storia di un pendolo - CPB Centro Professionale Biasca

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storia di un pendolo - CPB Centro Professionale Biasca
STORIA DI UN PENDOLO
Il Pendolo di Foucault del Centro professionale di Biasca
Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo
scritto quest’opera. Scrutate il libro, raccoglietevi in quella
intenzione che abbiamo dispersa e collocata in più luoghi;
ciò che abbiamo occultato in un luogo, l’abbiamo
manifestato in un altro, affinché possa essere compreso dalla
vostra saggezza.
(Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim, De occulta
philosophia, 3, 65)*
*Tratto da “Il pendolo di Foucault”, Umberto Eco, Ed.
Bompiani, Milano, 1988)
Praga, 1996
Patrizio, Roberto, Andrea e Sacha stanno
cenando in un ristorante del centro storico. Le
pareti in pietra massiccia e lo stile del luogo
ricordano un edificio neoclassico, settecentesco.
L’atmosfera è rilassata e la conversazione verte
sui più svariati temi. Patrizio Maggetti e Roberto
Cortinovis sono docenti di cultura generale presso il Centro professionale di Biasca
(CPBiasca), mentre Andrea Piemontesi e Sacha Solari insegnano al Centro Arti e mestieri
di Bellinzona (CAMBellinzona), oltre che ai corsi di maturità professionale per elettricisti a
Biasca. Insieme, stanno accompagnando due classi di apprendisti elettricisti e muratori in
gita di studio a Praga. La cena è ottima, il vino è buono e tra i vari argomenti della
piacevole chiacchierata vi è anche la letteratura e, fra gli altri, spunta il nome di Umberto
Eco. Qualcuno infine cita “Il Pendolo di Foucault”.
- Gran bel romanzo! ma tu ci hai capito qualcosa? - Cortinovis deve ammettere di essere
venuto a conoscenza del famoso esperimento di Foucault solo grazie a Umberto Eco.
A un certo punto, qualcuno dice: - Sarebbe bello costruire un pendolo di Foucault a
scuola. - Detto, fatto! Una decina di anni dopo si inaugura, presso il Centro professionale
di Biasca, un vero Pendolo di Foucault. Questa, in sintesi, la storia che vorremmo ora
narrarvi più dettagliatamente.
Fu chiaro fin da subito, già durante la cena a Praga, che il luogo ideale sarebbe stato il
Centro professionale di Biasca, per le sue caratteristiche architettoniche. Vi si trova infatti,
nell’atrio delle scale che portano alle aule, uno spazio vuoto di circa 5 x 8m e alto 16.
Piemontesi informa i presenti che un suo
collega, Flaminio Negrini, si era già
interessato alla questione qualche tempo
prima, realizzando un pendolo di dimensioni
ridotte nella cantina di casa sua, proprio
come aveva fatto a suo tempo Foucault! Ci
sono quindi tutti i presupposti per partire
con entusiasmo in questa impresa.
Al ritorno da Praga, però, tutti rientrano
nella loro routine quotidiana e nessuno
sembra più
ricordarsi del progetto.
Passano le settimane e i mesi, forse anche
più di un anno, senza che nulla accada.
Cortinovis prova a mettere un avviso
all’albo in aula docenti: “Progetto Pendolo di Foucault, chi è interessato a partecipare?” Ma
nessuno si fa vivo. Il progetto vero e proprio è quindi decollato solo molto tempo dopo, ma
era doveroso citare questo inizio così lontano nel tempo e nello spazio, così poetico.
Bisognerà attendere l’intervento risolutore di Maggetti (correvano gli ultimi mesi del
secondo millennio...) per dare inizio alle operazioni in modo serio. Ad un certo punto,
infatti, Patrizio Maggetti annuncia che si farà carico di intraprendere uno studio di fattibilità
del progetto. Poco tempo dopo, si presenta al collegio dei docenti di cultura generale del
CPBiasca annunciando la conclusione delle sue indagini: secondo lui la cosa si può fare, il
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progetto è realizzabile, grazie anche alla collaborazione dei colleghi entusiasti di
Bellinzona. Tra le varie informazioni reperite da Maggetti si viene a sapere che esistono,
com’era ovvio prevedere, centinaia, probabilmente migliaia di pendoli in giro per il mondo;
che ce ne sono almeno due in Svizzera (Porrentruy, Soletta) e che la California Academy
of Science fornisce addirittura un kit di montaggio completo in due versioni, una da
34'750.- dollari e una più grande da circa 80-90'000.-. Quest’ultima informazione farà
riflettere tutti: forse non sarà così semplice, come pensava Cortinovis, appendere una
sfera, una palla, una boccia qualsiasi al soffitto e farla “ciondolare”! Cortinovis, infatti, fino
a quel giorno pensava ancora ingenuamente che il problema più grosso sarebbe stato
trovare un alpinista in grado di arrampicarsi sulla vetrata del soffitto e agganciare il filo con
la sfera…
Certo, il problema finanziario cominciava ora
a delinearsi in tutta la sua importanza, ma in
quel momento nessuno si preoccupò di
stabilire se il progetto fosse realizzabile sotto
quell’aspetto, tutti erano interessati a
risolvere la questione dal punto di vista
tecnico. Intanto, altri colleghi cominciarono a
interessarsi alle attività del gruppo: il già
citato
Flaminio
Negrini,
Massimiliano
Guidolin e Davide A Marca, entrambi docenti
di fisica e matematica alla maturità
professionale.
Ma un’ulteriore spinta a procedere verso la
concretizzazione di tutte le teorie messe sul
tavolo arrivò da un’altra suggestione di Maggetti: perché non provare ad andare a visitare
un pendolo qui vicino, per raccogliere magari qualche informazione? Navigando su
internet, infatti, Patrizio aveva “scovato” un pendolo presso l’”Istituto per geometri A.
Canova” di Vicenza. Da Vicenza fecero sapere che il responsabile del pendolo, il Prof.
