N°9 – 1 Maggio - Rocca - Pro Civitate Christiana
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N°9 – 1 Maggio - Rocca - Pro Civitate Christiana
Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi Europa sociale: Luci e ombre di uno sviluppo sostenibile Giustizia: Il fantasma della pena di morte Volti dell’universo femminile Il dialogo tra economia e etica $# ANNO NUMERO 9 periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia 1 maggio 2006 e 2,00 Iran: Non è ancora tempo di atomica Energia: L’anomalia italiana E non se ne vogliono andare Teologia: La fede di Gesù e la nostra fede in Gesù l’alternativa all’«ora di niente» TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE ISSN 0391 – 108X con 4 6 10 11 13 sommario 2 volte al mese Rocca 14 17 18 20 23 24 27 30 1 maggio 2006 occa 33 36 39 9 40 43 Ci scrivono i lettori 44 Anna Portoghese Primi Piani Attualità Valentina Balit Notizie dalla scienza 46 Vignette Il meglio della quindicina 49 Raniero La Valle Resistenza e pace Divisa, ma come? 50 Maurizio Salvi Iran Di atomica non è ancora tempo 52 Romolo Menighetti Oltre la cronaca Economia amara 54 Filippo Gentiloni Politica italiana E non se ne vogliono andare 57 Fiorella Farinelli Religioni a scuola L’alternativa all’«ora di niente» Oliviero Motta Terre di vetro Sentiamoci presto Giancarlo Ferrero La giustizia in Italia Il fantasma della pena di morte Romolo Menighetti Parole chiave Consociativismo Pietro Greco Energia L’anomalia italiana Maurizio Di Giacomo Europa sociale Luci e ombre di uno sviluppo sostenibile Giannino Piana Etica politica economia Il dialogo tra economia e etica Vincenzo Andraous Sbarre e dintorni Per tutti i bambini innocenti Rosella De Leonibus Cose da grandi aaa.appoggio cercasi Stefano Cazzato Lezione spezzata Una carriera… spezzata 58 58 59 59 60 60 61 62 63 Giuseppe Moscati Maestri del nostro tempo Gregor Ziemer Come si crea un nazista Marco Gallizioli Culture e religioni raccontate Volti dell’universo femminile Adriana Zarri Controcorrente Rinascita Carlo Molari Teologia La fede di Gesù e la nostra fede in Gesù Rosanna Virgili La voce del dissenso Il re e il profeta Lilia Sebastiani Il concreto dello spirito Tempo di Pasqua Giacomo Gambetti Cinema Volere è potere Il caimano Roberto Carusi Teatro Grottesca tragedia Renzo Salvi RF&TV Mostri: nel frastuono dei media Mariano Apa Arte I Borromeo Alberto Pellegrino Fotografia Marilyn and friends Michele De Luca Mostre Sophia Loren Giovanni Ruggeri Siti Internet Telefonare gratis Libri Carlo Timio Rocca schede Paesi in primo piano Eritrea Nello Giostra Fraternità quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 9 – 1 maggio 2006 $# ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione casella postale 94 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Telefax 075.812.855 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: Banca Pop. di Spoleto – Assisi Cin: T – ccb n. 2250 – Abi 5704 – Cab 38270 IBAN: IT59T05704382700 0000 000 2250 BIC: BPSPIT3SXXX Quote abbonamento Annuale: Italia e 45,00 Annuale estero e 70,00 Sostenitore: e 100,00 Semestrale: per l’Italia e 26,00 una copia e 2,00 - numeri arretrati e 3,00 spese per spedizione in contrassegno e 5,00 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana ROCCA 1 MAGGIO 2006 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 24/04/2006 e spedito da Città di Castello il 28/04/2006 4 Mi congratulo con voi Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute Mi congratulo con voi, donne e uomini di chiesa, che in odio a un bene chiamato ricchezza, che Berlusconi ha il torto di possedere, avete preferito negare il voto a chi avrebbe difeso i valori della vita e della famiglia per darlo a chi quei valori non considera e umilia. Mi rammarico della vostra miopia, donne e uomini di chiesa, che non vedete il pericolo e la minaccia provenienti da quel fronte sinistro al quale, nella vostra cecità, avete offerto sostegno. Detesto la vostra ipocrisia, donne e uomini di chiesa, che, mentre vi proclamate credenti e praticanti, vi siete fatti sordi agli avvertimenti del Papa. Vi ringraziano, donne e uomini di chiesa, Vladimir Luxuria e il caporione no global Enrico Caruso per aver contribuito ad infoltire i consensi alla coalizione del Centro-Sinistra, che non ha esitato a spalancare le porte a simili individui per raccogliere qualche altra misera manciata di voti. Invocate dallo Spirito Santo, donne e uomini di chiesa, il dono dell’intelletto per comprendere e riconoscere, una volta per tutte, che la ricchezza, in sé, non è peccato: poiché tale voi la considerate e, demonizzandola, istigate all’odio verso di lei, come se essa fosse sempre e comunque frutto di disonestà, conquista immeritata, fortezza rinchiusa nell’egoismo del possesso. Nasce principalmente da un tale pregiudizio l’avversione a Berlusconi, come da invidia e rancore per la sconfitta del 2001 nasce la guerra che Prodi e compagni gli fanno, incapaci di battersi in un confronto leale, impegnati solo in una opposizione demolitrice, accaniti nel fomentare odio e divisione: dunque l’insulto di «delinquenza politica», lanciato alla parte avversa, si ritorce proprio contro di loro. Rallegratevi perciò, donne e uomini di chiesa, per aver contribuito a consegnare l’Italia in mano a tale gente. E state certi che, per tutto il tempo in cui costei riuscirà a conservare lo scanno, si adopererà per distruggere tutto quello che di buono ha fatto il governo precedente. Luisa Spranzi Schio Famiglia difesa della vita ma non solo Da tanto volevo scrivervi, mi sono decisa leggendo la lettera di un gruppo di coppie di Torino sulla difesa della vita (Rocca n. 8, pag. 5). Anch’io credo che sia ora per la chiesa istituzionalizzata gerarchizzata di smetterla di spiare morbosamente nelle camere da letto e di aprirsi finalmente al mondo, quello che comincia appunto fuori dalle stanze stesse. Non c’è niente di evangelico nei messaggi che ossessivamente la chiesa va diffondendo. Per trovare qualcosa che si avvicini all’insegnamento di Cristo bisogna guardare a qualche sperduta parrocchia, o a piccole comunità di base o alla teologia della liberazione. E sappiamo che fine ha fatto quest’ultima e che vita grama conducano le altre. Sono assolutamente demoralizzata. Raffaella Barozzi Verbania Pallanza (Vb) Resistete, resistete Sono una vostra abbonata e diffondo, ogni volta che è possibile, la vostra rivista che ritengo un utile faro in questo momento così difficile e complesso per l’Italia e anche per la Chiesa. Non vi scrivo per essere pubblicata sulla rubrica dedicata ai lettori, ma per ringraziarvi tanto, tanto per il lavoro di lucida analisi del quotidiano che svolgete in ogni numero. Ho particolarmente apprezzato il dossier sui programmi elettorali dei due schieramenti che analizza con chiarezza le posizioni, a dimostrazione che non tutti sono uguali (degenerante qualunquismo che tutto corrompe... somiglia tanto alla notte della ragione). Mi ha addolorato particolarmente in questa campagna elettorale la posizione della Chiesa che ancora una volta non ha saputo rivestire i panni del profeta, ma quelli della madre per una parte politica e della matrigna per l’altra. Mi trovo veramente in sintonia con la lettera del gruppo di coppie di Torino pubblicata nel numero del 15 aprile: con altri amici impegnati nella Chiesa ci domandavamo proprio la stessa cosa. A volte, certi proclami (nonostante per certi aspetti siano teologicamente fondati) sembrano degli slogan pubblicitari che non vanno al fondo della realtà: il vangelo è portatore di una complessità di valori e, semplicemente, non mi sembra che l’attuale liberismo economico li difenda. Mi chiedo quale Chiesa laica andrà a Verona, se la gerarchia è consapevole di aver operato una frattura nel laicato e nella stessa Chiesa, di non aver aiutato la riflessione profonda sulla dottrina sociale, di non averne indicato chiaramente e in tutta la sua ampiezza la portata. E non mi si venga a dire che i mass media hanno interpretato male, riferito solo quello che interessava ad una parte... Il tam tam (nei movimenti conservatori, su Radio Maria, e non so in quali altri ambiti...) è stato quello di votare per la de- stra e segnatamente per l’Udc (vedi risultati...). Ma come fa un cristiano (che a parole si dice tale ma che in prima persona contraddice quei valori di cui si proclama difensore...; sarebbe affare della sua coscienza, se non si proclamasse paladino, a votare certe leggi dell’ormai (speriamo) precedente governo, a distruggere e infangare le istituzioni, a delegittimare la magistratura, a creare un clima di opportunismo, cinismo, volgarità e competizione estrema nella società italiana (sono un’insegnante e vedo quotidianamente e realisticamente come sono ridotte le famiglie, quali sono oggi i loro valori, come i bambini sono gettati sul campo della competizione sin da piccolissimi e vivono stress enormi per la loro età, parcheggiati da genitori troppo distratti da telefonini, televisori al plasma e grandi fratelli...)? Parole come rispetto, carità, solidarietà, stima, condivisione, apertura all’altro... questo la Chiesa deve indicare: la scelta degli ultimi, programmaticamente del margine (che bello il titolo «Un ebreo marginale» dell’opera di Meyer!). Come dice Moretti ne «Il caimano», al di là di come andranno le elezioni Berlusconi ha vinto perché con le sue televisioni ci ha cambiato la testa! L’opera inversa è particolarmente dura e avrà bisogno di un grande dispiego di forze morali. Smetto qui perché di cose da dire ce ne sono e ce ne saranno molte, visto quello cui ancora, giorno per giorno, siamo costretti a sopportare... gli ultimi (spero) disperati colpi di coda dell’animale ferito a morte. Ma, vi prego, resistete, resistete, resistete perché nei momenti di disperazione civile e religiosa, mi avete dato la speranza di non essere sola e questo, con la mia mail, voglio a mia volta comunicarvi. Grazie e buona Pasqua con il rinnovamento e la speranza che solo il Signore risorto sa donare. Annarita Pasqualini (a nome anche di tanti altri amici) [email protected] Questione di fiducia Abbiamo scelto tra due schieramenti che abbiamo potuto vedere concretamente all’opera, uno del periodo 1996/2001 e l’altro nel quinquennio successivo. Chiunque potrà valutare se e in quale misura il comportamento dei politici dei due schieramenti sia stato conforme ai precetti del diritto naturale e della morale religiosa, quelli fondati cioè sul rispetto della persona e sul perseguimento del bene comune. Il senso di responsabilità verso le generazioni presenti e quelle future impone una valutazione che superi stereotipi, abitudini e pigrizie mentali. Solo chi, secondo il giudizio inappellabile della coscienza personale, abbia obiettivamente governato meglio rispetto all’altro può meritare fiducia. Aldo Abenavoli Roma ROCCA 1 MAGGIO 2006 Rocca ci scrivono i lettori CI SCRIVONO I LETTORI ERRATA CORRIGE In riferimento alla pubblicità «Atmosfere musicali», pag. 6 del n. 8/2006, il numero telefonico riportato è errato e va rettificato come segue: tel/fax 075 812.288 5 6 ATTUALITÀ Russia la patria e il Concilio ortodosso Scoperte enfasi sul Vangelo di Giuda Società una grande voglia di silenzio Katmandu abbasso il re del Nepal Romania Razvan 10 anni suicida Le vicende delle Chiese ortodosse scorrono spesso in stretta relazione con la storia dei vari paesi e società nelle quali vivono, nonché in relazione a orizzonti di pensiero significativi. La presa di posizione del decimo concilio ortodosso (assemblea di rappresentanti ecclesiastici, di fedeli e rappresentanti dello Stato), svoltosi dal 3 al 7 aprile nel monastero di san Danilo a Mosca, ha sostenuto fortemente la difesa della patria russa: «Esistono valori – ha detto il metropolita Kirill, capo del dipartimento degli esteri – che non sono inferiori ai diritti umani, quali la fede, la morale, il sacro, la patria». La dichiarazione del Concilio, redatta al termine dei lavori, evidenzia in particolare il diritto alla vita, l’avversione per tutto quello che viene assimilato come «diritto alla morte». L’aborto, l’eutanasia, il matrimonio omosessuale, la bestemmia sono altrettante offese alla morale tradizionale. Così, continua il testo «il tema dei diritti umani dovrà cessare di essere visto nello spirito del nostro popolo come un’arma politica. È inutile piangere sulla crescita della xenofobia quando apriamo prospettive a quelli che calpestano il sacro, sputano sulla patria, distruggono la loro cultura», con allusione ai recenti scontri a carattere razziale. Anche la Chiesa ortodossa russa sembra temere la visione occidentale e liberale dei diritti e percepire (come il presidente Vladimir Putin) che i diritti umani, sostenuti dagli Occidentali, siano un parametro per indebite ingerenze. Il documento parla infatti di «tentativi di utilizzare tali diritti per promuovere interessi politici, ideologici, militari, ed economici, per imporre un certo regime politico e sociale». Grande enfasi mediatica sul Vangelo di Giuda, un codice in lingua copta del IV secolo, traduzione di uno scritto del II secolo. In base ad esso, Giuda fu l’unico discepolo al quale Gesù rivelò la sua vera essenza e il suo tradimento fu un segno di fedeltà a Gesù stesso. Rispondendo alla domanda se la storia raccontata dai vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) debba essere riscritta dopo questa scoperta, Eric Noffke, studioso protestante di teologia neotestamentaria e autore di testi sulla letteratura apocrifa e le origini del Cristianesimo, così risponde: «Il Vangelo di Giuda è uno scritto gnostico del II secolo d. C. che non ci dà informazioni rilevanti riguardo alle origini del cristianesimo. Nasce nell’ambito di scuole di pensiero teologico che trasformano personaggi negativi della Bibbia, descrivendoceli come gli unici che hanno ricevuto la vera rivelazione, la quale poi corrisponde al pensiero filosofico della scuola stessa. Così, nel Vangelo di Giuda si vedono i discepoli derisi da Gesù perché adorano un falso Dio – che nel pensiero gnostico coincide con il Dio dell’Antico Testamento –, mentre Giuda è l’unico che ha capito e segue il vero Dio. Si tratta chiaramente di un artificio letterario che non ha nessuna pretesa storica e che serve a esprimere e divulgare un pensiero teologico posteriore di oltre cento anni agli eventi narrati nei vangeli. Il sensazionalismo si spiega con la molta ignoranza riguardo alle origini cristiane e alla Bibbia stessa. Questo fa sì che – anche sull’onda del fenomeno Codice da Vinci – ogni nuova scoperta sembri sensazionale, mentre spesso lo è solo perché non si hanno gli strumenti minimi per valutare i veri motivi d’interesse». (Nev) Due notizie molto diverse e molto recenti hanno come comune denominatore il silenzio. Le prime: il film di Gröning «Il grande silenzio», quasi senza parole, girato tra i frati certosini della Grande Chartreuse, che oltre al pubblico di sale raddoppiate ha raccolto riconoscimenti dai maggiori festival internazionali. C’è poi un progetto elaborato e posto in atto dall’Università di Lapponia (Finlandia) di un «turismo silenzioso»: una strategia di immersione nella natura, che lascia spazio al silenzio interiore. L’atmosfera di bellezza che avvolge entrambe le esperienze spiega, ma forse solo in parte, il loro successo. Del film i critici notano l’esaltazione luminosa dell’aspetto percettivo della grazia, della libertà interiore, senza complessi di colpa o di paura nei monaci-attori. Del «Turismo del silenzio» si è fatta eco in Italia il Centro di ecologia alpina (www.cealp.it), importandone la metodologia, perché in Lapponia o tra le Alpi, o anche in zone non raggiunte dalla fama e marginali, ci si possa aprire all’esperienza dell’Oltre. Continuano le manifestazioni di protesta contro la monarchia nepalese, forse l’ultima monarchia assoluta del mondo. Il 19 aprile centinaia migliaia di persone sono convenute a Katmandu dopo un lungo sciopero generale indetto dall’opposizione dei 7 partiti dell’arco costituzionale, con esplicito appoggio del movimento guerrigliero. Continuano le pressioni internazionali sul re Gynaendra, perché si decida alle concessioni atte a risolvere la crisi. Usa, Cina e India chiedono di ripristinare la democrazia parlamentare, in particolare l’India, preoccupata per la sua frontiera col Nepal. Con 26 milioni di abitanti di cui il 40% sotto la soglia della povertà, il Paese è anche insidiato da un decennio dalla ribellione maoista. Amnesty, Human Rights Watch e la Commissione internazionale dei giuristi, in una dichiarazione comune, accusano i re e i suoi funzionari di gravi violazioni dei diritti umani, con l’arresto arbitrario di migliaia di oppositori tra i quali molti giornalisti, di tortura e abusi. Il 27 marzo Razvan Suculiuc, 10 anni, si è impiccato a Cirtesti, villaggio al nord-est della Romania. Si è suicidato perché gli mancava sua madre, venuta in Italia a lavorare da qualche mese. Lei gli avrebbe comprato un computer, voleva offrirgli un futuro migliore del suo; lui le telefonava una volta alla settimana. Due giorni prima della tragedia, una grande frustrazione affettiva: suo padre gli impedisce di telefonare perché non ha i 6 euro necessari per comprargli la carta telefonica. Razvan a questo punto decide per la morte. Commenta il quotidiano di Bucarest: «Il caso del piccolo Razvan non è un’eccezione, ma riguarda migliaia di bambini che i loro genitori, spinti dal miraggio del denaro, hanno lasciato». Circa due milioni e mezzo di Romeni in questi anni sono andati via dalla patria dove, malgrado la crescita economica, il salario medio mensile dei 22 milioni di abitanti è di 150E. L’Italia e la Spagna sono le mete preferite per l’espatrio. Egitto attacco alle chiese copte Scorre sangue nelle chiese cristiane copte d’Egitto, mentre si prepara la Pasqua che qui viene celebrata una settimana dopo quella cattolica. Si sono contati almeno un morto e una cinquantina di feriti il 14 aprile in tre chiese di Alessandria prese d’assalto contemporaneamente da integralisti islamici. Sono circa 10 milioni i copti egiziani, ossia i cristiani nati in Egitto, paese in cui l’Islam è religione di Stato. Difficile al momento chiarire le motivazioni dell’attacco insensato all’arma bianca. I cristiani egiziani sono ortodossi, anche se esiste una piccola minoranza di cattolici; rappresentano il 15% della popolazione egiziana. Essere cristiani qui significa però essere discriminati nella vita pubblica, sul lavoro, nella scuola, nell’esercito e nella polizia. Il Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo sottolinea il fatto che in Egitto, anche nelle società private gestite da cristiani «non assumere musulmani comporta quasi sicuramente severi controlli fiscali». Kuwait le donne votano per la prima volta Nell’emirato del Kuwait le donne restano tuttora sotto la tutela giuridica dei mariti e tuttavia, per la prima volta nella storia del paese, lo scorso aprile hanno potuto esercitare il diritto sia di votare che di candidarsi alle elezioni amministrative di una circoscrizione (Salmiya). Tra le candidate, due donne, una ingegnere e l’altra medico, entrambe appartenenti alla minoranza sciita che costituisce il 30% della popolazione. Una delle candidate, Jenan Bushehri, aveva potuto tenere un comizio rivolgendosi a centinaia di connazionali sotto una tenda, come la tradizione vuole, con un uditorio rigorosamente separato di uomini e donne. Sono piccoli passi compiuti nei paesi del Golfo in questi ultimi anni, ma la strada è aperta, come ha dimostrato la conferenza internazionale in Bahreim lo scorso marzo che ha visto la partecipazione di un centinaio di donne in rappresentanza di 16 Stati arabi. ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 7 8 ATTUALITÀ Palestina-Israele tragica deriva del dialogo Karachi il Forum sociale alter-mondialista Lo scorso numero Rocca dedicava al conflitto palestinese-israeliano il servizio «un duello senza fine». Ma non si pensava a un immediato rilancio della Jihad. Invece, sullo sfondo cupo della bandiera di Hamas, abbiamo visto un volto di adolescente dagli occhi belli e tristissimi stagliarsi nel video, rimbalzato il 19 aprile sulle prime pagine dei nostri quotidiani. È Samir Hamad, il kamikaze autore dell’attentato della Jihad islamica a Tel Aviv il 18 aprile. Il ragazzo si era fatto esplodere davanti a una rosticceria, procurando nove morti e una sessantina di feriti. L’attentato era stato subito condannato dal presidente dell’Autorità Palestinese Mahmud Abbas, ma non c’erano dubbi sulla risposta israeliana: «L’Autorità palestinese è diventata uno Stato terrorista e occorre trattarlo come tale». A questo punto però il premier israeliano Ehut Olmert cambia strategia: decide di fermare la rappresaglia militare perché vuole contrastare Hamas con le «armi» della politica che ritiene più efficaci dei tanks e degli elicotteri. Vuole isolarlo sul piano internazionale, impedire che gli giungano aiuti politici ed economici al punto di far implodere la maggioranza radicale all’interno del nuovo governo palestinese. A sua volta Hamas ora assume l’immagine cupa del terrore. Dopo la strage, anche il Giappone, seguendo Ue e Canada, fa sapere che potrebbe congelare gli aiuti all’Autorità palestinese. La richiesta di aiuti ai paesi arabi finora trova risposta solo del regime iraniano che si dice disposto a un aiuto di 50 milioni di dollari. Sono espulsi i tre parlamentari di Hamas che vivono a Gerusalemme.La diplomazia israeliana ha ora un preciso obiettivo: isolamento. L’ultimo appuntamento del Forum sociale mondiale di quest’anno è stato dal 24 al 29 marzo a Karachi, Pakistan. Si era voluto un Forum policentrico, scandito tra Bamako (Malì), Caracas (Venezuela), e infine – tra notevolissime difficoltà – Karachi. Circa 30mila persone provenienti da 58 Paesi, distribuiti nelle 400 attività del Forum, hanno potuto interscambiare informazioni, commenti, progetti sul Continente asiatico, a cominciare dalla situazione del Kashmir, zona notoriamente contesa tra India e Pakistan. Circa 20 leader di varie organizzazioni politiche, attualmente alle prese con defatiganti iniziative di pace dall’una e dall’altra parte della linea di controllo del Kashmir, si sono trovati concordi almeno su un punto: non si tratta di territori da distribuire, ma di questioni di autonomia e di autodeterminazione. Temi complessi come gli effetti del neoliberismo economico e la smilitarizzazione, dei diritti umani e in particolare dei diritti della donna, della lotta contro il patriarcato e perfino della gestione dei disastri naturali e dei rischi di ricolonizzazione, legati a certi cosiddetti aiuti umanitari, sono stati messi sul tappeto e sottoposti un severo vaglio critico. Particolarmente dibattute la guerra in Irak, la necessità di sostenere il «Tribunale mondiale delle donne» sulla resistenza alle guerre, sulle guerre della globalizzazione e sulle guerre contro le donne. Riunirsi, condividere esperienze, conoscere i movimenti sociali di altri Paesi – ha notato lo scrittore pakistano Tariq Alì – è stato il segno forte di questo evento, segno sottolineato positivamente anche dall’arcivescovo di Karachi, mons. Evaristo Pinto. Chiesa papa Benedetto un anno dopo «Come passa il tempo», ha detto papa Benedetto XVI rispondendo il 19 aprile ai cinquantamila fedeli convenuti in piazza san Pietro per gli auguri a un anno dalla sua elezione al pontificato. Ha voluto ricordare l’emozione del primo giorno e chiedere preghiere per essere un pastore «mite e fermo», mentre si continua a evidenziare l’abbandono «garbato» dello stile del suo predecessore. Si direbbe che egli tema una sovraesposizione della Chiesa e non esita a riproporre il suo programma: «quello di non fare la mia volontà, di non perseguire le mie idee, ma di mettermi in ascolto ...». Si è espresso molto finora da pastore, soprattutto sull’essenziale della fede e su temi etici, ma dal suo governo i cattolici si aspettano ora una riforma sul rapporto vescovi - primato del Papa. E in campo ecumenico, anche una riflessione teologica: le differenze tra cattolici, ortodossi e protestanti non sono un accidente della storia, ma esprimono modi diversi di intendere Chiesa e ministeri. Per il resto, troppo presto per un bilancio, anche se la consapevolezza della verità complessa del reale emerge da tutti gli approcci del papa teologo. seminari & convegni 1 maggio-23 luglio. Fabriano (An). Mostra internazionale «Gentile da Fabriano e l’altro Rinascimento». Esposizione di 32 capolavori allo Spedale di Santa Maria del Buon Gesù (Piazza Giovanni Paolo II). www.gentiledafabriano.it; tel. 199199111. 4-5-6 maggio.Padova. La fondazione Civitas, con la collaborazione di vari enti, propone percorsi di conoscenza de «La via Asiatica». Il percorso degli studenti si concluderà il 4 maggio al cinema-teatro Mpx di via Bonporti con Folco Terzani. Il 5 maggio alle 20,30 all’interno di Civitas, testimonianze asiatiche di ospiti illustri ( Chea Vannath, Charika Marasinghe, Nurjahan Begum, Hu Lambo). Il 6 maggio verrà rappresentata alle 20,30 nell’auditorium Modigliani lo spettacolo «Frammenti». Infrmazioni: Ufficio stampa Koiné – Comunicazione, Benedetta Frare, tel.0422 420 888; cell. 347 0750 714. 4-8 maggio. Torino. Fiera internazionale del libro al Lingotto, sul tema: «L’avventura, intesa come movimento elementare che ha permesso lo sviluppo delle società umane», viaggio interiore o relazionale. La parte espositiva è corredata da numerosissime iniziative culturali. Informazioni: www.fieralibro.it. 6 maggio. Cefalù (Pa). Nell’ambito della Settimana cefaludese per l’ecumenismo, conferenza di Karima Moual sul tema: «Gli immigrati musulmani in Italia tra identità, integrazione e dialogo», organizzata dal Centro ecumenico «La Palma», via Porta Giudecca 1, Cefalù, tel. 0921 923 953, fax 0921 423 738, e-mail: [email protected]. 8,15,22,29 maggio. Milano. Cattedra del dialogo. Incontri con esponenti del dialogo interreligioso a livello mondiale, presso l’auditorium del Centro san Fedele, sul tema: «L’uomo tra paura e speranza: verso dove?» (p. San Fedele 4). Informazioni: [email protected] 10 maggio. Milano. La Comunità laicale «S. Angelo» promuove un incontro con P. Feli- ce Scalia sul tema: «La Chiesa di oggi. Preoccupazioni e speranze. Una responsabilità collettiva». Convento frati Francescani Minori, P.za S. Angelo 2 Milano, ingresso via Bertoni, ore 21. 19 maggio. Montevarchi (Ar). A cura del Centro San Lodovico, conferenza del p. Ferdinando Castelli S.J. sul tema «Diego Fabbri: il teatro come processo» (ore 21). Informazioni; Centro San Ludovico, Via P. Bracciolini, 36-40. Montevarchi (Ar) tel e fax 055 982670, email: [email protected]. 20 maggio. Modica (Rs). Incontro sul tema «Africa, le guerre dimenticate» con don Tonio dell’Olio di Pax Christi e Libera. Ore 19,30 Domus S. Petri. 25-28 maggio. Camaldoli (Ar). Meditazione e preghiera esicastica al Sacro Eremo, incontro riservato a giovani dai 25 ai 35 anni, con la guida del monaco Alberto Viscardi. Informazioni: 0575 556 021. 1-4 giugno. Assisi. Convegno organizzato dalla Piccola Fraternità Francescana «Santa Elisabetta» sul tema: «Laici come gli altri ma...». È rivolto a giovani in ricerca vocazionale. Informazioni: Casa di Accoglienza, Piazza Vescovado, 5 – 06081 Assisi, tel. 075 812 366; e-mail: [email protected]. 2-3 giugno. Assisi. Convegno nazionale «Eucaristia e storia dell’uomo» organizzato dai Padri Sacramentini per il 150° di fondazione della Congregazione. Relazioni introduttive di Enrico Mazza e Pierangelo Sequeri. 5 Laboratori tematici; liturgie presiedute dall’arcivescovo Giuseppe Chiaretti di Perugia e P. Fiorenzo Salvi, superiore generale dei Sacramentini. Informazioni: Andrea Carotene, tel. 340 331 2919; Tata Tanara tel. 339 719 5571, e-mail: [email protected] 2-3 giugno Crotone. La Cooperativa sociale «Gettini di Vitalba» (palazzo Berlingieri, via Cavour 7/9) propone un seminario per coppie guidato dai coniugi Donata e Nino De Giosa, volontari della Pro Civitate Christia- na. Testimonianza su «I nostri 15 seminari coppia in Cittadella: un microcosmo ‘a due’ a confronto e in ricerca ‘tra coppie’». Relazione (venerdì), laboratori, dibattiti, riflessioni (sabato). Informazioni: cell.333 743 2092; 338 787 5188, e-mail: [email protected]; www.gettinidivitalba.it; Assisi tel. 075 813231. 25-26 giugno. Assisi. Incontro «Bibbia e Psicologia» organizzato dal gruppo Missioni della Pro civitate christiana. Lettura esegetica e psicologica tratta da figure e brani biblici, condotta dalla psicologa Porzia Quagliarella e dai Volontari Bruno Baioli e Leila Carbonara della Pro Civitate Christiana. Informazioni: Cittadella cristiana, 060081 Assisi, tel. 075/ 813231, fax 075/812445; e-mail: ospitalità@cittadella,org; www.cittadella.org. 26 giugno-1° luglio. Borgonuovo (Bo). Esercizi spirituali mariani organizzati dal Cenacolo delle Missionarie dell’Immacolata, sul tema: «Finché sia formato Cristo in voi...» (Gal 4,19), predicati da mons. Alberto Di Chio. Informazioni: tel 051 67 82014 – 051 8462 83, e-mail: [email protected]. 26 giugno-1° luglio. Ariccia (Rm). Settimana biblica per laici sul tema: «Nascita dei Vangeli. Marco», organizzata dall’Associazione biblica italiana. Relatori: D. Giacomo Morando e d. Marco Cairoli. Informazioni: dr. Procaccini, via Manzoni 6-04019 Terracina (Lt), tel. 06 934 861, 338 1129 195; e-mail: [email protected]. 25-29 luglio. Assisi. Convegno monastico interreligioso presso il Monastero benedettino femminile San Giuseppe sul tema: «La Parola, fonte di contemplazione». L’incontro prosegue quello dello scorso anno, col confronto tra Monachesimo cristiano, il Sufismo e l’Induismo. Informazioni: Commissione italiana per il Dialogo intermonastico, piazza san Pietro 1, 06081 Assisi, tel.075 812062, e-mail: [email protected]. ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 9 ATTUALITÀ Valentina Balit 10 Distrofia di Duchenne nuova speranza grazie a un «cerotto» genico Contro la distrofia muscolare di Duchenne è stata sperimentata una nuova terapia genica che ripara il prodotto del gene malato, anziché tentare di sostituire il gene con una copia sana. La ricerca è stata diretta da Irene Bozzoni dell’Università «La Sapienza» di Roma e pubblicata dalla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. La distrofia di Duchenne è una malattia dovuta a una mutazione sul gene che governa la produzione della proteina distrofina. Scoperta dal medico francese Duchenne, essa comporta una progressiva degenerazione dei muscoli costringendo, in breve tempo, all’uso della sedia a rotelle. Trattandosi di una malattia causata da un solo gene, è tra quelle che gli scienziati sperano di poter guarire in futuro con la terapia genica, iniettando cioè nei muscoli dei pazienti un virus «navetta» che traghetta una copia sana del gene danneggiato. Tuttavia questo tipo di trattamento è difficilmente applicabile al gene della distrofina a causa delle sue grandi dimensioni. Per questo gli scienziati italiani hanno testato una strategia alternativa che fa uso di molecole «antisenso» che, come una sorta di cerotto, riconoscono la regione contenente la mutazione e ne impediscono l’inclusione nell’Rna messaggero. L’effetto finale è la produzione di una proteina più corta di quella prodotta nei muscoli delle persone sane, ma ancora funzionante. I ricercatori hanno dimostrato che iniettando il vettore che trasporta il «cerotto genetico» nei topi, questo si ritrova in tutti i muscoli dove viene recuperata la sintesi della proteina distrofina. Ciò è vero anche nel cuore e nel diaframma che sono i distretti muscolari più gravemente compromessi dalla malattia. I topolini trattati in laboratorio hanno beneficiato della terapia: l’analisi compiuta nell’arco di sei mesi dall’iniezione ha permesso di dimostrare che i muscoli trattati migliorano sia in termini di forza della contrazione, sia in termini di integrità. I risultati sono promettenti ma prima di pensare a un trasferimento all’uomo dovranno essere verificati la tossicità del trattamento ed eventuali effetti collaterali. della quindicina il meglio Le prime cure odontoiatriche risalgono a 9mila anni fa. Insieme ad agricoltura e allevamento, nei più antichi insediamenti dell’età neolitica nacquero anche i presupposti per la professione attuale del dentista. A questa conclusione è giunta un’équipe di antropologi e archeologi coordinati dal professor Alfredo Coppa dell’Università «La Sapienza» di Roma nell’ambito di una campagna internazionale di scavi diretta dal Musée Guimet di Parigi. I risultati dello studio sono pubblicati su Nature. Oggetto delle indagini è la necropoli del Pakistan situata a Mehrgarh, non lontano dal confine afghano, risalente appunto a circa 9mila anni fa. Su un totale di circa 4mila denti provenienti da 300 sepolture, sono stati identificati almeno 11 casi inequivoci di perforazioni in vivo sulle corone dentali di 9 adulti, probabilmente a scopo terapeutico o palliativo. Per offrire la certezza che le trapanazioni ritrovate sui denti posteriori degli antichi «pazienti» fossero intenzionali ed eseguite su soggetti in vita, lo studio si è avvalso della microscopia elettronica e di tecniche avanzate di modellizzazione basate sulla microtomografia ad alta risoluzione dei singoli reperti. I dati confermano anche che, dopo gli interventi, le superfici dei denti ripresero la loro normale funzione masticatoria. Quanto documentato da questo studio rappresenta non solo le più antiche pratiche di chirurgia dentistica note, ma anche la documentazione più ricca di questo tipo mai scoperta in un singolo sito archeologico. I dentisti preistorici operavano sostanzialmente con le medesime tecniche messe a punto per la fabbricazione delle minuscole perline in materiali diversi rinvenute in abbondanza nel sito. Lo strumento principale era il trapano in legno attrezzato con una piccola punta in selce, azionato mediante un apposito archetto. In queste pratiche, gli artigiani di Mehrgarh erano veri esperti, capaci di produrre perline di 1 mm provviste di fori del diametro di soli pochi decimi di mm. La stessa perizia è stata riscontrata nelle perforazioni sui denti. I casi meglio conservati mostrano infatti delle perforazioni non lontane per morfologia da quelle che si ottengono oggi con ben più raffinati strumenti. La necessità di ricorrere a questo genere di cure, spiegano gli esperti, è riconducibile alle condizioni generali di vita caratteristiche del Neolitico. La vita nei primi villaggi sedentari comportò infatti un temporaneo peggioramento nei livelli nutrizionali e nello stato generale di salute. Rispetto agli standard qualitativi del Paleolitico superiore finale, caratterizzati da diete ricche in proteine e grassi animali derivati dallo sfruttamento dei grandi erbivori, la stanzialità, lo stadio ancora sperimentale delle prime pratiche agricole e di allevamento, la crescita demografica comportarono una riduzione critica nella varietà, qualità e quantità delle risorse accessibili e, soprattutto, facilitarono la propagazione di malattie infettive e l’insorgere di nuove patologie. Anche le condizioni generali di salute del cavo orale peggiorarono. Da un lato, l’impiego di macine in pietra per trattare i cereali determinò un forte grado di abrasio- da IL CORRIERE MAGAZINE, 6 aprile da LA REPUBBLICA, 12 aprile da L’UNITÀ, 12 aprile da L’UNITÀ, 19 aprile da IL CORRIERE DELLA SERA, 19 aprile da LA REPUBBLICA, 12 aprile da IL CORRIERE DELLA SERA, 13 aprile ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 notizie dalla scienza ne dello smalto, con gravi rischi per l’integrità dei denti; dall’altro, la qualità della nuova dieta – più ricca in zuccheri – favorì i processi di acidificazione e lo sviluppo della carie. Più in generale, le campagne di scavo in Pakistan hanno consentito di superare la visione tradizionale di «mezzaluna fertile» limitata alle sole regioni del Vicino Oriente. Le ricerche a Mehrgarh hanno infatti dimostrato che agricoltura e allevamento erano stati inventati ai margini del mondo indiano contemporaneamente a quanto stava avvenendo in Anatolia, Israele, Palestina, Egitto. In seguito alle scoperte di Mehrgarh, quindi, gli scenari archeologici della «rivoluzione neolitica» si sono notevolmente dilatati e si estendono oggi, quasi senza soluzione di continuità, dal Libano alla valle dell’Indo. vignette I primi dentisti 9.000 anni fa ATTUALITÀ da PANORAMA, 20 aprile 11 cittadella convegni divisa, ma come? 14-17 maggio padri e figli … nel fluire delle generazioni “Proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato e il germoglio che hai coltivato” (Salmo 80, 16) i relatori: Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta; Tonio DELL’OLIO, teologo; Roberto SEGATORI, sociologo; Tullio SEPPILLI, antropologo giornate di spiritualità per presbiteri, diaconi, laici, suore 5-9 giugno nascita e crescita nel conflitto della comunità cristiana con Giancarlo BRUNI, servo di santa Maria e fratello della comunità di Bose Il rapporto cultura-vangelo, è un tema che Paolo interpreta in maniera tutt’altro che apologetica e manichea: di qua la Chiesa fedele all’annuncio, di là il mondo infedele all’annuncio… La chiesa di Dio che è in Corinto è la fotografia del rapporto conflittuale sempre attuale, in cui è in gioco la verità della relazione con Dio, con l’altro, con il proprio corpo e con la propria morte. Una fotografia che ci riguarda da vicino. lunedì 5 ore 18,30 introduzione alle giornate – liturgia eucaristica martedì 6, mercoledì 7 e giovedì 8 ore 9,00 preghiera di lodi e 1a meditazione 11.30 liturgia eucaristica 16,00 2a meditazione 19,15 canto dei vespri venerdì 9 ore 9,00 12,00 meditazione liturgia eucaristica 64° corso internazionale di Studi cristiani 20-25 agosto senza i sandali dell’identità ? “Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero…” (Gal 3, 28-29) alcune tematiche: paradossi e contraddizioni dell’identità - se l’identità cammina con la storia-nelle derive integraliste… vivere la laicità - culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile? - crescere con le differenze - l’identità feriale - le identità negate interpellano la politica - a piedi nudi…consegnarsi all’uomo, consegnarsi a Dio hanno già assicurato la loro partecipazione: Corrado AUGIAS, giornalista Rai-TV, scrittore; Nacera BENALI, giornalista algerina; Eugenio BORGNA, psichiatra; Enzo BIANCHI, priore della comunità ecumenica di Bose; Roberto CARUSI, regista teatrale; Tonio DELL’OLIO, di Libera International; Rosino GIBELLINI, teologo; Sergio GIVONE, filosofo; Kossi KOMLAEBRI, scrittore migrante; Raniero LA VALLE, giornalista; Giannino PIANA, teologo morale; Renzo SALVI, capoprogetto Rai Educational, Lilia SEBASTIANI, teologa; Rosanna VIRGILI, biblista videointervista a Raim o- n PANIKKAR, scrittore, interprete dialogo interculturale informazioni - iscrizioni: Cittadella Cristiana - sezione Convegni - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG – internet: www.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected] Raniero La Valle P er capire quello che è successo con le elezioni, occorre distinguere ciò che è confuso. Nella competizione del 9 e 10 aprile si sono combattute in realtà tre distinte battaglie elettorali. La prima è stata un referendum pro o contro Berlusconi. Tale referendum, oltre che promosso dalla forza stessa delle cose, è stato fortemente voluto dallo stesso premier, e ciò attraverso due operazioni congiunte: una istituzionale e una politico-mediatica. L’operazione istituzionale è stata la legge elettorale. Questa, essendo fatta, come ha detto Calderoli, «contro la destra e la sinistra», era fatta per lui. Essa, abolendo le preferenze, ha spazzato via dalla campagna elettorale tutti i suoi naturali protagonisti, che sono i candidati, ed ha lasciato sussistere solo due nomi su cui i cittadini potessero votare, Berlusconi e Prodi. Inoltre ha radicalizzato ed estremizzato il bipolarismo, costringendo tutte le forze politiche a raggrupparsi in due soli schieramenti, pena la scomparsa, e in ciascuno a impegnarsi con vincolo di mandato (contro la Costituzione) per lo stesso programma e lo stesso leader. Dunque l’elettorato non aveva che due scelte, nonostante l’illusione della pluralità dei partiti. Quanti oggi parlano di un’Italia spaccata in due, fanno un’analisi sbagliata: l’Italia elettoralmente non poteva che dividersi in due; quanto alla spaccatura effettivamente la stiamo spaccando, ma questa spaccatura sarà compiuta quando questo artificio della forzata bipartizione elettorale avrà disseminato tutte le sue tossine e sarà diventato la cultura profonda del Paese, cioè una cultura di conflitto, di disconoscimento reciproco, di odio, dal Parlamento fino all’ultimo condominio. A quel punto nemmeno l’ipotesi della violenza potrebbe essere esclusa. L’operazione politico-mediatica per fare delle elezioni un referendum su di sé, Berlusconi l’ha compiuta ridicolizzando la pretesa dei suoi alleati di correre a «tre punte», occupando tutta la scena e presentando se stesso come l’unica scelta possibile. L’altra era una «non scelta»: l’avversario è stato combattuto come non esistente, come un Signor Nessuno, utile idiota e prestanome, e tutto lo schieramento alternativo è stato delegittimato come una specie di Corte dei Miracoli il cui scopo non era gestire il potere, ma impadronirsene per distribuire posti e soldi agli amici e agli amici degli amici. Questo referendum è stato inspiegabilmente di- sertato dal centro-sinistra. Esso ha negato che Berlusconi fosse un pericolo per la democrazia, non ha rivendicato la Costituzione liquidata dalla destra, e ha fatto finta di credere che si trattasse di una normale battaglia elettorale per l’alternanza. Solo Moretti è riuscito a dire al popolo quale fosse il vero pericolo. Ma il popolo lo ha capito. Con una straordinaria percentuale dell’83 per cento è corso alle urne innalzando contro Berlusconi uno sbarramento non di 24.000, ma di 19 milioni di voti, e anche molti voti dell’Udc e di Alleanza Nazionale sono stati contro Berlusconi nella falsa speranza, fatta balenare dai capi, di una alternativa interna alla destra. Sicché, a conti fatti, i veri «sì» al quesito su di lui sono stati i 9 milioni di Forza Italia, con una perdita di due milioni di voti rispetto al 2001 e una caduta in percentuale dal 29,4 al 23,7 per cento. Dunque questo referendum è stato clamorosamente perso da Berlusconi; il Paese gli ha detto di no. La seconda battaglia elettorale è stata di nuovo un referendum, ma questa volta sulle tasse, e in particolare sull’abolizione dell’Ici e della tassa sulla spazzatura. Anche questo era contro la Costituzione, che vieta i referendum fiscali, ed era un tentativo di corruzione perché offriva denaro contante in cambio del voto. Il centro-sinistra ha maldestramente fornito l’occasione alla trappola. Quale ne è stato l’esito? Se il risultato elettorale viene depurato del voto degli italiani all’estero, che non hanno votato sulle tasse perché non le pagano in Italia, questo referendum è stato vinto da Berlusconi al Senato e perso alla Camera; dunque la maggioranza degli elettori, compresi i giovani che votano solo per la Camera, ha eroicamente respinto la corruzione sulle tasse pur di votare contro Berlusconi e il fascio delle sue pretese. La terza battaglia elettorale è stata quella classica sui programmi e sul governo, ed è stata la sola che il centro-sinistra ha veramente combattuto, vincendola, come si sa, di stretta misura. Contestando l’esito del voto, gli sconfitti promettono ora il sabotaggio di ogni azione di governo. È la sindrome di Sansone, o quella della causa portata davanti a Salomone: se il bambino non mi viene attribuito, meglio squartarlo perché non sia di nessuno. Ciò vuol dire che non ci vogliono solo rimedi politici, ma istituzionali (a cominciare dal salvataggio della Costituzione e da una nuova legge elettorale) perché l’Italia non abbia a ricadere nel baratro. ❑ 13 ROCCA 1 MAGGIO 2006 4° convegno Terza Età RESISTENZA E PACE IRAN ROCCA 1 MAGGIO 2006 Maurizio Salvi 14 I l rischio della proliferazione nucleare in Medio Oriente, insieme al dinamismo del mondo sciita – che, com’è noto, guida l’Iran, ha conquistato il governo dell’Iraq e gode di forti simpatie fra i militanti di Hamas al potere nel cosiddetto Stato palestinese – alimenta le tensioni internazionali in queste settimane in un contesto di per sé già vibrante per la forte crescita del prezzo del petrolio. Ogni giorno che passa il prezzo del barile di greggio aumenta di valore, e ormai sono pochi gli analisti di Wall Street che non tengono in conto, nella spiegazione del fenomeno, la variabile del braccio di ferro che il presidente George W. Bush ha ingaggiato con le autorità di Teheran sul delicato tema nucleare. Mentre sono sempre di più quelli che ritengono che la strategia statunitense serve piú che altro per coprire l’imbarazzo e le difficoltà di prospettive che la spedizione militare a stelle e a strisce affronta in territorio iracheno. Tale stato d’animo era evidente nel messaggio telefonico trasmesso da Bush al neoeletto premier Jawad al-Maliki, un mode- rato membro della comunità sciita iraniana su cui vengono riposte tutte le speranze di «sconfiggere i terroristi e di unificare il paese». La designazione di al-Maliki da parte del presidente Jalal Talabani ha permesso di mettere provvisoriamente fine a quasi cinque mesi di impasse nella vita politica irachena presidiata dagli stessi sciiti, dai sunniti che organizzano l’opposizione armata e dai curdi. l’ipotesi bellica E anche se il quotidiano The Washington Post ha rivelato che gli Usa progettano una guerra in territorio iraniano fin dal 2002, l’ipotesi bellica è diventata più concreta a partire dallo scorso autunno, ossia da quando il presidente Mahmoud Ahmadinejad è intervenuto all’Assemblea generale dell’Onu a New York (17 settembre 2005) per assicurare che l’Iran ha tutto il diritto di portare avanti il suo programma di arricchimento di uranio, e che quindi non vi saranno cedimenti di fronte alle pressioni internazionali. E di che pressioni possa trattarsi lo ha fatto capire il 23 aprile il quotidiano Haaretz di Tel Aviv quando ha rivelato che i responsabili dei servizi d’intelligence dello Stato ebraico avrebbero discusso un piano per l’uccisione del presidente Ahmadinejad. Prima di questa minaccia, vi era stata la decisione dell’Onu, sotto forte spinta statunitense, di dare un ultimatum a Teheran chiedendo l’interruzione immediata del processo di arricchimento dell’uranio nella centrale di Bushehr. Ma questa volta, a differenza dell’affannosa fase diplomatica vissuta nel Palazzo di Vetro prima dell’attacco della coalizione guidata dagli Usa a Baghdad, si è percepito subito che la spinta a cacciare l’Iran in un angolo non ha trovato il consenso di tutti i membri del Consiglio di sicurezza, ed in particolare di Russia e Cina che hanno voluto precisare le forti differenze di apprezzamento fra loro e l’asse Usa-Gran Bretagna, escludendo categoricamente qualsiasi possibile ricorso alle armi in sostituzione della diplomazia. Un dibattito nel quale si è infilato fra l’altro volentieri il presidente venezuelano Hugo Chavez, che dispone di importantissime riserve petrolifere e di gas, e che ha 15 ROCCA 1 MAGGIO 2006 di atomica non è ancora tempo 16 il diritto dei paesi di predisporre un programma di energia nucleare civile, e quindi il diritto di mettere in marcia le tecniche di arricchimento dell’uranio. In generale i paesi si procurano sul mercato internazionale la materia prima che è disponibile sotto la forma detta convenzionalmente ‘yellow cake’ (torta gialla) che contiene il 70% di minerale. Esso viene sottoposto ad un processo di purificazione grazie al quale si ottiene esafluoruro di uranio (UF6). Nel nostro caso l’Iran realizza già tutte queste trasformazioni sotto il controllo dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea). L’ultima tappa è quella dell’arricchimento, necessaria per ottenere una proporzione sufficiente (3%) di un isotopo, l’uranio 235, che permette di produrre energia nucleare. Per essere utilizzata in un’arma atomica, il tasso di arricchimento dell’uranio 235 deve passare al 90%. solo un primo passo Un cammino lungo che non ha alcuna relazione con l’annuncio fatto dal capo dello stato a metà aprile che «l’Iran è entrata a far parte della famiglia nucleare mondiale». Quello che finora gli scienziati iraniani hanno potuto ottenere è il funzionamento di 164 centrifughe in contemporanea per l’arricchimento dell’uranio. Un primo passo, ma con molta strada da fare prima di poter operare con le migliaia di centrifughe che devono operare contemporaneamente per ottenere il risultato voluto. Lo specialista Adrian Hamilton ha ricordato sul britannico The Independent (13 aprile 2006) che gli iraniani hanno tutto il diritto di arricchire l’uranio in base al Tnp, e che «essi hanno interrotto questo processo per tre anni solo per rendersi conto di non avere ottenuto alcuna concessione dall’Occidente». Per Hamilton si deve prendere come uno degli elementi del problema la retorica nazionalista e antiebraica dei vertici iraniani, e non come «il problema». Dato il lungo tempo che ancora separa l’Iran dalla possibilità di arricchire l’uranio a fini bellici, una strategia possibile a suo avviso è quella di accettare l’idea lanciata dal principe Hassan di Giordania di una Conferenza sulla sicurezza, magari sotto gli auspici dell’Onu, che coinvolga tutti i paesi vicini all’Iraq, e che permetta la firma di un patto fra nazioni del calibro di Turchia, Arabia Saudita, Giordania, Siria e, ovviamente, Iran. Maurizio Salvi OLTRE LA CRONACA economia amara Romolo Menighetti a previsione formulata dal Financial Time di qualche giorno fa, per cui l’Italia rischierebbe entro il 2015 di uscire dall’area dell’euro a causa della sua disastrata situazione finanziaria e produttiva, e della poca credibilità che il nuovo governo offrirebbe per il risanamento, va considerata prima di tutto al di fuori di fuorvianti allarmismi. A smorzarli, gli allarmismi – peraltro espressi non come editoriale del giornale inglese ma come parere personale del pur autorevole commentatore – ha già provveduto la stessa Commissione Europea, secondo la quale «non è possibile che l’Italia esca dall’euro». Perché l’Italia dovrebbe uscire dall’euro? Perché potrebbe trovare conveniente riguadagnare quote di mercato con una drastica svalutazione. Ma non è immaginabile che partner europei quali la Francia, la Spagna, la Germania, nostri concorrenti sui mercati internazionali, accettino senza sollevare obiezioni una tale manovra che li danneggerebbe, rendendo meno conveniente l’acquisto dei loro prodotti rispetto ai nostri. Il danno che il ritorno di una lira debole farebbe ricadere sui soci dell’euro-area scoraggerebbe poi anche ogni iniziativa di «espulsione» nei confronti dell’Italia. Va inoltre considerato che l’allarme del Financial Time si inquadra nei ricorrenti attacchi che la finanza anglosassone, in sintonia con quella d’Oltreoceano, sferra al sistema monetario europeo, mirando al suo anello più debole, cioè noi. Un’Europa economicamente e finanziariamente forte, si sa, non piace agli Stati Uniti, e ai molti che Oltremanica assecondano tale orientamento. Ciò detto, i problemi economici che si prospettano al governo Prodi sono grossi e gravi. Ma prima di esaminarli giova ricordare che questi sono il prodotto di cinque anni di governo (a maggioranza assoluta) del centrodestra. Questo ha peggiorato non poco la situazione del 2001. Esso ha lasciato un’eredità disastrosa, specie se si considera che per anni, e fino a poco fa, l’ex presidente Berlusconi e i suoi economisti hanno continuato a proclamare, negando l’evidenza evidenziata continuamente dall’opposizione gratificata come Cassandra, che tutto andava bene. Ora le Cassandre trovano autorevole confer- L ma nelle parole del capoeconomista del Fondo monetario internazionale, Raghuram Rajan, che afferma dovere il nuovo governo italiano, affrontare «sfide enormi» per rilanciare l’economia. C’è, infatti, il «sostanzioso deficit di bilancio», che è previsto per il 2006 al 4 per cento del Pil (4,3 nel 2007) contro l’impegno preso dal governo Berlusconi con Bruxelles di mantenerlo al 3,8 (dal Corriere della Sera, 20 aprile 2006). Da notare che i precedenti governi del centrosinistra l’avevano ridotto, nel 2001, al 3,2 per cento (fonte Ministero dell’economia, da L’Espresso, 2 marzo 2006). C’è il «debito pubblico estremamente alto», che secondo il Fmi a fine anno sarà a quota 106,3 del Pil e a 107,9 nel 2007 (Corriere della Sera, idem), mentre i governi di centrosinistra dal 1996 al 2001 l’avevano fatto scendere di 12,2 punti percentuali (La Repubblica, 18 aprile 2006). C’è la «perdita costante di competitività», che ha visto la posizione dell’Italia scivolare dal 2001 al 2005 dal 32° al 53° posto (fonte: Institute for Menagement Devolepment). Tutti questi dati risultano in controtendenza con quelli di gran parte dei paesi europei, anche in previsione. La sfida dunque è veramente grande. Ma a capo del nuovo governo ora c’è un premier, Romano Prodi, che una specie di miracolo già lo fece qualche anno fa, guidando, assieme a Ciampi, l’Italia nell’euro. Certo, c’è la risicata maggioranza al Senato, ma anche qui giova ricordare il precedente dei governi di centrosinistra che dal 1996 al 1999 governarono con soli 6 voti in più alla Camera. Perciò l’impresa non appare impossibile. Purché le forze più radicali della coalizione governante rinuncino responsabilmente a sbandierare quegli slogan che, tra l’altro, sarebbe stato più vantaggioso non agitare nemmeno durante la campagna elettorale. Insistendo su questi si avrebbe come risultato solo, da un lato un’ulteriore restrizione della credibilità da parte degli investitori esteri, e dall’altro un accentuarsi della pressione a fare la «grande coalizione» con il centrodestra. Ma come si può ragionevolmente credere che il centrodestra possa contribuire efficacemente a salvare il paese da quei guai che esso stesso ha provocato? ❑ 17 ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 IRAN deciso di appoggiare senza mezzi termini le ragioni dell’Iran. Perfino una personalità non sgradita negli Stati Uniti, come l’avvocata iraniana Shirin Ebadi, vincitrice nel 2003 del Premio Nobel per la pace, ha messo in guardia da un intervento militare americano in Iran. «Nonostante tutte le critiche che noi manteniamo nei confronti del governo di Teheran – ha spiegato – non un solo soldato americano può mettere piede sul suolo iraniano». Al ritorno nei giorni scorsi da un soggiorno statunitense, Shirin Ebadi ha detto di aver avuto l’impressione che l'opinione pubblica fosse come preparata a un attacco all’Iran, come lo era stata un anno prima della guerra in Iraq. «Questa volta non so bene se si tratti di una guerra psicologica o invece reale», ha concluso non prima di osservare che «quando un paese commette un errore, un altro stato non può rispondere con un attacco militare». Vedremo poi più avanti se si tratta veramente di un ‘errore’ iraniano, o se c’è qualcosa di più. Comunque, che qualcosa non funzioni per il verso giusto, neppure all’interno dell’Amministrazione del presidente George W. Bush, lo si è visto dalle dichiarazioni dello stesso direttore nazionale dell’intelligence (Dni) americana, John Negroponte che in un intervento giorni fa nel National Press Club di Washington ha detto: «Pensiamo che ci vorranno ancora diversi anni prima che (gli iraniani) siano in grado di possedere materiale fissile in quantità sufficiente per disporre di un’arma nucleare». Ed ha aggiunto: «Forse lo potranno nel corso del prossimo decennio: per tali ragioni penso comunque che sia importante affrontare la questione in prospettiva». Negroponte non ha fatto altro che ripetere una analisi messa a punto alla fine dello scorso anno nel Rapporto di Intelligence Nazionale che preparano in collegamento fra loro tutti i servizi di spionaggio statunitensi, e che ha trovato eco solo in alcuni giornali statunitensi. In esso si assicura che «l’Iran non sarà in grado di produrre una quantità sufficiente di uranio altamente arricchito – ingrediente chiave dell’arma atomica – prima dell’inizio della seconda metà della prossima decada». Ossia non prima di dieci anni. È un po’ nella volontà di ammettere questa argomentazione la risposta al presunto ‘errore’ evocato dalla Premio Nobel Shirin Ebadi. Varrà la pena ricordare che l’Iran ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp, da cui invece è uscita la Corea del Nord) e che l’articolo 4 prevede POLITICA ITALIANA e non se ne vogliono andare 18 N ta, aggressiva. Giocata più sulle falsità che sulla verità. Bassa pubblicità sulle tasse da togliere, un motivo che alla fine è sembrato a molti determinante. Con l’aggiunta di sondaggi ed exitpoll falsi, ingannatori fino all’ultima ora. Quell’ultima ora che non arrivava mai. Poi l’annuncio della Cassazione: una vittoria estremamente risicata e accompagnata anche da alcune beffe, come il voto degli italiani all’estero voluto dal centrodestra e determinante, invece, per la vittoria del centrosinistra. Così anche per la nuova e discussa legge elettorale con il premio di maggioranza che, invece, conferisce alla vittoria del centrosinistra una certa tranquillità, per lo meno alla Camera. Così fino a ieri. Oggi domina la divisione. Divisione del paese a metà, senza possibilità di serie mediazioni. Divisioni anche all’interno dei due schieramenti: si ha la triste impressione che ogni gruppo e gruppetto pensi più a se stesso che al bene del paese e anche della coalizione cui appartiene. Uno spettacolo triste, su uno sfondo ancora più triste: il prezzo del petrolio alle stelle, l’occupazione sopraffatta dal precariato e, checché se ne dica, lo scontro globale fra le civiltà. Si torna a parlare della necessità del nucleare, mentre si infiamma, ancora una volta, lo scontro fra israeliani e palestinesi. Difficile, in questo quadro, parlare di un domani. Di un paese meno diviso, più tranquillo e più unito. Esclusa la grande coali- zione alla tedesca, che cosa può accadere? Probabilmente un governo di centrosinistra molto debole, continuamente contestato dal centrodestra che non accetta sinceramente la sconfitta e pressato dai problemi ereditati e quasi insanabili. Da una parte e dall’altra la speranza di un partito unico, come negli States. Soprattutto a sinistra i passi in questo senso sono stati abbastanza significativi, ma, anche qui, il rischio di un forte egoismo politico è alle porte. Si dovrebbe verificare un vero cambiamento di cuore, di animo, di valori. Un cambiamento, si potrebbe dire, dello spirito morale della politica. Sarà possibile? ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 Filippo Gentiloni on se ne vogliono proprio andare!» così viene voglia di dire a due settimane, ormai, dalle elezioni politiche. Mentre il centrosinistra, forte della sua vittoria, prepara faticosamente il nuovo governo, il centro destra né lascia Palazzo Chigi né telefona a Prodi ammettendo la sconfitta. Lo hanno fatto, fra gli altri, anche Bush e Putin. Il paese, preoccupato, a dir poco, cerca di capire, ma è consapevole di vivere una delle fasi peggiori della sua storia politica. Al di là delle cifre e delle contestazioni, non è facile comprendere che cosa è accaduto, che cosa sta accadendo, che cosa accadrà. Il passato. Una delle peggiori campagne elettorali della nostra storia. Acida, violen- Filippo Gentiloni 19 RELIGIONI A SCUOLA l’alternativa all’ «ora di niente» 20 S con il pretesto di combattere l’islamismo, dal bisogno dei giovani di orientarsi in campi così complessi ed inquietanti. Se l’insegnamento religioso, proprio perché confessionale, da un lato esclude i non credenti e i credenti di altre fedi ed è comunque inadatto, per la sua stessa natura, a costruire i ponti che oggi sono indispensabili, anche l’idea della laicità totale della scuola pubblica non funziona, respinge ed esclude, inasprisce le incomprensioni interculturali. Lo si è ben visto in Francia, nella lunga e tormentosa vicenda sulla liceità, nel contesto scolastico, del velo «islamico» imposto da famiglie e comunità: non solo un certo numero di ragazze di cultura musulmana sono state escluse dalla possibilità di maturare, attraverso gli strumenti culturali e le relazioni nel gruppo dei pari che offre l’esperienza scolastica, una propria personale mediazione e un proprio personale equilibrio tra le radici comunitarie e l’ambiente di inserimento, ma nuova benzina è stata versata sul fuoco degli integralismi, nuovi pericolosissimi argomenti sono stati regalati al vero o presunto conflitto di civiltà. una terza via Dobbiamo, dunque, tornare alla «terza via» proposta invano più di venti anni fa da Pietro Scoppola? All’introduzione all’interno dell’impianto curricolare, e quindi per tutti gli studenti, di una materia dedicata alle scienze della religione? La sollecitazione a ridiscuterne è venuta, in questi ultimi mesi, dalla richiesta delle comunità islamiche di attivare, in base a una logica concordataria che certo non prevedeva un impatto così forte e così irreversibile dell’immigrazione, l’insegnamento scolastico anche della religione musulmana. Una strada, finora sempre rifiutata dalle minoranze religiose presenti nel nostro paese, a partire dai valdesi, che potrebbe dar luogo a pericolose caratterizzazioni confessionali della scuola pubblica: senza, beninteso, far avanzare di un solo passo l’educazione al pluralismo e al confronto tra diverse culture e identità. Sono sempre più numerose, infatti, le voci di studiosi e politici, anche appartenenti al mondo cattolico, che auspicano se non il superamento immediato dell’insegnamento concordatario – che implicherebbe forzature politiche per lo più considerate assai poco probabili – la trasformazione della cosidetta «ora di niente», cioè delle attività alternative previste per coloro che «non si avvalgono», in un insegnamento aconfessionale di storia o di scienze delle religioni per tutti gli studenti, curato da docenti pubblici appositamente formati e sot- toposto a normale valutazione dei risultati, proprio come ogni altra materia curricolare. In questo modo, oltre che un depotenziamento delle insorgenze confessionali di varia provenienza, si avvierebbe un processo di riappropriazione da parte della scuola di una piena titolarità formativa anche in questo campo. Con il vantaggio, da un lato, di non ledere i diritti di quelle famiglie cattoliche che chiedono l’insegnamento confessionale; dall’altro, di mettere fine a una incultura religiosa diffusissima ed evidentemente insostenibile perché foriera di chiusure e di intolleranze. L’ipotesi, discussa in un incontro nazionale del dicembre scorso, organizzato da diversi autorevoli soggetti: il movimento «Agire politicamente», l’Università di Perugia, l’Istituto Statale di cultura religiosa di Trento, la Facoltà valdese di teologia, viene commentata e discussa con interesse negli ambienti culturali e politici più attenti al ruolo che l’educazione pubblica deve avere nelle società investite dai fenomeni dell’immigrazione, della mondializzazione, del rinfocolarsi di vecchi e nuovi integralismi. ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 Fiorella Farinelli e ne discute da decenni ma la questione dell’insegnamento religioso nel nostro sistema educativo continua a restare sostanzialmente irrisolta. È l’approccio, forse, che dovrebbe cambiare. È sensato, in un mondo affollato di tensioni e attraversato da conflitti che si ammantano di ragioni religiose, che 500.000 studenti di scuola primaria e secondaria – quelli che ogni anno «non si avvalgono» dell’insegnamento concordatario – non ricevano nessuna formazione culturale, e neppure nessuna seria informazione, sulle religioni e sulla loro influenza sulle mentalità, sulle identità individuali e collettive, sull’etica, sulla politica? È sensato, in una scuola in cui crescono a ritmo esponenziale le presenze di ragazzi e famiglie di culture diverse, rinunciare a quell’educazione al pluralismo di cui è elemento essenziale una storia delle religioni insegnata laicamente? L’alternativa che ha animato il dibattito degli ultimi settanta anni tra laicità totale della scuola e insegnamento religioso concordatario è ormai, con tutta evidenza, un quadro di riferimento vecchio e logorato. Incapace di misurarsi con le urgenze determinate dai nuovi fenomeni culturali e politici di un mondo globalizzato, dall’insorgere di pericolosi integralismi, dagli assalti alla libertà religiosa condotti il vuoto delle università È possibile, dunque, che nonostante le numerose perplessità o contrarietà che si fondano su ragioni od opportunità di na21 gli insegnanti di religione ROCCA 1 MAGGIO 2006 Più insidiose e imbarazzanti sono invece le obiezioni che, guardando alla probabile progressiva trasmigrazione degli studenti iscritti all’insegnamento religioso concordatario verso un insegnamento non confessionale, mettono al centro il destino degli attuali insegnanti di religione. Una categoria di circa 25.000 professori, formata ormai per oltre tre quarti di personale laico e fortemente femminilizzata (51,9%) che, in base a una legge del 2003, è stata generosamente sottratta sia alla condizione di precari a vita sia ai rischi di perdita del lavoro connessi con la sempre possibile cessazione del riconoscimento dell’idoneità ad insegnare da parte delle autorità ecclesiastiche: con l’impegno del Miur e del legislatore non solo ad una progressiva immissione in ruolo ma anche ad un loro riutilizzo su altre discipline nel caso disgraziato di perdita dell’accreditamento professionale. Potrebbero, nell’ipotesi caldeggiata dal professor Pietro Scoppola e da altri, accedere a una riconversione profes22 sionale orientata a ricoprire le cattedre dell’insegnamento di scienza e storia delle religioni? E come conseguire i necessari titoli universitari senza essere costretti a frequentare i lunghi percorsi formativi abilitanti che dovrebbero essere attivati, in questo caso, dalle università? Si tratta, anche in questo caso, di problemi non insuperabili. Nei processi di riforma e di innovazione del sistema scolastico italiano, sia quelli previsti dalle norme promosse dal ministro Moratti sia quelli che sono comunque indispensabili per migliorarne il funzionamento e i risultati, saranno certamente moltissimi gli insegnanti di tutte o molte discipline che, per il mutamento della composizione delle cattedre, l’introduzione di nuovi ruoli e funzioni, lo sviluppo della formazione degli adulti, le nuove esigenze determinate dai flussi migratori, l’introduzione di nuovi saperi e di nuove tecnologie di insegnamento e di apprendimento, dovranno non solo aggiornare le loro competenze ma rientrare in autentici ed organici percorsi formativi. riconversione possibile Niente di terribile né di impraticabile se a questi processi di riconversione professionale dovessero partecipare anche quote, più o meno significative, degli insegnanti di religione. Sarebbero in buona compagnia, oltre che con i loro colleghi di altre discipline, con le decine di migliaia di studenti-lavoratori – o di lavoratori che, nel mondo dell’«apprendimento per tutto il corso della vita», già oggi combinano gli studi con l’occupazione e con gli impegni della vita adulta. Disponiamo, per fortuna, di tecnologie in grado di realizzare la «formazione a distanza», di consorzi universitari che da diversi anni la realizzano con buoni risultati, di esperienze positive nell’istruzione scolastica e nell’alta formazione. Non sono qui, dunque, i principali ostacoli al superamento di quel «vuoto pedagogico» nel campo delle scienze della religione che Pietro Scoppola rimprovera al nostro sistema educativo. Sono in una tradizione di altri tempi, in una concezione della laicità dello Stato che non tiene più di fronte ai nuovi bisogni di educazione al pluralismo e al dialogo interculturale delle nostre società complesse, in un rapporto tra Stato e Chiese che richiede il coraggio culturale e politico del rinnovamento. E in un diffusissimo timore del mondo politico a guardare in faccia le cose e a ridiscuterle. TERRE DI VETRO sentiamoci presto Oliviero Motta uando bussa pare che debba abbattere la porta: due o tre pesanti colpi di fila che fanno tremare il vetro centrale e lo annunciano senza ombra di dubbio. Poi, rapido, compare lui, con la consueta espressione furba e sorridente: della serie «ti ho fatto spaventare, eh?». Un’irruzione, più che una entrata. Roberto è proprio così, come la rapida successione di emozioni che suscita il suo ingresso in una stanza: una inquietante mole fuori dall’ordinario mixata con un candore disarmante, un omone dalla faccia di ragazzino. Trent’anni vissuti tra molte difficoltà: il precoce abbandono scolastico per un lieve ritardo mentale, una vita affettiva e relazionale molto precaria, fino al litigio e al distacco dalla famiglia d’origine e qualche mese da homeless. Senza fissa dimora nella stessa piccola cittadina natale: anche in questo Roberto era riuscito a fare qualcosa di stra-ordinario. In quel periodo lo incrociavo spesso per le strade del centro, con le sue borse di plastica, il sacco a pelo e il cappello calato sugli occhi che lo faceva ancora più uomo-buffo-delle-caverne. Lo incontrai anche il giorno della morte di suo padre, con tutta la disperazione di chi non aveva potuto esserci e il rammarico delle furibonde litigate durate fino all’altro ieri. Poi, al contrario, la progressiva risalita: la mensa dei poveri come primo punto di riferimento, il sostegno dei servizi sociali e dei volontari della Caritas, infine l’assegnazione di una casa popolare tutta sua dove ricominciare. Ma, nonostante questo significativo percorso di reinserimento, un lavoro serio ancora non ce l’ha e si arrangia con occupazioni saltuarie e occasionali: volantinaggi, sgomberi, montaggio e smontaggio di Q stand. E tra un lavoro e l’altro, una settimana sì e una anche, arriva a «bussare» a questa porta. Se i primi incontri erano soprattutto di richiesta e di aiuto, ora non c’è più un motivo particolare per vedersi. E così Roberto si siede di fronte alla scrivania e aspetta che sia io a porgergli qualche domanda a proposito della sua vita quotidiana: la salute, la madre che ora rivede frequentemente, incontri e scontri di ogni giorno. Domande e risposte ordinarie, insomma, di chi si incrocia ogni tanto e si aggiorna sulle ultime nuove. A dire il vero non è raro che l’«irruzione» di Roberto avvenga quando il lavoro in corso non lascia tempo a un dialogo vero e proprio; ma anche in questi casi lui prende posto con rapidità e aspetta: qualche monosillabo qua e là, per il resto il silenzio tutt’altro che imbarazzato di chi si conosce da tempo e può permettersi di stare così, senza apparente costrutto. Le prime volte ho avvertito un certo disagio perché il fatto di continuare a lavorare appariva ai miei stessi occhi come una mancanza di rispetto o la certificazione di una fastidiosa asimmetria tra di noi. Col tempo, invece, mi è sembrato di cogliere in queste strane parentesi un modo di comunicare «diverso», un ascolto fatto non tanto con l’udito ma con altri irrintracciabili sensi. E Roberto oggi non è l’unico a praticare questo singolare linguaggio non verbale dalla grammatica e dal vocabolario semplicissimi: stare, permanere, guardare, esserci. Accontentarsi. È come se alcune persone venissero a «sentirti» più che ad ascoltare o parlare con te. «Sentire», insomma, che ci sei, con i modi e i tempi che le circostanze permettono. Semplicemente. Fiorella Farinelli 23 ROCCA 1 MAGGIO 2006 RELIGIONI A SCUOLA tura politica ma anche sulle difficoltà di una ridefinizione non laicista della laicità dello Stato, stiano per maturare approcci al problema più maturi e più adeguati alle urgenze di oggi. Non mancano però obiezioni di natura diversa, che meritano anch’esse di essere considerate. La più importante riguarda l’assenza, nel nostro paese, di percorsi universitari pubblici in grado di formare ed abilitare in scienza e storia delle religioni un nuovo corpo professionale di insegnanti. È vero: con la rinuncia della scuola pubblica e, più in generale, della cultura laica a misurarsi in modo non confessionale con quella «polifonia» e quell’«integrazione» tra culture e tradizioni cristiane che caratterizza – come ha recentemente sottolineato Benedetto XVI – il tessuto etico e democratico del continente europeo, anche le università pubbliche hanno finito col tenersi fuori da uno sviluppo organico e sistematico della ricerca scientifica e di appositi percorsi formativi in questo campo. Un paradosso – ma solo apparente – in un paese che rivendica a ogni pie’ sospinto il suo fermo ancoraggio alle radici della cristianità. Occorrerebbero dunque nuove norme, e sarebbero necessari investimenti dedicati, non solo nella scuola ma anche nelle università, per superare questo gap. Un’impresa del resto non impossibile, anche se non risolvibile in tempi brevissimi. LA GIUSTIZIA IN ITALIA il fantasma della pena di morte È un anacronismo storico e etico La brutale legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente, ha nella violenza 24 e nella vendetta le sue origini e le sue finalità, si perde nella notte dei tempi quando etica e diritto rispondevano a provocazioni istintuali ed a regole tribali che non fanno e non debbono più far parte della storia umana e dell’evoluzione degli stati di diritto a base democratica. Rappresenta un anacronismo storico ed etico la previsione della pena di morte in alcuni stati considerati moderni; si tratta in realtà di un ancestrale residuo della memoria primitiva a cui si tenta di fornire un alibi sostanzialmente insostenibile sul piano morale e falso sul piano pragmatico. Già nel 1700, con un’anticipazione profetica e culturale, C. Beccaria bene illustrava nel suo editorialmente modesto, ma concettualmente superbo volumetto «Dei delitti e delle pene», che il castigo inflitto dal potere pubblico al responsabile del crimine deve porsi su di un piano etico ed emotivo nettamente diversi da quello che ha mosso il delinquente. La reazione violenta e passionale dequalifica la pena pubblica, le toglie quel significato e quel valore che sempre deve avere per porsi al di sopra delle parti ed essere espressione di vera giustizia e di concreta tutela della società. La crudeltà della pena non risponde minimamente a questi essenziali ed irri- nunciabili requisiti e non ha alcuna giustificazione giuridica e valida efficacia sociale. È ormai un fatto notorio che l’efferatezza della punizione non aumenta minimamente la funzione preventiva della pena, come inequivocamente dimostra l’esperienza storico-sociale in epoche e paesi diversi dove i delitti più gravi hanno convissuto perfettamente con i castighi più crudeli, senza venirne non solo condizionati, ma neppure in qualche modo influenzati. La psicologia e la criminologia hanno studiato a fondo il fenomeno ed hanno fornito molteplici spiegazioni di non semplice lettura, alcune delle quali fanno leva, almeno per i delitti più passionali, impulsivi e violenti, ad una sorta di offuscamento dell’intelligenza e del senso morale tale da impedire la coscienza e la percezione delle proprie azioni criminose nel momento in cui le si compiono. Ciò ovviamente non esclude, salvo in casi eccezionali, l’imputabilità e una sufficiente capacità di intendere e di volere da consentire di essere giudicati e subire la pena prevista. Il problema non è la durezza del castigo, ma la sua certezza e rapidità di esecuzione. Come già scriveva nella seconda metà del ’700 il Beccaria: «Uno dei più gran fre- ni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse ‘ed ancora’ quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso tanto più giusta e tanto più utile... quanto è minore la distanza del tempo che passa tanto più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione Delitto e pena» (e, quindi, più incisiva la sua efficacia «intimidatoria e preventiva») L’avversione del Beccaria alla pena di morte è totale non solo per la sua inutilità (ed aggiungiamo noi per l’irreparabilità dei non infrequenti errori giudiziari), ma perché, «se le passioni e le guerre hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi della condotta degli uomini non dovrebbero aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con studio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi... che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime». ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 Giancarlo Ferrero del tutto comprensibile sul piano umano la violenta reazione popolare di fronte all’efferato delitto commesso a Casalbaroncolo a danno del piccolo Tommaso. A determinarla concorrono con forza sinergica diversi fattori, quasi tutti di carattere prevalentemente emotivo come la pietà, il dolore, la condivisione, il senso di giustizia, l’inconscia necessità di alleggerire l’insopportabile tensione provocata dal crimine, la rimozione del senso dell’orrore, il ripristino dell’ordine e della sicurezza attraverso il castigo. Decisamente diversa, per natura e finalità, deve, invece, essere la risposta dello Stato, nella sua configurazione più moderna e civile. Secoli di evoluzione etico-giuridica, di studi criminologici, di conoscenze psichiatriche e psicologiche hanno portato a valutazioni articolate e più approfondite dei fenomeni delittuosi e corrispondentemente a ricerche di modalità diverse di prevenzione e punizione dei crimini in un’ottica di maggiore razionalità ed efficacia pratica. paralisi della funzione giudiziaria Il vero problema è da noi l’estrema lentezza dei processi che ha come inevitabile conseguenza il ritardo nell’esecuzione delle pene e spesso la loro incertezza, facendo così venir meno in gran parte la natura e 25 la vita è sempre sacra Poiché la lentezza della giustizia italiana non ha riscontro in altri paesi europei è difficile comprendere la ragione per cui 26 non si adotti anche da noi il sistema vigente nel paese più efficiente, senza ovviamente nulla cedere al rispetto delle garanzie dei cittadini. In verità la soluzione migliore e di gran lunga auspicabile sarebbe quella di addivenire al più presto ad un sistema unico per tutta la comunità, almeno per gli stati di più antica formazione europea e di analoga cultura giuridica. Se consideriamo questo deleterio, cronicizzato male della nostra giustizia, la sua estrema lentezza, la pena di morte diviene ancora più assurda e ripugnante di quanto già non lo sia. Condurre al patibolo, con un cerimoniale degno di un film dell’orrore, un essere umano dopo 10 o 20 anni dalla commissione del delitto costituisce un tale obbrobrio etico ed oltraggio giuridico da far dubitare dell’intelligenza, della civiltà e della coscienza morale di tutti quei cittadini che ammettono, anche solo passivamente, la pena di morte. Chiunque abbia letto l’agghiacciante libro di Chessman: Cella 2455 braccio della morte e si ricordi dell’esecuzione del suo autore dopo decenni di straziante attesa non ha bisogno di altre parole. la barriera costituzionale Per fortuna da noi c’è una barriera insuperabile eretta dalla non mai abbastanza lodata Costituzione:art. 27 «non è ammessa la pena di morte», poche, inequivocabili parole scolpite nel cuore del nostro sistema giuridico e che ne qualifica l’essenza stessa. Ha scritto di recente Gustavo Zagrebelsky, uno dei nostri migliori saggisti e profondo conoscitore della Costituzione: «morte e guerra sono decisioni irreversibili, dalle conseguenze irreparabili. Il divieto della morte come pena dispensata dagli uomini contro altri uomini, significa che la vita non è mezzo, ma fine. Non è lecito allo Stato sottrarla nemmeno a chi si è macchiato dei crimini più terribili... la vita non può infatti considerarsi sacra quando è quella della vittima e non più sacra quando è quella dell’omicida. O è un fine in tutti i casi o si corre il rischio che diventi un mezzo, quando occorre in vista di qualche altro valore, brandito come una clava tra gli esseri umani. Se abbracciamo questa seconda possibilità, siamo pronti per lo Stato totalitario, lo Stato per l’appunto che considera gli individui al servizio dei suoi scopi e dispone di loro come e quando vuole». consociativismo PAROLE CHIAVE Romolo Menighetti I l consociativismo è una pratica politica per la quale le forze di opposizione vengono coinvolte nelle scelte di governo e nella gestione del Paese. Esso intende garantire la stabilità attraverso la corresponsabilità nelle decisioni. L’esigenza di intese corporative si affaccia in momenti di particolari e gravi emergenze (i «gabinetti di guerra» della Gran Bretagna durante il secondo conflitto mondiale), o quando si tratta di ricostruire un paese lacerato da dittatura o guerra (la Spagna postfranchista, l’Italia dopo la caduta del fascismo, con i governi Dc-Pci). In assenza di emergenza, il consociativismo sottintende solamente una volontà spartitoria di potere, risorse e di cariche pubbliche da parte della corporazione dei politici. Il consociativismo può essere proposto anche quando risulti impossibile coagulare, attraverso le elezioni, una maggioranza in grado di garantire la governabilità. In tale contesto è facile che venga alterata la limpidezza del confronto democratico, e che si producano due conseguenze di segno opposto: una carenza e un eccesso di decisioni. La carenza decisionale porta all’immobilismo e riguarda l’impossibilità a prendere decisioni profondamente innovative e radicali, a causa del veto che, di fatto, possono opporre le forze di opposizione. Per contro, l’eccesso può derivare dal fatto che, per vincere il potere di veto, si prendono decisioni, comportanti uscite di denaro pubblico, poco producenti per la collettività, ma gradite all’opposizione. Questa combinazione di carenza ed eccesso costituisce una delle cause fondamentali del buco nella pubblica finanza. Nell’Italia recente il consociativismo si è sviluppato negli anni Settanta ed Ottanta. In quegli anni i partiti di governo e di opposizione (sostanzialmente la Democrazia cristiana di Aldo Moro e il Partito comunista di Enrico Berlinguer) costatata l’impossibilità dell’alternanza, a causa della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, e stretti dalla necessità di dare una risposta alle tensioni causate dalla crisi economica, dalle trame antidemocratiche dei servizi segreti, dalle violenze perpetrate dalle opposizioni extraparlamentari di destra e di sinistra, da un’inflazione oltre il 15 per cento, hanno tentato di dare risposte convergenti onde garantire la stabilità del sistema politico italiano. Nei fatti, il consociativismo si concretizzò nel governo monocolore di «solidarietà nazionale» presieduto da Andreotti negli anni ’76-’79. Il governo Andreotti del 1976 («monocolore delle astensioni») nacque con i voti della Dc e con l’astensione di tutti i partiti di quel che allora era chiamato «arco costituzionale», sulla base di un programma concordato e verificato, in via ufficiosa, da tutte le forze dell’astensione. Tale politica permise, in quegli anni, a Giulio Carlo Argan, di essere il primo sindaco comunista di Roma, e a Pietro Ingrao, pure lui comunista, di essere eletto presidente della Camera. La politica del consociativismo ufficioso fu pagata cara dalla Dc e dal Pci. Quest’ultimo perse, nelle elezioni del 1979, circa il 4 per cento dei voti rispetto alle politiche precedenti, mentre la Dc uscì sfilacciata in mille rivoli. Dopo la parentesi Spadolini, Craxi porterà il sistema politico italiano dal consociativismo alla logica spartitoria del Caf (Craxi, Andreotti, Forlani), con conseguente degenerazione nella corruzione elevata a sistema, fino allo scandalo di Tangentopoli. Con Berlusconi si ritornò alla logica e alla politica dello scontro frontale, dello spoil system, del «non faremo prigionieri». Tale politica è stata da lui praticata e teorizzata finché ha avuto la maggioranza parlamentare, salvo poi a proporre il consociativismo non appena questa gli è venuta meno. Il consociativismo, comunque, conserva una connotazione positiva unicamente a fronte di gravi emergenze. Entro queste eventualità, esso può risolversi in bene per la collettività solo se: tutte le parti si riconoscono e si legittimano senza riserve mentali; se vi è unanime e piena adesione al metodo democratico inteso come sistema di regole, cui assoggettarsi anche quando non conviene alla propria parte; se l’obiettivo da raggiungersi da parte di tutte le componenti è il bene comune del Paese, e non il mantenimento, comunque, di una qualche porzione di potere. Giancarlo Ferrero 27 ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 LA GIUSTIZIA IN ITALIA le finalità della pena stessa sul piano individuale e sociale. L’opinione pubblica rimane a ragione disorientata ed è questa una delle principali cause della poca simpatia dei cittadini verso la magistratura. Oltretutto questi ritardi stanno determinando, dopo l’entrata in vigore della c.d. legge Pinto sul risarcimento per ritardata conclusione dei processi, un vero e proprio salasso alle casse dello Stato, sempre più di frequente condannato a pagare i danni agli utenti della giustizia in lunga e non più paziente attesa (si tratta di milioni di euro in costante crescita). Per combattere questo gravissimo e cronico fenomeno che dequalifica ed a volte deforma la giustizia ben poco è stato sinora fatto. Anzi proprio in questi giorni si stanno varando decreti legislativi in attuazione della riforma dell’ordinamento giudiziario, una vera e propria vergogna vantata per insipienza (a non dir d’altro) della passata maggioranza politica. Se, infatti, la riforma venisse completamente attuata si arriverebbe ben presto, per la sua farraginosità e disarmonia con il complesso sistema, alla paralisi della funzione giudiziaria, con conseguenze imprevedibili sul piano interno ed internazionale. Il problema da tempo insostenibile ed indegno di un paese civile va affrontato in termini diametralmente opposti a quello recentemente spacciato come riforma, cioè andando verso la semplificazione organizzativa e processuale per ottenere un ben diverso rendimento sostanziale. Più fattori incidono negativamente sul funzionamento della giustizia, dal numero assolutamente sproporzionato (rispetto a tutti gli altri paesi) di avvocati, alla frantumata distribuzione delle sedi giudiziarie sul territorio nazionale (in un’ottica da calesse ed in uno spirito campanilistico; decine di tribunali con i loro edifici e costi per una sola regione), un sistema processuale irto di preclusioni, difficoltà e trabocchetti, un’incredibile povertà di strutture e personale ausiliario, modalità obsolete di reclutamento ed impiego dei nuovi magistrati, non poche volte cattiva organizzazione all’interno degli uffici (è una lodevole eccezione, tra le grandi sedi, il tribunale di Torino che ha trovato un’onorevole collocazione nel programma giudiziario di Strasburgo). Libri 3. Un nuovo servizio ai lettori. A grande richiesta la raccolta in volume degli articoli più significativi di uno stesso Autore con particolare riferimento alle tematiche più dibattute a livello sociale, etico, politico e religioso Marco Gallizioli LA RELIGIONE FAI DA TE il fascino del sacro nel postmoderno IL FASCINO DELL’ORIENTE L’Oriente come metafora Paramahansa Yogananda: la vita come abbandono mistico Krishnamurti, un profeta del nostro tempo Gandhi: il sentiero dell’azione ESPLORANDO LA GALASSIA NEW AGE New Age: un caleidoscopio religioso L’etica della New Age L’emozione religiosa di Paulo Coelho e James Redfield ALCUNE SUGGESTIONI DAI MONDI RELIGIOSI CONTEMPORANEI La reincarnazione nel mondo delle religioni Carlos Castaneda: il fascino dello sciamanesimo Il Candomblé: la trance come festa Apocalisse: un’idea perduta? New global: una provocazione anche religiosa pagg. 112 – • 13,00 1. Romolo Menighetti LE IDEE CHE DIVENTANO POLITICA linee di storia dalla polis alla democrazia partecipativa La polis L’umanità come comunità Lo stato nazionale Il liberalismo Marxismo e comunismo Nazionalsocialismo e fascismo La democrazia Delusione e speranze per la democrazia pagg. 112 – • 13,00 2. Pietro Greco BIOTECNOLOGIE scienza e nuove tecniche biomediche verso quale umanità? Ritorna Frankestein? Potenzialità e rischi della genetica Piante e cibi transgenici Terapie geniche La nuova frontiera della biomedicina Clonazione terapeutica Fecondazione assistita Il dibattito all’Onu Chi è l’embrione? Armi biologiche e genetiche Bioetica e bioetiche Tecnologia scienza e sviluppo umano Dibattito tra scienziati, teologi, filosofi e politici pagg. 128 – • 15,00 4. Rosella De Leonibus PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO AMORE E DINTORNI Vorrei che fosse amore Coppia, il catalogo è questo L’amore gay Il romanzo della coppia tra parole e silenzi L’altro/a: un mistero da riscoprire Uno più uno uguale tre Il nido vuoto Padri cercansi, disperatamente Figlie di madri Adulti ed adolescenti: cinque parole per dirlo PSICHE E DINTORNI E se l’io diventasse meno ingombrante? Sulle tracce dei cambiamenti Convivere col caos Malati immaginari? Fuggire col fumo Mi gioco tutto Magra per rabbia, magra per amore Desiderare il futuro Siamo rete-dipendenti? CONVIVENZA SOCIALE E DINTORNI Appunti per un io postmoderno Dietro le quinte della persuasione Il marketing delle idee Tempo per vivere Del Più e del Meno Le scorciatoie del pensiero Fare la differenza Le sfide dell’intercultura I frutti della paura Fiducia o buon senso? La cura della relazione Desiderio di “noi” pagg. 168 – • 20,00 5. 