L`EPISTOLA AL CONTE CARLO PEPOLI

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L`EPISTOLA AL CONTE CARLO PEPOLI
Pino Zanni Ulisse
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IL MANIFESTO LEOPARDIANO:
L'EPISTOLA AL CONTE CARLO PEPOLI ( 1826)
N
ella nomenclatura leopardiana (Vieusseux, Capponi, Colletta,
Poerio, Puoti, Troya, Ranieri [...]) spicca il Pepoli, per la
Lettera (Ep. CLXXXII) e per l'Epistola "dedicata" anche nel
titolo, emulo in questo di Angelo Mai Cardinale e di Gino Capponi
Marchese: "Questo affannoso e travagliato sonno/ che noi vita nomiam,
come sopporti,/ Pepoli mio?"
Senza essere pedanti, nella ricostruzione storica della biografìa
leopardiana, quei personaggi non fanno solo da sfondo, ma furono
occasioni di maturazione per l'uomo ed il cittadino Leopardi: dal
Giordani a Ranieri.
Carlo Pepoli (Bologna 1796-1881)
Patriota letterato (Accademia dei Felsinei) partecipò ai moti del 1831.
Fatto prigioniero dagli Austriaci, andò in esilio a Marsiglia, Parigi e
Londra, dove sposò la scrittrice Elisabetta Fergus (1839). Nel 1848
tornò in Italia e fu Commissario a fianco del Gen. Durando e Deputato
della Costituente Romana. In esilio dal '49 al '59, fu Deputato al
Parlamento Italiano nella VII e VIII legislatura. Senatore dal 1862,
Sindaco di Bologna. Amico del Leopardi che gli dedicò l'Epistola a lui
intitolata. Scrisse il libretto dei Puritani per Bellini. Lasciò una raccolta
di Poesie e Prose (1880).
Vieusseux Giampietro (Oneglia 1779-Firenze 1863)
Giornalista italiano di famiglia ginevrina. Nel 1819 a Firenze fondò il
Gabinetto di Lettura (la Biblioteca annessa oggi conta 650.000 volumi).
Nel 1821 fondò con Gino Capponi l'Antologia, il Giornale Agrario
Toscano, la Guida dell'Educatore, l'Archivio storico Italiano. Il Salotto
del Vieusseux fu frequentato dai più illustri letterati e studiosi del
tempo: Manzoni, Stendhal, D'Azeglio, Dumas padre, Michelet,
Tommaseo, ecc. Il Vieusseux non fu un creatore ma un energico
organizzatore per una equilibrata diffusione della cultura.
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Capponi Gino (1792-Firenze-1876)
Pedagogista e uomo politico italiano, amico del Foscolo, Manzoni,
Leopardi, Tommaseo, Colletta, Giusti. Presidente del Consiglio nel
1848, invano chiese al Granduca le riforme richieste dai tempi.
Senatore del Regno d'Italia.
Come storico pubblicò dei saggi: Sulla dominazione dei Longobardi in
Italia, 1844; Cinque letture di economia toscana, 1845. Come
pedagogista pubblicò a Lugano nel 1845, anonimo, il Frammento
sull'Educazione, ispirato al pensiero di Padre Girard e di Albertina
Necker de Saussure (l'attività sintetica precede l'analitica, il pensiero
intuitivo del fanciullo, spontaneità del sentimento, non in libertà
assoluta (Rousseau), ma regolata, tradotta in idea morale e religiosa, in
un ideale di comunione tra gli uomini).
Colletta Pietro (Napoli 1775-Firenze 1831)
Ingegnere, Generale e scrittore napoletano. Nel 1815 fu a fianco di G.
Murat, fino a Tolentino. Successe a Florestano Pepe, durante la
secessione siciliana e ridusse la Sicilia all'obbedienza. Nel 1823 si
stabilì a Firenze e appartenne al Cenacolo dì G. Capponi, strinse
amicizia con G.-B. Niccolini, con Giordani, Leopardi, che lo
incoraggiarono a scrivere la Storia del Reame di Napoli dal 1734 al
1825, libro di battaglia contro l'oppressione borbonica. Collaborò
all'Antologia.
Poerio Giuseppe (1755-Napoli-1843)
Patriota, partecipò alla Repubblica Partenopea. Raggiunse alte cariche
pubbliche sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. Fu a Firenze
dal 1823 al '27.1 due figli Alessandro e Carlo furono anch'essi patrioti.
Puoti Basilio (1782-Napoli-1847)
Letterato italiano purista. Nel 1825 aprì a Napoli la Scuola di Lingua
Italiana, di cui furono allievi L. Settembrini e Francesco De Sanctis.
Superò i canoni del Padre Cesari (cultore degli scrittori "dell'aureo
Trecento"), selezionando i Trecentisti ed includendo nel canone autori
del Cinquecento e Seicento. Pubblicò: Regole elementari di lingua
italiana (1833), Della maniera di studiare la lingua e l'eloquenza
(Purismo), Dizionario dei francesismi (1845).
Troya Carlo (1784-Napoli-1858)
Storico. Esiliato per la partecipazione alla rivoluzione liberale del
1820-21. Nel 1844 fondò a Napoli la Società Storica. Neoguelfo e
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moderato esaltò l'azione dei Papi come fattore di civiltà, nella sua
Storia d'Italia nel Medioevo (Voll. 4, 1839-55), in Il Veltro allegorico
di Dante (1822), in Annotazioni agli Annali del Muratori (Voll. 2,
1869-71).
Giordani Pietro (Piacenza 1774-Parma 1848)
Scrittore italiano. Appena laureato si fece monaco benedettino, ma poi
lasciò il monastero e fu anticlericale. Nel 1807 compose un Panegirico
a Napoleone e ottenne l'uffìcio di prosegretario dell'Accademia delle
Belle Arti di Bologna. Nel 1824, incolpato per uno scritto "irriverente"
verso la duchessa Maria Teresa, lasciò Piacenza per Firenze. Là
frequentò Leopardi, Manzoni, Capponi e Colletta. Per un
provvedimento della polizia lasciò Firenze e si trasferì a Parma, dove
morì inneggiando a Pio IX e Carlo Alberto.
Epigrafi, Elogi e Discorsi testimoniano il suo stilismo, rivolto alla ricerca della parola eletta, del ritmo, del periodo musicale. L'Epistolario
è prova della sua partecipazione al movimento letterario del tempo.
Esercitò notevole influenza sugli scrittori contemporanei, anche su
Leopardi.
Leopardi fu a contatto con uomini d'azione. "Pensiero ed azione"
furono anche i cardini delle convinzioni di Giuseppe Mazzini. In
Leopardi l'azione fu del tutto assente, il pensiero "debole", il desiderio
di vita possente. Patrioti, pedagogisti, puritani e puristi fecero da
sponda ai tentativi di evasione del poeta, che restò tale, ritrovando
l'ispirazione, ogni volta che tornava al "natio borgo selvaggio" [...]
certo: il "buon selvaggio" di Rousseau. L'assenza di azione generò nel
poeta il sarcasmo e la noia, evidenti nella Palinodia al Capponi: "un
désaveu sarcastique des utopies illuministes" e nell'Epistola al Pepoli,
che "marque la ruine des idéaux politiques" (Ν. Jonard).
La vita come "affannoso e travagliato sonno" segna l'incipit
dell'Epistola al Pepoli, premessa del Manifesto leopardiano.
Il nome di Pepoli emerge dall'Opera di Leopardi, come una pietra
miliare ο di confine tra le "conversioni " letterarie-fìlosofìche del poeta.
La moglie del Pepoli era inglese, ispirò i Puritani al marito. Anche
Manzoni subì l'influsso giansenista dalla moglie, come Tasso forse
quello calvinista dalla Duchessa d'Este [...]. Ma troppe cose dividono
"il sequestrato di S. Anna" dal poeta della Ginestra: il primo subì
pesantemente i condizionamenti dell'Inquisizione, tanto da fare della
Liberata la Conquistata (il latinista Card. Silvio Antoniano di Castelli
fu tra i revisori del poema del Tasso), ma tra Silvia e Nerina
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dell'Aminta e le omonime fanciulle di Leopardi c'è la differenza
sostanziale che corre tra un paesaggio solare e lunare.
"Leopardi puritano e laburista?" sarebbe una bella tesi. Alla
conversione letteraria e filosofica bisognerebbe aggiungere quella
"sociale-religiosa".
Tasso trova la sospirata pace a Roma nel convento di S. Onofrio,
testimoni gli sciolti del Mondo creato "tra i più belli del Cinquecento",
che negli enjambements prelude "l'austera epopea del Paradiso Perduto
(1667) del puritano John Milton" (N. Sapegno).
Leopardi, pur avendo avuto la correttezza di rifiutare una carriera,
tipo Angelo Mai, offertagli dal Card. Consalvi, rimase sul vestibolo
della Chiesa, mettendo tra parentesi, da buon illuminista, l'intero
problema religioso.
Infatti dalla Lettera al Pepoli (Ep. CLXXXII), nel breve
curriculum autobiografico accluso, apprendiamo che Leopardi "rifiutò
la prelatura e le speranze di un rapido avanzamento offertogli dal Card.
Consalvi" [...].
La signora Fanny Targioni Tozzetti inorridiva al pensiero di
doverlo chiamare "Monsignor Leopardi".
Invece dei Grandi Idilli avremmo avuto la corretta lettura di
Palinsesti ebraici, greci e latini ο la composizione di Inni da Missale ο
Breviarium, da far concorrenza al Dies Irae di Tommaso da Celano, al
Pange Lingua di San Tommaso D'Aquino, al Fortem virili pectore,
ritenuto dal Carducci "il più bello del Breviario Romano", capolavoro
del Card. Antoniano, che fu autore delle scritte latine sugli Obelischi
romani e nelle Stanze di Raffaello, come sulla modesta casa paterna
:"Ostium non hostium", fine come le maioliche di Castelli. (A.
