguarda il Reale del contemporaneo. Tale questione nel mio volume arriva ad assumere uno recensioni statuto, direi, etico. Nel senso che si vuole assumere la transdisciplinarietà come una pratica oggi assolutamente necessaria per produrre un sapere che non sia autoreferenziale e ripiegato sui problemi di coerenza interna dei diversi paradigmi implicati. Questo in primo luogo perché i recinti disciplinari così come sono stati pensati nella scienza moderna non sono più efficaci euristicamente, in quanto non riescono a tener conto delle sempre più intense porosità e coalescenze tra le diverse sfere del sociale, e in secondo luogo perché questi stessi confini rispondono a un deleterio criterio di differenziazione funzionale che esercita una perversa ed eccessiva frammentazione/specializzazione dei saperi. La sociologia infine e in particolare secondo me oggi non può più fare a meno della psicoanalisi perché quest’ultima le consente di osservare in modo molto più efficace e dirimente la dimensione normativa e produttiva di soggettività della relazione sociale. D’altro canto la psicoanalisi deve poter assumere e trattare con maggiore consapevolezza i rapporti tra i diversi modelli di azione sociale (e le forme istituzionali che ne derivano), le cangianti forme organizzative del potere e il comportamento psicopatologico che la pratica clinica permette di individuare e di evidenziare. Ci si dimentica troppo spesso quanto, fin dalla loro fondazione, che risale per entrambe le discipline più o meno alla seconda metà del diciannovesimo secolo, sociologia e psicoanalisi si siano continuamente influenzate e suggestionate reciprocamente. 4. Parafrasando Melman quando afferma che la nostra società ormai non è più in grado di trasmettere cos’è la morte, potremmo dire che oggi non sappiamo più trasmettere che cos’è il godimento in quanto lo immaginiamo ormai senza più limite? Non riaffiora allora, in questa incapacità, un’altra versione della morte, più sottile e più insinuante, una versione mortifera dello statuto umano? Ci troviamo, forse a nostra insaputa, in una nuova versione (biotecnologica e biopolitica) del nichilismo? Questa è davvero un’annosa e spinosa questione. Ma desidero qui, e il libro si è posto questo stesso obiettivo, resistere a una lettura tutta pessimistica del presente. Ci troviamo a mio avviso di fronte a un delicatissimo e per certi aspetti assai rischioso bivio storico. La fine della modernità, la crisi ineluttabile del suo ordine simbolico e la crisi della presenza che ne deriva, spinge il godimento a determinarsi come l’unico e illusorio motivo immanente per cui valga la pena continuare a vivere. Il tema del godimento, in questo modo, tende a fare tutt’uno con la vita, senza scarti e senza freni. In questo movimento di generalizzazione del godimento si perde però la responsabilità del soggetto verso il mondo che abita; s’interrompe, in modo tanto tragico quanto per certi versi farsesco, il continuum che lega, o dovrebbe legare, l’uno all’altro in modo indissolubile. Personalmente credo che, oggi come oggi, il limite al godimento passi dalla riappropriazione condivisa di uno spazio di progettazione sociale del vivere in comune. In altre parole passi dalla possibilità di rinnovare lo spazio e il discorso politico al di là 259 delle macerie del moderno. La strada per tornare indietro, infatti, non è più percorribile. Non è più auspicabile innalzare totem cui identificarsi e conformarsi in modo irriflesso e subordinato; anche se resta alto il rischio di tornare a emularne in forme inedite certe caratteristiche autoritarie se non addirittura dittatoriali. Dobbiamo quindi fare in modo che prevalga un desiderio di costruzione di una nuova democrazia, di una nuova legalità del vivere in comune. Mi piace allora in questo senso concludere questa intervista allo stesso modo in cui termina il mio libro, e cioè con le seguenti parole di DidiHuberman: “dire sì nella notte attraversata da bagliori, e non accontentarsi di descrivere il no della luce che ci rende ciechi”. Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione – Vol. i di Massimo Recalcati (Raffaello Cortina, Milano 2012) In occasione della pubblicazione dell’ultimo saggio di Massimo Recalcati, la redazione di lettera ha rivolto alcune domande all’autore. Perché questo libro oggi? Quale contributo intende offrire nel panorama delle pubblicazioni su Lacan e sul suo insegnamento? Ci sono due ragioni che mi hanno spinto a radunare vent’anni di lavoro su Lacan di cui oggi viene pubblica- 260 lettera to, lo ricordo, solo il primo volume che sarà seguito da un secondo interamente dedicato alla clinica psicoanalitica. La prima ragione è intima, personale. Sentivo la necessità di concludere il mio lavoro teorico sul testo di Lacan nel momento in cui la mia ricerca si sta spingendo in direzioni più autonome, meno vincolate alla filologia e alla dottrina del maestro. Preciso: io resterò per tutta la vita lacaniano. Il vero amore è “per sempre”. Tuttavia, faccio mia l’indicazione fondamentale che Lacan dava ai suoi allievi: “fate come me, non imitatemi!”