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Stefania Lucamante 217 UN BIENNIO DI NARRATIVA FEMMINILE : 1999-2000 L a scrittura femminile ormai non conosce più una collocazione di genere, così come veniva spesso teorizzato negli anni '80, un genere a cavallo fra la scrittura diaristico-autobiografica e quella finzionale. La dissoluzione di essenzialismi nella teoria del genere sessuale, sin dai primi anni '90 visto ormai come costruzione sociale (anche se materiata nel profondo della differenza sessuale come scrive Judith Butler) ha inevitabilmente rotto anche gli argini legati al genere di utilizzo espressivo. Questi ultimi due anni di editoria italiana rivelano inconfondibilmente le ramificazioni del percorso narrativo delle scrittrici. Abbiamo scelto un numero limitato di opere per fare una (sommaria) campionatura: appare il giallo con Rossana Campo (ma anche Alda Teodorani, Dacia Maraini, Laura Grimaldi), appare il romanzo di ambientazione storica come quello di Elisabetta Rasy, in cui viene tracciato un interessante ritratto del privato di una delle grandi figure e teoriche dei diritti della donna, Mary Wollstonecraft; l'autobiografia in La porta dell'acqua di Rosetta Loy che segue nel ricordo gli anni dell'infanzia e della incomprensione per la parola 'ebreo', ο il romanzo d'epoca di Angela Bianchini in cui un amore travolgente si consuma durante i difficili anni delle leggi razziali, dell'antisemitismo e delle deportazioni; il romanzo semi-autobiografico di Adele Cambria con le proprie riflessioni su cosa voglia dire per una femminista vivere un rapporto d'amore, ma inteso in un senso diametralmente opposto a quello in cui lei aveva sempre creduto; Melania Mazzucco nella sua continua ricerca ed analisi della diversità, questa volta incarnatasi, dopo il Bacio della Medusa, nell'immagine di un'intellettuale svizzera, Annemarie Schwarzenbach; il taccuino e le cronache di viaggi in Cina, in un paese letteralmente agli antipodi dall'Italia e dalla cultura ed etica del nostro paese con Renata Pisu; sempre à l'autre but du monde, Il paese dei figli perduti di Maria Stefania Lucamante 218 Cutrufelli, romanzo di una ragazza siciliana che parte alla ricerca del proprio padre e di una dimensione diversa per la propria esistenza. Fabrizia Ramondino, come sempre, scrive di mondi altri. Ma non in senso geografico, perchè il suo libro si svolge a Trieste e non a Napoli ο in zone vicine alla città partenopea. Ramondino parla invece del Centro Salute, di un programma legato alla cosiddetta 'utopia' di Franco Basaglia. Un gruppo di donne, un coro di voci che fanno da contralto alle voci delle ragazze disinvolte e liberate di Rossana Campo, parlando di problemi che come sempre Ramondino affronta con grande delicatezza, profondità e sapienza scrittoria. Rossana Campo, Mentre la mia bella dorme, Milano:Feltrinelli, 1999. Lui ha tegato e io sono rimasta inchiodata a questa città, con l'afa e i tossici accasciati sulle porte delle lavanderie a gettoni, coi mendicanti e i clochard che salgono sul metrò e raccontano le loro tristi storie ai passeggeri perchè hanno scoperto che se raccontano le loro storie i parigini qualche soldo lo tirano fuori. (p.11) Dopo alcuni romanzi in cui si avvertiva l'assenza di una trama ben delineata come supporto al dialogo delle protagoniste, Campo ha adottato per il suo ultimo romanzo il genere noir, molto usato fra le autrici, italiane e non, come "pista investigativa" per tematiche care alla questione femminile e al problema dell'identità. In Mentre la mia bella dorme una Parigi da immigrata, da italiana che preferisce inserirsi nel tessuto variato della città piuttosto che imboccare i boulevards proustiani, fa infatti da sfondo ad un insolito trattamento del tema della maternità in versione "giallo". Una Parigi ospitale verso chi francese non è e preferisce, invece, mantenersi entro coordinate multiculturali, spesso definite dai piccoli café affollati di arabi dove, in un caos di etnie, le donne di Rossana Campo si recano per fare il punto della situazione. Alla vigilia delle vacanze estive una giornalista viene mollata dalla amante all'annuncio della sua gravidanza. Una trama da "sedotta e abbandonata" quindi, ma la vendetta non fa parte dei disegni della ragazza, e la sua intraprendenza (nella lettura in chiave tradizionale di questa sua dote si tramuta negli aggettivi "eccessiva e inopportuna") diventa l'unica soluzione al problema della "seduzione", alla dipendenza da un rapporto con l'altro (maschio). Il marchio della gravidanza da single, dell'essere stata lasciata da un uomo che secondo Un biennio di narrativa femminile 219 la formula classica, "non se la sentiva di legarsi" non deve diventare un muro fra la madre e il bambino ma un ulteriore e più preciso strumento di conoscenza della realtà. La spugna non va gettata: bisogna accettare la sfida perchè, parafrasando Campo, è solo "attraverso i nostri nemici che possiamo capire chi veramente siamo noi". Da tutto questo quadro non sembra strano che lo stato d'animo con cui la donna si prepara alle vacanze estive sia critico. Ma la lotta non le fa paura. Come ci dice la protagonista a