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pagina 8
il manifesto
SABATO 17 SETTEMBRE 2011
L’INCHIESTA
Immigrazione •
Sotto la crisi si agitano realtà «clandestine» e «clandestinizzate» in cui si
lavora, anche quando manca l’acqua potabile. Flash di notorietà se ci sono rivolte. Poi tutto come prima
Piero Ferrante
RIGNANO (FOGGIA)
A
l «ghetto» di Rignano s’arriva
all’improvviso. Non ci sono
cartelli, non ci sono avvertimenti. C’è soltanto la terra. Nera, nerissima, un malloppo di carbone
precipitato da un’altezza infinita.
D’altra parte, non avrebbero nulla
da indicare, se non un gruppetto di
case che, disposte di filato, compongono un villaggio bianco e argento,
calce più alluminio.
In verità, questo stralcio di vite
che il mondo ubica nell’agro di Rignano Garganico si ritrova nelle
campagne di San Severo, centro vitivinicolo-granario del foggiano. A definirne l’ubicazione c’ha pensato padre Arcangelo Maira, missionario
scalabriniano, di stanza a Siponto,
frazione di Manfredonia e viaggiatore per vocazione e solidarietà. Padre
Arcangelo ha scartabellato una mole incredibile di documenti, incrociato fonti e studiato fondi, tracciato linee. Infine ha stabilito, con certezza, l’appartenenza cittadina di
una lingua di mondo che non ha governanti.
Al ghetto di San Severo padre Arcangelo c’è arrivato da oltre un lustro, primo e unico ad aver deciso di
mettere piede in un posto potenzialmente ostile. Vi ha trovato gruppi
sparsi di migranti, giunti in Italia
con una miriade di grilli, con promesse e speranze, figli del Mediterraneo che non conoscevano che dialetti locali, il francese e raffazzonavano qualche monosillabo in Italiano.
Oggi, invece, la comunità è composta di cinquecento persone, alcune
famiglie e soprattutto braccianti.
Provengono dal Senegal, dalla Guinea Bissau, dal Congo, dal Burkina
Faso, dal Mali.
Fino alla torrida estate di quest’anno, precisamente sino ai primi
di agosto, erano pochi coloro i quali, in Puglia come in Italia, erano a
conoscenza della sua esistenza. Il
«ghetto» è sempre stato un circolo
Il primo ad arrivare
fu un padre
scalabriniano, solo
di recente sono
arrivate le cisterne
chiuso, strettamente costipato nelle
sue appartenenze varie ma accomunate dal patema del viaggio. Il dondolio di una nave, la paura dell’abisso, le notti incerte nella speranza di
scorgere le terre italiane. Prima Pantelleria, al massimo Lampedusa, poi
via verso il continente, la possibilità
di essere impiegati nei campi. Un
mese fa, nel mezzo della stagione
del pomodoro, le prime voci, i mormorii normali, l’attenzione che si focalizza su un villaggio di lavoratori
della terra, rimasto senz’acqua e
con poca possibilità di sopravvivenza, dove gruppi di volontari foggiani, guidati dal padre scalabriniano,
suppliscono all’assenza di acqua potabile portando angurie. Ad un centinaio di chilometri sono in corso i
tumulti dei migranti baresi e nel Sa-
FOGGIA · Un fazzoletto di terra incognita. Un’umanità che si organizza. Ma non è folklore
Nel ghetto sconosciuto
a due passi da casa
lento si fa strada una protesta che rischia di sconquassare la pace sociale dei latifondisti.
I migranti di Rignano-San Severo
non esplodono. Chiedono di avere
accesso all’acqua potabile, per non
rischiare la vita, malattie epatiche,
dolori lancinanti di stomaco. Grazie
alla Regione Puglia, che finanzia
una decina di autoclavi, arriva la prima conquista. Nel mezzo della sabbia che vola, mischiandosi con la
terra e spazzando i tetti in lamiera
delle baracche improvvisate, le cisterne azzurre concorrono ad apportare qualche miglioramento. Assessori e consiglieri fanno a gara ad attribuirsi i meriti. Eppure per tre anni, ovvero dal 2008, da quando Via
Capruzzi ha scelto di monitorare le
aree a più alta presenza migrante
della Puglia per apportarvi aiuti, a
Rignano non è arrivato nulla. E nessuno. Per tre anni, il ghetto è stato
fuori dalla portata conoscitiva dell’Occidente, relegato a Stato a parte,
a non Repubblica.