. Penso, parlo, scrivo, insegno, analizzo non avendo Lacan come modello. Sarebbe assurdo farlo, del resto. Questo non significa nemmeno che con questo libro ho saldato il debito che mi lega a Lacan una volta per tutte. Noi siamo sempre le nostre radici. La mia ricerca, che vuole essere lacaniana, o, se volete, postlacaniana, sarebbe semplicemente impossibile senza Lacan. Dunque nel momento in cui mi sono spinto nei miei ultimissimi lavori – penso in particolare a Cosa resta del padre? – in una direzione che non so se Lacan avrebbe condiviso, l’esigenza di scrivere un’opera per me ricapitolativa sull’insegnamento di Lacan, mi si è imposta come una sorta di dovere misto all’amore. Niente di obbligatorio; un segno di riconoscenza. La seconda ragione è di ordine culturale. In Italia abbiamo lottato in molti per dare diritto di cittadinanza all’opera di Lacan, la quale era circondata da pregiudizi e incomprensioni in gran parte dovuti al fatto che la sua recezione italiana, avvenuta recensioni nel corso degli anni settanta, è stata fortemente condizionata dal “fenomeno Verdiglione” e da tutto quello che tale fenomeno ha prodotto. Ora non siamo più in quel tempo. L’opera di Lacan è riconosciuta come un classico, nel senso che Italo Calvino attribuiva a questo termine: diventa classico un testo che viene stimato come “inesauribile”. Rimasi colpito qualche anno fa quando un mio analizzante mi regalò una raccolta di scritti di Lacan pubblicati nella collana dei “Meridiani” di Mondadori… Era il segno irreversibile di una vittoria. Adesso siamo in un tempo due. Il problema non è più quello di dare cittadinanza a Lacan, ma il conflitto delle interpretazioni. Quale Lacan? Di quale Lacan parliamo quando parliamo di Lacan? Cosa ci interessa del suo insegnamento? Oggi non è più il tempo della cittadinanza, ma delle letture di Lacan. E questo libro, che pure vuole offrire al lettore un quadro ampio dei principali concetti che hanno popolato il suo insegnamento, vuole dare un contributo a questa nuova fase proponendo una certa lettura di Lacan. In più occasioni lei ha parlato di letture diverse di Lacan, riconducibili a periodi storici diversi e anche a lettori diversi. In questo testo ci propone una sua lettura. Qual è la sua specificità? Quanto è dovuta alle contingenze che la psicoanalisi si trova ad attraversare? In questo libro c’è il tentativo di offrire al lettore un quadro concettuale ampio dell’insegnamento di Lacan. Tolta la topologia che non capisco e che non mi interessa si trovano tutti i maggiori temi lacaniani. Ma si trovano ordinati da una prospettiva neoesistenzialista che mette in valore il carattere irrinunciabile del riferimento alla soggettività, al desiderio e alla responsabilità etica del soggetto. Questo non significa cancellare la nozione di godimento. Anzi. L’essere umano è per Lacan, come del resto lo era già per Freud, un essere di godimento. Ma questo essere non può cancellare l’insistenza del desiderio inconscio. Il problema per Lacan è come annodare, tenere insieme desiderio e godimento. Non si tratta di porre l’opposizione di godimento e desiderio in termini morali: il godimento è il male e il desiderio è il bene o viceversa; il godimento è il bene e il desiderio è il male. Si tratta, come indica Lacan in chiusura del suo scritto Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, di fare in modo che vi sia possibilità nuova di raggiungere il godimento sulla “scala rovesciata del desiderio”. Questo Altro godimento è anche quello che è in gioco nella sessuazione femminile. È godimento irriducibile all’Uno. È godimento che non esclude l’Altro. Non può essere il cinismo del godimento Uno l’ultima parola della psicoanalisi. Non perché questa problematica non sia presente in Lacan, o, come dimostra Miller, nell’ultimissimo Lacan, nella centralità che la lettura milleriana attribuisce all’aforisma lacaniano “il y a de l’Un” (c’è dell’Uno), ma perché il mio Lacan, o quello che io vedo come decisivo in Lacan, non è affatto il culto del godimento fine a se stesso, non è il culto del carattere acefalo della pulsione. 261 Quello che io vedo come decisivo in Lacan è la promessa analitica come promessa di liberazione dall’inferno della ripetizione del godimento Uno. Il pensiero di Lacan, il suo itinerario teorico, si snoda nel cuore del Novecento, attraversa i suoi punti più fecondi e più problematici. Che cosa ci consegna sullo scenario della nostra contemporaneità, scenario così radicalmente alterato e degradato? Quali potrebbero essere le sue formulazioni teoriche che maggiormente toccano nel vivo dell’attualità del nostro tempo? E soprattutto: le sue formulazioni sono in grado di aprire una breccia rispetto alla progettualità relativa a un possibile futuro? Una delle tesi del mio lavoro è che Lacan sia stato in assoluto il più grande pensatore del soggetto di tutto il Novecento. Penso che oggi lo strumento-Lacan possa essere usato per difendere la singolarità del soggetto da tutte quelle forme di pensiero e da quelle pratiche della cura che tendono ad abrogarlo. Il nostro tempo ha mostrato come l’affermazione strutturalista della morte del soggetto (Foucault) e quella falsamente libertaria del desiderio ridotto a macchina impersonale di godimento (Deleuze) siano diventate sostegni ideologici involontari del discorso del capitalista. Lo scientismo ipermoderno ha enfatizzato la dimensione anonima e sovrasoggettiva della cifra, del numero, della quantificazione, delle procedure della valutazione. In questo modo l’affermazione del potere disantropico delle strutture liberandoci dalla retorica narcisistica dell’umanesimo antropocentrico ci ha portati verso una disumanizza- 262 lettera zione tecnologica dell’uomo. Verso una nuova forma dell’alienazione. A sua volta il culto trasgressivo del godimento senza Legge, della cancellazione del reale come impossibile, del tutto è possibile, è finito direttamente nelle braccia mortifere del discorso del capitalista che promette un godimento finalmente libero dai lacci repressivi della castrazione. Ebbene, contro queste due derive ipermoderne (scientismo e iperedonismo) il riferimento di Lacan alla dimensione