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Stefania Lucamante
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UN BIENNIO DI NARRATIVA FEMMINILE : 1999-2000
L
a scrittura femminile ormai non conosce più una collocazione di
genere, così come veniva spesso teorizzato negli anni '80, un
genere a cavallo fra la scrittura diaristico-autobiografica e quella
finzionale. La dissoluzione di essenzialismi nella teoria del genere
sessuale, sin dai primi anni '90 visto ormai come costruzione sociale
(anche se materiata nel profondo della differenza sessuale come scrive
Judith Butler) ha inevitabilmente rotto anche gli argini legati al genere
di utilizzo espressivo. Questi ultimi due anni di editoria italiana
rivelano inconfondibilmente le ramificazioni del percorso narrativo
delle scrittrici. Abbiamo scelto un numero limitato di opere per fare una
(sommaria) campionatura: appare il giallo con Rossana Campo (ma
anche Alda Teodorani, Dacia Maraini, Laura Grimaldi), appare il
romanzo di ambientazione storica come quello di Elisabetta Rasy, in
cui viene tracciato un interessante ritratto del privato di una delle grandi
figure e teoriche dei diritti della donna, Mary Wollstonecraft;
l'autobiografia in La porta dell'acqua di Rosetta Loy che segue nel
ricordo gli anni dell'infanzia e della incomprensione per la parola
'ebreo', ο il romanzo d'epoca di Angela Bianchini in cui un amore
travolgente si consuma durante i difficili anni delle leggi razziali,
dell'antisemitismo e delle deportazioni; il romanzo semi-autobiografico
di Adele Cambria con le proprie riflessioni su cosa voglia dire per una
femminista vivere un rapporto d'amore, ma inteso in un senso
diametralmente opposto a quello in cui lei aveva sempre creduto;
Melania Mazzucco nella sua continua ricerca ed analisi della diversità,
questa volta incarnatasi, dopo il Bacio della Medusa, nell'immagine di
un'intellettuale svizzera, Annemarie Schwarzenbach; il taccuino e le
cronache di viaggi in Cina, in un paese letteralmente agli antipodi
dall'Italia e dalla cultura ed etica del nostro paese con Renata Pisu;
sempre à l'autre but du monde, Il paese dei figli perduti di Maria
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Cutrufelli, romanzo di una ragazza siciliana che parte alla ricerca del
proprio padre e di una dimensione diversa per la propria esistenza.
Fabrizia Ramondino, come sempre, scrive di mondi altri. Ma non in
senso geografico, perchè il suo libro si svolge a Trieste e non a Napoli
ο in zone vicine alla città partenopea. Ramondino parla invece del
Centro Salute, di un programma legato alla cosiddetta 'utopia' di
Franco Basaglia. Un gruppo di donne, un coro di voci che fanno da
contralto alle voci delle ragazze disinvolte e liberate di Rossana
Campo, parlando di problemi che come sempre Ramondino affronta
con grande delicatezza, profondità e sapienza scrittoria.
Rossana Campo, Mentre la mia bella dorme, Milano:Feltrinelli,
1999.
Lui ha tegato e io sono rimasta inchiodata a questa città, con l'afa e i
tossici accasciati sulle porte delle lavanderie a gettoni, coi mendicanti
e i clochard che salgono sul metrò e raccontano le loro tristi storie ai
passeggeri perchè hanno scoperto che se raccontano le loro storie i
parigini qualche soldo lo tirano fuori. (p.11)
Dopo alcuni romanzi in cui si avvertiva l'assenza di una trama ben
delineata come supporto al dialogo delle protagoniste, Campo ha
adottato per il suo ultimo romanzo il genere noir, molto usato fra le
autrici, italiane e non, come "pista investigativa" per tematiche care alla
questione femminile e al problema dell'identità. In Mentre la mia bella
dorme una Parigi da immigrata, da italiana che preferisce inserirsi nel
tessuto variato della città piuttosto che imboccare i boulevards
proustiani, fa infatti da sfondo ad un insolito trattamento del tema della
maternità in versione "giallo". Una Parigi ospitale verso chi francese
non è e preferisce, invece, mantenersi entro coordinate multiculturali,
spesso definite dai piccoli café affollati di arabi dove, in un caos di
etnie, le donne di Rossana Campo si recano per fare il punto della
situazione.
Alla vigilia delle vacanze estive una giornalista viene mollata dalla
amante all'annuncio della sua gravidanza. Una trama da "sedotta e
abbandonata" quindi, ma la vendetta non fa parte dei disegni della
ragazza, e la sua intraprendenza (nella lettura in chiave tradizionale di
questa sua dote si tramuta negli aggettivi "eccessiva e inopportuna")
diventa l'unica soluzione al problema della "seduzione", alla
dipendenza da un rapporto con l'altro (maschio). Il marchio della
gravidanza da single, dell'essere stata lasciata da un uomo che secondo
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la formula classica, "non se la sentiva di legarsi" non deve diventare
un muro fra la madre e il bambino ma un ulteriore e più preciso
strumento di conoscenza della realtà. La spugna non va gettata: bisogna
accettare la sfida perchè, parafrasando Campo, è solo "attraverso i
nostri nemici che possiamo capire chi veramente siamo noi". Da tutto
questo quadro non sembra strano che lo stato d'animo con cui la donna
si prepara alle vacanze estive sia critico. Ma la lotta non le fa paura.
