Premio della Provincia di Trieste sui rapporti

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Premio della Provincia di Trieste sui rapporti
Premio della Provincia di Trieste sui rapporti intergenerazionali nell’ambito
della VIII Edizione del Concorso Internazionale di Scrittura Femminile 2012
La stanza di Virginia
Marina,
non voglio che passi un altro giorno senza che io ti scriva. Ti devo dire di quello che mi è
accaduto proprio il giorno del tuo matrimonio, durante la festa nella tua villa di famiglia
nella pianura emiliana.
Tua madre, mia grande amica, mi aveva sempre parlato della sicurezza che le trasmetteva
quella casa, per l’appartenenza a tutte le donne che l’avevano preceduta e che lì avevano
passato le estati della loro infanzia, le feste dell’adolescenza, la distanza della giovinezza e
poi i ritorni …
Così per lei, così per te.
Quante volte mi hai detto di sentire la sapienza di quel posto: nei tuoi momenti bui, per un
esame che non riuscivi a studiare o per una delle tue tante rivolte che non riuscivi a
placare.
“Quella casa mi accudisce” , dicevi, “Si prende davvero cura di me e con tanta discrezione
che io quasi non me ne accorgo”.
Ebbene durante quella festa anch’io ho sentito l’anima di quel luogo ed è lei che mi ha
aiutato.
Per spiegarmi meglio devo dirti di un’idea che mi ha sempre accompagnato…
Ancora oggi continuo a pensare che se ci sono delle forme nel cuore, queste forme sono
quelle delle stanze che abbiamo abitato. Stanze di nascita, di adolescenza, di passione, di
disagio.
Stanza di scrittura. Penso che molte scrittrici non avrebbero potuto scrivere i loro libri se
non avessero avuto nel loro cuore una stanza. Un luogo segreto al di fuori degli sguardi di
tutti che permettesse loro solitudine, concentrazione ma soprattutto l’emozione profonda di
un corpo libero e di una mente libera. Senza limiti. Forse senza quella stanza non solo non
ci sarebbero stati libri ma neanche sarebbero germinati semi diversi per vite di donne
diverse.
Alla fine degli anni ‘60 io ero adolescente e dalla finestra della mia stanza entrava il
profumo del gelsomino. Arrivava a me dopo aver attraversato il fresco dei cortili delle
case barocche del centro storico e l’odore di gelato misto al caffè del bar della piazza.
Il bar dove potevano entrare solo gli uomini di quel paese del Sud.
Il profumo del gelsomino non lascia scampo ed io fortificavo il mio cuore. No lì non
doveva arrivare, io non potevo cedere a nessuna pazzia altrimenti sarei andata in mille
pezzi e sarei rimasta intrappolata in quei luoghi per sempre. Dovevo resistere fino a
quando me ne sarei andata via.
Solo lontano da lì poteva cominciare la mia vita vera. Adesso dovevo prepararmi il più
possibile ma non vivere.
In trappola c’era già stata lei.
“C’era solo un luogo dove tu potevi avvicinarti di nuovo a quel cielo libero che avevi
conosciuto e che ti mancava.
Era sulla terrazza di quella casa senza tetto del Sud. Lì apparivi a te stessa, con il vestito
a pieghe da statua con radici profonde.
Con il viso diventato maschera primordiale, immobile e senza più sofferenza.
Di nuovo di pietra, senza il cuore in fiamme. Di pietra antica e sapiente. E riposante.
Per un attimo il bucato di mutandine e magliette appeso al filo dietro di te era
dimenticato, insieme a loro quattro bambine colpevoli di un’innocenza che ti soffocava.
Adesso era possibile dentro di te il gelo ristoratore dell’inverno”.
E lei, mia madre, odiava l’estate e i fiori…
Nel mio cuore si possono trovare stanze reali ma anche quelle che ho costruito con l’esperienza.
E queste si riconoscono perché nonostante le mie migliori intenzioni finiscono per avere l’aria di
ripostigli piccoli o grandi che siano. Ma sempre ripostigli o al massimo delle tane per rifugiarsi con
l’istinto dell’animale che non vuole essere preda e riduce al minimo le sue necessità.
Marina, quella volta che il mio cuore mi ha fatto vedere le sue stanze ho capito che erano qualcosa
che avevo portato sempre con me ma mai visto per intero.