irrinunciabile della soggettività agisce da punto di resistenza. Una chiave di lettura che propongo è quella che vede Lacan sorgere dallo stesso campo delle filosofie dell’esistenza e dell’antropologia cristiana: il soggetto è sempre responsabile della sua posizione e questa responsabilità è tanto più illimitata quanto priva di ogni illusione di padronanza. È questo uno dei centri assolutamente vivi del suo pensiero. Il riferimento all’algebra, alla matematizzazione, ai grafi, alle strutture, non deve far dimenticare la fedeltà di Lacan alla lezione di Freud che pone il soggetto dell’inconscio come espressione incarnata di una singolarità incomparabile, fuori serie, disadattata, anormale, impossibile da disciplinare. Ma anche la centralità che nel suo pensiero assume il riferimento all’atto, all’incarnazione, al corpo vivente, erogeno, alla plasticità della pulsione, all’invenzione irregolare, fuori serie edipica, del sintomo. La vocazione strutturalista del suo insegnamento non conduce mai verso un formalismo che sopprime il piano contingente dell’esistenza e della sua singolarità etica, così come la sua critica recensioni alla morale tradizionale non avalla mai alcun naturalismo vitalistico. Alcune recenti interpretazioni dell’insegnamento lacaniano, in particolare quelle che si richiamano a Jacques-Alain Miller, sottolineano il fatto che accanto all’inconscio transferale di Freud sarebbe possibile identificare in Lacan, nell’ultimo Lacan, un altro inconscio, un inconscio reale. Quest’ultimo sarebbe il fondamento di quello che lo psicoanalista francese chiamava, con un provocante neologismo, il parlessere. Il nome dell’inconscio reale, appunto. Qual è la sua posizione teorica al riguardo? E qual è la posizione che il suo volume assume riguardo agli effetti sulla pratica clinica che questa spinosa questione produce inevitabilmente? Come voi sapete Jacques-Alain Miller è stato il mio analista e il mio maestro. Conclusi la mia analisi poco prima che una ennesima tempesta istituzionale mettesse alla prova il mio rapporto critico con la macchina istituzionale che egli governava. Il mio debito e la mia riconoscenza profonda nei suoi confronti non sono stati sufficienti a farmi restare in una organizzazione che mi pareva tradire sistematicamente lo spirito della psicoanalisi e dell’insegnamento di Lacan. Lasciai la sua Scuola con grande sofferenza. Continuai a sognare il mio analista ancora per diverso tempo. In uno di questi ripetevo un sogno di fine analisi. Perdevo la chiave dorata della Chiesa di cui ero responsabile e che il mio analista mi aveva consegnato in eredità… C’erano altri che avevano il fantasma di divenire papa, nel senso del capo della Chiesa… Il mio era piuttosto quello di divenire un poeta. Perdere la chiave della Chiesa è stato un alleggerimento che ha consentito una buona separazione. Una separazione che non cancella il debito, una separazione non senza gratitudine. Il lavoro di Miller sul testo di Lacan è stato per me e per molti della mia generazione di fondamentale importanza. Non so senza Miller se sarei mai riuscito a leggere Lacan… La sua capacità di lavorare sui concetti lacaniani è unica; la sua finezza di lettore di Lacan non ha paragoni. Almeno a mio giudizio. Eppure nel millerismo io vedo due grandi limiti. Il primo è quello di aver scatenato una doxa che ha assunto la lettura di Miller come l’unica lettura possibile di Lacan, cioè come una espropriazione di fatto dell’enunciazione di Lacan. Lo scopo della lettura di Miller è quello di stabilire ciò che Lacan ha veramente detto. Non propone una lettura, ma La Lettura che però, come La Donna, non esiste. Questo finisce inevitabilmente per produrre e cementare una nuova ortodossia che, probabilmente, avrebbe fatto accapponare la pelle a Lacan. Il secondo limite riguarda il contenuto della sua lettura. Miller ha concepito il testo di Lacan come animato da una teleologia; dalle illusioni dell’Immaginario, attraverso l’autonomia sovraindividuale dell’ordine simbolico sino alla celebrazione eroica del reale. Questa teleologia ha promosso il godimento Uno come l’ultima parola, la più alta, di Lacan. Con la conseguenza che tutto ciò che precede e accompagna la categoria del godimento-Uno viene declassato d’importanza. Per esempio, questo avviene con la categoria di desiderio. Ma non solo. Come se l’aver indicato 263 una tendenza uniana del godimento e tutti i limiti che contrassegnano la dialettica simbolica della parola, significasse automaticamente mettere in soffitta la nozione di desiderio, di soggetto, di mancanza a essere, di parola piena ecc. La psicoanalisi non può limitarsi a enfatizzare la ripetizione del godimento Uno, la sostanza godente, la pulsione acefala che vuole godere perché questa enfatizzazione attraversa per intero il discorso del capitalista. La forza sovversiva dell’insegnamento di Lacan non è quella di opporre l’inconscio strutturato come un linguaggio all’inconscio reale come spinta al godimento Uno, ma è nell’annodare questi due poli strutturali del soggetto. Altrimenti la psicoanalisi viene meno nella sua promessa di liberazione. Smarrisce il senso della sua prassi convalidando il godimento Uno come sostanza autistica. Non a caso ancora in Televisione Lacan ribadisce che l’insistenza del desiderio definisce la dimensione etica del soggetto. Era quello che si trovava già esposto chiaramente in apertura del Seminario xi: l’inconscio non è dell’ordine dell’ontico, non è una semplice presenza, ma è una chiamata che esige una risposta etica. Il tema dell’amore attraversa l’insegnamento di Lacan fin dal suo primo seminario. La cosa sorprendente è che questo stesso tema torna a essere cruciale anche nell’ultimo periodo della sua riflessione teorica. In particolare, nel Seminario xx, l’amore sembra svolgere un’importante funzione di “tamponamento” della lacaniana inesistenza del rapporto sessuale. Qual è secondo lei a partire da qui il destino e anche il dramma dell’amore nella società contemporanea? 