6. Giannino Piana ETICA SCIENZA SOCIETÀ i nodi critici emergenti RILEVANZA SOCIALE DELLA FEDE IN DIO La speranza nei tempi della disperazione Decadenza della fede, relativismo, religione civile La fede in Dio nella pratica politica Politica e profezia Guai a voi! Secolarizzazione e dialogo interreligioso La nuova Europa: radici e identità Le Chiese in difesa dell’ambiente LE CATEGORIE ANTROPOLOGICHE L’uomo e il suo corpo Che cos’è la natura La vita mistero e dono La morte e il morire Salute e cura nel contesto del limite umano I CRITERI DEL GIUDIZIO ETICO Non uccidere La responsabilità morale oggi L’etica del rischio La gerarchia dei beni Quattro principi-base della bioetica I Comitati di bioetica Bioetica e biodiritto I cattolici, la bioetica e la legge FEDE E CULTURA Le tracce di Dio nella cultura umana Scienza e trascendenza L’azione di Dio in un contesto evolutivo Creazionisti e neodarwinisti Teilhard de Chardin e il problema del Male LA MANIPOLAZIONE DELLA VITA UMANA L’embrione è persona? La fecondazione assistita e l’inizio della vita personale Referendum procreazione assistita: perché sì perché no Vita e qualità della vita La clonazione terapeutica Diritto a morire? Il testamento di vita Tra eutanasia passiva e accanimento terapeutico LA CURA DELLA SALUTE Il diritto alla salute Il rapporto medico-paziente La verità al malato Il consenso informato: come, perché, chi Non esistono malati incurabili Salute e risorse: a chi la precedenza? Carlo Molari CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO NEL VORTICE DELLA STORIA La crisi della Chiesa Come e perché cambiare Le componenti della conversione Transizioni traumatiche Letture divergenti del Concilio La missione della Chiesa nel mondo attuale Ritrovare l’essenziale I laici nella chiesa I laici nel mondo Il primato della coscienza Funzioni e limiti del Magistero ETICA AMBIENTALE E ANIMALISTA Il rapporto uomo-natura Gli animali soggetto di diritti OGM: risorsa o rischio? UOMINI NUOVI L’esperienza religiosa Le emozioni nell’esperienza di fede Cammini di libertà Spiritualità del gratuito Leggi umane e fedeltà alla vita Spiritualità della liberazione pagg. 152 – • 18,00 pagg. 168 – • 20,00 i volumi 1-2-3 i volumi 4-5-6 SPECIALE a soli 15 E a soli 10 E PER ciascuno ciascuno I LETTORI DI ROCCA spese di spedizione comprese RICHIEDERE A ROCCA: c.p. 94 - 06081 Assisi e-mail: [email protected] c.c.p. 15157068 ENERGIA l’anomalia italiana I ROCCA 1 MAGGIO 2006 crisi dei combustibili fossili La prima è comune anche ad altri paesi. Ed è la crisi profonda dei sistemi energetici fondati sui combustibili fossili. Una crisi che, a sua volta, è costituita solo in parte da una componente che potremmo definire di depletion, di esaurimento delle ri30 sorse: problema che riguarda o riguarderà in un futuro più o meno prossimo il petrolio. Ma che ha anche e soprattutto una componente di pollution, di inquinamento. Il cambiamento del clima globale impone a tutti i paesi industrializzati una progressiva riduzione nell’utilizzo delle fonti ricche di carbonio: ivi inclusi il carbone (compreso quello cosiddetto pulito) e il metano. La versione italiana del problema consiste nel fatto che il nostro paese deve ridurre nel prossimo quinquennio di almeno il 13% le sue emissioni di gas serra rispetto ai livelli attuali e tra le poche opzioni disponibili c’è quella di abbattere drasticamente l’uso dei combustibili fossili, che costituiscono oltre l’80% delle sue fonti energetiche. Ma entro la fine del secolo dovremo giungere presumibilmente a tagli dell’ordine del 60/80% delle emissioni di gas serra. Alcuni paesi – tra cui la Gran Bretagna e la Germania – stanno già preparando il phase out, l’uscita, dai combustibili fossili. Noi ancora no. La seconda componente è tipicamente italiana e costituisce, appunto, l’anomalia energetica del nostro paese. Siamo dipendenti da troppe poche fonti energetiche (petrolio e metano) e dipendiamo troppo dall’estero: compriamo fuori dai nostri confini oltre l’80% delle risorse energetiche che consumiamo. Ciò ci rende particolarmente vulnerabili: basta che la Russia e/o l’Ucraina riducano un po’ i rifornimenti di metano per spingere il nostro sistema elettrico sull’orlo del black out. Basta un’impennata dei prezzi del petrolio per far lievitare la nostra inflazione più che in altri paesi. La terza componente non è solo italiana, ma in Italia è particolarmente tenace: si tratta della sindrome Nimby (not in my backyard, non nel mio giardino). La costruzione di una nuova centrale, sia essa a carbone o a eolico, o di un degassificatore suscita veementi proteste da parte della popolazione locale. La insostenibilità della sindrome Nimby viene anche evocata da molti per ricordarci che la rinuncia unilaterale all’atomo sarebbe sbagliata perché tutt’intorno all’Italia è un proliferare di centrali nucleari. un mix di soluzioni Considerata, dunque, questa situazione cosa è possibile fare per risolvere il problema energetico italiano? Beh, dovremmo distinguere il breve periodo dal periodo medio e lungo. Nel breve periodo occorre certamente diversificare le fonti energetiche e i paesi Impianto all’idrogeno solare in miniatura realizzato dall’Itip “L. Bucci” di Faenza. I componenti sono identici a quelli usati negli impianti industriali ma di dimensioni ridotte ROCCA 1 MAGGIO 2006 Pietro Greco l 26 aprile del 1986, venti anni fa, un’esplosione nella centrale nucleare di Chernobyl nell’Unione Sovietica di Michail Gorbaciov riproponeva, in tutto il mondo, il tema del rischio associato all’uso civile dell’atomo. E, di lì a poco, portava l’Italia ad abbandonare per via referendaria il suo progetto nucleare. Nei mesi successivi a quel 26 aprile, secondo alcuni, nasce l’ennesima anomalia italiana: l’anomalia energetica. Si potrebbe dimostrare che l’Italia aveva, di fatto, rinunciato all’opzione atomica almeno venti anni prima, il 3 marzo 1964, quando una strana operazione giudiziaria portò in galera Felice Ippolito, il capo del Comitato nazionale per l’energia nucleare (Cnen). E si potrebbe dimostrare che, ancora negli anni ’80, i socialisti al governo erano molto tiepidi se non proprio avversi alla via atomica verso l’indipendenza energetica. Tuttavia è vero che lo sviluppo della vicenda nucleare italiana successiva all’esplosione di Chernobyl ha contribuito non poco a definire e a far emergere il problema energetico italiano. Di cosa consiste questo problema, oggi, venti anni dopo Chernobyl? Di almeno tre componenti. 31 ROCCA 1 MAGGIO 2006 il nucleare di IV generazione Non c’è in questo mix di soluzioni per la questione energetica italiana quello spazio per il nucleare evocato da molti rappresentanti del passato governo Berlusconi? Beh, se per nucleare si intende quello classico, da grandi centrali, probabilmente no. Per i soliti tre motivi. Per costruire un sistema ener32 getico fondato sul nucleare occorrono: molto tempo (almeno 15 anni); grandi investimenti; superare le sindromi Nimby (che in presenza di grandi centrali diventano grandi sindromi) e, soprattutto, risolvere il problema – a tutt’oggi irrisolto – delle scorie. L’insieme di questi problemi rende davvero poco realistico un nuovo programma energetico fondato sul nucleare classico. Tuttavia, per chi non ha obiezioni contro la tecnologia in sé, c’è un percorso che conviene intraprendere in ambito nucleare. È un percorso di ricerca, scientifica e tecnologica, per verificare se è possibile realizzare un programma fondato sul cosiddetto nucleare di IV generazione. Si tratta di un nucleare profondamente diverso da quello del passato. Non solo perché, almeno in prospettiva, è fondato su piccole centrali a sicurezza intrinseca. Ma anche perché promette di risolvere alla radice il problema delle scorie, in quanto non ne produce. La strada verso il nucleare di IV generazione è ancora lunga. Tuttavia le prospettive che evoca rendono conveniente tentare di percorrerla. la speranza idrogeno E l’idrogeno? Forse non è stato detto che è in questa molecola – H2 – che si concentra la gran parte delle speranze energetiche del mondo? Certo, anche l’Italia – con i suoi ricercatori e le sue industrie – deve verificare se l’idrogeno può diventare il fulcro intorno a cui ruoterà il sistema energetico del futuro. Ma occorre anche ricordare che l’idrogeno non è una fonte di energia (sulla Terra non esistono grandi quantità di idrogeno molecolare), bensì un vettore. Un vettore che si candida a sostituire il vettore petrolio e tutti i suoi derivati (benzina, olio combustibile) in una parte notevole dei luoghi di consumo dell’energia, per esempio nei trasporti. Tuttavia il vettore idrogeno occorre produrlo. E per produrlo – a titolo di esempio, mediante dissociazione elettrolitica dell’acqua – occorre energia. E dove si trova l’energia necessaria a produrre l’idrogeno? Per rispondere a questa domanda non possiamo fare altro che rimandare al mix di soluzioni prospettate più in alto. E, soprattutto, ricordare un altro fattore da mettere in campo. La volontà e la lucidità di cambiare registro in fatto di energia, prima che l’anomalia energetica italiana si affermi come un ostacolo insuperabile per lo sviluppo del paese. Pietro Greco EUROPA SOCIALE luci e ombre di uno sviluppo sostenibile Maurizio Di Giacomo U n tema spinoso, con ricadute molto vaste e che continuerà a aleggiare anche nel panorama dell’Italia del dopo elezioni politiche del 9-10 aprile 2006, quello affrontato, a Roma, il 16-17 marzo, dall’Istituto Eurispes e dalla Fondazione Friedrich Ebert, tedesca, vicina al partito socialdemocratico (Spd) «Europa sociale per un progetto comune di sviluppo socialmente sostenibile». Su questo terreno, alla luce della non realizzazione degli obiettivi fissati nel 2002 alla conferenza internazionale di Lisbona (Portogallo). Con l’Unione Europea a 25 (che dal 2007, tranne slittamenti, si aprirà anche a Romania e Bulgaria) – è inutile nasconderselo – il rischio di vaste regressioni è dietro l’angolo. Le cifre fornite da Gian Mario Fara, presidente dell’Eurispes e basate su rapporti e ricerche realizzate da organismi comunitari, parlano chiaro. In Europa 72.000.000 di persone – ovvero il 16% dell’intera popolazione – sono a rischio povertà. In Italia coloro che si trovano in queste condizioni, secondo una ricerca del 2004, sono 2 milioni e 674 famiglie per un complesso di 8.000.000 di persone coinvolte. La percentuale italiana – 19% – pari al livello di Portogallo e Spagna è inferiore solo di un 2% rispetto al 21% che accomuna Irlanda, Grecia e Slovacchia. Se si aggiunge che il 20% di europei in buone condizioni economiche possiede da solo quasi 5 volte in più ricchezza di quanta ne abbia il 20% dei cittadini meno abbienti e che 3.500.000 europei sono coinvolti nel fenomeno del precariato, che rende impossibile una ‘buona flessibilità, in presenze di tutela scarse e diseguali, il terreno sul quale intervenire appare molto accidentato. la situazione Italia In un quadro di stallo dell’occupazione lavorativa nell’Ue in Italia, sulla base di stime dell’Ires – un centro studi espressione della Cgil – i lavoratori atipici sono oltre 4 milioni. In tale contesto va segnalato che quasi a prevedere una cronicizzazione di questo fenomeno nel tempo, di recente, Banca Intesa, prima in Italia, ha lanciato una particolare proposta per l’accesso al mutuo per la prima casa. Questi atipici monitorati più da vicino risultano così scomposti: 1,6 milioni assunti con contratto a tempo determinato, 1.117.200 collaboratori coordinati e continuativi o a progetto. Esistono poi 502.000 assunti con contratto di somministrazione, ai quali si aggiungono 106.000 collaboratori occasionali, 311.000 collaboratori con partita Iva e 400.000 associati in partecipazione. Se si aggiunge che nel biennio 2002-2004 gli iscritti al fondo speciale per la gestione separata dell’Inps, aperto ai lavoratori parasubordinati, è cresciuto di 500.000 iscritti e tenendo conto che nel 2005 i lavoratori detti Co.Co.Co. hanno raggiunto il 14,9% del totale degli occupati, si può stimare che l’incidenza del lavoro ‘atipico’ pesa per il 17 % al Centro, al Nord per il 16% e al Sud per l’11,1%: «una realtà più contenuta ma non marginale» annota la scheda distribuita dall’Eurispes. Nel Sud in particolare il lavoro atipico coinvolge il 24,9% di donne contro il 18,7% di uomini. dalle cifre ai problemi Qual’è uno degli snodi? In Italia solo un quinto dei disoccupati beneficia di trasferimenti statali in caso di perdita del posto di lavoro, mentre in molti paesi europei interventi analoghi coprono l’80% dei potenziali beneficiari e ancora in Italia non esiste un sistema di protezione di ultima istanza. La scheda Eurispes ha richiamato in sintesi il caso della Danimarca, evocato dallo studioso di economia Francesco Giavazzi e diventato una sorta di icona nel senso che lì vi sarebbe un mixer positivo tra la libertà di impresa e una rete sociale di protezione per i senza lavoro, nella campagna comu33 ROCCA 1 MAGGIO 2006 ENERGIA presso cui ci approvvigioniamo. Per cui ben vengano anche i degassificatori, che consentono di rifornirci di gas non solo dai paesi vicini e comunque con cui siamo collegati mediante metanodotti. Ma l’altra grande opzione, già nel breve periodo, è il risparmio energetico. Con l’uso sistematico di tecnologie esistenti – dicono per esempio i movimenti ambientalisti – potremmo evitare una quota notevole (fino al 20%) dei nostri consumi energetici. C’è, infine, il ricorso alle energie rinnovabili: geotermico, eolico e solare, nelle sue diverse opzioni. Ma queste fonti possono avere un notevole sviluppo, cosicché oltre che nel breve ci proiettano già nel medio periodo. In ciascuno di questi settori l’Italia può ambire a diventare uno dei paesi leader al mondo. Molto c’è ancora da fare in ricerca, ma moltissimo si può già fare con l’uso di tecnologie esistenti. Non è del tutto infondato immaginare – come deciso in sede politica europea – che il 15 o 20% del nostro fabbisogno di energia possa essere soddisfatto da queste fonti nel giro di uno o due lustri. Se, però, ci proiettiamo nel medio e lungo periodo conviene puntare anche sui biocombustibili. Ovvero usare come fonte energetica olio o alcol prodotto mediante la messa a coltura di alcune piante. Con il prezzo del petrolio a 60 dollari a barile, l’etanolo diventa competitivo, non solo se prodotto come in Brasile da canna da zucchero, ma anche se prodotto da mais e fibre di cellulosa. Al prezzo di 60 dollari al barile potrebbe diventare competitivo anche il biodisel: prodotto da soia, da colza e da degassificazione delle biomasse. L’uso dei campi per produrre combustibili avrebbe un ulteriore triplo vantaggio: fornire nuova occupazione e, comunque, nuove opzioni di mercato in agricoltura; sottrarre una parte delle coltivazioni italiane al sistema protezionistico dell’agricoltura europea che tante risorse drena nell’Unione e tanta ingiustizia crea nel mondo; utilizzare una fonte di energia che non inquina: il carbonio liberato in atmosfera dai biocombustibili verrebbe, infatti, assorbito dalle piante coltivate. 34 liquidità e settore crescenti di piccoli risparmiatori che hanno visto i loro depositi bruciati in una serie di «bond» con molta superficialità consigliati da numerose banche, sull’indebitamento col ricorso al prestito ad usura, su diverse Caritas diocesane obbligate a pagare le bollette a pensionati che non arrivano a fine mese, sui libretti di risparmio svuotati perché non si riesce a risparmiare, in questi mesi si è scritto e polemizzato in abbondanza. Tutti questi filoni si stanno intrecciando con il consolidarsi dell’immigrazione strutturale extracomunitaria nel nostro paese. Secondo alcune proiezioni stastistiche di Giancarlo Biangiardi, docente all’università Bicocca di Milano (cfr. Il Sole 24 Ore di lunedi 3/ aprile/2006), nel 2020 in Italia ogni 3 nati 1 sarà di origine straniera, con un salto nelle domande di richiesta di cittadinanza italiana «dalle poche centinaia di quest’anno a quasi 10.000 tra sei anni a più di 30.000 nel 2020». Questo mutamento profondo coesiste con le scene da romanzo delle file dei clandestini/e di fronte agli uffici postali per ottenere un permesso di soggiorno lavorativo e col mutamento ormai consolidato nelle carceri italiane in gran parte sovraffollate da molti detenuti non italiani tra europei e non europei. le possibili risposte Il convegno qui analizzato ha lasciato una sensazione a tratti di sgomento osservando il divario tra i problemi individuati e le possibili risposte da attuare, anche perché il quadro dell’Unione Europea attuale non è tra i più incoraggianti. Le riduzioni di bilancio hanno decurtato la possibilità per un certo numero di studenti universitari di compiere esperienze di studio-lavoro al di fuori della propria nazione tramite il circuito «Erasmus». L’applicazione della direttiva Bolkestein per la fornitura di servizi e prestazioni, sia pure in versione alleggerita, rimane nella pratica molto impegnativa. Essa nella versione originaria prevedeva che un’impresa potesse fornire una serie di servizi per tutta l’area dell’Ue applicando la tariffa più bassa praticata nella nazione dove essa aveva stabilito la sua base operativa di partenza, il che avrebbe significato per un lavoratore italiano essere esposto alla concorrenza di un operaio a tariffa più bassa legato a un gruppo industriale che si diramava dalla repubblica Ceka. Indubbiamente se la liberalizzazione ha i suoi vantaggi offrendo tariffe meno care, tuttavia, presenta contraccolpi sul piano sociale molto problematici perché getta, di fatto, le basi per una sorta di guerra di tutti contro tutti simboleggiata dall’idraulico polacco (che si accontenta di tariffe più basse rispetto all’artigiano francese), respinto a grande maggioranza nel referendum in Francia che doveva confermare l’adesione di quella nazione all’Unione Europea. Nel corso del convegno di Roma il direttore della Erbert Foundation, Michael Brown, ha rilanciato una modalità operativa escogitata dal francese Guy Monnet, uno dei padri dell’unificazione europea, che nella prima parte degli anni Cinquanta mentre l’ideale europeista ristagnava aveva promosso una rete di nuclei o commando culturali per radicare quella prospettiva in città e in villaggi delusi e ancora ostili per le ferite allora recenti della seconda guerra mondiale da poco terminata. Sarà un caso, ma una strategia analoga è stata invocata dal presidente Carlo Azeglio Ciampi in Germania in occasione della sua ultima visita di stato quasi al termine del suo settennato come presidente della Repubblica Italiana. L’aspetto problematico di questo convegno è emerso sul piano delle proposte concrete per uscire in avanti rispetto a un quadro sociale e politico molto pesante. Alcuni esempi su questa linea. Salvatore Artzeni, direttore della sezione piccola e media industria e sviluppo locale dell’Oecd (un’articolazione dell’Unione Europea) con sede a Parigi, ha spezzato una lancia in favore del piano di edilizia popolare portato avanti dal governo laburista di Tony Blair. Esso ha fatto leva sui prezzi relativamente bassi di queste nuove abitazioni costruite in aree industriali dismesse. La riflessione di Henng Meyer della Metropolitan University di Londra ha fornito ulteriori dettagli su tale tema non sottacendo che tale scelta del governo Blair è stata resa possibile dalla terziarizzazione crescente dell’economia. Il fatto è che tale terziarizzazione applicata all’Italia mette in evidenza i lati molto deboli del nostro sistema. Su tale punto la «Fondazione Giulio Pastore» ha presentato due comunicazioni convergenti su questo punto. Il lavoro del futuro in Europa appare sempre più fondato su un mixer tra servizi integrati con il comparto finanziario e della logistica come i trasporti e la grande distribuzione (che creano nuovi posti di lavoro) e servizi «relazionali» ovvero di sostegno alla famiglia che riescono a stare in piedi perché basati sui bassi salari erogati a coloro che li mandano avanti. Una via di uscita suggerita dalle due comunicazioni della fondazione sopra citata è quella di aprire maggiormente alle organizzazioni «no profit» anche di matrice industriale che entrerebbero in partenariato nella gestione di alcuni servizi essenziali che lo stato da solo non puo’ più garantire. Ulteriore tassello. L’Unione Nazionale per la lotta all’Analfabetismo (Unla) che ha meriti storici per contrastare questa piaga in parti- colare nel meridione d’Italia ha prospettato una diffusione capillare della cultura informatica di base che può agire da stimolo e da rinforzo alla fruizione dell’enorme patrimonio paesaggistico e naturale e in termini di beni culturali di quella parte del paese. Scenario valido e stimolante che presuppone, però, un’efficace intervento dello stato per contrastare l’espansione di un’economia criminale particolarmente prospera in Calabria. Senza dimenticare la realizzazione di una rete viaria all’altezza della situazione e che eviti le ore di ingorgo da affrontare lungo l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, prima di poter arrivare a tratti di mare che – nonostante recenti processi di degrado ambientale – restano tra i più belli e i più ricercati di tutta l’Europa. flessibilità sostenibile Anche sul terreno del come andare oltre la cosidetta legge Biagi per l’occupazione a tempo, il convegno Eurispes-Herbet Foundation non ha fornito spunti convicenti per affrontare un tema cruciale: come passare dalla precarietà alla flessibilità sostenibile? Esso è stato al centro della campagna elettorale con le diverse posizioni tra la strategia de «L’Unione» guidata da Romano Prodi e quella della Confindustria che si è espressa per ritocchi solo parziali di questa legge. Mentre dalle colonne del quotidiano «Europa» Savino Pezzotta, segretario nazionale uscente della Cisl e il suo successore Raffaele Bonanni, pressoché isolati, hanno messo in guardia sul fatto che il contrasto assai duro in Francia tra il governo e una parte degli studenti e il movimento sindacale sulla legge circa «il primo impiego» non va snobbato. Secondo le loro valutazioni esso è il campanello d’allarme di un disagio che prima o poi può manifestarsi anche in Italia, con conseguenze non facilmente calcolabili. In conclusione va segnalato e suona come una sorta di richiamo al fatto che modelli esportabili da un contesto nazionale a un altro non esistono, se si vuole realizzare un’autentica coesione sociale, tanto che anche in Danimarca le cose stanno per cambiare. Il governo ha varato misure per innalzare il tetto dell’età pensionabile e per restringere i criteri di accesso alla rete dei sussidi e degli ammortizzatori sociali che erano stati fino a qualche tempo fa «il segreto» di un sistema sociale capace di aiutare a cambiare condizione sociale (passare da occupato a disoccupato) senza contraccolpi troppo alti, in un’epoca nella quale sotto la spinta della globalizzazione la concorrenza si fa più serrata. ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 EUROPA SOCIALE nicativa de «La Rosa nel pugno». In Danimarca il lavoratore è scarsamente protetto dal licenziamento, ma, in caso di perdita del lavoro, può usufruire di un sussidio di disoccupazione che gli garantisce i tre quarti del salario anche dopo tre anni. La Danimarca spende per la rete di protezione sociale il 30% del prodotto interno lordo, con il 9,2% destinato ai disoccupati. In Italia la spesa per la rete sociale tocca il 26,1% del prodotto interno lordo mentre ai disoccupati è destinato l’1,7% e in presenza di un deficit pubblico italiano estremamente alto, a differenza di altri paesi dell’Unione Europea. (Secondo una stima di Luca Ricolfi ne «La Stampa» di lunedì 3 aprile 2006 ciò implicherà nel 2007 una manovra correttiva di circa 30 miliardi di euro ovvero una cifra – con un arrotondamento di 1 Euro = 2000 lire anziché 1936 – a 12 zeri sulla base delle vecchie lire: 60.000.000.000.000. Ne occorreranno, infatti, tante per restare dentro i parametri fissati dall’Unione Europea di un deficit nazionale contenuto al 3% del prodotto interno lordo). Con quali conseguenze sul livello attuale delle tasse e sul ridimensionamento dei servizi sociali anche essenziali, è facile intuire. Tali scenari incombono mentre la scheda Eurispes ha ricordato che rispetto alla domanda di nidi pubblici in Italia il 32,7% delle richieste restano senza ascolto, il che è anche un freno a tassi di occupazione lavorativa più alti tra le donne. Altro aspetto problematico: la crescita dell’edilizia sociale con sussidi governativi. In Italia vi viene destinato lo 0,007% del prodotto interno lordo, a un livello inferiore si trovano solo Spagna e Portogallo. Senza dimenticare, per restare in Italia, che i quartieri e gli insediamenti di edilizia popolare, se non correlati con un minimo di rete di servizi e di strutture tipo collegamenti informatici rischiano di trasformarsi in una sorta di incubatrici del disagio sociale con comportamenti violenti e con l’irrobustimento di un’economia criminogena. Alcuni mesi orsono il sociologo Marzio Barbagli ha pubblicato con Il Mulino una serie di rilevazioni urbane (riconosciute fondate persino dal ministro agli Interni on. Giuseppe Pisanu) che hanno lasciato intravvedere l’esplodere, nel giro di alcuni anni (se non si interviene con tempestività), di rivolte come quelle che hanno segnato e scosso diverse banlieu di Parigi; un fenomeno al quale, di recente, ha dedicato persino un suo editoriale il quindicinale «La Civiltà Cattolica», espressione di un collegio scelto di gesuiti e i cui testi sono visionati in via preventiva da un officiale della segreteria di stato vaticana. Sulla forbice che si è allargata tra gruppi ristretti di investitori con enormi quantità di Maurizio Di Giacomo 35 ETICA POLITICA ECONOMIA ROCCA 1 MAGGIO 2006 Giannino Piana 36 l rapporto tra economia ed etica non è mai stato pacifico. Le maggiori difficoltà sono originate dal fatto che le due discipline fanno riferimento a due forme di ragione non immediatamente conciliabili. Da una parte vi è infatti la razionalità economica, il cui criterio informatore è l’efficienza nella produzione dei beni; dall’altra, la razionalità etica, che si ispira al paradigma della solidarietà, per il quale ciò che conta è l’equa distribuzione dei beni prodotti, con particolare attenzione alle fasce più deboli della popolazione. La ricerca di un terreno comune di confronto è, tuttavia, oggi ineludibile. I mutamenti intervenuti, in questi ultimi decenni, nel campo dell’economia, grazie soprattutto agli sviluppi dell’innovazione tecnologica, fanno affiorare interrogativi inquietanti, ai quali non è possibile dare risposte adeguate sul terreno puramente tecnico. Le leggi tradizionali dell’economia sembrano, d’altronde, incapaci da sole di controllare processi che coinvolgono variabili umane e ambientali e che hanno a che fare con la stessa funzionalità del sistema produttivo. L’esigenza che emerge è dunque quella di dare vita a un nuovo modello di rapporti tra economia ed etica; un modello che, sia pure nel rispetto dell’autonomia delle rispettive sfere di competenza e di azione, crei le condizioni per un loro fecondo interscambio. Un modello che, in altri termini, lungi dall’opporre le due razionalità come radicalmente alternative, tenda piuttosto a farle entrare in interazione tra loro, rintracciando un punto di convergenza – un vero e proprio «zoccolo duro» – costituito dal comune interesse per il bene I umano. dalla dipendenza all’opposizione La storia del pensiero economico occidentale non è, al riguardo, di grande utilità. L’epoca moderna è stata infatti contrassegnata dallo sforzo di una graduale (e giustificata) emancipazione dell’economia dall’etica, la quale era, a sua volta, dipendente da un orizzonte «sacrale» di interpretazione della realtà. L’acquisizione del carattere di «scienza», dotata di fini propri e di un proprio statuto epistemologico, fa dell’economia una disciplina autonoma, caratterizzata da specifiche leggi che vanno conosciute e rispettate. Questo processo, in realtà, già antecedentemente iniziato – dal Quattrocento in poi non mancano importanti studi che tendono a leggere i fenomeni economici a partire da se stessi –, ha trovato piena espressione alla fine del Settecento, a seguito soprattutto della rivoluzione industriale. Ad essere contestata è, in un primo tempo, l’etica fissista, di stampo «naturalistico», che, imponendo all’economia regole assolute, le impedisce di perseguire i propri obiettivi. Ciò che, tuttavia, successivamente avviene è la negazione di ogni riferimento all’etica, quale realtà estranea e persino disturbante. Acquisendo il carattere di «scienza naturale» ed esatta guidata da leggi matematico-fisiche – è questa la concezione propria dei fisiocrati – la scienza economica non si limita a rivendicare la propria indipendenza dall’etica ma tende a rifiutare radicalmente ogni rapporto con essa, fino ad assumere un atteggiamento di aperta contrapposizione. Razionalità economica e razionalità etica, am- bedue declinate in termini «naturalistici», si presentano pertanto come mondi chiusi e impenetrabili, come forme di ragione incompatibili. L’etica tenta, invano, di affermare la sua supremazia sull’economia, asservendola alle proprie regole immutabili; l’economia, a sua volta, rifiuta a priori ogni riferimento all’etica, considerandola come una indebita (e nociva) invasione di campo. il modello della correlazione A provocare il superamento di questa situazione di stallo è stato, in questi ultimi decenni, un insieme di fenomeni che si sono sviluppati, in modo concomitante, su ambedue i fronti e che hanno reso trasparente l’insufficienza del modello in passa- to dominante. Sul fronte dell’economia (e della razionalità economica) ad entrare in crisi è stata, anzitutto, la legge della massimizzazione della produttività e del profitto, in conseguenza di una serie di fenomeni, che meritano di essere, sia pure rapidamente, richiamati. La crisi ecologica ha sollevato la questione del limite delle risorse e della difficoltà di far fronte a forme di inquinamento sempre più allarmanti; l’accentuarsi degli squilibri tra Nord e Sud del mondo, oltre a denunciare il fallimento della famosa teoria della «mano invisibile» di Adam Smith (la mano che distribuisce equamente quanto viene prodotto), ha alimentato la conflittualità, rendendo sempre più precaria la situazione internazionale; l’incremento, anche in Occidente, di sacche consistenti di vecchie e nuove povertà e la crescita (a livelli patologici) della disoccupazione ha provocato l’inasprirsi dell’insicurezza con riflessi immediati (e profondi) sulla conduzione della intera vita associata. Questa situazione non si ripercuote negativamente soltanto sul versante etico, ma anche su quello economico. Mentre diviene infatti evidente, da un lato, la non plausibilità della tesi di uno sviluppo lineare, come quello ipotizzato dalla teoria economica classica (dietro la quale si nascondeva l’ideologia del progresso indefinito di matrice illuminista), si rende necessaria, dall’altro, la predisposizione di strumenti per arginare una situazione di instabilità sociale, che impedisce la creazione di condizioni favorevoli allo sviluppo della produzione e determina l’inevitabile riduzione delle possibilità di consumo. La domanda etica ricupera dunque legittimità e consistenza per ragioni di ordine 37 ROCCA 1 MAGGIO 2006 il dialogo tra economia e etica efficienza e solidarietà ROCCA 1 MAGGIO 2006 Il dialogo tra economia ed etica è reso, in definitiva, possibile dal riconoscimento che l’economia è, a tutti gli effetti, una scienza umana, la quale esige come tale di porsi al servizio del bene integrale dell’uomo, e che l’etica non è, dal canto suo, identificabile con un insieme di precetti imposti dall’alto, ma è impegno a tradurre gli orizzonti valoriali in indicazioni di comportamento, che traggono la loro significatività dalla capacità di interpretare adeguatamente le esigenze delle varie situazioni esistenziali. Le istanze etiche, che vanno poste alla base dell’economia, sono riconducibili al valore della solidarietà, la quale ha assunto, a seguito del fenomeno della globalizzazione, una