Vincenzo Brogliato, era volentieri a disposizione per eventuali visite, domande, chiarimenti
e informazioni. Maggetti, Piemontesi e Negrini partirono dunque alla volta di Vicenza, dove
vennero accolti dal Prof. Brogliato, che dimostrò di essere una persona molto ospitale e
molto disponibile. Invitò a pranzo i tre colleghi svizzeri e fornì loro una nutrita
documentazione sul pendolo di Foucault da lui progettato e costruito. La spedizione ebbe
addirittura un’eco sul giornale locale (“Il
Giornale di Vicenza”), dove uscì un articolo dal
titolo “La calata degli svizzeri”, in cui si
spiegava che una delegazione di professori e
ingegneri svizzeri era giunta in Italia a chiedere
consigli tecnici a dei colleghi italiani! I nostri
tornarono dalla trasferta vicentina galvanizzati e
decisi ad andare fino in fondo: oramai non
sussisteva più alcun dubbio, il pendolo si farà!
Rimaneva solamente da decidere “il come”.
Già! Come faremo? Mentre si dibattevano le
questioni tecniche, cominciava a essere chiaro
a tutti che quella finanziaria non poteva essere
rinviata oltre. Dove, o meglio, come reperire i
fondi necessari alla realizzazione del progetto?
Il Pendolo di Vicenza
E soprattutto, di quanti soldi ci sarebbe stato
bisogno? Fare un preventivo non era semplice,
anche perché non esisteva ancora un progetto ben delineato.
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A un certo momento, qualcuno nel gruppo ebbe un’idea
semplice quanto geniale: coinvolgere gli apprendisti
nelle attività di costruzione delle varie componenti del
pendolo. In altre parole, fare costruire il pendolo agli
apprendisti. Oltre a risolvere parecchi problemi di ordine
pratico e finanziario, ciò avrebbe naturalmente
aumentato di molto la valenza pedagogico-didattica di
tutto il progetto.
A questo punto, vale forse la pena aprire una parentesi
per i non addetti ai lavori. Infatti, forse non tutti sanno
che
esistono
principalmente
due
tipi
di
apprendistato: uno a tempo pieno, nel quale la
formazione sia teorica che pratica si svolge
completamente all’interno di una scuola di arti e
mestieri, e un altro cosiddetto “duale”, nel quale
l’apprendista riceve la formazione teorica a scuola e
quella pratica in azienda. Anche in questo secondo
caso, però esistono dei “Corsi interaziendali” di
alcune settimane all’anno, in cui gli apprendisti
apprendono ed esercitano i fondamenti della
professione
scelta sotto la
guida di docenti-istruttori. Si trattava quindi di
convincere i docenti dei laboratori delle scuole di arti
e mestieri e quelli dei corsi interaziendali a fare
costruire agli apprendisti le varie componenti del
pendolo durante le loro normali lezioni. Bisognava
riuscire a far coincidere le loro esigenze didattiche, di
programma, con quelle del gruppo del progetto
“Pendolo di Foucault”. Per fare un solo esempio,
anche
se
banale: perché
non fare costruire una vera ringhiera a degli
apprendisti metalcostruttori, invece che farli
esercitare a saldare delle componenti fittizie che
non avrebbero avuto nessuna applicazione
concreta nella realtà? A prima vista, tutto ciò
sembrava più facile a dirsi che a farsi. Invece la
rispondenza non fu solo positiva, ma addirittura
entusiastica, tanto che altri colleghi chiesero di
poter aderire al progetto. È quindi giunto il
momento di fare un elenco delle professioni e dei
docenti coinvolti nella realizzazione del pendolo di
Biasca.
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Docenti coinvolti
Patrizio Maggetti
Roberto Cortinovis
Andrea Piemontesi
Flaminio Negrini
Massimiliano Guidolin
Davide A Marca
Virgilio Brogliato
Claudio Rossi
(CP Biasca /SPAI Trevano)
Carlo Togni (CP Biasca)
Flavio Salmina (CP Biasca)
Fabrizio Guarisco
(SAMB Bellinzona)
Stefano Solari
(Unione svizzera metallo)
Massimo Oncelli
(Unione svizzera metallo)
Capo progetto Coordinazione
Aiuto capo progetto Coordinazione
Consulenza tecnica
Consulenza tecnica e “alpinistico-acrobatica”
Consulenza matematica-fisica
Consulenza matematica-fisica
Consulenza tecnica
Parti in metallo
(disegno tecnico, progettazione)
Parti in marmo (disegno tecnico, realizzazione)
Illuminazione (progetto e realizzazione)
Parti aggancio sfera e consulenza
Parti in metallo (realizzazione)
Parti in metallo (realizzazione)
Apprendisti coinvolti
Polimeccanici
Elettronici
Metalcostruttori
Costruttori di impianti e apparecchi
Disegnatori metalcostruzioni
Scalpellini
Montatori elettricisti
Pittori
Grafici
SAMB Bellinzona
SAMB Bellinzona
CP Biasca
CP Biasca
SPAI Trevano
CP Biasca
CP Biasca
CP Biasca
CSIA Lugano
Rimanevano quindi da coprire “solamente” le spese per il materiale. Interpellata in tal
senso, la direzione del CPBiasca
comunicò ai responsabili del progetto
che esisteva effettivamente un
piccolo fondo costituito da offerte
fatte dalle ditte che parteciparono a
suo tempo alla costruzione del centro
professionale. Questo fondo era stato
pensato proprio per finanziare
eventuali progetti di una certa
importanza ed entità, da realizzare
presso il nostro istituto ed il “Progetto
Pendolo di Foucault” sembrava
senz’ombra di dubbio rientrare in
questa categoria. Quindi, messi da
parte alcuni dubbi iniziali e alcuni
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scetticismi sull’utilità dell’opera (“Ma che roba è? Ma a che cosa serve?”), la direzione
decise senz’altro di aiutare docenti e apprendisti a portare a termine questa impresa.
Erano quindi assicurate, almeno in partenza, le condizioni minime indispensabili per poter
dare inizio ai lavori veri e propri. Altri aiuti inattesi, di cui si parlerà più avanti, arrivarono in
un secondo tempo e furono di
importanza rilevante per permettere ai
lavori di giungere a buon fine. Ora si
trattava di portare a termine la
progettazione teorica, prima di poter
costruire alcunché. Il gruppo si riuniva
sempre più spesso; fisici e ingegneri
lavoravano alacremente per risolvere
ogni minima questione tecnica, perché
tutto deve essere studiato, calcolato e
disegnato alla perfezione: come dovrà
essere il punto d’aggancio? Come sarà
la sfera? Di che dimensioni, di che
peso e di che materiale? Cosa
metteremo sotto? Questi e altri gli
interrogativi
da
risolvere.