Ti devo dire però che queste stanze non sono state sempre così.
C’è stato un tempo che sembravano senza soffitto e porte, tanto che se anche arrivava un estraneo
poteva veder tutto ed io non potevo avere segreti neanche nel mio cuore. Poi ho cominciato a
mettere dei soffitti ma soprattutto porte. Ma non ho mai avuto il coraggio di chiudere la porta di
qualche stanza.
Anche se ti confesso mi sarebbe piaciuto dire: ”Adesso basta, nessuno deve oltrepassare quella
porta”. E invece quasi per educazione le mie porte sono socchiuse. E così l’idea è sempre quella di
un gran disordine come quella che danno quei grandi spazi delle case moderne, belli da vedere se
c’è poca roba in giro e soprattutto sempre in ordine, altrimenti prendono l’aspetto di grandi
contenitori pieni di confusione, si presentano come dei magazzini.
Marina è fine giugno e tu ti sei appena sposata.
E’ festa grande in questa villa della pianura padana dove si sono sposate le donne della tua famiglia.
Mi metto in disparte dai rumori, dai balli, dalla fotografie e cerco un po’ di aria vicino ad una
finestra. Fuori in giardino il sole del primo pomeriggio scintilla sul verde nuovo delle foglie dei
tigli e i loro fiori traboccano di profumo. E quel profumo arriva al cuore, davanti alla porta
di quella stanza. E tutto succede all’istante perché il cuore quando vuole conosce tutti i segreti della
velocità. Dentro quella stanza c’è un’ intera città con i suoi portici ed i suoi viali.
Il profumo del tiglio per me è la giovinezza cioè la libertà di camminare nelle strade di quella città
emiliana dove le donne erano cittadine come tutti e potevano decidere della loro vita.
Io volevo diventare come loro e volevo conoscere tutto e incontrare tante persone, le più strambe.
No, io non mi sarei sposata e neanche i miei amici controcorrente, solo convivenze o meglio
amicizie amorose.. .dover dar conto ad una persona? No, era un vincolo insostenibile.
E poi Marina hanno cominciato i tuoi genitori, e poi io.
E mentre tua madre ti aspettava si leggeva non so quanti libri per poterti crescere in modo
perfetto.
E mi diceva a volte al telefono di sentirsi ridicola perché per lei tu eri davvero la prima
figlia del mondo. Tua madre come me faceva parte di una generazione che come le altre
aveva la sua bella utopia e la nostra negli anni ’70 era quella di trovare nuovi simboli che
eliminassero ogni forma di violenza. Per questo ci furono quelli che, per redimersi dalle
colpe di un Occidente distruttore e realizzare il sogno di una nuova innocenza, decisero di
partire in pellegrinaggio in Perù, per il Machu Picchu, la città del sole, sacra agli Inca
annientati dai conquistatori spagnoli.
Così tua madre come molte di quella generazione nutrì una potente ambizione: quella di
evitarti ogni piccola sofferenza cioè tu non dovevi piangere mai. Dovevi dialogare,
dialogare su qualsiasi cosa con lei e con le parole combattere il disagio. Se questo
impegno era immane per tua madre altrettanto pesante era per te tutta questa democrazia
tanto che una volta le dicesti:” Ma mamma, se io ho bisogno di piangere come faccio?”
Piangere. Ecco un argomento su cui io e te potremmo parlare per ore. Marina, io ho
provato spesso le stesse sensazioni che tu mi hai descritto… un ritmo incalzante dentro di
me, impulsi soffocanti che non danno tregua.
Quando ero adolescente, proprio come te, pensavo che i desideri che provavo allora erano
quelli giusti e per questo dovevo realizzarli subito. Ed iniziavo una lotta furibonda contro
il tempo, come se la mia unica possibilità fosse proprio quell’istante in cui il mio fiume era
in piena. Come se il giorno dopo non sarebbe arrivato. Quasi che se non avessi fatto
qualcosa mi sarei giocata il destino per l’eternità. E se i miei coetanei non erano in grado
di vivere questa intensità forse avrei trovato qualcuno più adulto che avrebbe capito
quanto ero più avanti degli altri.
Gli altri dicevano di aspettare, di crescere senza tanta fretta, di assaporare le scoperte
della mia età, di non bruciare le tappe. Ma gli altri non sapevano che io non ero come
quelli della mia età, io ero diversa. E allora che bisogno c’era di aspettare quando è tutto
era così chiaro?