dimensione sempre più universalistica e che costituisce il criterio ultimo (e decisivo) della valutazione di ogni processo economico. Ma la solidarietà non può prescindere dall’efficienza, che è il valore proprio dell’economia. Non si dà infatti possibilità di corretta distribuzione dei beni se questi non vengono anzitutto prodotti; se non si rispettano cioè le leggi dell’economia, prima fra tutte quella riguardante la crescita produttiva. D’altra parte non si può dimenticare – per le ragioni ricordate – che l’efficienza non va misurata in termini meramente quantitativi ma che 38 esige attenzione anche agli aspetti qualitativi; che non è sufficiente, in altre parole, considerare i livelli di produttività raggiunti, ma è anche necessario fare i conti con il tipo di sviluppo che si intende realizzare e che presuppone, per essere corretto, il rispetto delle risorse umane e ambientali. Solidarietà ed efficienza pertanto, lungi dal dover essere considerate come grandezze antitetiche, sono valori che si richiamano reciprocamente: la vera solidarietà non può infatti fare a meno, per essere concretamente praticata, di un serio confronto con l’efficienza; mentre, a sua volta, l’efficienza deve necessariamente rinviare alla solidarietà per potersi definire in termini adeguati. distribuzione e produzione La logica di solidarietà, all’interno della quale l’economia è chiamata a svilupparsi, impone come esigenza immediata l’equa ripartizione dei beni, l’esercizio cioè di una corretta giustizia distributiva, che consenta a tutti l’accesso ad essi, e perciò la soddisfazione dei bisogni. Ciò era particolarmente vero in una società – come quella della prima industrializzazione – nella quale si trattava di dare risposta ad esigenze fondamentali per la sopravvivenza. Nella situazione attuale (ci riferiamo al mondo occidentale), l’istanza distributiva, per quanto irrinunciabile, non è più da sola sufficiente. La centralità assunta dal consumo – la nostra società è detta giustamente «società dei consumi» – alimenta il ricorso, sempre più frequente, all’induzione dei bisogni, con il pericolo di generare, da un lato, forme crescenti di alienazione – i bisogni indotti sono spesso falsi e talora persino dannosi – e di accentuare, dall’altro, il gap tra ricchi e poveri, tra aree sviluppate e aree sottosviluppate del mondo. Un ruolo di prima importanza, nel quadro della riflessione etica sull’economia, va dunque oggi assegnato alla questione della produzione, del che cosa si produce e del per chi lo si produce. È come dire che diventa essenziale l’elaborazione di un’etica che sappia fare accuratamente discernimento dei bisogni, promuovendo quelli che rispondono ad esigenze vere e respingendo quelli indirizzati a soddisfare esigenze del tutto superflue, e che sappia, nello stesso tempo, individuare criteri valutativi che tengano in seria considerazione i diritti fondamentali di tutti gli uomini. Giannino Piana SBARRE E DINTORNI per tutti i bambini innocenti Vincenzo Andraous R ileggendo il libro di uno dei miei autori preferiti, tra le sue parole tutte a dritta, ho avvistato una poesia a me dedicata. Ho ripercorso quel sentiero con gli occhi del poeta, ne ho urtato le insidie, ne ho carpito i segreti, snervati dalla mia ottusa presunzione. «Solo andata» ha intitolato l’amico Erri, solo andata per gli inferociti dai capelli imbiancati, mai addomesticati, né più attuali, perché estinti dalle colpe dico io. In quelle righe, fotogrammi impolverati dai secoli trapassati, nei vicoli ciechi scelti e nelle solitudini cadute giù a grappolo, come i vincoli, quelli bastardi destinati al macero. Riconoscere i suoni della strada, nei rumori degli sguardi, lo sferragliare dei pugni e degli spari, righe sgangherate di ogni storia di allora, segni diritti senza inverso, privi di rese d’accatto. Rileggere quelle parole, e sentire nel profondo il rigetto per il rapimento del piccolo Tommaso, strappato di brutto al cuore, per essere ghermito come una clava. Di fronte a accadimenti così denudati di ogni dignità, ci si ritrova con le spalle al muro, senza alcuna giustificazione plausibile, neppure quella dell’indifferenza, o dell’omertà scambiata per solidarietà, non c’è più neanche sipario da calare per evitare l’oppressione dell’offesa. Non c’è più sceneggiatura né romanzo scaltro che contenga lo scempio per azioni così morte di fierezza, non c’è rapinatore né assassino da fiera da esibire per tentare di allontanare le miserie inconfessabili che possono indurre qualcuno a fare male a un bambino. Chi ha un’alta considerazione di se stesso, è poco influenzato dai giudizi altrui, ma nelle righe di quel libro, c’è intero il sussulto e il diniego per questo strappo alla ragione, per quel bimbo trascinato via, che non ha scelto di seguire i cattivi, è stato costretto a farlo, senza neppure essere consapevole della vita a un palmo dal baratro. Rileggo ancora i versi, e mi accorgo che in Tommaso c’è l’urlo e la preghiera per un rilascio che non consente dilazioni. Proprio in Tommaso, anche se non ritorna alla sua casa, c’è un nuovo futuro ove migliorarsi e tentare di cambiare ciò che è estremamente sbagliato, perché contronatura, persino per gli inferociti di un tempo, e certamente Tommaso potrebbe senz’altro dire: mi avete fatto inferocire, ma io sono rimasto un uomo. 39 ROCCA 1 MAGGIO 2006 ETICA POLITICA ECONOMIA strettamente economico. È chiaro infatti che produttività e profitto non possono essere perseguiti senza attenzione alla disponibilità reale delle risorse e senza un’adeguata considerazione degli equilibri ecologici – il disinquinamento (laddove è ancora possibile) ha costi anche economici, che vanno messi in bilancio –, mentre altrettanto chiara è la necessità di un tessuto sociale ben compaginato quale base per un positivo sviluppo dell’economia. Ma – è bene ricordarlo – l’etica cui l’economia deve potersi riferire, deve essere un’etica duttile, che non si accontenta di formule generiche, ma che si misura concretamente con la realtà economica, prendendone sul serio le dinamiche ed entrando con essa in un dialogo costruttivo. In altre parole, si esige sul fronte dell’etica – ed è quanto è avvenuto negli ultimi decenni – il ricupero della dimensione storica come condizione per sottrarsi a una forma di radicale assolutismo e creare le condizioni per un confronto diretto con la realtà nel suo costante divenire; confronto che consenta l’elaborazione di norme di comportamento efficaci. COSE DA GRANDI aaa.appoggio cercasi C le stelle e le stalle ROCCA 1 MAGGIO 2006 Molto rasserenante questo racconto, dal punto di vista del bambino, e poi dell’uomo e del vecchio. Avere di sicuro qualcosa o qualcuno che sta là a disposizione per soddisfare ogni mio bisogno. Il mondo esiste per la mia gratificazione, io ne sono il re, e posso fare del mondo quel che voglio. Le persone che mi hanno messo al mondo, e poi l’uomo o la donna che incontrerò, sono là per nutrirmi, proteggermi e prendersi cura di me. Esattamente al contrario di quello che affermava Jean Paul (Sartre), gli altri sono il mio paradiso, nel senso che sono vincolati all’obbligo preciso di rendermi felice. Non solo i genitori, ma il fidanzato o la fidanzata, i datori di lavoro e i colleghi, gli amici e i vicini di casa, il mondo intero mi deve un tributo di felicità. 40 Non posso pensare che questo paradiso debba finire, che io ne debba uscire, una volta per tutte, andando a cercare con la mia personale fatica la gioia, l’amore, la sicurezza. E quando mi succede di sentirmi buttato fuori da questo quadretto da mulino bianco, allora mi sento abbandonato/a, tradito/a, vittima della sfortuna. Giovanna aveva (già) venticinque anni quando le cadde addosso La Crisi. Con la maiuscola, perché così lei si esprimeva, accentuando in un suo modo particolare, mentre la pronunciava, la prima lettera di ciascuna delle due parole: La Crisi. Il suo problema di fondo si celava sotto le spoglie di un dilemma, pronunciato ancora una volta con le maiuscole: Ho Fatto Bene o Male a Lasciare Il Mio Fidanzato di Nove Anni? A parte l’uso linguistico di datare i fidanzati con gli anni come si fa con i vini, con la differenza che, non invecchiando in barrique, non si sa mai se reggono bene al tempo, Giovanna stava davvero vivendo il suo problema sotto forma di interrogativo sulla opportunità della scelta fatta. Ed ha avuto bisogno di continuare a porre la questione in questo modo per un po’ di tempo, all’inizio, perché non poteva neppure pensare che non ci fosse da qualche parte La Risposta Giusta. Per settimane si è dedicata a contabilizzare gli utili e le perdite di questa sua storica relazione, nel tentativo di trovare un saldo certo ed univoco che, nelle sue speranze, avrebbe dovuto cancellare tutti i suoi dubbi. Perché il Fidanzato (anche lui con la sua debita maiuscola) era stato molto rassicurante per lei, molto generoso, molto presente in tutti i momenti della sua vita, dall’acquisto del computer fino alla scelta della facoltà universitaria, dalla consulenza sulla migliore assicurazione per la macchina fino al controllo sulla dieta anticellulite. Forse proprio per questo l’attrazione tra i due si era presto spenta. Lui aveva avuto un altro amore, lei non lo aveva potuto sopportare, e allora su due piedi lo aveva piantato e aveva iniziato un’altra storia, per poi pentirsi l’indomani mattina e precipitare Nella Crisi. la rabbia e la paura Ma i calcoli nelle cose dell’anima servono a ben poco, e finalmente Giovanna era arrivata a comprendere che dentro La Crisi c’era dell’altro. Per esempio c’era la sua rabbia, la sua profonda terribile rabbia per essere stata privata di qualcosa che lei considerava assolutamente vitale. E il suo profondo, angoscioso disorientamento per percepirsi, esattamente come dicono i filosofi, «sola davanti al mondo», incapace di fare qualcosa di buono per se stessa. E bloccata nel circolo vizioso del ripetere un’altra esperienza di coppia compensativa. Inchiodata alla sua confusione, al suo annaspare disperato nell’inaccettabile insicurezza che le era spuntata dentro, che non la faceva più dormire, non la rendeva più efficace nello studio, non le faceva più desiderare di vivere. Tutto ad un tratto l’orizzonte si era oscurato, le era piombata addosso la sfortuna. Così lei si raccontava la sua vicenda, del tutto incapace, ancora, di collocarsi come soggetto dentro la sua vita, di cogliere un attimo di consapevolezza, un po’ di responsabilità personale negli snodi della sua storia. Il suo Fidanzato si era comportato per nove anni come l’albero della fiaba, ma un bel giorno, semplicemente, aveva smesso di accudirla in esclusiva. È qui che Giovanna si è sentita ingannata, delusa, è qui che il suo bel quadretto di finta felicità si è spezzato, e forse per la prima volta nella sua vita si è trovata a sperimentare la perdita, l’imperfezione, la impossibilità di affidarsi ciecamente e completamente. Il mondo non era più come avrebbe dovu- to essere, c’era nel puzzle qualche tassello sbagliato da rimettere a posto, bisognava alla svelta ripristinare la copertura di sicurezza. Ma i conti non tornavano più. Le illusioni, una volta crollate, sono come i cristalli rotti, non tornano mai più interi e splendenti. Ed ecco la caduta, tanto più a precipizio quanto più l’illusione era stata mantenuta a lungo e strenuamente preservata dal contatto con la realtà. Il mondo era improvvisamente diventato ostile, e lei improvvisamente molto fragile. Tanto incerta da aver bisogno di una contabilità delle emozioni per darsi pace. il prima e il dopo In questi frangenti le persone, quando sperimentano la caduta possono essere molto vulnerabili, possono cercare di coprire la paura e il vuoto con ogni sorta di dipendenze, di cui quella affettiva è una delle versioni più raffinate. Come Potrei Sopravvivere Senza? – era questa la disarmante conclusione di Giovanna quando rifletteva sulla scarsa significatività della sua nuova relazione. La paura e il vuoto, come sentimenti di fondo, ma la paura è paura di sentirsi impotente, proprio laddove prima mi sentivo onnipotente, e il vuoto è quello lasciato dall’abbandono, laddove prima, magari la relazione non era un gran che, ma almeno mi sentivo al sicuro. Ecco un’altra dimensione nella quale spesso le persone in questi frangenti si intrappolano: è la mitologia del Prima, di questo Eden perduto che cerco in tutti i modi di ritrovare, ricostruire, rattoppare almeno, se proprio non lo ritrovo. E poi c’è la rabbia, contro tutti e tutto, e alla fine anche contro se stessi, per esserci lasciati sfuggire di mano la felicità del Prima. È faticoso attraversare questa palude emo- ROCCA 1 MAGGIO 2006 Rosella De Leonibus ’è una fiaba che narra di un bambino che giocava tra i rami di un albero e si nutriva con i suoi frutti. Non gli mancava nulla, tutto ciò di cui aveva bisogno era là, alla portata delle sue mani. Una volta cresciuto, il ragazzo sente il desiderio di farsi una casa, e l’albero, generoso e soccorrevole, gli dà i suoi rami per costruirsi un riparo. Poi il ragazzo diventa un uomo, e gli viene voglia di partire per mare, e stavolta l’albero gli mette a disposizione il suo tronco, per farne una barca solida e sicura. Dopo molti e molti anni l’uomo, ormai vecchio e stanco di vagare per i mari del mondo, torna a trovare l’albero, che ormai è ridotto solo ad un misero ceppo e non ha più nulla da dare all’amico di un tempo. Ma il vecchio desidera solo riposare, e si siede sul ceppo del tronco che tanti anni prima aveva tagliato, e là si ferma. Ancora una volta l’albero gli aveva dato qualcosa di prezioso e vitale. 41 l’aiuto e l’inganno Vedrai che non muori! – Sopravviverai! – 42 Va’, prova e vedrai che domani sarai ancora viva per raccontarmelo! – a volte queste sono le parole con cui si ricomincia a nutrire la speranza delle Persone Cadute. Dalla base, dal prendere sul serio la tremenda paura di morire che attanaglia le persone che si trovano in questo passaggio. Dal sostenere con fermezza ogni piccolo passaggio di autonomia, anche quelli apparentemente più insignificanti, celebrandoli, festeggiandoli. E, ripercorrendo con attenzione tutte le tappe e tutte le emozioni che si sono avvicendate nel frattempo, aiutare le Persone Cadute a dare solidità e rendere ripetibile questa piccola esperienza di autonomia. Il passaggio più difficile è l’ultimo: non cedere alla lusinga di diventare il sostegno indispensabile di una persona che sta diventando per merito nostro finalmente un po’ più autonoma. Ci sono blandizie e seduzioni sottili su questa linea: tra il grazie sincero della persona che sta finalmente crescendo e la richiesta di consigli e rassicurazioni non più necessari, c’è un confine sfumato. A volte è molto gratificante restare ancora un po’ ad aiutare chi ci è così riconoscente, rallentare un pochino la sua strada, sgombrargli ancora un po’ il cammino, e magari convincersi che sì, c’è veramente ancora bisogno di noi, che l’altro/a è ancora fragile, che davvero senza di noi non ce la può ancora fare… Tra chi aiuta e chi si fa aiutare ci sono legami molto speciali, non sempre ovvi, quasi mai del tutto limpidi. Forse come quando si gioca a guardie e ladri, nel gioco delle parti tra chi tende la mano e chi se la lascia afferrare c’è una complicità tutta da illuminare, e un sottile gioco di interscambi tutto da verificare, e per favore con molta lucidità. Se guardiamo la fiaba iniziale dal punto di vista dell’albero scopriamo qualcosa di sorprendente: il vecchio torna all’albero, da lui dipende, ma anche l’albero trova il senso del suo esistere esattamente in questa dipendenza, dal lato di chi certamente fa più bella figura, perché si mostra – è – assai generoso, fino al limite dell’annullamento di sé. È proprio questo annullarsi e farsi fare a pezzi fino a diventare poltrona e rifugio per l’altro che ci Deve Insospettire (stavolta usiamo la maiuscola come Giovanna) quando dovessimo guardare bene noi stessi e trovare troppi episodi di questo tipo. LEZIONE SPEZZATA una carriera... spezzata Stefano Cazzato S to per addormentarmi quando, con un colpo secco sotto le costole, il collega Vivanti mi riporta allo stato cosciente. «La preside ti guarda» mi suggerisce terrorizzato e zelante. «Vivanti, sei tu che hai l’anno di prova, non io, lasciami perdere, non vedi che questo collegio è di una noia mortale, che ipocrita che sei a fingere attenzione mentre tutti si fanno i cavoli propri». La preside, alias professoressa Bottacchini, ex classe di concorso 37, storia e filosofia nei licei, ha iniziato da mezz’ora la sua ennesima predica sulla culla del sapere e la civiltà delle lettere. Nonostante Vivanti, provo a riprendere sonno, a isolarmi, dietro a una pagina del Corriere della sera, da questo collegio-docenti incapace, come tutti i collegi che ho visto nella mia vita, di occuparsi dei problemi reali della scuola; ma ormai l’attimo propizio è fuggito e la voce stridula della Bottacchini rimbomba, al pieno della sua foga tribunizia, nella sala austera del «Gilberto Contacchi». Dietro la Bottacchini un busto marmoreo ricorda il preside Crodelli che «resse la scuola nei difficili anni della guerra». A destra altre targhe commemorative, una ha a che fare pure col Risorgimento. A sinistra, accatastati alla rinfusa per essere portati via, ci sono degli alambicchi, un corpo umano di plastica fatto a pezzi e non ricomposto, la milza di qua e il cuore di là, ampolline di varie dimensioni, un Brionvega in bianco e nero, dei pacchi di compiti vecchi di lustri, un circuito elettrico, delle coppe arrugginite dei Giochi della gioventù degli anni ’80, una carta geografica europea preperestroika e una tenia sotto alcol che fa bella mostra di sé davanti alla permanente della collega Seccardi. Questi cimeli (compresa la permanente della Seccardi) sostano qui da alcuni giorni dopo aver girovagato per anni dal primo al sesto piano, dal laboratorio di fisica alla stanza dei bidelli, passato due inverni nella II A e qualche mese in V C. Stonano con la realtà di fuori, ma non con questo mondo antidiluviano, tutto autoreferenziale e chiuso in se stesso. Un mondo in cui persino l’inno della Bottacchini a una nuova paidèia umanistica ha il suo senso. «La scuola mi ha preso l’anima, e forse mi ha troncato la carriera letteraria» mi ha rivelato l’anno scorso mentre le chiedevo l’autorizzazione per l’attività pubblicistica. «Tra noi letterati ci si capisce, vero professore?». «Bah, letterato è un po’ troppo, preside, diciamo un divulgatore, un osservatore…, un giornalista part-time, insomma mi piace scrivere ma, mi creda, niente a che vedere con la poesia... figuriamoci! «Dedichi più tempo alla poesia professore, solo l’arte può restaurare i valori di un tempo, non faccia come me che le ho dedicato solo le briciole». Chiama briciole dodici volumi di liriche nelle quali invece di trovare un linguaggio tutto suo ha pensato bene di replicare quello di altri. La Bottacchini è stata stilnovista, ermetica, crepuscolare, futurista marinettiana, esistenzialista, realista magica, strutturalista, oggi è metafisica. Nel suo ultimo volume, intitolato «Primavere» la quarta di copertina dice che «l’autrice si confronta con il mondo contemporaneo con la consapevolezza, però, di abitare altri mondi, di frequentare altri luoghi. È un altrove dell’essere, dunque, quello che la poesia metafisica della Bottacchini cerca felicemente di evocare». Sarà... ma l’unico mondo nel quale io la vedo è quello fisico della scuola. È qui che pensa alle sue liriche. Tra un consiglio di classe e un altro. Tra un ricevimento di genitori e una riunione di presidi. Dopo aver letto un verbale. Mentre sta studiando la normativa sugli esami di stato. Quando tratta con la Rsu. Appena suonata la campanella. Una volta predisposte le sostituzioni degli assenti. Se riceve una delegazione di studenti e di famiglie. Ora che firma ingressi e uscite anticipate. Quando striglia il personale ausiliario. Tutte le volte che analizza con desiderio la sua busta-paga di dirigente. «La poesia è dappertutto» dice lei. Poi, tornata a casa, prima di addormentarsi, sente i pensieri poetici della giornata che urgono, li mette nero su bianco e scrive di primavere e di autunni delle nostre vite, delle rose che non colse, in attesa di rivestire il giorno dopo l’abito della preside-manager nella scuola dell’autonomia e delle tre i. Rosella De Leonibus 43 ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 COSE DA GRANDI zionale. Ci si perde dentro molto facilmente. La strada è piena di incontri difficili. Uscire dalla beata innocenza, uscire dalla ingenua posizione di dipendenza, anche uscire dalla paradossale tirannia che da questa posizione si esercita sugli altri. E poi c’è da imparare a guardare in faccia la sofferenza della perdita, senza scappare subito a cercare compensazioni. E accogliere la mancanza, il dolore, come fatti della vita, e rinunciare a cercare per l’ennesima volta qualcuno cui delegare la felicità, sperimentare pian piano il fai-da-te della sicurezza, il bricolage più o meno impacciato della costruzione della mia vita con le mie stesse mani. Attraverserò poi un passaggio dove non mi fido più di nessuno, dove mi viene voglia di chiudermi a quattro mandate davanti al rischio di essere ferita di nuovo, e poi un bel giorno mi accorgerò che posso ancora sperare e fidarmi. Non sarà mai più come Prima. Ecco il passaggio più importante del viaggio, questa rinuncia a tornare nell’innocenza originaria, questa accettazione profonda della crescita, dell’evoluzione umana che è possibile solo se passo attraverso la caduta. Qualche volta la caduta è una perdita, la fine di una relazione di tipo dipendente, la delusione naturale dell’adolescente davanti ai propri genitori che non sono più perfetti come sembravano, o il dover uscire da una istituzione, da un gruppo che rappresentavano la Certezza e la Verità. La crisi di un’appartenenza, la fine di una storia d’amore, la disillusione su un ideale o un mito personale. Allora il viaggio è nell’intrecciare relazioni più adulte, nel costruire da soli la propria verità, nel cercare un riferimento interno per il principio di autorità e di sicurezza. Altre volte la caduta non c’è neppure, e succede che le persone sono anagraficamente adulte, ma non hanno mai fatto l’esperienza di badare a se stesse, e proprio non ce la fanno, non sono neppure capaci di concepire una simile idea. Non sanno da dove si comincia, diventano disperate e angosciate appena c’è da prendere una scelta, appena l’appoggio viene a mancare, appena si staccano dalla madre terra per fare un piccolissimo salto. Se la disperazione è la zavorra, allora la spinta verrà dal ricomporre briciole di speranza, di fiducia in se stessi. Gregor Ziemer come si crea un nazista Giuseppe Moscati D ove nasce il largo consenso di base della società tedesca al regime nazista? Dev’essere stata questa la domanda della vita di un autore come Gregor Ziemer (1899-1982), la martellante ossessione che lo ha sempre accompagnato in ogni sua pagina scritta come pure in ogni sua ricerca sul campo. E d’altra parte è senza dubbio quella dell’educazione la cifra essenziale dell’opera di Ziemer, intellettuale americano (del Michigan, ma laureato nel Minnesota), corrispondente da Berlino del «New York Herald», del «Chigaco Tribune» e del «Daily Mail» di Londra, ma che è conosciuto soprattutto per aver realizzato – prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti e durante il periodo di massimo splendore del Terzo Reich – un importantissimo reportage sul mondo scolastico della Germania di Hitler. dentro la struttura formativa ROCCA 1 MAGGIO 2006 Uno dei meriti della sua ricerca è quello di aver compreso a fondo come un regime non nasca dalla pura volontà, per quanto forte e pervicace, di un singolo, cioè del dittatore che soggioga le masse e le indirizza in una determinata direzione. Questo mito viene scardinato alla sua base proprio dall’analisi diretta del modello scolastico tedesco in vigore sotto il nazismo. Tutto è partito dall’autorizzazione che Ziemer, in qualità di direttore della scuola americana che nel 1929 aveva fondato a Berlino, ottenne da Bernard Rust, l’allora ministro dell’Educazione. Quest’ultimo di fatto gli permise di visitare diversi istituti scolastici di vario grado, ma anche le sedi di collegi, organizzazioni assistenziali e associazioni giovanili tedesche dell’epoca, svolgendovi numerose interviste e raccogliendo tutta una serie significativa di dati, utili poi a ricostruire un quadro generale sia dell’impostazione didattica sia della 44 vera e propria ideologia dominante. Ne è nato così il saggio Education for Death, pubblicato nel 1941 a Londra, arrivato in Italia nel ’44 con traduzione approssimativa e opportunamente riproposto di recente come Educazione alla morte (1) proprio a sottolineare quel percorso formativo che tendeva a plasmare adolescenti e giovani tedeschi in vista di una loro perfetta integrazione nel sistema nazista. In questo senso Bruno Maida ha parlato giustamente di «un libro in divisa» (2) evidenziandone e la sua ‘volontà militante’ e la sua capacità di penetrare il rapporto tra il fanatismo di regime, l’esaltazione politico-militare e l’entusiasmo giovanile di una Germania in guerra con il mondo, ma che direi anche fortemente in lotta con se stessa, con il buon senso, con la vita. Per avere un’idea dell’eco creata dal libro nel panorama internazionale, bisogna ricordare che esso venne da subito diffuso in varie lingue nei paesi liberati; che, sulla base dell’opera-reportage di Ziemer, il regista Edward Dmytrik ha realizzato nel ’42 un film di gran successo, Hitler’s Children [Bambini di Hitler], visto dagli americani nel ’43; che, sempre nello stesso anno, la Walt Disney ha addirittura prodotto un cartone animato ispirato al libro e che, infine, lo stesso Ziemer è stato convocato come testimone diretto al celebre processo di Norimberga. Il viaggio compiuto da Ziemer all’interno di quella che era la struttura educativa destinata a formare le nuove leve del regime, allora, segue un itinerario ben preciso. L’obiettivo dell’educatore americano è quello di sviscerare la fenomenologia del nazismo per risalire alla strategia pseudoeducativa in base alla quale si crea un nazista. La strategia adottata è quella di penetrare la cortina di segreto che proteggeva la metodologia scolastica e smascherare dall’interno – appunto interrogando e raccogliendo da insegnanti e funzionari, da ragazzi e genitori sia testimonianze che decostruzione di una macchina di morte Se il consenso più forte al potere politico e militare di Hitler veniva dalle nuove generazioni, dunque, non poteva che essere il mondo della scuola e della formazione quello più interessato dall’esercizio dell’ideologia negativa messo in atto dai collaboratori del Führer. Ziemer parte da qui, dall’ideologia come dato di fatto, incontrovertibile appunto, per lavorare – attraverso la disamina del sistema didattico-formativo – a una decostruzione del consenso popolare e quindi della stessa condivisione, da parte dei giovani, dei miti di quell’ideologia. Non a caso, muovendo da tali miti della forza, della razza, della conquista militare e del potere politico assoluto e tenendo presenti i libri e i comunicati di propaganda dell’epoca, egli individua con estrema lucidità tutti gli elementi fondamentali della ritualità tipicamente nazista. Trovo particolarmente indicativo, a tal proposito, il brano nel quale Ziemer condensa il significato ultimo proprio del mito della forza. Visitando una classe durante l’ora di lettura, egli si imbatté in un vecchio maestro che stava recitando agli scolari una poesia tedesca che poi loro avrebbero dovuto ripetere a memoria. La poesia metteva in scena la legge di natura per la quale una mosca nega pietà ad un insetto più piccolo, ma è mangiata da un ragno, che a sua volta viene preso da un passero, il quale è poi ghermito da un falco subito catturato da una volpe; quest’ultima cade preda di un cane, ucciso senza pietà da un lupo cui alla fine spara un cacciatore. In ogni drammatico passaggio si ripeteva il deciso rifiuto di graziare l’essere più debole e ad ogni uccisione aumentava l’entusiasmo trasmesso agli scolari. L’anziano maestro volle infine sottolineare la morale della poesia con parole che Ziemer annota con cura: «Questa lotta è una lotta naturale. Senza di essa, la vita non potrebbe continuare. Ecco perché il Führer vuol vedere i suoi ragazzi forti, così che possano essere loro gli aggressori e i vincitori, non le vittime. La Germania sarà forte. Il Führer la farà tanto forte che potrà entrare in lizza e attaccare qualunque nemico in tutto il mondo» (3). Ziemer dà dimostrazione di saper leggere a fondo, d’altra parte, anche le motivazioni dei genitori tedeschi che egli vede sempre attenti e solleciti a rendere i propri figli lodabili da Hitler: loro, nota l’autore, sono pronti senza esitazione alcuna a portarli «all’altare nazista» allo stesso modo in cui un tempo i genitori recavano i propri nati agli altari delle divinità pagane. E quel che è più terribile è che già prima dell’età scolare il Führer pretende di ogni bambino tedesco, che considera figlio indiscusso della patria, il possesso del corpo e dell’anima! Le interviste di Ziemer, i suoi commenti, le sue stesse descrizioni del mondo scolastico osservato sono mirate, da un lato, a privilegiare un metodo di sostanziale aderenza realistica alla realtà in oggetto, seppure non manca a volte una tentazione romanzesca, e, dall’altro, a impostare un discorso che possa spingersi oltre fino a suggerire strategie d’intervento in chiave apertamente antidittatoriale. Grazie ai racconti e a quelle che chiamerei ‘intuizioni educative’ di Ziemer, insomma, il totalitarismo, la negazione delle libertà, la logica chiusa del pensiero unico che caratterizzavano il regime hitleriano vengono così ‘denudati’ della loro veste retorica, della loro copertura demagogica e di tutto quell’apparato linguistico-culturale che ne mascherava brutture, atrocità, indicibilità. La sua denuncia andava quindi a colpire il male assoluto del regime nazista perché venisse nell’immediato contrastato e fermato, ma anche perché a più livelli – dagli intellettuali alle masse – potesse progressivamente prendere corpo una criticità tale da non permettere mai più nella storia il riproporsi di simili mali. Giuseppe Moscati ROCCA 1 MAGGIO 2006 MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO umori il più possibile quotidiani – una scuola che Ziemer considerava una vera e propria «arma ausiliare» in dotazione all’esercito nazista. Dicevo prima che un regime come quello del nazionalsocialismo non nasce dalla ‘semplice’ volontà distorta di un singolo leader; in realtà sin dall’inizio del suo folle programma politico il Führer aveva bisogno di un consenso larghissimo, in altre parole non poteva autolegittimarsi come «conduttore della nazione» senza il sostegno aperto e diffuso di milioni di tedeschi. Ebbene, come dimostra ampiamente la ricerca di Ziemer e come pure anche altri studi confermano, gran parte di questi milioni erano giovani tedeschi. Note (1) G. Ziemer, Educazione alla morte. Come si crea un nazista, a cura di B. Maida, Città Aperta, Troina (En) 2006. (2) Cfr. ivi, pp. 7-26. (3) Cfr. ivi, pp. 78-79. 