Ma
soprattutto: come si fa a mantenere in oscillazione la sfera? Con una calamita, certo. Un
elettromagnete, per la precisione, ma dove verrà collocato? Sul pavimento, come dice
Umberto Eco nel suo romanzo? Roberto Cortinovis, volendo rivivere le emozioni di
Casaubon, Belbo e Diotallevi, era stato a Parigi al Conservatoire des art set métiers e al
Panthéon, per cercare di capire il funzionamento dell’originale. Invano… nessuna
indicazione in questo senso. Dappertutto viene spiegato a cosa serve il pendolo, ma non
come funziona. Come dovrà essere l’elettrocalamita, che forma dovrà avere e come farà
ad attirare o respingere la sfera del pendolo senza alterarne il suo moto naturale? Dopo
lunghe discussioni attorno a questo tema, Negrini e Piemontesi, d’accordo con Guidolin e
A Marca, propongono di non mettere
l’elettromagnete sotto la sfera, come si
pensava in un primo tempo, bensì di
installare un toroide alla sommità del
pendolo, vicino al punto di aggancio del filo
che sosterrà la sfera. Mentre Cortinovis
stava ancora cercando il termine “toroide”
sul dizionario, gli esperti stavano già
calcolando
l’ampiezza
che
questa
“ciambella” avrebbe dovuto avere e qual
era la forza necessaria all’elettromagnete
per attirare a sé un sottile (quanto sottile?
Non si sa ancora!) filo d’acciaio alla cui
estremità, circa 15 metri più in basso,
sarebbe stata appesa una sfera di non si
sapeva ancora quanti chili…
Una volta risolto il problema maggiore, anche se solo a livello teorico, le altre decisioni
vennero prese in un tempo relativamente breve. Innanzitutto la sfera: dopo aver scartato
alcune proposte anche originali (una sfera in granito, o in legno, tra le altre), la scelta
rimase quella tra il bronzo e l’acciaio. La loro maggiore densità (8-9 kg/dm3 contro i 3 del
granito) dava maggiori garanzie di stabilità del movimento; inoltre entrambi sono immuni al
magnetismo terrestre. Infine, il bronzo è il materiale utilizzato a Parigi per il pendolo
originale e l’acciaio crea meno problemi nella lavorazione ed è sicuramente il materiale
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con il quale gli apprendisti polimeccanici sono maggiormente abituati a lavorare. L’acciaio
inox, però, aveva anche un altro vantaggio: non avrebbe dato nessun problema di
ossidazione, come invece probabilmente sarebbe accaduto con il bronzo. La scelta cadde
quindi sull’acciaio, che oltretutto costa molto meno. Il peso fu stabilito più o meno
arbitrariamente; il quintale, questa misura ormai desueta, piacque subito a tutti: un bel
quintale d’acciaio, una cifra tonda tonda, proprio come una sfera! L’originale di Parigi ne
pesa meno di 40, non ci saranno problemi con un peso così grande? La domanda sorse
spontanea ma, secondo i responsabili della calcolazione, il peso “esagerato” non avrebbe
dovuto creare ostacoli di nessun genere, anzi, semmai esso avrebbe dato maggior
stabilità all’oscillazione. Trattandosi di una sfera piena, la sua massa definì le sue
dimensioni, avrebbe quindi avuto un diametro di 29 cm. Impossibile, con i mezzi a nostra
disposizione, costruirla in un pezzo unico, perciò la stessa venne realizzata in 5 strati, o
“fette”, con un cilindro passante che le avrebbe mantenute unite. La sua realizzazione,
insieme a quella del toroide con l’elettromagnete, venne
affidata agli apprendisti polimeccanici del CAM di
Bellinzona.
Nel frattempo, anche le altre componenti vennero
progettate, disegnate e costruite. La decisione di situare
l’elettromagnete in alto, invece che sotto la sfera, incise
notevolmente sulle caratteristiche del sistema di aggancio
del pendolo, che da semplice “gancio”, divenne una
notevole struttura trapezoidale fatta di tubi d’acciaio.
Progettata e disegnata dagli apprendisti disegnatori di
metalcostruzioni di Trevano, diretti da Claudio Rossi, la
struttura fu costruita e assemblata presso il Centro SSIC di
Gordola, nelle officine dell’USM, dagli apprendisti
metalcostruttori coordinati dai docenti Stefano
Solari e Massimo Oncelli. Contemporaneamente
a questa struttura, gli apprendisti metalcostruttori
realizzarono una ringhiera che avrebbe
circondato e protetto il pendolo nelle sue
oscillazioni.
Bisognava infine decidere cosa mettere sul
pavimento, sotto il pendolo; qualche cosa che
permettesse di vedere la sua rotazione
apparente. Dato che al CPBiasca, c’erano anche
delle classi di apprendisti scalpellini, l’occasione
era perfetta per coinvolgere anche questi ultimi
nel progetto. Dopo aver valutato diverse varianti,
si decise di installare una “classica” rosa dei venti, della cui realizzazione si fece carico
Carlo Togni con i suoi apprendisti scalpellini. La rosa, del diametro di 2,20m prevedeva
l’assemblaggio di quattro diversi tipi di marmo di diverso colore, appoggiati su di una base
in granito. Un sabato mattina,
Carlo Togni, accompagnato da
Maggetti, Cortinovis e dall’allora
direttore Licurgo Pedroli, si recò
presso la ditta Valli SA di Grancia,
per scegliere i marmi. La scelta
cadde sul marmo rosa di Arzo, sul
verde del Portogallo, sul famoso
marmo bianco di Carrara e, per
finire, sul nero “Galaxy” proveniente dall’Africa. Quest’ultimo aveva un nome e delle
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caratteristiche che si sposavano perfettamente con il tema del progetto, con il suo
profondo nero costellato da piccoli frammenti brillanti come le stelle di una galassia.
