IO RESTITUISCO LA PACE Fin da quando ero bambino penso che
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IO RESTITUISCO LA PACE Fin da quando ero bambino penso che
IO RESTITUISCO LA PACE Fin da quando ero bambino penso che sia meglio morire in una giornata di sole, perché l’anima possa orientarsi facilmente quando si mette in viaggio verso il cielo. È per questo che ho sempre portato a termine i miei incarichi in giornate serene: una piccola attenzione per i disperati che si rivolgono a me. Attendo tutto il tempo necessario, fino a quando il cielo è perfettamente sgombro. Come nell’ultimo caso, quando la signora Taylor mi chiese di restituire la pace a suo marito, che non aveva più speranza di trovarla in questa vita dopo il bruttissimo incidente d’auto. Sì, io restituisco la pace. È la mia missione. La signora Taylor rispettava i requisiti: nessun interesse economico, solo il desiderio di sottrarre il marito a un’agonia senza speranza. Verificai le cartelle cliniche per accertarmi della situazione e mi feci assicurare dalla signora Taylor che il marito avrebbe acconsentito, se fosse stato in grado di comunicare. Ricevetti l’incarico un sabato di novembre, quando un cielo di piombo avvolgeva la città come una vecchia coperta umida e sgualcita. Consultai le previsioni meteo e informai la Taylor che avrei dovuto aspettare alcuni giorni. Non ci eravamo mai incontrati e comunicavamo con Skype attraverso un sito per la navigazione anonima. Nell’attesa della giornata ideale, preparai tutto l’occorrente; me lo procuravo in ospedale, dove svolgevo il mio normale lavoro di medico. Finalmente, il giovedì della settimana seguente, mi svegliai in una mattina luminosa. Giornate di pioggia ininterrotta avevano ripulito l’atmosfera e la luce poteva inondare la mia camera senza ostacoli. Appena aprii gli occhi capii che quello era il giorno giusto. Chiamai l’ospedale per avvisare che mi ero sentito male la notte e non sarei andato al lavoro. Non avevo tempo da perdere: mi aspettavano due ore di treno e volevo agire di mattina, per lasciare un buon margine all’uomo, prima che diventasse buio. Preparai la siringa e la riposi nella custodia degli occhiali, ben protetta da una spugna che avevo sagomato allo scopo. Lasciai il cellulare acceso sul comodino, per precauzione. La posizione dei telefonini viene registrata e conservata per anni negli archivi degli operatori telefonici: il mio sarebbe rimasto a casa a simulare la mia indisposizione. Uscii, e mentre ruotavo la chiave per chiudere la porta mi parve di sentire la suoneria del telefono: «Non ho tempo adesso, dirò che ho abbassato la suoneria perché non stavo bene e volevo dormire» pensai, immaginando il primario che mi chiedeva informazioni che avrebbe potuto ottenere facilmente consultando le cartelle dei pazienti. Raggiunsi la stazione e acquistai un biglietto, che pagai in contanti al distributore automatico. Durante il viaggio ripercorsi il piano con la mente: era un caso facile perché conoscevo bene quell’ospedale e non avrei avuto difficoltà a passare inosservato. In un grande ospedale nessuno fa caso a un medico che gira in corsia. Arrivai a destinazione a metà mattina, con un sole abbagliante che splendeva nell’aria fredda. Guardai in cielo: «Impossibile perdersi» pensai. Raggiunsi l’ospedale a piedi, entrai nel bar all’ingresso per attendere l’orario in cui sarebbe iniziato il giro dei controlli medici. Mi infilai nei servizi al piano terra, ne uscii in tenuta da medico e raggiunsi a piedi il reparto di Terapia del Dolore, al quarto piano. Le scale si affacciavano su una sala d’attesa in cui sostavano alcuni visitatori che erano stati fatti uscire durante le visite di controllo. Attraversai la sala cercando di non incrociarne gli