45 CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE volti dell’universo femminile È i due racconti Da un lato, infatti, mi ha conquistato l’ironia dissacratoria e, in fondo, disarmante di 46 Sarah, la protagonista del racconto d’apertura, affidato a Gafi Amir (2) e intitolato Dio 90210, tutto giocato sulle frenesie di una single precipitata nel gorgo della rincorsa professionale. Dall’altro, invece, mi ha toccato la prosa intonata e venata di lirismo di Nava Semel (3), che, nel racconto Una piccola rosa nel Mediterraneo, offre in poche pagine uno spaccato insieme personale e antropologico della donna ebrea novecentesca. Due modi di intendere la letteratura, due modelli diversi di ritrarre la psicologia femminile, sicuramente espressione anche del divario generazionale che intercorre tra la giovane Amir e la più matura Semel, eppure, testimonianza anche di un denominatore comune: la capacità di mettere in evidenza l’ostinata caparbietà delle protagoniste, che non si arrendono davanti ai significati troppo pragmatici, troppo scontati e condivisi, usando, là, l’autoironia, comica e malinconica, qua la forza di una sorvegliatissima prosa lirica. Puntando il microscopio sul racconto della Amir, Dio 90210, poi, non può sfuggire la particolarità dell’esordio, nel quale la protagonista si lamenta del fatto che il suo capoufficio, Shirhaz, di cui è segretamente innamorata, le ha sottoposto del lavoro da sbrigare in fretta, senza pensare che quello è il giorno della memoria dell’Olocausto. Dietro l’apparente tono leggero della recriminazione, Sarah denuncia un’indifferenza culturale che la fa sentire estranea al suo ambiente di lavoro e, più in generale, alla nuova cultura del suo paese. La logica economica e produttiva, infatti, ha talmente assorbito i suoi colleghi – tutti rinchiusi e isolati in minuscoli cubicoli di vetro – che non vi è più posto per onorare il giorno della memoria. Essere simpatici, efficienti e anche «ebrei» risulta per palese ammissione di Sarah, come un compito estremamente complesso. Non deve sfuggire anche un ulteriore e implicito atto d’accusa nei confronti della forza mistificante della modernità capitalistica: l’ordine che Shirhaz le impartisce non è pronunciato in modo perentorio, ma con un finto andamento interrogativo («Sarah, mi fai un favore? Dai un’occhiata al backup…» (4)). Si tratta quindi di una falsa domanda che nasconde una richiesta netta, del tutto diversa, quindi, dalla domanda filosofica che caratterizza la speculazione ebraica tradizionale. Una domanda vuota di senso a cui si contrappone, quasi distrattamente, ma in modo molto efficace, l’annotazione della protagonista che, poco più avanti afferma: «È da un anno ormai che sto cercando un qualche dio» (5). E non importa neanche che, subito dopo, Sarah sembri quasi mescolare le carte e confondere il lettore, facendogli credere che il Dio di cui è alla ricerca non è affatto quello biblico e trascendente, ma una divinità minuscola, in carne ed ossa, ossia un uomo con cui potersi sposare e condurre una vita beatamente borghese. Non importa perché, leggendo ancora, si comprende che queste affermazioni sono spostamenti di un desiderio di verità decisamente più perentorio, di una domanda di senso che assomiglia molto, senza mai chiamarle in causa direttamente, alle grandi questioni che aspettano una risposta attendibile da Dio proposte da tutta la teologia nata dopo Auschwitz. Nel mondo di Sarah, infatti, tutti sono divorati dall’ambizione, sono trasformati in piccoli personaggi negativi, incapaci di rivestire anche il ruolo solenne e definito del malvagio, tipico della letteratura epica o romantica. Tutti corrono, schiacciati da un inconscio desiderio irrefrenabile di conquistare prestigio e visibilità, risultando, alla fine, solamente piccoli e massificati, ridotti a nulla da un’operatività inconcludente, in cui ci si dimentica anche del desiderio stesso di arrivare a qualcosa. la tremenda lezione della storia Così a Sarah, che ha perso la nonna nei campi di sterminio, il nuovo Israele, moderno e industrializzato, scosso dai fremiti della rivoluzione informatica, non concede nemmeno un secondo per riflettere al momento in cui suona la sirena e tutti dovrebbero alzarsi in piedi. Sarah si deve rifugiare nella toilette, imbarazzata dal fatto di trovarsi tra il w.c. e il lavandino, per assolvere a quello che dentro di sé sente essere un dovere e una necessità, ma viene raggiunta anche là da un incredulo capoufficio, troppo alla moda, nei suoi vestiti firmati, per ritenere che questi gesti simbolici abbiano una qualche validità. Il tono autoironico lascia trasparire la malinconia quasi in maniera distratta, grazie al magistero della Amir che vuole chiaramente porre in evidenza quanto, al di là delle ipocrisie, sia davvero difficile lasciare spazio al ricordo in società complesse come le nostre; come sia quasi impossibile far sì che la tremenda lezione della storia rimanga vivida anche nelle generazioni che quegli eventi non li hanno vissuti. Sarah vuole pervicacemente salvare qualcosa del suo essere osservante; è per Sarah indispensabile, per non dichiarare la resa di fronte ai nuovi templi della postmodernità, quali «i centri commerciali immersi nell’aria condizionata e le palestre (…)» (6) dove, parafrasando in terza persona il racconto, Sarah stessa a volte si sforza di diminuire le sue circonferenze senza reperire nemmeno un po’ di pathos. Davanti a tutto ciò, Sarah ha bisogno di un Dio, umano, da amare nel volto di un uomo, e, forse, trascendente, da onorare con la tradizione dell’osservanza dei precetti. Così, quando ad un rinfresco per la nascita della figlia di una collega, si rifiuta di mangiare una tartina al fegato di struzzo, Sarah, fedele all’alimentazione kasher, si trova a disagio, osservata da tutti e incalzata dalla neomamma, preoccupata del fatto che la sua amica stia diventando «religiosa», sotto gli occhi silenti del capoufficio Shirhaz. Non le rimane che approfittare di un momento di distrazione per defilarsi e andarsene. Ma, mentre aspetta il taxi sotto una pioggia torrenziale, ripetendosi che in fondo lei sta solo cercando un Dio e un po’ di saggezza, viene raggiunta da Shirhaz che la invita a bere un caffè. Sarah accetta e qui si conclude il racconto, lasciando al lettore la doppia chiave di lettura: forse Sarah è veramente riuscita a cambiare di un millimetro il mondo rimanendo in qualche modo fedele a se stessa e Shirhaz, redento, è la materializzazio- ROCCA 1 MAGGIO 2006 ROCCA 1 MAGGIO 2006 Marco Gallizioli stata recentemente pubblicata un’interessante antologia di racconti scritti da autrici israeliane contemporanee, preziosa soprattutto perché espressione di un modo reale, quotidiano e vitalissimo di essere donne, ebree e israeliane. Leggendo il volume – intitolato proprio Israeliane (1) – il primo dato che emerge con chiarezza è la forte dissonanza dei registri linguistici, delle tematiche e delle psicologie femminili proposte, dissonanza che, ben lungi dall’essere stonata, risulta affascinante e, a suo modo, armonica. Nei racconti si stagliano, insieme, donne forti e donne deboli, intraprendenti e apatiche, ironiche e tremendamente seriose, nevrotiche e risolte, mitiche – quasi bibliche – e comuni, nostalgiche e in carriera, pie e agnostiche: insomma, un coacervo di immagini, di volti, di modi di raccontare, di punti di vista, capaci di produrre una vivacissima accumulazione di intenti, visioni del mondo e desideri. Ma, meditando su questa ridda di temi, al lettore non riuscirà difficile accorgersi della presenza di fili invisibili che legano le storie del passato a quelle del presente, le dinamiche donne postmoderne alle nonne appoggiate su nugoli di ricordi, dolci e, nel contempo, dolorosi. Sì, qua e là si annodano in maniera inestricabile dei motivi che uniscono fra di loro le esistenze di persone apparentemente inconciliabili, esattamente come, in ogni cultura e in ogni società, ciascun modo di essere è legato ad un altro o ai precedenti in linea cronologica, in quanto frutto di reazioni chimiche profondissime e inesplicabili. Proprio per questi motivi, vorrei mettere l’accento su due racconti estremamente distanti tra loro, per dimostrare quanto sia stata intelligente, da parte dei curatori, la scelta di proporre una riflessione così satura di contrasti sulla donna israeliana contemporanea. 47 l’eco poetica della vita ROCCA 1 MAGGIO 2006 Nella prosa lirica della Semel, invece, la narrazione è affidata alla voce della stessa autrice adulta che rievoca un pomeriggio estivo passato al mare con sua nonna Rayziel, la quale cerca di insegnare alla nipote a nuotare. A questa rievocazione si contrappuntano stralci di giovinezza della nonna, presentata come una donna forte, intraprendente e dolce insieme, fino ad assumere i caratteri mitici della narrazione biblica. Apprendere la difficile arte del nuoto è sicuramente un’allegoria di un’iniziazione all’età adulta, con le sue complessità e con le sue problematiche, mentre il nuoto in sé simboleggia la ricerca di una libertà esistenziale incapace di scendere a compromessi e che coincide con il desiderio di contrapporre leggerezza e semplicità alle pesantezze che la vita spesso propone. La profondità dell’acqua e la zavorra degli abiti bagnati sono gli impedimenti che portano la Semel bambina a ritenere che sia impossibile poter vincere le difficoltà e lasciarsi andare, ma la nonna, amorevolmente insisterà che l’acqua «è stata la prima a cantare gloria al Creatore», quando venne separata dal cielo. Nuotare, quindi, rappresenta per Rayziel un mettersi in sintonia con il lamento delle onde, con la poesia che il mare eleva per lodare il Signore, sottolineando implicitamente che anche la più prosaica o la più drammatica delle esistenze nutre in sé un’eco poetica che occorre sempre ascoltare. Questa poesia dell’esistente sembra coincidere, dunque, con il coraggio di non rifiutare la vita stessa e, insieme, con la determinazione di non accettare mai il mondo così com’è, impegnandosi nel cercare di rovesciare le logiche superficiali della storia fino ad acciuffarne il senso profondo e autentico (7). Questo insegna la nonna alla nipote: la vita è poesia, ma per potersi trasformare in poeti occorre non adeguarsi alle apparenze, alle logiche dominanti, fidandosi di Dio. E la nipote, adulta, dimostra di aver compreso la lezione che, attraverso il nuoto, la nonna ha 48 cercato di impartirle, proprio impastando il racconto di quel pomeriggio con il controcanto delle peripezie occorse alla nonna da giovane: la decisione di sposare lo spiantato Zelig Chayim contro il parere della sua famiglia benestante, la decisione di lasciare il villaggio nei Carpazi e di trasferirsi col marito in Palestina, a coltivare una terra promessa fatta di sabbia, contro il consiglio di tutti i suoi compaesani convinti che la nuova terra promessa fosse l’America; la decisione di amare quella terra improduttiva solo per il fatto che si affaccia sul mare. La Selim adulta ha capito, dunque, che la nonna crede nella poesia della vita, ma senza derive romantiche o superficiali, perché per Rayziel poesia significa soprattutto avere uno scopo nella vita e lottare per realizzarlo, nonostante – o grazie a – tutto e tutti. E, senza dichiararlo, la Semel rende omaggio al pensiero di Victor Frankl, padre della logoterapia (8), il quale sosteneva proprio che la realizzazione di sé è intrinsecamente legata all’individuazione di uno scopo per cui vivere, uno scopo che ci aiuti ad uscire dal narcisismo dell’essere prigionieri di sé e a cogliere il mistero dell’alterità. La Semel e l’Amir, dunque, da vie differenti arrivano ad indicare la medesima soluzione per superare le contraddizioni di un mondo che si contorce negli ideali malati del consumismo e dell’autoreferenzialità: semplicemente vivere sfidando il consueto, alla ricerca di significati, insieme, antichi e nuovi. Marco Gallizioli Note 1 Aa.Vv., Israeliane. L’universo femminile raccontato da 13 scrittrici contemporanee, con una prefazione di E. Loewenthal, Stampa alternativa, Viterbo 2005. 2 Gafi Amir, nata in Israele nel 1966, è giornalista della carta stampata e televisiva, autrice di programmi tv e di spettacoli teatrali. 3 Nava Semel, nata in Israele nel 1954, è critica d’arte, giornalista, autrice di libri per l’infanzia, spettacoli teatrali, raccolte poetiche e numerosi romanzi, tra cui La Casa Usher, tradotto anche in italiano per Mondadori. 4 G. Amir, Dio 90210, in Israeliane, cit., p. 11. 5 Ib., p. 12. 6 Ib., p. 18. In queste pagine, l’Amir sembra risolvere in chiave letteraria l’analisi sociologica sulla «religione del consumo» proposta da: G. Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo, Il Mulino, Bologna 1999. 7 N. Semel, Una piccola rosa nel Mediterraneo, in Israeliane, cit., p. 265. 8 Cfr. V. Frankl, Alla ricerca di un significato nella vita, Mursia, Milano 1974. CONTROCORRENTE rinascita Adriana Zarri a Pasqua è passata ma il tempo pasquale dura ancora a lungo, precisamente fino al 25 giugno, quando il calendario liturgico segna il ritorno al tempo ordinario. Quello che stiamo vivendo è infatti un tempo straordinario. Due, com’è noto, sono i tempi forti dell’anno: l’avvento e il ciclo pasquale, che inizia con la quaresima e culmina nella Pasqua per prolungarsi nel tempo pasquale, fino alla domenica del Corpus Domini e settimana seguente, per terminare con la ripresa del tempo ordinario che, quest’anno, cade appunto il 25 giugno. Da allora in poi dovremo meditare sull’ordinarietà; ma non è ancora il momento. Ora siamo in un tempo forte: il più solenne dell’anno, ed è opportuno meditare e celebrare la resurrezione. Resurrezione che è quella di Cristo e, in lui, di tutte le forme della vita. Per una felice coincidenza la Pasqua cade nella primavera che segna la resurrezione della terra; dopo la morte dell’inverno. Noi, giustamente, parliamo della Pasqua di resurrezione ma c’è una dizione laica che recita «Pasqua d’uovo» perché l’uovo è la segreta gestazione da cui nasce la vita; e le figurazioni laiche della Pasqua sono costellate di pulcini, come di rami in fiore: tutta vita nascente, anzi rinascente perché il ramo fiorisce tutti gli anni, sull’albero della scorsa primavera e il pulcino esce fuori dall’uovo: una sorta di grembo materno che si rifà alla vita della madre. In questo tempo l’erba perfora la crosta della terra, con un premere fragile e potente che vince la durezza del gelo, poi spuntano le pratoline che, al caldo della primavera, allargano le ciglia e aprono gli occhi: anzi l’unico occhio che riposa, tra i petali, come un piccolo sole. E poi, via via, le primule, le viole; e tutti i prati son parati a festa. Ma, come la nascita dell’uomo inizia nove mesi prima della venuta al mondo del bam- L bino, così la primavera nasce prima della primavera, nasce in autunno ed ha una gestazione più breve ma altrettanto feconda e attiva. Nasce sui rami spogli, o in via di spogliazione, che sotto alla foglia cadente mostrano già la gemma da cui nascerà la foglia nuova. E la vita terrena è tutta un simbolo e una ripresa, in chiave agreste, del mistero cristiano della croce e resurrezione di Cristo. Anche in lui la resurrezione comincia prima del glorioso risorgere; nel tragico morire; e il sepolcro è come l’uovo ancora chiuso ma già pieno di vita: un uovo che poi si schiuderà, nel mattino di Pasqua. E il nato, da quell’uovo dischiuso, sarà così trasfigurato che Maria non lo riconoscerà e dovrà esser nominata da lui – nuovo Adamo che, come il primo, dà il nome ad ogni cosa – per riconoscerlo e riconoscer se stessa. Ma questo uomo così trasfigurato è lo stesso tragicamente sfigurato durante il cammino doloroso: il ramo secco che metterà foglie e fiori. Molte figurazioni medievali rappresentano un Cristo in croce senza dolore: sereno, ieratico e solenne come un re assiso in trono; ed il patibolo è il suo trono. Là appeso è già trasfigurato: risorto ancora prima di risorgere, in una passione che è già preludio della resurrezione. E i tre giorni passati nel sepolcro figurano i nove mesi necessari per mettere al mondo un uomo nuovo. E anche il Cristo risorto è nuovo: tanto nuovo che, come già abbiamo visto, non fu da Maria riconosciuto. Così come non fu riconosciuto dai discepoli in cammino verso Emmaus; e occorse una parola o un segno per disvelarlo agli occhi ignari e legare il passato al presente: eguale eppur diverso. Questa ci appare la resurrezione: una continuità discontinua, un’eguaglianza diseguale, come eguale e diversa sarà l’eternità rispetto al tempo e la vita beata rispetto a questa valle di lacrime che pur la prefigura. ❑ 49 ROCCA 1 MAGGIO 2006 CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE ne di quel dio disperatamente cercato; o forse Sarah è ancora vittima di un inganno, di un abbaglio, che la porta ad aggrapparsi disperatamente ad una illusione dal volto umano. È, quindi, una donna contemporanea, con i suoi dubbi interiori, con la volontà di non rinunciare senza lottare ad un mondo un poco più complesso e più profondo di quello che ci siamo costruiti intorno, ma anche con le fragilità di una persona che non si stima e cerca in un dio troppo umano delle risposte forti. la fede di Gesù e la nostra fede in Gesù ROCCA 1 MAGGIO 2006 Carlo Molari iventano sempre più numerosi i teologi e gli esegeti che si richiamano alla fede di Gesù, ne illustrano le espressioni nella sua esistenza terrena e le incidenze nella storia avviata dalla sua viva testimonianza. Ho avuto occasione di ricordare altre volte che nelle scuole cattoliche di teologia si è cominciato a parlare della fede di Gesù solo verso la metà del secolo scorso. Prima si negava che si potesse parlare della fede esercitata da Gesù perché, fin dal momento della sua concezione, Gli si attribuivano particolari conoscenze infuse per grazia e persino la visione di tutte le cose in Dio, che rendevano impossibile ogni atto di fede in Dio. S. Tommaso d’Aquino (+ 1274) argomentava in modo apodittico: «Oggetto della fede... è la realtà divina non vista. Ora l’abito della fede, come ogni altro, riceve la sua specificazione dall’oggetto. Se dunque si toglie l’inevidenza dalla realtà divina, viene meno la fede. Ma il Cristo nel primo istante del suo concepimento ebbe piena visione dell’essenza di Dio... Dunque non ci può essere stata fede in lui» (Somma di teologia 3a parte, q. 7, a. 3). Questa opinione era diventata dottrina comune anche nella catechesi e nel magistero ordinario della chiesa, al punto che il S. Uffizio intervenne all’inizio del secolo scorso per riprovare la posizione di alcuni modernisti che la mettevano in discussione (Decreto del S. Uffizio Lamentabili, 3 luglio 1907 n. 32 DHü 3432; n. 34 DHü 3434). D la terminologia paolina Non intendo ora ripercorrere il cammino compiuto dalla teologia nell’ultimo secolo a 50 a una ineguagliabile ‘perfezione’, si dovrà giustamente pensare che a salvarci sia questa fede vittoriosa. Si scoprirà allora che per la sua fede donata ‘al Cristo’ il fedele ottiene il privilegio inaudito di poter vivere la sua povera fede in simbiosi con la fede invincibile ‘del’ Figlio di Dio (Gal 2,20) in senso proprio» (ib., p. 713). crocifisso e presenza Già H. Urs von Balthasar in un articolo che avviò la riflessione tra i cattolici sulla fede di Gesù (Fides Christi, in Sponsa Verbi, Morcelliana, Brescia 1969, pp. 41-72) osservava che la fede è realmente cristiana, non solo quando Cristo ne è l’oggetto, bensì anche quando egli ne è il principio, il soggetto trascendente che con la sua grazia fa partecipare l’uomo alla sua fede. «La cosa più importante è il riconoscimento che la fede cristiana non può intendersi che come un inserimento nell’atteggiamento più intimo di Gesù» (Id., ib., p. 58). Gesù, infatti, «rende possibile la nostra fede, la fede cioè, che non deve abolire, ma perfezionare dal di dentro tutto l’atteggiamento veterotestamentario di fronte a Dio (cfr. Mt 5,7). Il che può avvenire soltanto se Gesù non solo provoca in qualità di causa questo perfezionamento, ma lo vive per il primo come prototipo, e quindi riceve da Dio il potere salvifico di esprimere e di imprimere in noi questa sua esemplarità vissuta» (Id., ib., p. 48). È facile capire, osserva P. D. Dognin, come non valorizzando la fede di Gesù vengono trascurati due fatti fondamentali: l’unione profonda del discepolo con il crocifisso e la presenza in lui della vita di Cristo. Senza il riferimento alla fede di Gesù sulla croce, inoltre, la fede del discepolo verrebbe a poggiarsi esclusivamente sulla risurrezione di Gesù e non sulla fede esercitata da Gesù nella croce. La spiritualità cristiana acquista un carattere diverso. La fede che salva sarebbe la nostra fede in Gesù risorto e non la fede esercitata come abbandono fiducioso in Dio da Gesù sulla croce. Per cui di fatto il credente è giustificato «dalla fede di Gesù Cristo (che si espande) in tutti i credenti» (Rom 3,22). La fede che salva non è la nostra fede in Cristo bensì la sua fede in Dio che ha avuto nella croce la sua espressione suprema. È la fede di Gesù in Dio che salva, quella fede che il discepolo di Gesù esercita per la sua testimonianza, in virtù del suo Spirito e quindi in comunione con Lui. Il discepolo di Gesù vive la fede in Dio in simbiosi con la Sua fede. Anche Roberto Vignolo, in uno studio accurato – La fede portata da Cristo, in La fede di Gesù (G. Canobbio cur.) Edb, Bologna 2000, pp. 43-67 – interpreta le otto formule citate di Paolo nel senso della sua fede soggettiva. Egli la chiama fede di relazione e la descrive con queste parole: «fede attuata, istituita da Cristo, meglio ancora fede portata da Cristo; intendendo l’attuazione vuoi in riferimento a Cristo come singolare soggetto di fede, vuoi a Cristo come istituente una fede correlata a lui, affidabilmente fondata su di lui» (ib., p. 67). Egli oltre agli 8 testi ricordati esamina anche Gal 3,26: «tutti infatti siete figli di Dio per la fede di Cristo Gesù» secondo la variante di un papiro autorevole. P. D. Dognin osserva che nella prospettiva della fede soggettiva di Gesù altre sette affermazioni dell’Apostolo Paolo considerate fino ad oggi oscure o di incerto significato diventano chiare. Non possiamo seguirlo nella sua dettagliata analisi. Cito solo un esempio per mostrare come ammessa la fede in Gesù e considerata la croce come il momento supremo del suo esercizio dal parte di Gesù, effettivamente alcune espressioni paoline acquistano un significato prima non percettibile. Si veda ad es. l’affermazione di Paolo nella lettera ai Romani: «Non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco. È in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede» (1,16-17). La traduzione ecumenica francese (Tob, Ed ital. Ldc) osserva che «la formula è oscura ... sono state proposte diverse interpretazioni». P. D. Dognin osserva: «Per chi ammette che l’uomo è giustificato ‘dalla fede di Gesù Cristo’ (Rom 3,22), questa ‘rivelazione’ che va ‘dalla fede alla fede’ può essere intesa come procedente dalla fede di Cristo (cioè dalla croce) alla fede del credente, quest’ultima intesa nel senso di una fede rivolta a Cristo prima di diventare una fede vissuta in Cristo». Paolo ripete la stessa cosa in maniera più esplicita in Rom 3, 21-22: ‘Ma ora la giustizia di Dio si è manifestata… giustizia di Dio per la fede di Gesù Cristo (che si espande) verso tutti i credenti’ (a. c., p. 720). Dalla fede di Gesù sulla croce, alla fede del discepolo in questo modo l’azione giustificatrice di Dio attraverso la fede di Gesù attinge il discepolo che vive la fede attraverso di Lui. «Lo sguardo del credente nei confronti di Gesù non deve fermarsi alle sofferenze. Egli deve in effetti sorpassarla... per cogliere il cuore del ‘Figlio di Dio’ (Gal 2,20) che riporta sulla Croce la vittoria della Fede» (p. 728). ROCCA 1 MAGGIO 2006 TEOLOGIA partire dagli anni ’950. Vorrei solo illustrare la terminologia di S. Paolo, su cui è in corso una ampia discussione fra gli esegeti. S. Paolo utilizza tre formule quando parla della fede in rapporto a Gesù: parla della nostra fede in Cristo, della fede di Cristo in Dio e della nostra fede in Dio vissuta in Cristo. La seconda formula (in greco pistis Xristou, fede di Cristo), riferita soprattutto all’esperienza di Gesù in croce, è presente 8 volte nelle sue lettere: Fil. 3,9, Rom. 3,22,26; Gal 2,16 (2 volte); Gal 2,20; Gal 3,22; Ef 3,12. La prima formula (la fede in Cristo) è più frequente e si riferisce alla fede del discepolo in Gesù come Messia e Signore (cfr. ad es. Gal 2,16; Rom 10,14; Fil 1,29; Col 1,5). La terza formula (la fede vissuta in Cristo) si riferisce alla fede in Dio esercitata dal discepolo per la testimonianza di Gesù e in simbiosi con la sua fede (es. Gal 2,19-20; 3,26). La maggioranza però degli esegeti, anche fra i più autorevoli, e quasi tutte le traduzioni (anche quella italiana della Cei), non distingue le diverse formule e le interpreta tutte nel senso della fede esercitata dal discepolo in Gesù come Messia e salvatore e come «icona di Dio» (Col 1,15). Si pensa quindi che le formule si riferiscano sempre e solo alla nostra fede in Gesù (chiamata fede oggettiva perché Cristo glorificato ne è l’oggetto) e mai alla sua fede in Dio (fede soggettiva). Paolo Domenico Dognin, un domenicano del Convento di Lilla, in un recente studio su «La fede di Gesù in S. Paolo», (Revue des Sciences Phil. et Théol. n. 4/2005, pp. 713-728) ricordava che già dal 1891 uno studio sulla lettera ai Romani di un esegeta tedesco (J. Haussleiter) sottolineava l’importanza della distinzione fatta da S. Paolo tra la fede di Gesù in Dio e la nostra fede in Gesù. All’inizio del secolo scorso (1906) un altro celebre esegeta tedesco, G. Kittel, «deplorava il fatto che quell’articolo non avesse avuto l’accoglienza che meritava». Eppure, osserva Padre Dognin, si tratta di una questione che ha notevole incidenza nell’analisi del pensiero di Paolo e nella vita del credente cristiano. Paolo infatti utilizza queste formule in rapporto al modo come Gesù ha vissuto l’esperienza della croce. La croce è la rivelazione della fede del Figlio di Dio (Gal 3,23 e 2,20). Se l’essenziale dell’esperienza di Gesù sulla croce è la sofferenza sostenuta per amore, argomenta Dognin, «si penserà che sono queste sofferenze a salvarci. Ma se questo ‘essenziale’ è una fede umana che sopporta vittoriosamente un parossismo di sofferenza tentatrice, pervenendo in tale modo Carlo Molari 51 il re e il profeta ROCCA 1 MAGGIO 2006 Rosanna Virgili 52 a figura del profeta assume un valore fondamentale al sorgere della monarchia in Israele, non solo: sarà il profeta stesso a dare al popolo un re, e lo farà suo malgrado: «Quando Samuele fu vecchio, stabilì giudici di Israele i suoi figli (...). I figli di lui, però, non camminavano sulle sue orme, perché deviavano dietro il lucro, accettavano regali e sovvertivano il giudizio. Si radunarono, allora, tutti gli anziani di Israele e andarono da Samuele a Rama. Gli dissero: Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non ricalcano le tue orme. Ora stabilisci per noi un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli» (1 Sam 8,1-5). Come è evidente la decisione di stabilire un nuovo tipo di governo deriva dalla corruzione di quelli che lo hanno preceduto ed è la saggezza degli anziani a coglierne la necessità. Il senato, insomma, è il vero regista della storia politica di Israele. Fatto sta che Samuele non può svincolarsi dalla volontà dei rappresentanti del popolo: «Agli occhi di Samuele era cattiva la proposta perché avevano detto: “Dacci un re che ci governi”. Perciò Samuele pregò il Signore. Il Signore rispose a Samuele: ascolta la voce del popolo per quanto ti ha detto (...). Ascolta pure la loro richiesta, però annunzia loro chiaramente le pretese del re che regnerà su di loro» (1 Sam 8,6-7.9). È chiaro che il governo dei re non viene imposto dall’alto, ma è una scelta del popolo, quanto basta a dimostrare la natura essenzialmente democratica della gestione del potere in Israele, sin dai tempi più remoti. Sia il profeta, infatti, sia il Signore, non possono nulla dinanzi al volere del popolo. A Samuele, infatti, pareva cosa cattiva la monarchia e Dio parla a lungo con il suo profeta considerando gli enormi rischi cui Israele si espone con questa decisione: «Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. Disse loro: “Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri (...). Metterà la decima sui vostri greggi e voi stessi divente- L rete suoi schiavi. Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà”. Il popolo non diede retta a Samuele e rifiutò di ascoltare la sua voce, ma gridò: “No, ci sia un re su di noi”» (1Sam 8,10-11.17-19). La monarchia è pretesa dal popolo ed il re viene da esso eletto: questo è il fondamento della regalità in Israele. Tale suprema volontà non esclude, tuttavia, l’intervento dell’autorità profetica e, attraverso la stessa, di quella divina: «C’era un uomo di Beniamino, chiamato Kis (...). Costui aveva un figlio chiamato Saul, alto e bello: non c’era nessuno più bello di lui tra gli israeliti (...). Samuele prese allora l’ampolla dell’olio e gliela versò sulla testa, poi lo baciò dicendo: “Ecco il Signore ti ha unto capo sopra Israele suo popolo. Tu avrai potere sul popolo del Signore”» (1Sam 9,1-2.10,1). Il Signore rimane sempre vigile sul destino del suo popolo; attraverso l’occhio del suo profeta lo custodisce con amore ed estrema attenzione, senza mai tuttavia, sostituirsi ad esso, senza mai forzarne le scelte. una demo-teocrazia dell’alternanza La fortuna del primo re di Israele non sarà, purtroppo, molto lunga. Presto Dio sceglierà un altro re al posto di Saul! Il Signore si mostra libero di cambiare la persona del re, come si mostra libero di cambiare, se necessario, anche il tipo di governo: se con la discendenza di Eli il potere era, infatti, dei sacerdoti (cf. 1 Sam 2,27 ss.), con Samuele e i suoi figli, esso era passato ai giudici (cf. 1 Sam 2,7.15) e, dopo di loro, ai re. Ma neppure i re sono definitivi. Ciò che importa a Dio è che il popolo trovi la pace e il futuro, attraverso l’opera dei suoi preposti. Soltanto la fedeltà alla giustizia, la promozione della vita di tutto il popolo, l’ubbidienza alla parola del Signore, può garantire la permanenza al potere di un uomo o dei suoi discendenti. Non ci sono diritti di ereditarietà. Anzi sembra vigere una vera e propria demo-teocrazia dell’alternanza. Chi ha un ruolo determinan- te, ancora una volta, è il popolo di Israele, che, dopo aver eletto i suoi governanti, controlla da vicino, rigorosamente, il loro operato e pretende che essi vengano sostituiti da altri, quando non agiscono per il suo bene. Chi difende il popolo dai nemici, permettendogli di vivere in pace, questi sarà degno di continuare a governare. il peccato originale del re Seguendo il filo della narrazione dei capitoli 13-15 del primo libro di Samuele, veniamo a conoscenza dei motivi per cui Saul perderà la sua regalità. L’origine del suo «peccato» viene indicata in un errore di prospettiva del re, che porta, inesorabilmente, alla corruzione di tutte le sue relazioni. L’orizzonte è quello di un io onnipotente ed impotente, allo stesso tempo, ed ancora, solo e contro tutti. Saul ci appare come una figura tragica, uno di quegli uomini politici che il talento conduce facilmente nelle stanze del Palazzo, ma che pian piano, quasi senza rendersene conto, si trasformano in ingenui e crudeli tiranni. La sua figura di leader è quella di un uomo poco ponderato, che agisce spesso empiricamente, spinto dalla paura, dalla fretta, dall’orgoglio, dal voler tenere tutto sotto controllo, dall’ambizione, dalla fame di affermare il suo potere. Ma il suo peccato originale sta nella suo assoluto isolamento. Saul agisce sempre da solo, il suo cuore non si fida di nessuno, non ha autentici collaboratori, sospetta di tutti, finanche di suo figlio Gionata. E pensare che egli aveva tutti dalla sua parte: Dio, il profeta, il popolo e Gionata! la potenza del miele Dopo aver combattuto con successo contro i nemici Filistei, gli Israeliti: «erano sfiniti in quel giorno» (1 Sam 14,24). Ma Saul interviene per chiedere loro un supplemento di fatica, suggellato da un giuramento: digiunare fino a sera. Il popolo ubbidisce; pur se: «passò per la selva ed ecco si vedeva colare il miele, nessuno stese la mano e la portò alla bocca, perché il popolo temeva il giuramento» (1 Sam 14,29). Gionata, invece, ignaro del giuramento, approfitta del miele con piacere: «Allungò la punta del bastone che teneva in mano e la intinse nel favo di miele, poi riportò la mano alla bocca e i suoi occhi si rischiararono» (14,27); rendendosi colpevole, così, di un peccato che gli faceva meritare la morte. Quando Gionata confesserà la sua trasgres- sione, il re Saul decreterà, infatti, sul figlio Gionata: «Faccia Dio a me questo e anche di peggio, se non andrai a morte Gionata!» (14,44), trasformando il giorno della vittoria nel giorno dell’angoscia e della morte e impedendo al popolo di far festa, quel giorno. Ma il popolo si riscatterà dalla paura di Saul e si farà giudice tra il re e Gionata, rivelando una saggezza più grande di quella del re: «Dovrà forse morire Gionata che ha ottenuto questa grande vittoria in Israele? Non sia mai! (...) Così il popolo salvò Gionata che non fu messo a morte» (14,45). In realtà il decreto del popolo stabilisce il criterio di comunicazione autentica che un monarca deve avere con il Signore: quella che passa nella verifica concreta della storia del popolo, riconoscendovi i segni obiettivi della Sua presenza. La voce del popolo è autenticamente profetica e pronuncia la giusta sentenza: «Per la vita del Signore, non cadrà a terra un capello della sua testa, perché in questo giorno egli ha agito con Dio» (14,45). Essa è sapiente, innanzitutto perché non decreta la morte, ma la salvezza, la vita e la gioia (cf. il re Salomone in 1 Re 3,16-28). la sapienza del re come frutto dell’ascolto Il monarca biblico deve coltivare la saggezza (cf. 1Re 3,9), deve sapere, cioè, che il suo potere è limitato e che è inserito in una rete di rapporti in cui a lui spetta di attendere soltanto ad una specifica funzione, mentre ulteriori ruoli sono riservati ad altri. La sua non è una monarchia assoluta, che può disporre di ogni arbitrio e sfuggire ad ogni controllo! Ciò che distingue un monarca «come tutti gli altri», dal monarca di Israele sta nel fatto che quest’ultimo rappresenta il Signore in mezzo al popolo e non viene da se stesso. I testi ci dicono che l’etica del potere non può essere autonoma, se vuole essere autentica. Essa deve rispondere di legami, deve rendere ragione all’ansia di vita di un popolo ed alla presenza viva di un Dio che lo ama. Deve cogliere e collaborare alla felicità dell’uno e dell’altro. La voce dei profeti è scomoda e ingrata perché ricorda e pretende questo. La bellezza triste e muta di Saul non giovò alla salvezza di Israele, e la sua storia finì tragicamente, poiché: «Saul dunque interrogò Dio (....), ma quel giorno non gli rispose» (1Sam 14,37). ROCCA 1 MAGGIO 2006 LA VOCE DEL DISSENSO Rosanna Virgili 53 tempo di Pasqua Lilia Sebastiani a Pasqua, in senso stretto, è ‘un’ giorno; e si rischia di non sentirlo neppure molto, questo giorno, anche se siamo credenti e praticanti. Dopo l’intensità del Triduo Sacro, dopo la grande veglia notturna, il giorno di Pasqua può trascinarsi a volte nella letizia un po’ convenzionale e sfuggente dei giorni festivi, senza un elemento forte che faccia presa sulle emozioni e sulla riflessione. Nella tradizione cristiana, la preparazione – la Quaresima – ha sempre avuto un peso maggiore della Pasqua stessa. Tanto che qualcuno è giunto ad affermare che la Quaresima esprime il tutto dell’esistenza cristiana, la sua condizione abituale e normativa. L Pasqua come tempo rinnovato ROCCA 1 MAGGIO 2006 Vi entrano forse le compiacenze penitenziali e l’ascesi del sospetto che hanno caratterizzato la storia del cristianesimo vissuto, il fatto insomma che l’essere contenti, lo ‘star bene’ anche giusto e illuminato, la gioia…, sono immediatamente avvolti da un’aura di sospetto: sospetto di leggerezza, di incoscienza, di almeno potenziale egoismo – e questo è l’aspetto debole della tradizione che abbiamo tutti in qualche modo interiorizzato. Vi è però anche un altro aspetto che ha una sua validità. La Quaresima, se vissuta in modo consapevole e autentico, è un periodo, un cammino…, un Esodo; la Pasqua invece può sembrare un ‘punto’, un giorno e basta, anche se è la meta a cui si tende. E si sa che un giorno di festa può scorrere in fretta e lasciare anche un certo senso di vuoto, tanto più se è un giorno a cui si annette, per qualsiasi ragione, un’importanza speciale. Per questo è importante ricordare, e soprattutto avvalorare nel vissuto, il fatto che la Pasqua non è tanto un giorno quanto un periodo, un tempo. In prospettiva spirituale poi coincide – la Pasqua, non la quaresima! – con la stessa vita cristiana, che è vita ‘nuova in Cristo’, germogliata dalla sua morte e dalla sua vittoria sulla morte; non quindi semplicemente vita ripulita e aggiustata. Sette settimane, con tutto ciò che questo 54 implica in senso simbolico: il sette nella tradizione biblica è il numero della totalità. «Sette settimane di anni», cinquant’anni cioè, nel Primo Testamento sono il periodo che va da un Giubileo all’altro. Un tempo che scorre e che si ripropone ogni anno, ma non come un tornare al punto di partenza, bensì come un procedere a spirale. Un tempo umano e misurabile (insomma krònos), ma chiamato a farsi trasparente e intenso fino a rendere sperimentabile in termini umani il kairòs, il tempo della salvezza. Nello spirito della Pasqua storia ed eternità si toccano: la nostra vicenda personale si arricchisce di profondità nuove, di misteriose risonanze, e con un’inedita concretezza. La Pasqua vissuta come un cammino allude alla nostra vita come cammino, che si estende senza fine e si approfondisce ciclicamente tra resurrezione e dono dello Spirito. Il tempo umano si apre al tempo eterno: cioè superiore ai ritmi e ai condizionamenti che conosciamo, ma non immobile, non pietrificato in un’astratta sublimità, non svuotato del divenire e della scoperta. tempo di grazia e di gloria La condizione normale dei cristiani sarebbe la gioia, se la vita fosse quale deve essere: gioia e festa e la fraternità che scaturisce dalla vita nuova e la manifesta, il rendimento di grazie non formale né rituale, ma vitale e spontaneo. La gioia e la festa hanno un valore di conversione permanente: non solo la quaresima con i suoi ovvi (e non trascurabili) richiami all’ascesi, che dopotutto potrebbe e dovrebbe essere intesa anche come richiamo a una maggiore umanità, autenticità e consapevolezza. Sappiamo che sfocia nell’appello alla conversione anche l’annuncio della Resurrezione, il discorso di Pietro a Pentecoste (At 3,19, I lettura della terza domenica di Pasqua). E questo può giustificare la tradizionale connessione tra esistenza cristiana in statu viatoris e tempo di Quaresima, quindi tra Quaresima e Pasqua: tempo della chiesa L’annuncio della Pasqua – «È risorto, non è qui – deve risuonare come una memoria impegnativa anche nel vissuto ecclesiale. «Non è qui», il Vivente non può stare con i morti, l’ultima parola non può essere quella del potere e della violenza: e sappiamo che, al di là di quella esplicita, ufficiale, riconoscibile, la violenza ha tante forme anche insospettabili e può annidarsi anche nel nostro cuore – magari decorosamente travestita, certo – e richiede attenzione e discernimento. Liturgicamente parlando, il tempo di Pasqua costituisce un’esposizione simbolica, narrativa e contemplativa, di ciò che la vita cristiana è chiamata a essere, dalle sue origini nella storia di Gesù e della prima comunità fino al suo approdo nel tempo eterno di Dio. Una storia vera, non iperuranica, è quella che ha il suo senso e il suo approdo in Dio e che viene abbozzata nel tempo pasquale; una storia ‘storica’, che tuttavia sembra procedere in senso contrario alla storia umana sperimentabile nel quotidiano, che troppo spesso appare come una storia di conflitti e concupiscenze, come un bisogno confuso di semprepiù-vita che non sa guardarsi nel profondo e finisce col rovesciarsi nella morte. No, la storia della chiesa che il libro degli Atti pone sotto i nostri occhi come impulso al discernimento permanente è una storia vissuta nello Spirito e nella logica pasquale, all’insegna dell’amore fraterno. È una memoria da attualizzare, un termine di confronto, un’utopia. Sì, dichiaratamente un’utopia, non solo rispetto ad ora ma, per molti aspetti, già anche rispetto ad allora, nel senso che già allora il vissuto comunitario presentava molti aspetti incompiuti e approssimativi: ma il suo carattere utopico ha una natura e una vocazione profondamente progettuale, e proprio questo suo carattere costituisce il fondamento della Chiesa. Negli Atti oltre che una storia liberamente selezionata si trova un sogno di Chiesa, forse; ma sappiamo quanto è importante nella Scrittura il sogno, non sempre distinto dalla profezia! Siamo abituati a leggere gli Atti filtrandoli attraverso una nostalgica luce ideale, tanto il quadro della chiesa degli inizi è diverso da quello offerto dalla chiesa, dalle chiese di oggi. Anche per ovvie ragioni storiche che non vanno deplorate, ma solo conosciute e sempre meglio comprese. Tendiamo a idealizzare tutte le fasi ‘aurorali’, ma si sa che nemmeno quella situazione, quella prima chiesa per noi carissima e fondamentale, erano realtà idilliache e senza ombre. Anzi, se quella situazione è per noi carissima e fondamentale, lo è proprio per quanto riguarda il modo di vivere alla presenza del Signore e in spirito di vera fraternità anche le sue ombre. I credenti, dice Luca, erano un cuore solo e un’anima sola. Affermazione che esalta e intenerisce e tuttavia subito allerta dentro di noi le antenne del sospetto, ed è giusto. Perché ormai sappiamo che si può essere «un cuore solo e un’anima sola» (di chi?) solo quando gli altri cuori e le altre anime sono azzerati o ridotti al silenzio, e il nostro pensiero va a certa grigia uniformità disciplinare, a certa concordia apparente o imposta spacciata per unità o per comunione. Leggendo con attenzione gli Atti si trovano difficoltà e resistenze, incomprensioni e conflitti, non solo da parte degli oppositori, ma anche da parte dei fratelli di fede; ma le oscurità, così come i successi, vengono assunti e letti nell’orizzonte dello Spirito, si fanno eventi di una storia diversa, che interpella e stimola a una lettura più profonda. tempo dello Spirito Chi è il protagonista degli Atti degli Apostoli? Non Pietro, anche se se ne parla molto nella prima parte; non Paolo, anche se la seconda parte degli Atti appunta l’attenzione sulle sue vicende; non la comunità cristiana, che appare in primo piano in certi momenti ma in altri no. Il vero protagonista degli Atti è lo Spirito santo. O la Parola di Dio, secondo un’altra validissima interpretazione: ma è lo Spirito a far diffondere quella Parola, oppure, secondo il punto di vista, quella Parola è promessa e primizia dello Spirito; perciò non vi è differenza. Protagonista vero è lo Spirito, animatore dell’esistenza del singolo credente, guida e riferimento supremo della Chiesa come comunione dei credenti e mistero di salvezza; lo Spirito sorgente e nutrimento di un amore più grande, lucido e profetico, capace di ROCCA 1 MAGGIO 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO non nella chiave negativa/contrita che sembra inevitabile associare al termine e al concetto di penitenza, ma come un progredire nella luce. Avanzando nella luce, avviene che certe ombre nostre e altrui si vedano meglio, ma non è un sentire fallimentare: piuttosto un fatto di grazia e di gloria. Tempo di Pasqua, tempo di gioia, che non vuol dire di allegrezza olimpica né di similmistica atarassia tagliata fuori dai conflitti della storia, dal dolore del mondo, dal senso del limite… 55 tempo di vita intensificata ROCCA 1 MAGGIO 2006 L’evento pasquale integra dimensioni che sembravano inconciliabili: storia e mistero, terra e cielo, carne e parola. Siamo chiamati a realizzare anche nel nostro intimo una nuova integrazione. La stessa unità di spirito e corpo nell’essere umano è in nuce una promessa adempiuta e nello stesso tempo la promessa di qualcosa di ancor più grande che deve venire: il corpo, come organismo vivente e come sacramento dello spirito, comincia ad adempiere già qui e ora una promessa fatta all’intera evoluzione del cosmo e del genere umano. Il corpo del primo essere umano animato dal soffio divino è prefigurazione, il corpo risorto di Gesù è il compimento della promessa di Dio. Nello spirito della Pasqua siamo chiamati a riconciliarci con la morte, anzi con la mortalità: con la nostra e con quella degli altri. Siamo chiamati a riconciliarci con il limite, riconciliazione che è premessa indispensabile a ogni superamento. Potrebbe assumere una singolare profondità in questo senso la II domenica di Pasqua (meglio ‘di Pasqua’ che ‘dopo Pasqua’, ciò che potrebbe dar l’idea di qualcosa di passato, di trascorso). Si sa che per consuetudine liturgica veniva chiamata la domenica in al56 bis: il termine intero sarebbe in albis depositis (o deponendis). Nell’ottavo giorno dalla Pasqua i neofiti, che avevano ricevuto il battesimo nella veglia pasquale – si parla ovviamente di adulti – si toglievano la veste bianca segno del loro nuovo status di cristiani, che avevano portato durante tutta la settimana in cui aveva luogo la loro iniziazione al mistero che avevano vissuto – la mistagogia – e cominciava la vita solita, per così dire: comune, ‘feriale’, ma nuova e assolutamente diversa da prima, perché era la vita di coloro che erano divenuti cristiani ed erano partecipi del mistero della resurrezione di Cristo. Questo ha un valore di segno e di memoria anche per noi che, di solito, non possiamo avere il ricordo vissuto del nostro battesimo e ci siamo abituati ad esso, fino al punto di non saperne più avvertire la carica di novità. Il Tempo di Pasqua sembra diventare più trasparente e leggibile verso la fine: con la settima domenica in cui celebriamo l’Ascensione. Una festa infinitamente suggestiva e vera, se si riesce a purificarla dai residui ‘ascensionistici’ dell’infanzia e del catechismo; si sa che non è tanto facile liberarci dai riflessi infantili, nonostante tutta la cultura e la riflessione che possiamo avervi messo sopra in seguito. Una festa in cui ricordiamo il passaggio di Gesù dalla terra, che esprime condizione umana, al cielo, che esprime condizione divina, «alla destra di Dio». Un passaggio che certo non è da collocare in un momento preciso, riconoscibile (la tradizione sinottica lo differenzia dalla Resurrezione, il quarto evangelista no) e che soprattutto non riguarda Gesù solo, anche se Gesù ci apre la strada: l’Ascensione è memoria del fatto che anche noi siamo protesi fra terra e cielo e anche noi un giorno, come dice il Salmo responsoriale, gusteremo dolcezze senza fine alla destra di Dio. Questo tempo ci ricorda la nostra impegnativa libertà. Ogni giorno siamo chiamati a un ri-orientamento nello Spirito, a rinnovare la nostra adesione – e ciò non significa ripetere, significa immergersi nel flusso del piano di Dio e imparare a leggere la storia con altri occhi. Il tempo di Pasqua è tempo della fede per eccellenza. Dunque anche tempo della speranza, che è la fede stessa nel suo risvolto dinamico; e tempo della carità, perché l’amore fraterno, esteso fino a ‘fraternizzare’ tutta la comunità umana e il cosmo, manifesta e rende sperimentabile, comunicativa la salvezza in cui abbiamo creduto, e diventa strumento dello Spirito per la trasformazione del mondo. Lilia Sebastiani CINEMA Giacomo Gambetti I l regista Nanni Moretti, specialmente negli ultimi tempi, ha sempre organizzato, attorno ai propri film, una abile campagna pubblicitaria. La qual cosa è assolutamente legittima. Da tempo si parlava di questo Il Caimano, in una atmosfera di mistero e insieme di allusioni. Sono trapelate indiscrezioni, abbastanza consistenti, sui riferimenti politici della trama. Addirittura sui riferimenti biografici: si era infatti detto che si trattava addirittura di un film sul Presidente del Consiglio dei Ministri, Silvio Berlusconi. Con questa pseudoinformazione – in realtà mai ufficialmente avvalorata da nessuno – si è andati avanti fino all’uscita del film sugli schermi, una decina di giorni prima delle elezioni politiche del 9/ 10 aprile. Precisando, a puro titolo di cronaca, che il sottoscritto scrive queste note prima dell’esito delle elezioni suddette (intendendo comunque parlare di cinema, non di politica), occorre dire che si tratta innanzitutto di un film moralistico e sentimentale su problemi di famiglia e di solitudine. Del resto, molti film di Moretti hanno comunque uno sfondo narrativo di carattere più o meno politico, anche se l’origine politica di oggi è assai concreta. Ma è davvero così? Il personaggio-Berlusconi, in realtà, è un protagonista soltanto casuale, ma qui occorre forse riflettere su quel che il film non è. Non è, infatti, un film biografico, e non è neppure un film particolarmente polemico, considerando che gli aspetti polemici attorno al personaggio sono da tempo molto noti – esistono molti libri al riguardo –, e non hanno per varie ragioni chiuso la que- Volere è potere Il caimano stione né sul piano morale né sul piano politico. Per dirla chiara si può ipotizzare che Moretti – che, oltre che regista, è il principale autore della sceneggiatura – avesse forse intenzione di realizzare un film tutto attorno al complesso personaggio del Presidente del Consiglio, ma che strada facendo non abbia avuto la volontà di portare fino in fondo il suo progetto. In tal modo il progetto è rimasto uno spunto annacquato in una storia in parte malamente desunta dall’8½ di Fellini, in parte modernizzata col porre l’accento su una crisi coniugale. A questo punto le tre – chiamiamole – storie si intrecciano abbastanza casualmente, e il regista Moretti (sullo schermo l’attore Silvio Orlando) non riesce a portare avanti il primo progetto. L’attore che doveva interpretare Berlusconi – cioè Michele Placido – si ritira perché ha paura del suo stesso personaggio, e a chi qui scrive pare che lo stesso timore di affrontare fino in fondo il Personaggio sia del regista Moretti, intendiamo il regista del film Il Caimano. Rimangono così incompiute sia la storia della crisi coniugale sia quella della crisi professionale, mentre nel finale del film rispunta, con una concione che sa molto di appiccicaticcio, il personaggio Moretti-Berlusconi. Se è così, se la nostra interpretazione si avvicina alla verosimiglianza, occorre dire che è spiacevole che il primissimo progetto del film non sia andato avanti completamente. Forse Moretti non ha né le corde spettacolari di un solido film americano (ad esempio Tutti gli uomini del Presidente) né quelle comico-drammatiche del Chaplin de Il grande dittatore. Il suo film migliore è e rimane La Messa è finita, in cui con semplicità e chiarezza pone in evidenza alcuni elementi politicomorali della vita di oggi. Il Caimano è di certo industrialmente più ricco dei film precedenti, rispetto al regista Moretti (complessità intellettuale, ricerche psicologiche a volte un po’ forzate), ma la sua ambizione di offrire il quadro degli anni Duemila rimane frustrata da una mancanza di coordinamento prima di tutto nella sceneggiatura e poi da una stringatezza registica imprecisa e incompiuta. In parte la sorte de Il Caimano è simile a quella de La tigre e la neve. Infatti i due temi forti, rispettivamente nel film di Benigni la guerra in Iraq, in quello di Moretti il personaggio e le vicende-Berlusconi risultano appena sfiorati. Sembravano voler essere al centro di tutto, ma poi vengono lasciati in disparte, quasi che non si abbia la forza di portarli fino in fondo. Il risultato è di una sostanziale evasione, di una evanescenza nel complesso alquanto deludente. Ci rendiamo conto che l’analisi del film può anche essere, in qualche modo, rovesciata fino a rivalutare una apparente ricchezza narrativa: ma il sostanziale disordine strutturale in cui Il Caimano troppo spesso naviga ci fa propendere, non senza dispiacere, per l’ipotesi meno nobile. Azzardiamo una previsione? Se la candidatura di partecipazione del film al festival di Cannes – che è una eventualità al momento in cui scriviamo – andrà in porto, quasi quasi scommettiamo su un forte apprezzamento de Il caimano da parte dei «cugini» francesi: il film ha molti caratteri vicini a una certa «intellettualità» a loro cara. Una osservazione non solo di pura curiosità: è bravissimo, in un ruolo d’attore non tanto di fianco, un grande regista, il caro amico Giuliano Montaldo. ❑ 57 ROCCA 1 MAGGIO 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO guardare oltre le apparenze, di illuminare, di rinnovare e di risanare. Questo protagonismo dello Spirito deve diventare una realtà sperimentabile. Troppo spesso, lo Spirito sembra latitante nella Chiesa istituzione, troppo spesso viene dimenticato di fatto; anche se debitamente rispettato a parole, e anche se (o proprio perché) troppo spesso chiamato in questione per giustificare scelte e decisioni e rifiuti un po’ troppo umani. Nella celebrazione del Venerdì Santo si legge la passione secondo Giovanni: piuttosto diversa da quella raccontata dagli altri evangelisti, regale e austera, senza agonia nel Getsemani, senza aspetti di sconfitta umana, drammatica ma già trionfale, culmina nel momento della morte di Gesù in croce con la misteriosa annotazione: parèdoke to pnèuma (‘diede’, ‘consegnò’ lo Spirito; anche se di solito viene tradotto con ‘spirò’, assolutamente insufficiente). Quello pnèuma è il suo respiro supremo di uomo soggetto alla morte, ma è anche lo Spirito. Non è necessario operare una scelta fra le due letture: spiritualmente è molto più ricco tenerle insieme. Da questa prima effusione dello Spirito, cosmica e tuttavia implicita, sembra snodarsi il cammino della primissima comunità, ma anche in germe il cammino nostro, verso l’approdo universale del dono visibile dello Spirito. RF&TV ARTE Roberto Carusi Renzo Salvi Mariano Apa Grottesca tragedia ROCCA 1 MAGGIO 2006 L ’incipit dello spettacolo Lasciami andare madre è un incubo – che dal sonno prosegue nella veglia – per la protagonista. Intorno a lei una «selva oscura» che, a seconda della illuminazione, rivela sotto tronchi e radici apparenti la realtà di inerti corpi umani. È un bell’impianto scenico ideato da Enrico Job. Questo insolito libro musikdrama di Lina Wertmüller e Helga Schneider (autrice dell’omonimo libro da cui è tratta la pièce) prende spunto dalla vicenda autobiografica della scrittrice. La madre l’abbandonò quand’era ancor bambina per seguire la follia hitleriana e mettersi al servizio del regime nazista. Andò infatti a svolgere con totale dedizione il ruolo di guardia cinica e spietata delle SS. È la donna stessa – ormai novantenne – a rivelarlo nell’incontro con la figlia ritrovata, della quale tuttavia l’anziana signora continua, lucida o vaneggiante che sia, a volere negare l’esistenza in vita. La figlia, da parte sua, si dibatte con disperazione tra il ricordo – che cerca di fare riaffiorare nella madre – dei tempi andati e la insopprimibile esigenza di liberarsene lei stessa. Una azione che non è azione, se non quella di rivivere interiormente – ciascuna a suo modo – l’angosciosa vicenda. Un preciso riferimento storico: il nazismo, che si fa emblema tuttavia di una più complessa disumanità nella negazione della realtà. Oggetto o simbolo di questo tempo senza tem58 po è una grande pendola che Job ha posto al centro della sua scenografia ed è un orologio senza lancette. Milena Vukotic è lucida e struggente nei panni della figlia, combattuta tra il rimpianto e il rifiuto di una madre siffatta. A dare gesto e voce alla vecchia terribile sua genitrice è invece nientemeno che il bravo Roberto Herlitzka, che riesce a dare credibilità all’incredibile personaggio. Alla Wertmüller autrice e regista va il merito di avere accentuato con rigore il versante grottesco del diagolo tra le due donne. E lo fa incorniciandone talora le battute con un coinvolgente sottofondo musicale – dovuto a Italo Greco e Lucio Gregoretti – che evoca l’atmosfera di certe ballate di Bertolt Brecht e Kurt Weill. Il che aiuta anche lo spettatore a prendere – per così dire – le distanze dall’angosciosa atmosfera. Sicché il distacco finale tra le due donne (ennesimo assopimento o commiato, forse definitivo, della madre o – più probabilmente – la scelta della figlia di liberarsi finalmente da quel luttuoso capestro ombelicale) fa tirare un sospiro di sollievo anche a chi vi assiste. Con la valida coerenza stilistica della messinscena, lo spettacolo – pur appartenendo al cosiddetto teatro di narrazione – ne evita scogli e secche per la forza con cui i due eccellenti interpreti riescono a evidenziarne le due figure da loro impersonate. ❑ Mostri: nel frastuono dei media C onvenzionalmente si definisce «withe noise», rumore bianco: è il sussurro diffuso, il mormorio di fondo, la base, sonora e non solo, di cui è sparsa la vita quotidiana per il fluire, il sommarsi ed il frangersi dei mezzi di comunicazione soprattutto audio/ e/visivi. È entrato – questo rumore – nella nostra abitudine percettiva: non lo cogliamo più anche se fa da paesaggio sonoro sottotraccia delle nostre vite: musiche, notizie, informazioni, immagini, commenti, opinioni, vaneggiamenti, chiacchiera, jingle, spot… Ma talora dirompe: sale nei toni, muta di livello comunicativo, assorda. Accade nella prossimità di eventi di alta intensità emotiva: è accaduto nel caso, drammatico sin oltre la tragedia della morte, del rapimento e dell’uccisione di un bimbo dai riccioli biondi e dai grandi occhi chiari, di nome Tommaso. Lo scatenamento è stato immediato e senza regole: dalla cronaca è passato a precipizio agli approfondimenti giornalistici (radio e televisivi) e da questi ai contenitori di banalità chiacchierata dei pomeriggi tv ed ai programmi/rissa notturni delle emittenti televisive locali. Ciascun ambito è riuscito – accade in questi casi – a dare il peggio di sé: sino alla scoperta con telecamera del Tg1 al seguito, da parte delle forze di polizia, di una (ad oggi almeno incerta) prigione preparata per il piccino rapito; sino all’aggrovigliarsi del comunicare, per interviste, battute ed allusioni, nei meandri meno chiari scoperti a margine della tragedia in corso; sino a protagonismi del tutto inattesi persino per il frastornante e frastornato mondo dei media. Nel tormentone mediatico in cui compariva un padre stremato ma perennemente in video forse persino per un (quanto ben inteso?) senso del dovere, e in cui si intrecciavano i confronti e le mille parodie del confronto tra esperti ed «opinionisti», dentro il susseguirsi di dirette tv in postazione esterna per dire che non c’era nulla da dire, è così accaduto di vedere la recita di uno, almeno, dei sequestratori/assassini nel ruolo di chi si appella alla dignità, all’umanità e alla giustizia. Il mostro s’è nascosto nel frastuono, perché il frastuono consente ai mostri di mimetizzarsi. Esponendosi. Perché il frastuono propone mostri: mascherandoli. E questo è possibile perché non è la realtà quella che va in pagina e va in onda, in questi casi, ma una sorta di reality che nella realtà ha soltanto tragiche radici. Poi tutto diviene costruzione del verosimile e dell’inverosimile narrati come realtà. Per giorni il bimbo Tommaso sembrava essere scomparso da un’informazione tutta volta a fatti laterali morbosi, ad una scatola con molto denaro, ad improbabili rincorse di un povero cagnetto. La magistratura, il suo onesto silenzio e la sua dolorosa autocritica per non aver potuto salvare il piccolo pur avendo raggiunto i colpevoli, in conferenza/stampa è stata svillaneggiata da qualcuno che aveva partecipato alla costruzione del frastuono confuso. È parsa una vendetta ed una chiamata a render