Siamo nella primavera del 2002, ed è quindi già trascorso più di un anno dall’inizio dei
lavori; può sembrare molto, ma va ricordato che né gli allievi né i docenti possono
dedicarsi a tempo pieno al progetto. I docenti si riuniscono nel loro tempo libero e gli
apprendisti possono realizzare le varie componenti
solo durante i loro corsi interaziendali, corsi che
ovviamente non si svolgono tutti nello stesso periodo.
Nemmeno i polimeccanici e gli elettronici della scuola a
tempo pieno di Bellinzona possono dedicare tutto il
tempo delle loro attività di laboratorio a costruire le
varie componenti del pendolo. Tutto ciò ha richiesto
uno sforzo di coordinazione notevole che ha messo a
dura prova soprattutto il responsabile del progetto,
Patrizio Maggetti. Comunque, alla fine di marzo del
2002, gli scalpellini avevano terminato il loro lavoro e la
rosa dei venti era pronta, in attesa di poter essere
posata. A questo riguardo, è doveroso citare il fatto che la ditta Valli SA di Grancia ha
deciso di aiutarci mettendo a disposizione gratuitamente tutte le sue infrastrutture (officine,
macchinari) per una settimana intera, durante la quale gli apprendisti, coadiuvati dai loro
maestri di tirocinio, hanno potuto preparare questo “puzzle” di marmo.
Ad ogni modo, i componenti del gruppo di coordinazione e tutte le persone coinvolte,
svolgono le varie attività con entusiasmo e competenza; ciò che fa ben sperare per un
risultato finale più che valido sia dal punto di vista estetico che da quello tecnicoscientifico. Nell’autunno dello stesso anno, infatti, praticamente tutte le parti che andavano
costruite erano pronte per essere installate: la rosa dei venti, la ringhiera, la sfera, la
struttura di aggancio e il toroide con l’elettromagnete. Nei laboratori di Bellinzona, intanto,
gli apprendisti stanno elaborando il sistema
di monitoraggio dell’oscillazione, hardware
e software compresi.
In una fredda sera di novembre, da Gordola
vengono trasportate a Biasca, con mezzi
privati, tutte le parti metalliche; anche in
questo caso, come accaduto spesso,
docenti
e
apprendisti
fanno
degli
straordinari volontariamente. Un’altra ditta
presso la quale lavoravano alcuni nostri
apprendisti, l’impresa di pittura Paolucci SA
di Biasca, si offrì di verniciare gratuitamente
queste parti metalliche. Anche questo aiuto
si rivelò essenziale, in quanto presso il
Centro SSIC di Gordola, dove gli
apprendisti pittori frequentano i loro corsi pratici, non era possibile reperire una camera per
la verniciatura a spruzzo che fosse sufficientemente grande.
A questo punto, tutte le componenti erano non solo pronte, ma anche in loco, in attesa di
essere installate. C’era una certa eccitazione tra il gruppo di coordinamento diretto da
Patrizio Maggetti, tutti desideravano vedere funzionare il pendolo al più presto. Mancava
poco a Natale, e durante le vacanze scolastiche un’impalcatura di cantiere fu montata
nell’atrio della scuola; essa avrebbe permesso di avere una piattaforma di lavoro proprio
sotto la volta in acciaio e vetro del soffitto.
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Già nel mese di dicembre 2002, quindi, la squadra dei metalcostruttori diretti da Massimo
Oncelli e Claudio Rossi poterono in tutta sicurezza agganciare il “trapezoide” alle putrelle
d’acciaio ad arco del soffitto. Questo trapezio
rappresenta la struttura d’aggancio del pendolo e
deve essere molto solido e soprattutto molto
stabile. Il montaggio avvenne in tempi
sorprendentemente rapidi (un giorno? due giorni?
nessuno se ne ricorda) e senza problemi.
Ad inizio gennaio 2003, sotto la guida di Fabrizio
Guarisco, i polimeccanici inserirono nella sua
apposita sede il toroide con l’elettromagnete e
assemblarono sul posto la sfera. Un filo d’acciaio
del diametro di 3 mm spuntò da chissà dove e,
finalmente, uno dei momenti più attesi arrivò:
l’aggancio del filo con il pendolo. Apprendisti e docenti lavorano come se niente fosse,
quasi come se avessero montato pendoli di Foucault per tutta la vita; eppure qualcuno
percepisce l’emozione del momento e s’immagina le
note di “Also sprach Zarathustra” di Richard Strauss
che sottolineano l’evento.
Finalmente anche i media si interessarono al
progetto e la TSI arrivò a filmare i “primi passi” del
nostro pendolo, che oscillava, ancora timido ma
tranquillo, tra le impalcature. Un breve servizio al
“Quotidiano” e il nostro pendolo era già diventato
famoso.
Per le prove vere e proprie bisognava ancora
attendere lo smontaggio delle impalcature. Intanto, i
polimeccanici e gli elettricisti che collaboravano al
cablaggio necessario per l’alimentazione dell’elettromagnete eseguirono un lavoro a
regola d’arte: i tubolari della struttura portante vennero
forati e i cavi fatti passare all’interno, dall’esterno non si
vede nessun filo elettrico. La strumentazione e le
apparecchiature di monitoraggio dell’elettromagnete
trovarono posto in un piccolo locale tecnico al terzo
piano, poco lontano dal pendolo.