conferma del primo esergo, una frase di Mohammed Alì, "chi si fa stendere è perchè vuole farsi stendere". La sua è un'esistenza in cui la boxe non fa dunque ribrezzo per "tutto quel sangue" che diventa metafora di una vita in cui si combatte per affermare il proprio diritto a essere una persona. Il brutale assassinio della cantante Fruit aggiunge all'incombente problema della single una serie di delitti la cui sottotrama viene delineata dall'analisi del rapporto madre-figlia (nel caso di Fruit, e della madre) in parallelo con quello che toccherà alla protagonista di lì a due mesi, la necessità cioè di cambiare abitudini e vita per allevare una creatura tutta da sola. Single, detective, anche un po' lesbica, la donna della Campo questa volta sembra avere intorno troppi temi e personaggi secondari confondendoci nella lettura. Persino la piroettante parlata tra donne perde di freschezza rispetto ai precedenti romanzi, e questo gergo da "scaricatrice colta" che contraddistingue la scrittura della Campo ogni tanto diverte, ma ci si chiede anche se le ripetizioni con frequenza esagerata di alcune espressioni gergali siano effettivamente volute ο se si tratti, piuttosto, di una certa trasandatezza dell'autrice nel tentativo di dare autenticità al parlato. L'idea del giallo è buona, le pagine piene di vigore narrativo, ma in questo caso l'effetto è quello di un piatto troppo ricco di condimenti in cui si perde il sapore di un ingrediente specifico. La vena umoristica riesce a salvare il prodotto, ma i personaggi, a parte forse la fugace apparizione di una Fruit modellata sulle giovanissime vocal singers americane risentono di questo "think positive" proposto ad oltranza, anche quando di positivo resta solo il risultato del test di gravidanza. "Pulp fiction" docet, siamo d'accordo, ma queste situazioni d'obbligo nel romanzo d'oggi, dal rapporto lesbico al bellissimo gay (rigorosamente di colore), dal transvestite londinese all'amico sanspapier sembrano essere troppe e fiaccano quell'abilità caratteristica della Campo a farci capire quel che preme alle donne col sorriso sulle labbra. Stefania Lucamante 220 Maria Rosa Cutrufelli, Il paese dei figli perduti, Milano: Marco Tropea Editore, 1999, pp. 201. Finalista al Premio Strega dell'anno scorso (1999) il nuovo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli prende spunto per la storia del viaggio in Australia della protagonista Anna Paola da una frase di Bruce Chatwin. In uno dei suoi taccuini di viaggio Chatwin descrive infatti l'Australia come "il paese dei figli perduti". E perduta sin dalla nascita è l'identità della ragazza, una giovane che non ha mai conosciuto il padre, Giovanni, andato come molti in cerca di fortuna nel lontano paese dei canguri e dei boomerang. Dalla Sicilia, isola antichissima e ricca di storia verso un'altra isola, quest'ultima sconosciuta nelle sue ricchezze e nei suoi immensi spazi. Il viaggio di Anna Paola è un viaggio alla scoperta di se stessa e di un padre mai visto, di cui lei conosce solo le lettere inviate alla madre durante ventiquattro anni, e le telefonate in occasione dei suoi compleanni. Con saggezza applica le parole di Maometto alla propria situazione e va a trovare un padre che non si è mai spostato dal proprio nuovo paese, neppure in occasione della nascita di Anna Paola. Attraverso i preparativi per questo viaggio così al di fuori dell'usuale per Anna Paola veniamo a conoscenza dell'ambiente di donne in cui lei ha vissuto. Un ambiente "diverso" in quanto è stata cresciuta da una zia lesbica e dalla sua amante, ignorate queste dalla famiglia che le colpevolizza da sempre per il loro comportamento disonorevole. Una madre continentale, quindi quasi "aristocratica" per le sue origini alloctone, che non ritornerà mai più in continente, trincerandosi in quella Sicilia che non le è nulla, se non volontaria reclusione a vita. La diversità quindi è per Anna Paola la dimensione in cui si è sempre mossa e che le dà la forza, tutto sommato, per intraprendere un viaggio verso l'incognito, e affrontare il mistero del proprio padre. Anna Paola si ribella al proprio mondo, cercando come molte giovani di sfuggire all'ambiente chiuso dell'isola: va a studiare a Roma guadagnandosi da vivere come barman, scegliendo quindi un mestiere solitamente praticato da uomini, l'arte di mescere bevande e di ascoltare le confessioni dei clienti dietro il bancone di un bar. Il romanzo quindi disegna due storie: una, quella di Anna Paola, e una il cui filo è più sottile da ritrovare nei dialoghi e nei racconti racchiusi nel libro. È, la seconda, una storia di emigrazione, una storia di sradicamento dalla propria terra e dai propri affetti, una storia che agli italiani, in particolare ai sardi e ai siciliani, doppiamente sradicati, Un biennio di narrativa femminile 221 è ben nota. Doppiamente lontani, dall'Italia come dalla loro isola, recano nel paese d'immigrazione usi e costumi che non trovano radici nel tessuto locale, se non sottoposti a drastiche trasformazioni, come il menu del ristorante di Giovanni, che, come nota Anna Paola, è una strana commistione di pietanze di varie regioni d'Italia. Il lato