264 lettera Il fatto che il tema dell’amore sia veramente un tema capitale per Lacan si spiega con la natura specifica dell’esperienza analitica. L’analisi è un’esperienza attraversata dall’amore. Non solo perché si parla d’amore ma anche perché c’è dell’amore in atto. C’è spostamento, trasporto, movimento, innamoramento primario, in una parola, transfert. Non sono d’accordo con l’idea che l’amore sia un “tamponamento” della inesistenza del rapporto sessuale. Lacan usa a questo proposito l’espressione “supplenza”. Non è mettere un tampone, richiudere la beanza dell’insistenza del rapporto sessuale con un artificio. Supplire significa qui venire al posto di, prendere il posto di. Non si tratta di chiudere la beanza ma di far in modo che questa beanza, l’incontro solitario con questo trauma impossibile da evitare, generi un nuovo rapporto, un rapporto nuovo col non rapporto. Questo definisce la contingenza dell’incontro d’amore che ho particolarmente enfatizzato nel mio libro. L’esilio dal rapporto sessuale non viene tamponato dall’incontro d’amore perché questo incontro si rende davvero possibile solo se si assume l’inesistenza del rapporto sessuale. Nel nostro tempo c’è crisi del discorso amoroso perché sembra venir meno l’esperienza del Reale come impossibile. Se non si può scrivere il rapporto sessuale ci si dedica a – in questo caso il termine è appropriato – tamponare il non rapporto scrivendo altri rapporti dove non è in gioco l’alterità irriducibile dell’Altro sesso. Sono i rapporti con l’oggetto inumano che la clinica ipermoderna delle dipendenze patologiche mette in rilievo in modo esemplare. La crisi del discorso amoroso è crisi del rapporto con l’impossibile. Si preferisce l’accesso immediato al godimento Uno piuttosto di fare il giro più lungo che l’amore impone attorno all’inesistenza del rapporto sessuale. Edoardo Fraquelli Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia Mariella Guzzoni La vita non può essere che un’opera d’arte – se è di vita umana che parliamo, ovvero della vita di esseri umani dotati di volontà e di libertà di scelta. Zygmunt Bauman1 “Una mostra da non perdere” mi disse il mio maestro di disegno. Fu così che incontrai le tempere di Fraquelli per la prima volta. Tempere su carta. Piccole. Chi si ammala di carta non guarisce più. La carta risponde al gesto dell’artista, si ondula, si sciupa, si lacera, si rompe. Vive in corso d’opera. Ma le carte di Fraquelli hanno resistito alla potenza del gesto pittorico. Hanno resistito alla forza con leggerezza. Una leggerezza esplosiva. È forse questo che più mi ha colpito. E quella forza, che pare voler esplodere dal foglio che pur la contiene, mi ha portato a voler sapere di più.2 Fraquelli non conosceva le grande tele di Franz Kline, negli anni cinquanta era fornaciaro, girava in bicicletta in Brianza, aveva fatto la quinta elementare: nel suo studio sono stati trovati i suoi quaderni di scritti e disegni e tre libri – il Vangelo, Van Gogh, Montale. Eppure in queste piccole carte la forza del segno e la potenza espressiva della forma parlano di un evento. “Una congiunzione modale tra l’evento della forza e quello della forma”. Il miracolo della forma.3 Edoardo Fraquelli Senza titolo, 1965 tempera su carta intelata 21 × 32 cm 1 Zygmunt Bauman, Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido (2010), Laterza, Roma-Bari 2012, p. 200. 2 Le tempere di Fraquelli sono state esposte in modo articolato per la prima volta a Bergamo, alla galleria Olim, Opere su carta, nell’aprile 2005, su iniziativa di Pierantonio Verga (Edoardo Fraquelli, Segni forti e materie. Tempere 1959-1994, catalogo a cura di Flaminio Gualdoni). 3 Le tempere di Fraquelli esprimono bene, a mio avviso, quello che Massimo Recalcati 268 Mariella Guzzoni La storia di Fraquelli ha dell’incredibile. Qualcuno potrebbe dire: “tante storie sono così, in quegli anni!”, ma la realtà è che l’essere stato pittore, l’aver dedicato le sue notti a dipingere, la sua arte giovanile riconosciuta dai critici a cavallo degli anni cinquanta e sessanta lo hanno salvato dalla morte civile, tra i corridoi dei matti annichiliti dai farmaci. L’arte, nella seconda parte della sua vita, gli ha ridato la voglia di esistere. Ma veniamo a questa storia vera.4 Edoardo Fraquelli nasce a Tremezzo, in Brianza, nel 1933. Il padre è giardiniere nelle grandi ville brianzole. La mamma muore nel 1938, poco dopo aver dato alla luce una bimba che morirà anche lei. Edoardo conosce la morte da vicino a cinque anni. Doppia morte. È un bambino introverso, parla pochissimo. Su richiesta del padre, che non vuole estranei in casa, una cugina tredicenne, Carla, acconsente a vivere stabilmente in famiglia, per crescere Edoardo e suo fratello poco più grande di lui. Si affeziona a Edoardo, gli vuol bene, ma, se lo coccola, lo deve fare di nascosto: il padre non vuole, è molto severo. Dopo circa cinque anni Carla si sposa, desidera una sua famiglia; il padre si risposa. Carla, che aveva rappresentato per lui un riferimento affettivo fondamentale, viene, agli occhi di Edoardo undicenne, sostituita da una donna adulta, la nuova moglie del padre, con la quale sembra non sia mai nato un legame affettivo. Dopo la quinta elementeorizza nel libro Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica – testo in cui, (entrando poi nel vivo del dibattito artistico sull’informe), Recalcati mette al centro “la pratica dell’arte come pratica in grado di interrogare il reale”: “L’opera d’arte non vive affatto di questa scissione rigida di forma e informe. I modelli estetici proposti da Nietzsche e Heidegger, e quelli che possiamo ricavare da Freud e Lacan, condividono, a mio giudizio, l’idea che l’opera d’arte sia un luogo agonico, abitato da una tensione conflittuale, da una lotta continua, mai risolta una volta per tutte, tra la tendenza all’integrazione formale e la dissonanza irriducibile dell’informe. […] Ancora più radicalmente dovremmo cominciare a pensare che la coppia ‘forza-forma’ possa davvero recidere ogni legame con quella metafisica, di matrice crociano-idealistica, ‘forma-contenuto’” (Massimo Recalcati, L’icona scissa dal coinema, postfazione alla seconda edizione di Id., Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica [2007], Bruno Mondadori, Milano 2011, pp. 211-217, testo apparso dapprima in Id., Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, pp. 133-143, Bollati Boringheri, Torino 2009). 4 Le notizie qui riportate sono il frutto di una mia intervista del settembre 2008 (citata fra virgolette nel testo) ad Aldo e Linda Consonni che, come vedremo, hanno riportato Fraquelli a dipingere, dopo più di dieci anni di storia psichiatrica. A loro un particolare ringraziamento per avermi a suo tempo fornito la documentazione necessaria allo studio di questo artista. Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia 269 tare (siamo verso la fine della guerra), Edoardo inizia a lavorare da un ciclista di Usmate. Poi da un intagliatore di cornici. E lì, in quel capannone, la sera modella statue, inizia a disegnare. Dopo il servizio militare, tornato in Brianza, trova lavoro in fornace, il lavoro è duro, con i compagni incomincia a bere. Vent’anni. La notte dipinge i suoi primi paesaggi. Un unico autoritratto a olio, uno a matita. Qualche volta, la domenica mattina, frequenta un corso d’arte locale, disegna, dipinge. Conosce il pittore Carlo Carrà, che ha lo studio vicino a lui. Esordisce nel mondo artistico nel 1957 in una mostra alla Galleria del Prisma di Milano. Le critiche sono molto positive, i suoi quadri suscitano enorme interesse. Nel 1958 partecipa alla Biennale di Porta Venezia e al Premio San Fedele. Paesaggio, Paesaggio con figure, Brianza primaverile, Paesaggio invernale, Serata invernale. In quegli anni conosce Morlotti, Scaccabarozzi, Dozio, Arturo Vermi, il corniciaio Crippa e, grazie a lui, Piero Manzoni, Bonalumi, Mulas. Enio Morlotti è il suo faro espressivo, ma Edoardo è più bravo di lui. Se ne accorgono tutti, a quanto pare. Preferiscono lasciarlo a casa. Non lo invitano, non lo aiutano, non lo sostengono. È facile, Edoardo è un ragazzo, ha solo la bicicletta… e in più alza il gomito, ogni tanto. Eppure i mercanti poco onesti, sempre pronti a lucrare sul destino avverso dei pittori ingenui, ma bravissimi come lui, lo fanno dipingere in cambio di qualche bottiglia, per poi rivendere i suoi quadri come dei Morlotti. Dipinge paesaggi straordinari, liriche quasi monocrome tra forza e forma, inscrivibili tra gli “ultimi naturalisti” descritti da Francesco Arcangeli: “Natura è la cosa immensa che non vi dà tregua, perché la sentite vivere tremando fuori, entro di voi: strato profondo di passione e di sensi, felicità, tormento.”5 La sua pittura è magmatica, usa il colore come materia da plasmare. Eppure il magma è come fluido, è un magma che si scioglie, si mescola, talora si addentra come un sentimento che si consuma e poi rinasce in nuovi improbabili percorsi. Solo frammenti – resti di vita? – compaiono qua e là nelle sue tele. Stefano Agosti parla di “grumi materici di natura”, di “simbiosi confusiva fra i due Soggetti di sapere – il sapere dell’Io e il sapere d’Oggetto. […] Nessuna prevalenza di 5 Francesco Arcangeli, Gli ultimi naturalisti, in “Paragone”, n. 59, novembre 1954, pp. 29-43. 270 Mariella Guzzoni un sapere sull’altro ma una sorta di miracolosa, eccezionale compenetrazione dell’uno nell’altro.”6 Ma Edoardo a venticinque anni è solo, taciturno, senza amore. Tenuto a distanza di sicurezza dai benpensanti del sistema dell’arte… È solo anche in famiglia, il fratello Francesco ora si è sposato. Beve. Un piccolo disegno a matita – forse di quel periodo – sembra tracciare il ritratto del suo dramma: un fagotto di vestiti, senza gambe, senza braccia, ciò che resta all’osteria accanto alla bottiglia e al bicchiere vuoto. Non conosce l’ubriaco accasciato sul tavolo di Charles Degroux,7 eppure, quel disegno sembra l’evoluzione astratta del capolavoro dell’artista belga. Un resto un avanzo uno scarto una deriva, non degno d’amore, non degno d’affetto, ecco chi sono. Non degno. Ci vuole un gran dolore per vedersi così. Per rappresentarsi così. La carta sembra l’unica testimone di questo grido muto.8 L’indegnità fondamentale della propria esistenza, sentirsi niente, senza valore, insignificante, emerge con forza dalla matita di questo piccolo ritratto, quasi un’incisione: la cifra della sua melanconia. Inizia a scrivere liriche. La pittura e la poesia lo aiutano a sopportare l’inutilità della sua esistenza, i suoi vent’anni scanditi da esperienze di rifiuto: disabbonato dal desiderio, un padre legislatore che fa la predica alla cugina Carla prima, e farà la predica allo psichiatra poi – un padre che si vergogna e si vergognerà di lui. I compaesani che lo usano come un pagliaccio… gli amici pittori che non lo chiamano. Ed ecco l’immagine del suo corpo, un fagotto inutile, abbandonato come una cosa da buttar via, lì, sul tavolo. Ecco l’immagine di un corpo-cosa, non amabile, senza significato allo sguardo dell’Altro. 