Ancora in gennaio, appena smontate le impalcature, si
procedette ai primi “lanci” di prova; bisognava verificare
il corretto funzionamento del pendolo. Molti sono gli
aspetti fisici e tecnici da considerare in questi test;
Piemontesi e Negrini, coadiuvati dai colleghi Guidolin e
A Marca, si misero subito al lavoro sotto l’occhio vigile
del capoprogetto Maggetti. I primi test furono
emozionanti, ma certo non molto entusiasmanti,
perché il pendolo non si comportava esattamente
secondo le aspettative. Qualche irregolarità nel
movimento era stato previsto dai fisici; nessuno, tranne
forse Cortinovis, si aspettava che il pendolo oscillasse
perfettamente al primo tentativo, ma qui si trattava di
ben altro. Infatti, il movimento della sfera, lasciata libera di oscillare per un paio d’ore,
assomigliava più a quello di una giostra di Luna Park che a quello di un pendolo. Invece di
oscillare, girava. Non era certo quello il modo con cui si voleva dimostrare la rotazione
terrestre. La sfera sembrava non volersi adeguare alle leggi della fisica, o meglio, proprio
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perché vi si adeguava in tutto e per tutto, non si limitava a oscillare diligentemente avanti e
indietro come volevano i suoi progettisti. Fu quindi subito fermata e iniziarono le
supposizioni, le ipotesi e i tentativi di spiegazione. Una certa ellisse nel suo movimento era
prevista, ma un’ellisse troppo grande non permette all’osservatore di notare la rotazione
apparente del pendolo. Bisognava
dunque trovare il modo di smorzare
questa ellisse rendendola minima o
impercettibile,
convincendo
nel
contempo i profani che così facendo
non si influiva sul moto di rotazione
apparente del pendolo. In altre parole,
bisognava convincere tutti che non è
l’elettromagnete che “fa girare” il
pendolo. Questo non è un problema
che preoccupa gli addetti ai lavori, i
fisici e gli astronomi, ma è certamente
una
delle
domande
più
frequentemente sollevate dal pubblico
che vede per la prima volta un pendolo
di Foucault.
Da questo momento in avanti, quindi,
si può affermare che il progetto era entrato in una delle sue fasi più difficili, le variabili e le
forze in gioco sono moltissime e non vi è teoria che possa aiutare a risolvere tutti i
problemi. La realizzazione era diventata una questione soprattutto empirica, fatta di
interminabili prove, di aggiustamenti, di tentativi ripetuti, di fallimenti e di successi parziali,
di dubbi e ipotesi da verificare. Più di una volta si trattò di escogitare vere e proprie
soluzioni nuove per risolvere nuovi problemi e di invenzioni per superare ostacoli
imprevisti, nonostante tutto fosse stato progettato e calcolato alla perfezione. Cercheremo,
nelle righe che seguono, di illustrare qualche esempio, ma prima di tutto è giunto il
momento di spiegare il funzionamento dell’elettrocalamita.
Il toroide che contiene l’elettromagnete è munito di 4 fotocellule che hanno il compito di
monitorarne il funzionamento. Le 4 fotocellule, situate al di sopra del toroide stesso, sono
in realtà due barriere ottiche poste a 90° l'una rispetto all'altra e che si incrociano sull'asse
del filo. Una barriera ha un emettitore, che emette un fascio di luce, e un ricevitore che dà
un segnale quando tra i due si interpone un oggetto e quindi non riceve il fascio. In questo
caso, quando il filo del pendolo passa dal centro, si interpone tra i due e il ricevitore dà un
segnale. Vi sono due barriere perché con una sola, quando il movimento del filo è allineato
con il fascio di luce (e quindi, in teoria, la barriera è sempre interrotta) non si riesce a
rilevarlo se non disponendo appunto di una seconda barriera. Un microcontrollore (un
circuito di controllo) rileva quindi il segnale emesso dai ricevitori quando il filo del pendolo
passa dal centro del toroide. Grazie a questo segnale il microcontrollore può misurare
quanto tempo "dura" un'oscillazione completa. In realtà ne misura 4 e poi fa una media;
quando si è determinato il tempo medio di un'oscillazione, al passaggio del filo dal centro il
microcontrollore attende un tempo x al termine del quale per un tempo y attiva il toroide:
questo crea un campo magnetico che attira verso di sé il filo tramite un “anello di trazione”
posto sul filo stesso. L’anello di trazione consiste in una sporgenza, un disco, posto su di
un tubicino rigido di ca. 2 m di lunghezza, che avvolge la parte alta del filo poco prima del
punto di aggancio. Il tubicino rigido, oltre che a sostenere l’anello di trazione, ha un
secondo scopo; quello cioè di eliminare gli effetti di “pizzicato” che la trazione ha sul filo
ogni qual volta quest’ultimo viene agganciato o rilasciato dall’elettromagnete. L'impulso
termina più o meno quando l'anello tocca il toroide, ma la durata reale di x e y è stata
impostata sperimentalmente osservando il comportamento del pendolo e del filo (le
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interminabili "prove"...). La stessa cosa accade al ritorno ma dalla parte opposta: l’unica
differenza è che si alimenta il toroide con polarità inversa per evitare magnetizzazioni
permanenti dell'anello. L'impulso viene quindi dato ogni volta che il pendolo è in prossimità
della periferia ed è questo che lo mantiene in movimento. La regolazione della tensione
dell'impulso elettrico al toroide e la sua durata (in
sostanza l'energia fornita) sono fondamentali per
le oscillazioni sul filo e sul pendolo.
Tutto questo spiega in che modo è mantenuto in
oscillazione il pendolo di Biasca. Rimane però da
spiegare come è stata risolta l’altra questione
molto importante a cui si accennava poc’anzi:
riuscire a ridurre il più possibile la tendenza del
pendolo a percorrere una traiettoria a forma di
ellisse. I lettori più esperti in materia
conosceranno probabilmente già il cosiddetto
“Charron ring”, un sistema che permette,
appunto, di correggere il movimento ellittico di
oscillazione di un pendolo (vedi anche scheda
“Ellisse e Charron ring”). Il Charron ring originale
consiste in un disco metallico mobile, appoggiato
sulla struttura fissa, che assorbe l'urto del
pendolo a fine corsa. Il pendolo di Biasca è
fornito di un sistema simile ma più semplice. In
sostanza, si tratta di un "rubber ring", un anello di
gomma, che ammortizza il piccolo urto che
l’anello di trazione ha, a fine corsa, con il toroide.
Questo anello di gomma è fissato sul toroide, in un apposito alloggio. La crescita
dell’ellisse è in definitiva limitata dall’urto, voluto, dell’anello di trazione con
l’elettrocalamita. La soluzione adottata a Biasca è più semplice ma altrettanto valida
perché l'urto è piuttosto contenuto.