Nicodemi, Il Card. S. Antoniano, Teramo 1949).
Leopardi evitò di dover buttare la tonaca alle ortiche, come
Giordani, o, come Panni, di dover lottare tra i doveri del celibato ed il
"suo diritto di poeta e di uomo a vagheggiare e ammirare la bellezza, e
in quell'ammirazione insinuare la nota accorata della sua nostalgia, del
suo desiderio sempre vano e deserto d'amore" (N. Sapegno). La Silvia
pariniana "veste alla ghigliottina!"
La vita come "travagliato sonno" non è una concezione affine al
Somnium Scipionis di Cicerone, "il primo viaggio spaziale dell'età
romana", dove il protagonista coglie "l'armonia dei cieli tolemaici", né
il sonno biblico di Giacobbe, "ponte tra gli uomini e gli Angeli".
Leopardi anche nell'Infinito scopre la dolcezza del naufragar "in questo
mare", per Margherita Guidacci "una delle più intense esperienze
mistiche che siano mai state registrate. L'assenza di Dio finisce col
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diventare premente come la Sua presenza, il vuoto diventa la Sua
capovolta presenza". Il Parere sul Salterio (1817), l'Inno ai Patriarchi
(1822), gli Inni progettati (Al Redentore, Ai Solitari, Ai Martiri, A
Maria) non costituivano un bagaglio culturale sufficiente per indossare
la tonaca, ma giustificano le sue osservazioni sul "sublime" della
Scrittura e spiegano le sue convinzioni sulla "vanitas vanitatum" delle
cose, sul pessimismo esistenziale, riconducibile all'Ecclesiaste, Giobbe,
Salomone.
Epistola Al conte Carlo Pepoli
Leopardi lesse questa Epistola davanti ad un pubblico selezionato
ed "annoiato", a Bologna nel 1826, presso l'Accademia dei Felsinei,
della quale il Pepoli era vicepresidente. Anche quella sera del 28 marzo
bolognese fu una "noia" per gli amici ed una delusione per Leopardi.
L'Epistola al Pepoli, per N. Sapegno, è "una prefazione postuma
alle Operette morali [...] pura prosa" in 158 versi, che testimoniano la
"conversione" di Leopardi alla filosofia.
Tradotta in lettera privata suona così:
"Caro Pepoli, che fai? come occupi i tuoi ozi? Gli operai passano il tempo
lavorando "per campar la vita". Marinai, militari, mercanti si affaticano
inutilmente, tra sudori, veglie e pericoli, per cercar di essere felici, ma
inutilmente. Noi aristocratici, che abbiamo il privilegio di non lavorare (altri
sudano per noi), abbiamo il problema di come occupare il tempo.
C'è chi passa la vita, dedicandosi alla moda, al gioco, al ballo [...] ma, tra tanti
sorrisi e convenevoli, cova "una noia immortale", non rimossa neppure dalle
"nere pupille" dell'amante.
C'è chi viaggia continuamente, ma "sotto ogni ciel" la felicità è solo tristezza.
Tu, nel fiore degli anni, ti sei dedicato alla poesia e alla bellezza.
Fortunato colui che, invecchiando, mantiene vigorosa la fantasia. Il cielo ti
conceda di restare amante della poesia fino a quando avrai i capelli bianchi.
Quanto a me, ormai sento venir meno "i dolci inganni" della giovinezza.
E quando non sarò più sensibile agli splendori della natura, quando la luna
silenziosa non mi commuoverà più, sotto un cielo limpido, quando ogni forma
di bellezza naturale ο artistica mi lascerà indifferente, mi convertirò allo studio
del Vero, che presiede alle umane cose, cercherò il perché del dolore,
indagherò il mistero dell'universo.
Così occuperò il mio ozio. In fondo la verità, anche se arreca dolore e tristezza,
può procurare un suo piacere. Finirà, certo, in me il desiderio di gloria. Ma la
gloria non solo è vana, ma è più cieca della fortuna, del fato e dell'amore.
Stammi bene, tuo Giacomo".
Bisogna risalire ai Dialoghi di Seneca per ritrovare il modello
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classico.
"L'ozio costituisce problema per Leopardi - scrive Luporini problema in cui egli si sente implicato personalmente, non senza
accentuazione sociale e a cui vede legato il romantico tema della noia
('l'ozio che ti lasciar gli avi remoti / grave retaggio e faticoso' [...] e la
contrapposta 'schiera industre' [...] e il lavoro, unica medicina 'cui
natura apprestò'). [...] I principi democratici di Leopardi non sono
nuovi e peculiari del suo ultimo periodo, anzi appartengono già alla sua
prima formazione mentale. In questo ultimo periodo, che fu stroncato
dalla morte, vi è qualcosa di nuovo: è lo sviluppo del valore positivo
dell'operare umano, dell'energia umana, nell'elemento socialmente
costruttivo dell'universale solidarietà degli uomini contro l'ostilità ο
l'indifferenza della natura" (Leopardiprogressivo, op. cit., p. 90).
Ozio, noia, poesia, vero, gloria sono i cardini del discorso
leopardiano al Pepoli. Autocritica, autobiografia, estetica, sociologia,
filosofia convergono in questo scritto, che crea un ponte tra la cultura
settecentesca illuminista e quella romantica del pieno Ottocento.
Vi si sente la Frusta letteraria del Baretti, divenuta "sociale e
criptorivoluzionaria" nel Panni, che evade nel socialismo utopistico,
senza attingere la carica destabilizzante di Marx.
L'ozio è un privilegio nobiliare e borghese che va abolito, ma si
può diventare staccanovisti ο luddisti e infine barboni, per reazione.
La noia, da Leopardi a Moravia, è il sentimento fondamentale della
gente sazia e ispirerà lo spleen e la verve di Baudelaire.
La poesia, né classica né romantica, ma "respiro dell'anima", che
non è del tutto "materia" né puro spirito", che deve purificarsi nel
deserto, e conoscere, come in Giovanni della Croce e Teresa d'Avila,
"la notte oscura dei sensi e dello spirito", per attingere il sublime in
poesia come in religione: dimensione marsica e barocca.
Il vero, che di fronte al dolore e alle poche gioie della vita, si attaccherà all'"abstine et sustine" stoico di Epitteto, senza obliare le
ascendenze bibliche di Giobbe e di Salomone.
La gloria, sì cara a classicisti e romantici, tipicamente francese: la
Grandeur [...] (Bon Dieu de la France!), che tocca l'apice con
Napoleone ("Fu vera gloria?" si chiederà Manzoni) è superata dal Vero
e umanizzata dalla solidarietà ritrovata.
Se Leopardi sia più "parente" di Nietzsche ο di Schopenhauer è
pura disputa accademica (come pretendere che sia più piceno di Pico,
amato-osteggiato da Circe, ο fanciullo prodigio come Pico della
Mirandola).
Non so se nella Biblioteca del bibliofilo Monaldo, tra testi gesuiti e
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domenicani, figurasse Giovanni della Croce ο Teresa d'Avila. "La notte
oscura dei sensi e dello spirito", che aleggia nella Ginestra, avrebbe
avuto un esito più positivo nella valorizzazione della contemplazione
del Benverbello, che è un trascendentale globale, "vestigia Dei", tracce
dell'opera di Dio, Clemente e Misericordioso, nella creazione della
Natura.
"Il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me". Anche per
Kant i lumi dell'Illuminismo non vanno oltre le stelle.
Ma mentre il filosofo di Königsberg, nella Critica del Giudizio,
supera le antinomie tra Ragion Pura e Ragion Pratica, accontentandosi
del "come se", così vicino al "quia" dantesco, il poeta di Recanati,
pervenuto alla Illuminazione del terribile Vero, come Budda scende tra
gli uomini a predicare, non la rassegnazione della relatività di Einstein
ο della precarietà delle leggi scientifiche di Popper, ma la guerra santa
contro la Natura, in una solidarietà titanica, che nulla ha imparato dalle
sorti di Prometeo, di Ganimede, e di Ercole [...] fino ad Hiroshima e
Nagasaki, per E. Fermi e gli amici di Via Panisperma a Roma, vigilia
dell'Apocalisse, scatenata dalla Scienza dimentica della Fede, fino
all'ingegneria genetica, canto del cigno dell'Homo Sapiens, e paradiso
della Libertà, come il gulac "freddo arcipelago dell'Uguaglianza".
Anche Goethe ammoniva l'antropotheismo dell'Illuminismo:
"stirpe destinata a conoscere cose illuminate, non la luce" (Pandora,
VI, 439), ripiegando sui "cari piccoli mondi / (che) hanno del
magnifico davvero / (Poesie, I, 527), ben sapendo che: "le opere d'arte
abbandonano l'artista come gli uccelli il nido in cui sono stati covati"
(Affinità elettive, 2, 3).
La Natura è "cerchio di distruzione-riproduzione", la Natura è
"spietata", cioè "senza pietas", come i giochi dei fanciulli spesso
"crudeli", come gli eroi omerici (Achille ed i prigionieri troiani, la fine
di Ettore [...]), ma la guerra contro la Natura è anch'essa utopia, ridicola
come una Batracomiomachia: non è ecologica.
Se l'Epistola al Pepoli è "prefazione postuma" alle Operette
morali, e giustamente "annota" Luporini: "un errore che ha impedito a
lungo l'accesso al pensiero di Leopardi è stato quello di prendere come
punto di partenza le Operette morali (De Sanctis, Gentile). Dalle
Operette morali non si penetra nello Zibaldone, ma viceversa" (
Leopardi progressivo, op.cit. p. 4 1 , nota), Pepoli è il destinatario del
Manifesto del pensiero leopardiano, che è forse più "produttivo" che
"progressivo", contenendo in germe quel "plusvalore di cambio e di
uso" di cui parlerà Marx, che Leopardi aveva orecchiato da Epitteto,
traducendolo: "le pecore non portano al pastore erba, ma, smaltita la
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pastura, danno di fuori la lana ed il latte" (Manuale, 63).