Come ci dice la protagonista a conferma del primo esergo, una frase di
Mohammed Alì, "chi si fa stendere è perchè vuole farsi stendere". La
sua è un'esistenza in cui la boxe non fa dunque ribrezzo per "tutto quel
sangue" che diventa metafora di una vita in cui si combatte per
affermare il proprio diritto a essere una persona.
Il brutale assassinio della cantante Fruit aggiunge all'incombente
problema della single una serie di delitti la cui sottotrama viene
delineata dall'analisi del rapporto madre-figlia (nel caso di Fruit, e della
madre) in parallelo con quello che toccherà alla protagonista di lì a due
mesi, la necessità cioè di cambiare abitudini e vita per allevare una
creatura tutta da sola. Single, detective, anche un po' lesbica, la donna
della Campo questa volta sembra avere intorno troppi temi e
personaggi secondari confondendoci nella lettura. Persino la piroettante
parlata tra donne perde di freschezza rispetto ai precedenti romanzi, e
questo gergo da "scaricatrice colta" che contraddistingue la scrittura
della Campo ogni tanto diverte, ma ci si chiede anche se le ripetizioni
con frequenza esagerata di alcune espressioni gergali siano
effettivamente volute ο se si tratti, piuttosto, di una certa trasandatezza
dell'autrice nel tentativo di dare autenticità al parlato.
L'idea del giallo è buona, le pagine piene di vigore narrativo, ma in
questo caso l'effetto è quello di un piatto troppo ricco di condimenti in
cui si perde il sapore di un ingrediente specifico. La vena umoristica
riesce a salvare il prodotto, ma i personaggi, a parte forse la fugace
apparizione di una Fruit modellata sulle giovanissime vocal singers
americane risentono di questo "think positive" proposto ad oltranza,
anche quando di positivo resta solo il risultato del test di gravidanza.
"Pulp fiction" docet, siamo d'accordo, ma queste situazioni d'obbligo
nel romanzo d'oggi, dal rapporto lesbico al bellissimo gay
(rigorosamente di colore), dal transvestite londinese all'amico sanspapier sembrano essere troppe e fiaccano quell'abilità caratteristica
della Campo a farci capire quel che preme alle donne col sorriso sulle
labbra.
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Maria Rosa Cutrufelli, Il paese dei figli perduti, Milano: Marco
Tropea Editore, 1999, pp. 201.
Finalista al Premio Strega dell'anno scorso (1999) il nuovo
romanzo di Maria Rosa Cutrufelli prende spunto per la storia del
viaggio in Australia della protagonista Anna Paola da una frase di
Bruce Chatwin. In uno dei suoi taccuini di viaggio Chatwin descrive
infatti l'Australia come "il paese dei figli perduti". E perduta sin dalla
nascita è l'identità della ragazza, una giovane che non ha mai
conosciuto il padre, Giovanni, andato come molti in cerca di fortuna nel
lontano paese dei canguri e dei boomerang. Dalla Sicilia, isola
antichissima e ricca di storia verso un'altra isola, quest'ultima
sconosciuta nelle sue ricchezze e nei suoi immensi spazi. Il viaggio di
Anna Paola è un viaggio alla scoperta di se stessa e di un padre mai
visto, di cui lei conosce solo le lettere inviate alla madre durante
ventiquattro anni, e le telefonate in occasione dei suoi compleanni. Con
saggezza applica le parole di Maometto alla propria situazione e va a
trovare un padre che non si è mai spostato dal proprio nuovo paese,
neppure in occasione della nascita di Anna Paola.
Attraverso i preparativi per questo viaggio così al di fuori
dell'usuale per Anna Paola veniamo a conoscenza dell'ambiente di
donne in cui lei ha vissuto. Un ambiente "diverso" in quanto è stata
cresciuta da una zia lesbica e dalla sua amante, ignorate queste dalla
famiglia che le colpevolizza da sempre per il loro comportamento
disonorevole. Una madre continentale, quindi quasi "aristocratica" per
le sue origini alloctone, che non ritornerà mai più in continente,
trincerandosi in quella Sicilia che non le è nulla, se non volontaria
reclusione a vita. La diversità quindi è per Anna Paola la dimensione in
cui si è sempre mossa e che le dà la forza, tutto sommato, per
intraprendere un viaggio verso l'incognito, e affrontare il mistero del
proprio padre.
Anna Paola si ribella al proprio mondo, cercando come molte
giovani di sfuggire all'ambiente chiuso dell'isola: va a studiare a Roma
guadagnandosi da vivere come barman, scegliendo quindi un mestiere
solitamente praticato da uomini, l'arte di mescere bevande e di ascoltare
le confessioni dei clienti dietro il bancone di un bar.