Vi abbiamo appena esposto le due più grandi problematiche relative all’oscillazione di un
pendolo e in che modo queste sono state risolte a Biasca. Tutto questo è stato possibile
solo con moltissime ore di prove: “lanci” del pendolo e relative misurazioni e correzioni,
intervenendo principalmente sulla quantità di energia da fornire all’elettromagnete e sulla
durata temporale dello stesso (secondi, decimi di secondo). Tutte queste operazioni
dovevano avvenire per forza di cose durante il fine settimana e nelle vacanze scolastiche,
oppure la sera. Esiste però anche tutta una serie di altri problemi “minori”, che hanno
ugualmente richiesto un grande investimento di tempo
e di energia per essere risolti, a cominciare dal punto
di aggancio del pendolo. Infatti, inizialmente tutti
erano concordi nel ritenere che il pendolo dovesse
essere libero di oscillare senza resistenze o
costrizioni di alcun tipo. Per questo motivo fu
progettato e realizzato un sofisticato sistema di
aggancio con cuscinetti a sfera, una specie di “snodo
cardanico” che permettesse al filo che sostiene la
sfera di muoversi in ogni direzione. Questa soluzione
però, in definitiva, non era ottimale e sembrava
causare troppi problemi; attriti, irregolarità e
asimmetrie introdotti dallo snodo annullavano completamente il fenomeno che si voleva
osservare. Occorreva trovare un altro modo e i responsabili del progetto optarono per un
fissaggio più rigido, anche se in questo modo, secondo Cortinovis, il filo si sarebbe
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attorcigliato su sé stesso e si sarebbe spezzato. Tutto ciò naturalmente non avvenne, anzi,
questa modifica, oltre ai numerosi aggiustamenti già descritti, sortì l’effetto desiderato: ora
il pendolo oscillava decisamente molto meglio. Non va dimenticato a questo punto un altro
particolare importante: ogni intervento sul toroide o sul punto di aggancio doveva essere
effettuato da una persona con capacità acrobatiche non indifferenti, in quanto non c’erano
più le impalcature di cantiere che permettevano di operare comodamente e in tutta
sicurezza. Per fortuna, nel team di progetto
c’è un alpinista esperto: Flaminio Negrini.
Diverse volte, infatti, Flaminio è salito
direttamente dalla ringhiera del terzo piano
alla struttura portante, passando in equilibrio
su di una scaletta da brivido e lavorando a
15m di altezza, assicurato con corde da
alpinismo, moschettoni e imbragatura.
Confortati dai miglioramenti ottenuti, Maggetti
& Co. decisero che era senz’altro arrivato il
momento di installare le ultime grosse
componenti dell’opera: la rosa dei venti e la
ringhiera di protezione. Così, un sabato
mattina, entrò in azione la squadra degli
scalpellini, capitanata dal loro docente Carlo
Togni. Iniziarono subito a piazzare gli appoggi per la rosa, dei cilindri di granito di circa 10
cm di altezza per 20 cm di diametro, intercalandoli con le barre d’acciaio che, disposte a
raggiera, avrebbero supportato la ringhiera di protezione. Sugli appoggi posarono due
lastre di granito semicircolari a formare la base di sostegno per i marmi della rosa dei
venti. Da notare che nessun foro fu praticato nel pavimento: tutta la struttura vi poggia
semplicemente sopra. A questo punto, il delicato lavoro di posa del marmo poteva iniziare,
rimaneva solamente da stabilire dove fosse il Nord, in modo da poter posizionare
correttamente le punte della rosa dei venti. A questo scopo, vennero utilizzate due tra le
migliori bussole in circolazione. Perché due? Semplicemente perché due sono meglio di
una sola! Per sicurezza. Così, appena tirata una semplice cordicella nella direzione NordSud con l’ausilio di una bussola, Maggetti e Cortinovis controllarono con la seconda.
Risultato: due Nord diversi! Come mai?
Una delle due bussole si sbagliava, ma
quale? Spostando le due bussole,
addirittura gli aghi cominciarono a girare,
una volta in una direzione, una volta in
un’altra. Dopo un breve momento di
sconcerto, fu chiaro a tutti che all’interno
della costruzione qualcosa disturbava il
corretto funzionamento delle bussole.
Probabilmente si trattava dei cavi della
corrente elettrica che passavano lì vicino,
oppure la presenza delle grosse putrelle
d’acciaio delle scale.
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In quel momento, però, a nessuno
interessavano i veri motivi per cui
le
bussole
impazzivano;
la
questione era che una “cosuccia”
da niente stava ostacolando il
proseguimento dei lavori. Che
fare? Utilizzare un GPS? Per
portare a termine la costruzione
del pendolo di Foucault bisognava
forse ricorrere al giroscopio di
Foucault? Sembrava quasi una
barzelletta... Alla fine, anche
quella volta una soluzione fu
trovata, e anche molto semplice,
almeno in teoria: sarebbe bastato
uscire dall’edificio, trovare il Nord
e riportarlo all’interno. Occorreva
trovare in fretta i piani dell’istituto scolastico, i disegni dell’architetto. Il redattore di queste
righe ora non si ricorda più con esattezza chi li avesse; scomodarono per l’ennesima volta
il custode della scuola, Ivano Dagani, e persino l’allora direttore Licurgo Pedroli, che da
buon ingegnere edile ed entusiasta del “Progetto pendolo” sin dall’inizio, diede una mano
a risolvere la situazione. Fuori era una bella giornata e il sole risplendeva; i piani furono
trovati in breve tempo e poco dopo direttore e custode armeggiavano con un’asta da
geometra nel prato antistante la scuola, mentre qualcuno puntava verso di loro una
bussola. L’azimut fu in seguito riportato sulla pianta della scuola e utilizzando una riga e
una squadra da lavagna rubate dall’aula più vicina, fu poi un gioco da ragazzi tracciare
una linea parallela che passasse proprio nel punto in cui si sarebbe allineata la rosa dei
venti. Questo piccolo inconveniente causò un ritardo di un paio d’ore e siccome il lavoro
doveva essere terminato entro la sera stessa, gli apprendisti scalpellini non persero altro
tempo e si misero subito all’opera.