Ma per Leopardi qual è il "plusvalore"? la vitalità della Natura da
conciliare con la "solidarietà" dell'uomo, in una "contaminatio" non
solo poetica, ma morale, superando le antinomie politiche.
"Il giovane del ventesimo secolo" risponderà alla Lettera di
Leopardi, prendendo atto che: "solo attraverso la porta aurorale del
bello tu puoi penetrare nel paese della conoscenza" (Schiller, Gli artisti,
34, 1, 174), che non è il Paese di Bengodi, sensista e materialista,
concludendo che: il grado più elevato della grazia (Bello) è il fascino, il
grado più elevato della dignità (Bene) è la maestà, il grado più elevato
della certezza (Vero) è l'ironia (e l'autoironia, diceva Steinbeck, arriva
per ultimo, come il dente del giudizio), il grado più elevato del
Benverbello è il gioco, ricordando l'iscrizione sul tempio di Iside ("Dea
Mater sive Natura"): "Nessun mortale ha mai sollevato il mio velo",
radice metafisica del "verginismo partenopeo".
Come Virgilio e Lucrezio, Leopardi scopre a Napoli, pur lontano
dai Circoli archeologici, il "verginismo partenopeo", senza pervenire
alla naturale conclusione, apprezzata dagli antichi: il mito della
"verginità" deve concludersi nella "maternità", come la Dea Mater, la
Mater Matuta degli Italici, la cui sapienza era per G.-B. Vico
"antiquissima" [...] (A. Mitterer).
Leopardi verginista e scienziato
"Fortunato colui che la caduca
virtù del caro immaginar non perde
per volger d'anni".
A Napoli (Partenope) il culto della verginità affonda le radici archeologiche al tempo della fondazione da parte dei Greci immigrati. Gli
Eunostidi avevano un tempio ed un cenobio ai Vergini (Rione Sanità) e
praticavano il culto della verginità, sacro ad Arthemis Efesia, accanto al
Sacro Gineceo delle Vestali di Cibele (Mater Matuta) (FiencoStrazzullo, B. Capasso, G. De Petra, G. M. Galanti).
La Casa dei Missionari ai Vergini, opera grandiosa del Vanvitelli,
conserva ancora oggi le tracce archeologiche di quel culto
mediterraneo. Leopardi, nella sua ultima dimora napoletana (Salita
Santa Teresa degli Scalzi), tra la Sanità e Capodimonte non lontano dal
Museo Nazionale Archeologico, avrà visitato la Chiesa dei Vergini,
riservata a soli uomini, che mantiene l'antica tradizione "verginista" dal
poeta Lucrezio, al poeta Virgilio, al Sannazzaro (De partu Virginis), ad
Alfonso de' Liguori, a Leopardi.
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Anche Croce sottolinea "la soavità, ritenutezza, modestia, castità,
pallore" del poeta degli Idilli. In Leopardi la "verginità" virgiliana
(giunta fino al contemporaneo Hölderlin), che gli fa sentire la Natura
come Parthenos, non lo rende Iperion (titanico, superiore, solare), come
Kant, Schiller, Fichte ο Hegel.
Leopardi non si annulla, come Empedocle, nel fuoco primigenio
dell'Etna, né, come Saffo, nell'acqua del Mediterraneo.
Come Orfeo, vede svanire la sua Euridice, ancor prima delle
nozze. Divenuto passero solitario, non canta, con melanconia
partenopea un salterio giubilante dionisiaco, né una geremiade
lamentevole cristiana, né un inno pindarico olimpico. La sua è una
canzone esistenziale autobiografica, come il ritratto di Michelangelo
sulla pelle di S. Bartolomeo alla Sistina. Un ritratto in filigrana, come
quello dell'uomo della Sindone, dove la Religione è anche amore della
bellezza, non apollinea, né dionisiaca, ma marsica.
In fondo Euridice-Psiche non è Beatrice, né Margherita ο Elena di
Faust, né Diotima, ma Nerina ο Silvia, sorelle nubili (se non nobili) di
Laura.
L'antropotheismo leopardiano non è prometeico, né ganimedico, né
erculeo, né messianico, forse è stoico (Epitteto), ma con venature
lucreziane.
A Posillipo (dove la felicità è negativa, come "pausa del dolore")
riposano Virgilio (forse Lucrezio), Leopardi, nonostante il "sunt
lacrimae rerum", il De rerum natura, la "Ginestra, fiore del deserto",
accanto alla Madonna di Piedigrotta, cara al Pontano, al Sannazzaro,
amata dai Napoletani, Re ο Pulcinella che siano.
E vero, i Napoletani, specie gli intellettuali ("I nuovi credenti"),
dispregiavano "o ranaruottolo, il ranocchio", e Leopardi ricambiava
feroce: "fuggire da questi Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti
ladri e baroni fottuti, degnissimi di Spagnoli e di forche",
riecheggiando Franceschiello e la sua legge: "Feste, Farina e Forche".
Se Leopardi avesse capito e apprezzato Pulcinella, avrebbe gustato
il simbolo (comico-grottesco) più palese dell'umana esistenza:
pellegrino, inerme, esposto ("Esposito") al ridicolo nel suo
travestimento, come l'idiota di Dostoevskj, ο il Clown di Georges
Rouault. Ma la sua "compassione" per l'uomo non si distacca dal
Manuale di Epitteto, esempio di "tetra sapienza morale da parte di
quelle rane gracidanti, che sono gli Stoici" (Erasmo da Rott. Enc.
Moriae, 1509-1944, 126), senza raggiungere lo sconforto di Virgilio:
"sunt lacrimae rerum", titolo del Clown con la testa reclinata
all'indietro, nella serie del Miserere di Rouault.
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"Il poeta deve entrare nudo nella vita, custodendo la purezza
interiore, in verginità di spirito", raccomandava Hölderlin (Iperione,
Lett. 144) e Leopardi si attenne al canone verginista.
Né Monaldo, né Adelaide imposero la cintura di castità a
Giacomino, né lo avrebbe fatto il galante Card. Consalvi. GiacominoBuccio restò tale sempre: dall'infinito ermo colle Tabor ("il naufragar
m'è dolce in questo mare"), alle rocce vulcaniche della Ginestra:
verginismo coatto.
Se
l'erotomane D'Annunzio
sarà poeta
"immaginifico" (Croce, Russo, Vecchioni), il casto (non "inceste")
Leopardi è il creatore del linguaggio "lunare-soft", così attuale oggi nei
computer "virtuali".
Dallo Zibaldone ("brodo primordiale autobiografico") emerge la
Storia di un'anima, incompresa dai contemporanei, tanto che gli
venivano offerte Cattedre universitarie "scientifiche", regolarmente
rifiutate.
Senza nulla togliere alla preparazione scientifica del poeta, anche
in quel campo "progressivo", risulta evidente da quegli appuntimemoriali l'antinomia tra le sue convinzioni scientifiche e le sue
conclusioni poetiche.
"Interessante è anche il dibattito familiare con il padre Monaldo,
curioso avversario del sistema copernicano [...]. A complicare
l'adesione al copernicanesimo di Giacomo si aggiunse negli ultimi anni
della sua vita la violenta campagna condotta dal padre Monaldo contro
il sistema copernicano sul periodico da lui diretto La voce della
Ragione. Stampato a Pesaro dal 1832 al 1835, La voce della Ragione,
con i suoi duemila abbonati, era una delle riviste italiane più diffuse"
(Borgato-Pepe).
Il settore scientifico e matematico della Biblioteca paterna
abbondava di testi gesuitici: Clavio, Horvarth, Boscovic, Tacquet e
Ximenes erano appartenuti alla soppressa Compagnia di Gesù, le cui
biblioteche furono svendute.
Ma l'epistemologia scientifica di Leopardi, non coincide con le
fantasie della sua poesia: "Il credere l'universo infinito è un'illusione
ottica" analoga "a quella dei fanciulli e dei selvaggi primitivi circa
l'infinità della terra ο del mare ο circa il numero infinito delle stelle"
(Zib. 4292, 20 sett. 1827). "L'infinito è un parto della nostra
immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra
superbia" (Zib. 4177, 2 maggio 1826). E conclude: "Chi vi ha detto che
essere infinito sia una perfezione?" (Zib. 4274, 7 aprile 1827). Filone,
Plotino, Lucrezio, Leibniz, Mondolfo avrebbero da dire.
Lo scienziato illuminista taglia l'erba sotto ai piedi al poeta
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romantico? No, è il solito contrasto pitagorico tra il Numerus (numenverus) e la Mens (mensura), che colpita dal meraviglioso (classico), dal
misterico (dionisiaco) e misterioso (romantico), evita il mistico
(religione) per evadere nel mistagogico (marsico), per cui la storia
diventa "un golgota dello spirito" (Hegel) e Leopardi non si trasfigura
né risorge sul Tabor a contatto con l'Infinito, come Socrate non è
risorto sull'Acropoli di Atene.
La Verità? è aletheja=indimendicabile, il lethé è un fiume che non
cancella la bellezza. E dal processo di Frine a Dostoevskj, "la bellezza
salverà il mondo". Come ha evitato la "damnatio memoriae" al
pessimismo di Leopardi. Luigi Illuminati scrisse al poeta di Recanati:
"quod cantus vitae tibi cecinere dolores tot nobis reddit gaudia Musa
tua" (1955).
Leopardi poeta marsico
"Il bel che raro e scarso e fuggitivo [...]
a noi la vaga fantasia produce
e il nostro proprio error".