Il romanzo quindi disegna due storie: una, quella di Anna Paola, e
una il cui filo è più sottile da ritrovare nei dialoghi e nei racconti
racchiusi nel libro. È, la seconda, una storia di emigrazione, una storia
di sradicamento dalla propria terra e dai propri affetti, una storia che
agli italiani, in particolare ai sardi e ai siciliani, doppiamente sradicati,
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è ben nota. Doppiamente lontani, dall'Italia come dalla loro isola,
recano nel paese d'immigrazione usi e costumi che non trovano radici
nel tessuto locale, se non sottoposti a drastiche trasformazioni, come il
menu del ristorante di Giovanni, che, come nota Anna Paola, è una
strana commistione di pietanze di varie regioni d'Italia. Il lato più
nuovo del romanzo è che, per una volta, è un romanzo d'immigrazione
raccontato da una donna italiana alla fine degli anni '90, una "laureata"
e, come tale, non può far rivivere i melodrammi di altre storie, quelle in
cui la donna era letteralmente trascinata verso un continente
sconosciuto, allevando creature che parlavano una lingua diversa dalla
propria, come per gli italo-australiani di Sydney ο gli italo-americani di
Brooklyn. Cutrufelli è come sempre molto brava nell'innesto di due
generi diversi, legati nella trama dalla scrittura asciutta, senza
indulgenze, che da sempre ne connota i suoi lavori. Dopo le inchieste, i
romanzi storici come La briganta, i gialli come Complice il dubbio, la
letteratura erotica e il toccante Canto al deserto, Cutrufelli ha trovato
nel suo recente romanzo una soluzione tematica e strutturale realmente
innovativa che la riconferma come una delle scrittrici più importanti del
panorama italiano di questo decennio.
Adele Cambria, Storia d'amore e di schiavitù, Venezia: Marsilio,
1999, pp. 212.
Anche le femministe dichiarate hanno dei momenti di cedimento e
confessano le proprie debolezze sentimentali, il proprio attaccamento a
delle persone, a dei luoghi che non potranno mai cancellare dal
paesaggio che compone le loro esistenze.
Adele Cambria, conosciuta giornalista e saggista, nel suo nuovo
romanzo racconta un tracciato esistenziale che possiamo facilmente
ritrovare in tutte le femministe della prima ondata, cioè quella per
intenderci di Dacia Maraini, Rossanda, Fallaci. Oriana Fallaci aveva a
suo tempo scritto una dichiarazione d'amore e di appartenenza (sia pure
intesa in termini assai diversi da come si concepisce di solito una
"dipendenza amorosa") in Un uomo. Cambria vira leggermente il tiro e
compone invece una singolare storia d'amore in cui l'altra donna che fa
parte del triangolo romanzesco è sua madre.
Divisa e pure unita in qualche modo dalla sua dipendenza nei
confronti della madre anziana e dei capricci di un intellettuale olandese
(nella cui figura si racchiude il desiderio non insolito di donne
meridionali per la cultura del Nord, come nel caso di Fabrizia
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Ramondino) Lucrezia è il personaggio principale narrato in terza
persona. Fuggita dall'opprimente Sud, torna e costruisce una villa sulle
rovine di un palazzotto di famiglia e raccoglie via via su magnetofono
le storie di famiglia raccontate dalla madre. Quello che noi leggiamo
diventa allora un tracciato della storia dell'aristocrazia calabrese in
declino, dell'ascesa della borghesia grazie alla politica matrimoniale
così ironicamente celebrata nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, e
dello stato di soggezione in cui vivevano le donne anche se di famiglia
abbiente. Le lettere fra il nonno Luciano, (avvocato e quindi perfetta
immagine della grecità che ancora ci lega nell'amore per la retorica e
l'oratoria alla Madre Grecia) e la dolce Teresina, morte di meningite
tubercolare a venticinque anni (non dopo aver dato tre figlie al marito
che voleva il maschio) indicano chiaramente come persino le
manifestazioni più intime quali le lettere fra innamorati fossero dirette
dall'uomo che chiedeva alla dolce Teresina di scrivergli "esattamente"
quello che lui le indicava nella sua missiva. Ma queste donne sapevano
anche trarre vantaggio dai pregiudizi locali e la storia di come Donna
Maria, bisnonna della protagonista fosse riuscita a sposarsi con il
Marchese di Spagna ne è un significativo e divertente esempio.
"Le radici dell'odio materno per le intellettuali" (p. 18) si spiegano
nella frustrazione di donne intelligenti costrette a non studiare, a non
emanciparsi mediante la lettura. Zia Rosa, unico esempio di
trasgressione, stilava addirittura degli elenchi di letture specifiche per
ciascuna nipote, facendo delle eccezioni proprio per Lucrezia, di cui
aveva compreso a fondo lo spirito intellettualmente inquieto che la
porterà a fuggire dalla Calabria, dall'università di Messina dove doveva
andare accompagnata dalla madre ("è per la gente"), a partecipare alle
manifestazioni di piazza a Reggio, insomma a opporsi apertamente a un
sistema di oppressione perfezionato in secoli di soggezione femminile.
È curioso come, sebbene la figura di Anton conti moltissimo per la
protagonista, non conti invece molto nel ricordo del romanzo letto. La
sua eccentricità, il suo ribellarsi a legami e a forme di comportamento
usuali nel legame che pure lo tiene avvinto a Lucrezia, non interessa
molto. Un "barbone intellettuale", una persona che molto ha sofferto, la
cui etica calvinista non lo abbandona per un attimo, ma
fondamentalmente non incide le pagine del libro. Le figure femminili
sono invece memorabili, da Teresina alla madre di Lucrezia, ed infine
Lucrezia stessa, combattuta e conscia delle incongruenze che affiorano
continuamente nel destino che le donne si sono scelte in questo secolo.
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Rosetta Loy, La porta dell'acqua, Milano: Rizzoli, 2000, pp. 104.