Vengono montati anche alcuni
bagni chimici. Chi con il ghetto ci
convive, sa che, prima di quest’estate, i migranti urinavano e defecavano sotto le stelle, tramutando i campi e le terre in latrine a cielo aperte.
Ma dopo l’aiuto, cala, di botto, il silenzio. Si acquieta tutto perché finisce la stagione del pomodoro. Pur
non volgendo a termine, con essa,
l’esistenza dei braccianti. I media
sbaraccano i fari, spostati sulle amministrazioni in crisi del Tavoliere.
La politica ritorna nei Palazzi a discutere di manovre ed economie, di
tagli e riduzioni. Al ghetto, però, la
cellula sopravvive, prova a mantenersi in vita. Abbozza una normalità che, agli occhi degli italiani, degli
esterni, dei «non fratelli», pare addirittura folklore. Ma è un velo.
I problemi restano tanti. E pesanti. I soldi guadagnati con la stagione
dell’oro rosso, 3 euro a cassone,
10-11 ore di lavoro spacca schiena,
ALCUNE
IMMAGINI
DEL
GHETTO DI
RIGNANO,
NEL
FOGGIANO
finiscono presto. Innanzitutto perché la meccanizzazione agricola riduce i posti. E bisogna sempre sperare che piova. Sulla terra, le macchine faticano a farsi largo. Ma anche
persi fra i fumi delle case d’appuntamento, cinque, che puntellano il villaggio. Sono ad uso e consumo dei
«residenti». Le ragazze che vi lavorano non bazzicano tutte le statali, restano in loco, sorvegliate e protette
da grandi matrone che osservano
tutto quanto accade nel villaggio fragile. Il giro, in fondo, rende anche
così. Quel che non si vede, o si vede
poco, è che, accanto a questi posti, i
soli che vendano alcoolici (consumato dai cristiani, i musulmani non
possono), dimorano famiglie, le cui
donne restano in casa per non confondersi con il resto del genere femminile. I bambini invece, quelli no,
escono, corrono, giocano. Parlano
italiano come gli italiani e ridono come se tutta questa desolazione e
questo caldo d’intorno non fosse
che una vita normale, come tante altre. Hanno palloni, tricicli, biciclette, le fanno correre su un vialone in
terra battuta. L’unico vialone presente nel ghetto, il principale e solo.
Quello dove s’affacciano un bar
che ci dicono essere gestito da un albanese e che ha fuori anche un biliardino. Le case, poi, tranne le masserie, sono buchi di materiali vari ed
eventuali, legno più ferro più lamiera. Le reti abbandonate dei letti fungono da finestre, porte abbandonate da battenti. Le antenne paraboliche permettono di raggiungere canali africani e danno un tocco di
progresso. Ma in queste vampe roventi ci dormono anche in dieci.
Di fronte, proprio di faccia all’abitato, il Gargano domina il paesaggio. Strozza il fiato in gola, dà
l’idea di essere in un catino, in
una bacinella riempita di terra e
fango. Poi basta girare l’angolo, fare una decina di chilometri per tornare in Occidente, ad una vita illusa di essere riparata.
LAMPEDUSA · Nelle sale della Capitaneria di porto, dove l’unica regola è salvare le persone
Ecco come funzionano gli sbarchi
Antonello Mangano
LAMPEDUSA
«I
n asperitate maris pro humanitate». E’ il motto della
Capitaneria di Porto, un pugno di uomini che con i colleghi della Guardia di Finanza pattuglia le acque territoriali e trascina i barconi
al molo Favarolo. Spesso salvando
uomini, donne e bambini da natanti che imbarcano acqua, che hanno
finito la nafta, che hanno perso la
rotta e vanno alla deriva. Migliaia di
persone sottratte al naufragio.