L'origine della distinzione tra Classico e Romantico, per Benedetto
Croce, risale a Goethe e a Schiller. Ingenua ο sentimentale, soggettiva ο
oggettiva, pura ο passionale, bella ο brutta, sana ο malata, primitiva ο
civilizzata, accademica ο popolare, ideale ο reale, greco-romana ο
celtico-germanica, la poesia per la critica tradizionale è l'espressione
artistica dell'uomo Apollineo ο Dionisiaco. Come ribadì il filosofo
Nietzsche, l'Apollineo è armonia, serenità e razionalità. Il Dionisiaco è
diacronia, passione, irrazionalità.
L'ultima definizione nel sec. XX del bello artistico e di poesia, fu
di B. Croce: "intuizione lirica", confluenza dell'estetica vichiana e
hegeliana. Forse migliore resta quella del filosofo E. Kant: "creazione
fantastica così armonica e spontanea da sembrare naturale". Il Marsico
è la media proporzionale tra l'Apollineo ed il Dionisiaco: "sobria
ebrietas", e tien conto del bello sì, ma anche del brutto (Erasmo).
L'arte, come la poesia, sta nel mezzo (in medio) tra la Ragione e
l'Inconscio sentimentale (spirito di geometria e spirito di finezza,
Pascal), è "armonia di opposte tensioni" (Eraclito). L'arte non è solo
figlia della Yubris irrazionale e del Logos razionale, ma del Pensare
Sfero, globale del poeta, che sente in modo individuale e universale, il
bello ed il brutto, confluenza anche dell'inconscio collettivo (Jung),
oltre che di quello individuale (Freud), condizionato dal proprio
periodo storico, dal clima e habitat naturale e culturale, dal DNA
Pino Zanni Ulisse
70
(fattori ereditari), dalle aspettative generazionali, tanto che il poeta
diviene Vate, quando è profeta dei destini della stirpe e dell'uomo:
poesia acronica ed eterna, se supera la memoria sincronica e la fantasia
diacronica. In questo caso attinge il Sublime omericamente e
Marsicamente.
Infatti Omero, Ovidio, Ariosto, Shakespeare, Goethe, D'Annunzio
sono gli esempi canonici del Marsico in poesia. Come il Gregoriano,
Mozart, Bach, Beethowen, Armstrong, in musica. L'Apollo di Veio
etnisca, il Laocoonte vaticano, la Gioconda leonardesca, la Venere di
Dresda e la Tempesta di Giorgione, il Perseo di Cellini, la Sistina di
Michelangelo, sono gli esemplari pittorici e plastici del Marsico,
comunemente chiamato, con un termine non mitologico ma spagnolo:
Barocco. I templi di Paestum, il Pantheon ed il Mausoleo di Adriano, la
Basilica di S. Pietro, la Cattedrale di Reims, i Castelli della Loira, la
Sagrada Familia del Gaudi a Barcellona, i Castelli di Scozia ο del
Reno, i Palazzi Reali asburgici, i Templi indiani, cinesi ο giapponesi,
sono il Marsico in Architettura. I film di Fellini, di Igmar Bergman,
René Clair, Chaplin, Bunuel, Eisenstein, nell'arte cinematografica, sono
il Marsico.
Narra la leggenda che Marsia, in gara con Apollo in Apulia, fu
condannato ad essere spellato vivo, ma fu salvato dai pastori abruzzesi
in transumanza nella Puglia, e portato in "Marsica" [...] (C. Kerényi,
Gli Dei e gli Eroi della Grecia, Milano: Il Saggiatore, 1962).
Leopardi, come i poeti alessandrini, divorò famelicamente la
biblioteca paterna ("calcentero" come Callimaco), per produrre pochi
versi (epilli, idilli, distici, canti, e come Eroda e Teocrito dialoghi, ο
come Epitteto pensieri didascalici). Si tratta di poche "istantanee" di
sensazioni fisiche ο spirituali, indefinite, esistenziali, e per questo
universali, mistiche-ecologiche, più laiche che cristiane [...].
Giacomo non è un'aquila, un albatros, un cigno, ma un passero
solitario piceno, papalino, illuminista nella logica, romantico nel cuore,
fino a diventare "marsico", capace di "spellare" ogni sensazione fisica
ο fantastica, misurando le componenti, focalizzando le rimembranze,
dopo averle vivisezionate fino a ridurle al nulla. Cicerone lo avrebbe
bollato come uno della schiera dei "cantores Euforionis", Gellio lo
avrebbe catalogato tra i "laudatores pulveris et fumi".
Osserva il Croce: "Allora la sua parola acquista colore, il suo ritmo
si fa dolce e flessuoso e pieno di armonie e di intime rime, la
commozione trema riflettendosi nella pura e lucente goccia di rugiada
della poesia [...] quell'intenerimento, quella soavità hanno quasi del
furtivo [...] e si esprimono con la ritenutezza, la modestia, la castità di
Al conte Carlo Pepoli
71
chi dice cose a lui non consuete. Donde il loro particolare incanto, il
lieve incarnato nel pallore di questa poesia, che fa impallidire al
confronto molta letteratura dai ricchi e vivaci colori [...]. La poesia del
Leopardi è assai più travagliata di quanto non si sospetti ο di quanto
non si creda. C'è in essa dell'arido, c'è della prosa, c'è del formalmente
letterario, e c'è insieme poesia dolcissima e armoniosissima; forse
quell'impaccio fa meglio sentire il miracolo della creazione poetica".
Però Leopardi non piacque a Tommaseo: "Madre Natura con un
pugno lo sgobbò, / poscia gli disse: canta! ed ei cantò". Epitaffio
crudele di chi ebbe in comune col giovane Leopardi la tonaca a Spalato
e sentì il poeta più vicino a Tersite che a Tirteo. Monti-Caro-Leopardi,
come Pascoli e D'Annunzio e Saba, sono i nipoti dei Popoli del Mare,
eredi di Omero illirico e degli aedi che l'imperialismo alessandrino dei
Greci cancellò edipicamente, come i Romani cancellarono la memoria
etnisca, civiltà-madre di quella di Roma.
La brevità della vita non permise al conte Leopardi di frequentare a
Napoli il Circolo culturale del Conte di Siracusa, dove convenivano gli
Acquaviva, Giuseppe Fiorelli, Edoardo Brizio, Raffaele Garrucci, poi
gesuita, antagonista di Mommsen e difensore dell'Asse atriano in
Numismatica, Fausto Niccolini e Filippo Troisi ed il giovanissimo
Felice Barnabei, che insieme al Fiorelli tanta parte avrà nella
costituzione dei Musei Romani (Villa Giulia) e della Sovrintendenza
alle Antichità, poi Ministero nell'Italia unita. Leopardi avrebbe visto
Pompei con occhi diversi e la Ginestra sarebbe forse diventata il
Manifesto dei Beni Culturali d'Italia. (F. Barnabei, "Memorie inedite di
un archeologo", in Nuova Antologia XI (Roma: 17 luglio-16 settembre
1933)
Quanti danni, Garibaldi! si è tentati di dire, vedendo Napoli
passare dai Borboni ai Birboni, una capitale europea, ridotta come
Roma quando i Papi erano ad Avignone [...] Leopardi come Tarcon "il
vecchio-fanciullo-etrusco". Ma il Leopardi virtuale non può andare
contro la Storia, anche se l'illuminista Melchiorre Delfico (meglio: Del
Fico) illuministicamente, nel 1806, pubblicò i Pensieri sulla Storia e
sull'incertezza e inutilità della medesima, omaggio agli economisti A.
Genovesi, F. Galiani "l'Abbé charmant" di Chieti, T. Odazi di Atri,
devoti del papa banchiere S. Callisto.
L'Apollineo ha l'armonia classica dell'eptacordo, il Dionisiaco
conosce la diacronia romantica dei semitoni, il Marsico è la
coniugazione barocca dei frattali.
Il marsico Leopardi ha indugiato talvolta, con gusto del truce e
dell'orrido, in pagine da considerare apocrifi letterari d'appendice, da
Pino Zanni Ulisse
72_
tener fuori del catalogo canonico del poeta: "Per una donna inferma di
malattia lunga e mortale", "Nella morte di una donna fatta trucidare col
suo portato dal corruttore per mano di un chirurgo", riverberi ancestrali
della civiltà etnisca, che come Antigone, considerava la tomba come un
talamo, ο nella "atra mors" legava il condannato ad un cadavere, ο nel
Phersu faceva combattere un uomo bendato, con un cane a lui legato.
Giustamente osservava Croce: "Di cattivo gusto sono da giudicare
le edizioni, chiamate per giunta 'nazionali', che ora si son prese a fare
dei poeti Leopardi, Manzoni e Carducci, unendo alle loro poesie tutti i
loro aborti giovanili e tutti gli abbozzi e prime stesure delle opere loro.
S'intende l'interesse storico-biografico [...]. S'intende anche lo zelo di
mettere qualsiasi carta scritta da un uomo grande in salvo con lo
stamparla; ma perché non chiamare consimili pubblicazioni "Archivi"
del tale ο tal altro poeta, e chiamarle invece "Opere"? Questo non è
solo offesa alla memoria dei poeti, ma è offesa al sentimento poetico
dei lettori". (La Poesia, op.cit., p.335)
"Offesa alla memoria dei poeti" e offesa all'intelligenza dei lettori
è voler fare di un poeta "scettico" in politica "un poeta impegnato"
(Timpanaro, Luporini, Binni, Toni Negri, E. Severino). Anche
Carducci parla di "socialismo leopardiano", come Michele Scherillo:
Prima di spegnersi sulle falde del vulcano inestinto quel vulcano di
poesia ha dato un novissimo e più mirabile guizzo. E par ch'ei s'erga
di mezzo alla solenne solitudine che il fiore del deserto rallegra, e ci
additi, col braccio teso, nell'orizzonte lontano, un'era di fraterna
concordia di popoli, di nazioni, di razze; un'era, in cui i più fortunati
accorrano soccorrevoli dove ci sia da compiere un'opera di pietà, in
cui, di fronte alla perfidia della cieca natura, gli uomini insorgano con
nobile gara di carità. "Diciamocelo in un orecchio", mormora il
pregiudizio delle Carducci: "il Leopardi si accostava al socialismo".