Una scrittura creativa che frequenta l'autobiografia rappresenta
l'universo di Rosetta Loy, una fra le nostre scrittrici di vero e
dimostrato talento narrativo. In un sapiente alternarsi di stili e tecniche
Loy propone sino dagli anni '70 bei romanzi come quello
d'ambientazione monferrina, Le strade di polvere (Einaudi, 1987) ο
Cioccolata da Hanselmann (Rizzoli, 1995) e storie dichiaratamente
autobiografiche, come appunto il recente La porta dell'acqua.
In libri diversi Loy ci ha raccontato momenti diversi della sua vita,
come anche della società italiana, ma è l'infanzia a costituire il tempo
privilegiato della sua ultima opera. Il libro fu pubblicato per la prima
volta nel 1976, ed ora la scrittrice ne ha rivisto il testo offrendolo alle
stampe della Rizzoli. Importa dire che questa revisione avviene dopo la
pubblicazione di un altro libro, La parola ebreo (Einaudi, 1997), nella
cui prima parte l'autrice aveva rivisitato lo stesso periodo di vita, cioè i
primissimi anni di scuola presso le suore francesi e l'agiata infanzia
trascorsa entro il rassicurante perimetro delimitato dal Ministero della
Marina sul Lungotevere, Villa Borghese, Piazza del Popolo e la via
Flaminia. La parola ebreo è un libro in cui l'autobiografismo cede
spesso il passo alla saggistica per meglio trattare il problema della
responsabilità degli Italiani verso gli Ebrei e la critica che Loy muove
alla società italiana per una mancata presa di posizione riguardo alle
leggi razziali del '38. Un senso di responsabilità che in La parola ebreo
prende forma nel ricordo di Regina, la bimba con la croce di David
dall'oro "lucido di pelle", che a un certo punto smette di frequentare
Villa Borghese e che la protagonista non rivedrà mai più.
Nella Porta dell'acqua rivediamo Regina per un solo prezioso
attimo mentre la storia trabocca di figure femminili, importantissime
per la bimba, la cuoca, la domestica, e sopratutto la severa ma giusta
governante. Nella Porta dell'acqua il ricordo di Anne Marie conduce
alla quotidianità dell'infanzia ("Tutto partiva da quel caffellatte ingoiato
d'un fiato. 'Le train', 'Le garçon', 'La cuillèèère...'") ma continua a
tormentare nel ricordo la scrittrice, ancora e sempre, per quella
inconsapevole crudeltà che la bambina le leggeva negli occhi "chiari
come il cielo" mentre le raccontava la fiaba di Paulinchen, morta
bruciata per aver disubbidito agli ordini della madre, "c'era da urlare
dal panico, sentivo in bocca la polvere del tappeto". La figura della
governante Anne Marie ci ritorna in mente per via dell'immagine scelta
per la copertina del libro, delle forbici su un tavolo vicino a un oggetto
che potrebbe sembrare un cuore, un cuore di bimba. Nella Parola ebreo
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era ancora la stessa Anne Marie a spiegare alla bambina il mistero della
circoncisione, decretando la superiorità degli ariani verso un popolo
così crudele da continuare dopo secoli di storia questo brutale rito di
iniziazione alla vita e spiegava in tedesco come, con delle forbici, fosse
tagliato via un lembo di carne dal bimbo appena nato. Lo struggente
amore per la governante tirolese insomma appare legato a questa
componente di paura, di terrore in certi punti del libro, e le forbici, la
lingua straniera con cui se ne parla ("mit der Schere") sono sempre
simboliche di una cesura, di una lontananza inevitabile fra la bimba e
questa donna così piena di certezze ma che raccontava fiabe terrificanti
di piccoli Konrad dal dito tagliato, appunto, "mit der Schere".
La cesura però non esiste soltanto fra la bambina e questa
governante che, chiusa nella propria sicurezza fatta di poche ma
incrollabili regole e intimamente troppo convinta del loro "futuro di
Ariani Cattolici Apostolici Romani", non può capirne i timori, le
paure, nè può capirne certe riluttanze nell'ascoltare delle
(apparentemente) innocue fiabe serali. Anne Marie non basta certo a
colmare il senso di vuoto e di insicurezza causato dall'assenza della
madre. Della madre noi leggiamo delle belle gambe inguainate in calze
velate, del rossetto che le colorava la bocca, delle ginocchia con
impresso il segno della paglia dell'inginocchiatoio su cui lei pregava
nelle varie chiese di Piazza del Popolo il giorno dei Sepolcri. Per il
resto, niente, assolutamente nulla. La bambina non si misura, come
capita frequentemente nella scrittura autobiografica, con una figura
materna. Non vi è fatta menzione di una famiglia, di un nucleo intorno
a questa bambina. E quindi la pagina autobiografica diventa ancora più
struggente di quanto non potrebbe sembrare all'avvio della lettura,
segnato dal rumore del tram.