E’ facile pensare che di fronte a questo terremoto arrivino presto lacrime di rabbia, di
delusione, di frustrazione.
E invece a distanza ti rendi conto che impazienza e troppi desideri spesso in contrasto tra di
loro ti fanno davvero perdere tanto tempo, e allora inizia il contrappasso. Perché c’è
bisogno di una pazienza infinita per ritrovare le tracce che abbiamo sparso in varie
direzioni per la fretta di arrivare presto.
Ed eccoci a ripercorrere con grande lentezza ogni passo alla ricerca di indizi …
Ma il contrappasso è cosa mia, perché di fronte al pianto e alla disperazione totale io ti ho
vista in azione ed è stato indimenticabile.
Avevi sei anni ed eri venuta a trovarmi al mare con i tuoi genitori. Indossavi degli
orecchini di oro con le pietre di acqua marina che sembravano fatti apposta per te, per il
tuo nome, per il mare di quel pomeriggio, per la tua nuova bellezza estiva, per quella
nuova femminilità. Quegli orecchini sembravano quasi averti dato una nuova sicurezza.
Il bagno è stato lungo ed eravamo tutti sfiniti ma contenti per quelle ore insieme.
Ma appena dentro casa ecco la tragedia. La terribile scoperta: avevi perso i tuoi orecchini.
Il mare dispettoso, ma forse spiritoso, per gioco e per attirare la tua attenzione di altera
reginetta di tutte le acque, ti aveva fatto questo brutto scherzo. E tu in un attimo avevi
perso il tuo regno, e la tua nuova invulnerabilità. Il mare era stato impietoso: quegli
orecchini li avevi ricevuti il giorno prima per il tuo compleanno. Perché non lasciarteli
ancora un po’ di tempo?
Qualcuno ti aveva derubato, una forza più grande di te, e davanti al mare nessuno di noi
poteva fare niente. Noi ti guardavamo mortificati e impotenti. Le tue lacrime scorrevano
ininterrottamente, le grida e le smorfie del viso erano di nuovo quelle di una bambina
piccola e non c’era più traccia di quella compostezza da adulta che mi aveva colpito al tuo
arrivo.
Ma poi toccato il fondo di quella disperazione totale eccoti annaspare come chi vuole stare
a galla a tutti i costi e tra una bevuta e l’altra chiedere concitata” un foglio un foglio, una
penna una penna”.
Ti sei aggrappata a quel foglio e penna , non ci volevi più attorno. E’ bastato poco, il
tempo di scrivere qualcosa ed ecco il miracolo sotto i nostri occhi. La salvezza. Eri
esausta ma salva.
Ma cosa era successo? Su quel foglio avevi riversato tutto il tuo dolore in una breve frase:
” Non rivedrò mai più i miei orecchini”. Così tu e la scrittura vi eravate incontrate.
Ed io avevo avuto la fortuna di assistere a quell’incontro.
Ripenso ad un episodio…eri venuta a trovarmi qui a Perugia, eravamo davanti alla fontana
a mangiare un gelato, stavamo bene lì e intanto parlavamo di altri posti belli dove
avremmo potuto passeggiare. Di fronte a quell’elenco di possibilità hai cominciato a
rabbuiarti, a diventare inquieta.
Non riuscivi a stare bene come un attimo prima perché pensavi che c’era un altro posto
dove potevi stare meglio.
E poi da adolescente volevi vivere tutto.
”Come faccio a scegliere?”, mi chiedevi, “Come faccio a capire qual è la persona giusta
per me? Magari da qualche altra parte ci può’ essere qualcuno con cui posso stare meglio.
E se l’incontro dopo sposata? “
“E le tentazioni? Io non so resistere alle tentazioni” mi dicevi preoccupata.
Ed invece … eccomi qui, al tuo matrimonio.
Anche tu hai scelto. Anche tu hai capito che bisogna darsi un limite, che non ci sono
certezze, che non c’è perfezione, che c’è solo la diretta?
Una poetessa ha scritto che bisogna lasciare il paradiso perduto delle probabilità e
l’idiozia della perfezione.
Cosa ne pensi? Ahimè, per quel che mi riguarda io ancora persevero.
Nicoletta Nuzzo