No, gridiamolo invece a voce alta, e non ci sgomenti il suono e il
parole. Tutti benediciamo a questo socialismo che incita gli uomini a
porgersi "valida e pronta aita negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune", che "tutti abbraccia con vero amor". Quel che
noi respingiamo è il socialismo che, tradendo la sua missione, muta
in grido di guerra la parola che dovrebb'essere di pace; e della
peggiore e della più incivile delle guerre, la civile". (M. Scherillo,
Conferenza, "La solidarietà nel colore", Milano: 1906).
Come in poesia così in politica Leopardi fu "marsico", capì subito la
vanità degli "opposti estremismi". La delusione, della Rivoluzione
Francese e di Napoleone, lo rese scettico anche sul problema del
Risorgimento italiano, ancora velleitario, nonostante la tradizione
Al conte Carlo Pepoli
73
dantesca, del Petrarca, del Machiavelli, fino alla Carboneria e ai primi
falliti moti mazziniani. Forse apprezzava del Mazzini il discorso sui
"Diritti e Doveri" [...]. Anche Mazzini del resto ebbe poche "affinità
elettive" con Marx.
Leopardi virtuale
"Altri studi men dolci [...]
eleggerò. L'acerbo vero [...]
a quale ultimo intento
[...] spinga il fato e la natura."
La nostra età, che conosce l'ombra lunga di fine secolo e di fine
millennio (Titanio sublimato), non poteva dimenticare il secondo
centenario della nascita (1798-1998) di Giacomo Leopardi.
Al poeta di Recanati "il caso e la necessità" fecero il primo
"trapianto di cuore", e se a Julius Verne toccò in sorte il cuore di
Leonardo da Vinci, a Giacomo Leopardi fu assegnato il cuore
megalitico di Michelangelo Buonarroti. Il Giano moderno ha il volto di
Verne che guarda nel futuro, il volto di Leopardi, vivo nella
rimenbranza [...]. (Il benevolo lettore ci perdonerà lo stile
immaginifico,
ma l'uomo
del
2000
se vorrà
fantasticare
scientificamente, dovrà cercare su Internet il sito di Verne, se preferirà
sognare
romanticamente
il
sito
di
Leopardi:
Giac.Leo.l798.Recanati.Piceno.Italy.E.Mail.http.www.net way.).
La Rinascita (pitagorica ο Bultmanniana) è il postulato di ogni
Rinascimento ο Risorgimento "vichiano" ο hegeliano.
Le Ere geologiche della Storia si svolgono con la lentezza dei
Papiri di Ercolano, mentre il DNA è la clessidra cosmica della
evoluzione creatrice della specie ("creavit omnia simul" Sir. 18, 1,
contro l'Evoluzionismo di Darwin).
Convegni e saggi critici hanno esaurito la vena d'oro della miniera
Leopardi, per cui oggi un saggio sul poeta-pensatore non può essere
che "virtuale".
Dopo un simile viaggio lunare, non resta che una semplice
"carota" da osservare al microscopio, ben lontani dalle consonanze,
armonie, luci ed ombre, che durante la vita dell'autore, permisero la
formazione di quelle stalattiti interiori, frutto di infiniti rivoli di acqua
pura e di depositi calcarei, resi possibili dal passaggio di temperatura da
4 a 5 gradi, nell'animo adolescente del fanciullo-dagli-occhi-tristi di
Recanati.
Quel "nocciolo duro" dell'infanzia fu il primo by-pass nel trapianto
Pino Zanni Ulisse
74_
di cuore da Michelangelo nel "natio borgo selvaggio".
Nel 1898 Palazzo Leopardi accolse Carducci vecchio e cadente,
pontefice della Letteratura Italiana, per le celebrazioni del primo
centenario. Quest'anno chi accoglierà? forse papa Woytila, anch'egli
poeta. In fondo Monaldo era Conte Pontificio, "l'ultimo spadifero
dell'Italia" (un po' chisciottesco) che, quando Napoleone attraversò a
cavallo Recanati "non volle affacciarsi alla finestra, giudicando non
doversi a quel tristo l'onore che un galantuomo si alzasse per vederlo".
Sarebbe una bella rivincita per Pio VII Chiaromonti da Cesena, il
papa che restaurò i Gesuiti e creò la Pinacoteca Vaticana, sulla tomba
del quale, in San Pietro, Thorwaldsen pose la Fortezza e la
Moderazione, per volere del galante Card. Consalvi, che aveva
rimbeccato il Corso imperiale, quando si vantava di aver ridotto il Papa
a cappellano di corte e di avere ormai distrutto la Chiesa: "non ci siamo
riusciti noi con 2000 anni di errori!"
Il Bicentenario leopardiano si inserisce tra altri centenari, vere
pietre miliari nella formazione della civiltà italiana e dello spirito
europeo, per esempio: l'ottavo centenario dell'incoronazione di papa
Innocenzo III (1198) mentre nel 1298 Bonifacio VIII in odio ai
Colonna fa radere al suolo Palestrina, come nel 1498 Savonarola muore
sul rogo a Firenze, ecc.
Ma la vita breve di Leopardi conosce poche date "memoriali" e
poche fughe dal "country life" di Recanati.
La fanciullezza e l'adolescenza (è difficile immaginare Leopardi
fanciullo in quel Palazzo di conservatori papalini) passarono presto tra
le "sudate carte" di uno "studio matto e disperatissimo". Conobbe
Niebhur, Vico, Voltaire: l'Illuminismo settecentesco, con la triade
Natura, Fantasia, Ragione riuscì ad accendere nel giovane il "desiderio
di gloria" preromantico.
Poche le date significative, che si desumono dalle Lettere, dallo
Zibaldone:
1815 - "Conversione letteraria" (dall'erudito al bello)
1817 - "conversione filosofica" (amicizia P. Giordani)
1819 - scopre la nullità delle cose
1822 - a Roma lo colpisce solo la tomba del Tasso
1825 - Editore Stella a Milano
1827 - a Bologna (C. Pepoli)
1828 - a Firenze nel Circolo Viesseux con gli esuli napoletani Colletta
e Poerio, col fiorentino Capponi. I Ministro Prussiano offre a
Leopardi una cattedra a Berlino.
1829 ritorno a Recanati. Al poeta viene offerta la cattedra di
Al conte Carlo Pepoli
75
Minerologia e Zoologia dall'Università di Parma, dall'illustre
clinico G. Tommasini.
1831 - amicizia con A. Ranieri (Memorie con pettegolezzi)
1833 - a Napoli (Poerio, Troya, Puoti, Platen, Schulz, Blessing,
Bunsen, De Sinner)
1837, 14 giugno: il Poeta muore tra Torre del Greco e Torre
Annunziata. Dal 1938 le ossa di Leopardi riposano a Napoli presso
la Tomba di Virgilio a Mergellina. Per lui Posillipo (Riposo) è
"nomen et omen".
Il Corpus leopardiano consta di: 25 Operette Morali (Dialoghi),
Epistola al Conte Carlo Pepoli(1826), 41 liriche dei Canti, 111 Pensieri,
4526 carte di appunti dello Zibaldone, 981 Lettere.
Leopardi poeta ο pensatore?
Per De Sanctis: "la forza dinamica della poesia leopardiana è il
canto dell'amore e della morte, l'intelletto nega, il cuore afferma la
vita".
Per Sapegno: "la Quiete, il Sabato, il Passero solitario, le Operette
morali, e le più belle che Leopardi abbia mai inventato, con quel sapore
casalingo e quel dolore segreto e verecondo...una tenerezza di fantasie e
di sogni che risolve in musica il pensiero (Pastore errante)".
Un filosofo del nulla è per nulla filosofo. Accontentiamoci del
poeta. E. Severino dimentica il "pensiero debole", la cui metafisica
(meglio: metastasi) è il nichilismo, parente del daltonismo, dell'impotenza, della sterilità. La poesia e sorella della vita, non del nulla.
Ogni Lucrezio dovrebbe avere il proprio Cicerone. Leopardi teme
l'equivoco: "Se del vero / ragionando [...] fieno / ο mal grati i miei detti
ο non intesi [...]".
Di Leopardi si è indagato su quasi tutto: anche nelle pieghe
"saffiche" della sua amicizia con Ranieri. Ma pochi ricordano che il
recanatese fu tonsurato e fino a 20 anni portò l'abito ecclesiastico, che
le Operette morali furono poste all'Indice nel 1850, che l'Imitazione di
Cristo era una lettura gustata da Leopardi, che infine 18 giorni prima di
morire, nella lettera al vecchio padre Monaldo, Giacomo scriveva:
"Prego loro tutti di raccomandarmi a Dio", insolito per un "ateo e
materialista [...] socialista e precursore di Marx". (Timpanaro,
Luporini, Binni, Toni Negri, E. Severino).
Certo gli influssi gesuitici, all'epoca della soppressione della
Compagnia di Ignazio di Loyola, davano un tono chic ad una nobiltà
tutta parrucche e cipria, per dirla alla Parini, e Monaldo impose una
serie di nomi al figlio: "Giacomo, Taldegardo, Francesco, Sales,
Pino Zanni Ulisse
76
Saverio, Pietro". La madre Adelaide Antici era una specie di Donna
Prassede manzoniana, che chiamava il figlio Buccio (da Giacomo,
Jacopuccio) e non pensava certo a Buccio di Ranallo poeta aquilano
durante le 40 ore di doglie del parto, che preannunciavano i 40 anni di
vita penosa del Poeta, omologate ai 40 mila volumi della Biblioteca paterna, alle 49 ricette al cuoco, alle 4526 carte dello Zibaldone, fino alle
1000 lettere e ai 1000 baci al Ranieri.