Sono, i libri di Rosetta Loy, delle autobiografie "sognate" perchè
spesso appaiono a chi le legge come delle preziose storie il cui spunto
personale viene dato in modo impalpabile, in cui persino l'eco di
un'esperienza traumatica non ne turba la lettura. Per questo motivo le
pagine autobiografiche della scrittrice inducono spesso a ricordare un
certo autobiografismo di stampo proustiano, soprattutto per la
delicatezza delle immagini legate a "le vert paradis des amours
infantins". Ed è con toni molto delicati e sobri che siamo fatti parte di
un trauma che risale all'origine della scrittura, che risale a quel
caffellatte che si presenta sulla pagina appunto come una madeleine
renversée. Di un trauma causato all'inizio dall'assenza di una figura
materna, un'assenza anche dai propri sensi, in quanto il profumo che
segna l'arrivo della madre raramente penetra nelle narici della bambina,
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di solito seduta in cucina con il personale, fra cui dobbiamo ricordare la
figura di Francesco, l'autista di casa, anche lui sfregiato con delle
forbici, ma per amore. Nelle narici la bimba, capace di amori
travolgenti e fortissimi, conserva invece l'odore di pulito (e asettico)
della governante, di quella stessa donna che ama mangiare il fegato
crudo quasi a dimostrare la propria diversità in una casa in cui gli agi
consentivano anche una certa mollezza di costumi, e che col suo
famoso sguardo ("non piangeva mai Anne Marie") terrorizzava persino
Letizia, la cameriera. La seconda parte del trauma si compie con la vita
trascorsa in compagnia di una donna molto amata come la governante
la quale non prova per la bambina alcun trasporto, ma un semplice
senso del dovere. Duplice abbandono, in qualche senso, simile
all'abbandono involontario della bella bambina bionda dalla stella di
David, paragonata dalla scrittrice alla Paulinchen di Grimm
("Paulinchen era forse ebrea?"). Un senso di solitudine emerge da
queste pagine in cui, per l'indubbia riuscita, si giustifica pienamente la
necessità sentita dall'autrice di riscriverle a distanza di oltre vent'anni.
Per levigarle ulteriormente, ma forse per cercare pure di togliere quel
che di troppo sofferto era rimasto impresso nelle pagine della
precedente versione. Come scrive Rosetta Loy, nel 1976 la scrittrice
non era ancora "consapevole dei colori lividi che dividono la felicità
dall'infelicità". (p. 102)
Angela Bianchini,
1999, pp. 235.
Un amore sconveniente, Milano:
Frassinelli,
Ma quando guardava Flaminia, pur legato alla mano della madre,
Edoardo mutava espressione. La passava tutta, indugiando qua e là
sui capelli, sugli occhi, sulle labbra rosse, sul corpo. Allora i
familiari, e più di tutti la madre, distoglievano lo sguardo: come
davanti a una voluttà segreta che si rivelava in modo quasi indecente,
in un luogo così poco adatto. (p. 11)
Il romanzo di Angela Bianchini, candidato al Premio Rapallo di
quest'anno (2000), si raccoglie per me tutto in questo passo tratto dalla
scena in cui Edoardo e Flaminia riallacciano i rapporti con la famiglia
di lui, da anni interrotti per via dell'indecente e sconveniente, appunto,
passione scoppiata fra i due. La sobria e morigerata famiglia torinese
non può tollerare una donna così bella e appariscente per compagna
dell'intellettuale Edoardo, nè tanto meno, può permettere che di tale
storia scandalosa si parli nei circoli torinesi, romani e parigini del
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tempo. Il classico vivere low-key della società bene torinese viene
sconvolto da una Flaminia che Bianchini ci propone come prototipo
della femme fatale degli anni trenta. Una donna per la cui descrizione si
rendono imperiosi i superlativi. E quindi Flaminia è bellissima,
altissima, biondissima, con un viso dai lineamenti perfetti su cui le
labbra turgide e rosse come lo smalto delle sue unghie ne sigillano il
marchio di diva. Uno smeraldo di misteriosa provenienza è il gioiello
che le sue mani bianchissime portano quale emblema della sua
preziosità. Flaminia è un personaggio che non si può dimenticare
facilmente, resta impresso per tutto il corso della lettura, e non a caso il
triangolo del desiderio fra Edoardo e il cugino pittore Ottavio si scatena
a causa di questo "oggetto" folgorante, passionale, e dotato però di una
inspiegabile forza interiore che le fa sopportare - se necessario - quel
vivre sur la paille, di cui pure ha tanta paura. Una francese dalle origini
misteriose come lo smeraldo, ma che sa comunque accattivarsi artisti e
merciai, politici e tappezzieri della Firenze ritratta nel libro ancora
quale felice colonia degli inglesi prima dell'ingresso in guerra di
Mussolini. L'atmosfera, dicevo, è quella con le signore con code di
volpe, e ancora non sciupate dalle privazioni di un'altra guerra, ancora
più atroce dell'altra. Ancora più atroce perchè ne nasconde un'altra,
ancora più subdola e crudele: quella condotta da Hitler contro i diversi,
contro coloro che non si uniformano alle leggi razziali decise e ideate
allo stesso insorgere del Nazional Socialismo. Fra i diversi,
logicamente, gli Ebrei, coloro che da secoli sono perseguitati perchè
"hanno ucciso Gesù" e su cui gravano varie colpe, soprattutto quella,
come sosteneva Hannah Arendt, di disporre di mezzi economici ma non
di potere e di un sistema politico.
Edoardo, oltre a essere un insigne cattedratico, è anche ebreo.
Come molti ebrei occidentali, Edoardo è principalmente un
intellettuale, chiuso nei propri interessi, in particolare l'elegia
settecentesca, e le leggi razziali lo trovano mal preparato ad affrontare
questo immotivato rifiuto della società italiana nei suoi confronti.