6 “È comunque a partire da quelle date, 1956-1958, che l’informale attuato ed elaborato da Morlotti spalanca, in Fraquelli, quella che sarà la sua propria visione-percezioneassunzione del visibile: ove la simbiosi confusiva fra i due Soggetti di sapere – il sapere dell’Io e il sapere d’Oggetto (in questo caso solo l’oggetto di natura) – riveste caratteri di tale solidarietà e pariteticità quali non si erano dati negli esempi – pur grandissimi – da noi precedentemente citati. Nessuna prevalenza di un sapere sull’altro ma una sorta di miracolosa, eccezionale compenetrazione dell’uno nell’altro.” (Stefano Agosti, Un vertice dell’informale, in Fraquelli, un vertice dell’informale, catalogo della mostra al Museo Valtellinese di Storia e Arte, Sondrio 2006, pp. 15-21. Si veda anche Stefano Agosti, Il testo visivo, forme e invenzioni della realtà da Cézanne a Morandi a Klee, Christian Marinotti, Milano 2006) 7 Charles Camille Auguste Degroux, The Drunkard, 1853 circa, olio su tela, Musée Royaud des Beaux-Arts de Belgique. 8 Edoardo Fraquelli, Senza titolo, data incerta, matita su carta intelata, 27 × 21,5 cm. Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia 271 Il soggetto sembra coincidere con l’oggetto. L’oggetto melanconcio.9 Pattume: Quali tratti si lasciano vedere di un oggetto così velato, mascherato, oscuro? Il soggetto non può prendersela con nessuno dei tratti di quest’oggetto che non si vede, ma noi analisti, quando seguiamo un soggetto simile, possiamo identificarne alcuni attraverso quelle che egli indica come le proprie caratteristiche. Io non sono niente, sono soltanto pattume.10 Alla fine degli anni cinquanta iniziano le prime crisi; dipinge il ciclo delle tempere che qui presentiamo, tutte di piccole dimensioni, tutte su carta fragile e leggera che aggiunge un che di esplosivo al gesto dell’artista. Uno si domanda: com’è possibile? Non è tela, questa! Una sfida Senza titolo, corpo a corpo con il suo mondo su carta. Un mondo freddo, un mondo caldo in due cicli – uno di neri glaciali ma vivi 9 Melanconcio, un neologismo nato per caso, ecco come: circa un anno fa scrissi a un’amica artista, citando Lacan e l’oggetto melanconico – invertendo inavvertitamente le due lettere. Lei se ne accorse subito, e da allora il termine melanconcio (melanconicomalconcio) è diventato parte del nostro lessico. 10 Jacques Lacan, L’analista e il suo lutto, in Id., Il seminario. Libro viii. Il transfert (19601961), Einaudi, Torino 2008, p. 432. 272 Mariella Guzzoni e mobili in acqua di fango, un secondo ciclo di ocra di terra, qualche guizzo di vita in poco verde muschio, qualche arancio rovente annerito dal fumo. Ecco i colori. Nel 1964 un ricovero di quattro mesi. Nel 1965 i titoli delle sue opere saranno, per la prima volta, non più Paesaggi, ma Rovine, Sera derelitta, Vittime dell’eruzione, Rovine, Rovine di Dresda, Paesaggio desolante, Tragedia. Forze sparse corrono sulla tela, elementi autonomi entrano in scena in un divenire di reticoli bombardati impigliati strappati tra colore e forma: appaiono. Necessità interiore e tumultuosa. Come scrive Paul Klee nel 1928, “La via alla forma, che deve essere dettata da una necessità interiore o esteriore, trascende la meta, va al di là del termine stesso della via… La formazione determina la forma e pertanto la trascende. La forma non è quindi mai e poi mai da considerarsi conclusione, risultato, fine, bensì genesi, divenire, essenza…”.11 Nel 1966 un premio, la Colonnina d’oro, Manlio Rho, e una personale a Como. Poi un ricovero, poi una mostra a Lecco, poi un ricovero, poi una mostra a Merate. Prima del temporale, una tela, tra le ultime della sua stagione, è un groviglio di forze chiuse, un gomitolo di tensioni non dipanabili. Scrive poesie. Si dedica alla scrittura. Desidera con tutte le sue forze un riconoscimento della parola scritta. Vive con il padre e la sua nuova moglie che lo sorvegliano a vista. Si chiude in camera e scrive. Scrive e memorizza. Avanti e indietro dai presidi psichiatrici ci va con il padre, sei volte nel 1972, nove volte nel 1973, sette volte nel 1974, quel padre che presenzia ai colloqui, che lo controlla dalla finestra quando va al bar, che teme per lui, che sembra non aver fiducia in lui… Diario medico, 24 luglio 1972: Il padre è un uomo vecchio, magro, dalla voce chioccia e bizzosa. Fa la predica al paziente e a me: al p. perché ha ricominciato a bere, e anche perché non lavora assiduamente, a me perché gli ho cambiato la cura. […] Il p. sembra ad ogni modo aver fatto la sua scelta: beve come altri si chiudono in un mondo autistico. Il rapporto col padre è davvero molto cattivo: durante il colloquio si parla anche del fratello del p., che il padre definisce “una perla”, implicitamente affermando, è ovvio, che quest’altro figlio è la sua croce. 11 Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione (1970), 2 voll., Mimesis, Milano 2011, vol. ii, Storia naturale infinita, p. xliii. Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia 273 Ma a fine novembre 1972, grazie agli sforzi del padre, esce finalmente il volumetto di poesie tanto desiderato da Edoardo. Il titolo è: Per la certezza dell’esistere. Quella certezza, finalmente da toccare, nella collana “Poeti d’oggi”, canta anche i suoi amori platonici, A Bruna, A Ida, A Feliciana, canta l’amore di una gioventù perduta, di un cane visto morire: In morte di Borlino Prima non passeranno del dolore le tue spoglie agli occhi miei di febbre. Ora sei più in pace celato sotto la musica del cielo. La tua intesa tra gli uomini indifferenti qualora un tuo saluto scodinzolando iniziavi, di troppa delicatezza era un complimentoso tuo segno. Non era la tua di animale semplice delicatezza, era irrequietudine dolce che a girare ti portava. Fu per quei giorni divisi e brucianti al sole, per la noncuranza nostra la tua morte, e pochi ti videro inerte denti schiusi, i tuoi cani amici ti ricorderanno presso la terra che ti copre nel cielo delle notti. Il cane, Borlino, è il cane del paese, di tutti e di nessuno. Non è il cane randagio di Neruda che “fiuta il mondo e scuote il trifoglio”, non è il cane solo, in perpetua erranza di Giacometti, è l’animale gentile senza un padrone che mendica un po’ d’affetto tra l’indifferenza degli uomini.12 12 Le poesie di Fraquelli sono state recentemente ripubblicate (e illustrate), con degli 274 Mariella Guzzoni 1° ottobre 1973, diario medico: “Il p. viene a prendere le medicine: mi appare né più né meno del solito, ma il padre, oggi in una vena castratoria dice ‘cosa vuole, non ha iniziativa, è molle, molle; pensa solo a scrivere poesie, e a bere’.”. Fine 1974, il padre muore, mentre Edoardo è ricoverato. Diario medico, 9 dicembre 1974, relazione dell’assistente sociale: La madre che pare sinceramente affezionata al paziente, nell’ultimo colloquio ha affermato, piangendo, di aver paura a vivere da sola con lo stesso ora che il padre è morto. Non pare che, a detta della madre, il fratello che risiede a Carnate, possa prendere con sé il paziente. Assai problematica si presenterà perciò la situazione del p. quando e se lo stesso sarà dimissibile dall’O.P.P. Tre mesi dopo, il 12 marzo 1975, il fratello scrive una lettera al direttore dell’ospedale spiegando che La matrigna non è in grado di seguire e sorvegliare mio fratello […] che, quando trasmoda un po’ nel bere diventa pericoloso per gli altri e per se stesso. Io come fratello, essendogli affezionato, desidererei vederlo sistemato in modo un po’ sicuro, perché a casa è sempre in pericolo […]. A una madre si potrebbe chiedere l’eroismo di tenerlo assieme, […] ma non a una matrigna. Le circostanze che hanno portato Edoardo al reparto pericolosi dell’ospedale psichiatrico di Como sono ancora oggi poco chiare. Una denuncia? Una telefonata? Da parte di chi? Una ribellione di Edoardo ai carabinieri, qualche offesa, qualche spintone – ecco che viene chiamato il medico condotto, anzi un suo sostituto, una firma e via –, viene ricoverato in manicomio. Disturbo della quiete pubblica. Ritenuto violento. Non aveva mai dato una sberla a nessuno. Anzi, era divenuto il personaggio strano, il clown. L’artista fuori dai ranghi, il poeta, il pittore, per un bicchier di vino gli facevano fare il pagliaccio. Scomodo alla famiglia che rimaneva dopo la morte del padre. Una vergogna. “C’eran due nipoti, due ragazze da sposare…” Forse meglio non averlo in giro, in paese. Sei anni in Psichiatria senza uscire. Mandare i suoi versi a memoinediti, nella collana “Atelier. Poesia” diretta da Stefano Crespi: Edoardo Fraquelli, Di terra, di cielo, con una testimonianza di David Maria Turoldo, Le Lettere, Firenze 2010. Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia 275 ria, comporre a memoria e tenere a memoria era l’unica cosa che lo faceva sentire in qualche modo vivo, che gli restituiva una minima identità. Non scriveva: temeva gli rubassero le sue poesie. La memoria era la sua forza, l’unica forma di resistenza. Un parafulmine – forse – come per Van Gogh che, sottochiave, senza pennelli tele o colori, rileggeva Shakespeare per non impazzire. Ma il caso ha voluto che un suo dipinto esposto in un museo di Graz fosse entrato nel cuore di un amante dell’arte, che subito inizia a raccogliere i suoi lavori sparsi tra cantine e solai brianzoli – o “addirittura usati come tappabuchi di finestre o di mobili sforacchiati dai topi” – e decide di fare una mostra: prepara il menabò del libro che parlerà di lui. Va a cercare Fraquelli, siamo nel 1980, chiede un incontro, e lo trova “con occhi sbarrati, via con la testa. […] Forse hanno ragione quelli che dicono che è finito… chiuso… matto”, si dice. Ma poi ci torna, nell’ospedale dei matti, lo trova lucido, allora capisce di essere arrivato “prima delle 90 gocce di Serenase”. Siamo a Villa Rosa. Va a conoscere il primario: “Guardi che qui c’è una persona che non è una persona qualsiasi, ecco il menabò del libro, delle opere giovanili, Edoardo è un artista!”. Una sorpresa per tutti, “non lo sapevano…” – e così “si sono spalancate le porte”. Fraquelli ritorna a dipingere. Il suo primo quadro è dell’agosto 1981. Sono passati quindici anni. Lo fa in ospedale, dove avrà uno spazio per lavorare. Il lavoro lo assorbe e, poco a poco, niente più gocce. Un miracolo? Una prima riflessione, senza scomodare Freud, apre almeno due grandi temi, opposti e complementari – da un lato il risvolto inerziale di molti trattamenti farmacologici, dall’altro l’attenzione spesso nulla o quasi per l’individuo. La questione è quanto mai attuale.13 Il Decreto Legge del febbraio 2012, relativo alla tanto attesa chiusura di quella realtà aberrante che sono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (entro marzo 2013), sta sollevando molti punti interrogativi da parte di Psichiatria Democratica e del Comitato Stop opg, legati al fatto che “l’attenzione sembra solo concentrata sull’apertura delle strutture residenziali sanitarie ‘speciali’, molto simili agli ospedali psichiatrici (‘mini opg’). Rischiamo di ritrovarci con numerosi piccoli manicomi regionali! […] È doveroso affermare il valore della Legge