Ma né la Statistica, né l'Ermeneutica, né l'Estetica possono esaurire
la ricchezza dell'élan vital di un artista: sarebbe una autopsia, non
autobiografica ("autopsia ο visione diretta dei fatti, per la Storiografia
cara a G. Schepens); "Egli compose nei Canti la sua ideale
autobiografia". (F. Barberini)
Giustamente osserva H. U. von Balthasar (Gloria, I, 523):
Su un'opera non si è detto tutto, forse nemmeno la cosa principale,
dicendo tutto ciò che si conosce della vita e delle intenzioni
dell'agente. L'opera, proprio quando è riuscita, ha una forma
oggettiva propria, un senso separabile dall'agente [...] questo vale
anche delle opere più personali, come una poesia, una sinfonia la cui
armonia intima è qualcosa di totalmente diverso da 'l'accordo'
soggettivo, dal sapere e dalla capacità del suo autore. La sua forza
divinatoria forse è consistita proprio nel fatto di aver saputo cogliere
e concretizzare in una forma simbolica adeguata, grandi connessioni
oggettive del mondo, che rimangono nascoste ai piccoli spiriti.
Per cui qualunque "lettura" di poesia è "virtuale". Come diceva
Socrate, il poeta stesso, rileggendo la sua opera, talvolta si sente
"estraneo" alla ispirazione "originaria", che l'ha "posseduto", anche se
si riconosce padre dell'ispirazione "originale". L'ultimo Leopardi non è
il primo, né fisicamente, né come "accordo interiore". Pepoli era, è
stato, sarà? No, Leopardi era, è stato, sarà. Il povero lettore del 2001,
nell'Odissea della relatività dello spazio e del tempo, sente Leopardi
come una nenia gregoriana in una cattedrale nel deserto: Dio non abita
nel deserto?
La storia delle fonti, l'ermeneutica delle forme, l'analisi critica
della Estetica, forniscono solo la prospettiva dell'opera d'arte, non la
sua definizione, che è la ricapitolazione della ispirazione, invenzione,
"intuizione lirica" (B. Croce), incanto (in-canto). Nella Repubblica
delle Lettere, Omero, Virgilio, Lucrezio, ecc. rappresentano l'Antico
Testamento, Dante, Petrarca, Ariosto, Goethe, Shakespeare, Cervantes
ecc. il Nuovo Testamento: i poeti come Profeti di Apollo e delle Muse.
La Critica, come l'Ermeneutica, può stabilire il Canone delle Opere
Al conte Carlo Pepoli
77
d'arte, distinguere i Letterati dai Poeti, i Sinottici dagli Apocrifi, non
può intaccare né la fede, né il fatto (storico) della poesia. La nascita di
un poeta è un avvenimento "olimpico" apollineo... (1/250 milioni di
concorrenti spermatozoi, per cui tutti quelli che nascono:
sono stati campioni olimpici una volta nella vita!), mentre la nascita di
un critico è un avvenimento dionisiaco (l'ebbrezza è garanzia di verità:
in vino Veritas.). L'uomo comune che partecipa della natura del poeta
(fanciullo) e di quella del critico (senilità saggia), ha il privilegio di
sentire, vibrare commuoversi, godere dell'opera dei due, nell'armonia
della fruibilità anagogica del Benverbello.
Leopardi "precursore del pensiero debole" (P. Cidaga) come
Feuerbach, Schopenhauer, Nietzsche, infatti la "volontà di potenza" si
addice agl'impotenti, chi è potente non ha "volontà di potenza", è
potente e basta.
La rivista tedesca Hesperus insinuava che la filosofia di Leopardi
fosse influenzata dalle sue sofferenze fisiche, tanto che il Poeta fu
costretto a difendersi nella lettera a L. De Sinner, come all'inizio del
Dialogo di Tristano e di un amico. Anche un mio professore di Liceo a
Napoli scherzava sulle enterocoliti croniche di Leopardi, come
ispiratrici del pessimismo leopardiano, ed, illustrando le rane ed i topi
della Bratracomiomachia, definiva il Poeta come "Aesopus vel
Epittetus dimidiatus", ma le analogie con Virgilio e Lucrezio ce lo
rendevano simpatico.
La lunga teoria dei "vinti", focalizzata dal Verismo del Verga,
include anche il conte Giacomo Leopardi. Non solo i miseri pescatori
di Acitrezza, né solo i nobili decaduti ο i nuovi ricchi di Mastro Don
Gesualdo: da Leopardi al Gattopardo la musica resta la stessa. Il valzer
di Donnafugata, fino alla Banda da circo di Fellini 8½.
Nato agli sgoccioli della Rivoluzione Francese, che dimostrò come
la Libertà sia spesso "libertina", la Fraternità sia "ghigliottina" e
l'Uguaglianza "napoleonica", Giacomo restò un anarchico, deluso dai
"falsi profeti dell'astuzia cuilturale". (L. Ruggeri)
Leopardi è del Settecento: come Mosé sul monte Nebo vide la
Terra promessa così il Poeta intravide l'Ottocento e ne subì le
suggestioni romantiche, ma liberandosi dagli schemi classici e
romantici, attinse la dimensione marsica.
Per Mario Sansone:
"la mitografìa filosofica leopardiana [...] è materialista [...]
l'assuefazione è il cavallo di battaglia della gnoseologia sensistica del
Leopardi, come l'altro della conformabilità (le idee si conformano a
fattori geografici e climatici, sulla scia del Montesquieu e della Staël)
Pino Zanni Ulisse
78
[...]. Edonismo, egoismo, individualismo e concezione antisociale,
sono i cardini della morale leopardiana. Al Rousseau ci riportano gli
atteggiamenti critici verso il cosiddetto incivilimento, col congiunto
mito dello stato di natura. Ma al Leopardi mancò del Settecento la
fede nel progresso, il senso fiducioso della costruzione di una nuova
umanità, la fede nelle scienze, la filantropia [...]".
Dallo Zibaldone apprendiamo la sua "delusione storica" succeduta
al fallimento della Rivoluzione e al regime napoleonico, come
incominciò a diventare filosofo, leggendo le opere della Staël (Zib. I,
11, 22), come dalla conoscenza dei filosofi e dei libri in genere non
avesse tratto nulla che già non avesse pensato e ordinato nella sua
mente (Zib. I, 94), la distinzione tra vita ed esistenza: la vita è dunque
l'esistenza sentita, posseduta e goduta ο patita dall'uomo. La Natura
provvede agli esistenti non ai viventi. Esistenza è vivere come sviluppo
di una mera carica vitale. Vita è una nozione dell'essere percepita
attraverso la categoria del sentimento: "gli esistenti esistono perché si
esista, l'individuo esistente nasce ed esiste perché si continui ad esistere
e l'esistenza si conservi in lui e dopo di lui" (Zib. II, 998).
La tautologia di queste definizioni testimonia il "pensiero debole"
di Leopardi: potrebbero piacere a Bergson, farebbero sorridere
Kierkegaard ο Heidegger ("il linguaggio è la casa dell'essere") [...] "La
rosa è senza perché [...] fiorisce perché fiorisce, non fa attenzione a se
stessa, non si domanda se la si guarda". (Heidegger, L'essenza del
fondamento, 68).
Esiste una grammatica, ο una sintassi, ο una estetica leopardiana?
Leopardi pone la distinzione (come teorizzarono Schiller,
Sismondi, Bouterweck, gli Schlegel, la Staël) fra poesia di
immaginazione e poesia di sentimento. Vera poesia (Vico) è quella di
immaginazione (Omero), la sentimentale è più una filosofia. Di qui la
condanna dei tentativi moderni di imitazione (Monti, Alfieri, Parini):
"la poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di
questo secolo". Una poesia nutrita di affetti e di idee (vero), come
l'omerica lo era di fantasie e di miti (falso).
Puntualizza Sapegno: "Per Leopardi la poesia fa tutt'uno con
l'infinito e la rimembranza. Le idee vaghe, le sensazioni indeterminate,
le immagini remote, oscure, incompiute, caratteristiche del fantasticare
fanciullesco [...]. I caratteri precipui del linguaggio poetico sono
l'ardimento, l'estrosità, il peregrino, il vago, l'indeterminato. Lirica pura
è anche libertà metrica." Tanto che: "L'Epistola a C. Pepoli (1826) è
una prefazione postuma delle Operette, è pura prosa, in cui della poesia
Al conte Carlo Pepoli
79_
resta viva soltanto la spoglia metrica e verbale" [...] "l'atteggiamento
con cui il poeta si contrappone al destino, non rassegnato ma polemico,
Prometeico [...] è romantico e trova rispondenze negli spiriti fraterni di
Goethe, Hölderlin, Byron, Shelley, Vigny".
La sua visione del mondo (Weltanschauung), il suo spazio cosmico
interiore (Weltinnenraum), il paesaggio prevalentemente lunare (che in
fondo è "uno stato d'animo" per B. Croce), il suo funzionalismo ο
morfologia ci aiutano a comprendere di più il poeta ο la sua poesia?
È giusto parlare di Ermeneutica leopardiana? La critica dei generi
letterari e del testo (scomponendo i colori del quadro al microscopio)
non genera forse la morte della fede nella poesia? in una sorte di
protestantesimo letterario, tale da ridurre la "Resurrezione" della Poesia
ad un fatto mitologico ο misterico? In Leopardi si incarna la Lirica
"epinicia": la sua "vittoria" fu sulla noia, se non su la Natura Madrematrigna.