Flaminia non pare accettare il proprio destino di amante e moglie di
Edoardo sino in fondo. Seguirlo nel suo esilio societario, cioè, prima
nel suo esilio dagli incarichi universitari, poi al confino. Flaminia si è
assolutamente impadronita del mondo di Edoardo, ma lo vuole tutto per
sè, persino economicamente approfitta dello stato di debolezza del
compagno e gli fa firmare documenti compromettenti e donazioni a suo
vantaggio. Ed Edoardo, che pure aveva lasciato quella Torino buia e
soffocante per vivere lontano da un "moralismo che faceva muro,
dettava legge, forgiava le volontà, in modo irrazionale, come per
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eredità atavica", fa ritorno in quello stesso ambiente sociale, dai cui
valori era pure un tempo fuggito, a Roma questa volta, per sfuggire alle
deportazioni. Un risvolto amarissimo di una storia d'amore che era
iniziata secondo i dettami più tradizionali, cioè quelli di una passione
dirompente e travolgente. L'elegia "è l'aver perduto un bene, l'amore,
una donna, e tuttavia non aver mai perduto la speranza di riacquistarlo".
Le pagine ambientate a Firenze ricordano infatti molto da vicino il film
di Zeffìrelli Tè con Mussolini, e mi sembra cosa assai interessante che,
in questo periodo di ibridazione di generi, un libro possa ricordare un
film (una volta tanto) e non il solito contrario. Bianchini conduce una
esperta operazione narrativa in cui il romanzo, avvincente nella sua
trama dalla prima all'ultima pagina, si affida nella sua indubbia riuscita
stilistica, a una rinnovata concezione del romanzo d'amore, di un amore
appunto "sconveniente", soprattutto se misurato contro lo sfondo del
problema razziale.
Melania Mazzucco, Lei così amata, Milano: Rizzoli, 2000, pp. 430.
Un
romanzo
da
leggere
per ritrovare un'epoca,
un
Kindertötenlieder di sapore dichiaratamente mitteleuropeo che viene
creato da coordinate diverse dalle solite in cui sono ambientati i
romanzi italiani. Dall'Engadina all'esotica Persia, il libro di Melania
Mazzucco liberamente ispirato alla vita di una eccentrica intellettuale
svizzera, Annemarie Schwarzenbach, Lei così amata, ci conduce
all'interno di uno spazio destinato in quel periodo alla società esclusiva
di Evelyn Waugh, a quella motley society dei suoi romanzi, a quella
classe alto-borghese che fra le due guerre non faceva altro che
viaggiare, che girovagare di città in città, rifugiandosi poi in stazioni
sciistiche esclusive. Questi giovani si muovono irrequieti fra una
Berlino calpestata dalle camicie brune e la Svizzera giardino dell'Eden,
ferma e pure implacabile come l'immagine di Renée, la madre odiataamata di Annemarie. Per un'Annemarie quasi vergognosa delle proprie
origini, solidamente radicate nell'opulenta alta borghesia svizzera di cui
nel libro la casa dei genitori a Bocken si erge ad emblema, seguire
Erika Mann e fare parte della sua famiglia di artisti, cenare con Thomas
Mann e camminare con il premio Nobel sulla spiaggia di Lavandou
durante il suo esilio, diventa sempre più importante. Diventa così
impellente quella trasformazione di persona ("qual è la differenza fra i
tedeschi e gli svizzeri" chiede un personaggio), quel tentativo di far
parte del nucleo Mann che la conduce all'aberrazione di se stessa,
Stefania Lucamante
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all'anoressia, sino al tentativo di suicidio, sino al dissolvimento delle
proprie energie creative. I personaggi che regolano la trama-vita della
protagonista somigliano ai ragazzi di Jean Cocteau, proprio a quei
ragazzi del romanzo Les enfants terribles (sopratutto lei e Klaus Mann)
in cui le boules de neige della famosa canzone per bambini diventano
invece il simbolo della droga, della potente ed insostituibile arma con
cui sia les enfants terribles che Annemarie condurranno se stessi verso
una morte perlomeno spirituale.
Ma c'è anche una morte reale. Una morte del tutto accidentale,
anzi stupida. Una morte per una caduta dalla bicicletta, per un sasso
"insignificante, aguzzo" trovato sulla strada della possibile redenzione,
la casa tutta per sè che Annemarie aveva tanto desiderato nella sua
sicura Svizzera. Ma come tutte le icone, come tutti i miti, anche
Annemarie era destinata a morire giovane, bella, ricca e disperata. È
anche per questo che ancora rimane l'incanto di questa donna così sola
nonostante la passione che ispirava a tanti, non ultima alla scrittrice
Carson McCullers. Non il Luminal, ma qualcos'altro di altrettanto letale
spegne questa donna i cui lavori sono ancora in larga misura non
tradotti in Italia. Questa giovane donna, pura immagine di una
trasgressione e di un desiderio di trasgressione che salta di generazioni
per ritrovarsi fra le "bad girls" di cui tanto oggi si parla. Una
trasgressione che è diventata forse più di massa, ma che comunque
raccoglie in sè il desiderio disperato di affermarsi non per quello che la
propria famiglia impone ancora sulle donne, ma per quello che alla
società si vuole dare di sè come individui. In lotta contro la propria
estrazione alto-borghese, infelice nei suoi rapporti più importanti quello con la madre e quello con Erika - Annemarie viene ricordata
con amore, con attenzione da una Mazzucco perfetta narratrice di trame
che si propongono sempre l'analisi del diverso, dell'Altro, oltre che con
l'apparente impossibilità di sfuggire ai propri istinti, al proprio fascino,
al proprio destino di essere appunto "così amate". Come nel Bacio
della Medusa, Mazzucco rivolge appunto alla diversità il proprio
talento narrativo, arricchendo (sia pure in forma finzionale) la biografia
di Annemarie Schwarzenbach con innumeri notizie e informazioni che
basterebbero in sè a giustificare la lettura del libro. Un libro che, non
distante da In America di Susan Sontag, incorpora felicemente fiction e
dato autentico ricavato dalla scrittura autobiografica della protagonista.