più nuovo del romanzo è che, per una volta, è un romanzo d'immigrazione raccontato da una donna italiana alla fine degli anni '90, una "laureata" e, come tale, non può far rivivere i melodrammi di altre storie, quelle in cui la donna era letteralmente trascinata verso un continente sconosciuto, allevando creature che parlavano una lingua diversa dalla propria, come per gli italo-australiani di Sydney ο gli italo-americani di Brooklyn. Cutrufelli è come sempre molto brava nell'innesto di due generi diversi, legati nella trama dalla scrittura asciutta, senza indulgenze, che da sempre ne connota i suoi lavori. Dopo le inchieste, i romanzi storici come La briganta, i gialli come Complice il dubbio, la letteratura erotica e il toccante Canto al deserto, Cutrufelli ha trovato nel suo recente romanzo una soluzione tematica e strutturale realmente innovativa che la riconferma come una delle scrittrici più importanti del panorama italiano di questo decennio. Adele Cambria, Storia d'amore e di schiavitù, Venezia: Marsilio, 1999, pp. 212. Anche le femministe dichiarate hanno dei momenti di cedimento e confessano le proprie debolezze sentimentali, il proprio attaccamento a delle persone, a dei luoghi che non potranno mai cancellare dal paesaggio che compone le loro esistenze. Adele Cambria, conosciuta giornalista e saggista, nel suo nuovo romanzo racconta un tracciato esistenziale che possiamo facilmente ritrovare in tutte le femministe della prima ondata, cioè quella per intenderci di Dacia Maraini, Rossanda, Fallaci. Oriana Fallaci aveva a suo tempo scritto una dichiarazione d'amore e di appartenenza (sia pure intesa in termini assai diversi da come si concepisce di solito una "dipendenza amorosa") in Un uomo. Cambria vira leggermente il tiro e compone invece una singolare storia d'amore in cui l'altra donna che fa parte del triangolo romanzesco è sua madre. Divisa e pure unita in qualche modo dalla sua dipendenza nei confronti della madre anziana e dei capricci di un intellettuale olandese (nella cui figura si racchiude il desiderio non insolito di donne meridionali per la cultura del Nord, come nel caso di Fabrizia Stefania Lucamante 222 Ramondino) Lucrezia è il personaggio principale narrato in terza persona. Fuggita dall'opprimente Sud, torna e costruisce una villa sulle rovine di un palazzotto di famiglia e raccoglie via via su magnetofono le storie di famiglia raccontate dalla madre. Quello che noi leggiamo diventa allora un tracciato della storia dell'aristocrazia calabrese in declino, dell'ascesa della borghesia grazie alla politica matrimoniale così ironicamente celebrata nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, e dello stato di soggezione in cui vivevano le donne anche se di famiglia abbiente. Le lettere fra il nonno Luciano, (avvocato e quindi perfetta immagine della grecità che ancora ci lega nell'amore per la retorica e l'oratoria alla Madre Grecia) e la dolce Teresina, morte di meningite tubercolare a venticinque anni (non dopo aver dato tre figlie al marito che voleva il maschio) indicano chiaramente come persino le manifestazioni più intime quali le lettere fra innamorati fossero dirette dall'uomo che chiedeva alla dolce Teresina di scrivergli "esattamente" quello che lui le indicava nella sua missiva. Ma queste donne sapevano anche trarre vantaggio dai pregiudizi locali e la storia di come Donna Maria, bisnonna della protagonista fosse riuscita a sposarsi con il Marchese di Spagna ne è un significativo e divertente esempio. "Le radici dell'odio materno per le intellettuali" (p. 18) si spiegano nella frustrazione di donne intelligenti costrette a non studiare, a non emanciparsi mediante la lettura. Zia Rosa, unico esempio di trasgressione, stilava addirittura degli elenchi di letture specifiche per ciascuna nipote, facendo delle eccezioni proprio per Lucrezia, di cui aveva compreso a fondo lo spirito intellettualmente inquieto che la porterà a fuggire dalla Calabria, dall'università di Messina dove doveva andare accompagnata dalla madre ("è per la gente"), a partecipare alle manifestazioni di piazza a Reggio, insomma a opporsi apertamente a un sistema di oppressione perfezionato in secoli di soggezione femminile. È curioso come, sebbene la figura di Anton conti moltissimo per la protagonista, non conti invece molto nel ricordo del romanzo letto. La sua eccentricità, il suo ribellarsi a legami e a forme di comportamento usuali nel legame che pure lo tiene avvinto a Lucrezia, non interessa molto. Un "barbone intellettuale", una persona che molto ha sofferto, la cui etica calvinista non lo abbandona per un attimo, ma fondamentalmente non incide le pagine del libro. Le figure femminili sono invece memorabili, da Teresina alla madre di Lucrezia, ed infine Lucrezia stessa, combattuta e conscia delle incongruenze che affiorano continuamente nel destino che le donne si sono scelte in questo secolo. Un biennio di narrativa femminile 223 Rosetta Loy, La porta dell'acqua, Milano: Rizzoli, 2000, pp. 104. Una scrittura creativa che frequenta l'autobiografia rappresenta l'universo di Rosetta Loy, una fra le nostre scrittrici di vero e dimostrato talento