La noia è il più grigio dei sentimenti, specie quando i lati brutti
della vita sembrano il solo Vero. Ma giustamente osserva von Balthasar
(il Cardinale "perinde ac cadaver"): "Anche l'estetica mondana non può
mettere da parte il momento della bruttezza, della rottura tragica, del
demoniaco, ma deve venirne fuori. Ogni estetica infatti che tenta
semplicemente di ignorare questa dimensione tenebrosa, può essere fin
dall'inizio ignorata come estetismo" In fondo: "L'ispirazione di un
grande artista è inafferrabile e si mantiene indissolubilmente nell'opera
che ne è nata. Essa resiste a tutte le analisi, giacché queste potranno sì
mostrare la proporzione e l'armonia delle parti, ma non saranno mai e
poi mai in grado di operare la sintesi a partire dai vari elementi".(H. U.
von Balthasar, Gloria, I, 429, 457). Né bisogna dimenticare che Socrate
ed Erasmo avevano teorizzato "il brutto fuori e bello dentro".
Ma Leopardi non è un filosofo. Sofia è saggezza, figlia di AtenaDiana, uscita dalla testa di Giove. A Lei era sacro l'ulivo tortuoso,
nodoso e secolare, non il salice piangente ο la ginestra, mentre l'alloro
era il simbolo di Apollo e delle Muse [...] "odioso" a Zanella.
La filosofia è meridionale: Pitagora in Italia, Parmenide ad Elea
(Paestum) (Leopardi scopre Parmenide: "non può una cosa essere a un
tempo e non essere" e se avesse visitato a Paestum la Tomba del
cosiddetto Tuffatore, avrebbe apprezzato Eraclito: "nessuno può
tuffarsi due volte nella stessa acqua del fiume"), giù, giù fino a
Tommaso d'Aquino, Campanella, Giordano Bruno, Vico, Croce e
Gentile.
La filosofia è sistematica, totalizzante, a 360°, mentre le riflessioni
di Leopardi-pensatore sono comuni in qualsiasi liceale di Collegio
Pino Zanni Ulisse
80
gesuitico.
Egli è antiplatonico quando nega "ai filosofi capacità d'azione",
ignorando l'episodio dei frantoi di Talete, la strage pitagorica di
Crotone, Platone venduto schiavo a Siracusa, fino ai pitagorici dell'età
moderna: i Gesuiti, che, come gli antichi Acusmatici e Matematici,
hanno espresso Santi, Missionari e Scienziati, i cui nomi "sono scritti
nel cielo", sui crateri della luna, non del tutto evangelicamente [...] (W.
V. Bangert).
Leopardi orecchiava Rousseau, come D'Annunzio ammiccava a
Nietzsche. Forse ha letto Vico, ma non è mai giunto all'equilibrio ed
alla saggezza delle Degnità. Forse ha letto Pascal, ma non ha
focalizzato la distinzione tra l'esprit di geometrie e l'esprit de finesse,
forse ha letto le gazzette ed i manifesti del Socialismo utopistico, ma
non ha concluso con Marx, neppure nella Ginestra, che: "il mondo non
va conosciuto, ma trasformato". Forse ha conosciuto Schopenhauer
senza pervenire al Nirvana.
Il giovin-signore pariniano di Recanati preferiva pigramente il
colle Tabor alle asperità di monte S. Marco ο dei Monti Sibillini, e
quando provò a scalare il Vesuvio (forse ricordando Plinio), si fermò
alla prima Ginestra, che non cresce sulle vette. Non aveva certo "la
piccozza" di Pascoli, ma neppure intuì il "concetto dialettico", il saledella-società per Hegel e Marx.
Quando Marx proclamerà nel '48 "uno spettro si aggira per
l'Europa", non pensava alla Ginestra di Leopardi, né alla "donzelletta
che vien dalla campagna", né ad "il zappatore", né al "pastore errante
dell'Asia", anzi l'antinomia tra classe operaia e classe contadina ο
studentesca, sarà alla radice del fallimento dell'utopia comunista, come
quella tra Libertà ed Uguaglianza lo fu per la Rivoluzione Francese,
come la Riforma luterana e calvinista metterà il "povero Lazzaro" sulla
Croce Rossa del "ricco Epulone".
"La mezza filosofia" è una filosofia mezzana (come la cultura
"impegnata") dell'utile e dei comodi della vita.
Un Dialogo tra Leopardi e Shaftesbury farebbe ridere anche
Pulcinella: il primo, devoto di S. Vitale (vitalismo di un "escluso dalla
vita"), il secondo devoto di Santa Prudenziana (tolleranza ed ironia)
senza fanatismi, in un clima di "disperata speranza" ed in una
"aspettativa grande e buona", come Colombo e Gutierrez, ο come il
Venditore di almanacchi, scrutando "i segni dei tempi", ο del Sabato
"la speme e la gioia".
C. Luporini dovrà danzare sugli specchi per dare del "progressivo"
a Leopardi. Progressivo sinonimo, aristotelicamente e tomisticamente,
Al conte Carlo Pepoli
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di "potenziale", non di potente ο reale.
"L'armi qua l'armi: io solo combatterò; procomberò sol io",
gridava Giacomino-Buccio per l'Italia, come un parrucchino
metastasiano, D'Annunzio fu il poeta-soldato di Vittorio Veneto,
Buccari, del Carnaro e di Fiume.
Come gli studi recenti di Storia hanno smitizzato il Risorgimento
Italiano (episodio marginale della politica estera inglese) ed i suoi eroi
(Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele II, Verdi), scoprendoli come
piccoli Massoni italiani al servizio della Massoneria Inglese, così in
Letteratura forse è tempo di focalizzare i vari Manzoni, Leopardi,
Carducci, eccellenti letterati della provincia italica, privi del respiro
europeo di un Verga, D'Annunzio, Pirandello, Silone. Basta vedere
quanti stranieri frequentano a Recanati la Fondazione Leopardi e quanti
il Vittoriale. Nonostante la buona volontà di certa critica dì sinistra di
fare di Leopardi " un premarxista", nessuna via ο piazza gli è stata
intestata a Mosca ο Pechino, dove i nomi di Giordano Bruno e di
Matteo Ricci figurano senza prosopopea.
"In generale si ritiene che Leopardi neghi il progresso e combatta
l'idea di esso. Ora questo non è esatto [...] Ciò che Leopardi nega è altra
cosa, cioè la perfettibilità [...] Concetto legato all'antistoricismo dell'età
illuministica [...] Al concetto di "perfettibilità Leopardi sostituisce
quello di "conformabilità" e "assuefazione" (C. Luporini, Leopardi
progressivo (Firenze 1947), Roma 1980, p. 61).
Leopardi anticipa un punto del Decalogo del Materialismo di
Stalin: "passaggio dalla quantità alla qualità per concentrazione", nello
sviluppo della Materia, punto già intuito da Democrito e dagli Atomisti
antichi, fino a Lucrezio, discepolo di Epicuro.
Leopardi se avesse approfondito Lucrezio (De Rerum natura, IV),
forse napoletano "verginista" e "partenopeo", come Virgilio, non
avrebbe perso tempo dietro Ranieri, e superando le antinomie
riscontrabili tra lo Zibaldone e gli Idilli (Natura-Ragione, azionecontemplazione, patria-individuo, amore-morte) sarebbe diventato il
profeta della moderna Ecologia, senza gli eccessi feticistici dei Verdi.
Nella "Lettera ad un giovane del ventesimo secolo" l'appello di
Leopardi "alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla
natura" (delle scimmie?) potrebbe far sorridere Darwin-Hitler,
certamente non riderebbe Erasmo, né Verne, né Swift con i
Lillipuziani. Gulliver, come Pinocchio, non fa parte della Cappella
Sistina letteraria.
Ma i giovani del ventesimo secolo hanno preferito Luciano di
Samosata a Lucrezio e Leopardi: se la Natura è matrigna crudele,
Pino Zanni Ulisse
82_
perché rispettarla? La Natura va combattuta, come? distruggendola!
Nuova illusione: come Tancredi vittorioso, nello scoprire il volto del
nemico, vide Clorinda e "restò senza e voce e moto/ ahi vista! ahi
conoscenza!"
"L'aristocratico Leopardi non fu un liberale, ma un puro
democratico e rimase fedele ai principi della democrazia rivoluzionaria,
anche più avanzata" (Luporini, op. cit., p. 88). Certo, il volgo (popolo)
è da redimere e liberare dal bisogno, dall'ignoranza, dalla malattia, non
da disprezzare, come Voltaire: "populace". Ma forse la Rivoluzione, da
Marx a Mao a Marcuse, decapitando i "cavalli di razza" (nobiltà
francese, Zar e Principi russi, mandarini cinesi) ha lasciato solo muli ed
asini, che impiegheranno 700 anni per diventare di nuovo Principi? Per
fortuna la Natura seleziona e conserva (jus primae noctis) ed i Principi
moderni sopravvivono, nonostante le rivoluzioni.
B. Croce osservava: "Il Sabato del villaggio e l'ode A Silvia come
manifestazioni sintomatiche dell'idropisia e degli altri malanni che
affliggevano Giacomo Leopardi: le quali interpretazioni, ο simili a
queste, si leggono nella relativa e dotta 'letteratura' dei critici, che si
denominavano 'positivisti'" (Croce, La Poesia, Bari: Laterza (1936)
1966, p. 68). Certamente se Donna Adelaide, invece di soffrire (e di far
soffrire a Giacomino) le doglie del parto per 40 ore, avesse avuto un
parto "pilotato ο cesareo", Leopardi non sarebbe rimasto fermo alla
"speranza e desiderio di vita", ma la sua "vitalità" avrebbe conosciuto
le sciarade sentimentali e sessuali di un Foscolo ο di un D'Annunzio, ο
quelle intellettuali di un Carducci ο di un Pirandello. La poesia è per
Leopardi "un respiro dell'anima" (si avverte la difficoltà respiratoria del
nascituro che lotta per 40 ore). Quel respiro, non "strozzato" (Croce),
né "troncato" (Luporini), ma spontaneo-naturale-ecologico, sarebbe
stato, non un epinicio saffico sulla "noia", ma un pindarico e virgilianooraziano Inno al sole, Croce e Positivisti permettendo.