Lavorarono senza posa per la posa
della rosa! Giochi di parole a parte,
questi artigiani della pietra realizzarono
con grande maestria un vero
capolavoro: un puzzle rotondo, del
diametro di 2,20m, composto di 29
pezzi delicati da posare con molta
cautela e precisione tra lo sguardo
ammirato dei presenti. La sera, tra gli
applausi di tutti, la rosa dei venti era
terminata e il marmo lucidato rifletteva
la sfera. Il pendolo ora, era diventato
molto più bello.
La posa della ringhiera di protezione,
già pronta, fu rinviata per continuare
con più agio i lanci di prova, che si susseguivano incessantemente. Ingegneri e fisici
procedevano esaminando ogni minima variabile per migliorare la precisione del
movimento di oscillazione e di precessione. La struttura di sostegno subiva delle vibrazioni
impercettibili ogni volta che l’anello di trazione posto sul filo del pendolo urtava
l’elettromagnete? L’apertura e la chiusura delle porte causava correnti d’aria suscettibili di
influenzare il moto della sfera? Le inevitabili imprecisioni nella lavorazione delle parti
metalliche al tornio, dell’ordine di decimi di millimetro, potevano causare delle irregolarità?
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Agganciando la sfera con un filo di nylon e bruciando il filo, si eliminavano oscillazioni
indesiderate alla partenza? Questi e altri fattori, presi singolarmente, avevano forse
un’influenza trascurabile o addirittura nulla, ma sommate avrebbero potuto falsare non
poco la regolarità del moto. Niente poteva quindi essere tralasciato. Qui di seguito,
elenchiamo alcuni dati estratti direttamente dalle osservazioni fatte dai docenti di fisica
durante le loro estenuanti prove, misurazioni e calcoli.
“Il pendolo è imponente (L=15.45m) e l’oscillazione, che ha un ritmo di 15 semiperiodi al
minuto, simile al ritmo respiratorio a riposo, ha un che di “mistico”. L’energia dissipata
durante il moto è nell’ordine di
grandezza calcolato. Nei primi 3-5
minuti (quindi con la massima ampiezza
possibile) la perdita è di circa 40mJ a
semiperiodo. Scende poi fino ad un
valore medio di 20mJ circa con
un’ampiezza minore. L’energia a
disposizione è sufficiente a compensare
quella dissipata durante l’oscillazione. È
importante
che
l’impulso
venga
sospeso con sufficiente anticipo rispetto
all’arrivo del pendolo al punto di
massima ampiezza altrimenti il filo
reagisce con degli scatti che influiscono
negativamente sull’oscillazione del
pendolo.
Si potrebbe provare a modificare la forma dell’impulso, rendendo meno ripido il fianco di
discesa: si potrebbe così fornire energia per più tempo ma senza causare le “frustate” sul
filo. La precessione è riconoscibile in modo chiaro: dopo circa 15 minuti si osserva una
rotazione dell’asse di oscillazione di circa 2.5° (corrispondenti ai 10°-11° orari previsti). Lo
spostamento apparente della sfera è di circa 4 decimi di mm ad ogni oscillazione.”
Nel frattempo, Patrizio Maggetti era venuto a conoscenza dell’esistenza del “Premio Coop
Cultura”, un premio che la nota catena di distribuzione attribuiva ogni due anni a progetti
particolarmente meritevoli. Oltre a essere interessante come riconoscimento per gli sforzi
profusi e per la visibilità che il progetto
avrebbe ottenuto verso l’esterno, il premio
era allettante anche perché consisteva in
una cospicua somma di denaro che
avrebbe permesso di coprire le ultime
spese. Maggetti e Cortinovis si attivarono
quindi immediatamente per allestire un
dossier di presentazione del progetto da
sottoporre alla giuria del premio. Secondo
tutti i membri del gruppo di coordinazione,
il “Progetto pendolo di Foucault” aveva
tutte le carte in regola non solo per
partecipare al concorso ma anche per
vincere. E fu proprio ciò che avvenne! Il 16
dicembre 2003 la giuria attribuì al pendolo
biaschese il primo premio, a pari merito con un altro progetto di un’altra istituzione (vedi
articolo del CdT). Il premio non poteva arrivare in un momento più opportuno, era la
cosiddetta ciliegina sulla torta, che coronava i miglioramenti ottenuti negli ultimi mesi nella
precisione del moto del pendolo. Sennonché, all’improvviso, quando meno c’era da
aspettarselo, avvenne ciò che alcuni temevano ma che nessuno osava dire: una mattina
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accadde che il filo si spezzò e il pendolo cadde sulla rosa dei venti! Per fortuna
quest’ultima era ancora protetta dai classici “panneaux” (panò) da cantiere – saggia
precauzione! – e quindi non subì alcun danno. Niente di grave, intendiamoci, la sfera fece
una caduta di pochi centimetri e il filo le cadde sopra, tutto lì. Ma come mai il filo aveva
ceduto? Era troppo sottile? No, un cavo d’acciaio di 3 mm di diametro al quale si poteva
appendere un’automobile, non avrebbe dovuto spezzarsi. Eppure... “L’avevo detto, io!” –
pensò Cortinovis – “Il filo si è attorcigliato su se stesso fino a spezzarsi”. - Invece no, il
motivo era più semplice, più banale. Probabilmente, nel punto in cui usciva dalla stretta
morsa che lo tratteneva, il filo era costretto a piegarsi con un angolo troppo grande; non va
dimenticato che il pendolo di Biasca ha un’ampiezza di oscillazione di circa 2 m, a “soli”
15-16 m più in basso. Il filo quindi si era spezzato come si spezza un filo di ferro con le
mani quando lo si piega diverse volte di seguito. Il punto di aggancio fu quindi
conseguentemente ridisegnato e ricostruito, realizzando un foro d’uscita del filo senza
spigoli; come una specie di
campanella, dalla quale il filo
usciva senza piegarsi. L’alpinista
Flaminio dovette così rientrare in
azione per sostituire filo e punto
d’aggancio.