narrativo. In un sapiente alternarsi di stili e tecniche Loy propone sino dagli anni '70 bei romanzi come quello d'ambientazione monferrina, Le strade di polvere (Einaudi, 1987) ο Cioccolata da Hanselmann (Rizzoli, 1995) e storie dichiaratamente autobiografiche, come appunto il recente La porta dell'acqua. In libri diversi Loy ci ha raccontato momenti diversi della sua vita, come anche della società italiana, ma è l'infanzia a costituire il tempo privilegiato della sua ultima opera. Il libro fu pubblicato per la prima volta nel 1976, ed ora la scrittrice ne ha rivisto il testo offrendolo alle stampe della Rizzoli. Importa dire che questa revisione avviene dopo la pubblicazione di un altro libro, La parola ebreo (Einaudi, 1997), nella cui prima parte l'autrice aveva rivisitato lo stesso periodo di vita, cioè i primissimi anni di scuola presso le suore francesi e l'agiata infanzia trascorsa entro il rassicurante perimetro delimitato dal Ministero della Marina sul Lungotevere, Villa Borghese, Piazza del Popolo e la via Flaminia. La parola ebreo è un libro in cui l'autobiografismo cede spesso il passo alla saggistica per meglio trattare il problema della responsabilità degli Italiani verso gli Ebrei e la critica che Loy muove alla società italiana per una mancata presa di posizione riguardo alle leggi razziali del '38. Un senso di responsabilità che in La parola ebreo prende forma nel ricordo di Regina, la bimba con la croce di David dall'oro "lucido di pelle", che a un certo punto smette di frequentare Villa Borghese e che la protagonista non rivedrà mai più. Nella Porta dell'acqua rivediamo Regina per un solo prezioso attimo mentre la storia trabocca di figure femminili, importantissime per la bimba, la cuoca, la domestica, e sopratutto la severa ma giusta governante. Nella Porta dell'acqua il ricordo di Anne Marie conduce alla quotidianità dell'infanzia ("Tutto partiva da quel caffellatte ingoiato d'un fiato. 'Le train', 'Le garçon', 'La cuillèèère...'") ma continua a tormentare nel ricordo la scrittrice, ancora e sempre, per quella inconsapevole crudeltà che la bambina le leggeva negli occhi "chiari come il cielo" mentre le raccontava la fiaba di Paulinchen, morta bruciata per aver disubbidito agli ordini della madre, "c'era da urlare dal panico, sentivo in bocca la polvere del tappeto". La figura della governante Anne Marie ci ritorna in mente per via dell'immagine scelta per la copertina del libro, delle forbici su un tavolo vicino a un oggetto che potrebbe sembrare un cuore, un cuore di bimba. Nella Parola ebreo Stefania Lucamante 224 era ancora la stessa Anne Marie a spiegare alla bambina il mistero della circoncisione, decretando la superiorità degli ariani verso un popolo così crudele da continuare dopo secoli di storia questo brutale rito di iniziazione alla vita e spiegava in tedesco come, con delle forbici, fosse tagliato via un lembo di carne dal bimbo appena nato. Lo struggente amore per la governante tirolese insomma appare legato a questa componente di paura, di terrore in certi punti del libro, e le forbici, la lingua straniera con cui se ne parla ("mit der Schere") sono sempre simboliche di una cesura, di una lontananza inevitabile fra la bimba e questa donna così piena di certezze ma che raccontava fiabe terrificanti di piccoli Konrad dal dito tagliato, appunto, "mit der Schere". La cesura però non esiste soltanto fra la bambina e questa governante che, chiusa nella propria sicurezza fatta di poche ma incrollabili regole e intimamente troppo convinta del loro "futuro di Ariani Cattolici Apostolici Romani", non può capirne i timori, le paure, nè può capirne certe riluttanze nell'ascoltare delle (apparentemente) innocue fiabe serali. Anne Marie non basta certo a colmare il senso di vuoto e di insicurezza causato dall'assenza della madre. Della madre noi leggiamo delle belle gambe inguainate in calze velate, del rossetto che le colorava la bocca, delle ginocchia con impresso il segno della paglia dell'inginocchiatoio su cui lei pregava nelle varie chiese di Piazza del Popolo il giorno dei Sepolcri. Per il resto, niente, assolutamente nulla. La bambina non si misura, come capita frequentemente nella scrittura autobiografica, con una figura materna. Non vi è fatta menzione di una famiglia, di un nucleo intorno a questa bambina. E quindi la pagina autobiografica diventa ancora più struggente di quanto non potrebbe sembrare all'avvio della lettura, segnato dal rumore del tram. Sono, i libri di Rosetta Loy, delle autobiografie "sognate" perchè spesso appaiono a chi le legge come delle preziose storie il cui spunto personale viene dato in modo impalpabile, in cui persino l'eco di un'esperienza traumatica non ne turba la lettura. Per questo motivo le pagine autobiografiche della scrittrice inducono spesso a ricordare un certo autobiografismo di stampo proustiano, soprattutto per la delicatezza delle immagini legate a "le vert paradis des amours infantins". Ed è con toni molto delicati e sobri che siamo fatti parte di un trauma che risale all'origine della scrittura, che risale a quel caffellatte che si presenta sulla pagina appunto come una madeleine