conto di un mancato allineamento alla scombinata farsa della cattiva comunicazione. Quei magistrati sono invece da ringraziare: per aver lavorato seriamente. E per averlo fatto in silenzio. ❑ FOTOGRAFIA Alberto Pellegrino I Borromeo S i dice della Milano di Rosmini e di Manzoni e, magari, viene da pensare al Gallarati Scotti e al Fogazzaro se si pensa a taluni sviluppi della cultura della modernità. E dunque si deve nominare la realtà di quella novità assoluta che è la testimonianza radicale della radicalità evangelica, nel corpo straziato e glorioso di Carlo Borromeo e nel corpo austero e di autorità pastorale, di Federico. Così il Concilio di Trento sviluppa la Riforma Cattolica dell’Europa futura e disegna una qualità ecclesiale dell’arte che rende il Duomo la casa del popolo di Dio. La mostra che Paolo Biscottini propone nel Museo Diocesano che dirige, fino a maggio, «Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano spagnola» è una esposizione molto importante e molto pertinente in questa attuale Europa, ed è un utile confronto a cui tutti siamo chiamati a rispondere. Il Cardinal Tettamanzi scrive: « I due arcivescovi Borromeo hanno saputo, in modi diversi, interpretare il loro tempo e, pur nelle non piccole angustie epocali, liberare le forze positive della speranza in Cristo e nella sua Chiesa. La dominazione spagnola, la peste, ma anche le difficoltà di una Chiesa che cerca di rinnovarsi secondo gli indirizzi emanati dal Concilio di Trento – nonostante le eresie – anziché inceppare il cammino di san Carlo lo rendono via via sempre più vigoroso nella donazione totale di sé a Dio e al suo popolo. Si racconta che, morendo, egli contemplasse il dipinto», continua il Cardinale, «di Giulio Campi raffigurante Cristo nell’orto: l’arte, dunque, come riproposizione della storia sacra e insieme come occasione per ripensare al suo mistero. Questa mostra, parlandoci del periodo di san Carlo e di Federico Borromeo», conclude l’Arcivescovo di Milano, «non può non prescindere da una simile concezione dell’arte, che in questa occasione viene presentata non solo sotto il profilo storico, artistico e culturale, ma anche come meravigliosa opera della creatività dell’uomo alla ricerca di Dio». Da Paolo Biscottini che introduce, a Luigi Crivelli che spiega San Carlo Borromeo, alla Antonietta Crippa che analizza l’icona dell’altare, a Ernesto Brivio che spiega il rapporto tra i Borromeo e il Duomo, i numerosi saggi del volume bene ci guidano al viaggio splendido dentro la mostra quale itinerario del corpo glorioso. E scorrono allora le opere di Gaudenzio Ferrari e del Moretto, Giovanni da Monte e dei Campi, il Cerano, il Morazzone, Cairo, Lo Mazzo e Figino, Peterzano e Procaccini, Serodine, il Nuvolone. E sono e saranno ancora le grandi movimentate scene delle Visite Pastorali e le Processioni per il Sacro Chiodo, a portarci la creativa inquietudine delle Sacre Rappresentazioni ai Sacri Monti e dunque a ricordare il giovane Testori che scopriva il Seicento Lombardo e da cui quel suo scrivere nella sapienza oratoriale che, ancora una volta, attraversando i decenni e i secoli si portò a ricongiungersi nella condizione del rito ambrosiano al Manzoni e al San Carlo Borromeo. ❑ Marilyn and friends N ella prestigiosa sede fiorentina di Palazzo Vecchio gli Alinari hanno allestito nel periodo dicembre 2005-gennaio 2006 la mostra Marilyn and friends (Catalogo Fratelli Alinari, Firenze, 2004) dedicata alle opere del fotografo americano Sam Shaw (1912-1999) e del figlio Larry (1937), che rappresentano l’universo di «celluloide che ruota intorno alla mitica figura di Marilyn Monroe. Roland Barhes ha scritto nel 1957 un saggio (Mythologies), in cui sostiene che i miti del XX secolo sono una forma di linguaggio e che, costituiscono, all’interno dei loro limiti storici, un sistema di comunicazione capace di trasmettere precisi messaggi ed usa come esemplificazione due volti «mitologici» di quel periodo: Greta Garbo e Audrey Hepburn. Marilyn Monroe rappresenta il mito della generazione successiva per la sua bellezza fisica, per le tragiche vicende della sua vita, per quel suo essere attraente e sfuggente, seducente e peccaminosa agli occhi di molti. Sam Shaw ha il merito di rappresentare in queste foto una donna semplice e vivace, naturale e spontanea, quasi sempre lontana da quei modelli figurativi spesso standardizzati che ne hanno fatto un’icona universale del XX secolo immortalata persino da Andy Warrol. Shaw, insieme al figlio Larry, ricostruisce anche il mondo del cinema che ruotava intorno a Marilyn con immagini scattate non solo ad Hollywood, ma anche a Parigi e a Roma, dove negli anni Sessanta passava molta parte del cinema internazionale. Sam Shaw, che il regista-attore John Cassavetes da definito «il moderno Prassitele che rivela la bellezza della nuova Afrodite», realizza immagini particolarmente suggestive di Marlon Brando e di altri divi fra cui Clark Gable, Gregory Peck, Cary Grant, Antony Quinn, Paul Newman, Sean Connery, Woody Allen, Elisabeth Taylor, Ursula Andress, Mia Farrow, Melina Mercuri, Jane Fonda, Romy Schneider; le francesi Catherine Daneuve e Juliette Greco; le «stelle» italiane Anna Magnani, Silvana Mangano, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Claudia Cardinale e Marcello Mastroianni; infine i registi Alfred Hitchcock, Jean Renoir, Otto Preminger e Vittorio De Sica. L’assemblaggio di tutti questi ritratti riesce non solo a rappresentare gran parte del mondo cinematografico, ma anche uno spaccato di costume del Novecento. ❑ 59 ROCCA 1 MAGGIO 2006 TEATRO SITI INTERNET MOSTRE Michele De Luca Giovanni Ruggeri U ROCCA 1 MAGGIO 2006 S 60 Telefonare gratis bardo che durante le riprese del film Africa sotto i mari cambiò «d’ufficio» il suo cognome in quello che sarebbe rimasto come definitivo, e cioè Loren. Le bellissime foto di scena, i ritratti realizzati da maestri dell’obiettivo come Richard Avedon e Tazio Secchiaroli, gli abiti firmati da Dior, Armani, i gadget, tutte le locandine e i manifesti, i premi, i copioni dei suoi film e, su maxischermi, lo scorrere dolcemente ossessivo delle pellicole più famose e di rari spezzoni: una goduria. Da La bella mugnaia a Ladro lui, ladra lei, da Arabesque con il mitico Gregory Peck a La Miliardaria, da Il Viaggio con Burton a La moglie del Prete, da C’era una volta di Rosi, sullo sfondo della Certosa di Padula, a Pane amore e… con il «Mambo Italiano» ballato con un De Sica magistralmente «turbato» da tale straripante bellezza, da Una giornata particolare, al fianco del grande Marcello (con cui ha girato ben quattordici film, i più amati dall’attrice), fino al capolavoro de La ciociara, che le valse l’ambitissima statuetta d’oro dell’Oscar. «Tutte le cose che ho scelto per questa mostra – ha detto ancora la Loren – hanno un senso preciso, ricordo perfettamente tutte le cose a cui sono legate». ❑ na rivoluzione permanente, con continui colpi di scena, sofisticate innovazioni tecnologiche, agguerrite campagne commerciali. Si presenta così il frastagliato panorama della telefonia (italiana e internazionale), ambito imprescindibile della vita quotidiana che si arricchisce ora di strabilianti innovazioni provenienti da Internet, la cui nuova frontiera si chiama VoIP. Già un anno e mezzo fa avevamo segnalato questo fenomeno, all’epoca poco più che agli inizi (cfr. Rocca, n. 22, 2004), ma sappiamo già come, in ambito tecnologico-informatico, un tale lasso di tempo sia fin troppo ampio. La struttura tecnologica di base non è cambiata (VoIP significa Voice Over Internet Protocol, ossia comunicazioni audio-video effettuate mediante la rete/protocollo Internet da computer a computer, da computer a telefono fisso e cellulare, da telefono fisso a computer), ma sono cambiate alcune condizioni che ne condeterminano qualità e praticabilità: prima tra tutte, la diffusione di connessioni Internet veloci, a costi accessibili e disponibili 24 ore su 24 (non è per nulla il massimo, ma la stessa Adsl nostrana, commercializzata da Telecom Italia o da altri operatori, dà già risultati soddisfacenti). La novità di rilievo è la diffusione di programmi che consentono di telefonare a costi ridottissimi, o addirittura gratis, da computer a telefono fisso o cellulare, come pure effettuare gratuitamente audio e videoconferenze di qualità a costo zero. Il miglior esempio nella prima categoria, da noi personalmente testato, è offerto da Voipstunt, un programma gratuito e ancora in fase di sviluppo con il quale si può telefonare gratuita- mente (avete letto bene: gratuitamente) in Italia e in una cinquantina di Paesi di tutto il mondo, dalla Germania alla Georgia, dalla Colombia alla Cina, dal Venezuela a Spagna, Irlanda, Ungheria ecc. ( www. v o i p s t u n t . c o m ) . Decisiva, per avere una buona qualità audio, è la connessione Adsl, mentre per comunicare bastano un comune microfono e cuffia o altoparlanti per computer. Tuttora in prima linea nella telefonia VoIP è l’ottimo Skype (www.skype.com), programma sviluppato anche in lingua italiana che spicca tra tutti per qualità di comunicazioni da computer a computer, con buoni risultati anche nella videochiamata da pc a pc. Skype, come del resto Voipstunt e analoghi programmi, prevede anche la possibilità di acquistare credito telefonico per chiamare in tutto il mondo da computer a telefono, ma le sue tariffe non riescono a competere con quelle di Voipstunt (in molti casi gratuito, come segnalato). Mentre i grandi protagonisti di Internet si sono già attrezzati (vedi Yahoo!) o si stanno attrezzando (vedi Microsoft) per competere su questa nuova frontiera (Skype conta ben 23 milioni di abbonati), nuovi soggetti sorgono, spesso con apprezzabili risultati: è il caso, ad esempio, del francese WengoPhone e dell’italiano Skypho, disponibili rispettivamente in www.wengo.com e www.skypho.net. Per non dire poi delle molteplici funzionalità che tali programmi assicurano, dalla segreteria telefonica gratuita all’assegnazione di un nuovo numero gratuito e inoltro di telefonate su altri numeri, ecc. Insomma, una vera e propria fioritura di innovazioni, che ce ne farà sentire e vedere – letteralmente – delle belle. ❑ Nadine Gordimer Sveglia Feltrinelli, Milano 2006, pp. 175 La Gordimer, dalla vita lunga e travagliata ma calda e impavida, con «Sveglia» si discosta dai temi che le sono stati più cari, vissuti in prima persona: l’apartheid, il totalitarismo, l’inizio della democrazia in quel Sud Africa, del quale è figlia, vessato e sfruttato per troppi anni. Ha più di ottant’anni ma ancora tanta voglia di cimentarsi con la pagina bianca che, con «La storia di mio figlio», le valse nel 1991 il Nobel per la letteratura. Per questa sua ultima fatica dismette i panni della dolente cronista di martiri e soprusi consumati in una Johannesburg che, se ci arrivi dal cielo, ti accoglie su di un tappeto lilla di petali della jacaranda, quasi a nascondere e obliterare il sangue nero di cui è intrisa, per affrontare l’attualità più stringente e dolorosa . Va dalla malattia del figlio, al nucleare, ai dissennati progetti di stravolgimento ecologico, ma sottotraccia permane la dura realtà del quotidiano rapportarsi con gli amori viscerali, i rapporti interpersonali, l’urlante sangue della madre davanti alla malattia del figlio Paul. Questi si trova a vivere una quarantena lontano dalla sua famiglia, con una moglie in carriera e un figlio piccolo che non può abbracciare e del quale non può godere l’imparare quotidiano del suo crescere, perché è «luminescente» dopo una serie di applicazioni radioattive per sconfiggere un cancro alla tiroide. E allora è il giardino della sua casa natale il luogo deputato allo spaesamento, alla confidenza, al pianto, all’amore, al recupero dei rapporti con i genitori- gente borghese ed elitaria- dove ogni identità è labile. La solitudine in cui è confinato e i pensieri diventano l’obiettivo di un fotografo che ingrandisce le im- magini facendo affiorare dall’indistinto sempre particolari nuovi, scoprendo universi incasellati uno nell’altro: le infedeltà del cuore, le contraddizioni fondamentali fra i valori che guidano il suo lavoro di impegnato ecologista e quelli della moglie che dirige un’agenzia pubblicitaria, i rapporti all’interno della sua famiglia di origine dove tutto si sfalda nelle regresse infedeltà della madre e le scelte ultime del padre che se ne va in Messico sì per sete di sapere , ma anche per trovarvi una nuova dimensione affettiva. Sdoganato finalmente dalla luminescenza, consapevole di aver perduto l’amore della familiarità quotidiana, la capacità di sentirsi appagato e felice della ripartizione sempre nuova di ciò che rende incantevole lo scorrere del tempo, deve cominciare a ricostruire il proprio sé e il proprio posto nel mondo in cui nulla in apparenza è cambiato. Caterina Dalle Ave C.M. Martini, D. Tettamanzi, F. Riva, S. Xeres Dalla città accogliente alla città aperta Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2005, pp. 166 Da diverse prospettive gli autori affrontano uno dei temi attualmente più dibattuti: la crisi della città come luogo di appartenenza e di partecipazione. La violenza nelle periferie delle grandi capitali europee, per diversi giorni sulla prima pagina dei quotidiani nazionali, è un segnale d’allarme, e punta il dito sulla mancanza di politiche sociali capaci di ridurre l’emarginazione e la povertà. Oggi più che mai occorre ripensare la città a partire dalle periferie, dove le differenze possano avere il diritto di esistere. «Una città per tutti» sostiene Franco Riva, docente di Etica sociale, dove non ci sia esclusione per nessuno. Una città che recupera i ‘volti’ mediante la costruzione di luoghi d’incontro ed è accogliente perché promuove la partecipazione, la giustizia e la solidarietà. La città è il luogo della identità, aggiunge il cardinale Martini, che si «ricostruisce continuamente a partire dal nuovo e dal diverso». Il compito precipuo della città è la promozione di tutti gli uomini. Un’attenzione particolare e doverosa va rivolta agli immigrati, ricorda Dionigi Tettamanzi, l’attuale arcivescovo di Milano, di cui occorre favorire il «radicamento» nella città che li ospita. Nella città nessuno deve sentirsi «forestiero», nel senso più ampio della parola: può esserlo l’indigente che non trova solidarietà, il malato dimenticato, l’anziano solo, il giovane senza prospettive per il suo futuro. Occorre, allora, rimettere al centro i diritti fondamentali degli uomini e progettare una città che abbia il volto della nuova Gerusalemme, la città santa, accogliente e aperta, «un luogo in cui le moltitudini vivono in armonia, in un intreccio di relazioni molteplici e costruttive». In questa città ideale il tempo ha un ritmo più umano, non schiavo della frenesia: è tempo per l’arte, la musica, il teatro, la cultura, la relazione. Infine per Saverio Xeres, nell’epoca attuale della globalizzazione, forse, non c’è più posto per le città, nel senso che sembra ridursi nelle persone la possibilità di sentirsi partecipi delle scelte di una comunità che diventa sempre più complessa e ampia. Sembra anche che non ci sia nella città un posto preciso per la Chiesa cattolica, dal momento che nella «città globale» coesistono culture, costumi e religioni diverse. Tuttavia, anche in una situazione di tale precarietà si rende sempre possibile l’incontro tra Dio e l’uomo, che è alla base di una convivenza dal volto umano. Franca Cicoria Aldo Bodrato Scritte sulla pelle Ediz. Portalupi, Casale Monferrato (To) 2005, pp. 112 Questo libro di poesia ci sembra richiedere due livelli di lettura. Il primo, immediato, estetico; l’altro, filosofico-teologico. Non nel senso che troviamo da una parte i versi e dall’altra i versi con i pensieri e le riflessioni, ma il registro estetico è quello più facilmente fruibile perché la sua forma è data da una polifonia drammatica che raggiunge i toni ora sussurrati ora urlati della contemporaneità, come nella poesia del terrorista: «Sono un corpo imbottito di tritolo,/destinato a esplodere/ nell’abbraccio con l’altro./Sono uno che vola in brandelli/in mezzo a una folla di bambini, /di donne,di giovanili vecchi/ per straziarli straziandosi»(…) «sono una scolaretta ricamata di porpora /da una sventagliata di kalashnikov/ sulla scuolabus di una colonia…». Oppure nell’eterna lotta dell’uomo con Dio: «Invisibile,/ non inafferrabile. Uno come me/che sa bene incassare». Versi spezzati, anche nel resto del libro, che ripercorrono un notevole arco di anni dell’Autore, e fanno rivivere gli incontri dolcissimi con la natura e le notti di luna e i sogni e l’amore, e si fanno preghiera. «Il travestimento estetico è sempre una minaccia per l’esperienza religiosa», avvertiva Kierkegaard. Ma la preghiera di Bodrato non si «traveste» di rime, semmai la preghiera è il registro notturno della sua ricerca che dice inquietudine e intreccio di pensieri profondi. Forse perché di Dio non si può parlare ma si può solo invocarlo, gli interrogativi stessi in queste pagine trascolorano nei toni del vocativo. Anna Portoghese 61 ROCCA 1 MAGGIO 2006 Sophia Loren cicolone, Lazzaro, Loren. Tre cognomi per una vita». È questo il titolo della bella mostra allestita nelle sale del Vittoriano a Roma per celebrare cinquant’anni di carriera della nostra attrice più amata ed apprezzata nel mondo; a Sophia: basterebbe il nome di battesimo soltanto per identificarla inequivocabilmente in tutti i continenti del pianeta, come Leonardo, o Raffaello… eppure l’attrice lungo la sua carriera ha avuto un cognome vero (Scicolone) e due cognomi «adottati», e cioè Lazzaro e Loren, il primo per il periodo degli esordi e dei concorsi di bellezza, il secondo per il resto della vita contrassegnato dalle massime affermazioni nel cinema italiano ed internazionale. A questa indiscussa icona del cinema e della bellezza italiana è dunque dedicata una rassegna (curata da Vincenzo Mollica) allestita nell’Ala Brasini del bianco monumento che domina su Piazza Venezia. Un percorso senza segreti, dai primi concorsi di bellezza, come il «Principessa del Mare» nella natia Pozzuoli fino ad arrivare alla partecipazione a «Miss Italia» del 1950; per proseguire a Roma dove comincia come «comparsa» a Cinecittà nel colosso Quo Vadis (una acerba Sophia che saluta i condottieri delle legioni romane lanciando fiori tra grida di gioia) e approda alla realizzazione dei primi fotoromanzi e cineromanzi in cui incomincia ad imporsi la sua personalità artistica. Tra il ’50 e il ’52 al suo nome seguiva il cognome Lazzaro; e qui fu fondamentale l’incontro con il produttore Goffredo Lom- LIBRI Eritrea ROCCA 1 MAGGIO 2006 S tato dell’Africa orientale, l’Eritrea è bagnata a est dal Mar Rosso (da cui il Paese prende il nome; dal greco erythros, «rosso») e confina a sud-est con Gibuti, a sud e a ovest con l’Etiopia e a nord e a nord-ovest con il Sudan. Verso la metà del XVI secolo i turchi si impadronirono di tutta la zona costiera e la dominarono per i successivi trecento anni. Dopo una breve parentesi di dominio egiziano intorno alla metà del XIX secolo, fu la volta degli italiani, che nel 1882 intrapresero una politica di colonizzazione dell’Eritrea meridionale. Nel 1889 l’imperatore etiope Menelik firmò un accordo conosciuto come il trattato degli Uccialli, nel quale cedeva agli italiani la regione che poi divenne l’Eritrea. L’Italia cominciò a finanziare lo sviluppo di questa nuova colonia, economicamente strategica, portando a termine grandi opere, tra cui un’importante linea ferroviaria che collegava Massaua a Asmara (la capitale), oltre a strade, ponti, gallerie e un sistema di telecomunicazioni molto efficiente per quei tempi. Negli anni Trenta l’Eritrea era la colonia più industrializzata dell’Africa, sebbene le popolazioni locali, spogliate della maggior parte delle terre e costrette a subire il giogo della colonizzazione, pagavano caro il prezzo dello sviluppo. Il dominio italiano cominciò a declinare quando, all’inizio del secondo conflitto 62 mondiale, l’Italia dichiarò guerra all’Inghilterra. Gli inglesi ebbero la meglio e così l’Eritrea divenne un territorio sotto mandato britannico, nonostante la vecchia amministrazione italiana continuò a occuparsi delle colonie fino al termine della guerra. Con una risoluzione delle Nazioni Unite del 1950, l’Eritrea divenne una provincia dell’Etiopia. Emerse da subito un profondo malcontento tra la popolazione eritrea, che si trovò sommersa in un vero e proprio giogo culturale. Nel 1960 l’Etiopia proclamò l’annessione formale, sebbene illegale, del territorio eritreo al proprio impero. L’anno seguente l’Eritrea entrò in lotta per l’indipendenza. La più lunga guerra africana del XX secolo durò più di trenta anni e costò la vita a più di 70.000 persone. Alla fine degli anni Ottanta, il disimpegno dell’Unione sovietica provocò il definitivo indebolimento del regime di Hailé Mariam Menghistu, che venne sconfitto nel 1991. Dopo due anni l’indipendenza del Paese fu ratificata da un referendum popolare. L’Eritrea si trovò così a dover affrontare una grave crisi economica e sociale, dovuta principalmente alle impellenti esigenze della ricostruzione. Nella seconda metà degli anni Novanta comparve nel Paese un’opposizione armata legata al fondamentalismo islamico, sostenuto dal regime sudanese, che avviò sanguinose operazioni di guerriglia. Quando l’Eritrea decise di adottare una nuova moneta, la nakfa e di stipulare accordi commerciali poco equi, si riaccese l’atavica rivalità con l’Etiopia. Nel 1998, un contenzioso territoriale tra i due paesi sulla sovranità del «Triangolo di Yirga» e sul diritto etiopico all’accesso al mare, si trasformò in una violentissima guerra che provocò decine di migliaia di morti e più di un milione di profughi. Colpiti da embargo internazionale e afflitti da una pesante crisi economica, nell’ottobre del 2000 i due paesi firmarono un trattato di pace. Le Nazioni Unite, due anni dopo, hanno creato una zona tampone lungo la linea di confine, affidandone il controllo a 4200 Caschi Blu e a 200 osservatori. Popolazione: la composizione della popolazione eritrea (che raggiunge i quattro milioni e mezzo di abitanti) è formata per un terzo da nomadi o semi-nomadi, etnicamente divisi in nove gruppi. Ciò nonostante, gli scontri tra i differenti gruppi etnici non hanno mai provocato seri problemi, dato che gli eritrei sono rimasti uniti dalla comune opposizione al dominio etiopico. Un recente rapporto di Amnesty International riferisce di costanti persecuzioni religiose e aumenti delle violazioni del diritto alla libertà di opinione e di coscienza. I dissidenti religiosi sono abitualmente sottoposti a cruenti metodi di tortura. Religione: circa la metà degli abitanti professa il cristianesimo copto, sebbene vi sia una sparuta mino- FRATERNITÀ Nello Giostra ranza di cattolici e di protestanti. L’altra metà è rappresentata da musulmani principalmente sunniti, con una minoranza di sufiti. Economia: la mancata soluzione della questione di confine con l’Etiopia spinge verso una costante mobilitazione militare che comporta ingenti spese che inevitabilmente aggravano la già precaria situazione economica. In aggiunta, il Paese, sconvolto anche da frequenti siccità, è ormai allo stremo e si stima che circa un cittadino su tre soffre di grave mancanza di cibo. Le risorse agricole costituiscono la fonte di sussistenza primaria per la maggioranza della popolazione, mentre l’industria leggera, sviluppata durante il periodo coloniale italiano e britannico, svolge un ruolo di secondaria importanza. Situazione politica e relazioni internazionali: se la situazione diplomatica tra Eritrea e Etiopia non si sblocca, i due paesi rischiano di precipitare di nuovo nella spirale della guerra. Bloccati ormai da cinque anni su posizioni inconciliabili, essi sono ai ferri corti e continuano ad ammassare truppe vicino alla zona-cuscinetto. Il 7 dicembre 2005 l’Eritrea ha espulso dal proprio territorio alcuni membri della missione di peacekeeping inviata dalle Nazioni Unite per monitorare la situazione di tensione al confine con l’Etiopia, la Unmee (United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea). Nel marzo 2006 alcuni mediatori internazionali si sono incontrati a Londra ed hanno iniziato i primi colloqui per tentare di risolvere l’annoso problema dei confini. ❑ Ho bloccato, ma ... Sono a disagio... e mi vergogno di battere ancora al vostro cuore, cari Rocchigiani. Da sei anni a Maria Elena è morto il marito consunto da un male incurabile a soli 47 anni. Tutto è stato speso per la lunga malattia, anzi c’è da estinguere ancora un prestito fatto con la banca e il prossimo mese scade l’ultima rata di mille euro. Recentemente ho provveduto io a non far pignorare quel poco che ha e ho bloccato tutto con 500 euro. Lavora assistendo vecchietti qua e là; ha cercato finora di farcela da sola tra un rinnovare le cambiali e rimandare i pagamenti, ma ora ha bisogno di una mano. Confido nella comprensione dei lettori più generosi. Ho sempre amato la vostra Cittadella, ho diffuso «Rocca» e ho un ricordo meraviglioso di voi tutti compreso Don Giovanni Rossi, il vostro fondatore. La luce di Gesù brilli su tutti voi e sul mondo. P.T. Ai cancelli ad aspettare Quando questa lettera vi arriverà sarete già alla fine della Quaresima, invito del Signore alla preghiera, alla mortificazione, ad amare il prossimo. Nonostante tante belle iniziative quanta povertà ancora, quanta tristezza qui in India. Abbiamo avuto recentemente diversi casi di suicidio di uomini stanchi di affrontare tanta miseria nelle loro famiglie. Qui vicino a noi c’è un lebbrosario dove ci sono diversi genitori e i bimbi ai cancelli ad aspettare. Ci sono i ragazzi della strada della nostra Bombay, ricca di 14 milioni di abitanti, baraccati, povere mamme ecc. Scusate la triste, purtroppo vecchia storia che «Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei più piccoli di questi miei fratelli lo avete fatto a me» Matteo 25, 40 non cambia nonostante la presenza di diverse opere, nonostante anche la nostra presenza con la carità di tanti benefattori. Senza di loro quanti i fratelli e sorelle, quanti bambini con gli occhi spalancati partirebbero lacrimando! Noi siamo riconoscenti ai Rocchigiani che ci danno la gioia di poter fare un po’ di bene. Vi raccomandiamo sempre i nostri poveri e con loro preghiamo perché Dio vi benedica sempre. Sentite nel vostro cuore il Suo: «Lo avete fatto a Me». Padre E.D. È molto grave Sicuramente ricordate Carmelo di 65 anni che da tempo convive con un tumoren che è stato causa di sofferenza e di disagio economico. In questi ultimi mesi le sue condizioni si sono aggravate e nonostante la chemioterapia è arrivato alla fine. Le spese per i viaggi frequenti sono tante e i debiti si sono accumulati. Vi ringraziamo di cuore se potrete dare un aiuto a quest’uomo buono e paziente il cui unico sollievo era quello di recarsi ogni giorno in una villetta poco distante da casa sua dove troneggia una bella statua in bronzo di Padre Pio, sedersi in raccoglimento vicino a lui, chiedendogli la pazienza e il coraggio di andare avanti secondo la volontà del Signore. La moglie lo assiste amorevolmente e non ha più lacrime da versare. Grazie per quello che i cari amici di «Fraternità» potranno fare. S.C. Un ghetto all’interno della città Si è presentata presso la Caritas parrocchiale, che regolarmente la assiste fornendole generi di prima necessità, la signora Consolata esibendo la vostra lettera in cui chiedevate una presentazione del Parroco. Nel territorio parrocchiale c’è un consistente agglomerato di case popolari che costituisce un ghetto all’interno della città. In questi tempi di difficile congiuntura economica sono oltre un centinaio le famiglie che assistiamo settimanalmente. Naturalmente non ci è possibile esaudire tutte le richieste come bollette non pagate, medicinali non mutuabili, casi di ragazze madri, ecc. Consolata ha quattro figli; due sono andati a cercare lavoro al nord, una è sposata e l’ultimo di trenta anni, separato, vive con la mamma. È disoccupato, fa qualche lavoretto saltuariamente; la mamma fa pulizie per qualche ora alla settimana, ma quanto guadagna non basta neppure per mangiare. Ha 57 anni ed è tanto avvilita perché non ce la fa più e rischia di cadere in depressione. Vi ringraziamo di cuore per quanto «Fraternità» e i cari lettori fanno in campo caritativo. Don A.R. Occorrerebbero molte pagine per pubblicare le lettere di ringraziamento pervenuteci dai beneficati dopo le feste pasquali; ne presentiamo alcune e per le altre vale, ai generosi amici, il nostro grazie! ... Dio vi benedica, vi dia tanta gioia come quella che ho provato io leggendo la vostra lettera proprio nel giorno delle mie nozze d’oro con l’altare del Signore! Questi vostri preziosissimi soldi (1.000 euro) serviranno per le nostre 50 culle «abitate» da neonati poverissimi. Nonostante i miei 74 anni sono contentissimo di servire ancora i poveri qui in Brasile. Auguro ancora molti anni a me e a tutti quelli che vogliono bene ai miei piccoli lebbrosi. Grazie. Padre A.T. «È ancora troppa». ... carissimi di «Fraternità», vi ringrazio ancora moltissimo per l’aiuto di 200 euro che mi ha dato la possibilità di pagare una spesa tra le più urgenti. Vi chiedo con tutto il cuore una preghiera per la mia famiglia tanto disgraziata. E.P. «Da offerte libere». ... grazie infinite per il vostro provvidenziale dono pasquale di 300 euro. Grazie anche perché con il vostro conforto spirituale sapete condividere la pena di chi, come me, è nella prova e riuscite a consolare la mia sofferenza. Vi ringrazio ancora e vi saluto fraternamente. M.I. «Dopo ogni sconfitta». ... cari amici, ci avete raggiunto, oltre che con la vostra amicizia spirituale e umana, con l’offerta di 500 euro, mediante assegno. Sempre grazie di cuore. A voi tutti il mio ricordo fraterno e la mia infinita gratitudine. Gesù Risorto vi benedica. Don G.B. «Da offerte libere». Si possono inviare offerte con assegni bancari, vaglia postali o tramite c.c.p. n. 10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi. 63 ROCCA 1 MAGGIO 2006 paesi in primo piano Carlo Timio rocca schede allarghiamo il cerchio di 2006 fai girare la formula promozione Rocca 6 mesi prova 3 mesi li paghi tu (solo 10 euro) 3 mesi li paghiamo noi Rocca - casella postale 94 06081 Assisi c.c.p. 15157068 inviare 10 euro sul c.c.p. 15157068 specificando l’indirizzo a cui inviare l’abbonamento semestrale promozionale