Venne
studiato
anche un sistema di sicurezza
che impedisse alla sfera di
cadere, per evitare di rovinare il
marmo della rosa dei venti nel
caso in cui l’incidente si fosse
ripresentato. “Ma non accadrà
più!” Invece accadde di nuovo,
qualche settimana dopo. Questa
volta, però, nessuno se ne
accorse, perché il sistema di
sicurezza
funzionò
alla
perfezione! Semplicemente, una
mattina, trovarono la sfera ferma, sopra il centro della rosa dei venti. I responsabili del
progetto avevano così involontariamente eseguito un test di funzionamento del sistema di
sicurezza, ma questa era una magra consolazione. Non c’era nemmeno più scorta di filo,
così Cortinovis venne incaricato di telefonare alla ditta fornitrice per ordinarne uno nuovo,
spiegando nel contempo cosa era successo. -“Impossibile”- risposero all’altro capo del filo
(del telefono...). Secondo loro, cento chili non bastavano a spezzare un filo d’acciaio di 3
millimetri. Eppure era accaduto per ben due volte. Vollero quindi sapere a quale scopo
fosse utilizzato. -“Ci appendiamo una boccia e la facciamo dondolare”- furono le testuali
parole di Cortinovis, che con il tedesco se la cava, ma non poi così bene. –“Ah, hha: das
hätte Sie söla sägä!”- (Das hätten Sie sagen sollen!). Bastava dirlo subito, no? Acciaio
armonico, corde di pianoforte, ecco quello che occorreva. Quindi l’alpinista Flaminio
Negrini dovette dare l’ennesima prova delle sue abilità alpinistico-acrobatiche, oltre che
tecniche, arrampicandosi nuovamente sulla struttura per sostituire il filo. Anche questo
“piccolo” problema era risolto. Oggi, nel 2010, il pendolo oscilla ormai quasi
ininterrottamente da cinque anni sempre con la stessa “corda di pianoforte”. Intanto il
tempo passava. Arrivati ormai all’autunno del 2004, era giunto il momento di terminare
l’opera e di pensare alla sua inaugurazione ufficiale. Nel mese di novembre entrarono
nuovamente in azione i metalcostruttori, che montarono la ringhiera di protezione e in
dicembre gli elettricisti installarono la speciale illuminazione che, con un timer, inonda di
una calda luce gialla la rosa dei venti e la sfera al mattino, a mezzogiorno, alla sera e
durante le pause scolastiche. La grande opera era finalmente conclusa, ma molto
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rimaneva ancora da fare. Si
doveva infatti pensare ad una
inaugurazione degna dell’opera,
accompagnata da un volantino
pieghevole esplicativo. Il gruppo
di coordinamento decise di
prendersi
tutto
il
tempo
necessario, a questo punto non
era proprio il caso di avere fretta.
Oltretutto,
questo
avrebbe
permesso agli ingegneri e ai
fisici,
mai
soddisfatti,
di
continuare ad esaminare il
movimento di oscillazione, alla
scoperta di possibili ulteriori
margini di miglioramento, alla
ricerca della perfezione. Il
capoprogetto Maggetti contattò i docenti del Centro Scolastico Industrie Artistiche (CSIA)
per un eventuale coinvolgimento degli apprendisti grafici nella realizzazione del volantino
esplicativo. Anche in questo caso la risposta fu positiva e allievi e docenti vennero a
vedere il pendolo. L’idea era di utilizzare questa opportunità per far realizzare agli allievi il
volantino come lavoro d’esame di fine tirocinio. Purtroppo questa volta i loro tempi e le loro
esigenze di programma non coincisero con quelli del “Progetto pendolo”. L’impostazione
grafica del prospetto fu quindi affidata ad
una ditta esterna. Nel frattempo però, gli
instancabili esperti del pendolo avevano
già proposto una modifica che avrebbe
potuto migliorare ancora il moto di
oscillazione e di precessione. Il toroide che
contiene l’elettromagnete era composto di
due semicerchi uniti a formare un anello;
nei due punti di unione di questi semicerchi
c’erano delle inevitabili irregolarità (sempre
dell’ordine di decimi di mm) che potevano
influenzare il movimento ogni volta che
l’anello di trazione posto sul filo urtava il
toroide in prossimità di questi due punti di
congiunzione. Si decise per questo di
sostituire il toroide con un altro costruito in
un pezzo unico. Quindi l’alpinista Flaminio
eccetera, eccetera. Quest’ultima modifica
diede i risultati sperati e il movimento del
pendolo oggi è più preciso e regolare.
Tutto era ormai pronto per il grande giorno,
che fu fissato per il 25 novembre 2005.
Nelle ultime settimane fervevano i
preparativi, bisognava convocare la
conferenza stampa e pensare agli inviti.
Attorno al pendolo furono allestiti dei tabelloni con le foto degli apprendisti al lavoro e le
schede esplicative. Cortinovis stava terminando di montare un filmato che testimoniava il
lavoro di 5 anni riassunto in 20 minuti e che sarebbe stato proiettato il giorno dell’evento.
Un altro collega, il Maestro Marco Piazzini, musicista e direttore della Filarmonica di
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Canobbio, stava componendo e registrando una breve Suite “cosmica” che avrebbe funto
da colonna sonora del lancio inaugurale.
La sera del 25 novembre, nonostante la neve, più di 200 persone si trovarono nell’atrio del
Centro Professionale di Biasca e affollarono le scale fino al terzo piano. Incuriositi, tutti
osservavano la sfera che, trattenuta a lato della rosa dei venti da un sottile filo di nylon,
aspettava pazientemente che la Terra iniziasse a girare. Al momento prestabilito, le luci si
spensero, Patrizio Maggetti accese una candela e la avvicinò al filo... tutti trattennero il
respiro. La sfera e la musica partirono simultaneamente, le casse da 400 Watt e gli
applausi del pubblico fecero il resto. Qualcuno gridava e qualcuno aveva le lacrime agli
occhi...
Il pendolo partì quindi per il suo lungo viaggio cosmico, dolcemente cullato da leggi
universali e da un poetico meccanismo che contrasta la sua tendenza a rilassarsi e
tornare a una situazione di riposo.
Concludiamo questa nostra lunga avventura cogliendo l’occasione per ringraziare tutti i
partecipanti al progetto, apprendisti e docenti, il responsabile del progetto Patrizio
Maggetti, l’allora direttore Licurgo Pedroli, l’allora vicedirettore e attuale direttore Stefano
Defanti, il custode Ivano Dagani e le ditte che ci hanno offerto il loro aiuto.
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