renversée. Di un trauma causato all'inizio dall'assenza di una figura materna, un'assenza anche dai propri sensi, in quanto il profumo che segna l'arrivo della madre raramente penetra nelle narici della bambina, Un biennio di narrativa femminile 225 di solito seduta in cucina con il personale, fra cui dobbiamo ricordare la figura di Francesco, l'autista di casa, anche lui sfregiato con delle forbici, ma per amore. Nelle narici la bimba, capace di amori travolgenti e fortissimi, conserva invece l'odore di pulito (e asettico) della governante, di quella stessa donna che ama mangiare il fegato crudo quasi a dimostrare la propria diversità in una casa in cui gli agi consentivano anche una certa mollezza di costumi, e che col suo famoso sguardo ("non piangeva mai Anne Marie") terrorizzava persino Letizia, la cameriera. La seconda parte del trauma si compie con la vita trascorsa in compagnia di una donna molto amata come la governante la quale non prova per la bambina alcun trasporto, ma un semplice senso del dovere. Duplice abbandono, in qualche senso, simile all'abbandono involontario della bella bambina bionda dalla stella di David, paragonata dalla scrittrice alla Paulinchen di Grimm ("Paulinchen era forse ebrea?"). Un senso di solitudine emerge da queste pagine in cui, per l'indubbia riuscita, si giustifica pienamente la necessità sentita dall'autrice di riscriverle a distanza di oltre vent'anni. Per levigarle ulteriormente, ma forse per cercare pure di togliere quel che di troppo sofferto era rimasto impresso nelle pagine della precedente versione. Come scrive Rosetta Loy, nel 1976 la scrittrice non era ancora "consapevole dei colori lividi che dividono la felicità dall'infelicità". (p. 102) Angela Bianchini, 1999, pp. 235. Un amore sconveniente, Milano: Frassinelli, Ma quando guardava Flaminia, pur legato alla mano della madre, Edoardo mutava espressione. La passava tutta, indugiando qua e là sui capelli, sugli occhi, sulle labbra rosse, sul corpo. Allora i familiari, e più di tutti la madre, distoglievano lo sguardo: come davanti a una voluttà segreta che si rivelava in modo quasi indecente, in un luogo così poco adatto. (p. 11) Il romanzo di Angela Bianchini, candidato al Premio Rapallo di quest'anno (2000), si raccoglie per me tutto in questo passo tratto dalla scena in cui Edoardo e Flaminia riallacciano i rapporti con la famiglia di lui, da anni interrotti per via dell'indecente e sconveniente, appunto, passione scoppiata fra i due. La sobria e morigerata famiglia torinese non può tollerare una donna così bella e appariscente per compagna dell'intellettuale Edoardo, nè tanto meno, può permettere che di tale storia scandalosa si parli nei circoli torinesi, romani e parigini del Stefania Lucamante 226 tempo. Il classico vivere low-key della società bene torinese viene sconvolto da una Flaminia che Bianchini ci propone come prototipo della femme fatale degli anni trenta. Una donna per la cui descrizione si rendono imperiosi i superlativi. E quindi Flaminia è bellissima, altissima, biondissima, con un viso dai lineamenti perfetti su cui le labbra turgide e rosse come lo smalto delle sue unghie ne sigillano il marchio di diva. Uno smeraldo di misteriosa provenienza è il gioiello che le sue mani bianchissime portano quale emblema della sua preziosità. Flaminia è un personaggio che non si può dimenticare facilmente, resta impresso per tutto il corso della lettura, e non a caso il triangolo del desiderio fra Edoardo e il cugino pittore Ottavio si scatena a causa di questo "oggetto" folgorante, passionale, e dotato però di una inspiegabile forza interiore che le fa sopportare - se necessario - quel vivre sur la paille, di cui pure ha tanta paura. Una francese dalle origini misteriose come lo smeraldo, ma che sa comunque accattivarsi artisti e merciai, politici e tappezzieri della Firenze ritratta nel libro ancora quale felice colonia degli inglesi prima dell'ingresso in guerra di Mussolini. L'atmosfera, dicevo, è quella con le signore con code di volpe, e ancora non sciupate dalle privazioni di un'altra guerra, ancora più atroce dell'altra. Ancora più atroce perchè ne nasconde un'altra, ancora più subdola e crudele: quella condotta da Hitler contro i diversi, contro coloro che non si uniformano alle leggi razziali decise e ideate allo stesso insorgere del Nazional Socialismo. Fra i diversi, logicamente, gli Ebrei, coloro che da secoli sono perseguitati perchè "hanno ucciso Gesù" e su cui gravano varie colpe, soprattutto quella, come sosteneva Hannah Arendt, di disporre di mezzi economici ma non di potere e di un sistema politico. Edoardo, oltre a essere un insigne cattedratico, è anche ebreo. Come molti ebrei occidentali, Edoardo è principalmente un intellettuale, chiuso nei propri interessi, in particolare l'elegia settecentesca, e le leggi razziali lo trovano mal preparato ad affrontare questo immotivato rifiuto della società italiana nei suoi confronti. Flaminia non pare accettare il proprio destino di amante e moglie di Edoardo sino in fondo. Seguirlo nel suo esilio societario, cioè, prima nel suo esilio dagli incarichi universitari, poi al confino. Flaminia si è