De Sanctis nel dialogo "Schopenhauer e Leopardi" anticipa, per
così dire, il Leopardi "progressivo": "se il destino gli avesse prolungato
la vita infìno al '48, senti che te l'avresti trovato accanto, confortatore e
combattitore".
E la Grammatica-Sintassi-Estetica leopardiana? In verità, per dirla
col Carducci, mentre Manzoni divenne un classico da imitare
nell'Ottocento (il "lesso manzoniano", al posto del "lessico"), Leopardi
restò solo, non ebbe figli neppure in letteratura. Quel vivere ai margini
della società, come il seduttore di Kierkegaard, lo privò della
soddisfazione degli imitatori e discepoli.
"Il bello è difficile" sentenziava Platone (Ippia, 304) e imitare
Al conte Carlo Pepoli
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Leopardi è impossibile. I critici hanno esaminato tutte le possibili fonti
dell'ispirazione leopardiana, da Petrarca, per il Passero solitario ("vago
augelletto che cantando vai / over piangendo il tuo tempo passato / se
come i tuoi gravosi affanni sai, / così sapessi il mio simile stato / col
membrar de' dolci anni [...] (Canzone 353, fonte non solo "omeopatica"
e "onomatopeica"), fino a Schopenhauer e Viale Ambrogio (17701805), che con la Passera Solitaria "non figurava nella libreria di
Monaldo" .(G. Paparelli)
Forse Leopardi non ebbe pedanti imitatori, ma come osserva
giustamente Luporini: "nell'anima moderna vi è una nota
inconfondibile che è il momento leopardiano", anche nei "canti"
melodrammatici del compaesano B. Gigli.
Scrive B. Croce: "I saggi ο monografie sui poeti raggiungono il
loro fine, quando non sono soltanto raccolte di sparse osservazioni e
commenti estetici alle singole poesie, ma riescono a dare la
caratteristica del motivo ο stato d'animo fondamentale del poeta,
correggendo e arricchendo di qualche tratto quelle che si possedevano
sullo stesso soggetto". (Croce, La poesia, op.cit., p. 137).
Qual è dunque l'opzione ο il sentimento fondamentale dell'estetica
leopardiana? Qual è la sua concezione dell'uomo? Sono convinto che
come Michelangelo superò il Dionisiaco e l'Apollineo nel Barocco, così
Leopardi conciliò il Classico ed il Romantico nel Marsico.
Conclusione virtuale
"Di due nere pupille il caro sguardo / la più degna del ciel cosa
mortale".
Von Balthasar facendo la storia dell'amore metafisico, scrive che:
"il pio eros metafisico [...] si arresta al cosmo (Goethe) ο sprofonda in
se stesso in una falsa malinconia (petrarchismo, fino al Leopardi e ai
preraffaelliti). Ma quando comunque l'amore non asseconda più l'atto
metafìsico universale, questo si spezza agnosticamente e scetticamente
in se stesso e si circoscrive a ciò che gli si affaccia all'interno del
mondo: la dimensione della gloria si perde in quella della bellezza". (H.
U. von Balthasar, "La luce dell'essere e l'amore", in Gloria, V, 567).
Già Euripide aveva sentenziato: "Non è un amante chi non ama per
l'eternità". (Troad. 1051)
A Leopardi mancò il coraggio del "seduttore" di Kierkegaard. Tra
Democrito (Atomi), Parmenide (Essere) ed Eraclito (Divenire), egli
preferì "l'abstine et sustine" di Epitteto. Giocare di rimessa con la
Natura, la vita e il Destino. Pigrizia aristocratica? Difficoltà ancestrale
delle 40 ore di doglie alla nascita? Gusto per la "durata" delle
Pino Zanni Ulisse
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occasioni, ο della "rimembranza" nella "ricerca del tempo perduto"?
La risposta è nell'Infinito: " il naufragar m'è dolce in questo mare",
naturalisticamente alla Robinson Crusoe, ο se si preferisce la tradizione
classico-dantesca: il mito di Ulisse (vagheggiato nel Dialogo "Colombo
e Gutierrez"), ma senza Circe, Calipso, Nausicaa, ο Penelope.
Leopardi contestò il progresso, inteso come perfettibilità. Ma dopo
la Riforma calvinista, il progresso è il privilegio del profitto. Il
privilegio è il profitto del progresso. Il profitto è il progresso del
privilegio. In fondo: il progresso, il profitto, il privilegio sono la
proiezione sociale del Vero, del Bello, del Buono nell'Utile.
Ma l'Utile fu aggiunto dal liberale Croce ai trascendentali: il Bello,
il Vero, il Bene, meritandosi la critica di Gentile: "la filosofia delle
quattro parole!" In verità l'arte, la religione, la filosofia non hanno
quotazioni in Borsa. La simonia non riguarda solo la religione, ma
anche l'arte ο la morale ο l'amore, che non si vende né si compra. A
Leopardi mancò l'amore.
Il Benverbello è trascendente e trascendentale e la sua unità
trinitaria è il capolavoro. Mentre surrogati e accessori sono l'utile, il
piacevole, il verosimile, che ispirano la tecnica, le belle arti, la mistica,
l'economia.
La sintesi del Benverbello è l'amore, il punto di convergenza dei
tre trascendentali e dei trascendenti. In Leopardi l'amore fu virtuale.
La dimensione trinitaria del Benverbello è esistenziale sia
oggettivamente (fuori spazio-tempo) che soggettivamente (memoriafantasia-inconscio). È essenziale nel suo essere (forma-Gestalt-materia)
e nel suo divenire (Filologia Sitz-im-Leben-critica storica delle forme).
E universale (dà gioia a tutti) per gli amanti del classico (Apollineo),
del romantico (Dionisiaco), del Barocco (Marsico). Il Benverbello è il
trascendentale di Dio. E Leopardi non fu "ateo", se nel titolo della
Ginestra pose il testo giovanneo: "E gli uomini vollero piuttosto le
tenebre che la luce" (III, 19), luce ricercata anche da Goethe. Il suo
scetticismo fu adiaforico: Dio è intravisto nell'enjambement poetico
dell'Infinito. Sul vestibolo, come Ch. Péguy, apofantico-apofatico?
Leopardi, come i socialisti utopistici ο rivoluzionari, più che il progresso (perfettibile), avrebbe dovuto combattere il Privilegio, che è il
trascendentale destabilizzante della società, l'unico "fantasma
rivoluzionario" che da sempre "s'aggira per l'Europa" e per il mondo,
vero "oppio dei popoli" e del potere. Ricordando che tre valori
affrettano il Grande Ritorno: le lagrime del Padre, il grembo della
donna, il buio oltre le stelle.
Il "giovane del secolo XX" ha sperimentato il titanismo sociale,
Al conte Carlo Pepoli
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politico e scientifico. L'iceberg non ha affondato solo il Titanic
("neppure Dio ti può affondare"), né l'atomica solamente il Sol
Levante, né l'Aids la Statua della Libertà, né il Muro dì Berlino il Terzo
Reich, né il Gulac l'arcipelago dell'Uguaglianza. Il "giovane del XX
secolo" ha capito che: "il dio degli eserciti piange come Priamo nella
tenda di Achille", direbbe Madre Teresa di Calcutta.
Nella Epistola al Pepoli, Leopardi, oltre i concetti di ozio, noia,
poesia, vero, gloria, postula l'oggetto teleologico della vitalità: la
felicità, ma essa, come i postulati di Kant (Dio, anima, cosmo), resta
postulato della Ragion Pratica. L'universalità di Leopardi ha le radici
nelle sue letture bibliche (Genesi, Giobbe, Sapienza). L'infinito,
l'amore, il dolore, la morte, lo rendono "umano", ma la sua concezione
della vita è principesca. Pur vantando "il primato sociale della
condizione baronale" (G. Galasso), meta sognata, non sempre raggiunta
da Cenerentole, Trimalcioni, Cagliostri, il Conte Leopardi, come
Giuseppe l'Egizio, sogna la concezione principesca della vita, che
cresce nella selezione ed elezione, nonostante l'invidia dei fratelli, ben
sapendo che "i nani restano nani anche sulle spalle dei giganti".
Leopardi resta un principe, nonostante la "solidarietà" con gli
uomini, certo, non con "le scimmie".
"Per percepire la forma (del Faust di Goethe ο del Colombo di
Leopardi), occorre interiorizzarsi in esso - scrive von Balthasar entrare nel suo cerchio incantato e nella sua zona di irraggiamento,
pervenire allo stato nel quale soltanto esso diventa evidente nel suo
essere-in-sé" (Gloria I, 580).
Alle soglie del 2000 il "giubileo leopardiano" ci ammonisce sulla
sacralità della vita, da rispettare e promuovere, evitando gli eccessi del
ricco Epulone e del povero Lazzaro (reiterazione evangelica del convito
omerico di Ulisse e dei Proci), "Lazzaro scendi dalla Croce Rossa del
ricco Epulone!"
Quando Napoli-Partenope accolse Leopardi-defunto a Posillipo,
accanto a Virgilio, sapeva di venerare i Dioscuri della poesia italica. Il
poeta grato poteva ripetere, come Edipo a Colono:
ti reco in dono il mio corpo
l'aspetto suo bello non è
ma il bene che arrecar può
vale ogni forma bella (576-78).
PINO ZANNI ULISSE
Atri-Recanati, 29 giugno 1798/1998
Pino Zanni Ulisse
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