sguardi, entrai nel reparto e raggiunsi la stanza in cui giaceva il marito della signora Taylor. Era solo. Il capannello dei medici stava entrando in una stanza al capo opposto della corsia, avevo tutto il tempo. Mi avvicinai al letto, l’uomo non poteva muovere la testa, solo ruotare gli occhi. Quando entrai nel suo campo visivo, i suoi occhi scuri sembrarono scavare dentro di me. Oltrepassarono il camice bianco, superarono l’artificiale tranquillità del mio sguardo, raggiunsero il mio cuore e si fermarono a fissarlo. E capì tutto. Non poteva muovere i muscoli del viso ma io percepii l’ombra di un sorriso che si disegnava sul suo volto. Estrassi la siringa e iniettai il contenuto nel condotto della flebo che lo alimentava con una soluzione fisiologica. Avrebbe agito in pochi minuti, giusto il tempo di riacquistare le sembianze di un normale visitatore e scomparire alla volta della stazione. Appoggiai la mano sulla sua fronte: «Tranquillo, fuori c’è il sole ed è una giornata limpidissima. Buon viaggio» gli sussurrai. Non indugiai oltre, riposi la siringa vuota nella custodia e mi avviai verso l’uscita. Attraversai la sala d’attesa su cui si affacciavano le scale e gli ascensori, gli stessi visitatori di prima stazionavano in attesa di poter tornare a condividere le sofferenze dei propri cari. Avrei preferito una via di uscita meno frequentata ma questa sala era l’unico accesso al reparto. Anche questa volta abbassai lo sguardo, che cadde su un paio di scarpe da jogging di un colore giallo fluorescente. Appartenevano a una donna sulla quarantina con il volto teso e gli occhi lucidi, che digitava freneticamente sul cellulare. Mi scrutò per un istante, sperai che non volesse chiedermi notizie che non avrei saputo darle. Non le diedi il tempo per farlo: mi divincolai dal suo sguardo, mi diressi senza indugio verso le scale e in pochi minuti ero già sulla via della stazione. Rincasai a metà pomeriggio, ero stanco e andai a stendermi sul letto. Stavo prendendo sonno quando mi venne in mente di controllare eventuali messaggi e chiamate. Accesi il display mentre pensavo a quali scuse inventare per spiegare perché non avevo risposto per ore. Notai che il telefono non si era annoiato in mia assenza: otto chiamate perse su Skype e svariati messaggi, tutti dalla signora Taylor. Sentii lo stomaco contorcersi quando lessi il primo messaggio: «Si fermi, non posso farlo.» Mi mancava il fiato ma andai avanti a leggere i messaggi seguenti: «Non posso abbandonare le speranze. La prego, si fermi.» «Mi dia un cenno, sono ferma all’ingresso del reparto e impedirò a chiunque di avvicinarsi a mio marito fino a quando non mi dirà che ha abbandonato la missione. Mi può riconoscere dalle scarpe gialle.» Rividi davanti a me le scarpe della donna e i suoi occhi azzurri, insieme disperati e indagatori. Il suo dolore esplose dentro di me, devastando ogni mia convinzione. Istintivamente, guardai fuori dalla finestra, il cielo era ancora limpido ma stava calando la sera su di me. È passato quasi un anno da quel giorno e ho ancora una missione da compiere, l’ultima. Sarà la più difficile, perché questa volta non posso contare sulla mia esperienza di medico. Non posso elaborare un piano, né prevedere le mie mosse, perché non so cosa mi troverò davanti dopo che avrò ricevuto l’iniezione letale che mi è stata prescritta per i venticinque omicidi, incluso quello di mio figlio. Come ultimo desiderio ho chiesto che l’esecuzione avvenga in una giornata di sole e oggi, dalla piccola finestra della mia cella, si scorge un piccolo riquadro di cielo azzurro. Oggi lavorerò per me, cercherò di ritrovare la pace andando a incontrare le venticinque persone a cui ho prestato la mia opera, per sentire da loro se ho fatto la cosa giusta.