assolutamente impadronita del mondo di Edoardo, ma lo vuole tutto per sè, persino economicamente approfitta dello stato di debolezza del compagno e gli fa firmare documenti compromettenti e donazioni a suo vantaggio. Ed Edoardo, che pure aveva lasciato quella Torino buia e soffocante per vivere lontano da un "moralismo che faceva muro, dettava legge, forgiava le volontà, in modo irrazionale, come per Un biennio di narrativa femminile 227 eredità atavica", fa ritorno in quello stesso ambiente sociale, dai cui valori era pure un tempo fuggito, a Roma questa volta, per sfuggire alle deportazioni. Un risvolto amarissimo di una storia d'amore che era iniziata secondo i dettami più tradizionali, cioè quelli di una passione dirompente e travolgente. L'elegia "è l'aver perduto un bene, l'amore, una donna, e tuttavia non aver mai perduto la speranza di riacquistarlo". Le pagine ambientate a Firenze ricordano infatti molto da vicino il film di Zeffìrelli Tè con Mussolini, e mi sembra cosa assai interessante che, in questo periodo di ibridazione di generi, un libro possa ricordare un film (una volta tanto) e non il solito contrario. Bianchini conduce una esperta operazione narrativa in cui il romanzo, avvincente nella sua trama dalla prima all'ultima pagina, si affida nella sua indubbia riuscita stilistica, a una rinnovata concezione del romanzo d'amore, di un amore appunto "sconveniente", soprattutto se misurato contro lo sfondo del problema razziale. Melania Mazzucco, Lei così amata, Milano: Rizzoli, 2000, pp. 430. Un romanzo da leggere per ritrovare un'epoca, un Kindertötenlieder di sapore dichiaratamente mitteleuropeo che viene creato da coordinate diverse dalle solite in cui sono ambientati i romanzi italiani. Dall'Engadina all'esotica Persia, il libro di Melania Mazzucco liberamente ispirato alla vita di una eccentrica intellettuale svizzera, Annemarie Schwarzenbach, Lei così amata, ci conduce all'interno di uno spazio destinato in quel periodo alla società esclusiva di Evelyn Waugh, a quella motley society dei suoi romanzi, a quella classe alto-borghese che fra le due guerre non faceva altro che viaggiare, che girovagare di città in città, rifugiandosi poi in stazioni sciistiche esclusive. Questi giovani si muovono irrequieti fra una Berlino calpestata dalle camicie brune e la Svizzera giardino dell'Eden, ferma e pure implacabile come l'immagine di Renée, la madre odiataamata di Annemarie. Per un'Annemarie quasi vergognosa delle proprie origini, solidamente radicate nell'opulenta alta borghesia svizzera di cui nel libro la casa dei genitori a Bocken si erge ad emblema, seguire Erika Mann e fare parte della sua famiglia di artisti, cenare con Thomas Mann e camminare con il premio Nobel sulla spiaggia di Lavandou durante il suo esilio, diventa sempre più importante. Diventa così impellente quella trasformazione di persona ("qual è la differenza fra i tedeschi e gli svizzeri" chiede un personaggio), quel tentativo di far parte del nucleo Mann che la conduce all'aberrazione di se stessa, Stefania Lucamante 228 all'anoressia, sino al tentativo di suicidio, sino al dissolvimento delle proprie energie creative. I personaggi che regolano la trama-vita della protagonista somigliano ai ragazzi di Jean Cocteau, proprio a quei ragazzi del romanzo Les enfants terribles (sopratutto lei e Klaus Mann) in cui le boules de neige della famosa canzone per bambini diventano invece il simbolo della droga, della potente ed insostituibile arma con cui sia les enfants terribles che Annemarie condurranno se stessi verso una morte perlomeno spirituale. Ma c'è anche una morte reale. Una morte del tutto accidentale, anzi stupida. Una morte per una caduta dalla bicicletta, per un sasso "insignificante, aguzzo" trovato sulla strada della possibile redenzione, la casa tutta per sè che Annemarie aveva tanto desiderato nella sua sicura Svizzera. Ma come tutte le icone, come tutti i miti, anche Annemarie era destinata a morire giovane, bella, ricca e disperata. È anche per questo che ancora rimane l'incanto di questa donna così sola nonostante la passione che ispirava a tanti, non ultima alla scrittrice Carson McCullers. Non il Luminal, ma qualcos'altro di altrettanto letale spegne questa donna i cui lavori sono ancora in larga misura non tradotti in Italia. Questa giovane donna, pura immagine di una trasgressione e di un desiderio di trasgressione che salta di generazioni per ritrovarsi fra le "bad girls" di cui tanto oggi si parla. Una trasgressione che è diventata forse più di massa, ma che comunque raccoglie in sè il desiderio disperato di affermarsi non per quello che la propria famiglia impone ancora sulle donne, ma per quello che alla società si vuole dare di sè come individui. In lotta contro la propria estrazione alto-borghese, infelice nei suoi rapporti più importanti quello con la madre e quello con Erika - Annemarie viene ricordata con amore, con attenzione da una Mazzucco perfetta narratrice di trame che si propongono sempre l'analisi del diverso, dell'Altro, oltre che con l'apparente impossibilità di sfuggire ai propri istinti, al proprio fascino, al proprio destino di essere appunto "così