E lo fa trasformando i suoi taccuini di viaggio dalla Persia,
dall'Afghanistan, le lettere ai gemelli Mann, le osservazioni su una
Berlino cosmopolita e vivace in una scrittura che ha l'effetto desiderato:
quello di una vita assolutamente romanzesca.
Un biennio di narrativa femminile
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Renata Pisu, La via della Cina, Milano: Sperling & Kupfer, 2000,
pp. 191.
Sì, dico io, magari la Storia è finita, ma non le storie, le nostre storie.
Io voglio soltanto raccontare qualcuna di queste storie, di ieri, di
oggi. E se mi obiettano che non sono la Storia, io rispondo
'pazienza', tiriamo avanti.
Comunque mi ero ammalata, avevo contratto il mal di Cina. Sono
ancora malata di Cina, oggi. Partendo da Pechino avevo giurato che
in quel paese dell'assurdo non avrei mai più messo piede. E invece ci
sono tornata non una ma dieci, venti volte almeno. (p. 87)
I ricordi di viaggio in Cina per motivi di studio e di lavoro sono al
centro dell'interessante libro di Renata Pisu, una famosa corrispondente
e orientalista italiana. Entrato nella rosa dei dieci finalisti per lo Strega
di quest'anno (2000), il libro, il cui genere dovrebbe essere quello
appunto di un taccuino di viaggio, si trasforma nella lettura diventando
il romanzo della passione nutrita dall'autrice per questo paese.
Percorrendo gli anni giovanili e lo stupore di fronte alla situazione
trovata a Beida, la città universitaria, la voce di Pisu diventa via via una
testimonianza degli anni più duri per il comunismo di Mao, della totale
incomprensione degli occidentali per quello che stava avvenendo in
Cina, e anche una dichiarazione di amore - sia pure inspiegabile
persino agli stessi occhi di chi questo taccuino di viaggio e di vita ha
steso - per un paese così lontano (in tutti i sensi) dalla propria terra.
Diviso in tre parti, "Pechino-Università", "Gli anni dell'inganno",
e "Continua", La via della Cina offre un singolare punto di vista,
quello di un'italiana che ha vissuto in una totale immersione la cultura
di Mao osservando anche la lettura distorta che di tale cultura i maoisti
occidentali facevano, sostenendo l'assoluta necessità di privazioni e
ingiustizie del regime mentre vivevano nell'ovvio comfort dell'Europa
occidentale. Non ultime Pisu ricorda le singolari interpretazioni di
Roland Barthes, l'esempio eclatante di una mappa di misreadings che la
giornalista causticamente annota insieme alle cattive interpretazioni
della fonetica cinese, piegate da una discutibile logica ideologica del
comunismo europeo degli anni '60 e ' 7 0 .
Illustri visitatori quali un tollerante e umano Pajetta, un giovane
Bettino Craxi che la scambiava per cinese e poi le insegnava a cantare
"Nel blu dipinto di blu", un console lasciato a Shangai da anni dal
governo italiano in caso di una ripresa dei rapporti diplomatici,
producono immagini memorabili e veloci lasciando una traccia della
storia ufficiale italiana. Queste immagini nel libro devono però lasciare
Stefania Lucamante
230
necessariamente lo spazio ad altri temi più urgenti. Innanzi tutto al
discorso della memoria cronachistica (o che almeno tende ad essere
tale) di un paese conosciuto e profondamente amato ma non compreso,
e secondo al punto di vista di una donna di cultura. Una donna il cui
tracciato culturale rappresenta il classico caso di "soggetto nomade"
secondo la definizione della teorica Rosi Braidotti. Pisu la cita infatti
per spiegare la propria coscienza nomade, "che equivarrebbe all'aver
dimenticato di dimenticare l'ingiustizia, al mantenere una memoria
viva, controcorrente, al suscitare una ribellione dei saperi sottomessi"
(p. 89). Nella memoria definita "imperfetta" perchè lega episodi
cronologicamente lontani ma contigui per chi narra, la strage di
Tiananmen, il sangue che sgorgava dalle ferite che gli stessi studenti si
procuravano immolandosi al martirio, viene avvicinata alla tragedia
personale della stiratrice i cui tre figli erano morti in Corea. Nel suo
implicito rifiuto di usare il termine previsto allora dal regime, quello di
"sacrificati", si manifestava la silenziosa protesta per l'offesa continua
alla dignità individuale durante il periodo di Mao. Ο all'impossibile
storia d'amore di Lia per un giovane cinese, Pai Guting. Ο alle purghe
per coloro ingiustamente ritenuti di destra, ο al discutibile uso dei
dazebao come strumenti di pubblica accusa. "Adesso che il mondo si
rivela frantumato nei particolarismi, nelle etnie, nelle rivendicazioni
furibonde e sanguinose di ogni differenza, si fatica a credere che allora
ogni particolarismo culturale venisse ignorato, negato, irriso in nome di
una ideologia globalizzate che, certo, celava buone intenzioni" (p. 20).