Basaglia, fondamentale per la democrazia e le libertà del nostro Paese, contro ogni tentativo di riportarci agli anni bui dei manicomi e della psichiatria come strumento di repressione. […] Chiudere gli opg significa fare buona assistenza nel territorio per la salute mentale, come dice la Legge 180, e come è successo dove si è applicata. non strutture residenziali segreganti, dove i farmaci sono l’unica risposta al bisogno di cura, o peggio: pratiche di contenzione meccanica e farmacologica, e perfino elettroshock. […]” (Trieste, 25 settembre 2012, dal comunicato 13 276 Mariella Guzzoni Agosto 1981: Edoardo Fraquelli dipinge… è di nuovo un artista. Un quadro la settimana per l’amico sincero che lo va a trovare ogni giovedì. In novembre, per la mostra antologica a lui dedicata, Un’acerba estate, Edoardo esce, i parenti si oppongono – “è pericoloso! Non bisogna farlo uscire di lì!”. Ma alla mostra ci sono tutti, vecchi conoscenti, vecchi amici, il primario dell’ospedale. Edoardo rimane una notte a dormire dal suo nuovo amico che gli ha portato tele e colori in corsia. Ha, di nuovo, la certezza di esistere. Per l’arte. Edoardo Fraquelli, una storia vera tra arte e follia in un ciclo geometrizzante, elementi ordinati prendono forma sulle grandi campiture. Cerca la luce, la libertà dai grovigli: un centro, due centri, qualche geometria silenziosa. Un silenzio strano, una pace inquieta. Questa seconda vita regalata all’arte durerà quattordici anni, tante mostre, piccole e grandi tele, il calore di una famiglia che lo ospita ogni settimana, il giovedì – uno spazio d’affetto per lui, un armadietto dove custodisce gelosamente le sue poesie – un bravo infermiere lo accompagnerà senza sosta. Prima di morire, riprende la tempera, di nuovo la carta. Tre volte più grande. Tra i gialli e le terre c’è un vuoto costante, in centro, velato di bianco. Pennellate trasparenti e distese, quasi come per non far male alla carta. La velatura di un vuoto, un vuoto Senza titolo.14 Si inaugura così una nuova stagione di pittura che riprende l’energia dal colore. Il giallo di cadmio inonda le sue tele, i grovigli inestricabili con i quali aveva interrotto il suo cammino riprendono a vivere sulla tela, come se niente fosse successo – in mezzo. Ma ora sono frammenti, segmenti, detriti sparsi l’uno in fila all’altro, senza volto e senza nome. Da quando riprende a dipingere non c’è un solo titolo. Il tempo è sospeso, lo spazio senza nome. Qualche orizzonte azzurro compare stampa per la Giornata di mobilitazione per la chiusura degli opg, Comitato Stop opg Friuli Venezia Giulia). 277 Edoardo Fraquelli, Senza titolo, 1994, tempera su carta intelata, 70 × 100 cm. 14 La redazione di lettera e la comunità di alipsi hanno appreso con grande e profondo dispiacere la notizia della scomparsa, dopo una lunga malattia, di Eugenio Gaburri. Eugenio Gaburri è stato un amico di Jonas e uno dei primi docenti dell’irpa. La sua intelligenza e la sua generosa disponibilità hanno colpito molti di noi. Il suo lavoro come clinico e come teorico ha costituito e costituisce nella storia della psicoanalisi in Italia e anche nella nostra comunità, soprattutto per quanto riguarda il campo gruppale, un riferimento destinato a restare nel tempo. Ululare coi lupi, scritto con la sua compagna Laura Ambrosiano, è un testo che spicca tra gli altri per originalità e poesia. A Laura e alla presenza viva di Eugenio va il ricordo della Associazione Lacaniana Italiana di Psicoanalisi Lettera rivista di clinica e cultura psicoanalitica 1.2011 I legami e l’inconscio 2.2012 Psicoanalisi e legge Nella collana “lacaniana”: Pierre Bruno, Marie-Jean Sauret Ego e io prefazione di Massimo Recalcati Pierre Bruno Antonin Artaud. Realtà e poesia prefazione e cura di Alberto Russo Eugénie Lemoine-Luccioni Il taglio femminile. Saggio psicoanalitico sul narcisismo a cura di Ombretta Prandini postfazione di Annarosa Buttarelli Il reale del capitalismo a cura di Alex Pagliardini contributi di Massimo Recalcati, Alex Pagliardini, Laura Bazzicalupo, Davide Acampora, Massimo Adinolfi, Marco Gatto, Antonio Lucci, Sergio Benvenuto, Luciano De Fiore, Pietro Barcellona, Rocco Ronchi Elsa Coriat Puoi perdermi? La psicoanalisi nella clinica dei piccoli bambini con grandi problemi a cura di Maria Teresa Rodríguez Françoise Dolto I Vangeli alla luce della psicoanalisi. La liberazione del desiderio Dialoghi con Gérard Sévérin Nella collana “Punctum”: Daniela Barcella Sintomi, strappi, anacronismi. Il potere delle immagini secondo Georges Didi-Huberman postfazione di Fulvio Carmagnola Mariella Guzzoni L’infinito specchio. Il problema della firma e dell’autoritratto in Vincent Van Gogh prefazione di Massimo Recalcati 2.2010 Annali del dipartimento clinico “G. Lemoine” irpa – Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata Follia, psicosi e delirio a cura di Franco Lolli contributi di Franco Lolli, Massimo Recalcati, Mario Rossi Monti, Bruno Moroncini, Antonello Correale, Laure Thibaudeau 3.2011 Annali del dipartimento clinico “G. Lemoine” irpa – Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata L’altro sesso a cura di Anna Zanon contributi di Anna Zanon, Silvia Vegetti Finzi, Massimo Recalcati, Isabelle Morin, Rosella Prezzo Jean-Claude Maleval, Mariela Castrillejo 4.2012 Annali del dipartimento clinico “G. Lemoine” irpa – Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata Il padre a cura di Francesco Giglio contributi di Francesco Giglio, Massimo Recalcati, Roberto Esposito, Maurizio Balsamo, Elsa Coriat, Piere Bruno Le informazioni sulle pubblicazioni di et al./edizioni si trovano all’indirizzo www.etal-edizioni.it