amate". Come nel Bacio della Medusa, Mazzucco rivolge appunto alla diversità il proprio talento narrativo, arricchendo (sia pure in forma finzionale) la biografia di Annemarie Schwarzenbach con innumeri notizie e informazioni che basterebbero in sè a giustificare la lettura del libro. Un libro che, non distante da In America di Susan Sontag, incorpora felicemente fiction e dato autentico ricavato dalla scrittura autobiografica della protagonista. E lo fa trasformando i suoi taccuini di viaggio dalla Persia, dall'Afghanistan, le lettere ai gemelli Mann, le osservazioni su una Berlino cosmopolita e vivace in una scrittura che ha l'effetto desiderato: quello di una vita assolutamente romanzesca. Un biennio di narrativa femminile 229 Renata Pisu, La via della Cina, Milano: Sperling & Kupfer, 2000, pp. 191. Sì, dico io, magari la Storia è finita, ma non le storie, le nostre storie. Io voglio soltanto raccontare qualcuna di queste storie, di ieri, di oggi. E se mi obiettano che non sono la Storia, io rispondo 'pazienza', tiriamo avanti. Comunque mi ero ammalata, avevo contratto il mal di Cina. Sono ancora malata di Cina, oggi. Partendo da Pechino avevo giurato che in quel paese dell'assurdo non avrei mai più messo piede. E invece ci sono tornata non una ma dieci, venti volte almeno. (p. 87) I ricordi di viaggio in Cina per motivi di studio e di lavoro sono al centro dell'interessante libro di Renata Pisu, una famosa corrispondente e orientalista italiana. Entrato nella rosa dei dieci finalisti per lo Strega di quest'anno (2000), il libro, il cui genere dovrebbe essere quello appunto di un taccuino di viaggio, si trasforma nella lettura diventando il romanzo della passione nutrita dall'autrice per questo paese. Percorrendo gli anni giovanili e lo stupore di fronte alla situazione trovata a Beida, la città universitaria, la voce di Pisu diventa via via una testimonianza degli anni più duri per il comunismo di Mao, della totale incomprensione degli occidentali per quello che stava avvenendo in Cina, e anche una dichiarazione di amore - sia pure inspiegabile persino agli stessi occhi di chi questo taccuino di viaggio e di vita ha steso - per un paese così lontano (in tutti i sensi) dalla propria terra. Diviso in tre parti, "Pechino-Università", "Gli anni dell'inganno", e "Continua", La via della Cina offre un singolare punto di vista, quello di un'italiana che ha vissuto in una totale immersione la cultura di Mao osservando anche la lettura distorta che di tale cultura i maoisti occidentali facevano, sostenendo l'assoluta necessità di privazioni e ingiustizie del regime mentre vivevano nell'ovvio comfort dell'Europa occidentale. Non ultime Pisu ricorda le singolari interpretazioni di Roland Barthes, l'esempio eclatante di una mappa di misreadings che la giornalista causticamente annota insieme alle cattive interpretazioni della fonetica cinese, piegate da una discutibile logica ideologica del comunismo europeo degli anni '60 e ' 7 0 . Illustri visitatori quali un tollerante e umano Pajetta, un giovane Bettino Craxi che la scambiava per cinese e poi le insegnava a cantare "Nel blu dipinto di blu", un console lasciato a Shangai da anni dal governo italiano in caso di una ripresa dei rapporti diplomatici, producono immagini memorabili e veloci lasciando una traccia della storia ufficiale italiana. Queste immagini nel libro devono però lasciare Stefania Lucamante 230 necessariamente lo spazio ad altri temi più urgenti. Innanzi tutto al discorso della memoria cronachistica (o che almeno tende ad essere tale) di un paese conosciuto e profondamente amato ma non compreso, e secondo al punto di vista di una donna di cultura. Una donna il cui tracciato culturale rappresenta il classico caso di "soggetto nomade" secondo la definizione della teorica Rosi Braidotti. Pisu la cita infatti per spiegare la propria coscienza nomade, "che equivarrebbe all'aver dimenticato di dimenticare l'ingiustizia, al mantenere una memoria viva, controcorrente, al suscitare una ribellione dei saperi sottomessi" (p. 89). Nella memoria definita "imperfetta" perchè lega episodi cronologicamente lontani ma contigui per chi narra, la strage di Tiananmen, il sangue che sgorgava dalle ferite che gli stessi studenti si procuravano immolandosi al martirio, viene avvicinata alla tragedia personale della stiratrice i cui tre figli erano morti in Corea. Nel suo implicito rifiuto di usare il termine previsto allora dal regime, quello di "sacrificati", si manifestava la silenziosa protesta per l'offesa continua alla dignità individuale durante il periodo di Mao. Ο all'impossibile storia d'amore di Lia per un giovane cinese, Pai Guting. Ο alle purghe per coloro ingiustamente ritenuti di destra, ο al discutibile uso dei dazebao come strumenti di pubblica accusa. "Adesso che il mondo si rivela frantumato nei particolarismi, nelle etnie, nelle rivendicazioni furibonde e sanguinose di ogni differenza, si fatica a credere che allora ogni particolarismo culturale venisse ignorato, negato, irriso in nome di una ideologia globalizzate che, certo, celava buone intenzioni" (p. 20). Fabrizia Ramondino, Passaggio a Trieste, Torino: Einaudi, 2000, pp. 310. Nel caso della scrittura di Fabrizia Ramondino la cultura meridionale, quella di un sud "disperso" generante, come direbbe Filippo La Porta, un "disagio produttivo", vive e si nutre del contatto con la letteratura europea, specialmente quella francese e tedesca. I vari generi con cui da sempre si misura la scrittrice, il taccuino di viaggio, il dossier-inchiesta, il romanzo come Althénopis, i racconti preziosi di Storie di patio, l'autobiografia di un periodo difficile in L'isola riflessa, ne rendono impossibile l'inserimento in una corrente specifica, sia per genere che per tematiche. Come in effetti è giusto che sia quando si parla di un talento come il suo, non facilmente collocabile entro mode effimere. Una donna che, italiana per caso e napoletana per scelta (e non per costrizione ο troppo facili etichette) deve a un'infanzia Un biennio di narrativa femminile 231 peripatetica e alla propria sensibilità il desiderio di conoscere e capire l'Altro da sè, il luogo diverso così come la persona diversa. Come dice Edward Said, la sopravvivenza in questa società sta proprio nel contatto con gli altri, nel contatto con e fra tutti i diversi. Un'utopia eterotopica finalmente possibile? Dopo l'esperienza narrata due anni fa in Un'isola riflessa, Ramondino parte alla scoperta di un'altra situazione utopica, una delle "possibili" utopie in cui la scrittrice ha sempre creduto, dalle esperienze raccontate in Disoccupati organizzati alle scuole di quartiere a Napoli, quella del Centro Donna Salute Mentale di Trieste. Trieste viene vista come un luogo-confine di varie etnie, ambiguo, e dove, secondo l'autrice, ha senso l'aver tentato di "superare il confine tra normalità e follia" (p. 53). Passaggio a Trieste inizia con delle pagine introduttive in cui Ramondino spiega le basi della propria conoscenza della città, quelle di tipo culturale, tutte conoscenze legate a figure maschili (Saba, Bazlen, Joyce) e passa poi a una Trieste al femminile per poter raccontare del "diario di bordo", delle esperienze vissute dalle donne che vivono nell'utopia possibile concepita da Franco Basaglia. Per Ramondino Trieste si rivela al tempo stesso il luogo in cui finalmente "scendere" nella peculiarità di genere, in cui finalmente capirsi in quanto "donna". Una presa di coscienza che viene resa possibile dal femminismo positivo dell'amica Assunta, cofondatrice del Centro che l'accompagna virgilianamente nel viaggio (sempre un viaggio) in un mondo così complesso come quello della psiche femminile, dei traumi spesso considerati "inesistenti" sino a quando le donne non capirono che, per capirsi dovevano rendersi conto di questa differenza che Ramondino chiama "peculiarità di genere", appropriandosi anche degli strumenti utili per capire la psiche femminile, rivedendo le teorie freudiane, studiando Melanie Klein. Dopo anni di impegno sociale, di impegno artistico, l'autrice si rende conto di ciò che non aveva compreso prima per una "velata disistima delle donne in generale", "nonostante le tante esperienze fisiologiche" vissute con "aristocratico distacco" come se le stesse vivendo un'altra persona e non lei. Quindi attraverso questo viaggio nelle sofferenze delle Altre, le diverse che chiedono e cercano inconsciamente un rapprochement con la società dalla quale sono state escluse per vari motivi, c'è logicamente un esame e una presa di coscienza del proprio atteggiamento verso un particolare aspetto della propria vita, da sempre tacitamente rifiutato. In questo caso il conflitto, causato anche da un certo atteggiamento snobistico verso coloro che proclamavano la differenza della loro voce e la loro scrittura inevitabilmente incisa, Stefania Lucamante 232 scavata dalla loro realtà, mettendo a rischio altri valori ritenuti allora più importanti da Ramondino. L'attitudine per il particolare fa di Ramondino una narratrice puntuale, la cui scrittura sempre asciutta e senza sbavature si concede ricchezze lessicali che addolciscono un universo altrimenti difficile da leggere. E il racconto viene scandito dalla data delle diverse giornate trascorse al Centro, che si concludono tutte con la visione serale dei film di Marilyn Monroe, un'attrice famosa che visse gli stessi problemi di queste anonime figure femminili, Maria Lourdes, Wilma, Giustine, Graziella. Queste donne sono tutte raccolte e ricordate nella loro sofferenza grazie all'inserimento nel testo principale di scritture altre, lettere, racconti, profili di malate che appartengono a loro e alla loro corporeità. A vent'anni dalla riforma di legge, donne-pazienti, donnepsicologhe, donne-psichiatre, donne-infermiere accettano di farsi raccontare e dirigono in un certo senso la scrittrice in un viaggio verso un'ascesi personale "dopo una fede inconsulta nell'integrità del corpo" e a seguirlo "nel senso del suo inevitabile limite", ad accettarlo e ad accettarsi, come anche a capire fino in fondo il significato di una delle definizioni di follia date da Franco Basaglia nelle sue Conferenze brasiliane: "La follia è diversità, oppure aver paura della diversità". STEFANIA LUCAMANTE The Catholic University of America, Washington, D.C.