La parabola delle due frecce

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La parabola delle due frecce
La parabola delle due frecce
In quel tempo il Buddha, che dimorava presso Savatthi, si rivolse ai discepoli con queste parole:
"L'incolto uomo comune sperimenta lo sensazione piacevole e quella dolorosa. E anche il nobile discepolo
sperimenta lo sensazione piacevole e quella dolorosa. E allora qual è lo differenza, qual è lo distinzione, lo
dissomiglianza fra il nobile discepolo e l'incolto uomo comune?
L'incolto uomo comune, colpito da una sensazione dolorosa, si affligge, si cruccia, si lamenta percotendosi il
petto, geme, si avvilisce. Egli sperimenta due sensazioni: una corporea e l'altra mentale.
E' come se ferissero un uomo con una freccia e poi lo ferìssero con una seconda freccia; certamente
quell'uomo sperimenterebbe lo sensazione dolorosa di due frecce. Similmente l'incolto uomo comune,
colpito da una sensazione dolorosa, sperimenta due sensazioni: corporea e mentale; colpito da una
sensazione dolorosa egli manifesta repulsione e cede a questa repulsione della sensazione dolorosa.
Il nobile discepolo invece, colpito da una sensazione dolorosa, non si affligge; egli sperimenta una sola
sensazione dolorosa: quella corporea, ma non quella mentale.
Questa è lo differenza, questa è la distinzione questa è la dissomiglianza fra il nobile discepolo e l'incolto
uomo comune" (Samyutta Nikaya)
Commento:
E' molto importante comprendere che cosa si intende, negli insegnamenti orientali, quando si parla di
"estinzione della sofferenza" . Usando certi termini, infatti, si può cadere nell'equivoco di considerare la
meditazione come un tentativo di anestesia. Di conseguenza, ci si può prefiggere il raggiungimento di
stati alterati di coscienza con lo scopo di interrompere, sebbene solo momentaneamente, stati di
sofferenza.
Non è assolutamente questo il significato dell'espressione “ superamento di dukkha “, superamento
della sofferenza. E per comprendere questo discorso vitale, lo studio è soltanto un complemento, è
soltanto qualcosa che deve accompagnare la pratica, la quale. è invece la via centrale per la
comprensione del Dharma. Mercè la pratica infatti, entriamo in contatto con i modi in cui la nostra
mente genera sofferenza, oppressione, tormento a noi stessi e agli altri.
La sofferenza alla quale ci si propone di porre un termine è questa, poiché la sofferenza del corpo che
si ammala, invecchia e muore è assolutamente fuori dal nostro controllo: è un processo che la
saggezza ci invita a comprendere e ad accettare. Dunque una menomazione, una malattia, sono forme
di sofferenza che appartengono a quello che la tradizione definisce il primo livello di sofferenza, cioè la
sofferenza immediata. Il lavoro della pratica a questo proposito non consiste affatto nel non cadere
nella malattia, come se questa fosse una specie di punizione divina, questo è soltanto un approccio
superstizioso alla pratica e non ha nulla a che vedere con il Dharma.
Consideriamo, per esempio, di trovarci di fronte a una sofferenza fisica, nostra o di una persona vicina
a noi. In questo caso il lavoro interiore mira a un modo di soffrire molto diverso da quel modo comune di
soffrire, tipicamente centrato sull'io. La proposta del Dharma è di passare da una forma di sofferenza
stretta, tormentosa, appesantita dalla sofferenza che noi stessi aggiungiamo, a una forma di sofferenza
in cui l'accettazione, l'equanimità e la compassione. sono al primo posto, nel cuore di questa stessa
sofferenza.
Ciò non significa l'eliminazione magica della sofferenza, ma significa un rapporto radicalmente
cambiato con la sofferenza nostra e degli altri. Tale cambiamento di rapporto può nascere solo come
frutto di un lavoro lungo, appassionato e difficile. Comporta una trasformazione radicale di tutto il nostro
modo di essere e di vivere. Se, per esempio, la nostra vita è piena di ambizione e di preoccupazioni,
ossia è complicata, essa sarà appesantita da queste stesse complicazioni e di conseguenza non
conoscerà la bellezza e lo splendore della semplicità. E inevitabilmente anche il rapporto con la
sofferenza, nostra e altrui, risulterà gravato di questo carico. Diversamente, se siamo più semplificati,
quindi più liberi e più forti, soffriremo in un modo più equanime e compassionevole, molto meno
centrato sull'io. In realtà stiamo parlando di due modi di soffrire che nulla hanno a che fare l'uno con
l'altro, letteralmente irriconoscibili l'uno all'altro.
Il vecchio sogno di esorcizzare la sofferenza è soltanto una mera illusione dell'io: siamo abituati a
cercare di catturare il piacevole e sottrarci allo spiacevole, sperando che, con un po' di fortuna e molta
abilità, si riesca a vivere senza soffrire. Prima o poi tutto questo si rivela illusorio, poiché l'incontro con
il dolore fa parte della vita, fa parte dell' impermanenza. Ed è allora che occorre una diversa capacità di
correlarci ad esso. E' tutto qui. La chiave del lavoro interiore è in questa trasformazione del nostro
rapporto con i vari aspetti della vita, in primo luogo con la sofferenza. In tal modo tutta la sofferenza
centrata sull'io può completamente sparire, con grande agio, beneficio e spazio per noi e per chi ci sta
vicino.
Commento del M° Angelo Abbruzzo Lama Yeshe