Fabrizia Ramondino, Passaggio a Trieste, Torino: Einaudi, 2000,
pp. 310.
Nel caso della scrittura di Fabrizia Ramondino la cultura
meridionale, quella di un sud "disperso" generante, come direbbe
Filippo La Porta, un "disagio produttivo", vive e si nutre del contatto
con la letteratura europea, specialmente quella francese e tedesca. I vari
generi con cui da sempre si misura la scrittrice, il taccuino di viaggio, il
dossier-inchiesta, il romanzo come Althénopis, i racconti preziosi di
Storie di patio, l'autobiografia di un periodo difficile in L'isola riflessa,
ne rendono impossibile l'inserimento in una corrente specifica, sia per
genere che per tematiche. Come in effetti è giusto che sia quando si
parla di un talento come il suo, non facilmente collocabile entro mode
effimere. Una donna che, italiana per caso e napoletana per scelta (e
non per costrizione ο troppo facili etichette) deve a un'infanzia
Un biennio di narrativa femminile
231
peripatetica e alla propria sensibilità il desiderio di conoscere e capire
l'Altro da sè, il luogo diverso così come la persona diversa. Come dice
Edward Said, la sopravvivenza in questa società sta proprio nel contatto
con gli altri, nel contatto con e fra tutti i diversi. Un'utopia eterotopica
finalmente possibile?
Dopo l'esperienza narrata due anni fa in Un'isola riflessa,
Ramondino parte alla scoperta di un'altra situazione utopica, una delle
"possibili" utopie in cui la scrittrice ha sempre creduto, dalle esperienze
raccontate in Disoccupati organizzati alle scuole di quartiere a Napoli,
quella del Centro Donna Salute Mentale di Trieste. Trieste viene vista
come un luogo-confine di varie etnie, ambiguo, e dove, secondo
l'autrice, ha senso l'aver tentato di "superare il confine tra normalità e
follia" (p. 53). Passaggio a Trieste inizia con delle pagine introduttive
in cui Ramondino spiega le basi della propria conoscenza della città,
quelle di tipo culturale, tutte conoscenze legate a figure maschili (Saba,
Bazlen, Joyce) e passa poi a una Trieste al femminile per poter
raccontare del "diario di bordo", delle esperienze vissute dalle donne
che vivono nell'utopia possibile concepita da Franco Basaglia.
Per Ramondino Trieste si rivela al tempo stesso il luogo in cui
finalmente "scendere" nella peculiarità di genere, in cui finalmente
capirsi in quanto "donna". Una presa di coscienza che viene resa
possibile dal femminismo positivo dell'amica Assunta, cofondatrice del
Centro che l'accompagna virgilianamente nel viaggio (sempre un
viaggio) in un mondo così complesso come quello della psiche
femminile, dei traumi spesso considerati "inesistenti" sino a quando le
donne non capirono che, per capirsi dovevano rendersi conto di questa
differenza che Ramondino chiama "peculiarità di genere",
appropriandosi anche degli strumenti utili per capire la psiche
femminile, rivedendo le teorie freudiane, studiando Melanie Klein.
Dopo anni di impegno sociale, di impegno artistico, l'autrice si rende
conto di ciò che non aveva compreso prima per una "velata disistima
delle donne in generale", "nonostante le tante esperienze fisiologiche"
vissute con "aristocratico distacco" come se le stesse vivendo un'altra
persona e non lei. Quindi attraverso questo viaggio nelle sofferenze
delle Altre, le diverse che chiedono e cercano inconsciamente un
rapprochement con la società dalla quale sono state escluse per vari
motivi, c'è logicamente un esame e una presa di coscienza del proprio
atteggiamento verso un particolare aspetto della propria vita, da sempre
tacitamente rifiutato. In questo caso il conflitto, causato anche da un
certo atteggiamento snobistico verso coloro che proclamavano la
differenza della loro voce e la loro scrittura inevitabilmente incisa,
Stefania Lucamante
232
scavata dalla loro realtà, mettendo a rischio altri valori ritenuti allora
più importanti da Ramondino.
L'attitudine per il particolare fa di Ramondino una narratrice
puntuale, la cui scrittura sempre asciutta e senza sbavature si concede
ricchezze lessicali che addolciscono un universo altrimenti difficile da
leggere. E il racconto viene scandito dalla data delle diverse giornate
trascorse al Centro, che si concludono tutte con la visione serale dei
film di Marilyn Monroe, un'attrice famosa che visse gli stessi problemi
di queste anonime figure femminili, Maria Lourdes, Wilma, Giustine,
Graziella. Queste donne sono tutte raccolte e ricordate nella loro
sofferenza grazie all'inserimento nel testo principale di scritture altre,
lettere, racconti, profili di malate che appartengono a loro e alla loro
corporeità. A vent'anni dalla riforma di legge, donne-pazienti, donnepsicologhe, donne-psichiatre, donne-infermiere accettano di farsi
raccontare e dirigono in un certo senso la scrittrice in un viaggio verso
un'ascesi personale "dopo una fede inconsulta nell'integrità del corpo"
e a seguirlo "nel senso del suo inevitabile limite", ad accettarlo e ad
accettarsi, come anche a capire fino in fondo il significato di una delle
definizioni di follia date da Franco Basaglia nelle sue Conferenze
brasiliane: "La follia è diversità, oppure aver paura della diversità".
STEFANIA LUCAMANTE
The Catholic University of America,
Washington, D.C.