Una lavoro sconosciuto e nascosto dall’idea degli «sbarchi», sui cui
invece è stata costruita la sindrome
dell’invasione. In realtà, qui non arriva nessuno da solo. O meglio, sono in pochissimi: tecnicamente si
chiamano ‘sbarchi orfani’. E non è
un caso che praticamente nessuno
giunga a Pantelleria, che è anche
più vicina alle coste tunisine. I lampedusani lamentano spesso che
quell’isola rimane il «paradiso dei turisti», mentre la loro è stata scelta come un gigantesco «centro immigrati».
Lo specchio d’acqua tra Lampedusa, Libia e Tunisia è sorvegliatissimo. Elicotteri e aerei, guardacoste e
unità veloci, pattugliatori e incrociatori. L’attività è senza interruzioni.
Guardia Costiera e Finanza fanno a
turno, la Marina con continuità. Siamo negli uffici della capitaneria, sono le 14. «C’è una unità della Marina Militare in pattugliamento che
ha avvistato due target e li tiene sotto controllo», ci dicono. «Hanno pie-
na navigabilità, non ci sono elementi che ci lasciano presagire delle difficoltà». Più tardi una delle due unità
inizierà a imbarcare acqua. L’intervento italiano arriva quando ci sono
segnali di pericolo: la barca che si
ferma all’improvviso, motori in avaria. Oppure persone che buttano acqua fuori con i secchi o che hanno
perso la rotta e vanno alla deriva.
In questi casi si avvia in automatico la procedura Sar (Search and Rescue). La nave più vicina dà le coordinate e inizia l’intervento. «A prescindere dalla posizione, in mare
c’è la legge dell’aiuto reciproco.
Quindi anche se l’imbarcazione si
trova in acque internazionali o anche se è più vicina alla costa tunisina, noi interveniamo come SAR». In
caso di pericolo viene prima l’umanità, dice il motto. Quando si rischia
il naufragio tutte le altre norme vanno in secondo piano. Anche se nasce un conflitto con le «ragioni superiori», gli ordini che vengono dall’alto o le leggi di Roma. E i conflitti ci
sono anche se ovviamente si cerca
di tenerli nascosti.
Come denunciato sul manifesto
del 9 settembre, sono in atto da mesi i respingimenti per le imbarcazioni che provengono dalla Tunisia e
che non presentano segnali di pericolo. E’ il frutto dell’accordo tra Maroni e il governo provvisorio del paese nordafricano. Ed è anche una pratica illegale, di cui si sta discutendo
in questi giorni al Parlamento europeo e che fa rischiare all’Italia una
condanna alla Corte di Strasburgo.
Abitualmente, finché si tratta di
anti-immigrazione coordina il comando della Finanza. Se c’è un’operazione di soccorso comanda la Capitaneria. Decidere il quadro di riferimento può essere questione di attimi. Ad agosto, col mare piatto, non
ci sono stati grandi problemi. Ma in
inverno sarà tutta un’altra cosa: «E’
questione di ore, puoi avere la fortuna di avere condizioni ottime per
cui in un giorno o due arrivi». Altrimenti rischi di andare alla deriva
nel Mediterraneo. Nel caso che abbiamo osservato da vicino è andato
tutto bene. Lo sbarco – cioè l’accompagnamento in porto – ci sarà solo
alle 20,30, la segnalazione era arrivata già nel primo pomeriggio. Ma le
Il canale di Sicilia
è controllatissimo.
Le procedure sono
ferree: intervento
in caso di pericolo
telecamere delle tv riprenderanno
esclusivamente un centinaio di tunisini che scende sul molo.
«Noi siamo in mare principalmente per una questione doganale.
La Guardia di Finanza è sulle coste
per tutelare il paese dai traffici illeciti, dalle sigarette alla droga agli esseri umani», spiega il maggiore Fabrizio Pisanelli. Ma Lampedusa è un’altra cosa. «È un’emergenza umanitaria, è differente rispetto alla Calabria, al Salento, al sud della Sardegna. Qui diamo man forte a chi si occupa di sicurezza in mare». Anche
in acque internazionali.
Lampedusa è un caso a sé anche
rispetto ai famosi scafisti. «Essendo
così vicina le organizzazioni pensano al trasporto, forniscono l’imbarcazione, spesso danno il Gps, individuano la persona che ha cognizioni
marittime tra i migranti, di solito un
ex pescatore, e gli dicono: ‘Segui
questa rotta e vai’. Perché alla fine
sono poche miglia».