Com – unic – azione e gruppo - EUMENOS Associazione Onlus

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Com – unic – azione e gruppo - EUMENOS Associazione Onlus
Noi siamo fatti di memoria… guai a quell’uomo, a quella donna
che non hanno memoria di quello che è accaduto, di quello che
hanno vissuto, senza avere un riscontro degli eventi, delle
passioni, delle tragedie, dei sentimenti. Quello che hai trascorso
è sulla tua faccia, tu sei fatto delle espressioni di gioia, di dolore,
di quello che hai vissuto, mangiato, vomitato… Le nostre facce
sono fatte di memoria”
(Dario Fo)
Com – unic – azione e gruppo: come
rendere manifesto il messaggio non
verbale in una dimensione gruppale
Il postulato fondamentale all’origine di questo lavoro è quello secondo il quale se
il linguaggio del corpo si esprime nel movimento e quello della mente nel
pensiero, è altrettanto vero che il corpo possa parlare alla mente e che la mente
possa agire per mutare il corpo e il suo linguaggio
La conseguenza logica di questa premessa è il considerare la persona come un
insieme inscindibile di corpo e mente intrecciati strettamente nella fisicità, nella
“corporeità” delle sensazioni, negli affetti, nelle emozioni, nei processi cognitivi.
Esploreremo qui come il "corpo" sia parte inscindibile dello strutturarsi del copione
di vita e come lavoriamo con la componente somatica (Cornell 1975) di quest’ultimo
cercando di integrare nel quadro teorico dell'Analisi Transazionale altre prospettive
teoriche, nonché ricerche specifiche riferite al corpo.
Nonostante il dualismo cartesiano che separa la mente dal corpo ancora condizioni
le scienze sull’uomo è innegabile che già in Darwin (1872) si rintracciano le radici di
un’indagine sul significato universale delle espressioni mimiche secondo il quale
esiste un linguaggio del corpo innato e comune a tutte le culture che può essere letto
direttamente per esperienza intuitiva.
“ Chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere si convince che ai mortali non è
possibile celare alcun segreto. Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle
dita, si tradisce attraverso tutti i pori”. Questa affermazione di Freud (1905, 1973)
chiarisce come già agli albori della psicoanalisi non fosse negata la dimensione
corporea dell’Io e, in seguito, lo stesso avanzò la tesi che il primo rudimento del
senso di Sè fosse un’esperienza corporea derivata da una sensazione fisica: l’Io è
“innanzitutto un’entità corporea” (Freud 1923, 1985).
L’importanza della dimensione corporea non sfuggiva neppure a Jung che, definendo
con “Ombra” la parte repressa dell'Ego, ciò che non siamo capaci di riconoscere di
noi stessi, nel 1935, durante una conferenza in Inghilterra indicò come il corpo
potesse sostenere l'Ombra: "A noi non piace guardare la nostra Ombra, tuttavia ci
sono molte persone nella nostra società civilizzata che hanno completamente
smarrito la propria Ombra, la loro terza dimensione, e con essa, solitamente, anche
il senso del corpo. Il corpo è il più dubbio degli amici, perché produce cose che non
ci piacciono: ci sono troppe cose sulla personificazione di quest'Ombra dell'Ego.
Talvolta forma lo 'scheletro nell'armadio' e naturalmente tutti vorrebbero
liberarsene" (Jung 1968).
Da Freud, Jung, citando Winnicot (1960, 1989) il quale ha parlato di “ Psiche insita
nel soma”, senza trascurare Wilhelm Reich (1970) che ha sviluppato l’idea di Freud
di un Io corporeo, sino ad oggi, confortati anche dalle neuroscienze, possiamo
sostenere che l’Io corporeo costituisce il fondamento di tutto lo sviluppo ed è
importante che esso sia coinvolto in ogni vera trasformazione.
In linea con Kohut (1971, 1977), definiamo il Sé come un apparato psichico primitivo
la cui coesione e integrazione è essenziale per lo sviluppo successivo dell’Io. Il Sé
rappresenta non solo una componente fondamentale della struttura psichica, ma
addirittura il centro della personalità all’origine del sentimento per il quale
l’individuo si sente un polo autonomo di percezione e iniziativa.
In riferimento alle neuroscienze ci appaiono fondamentali le scoperte di Allan Schore
(1994) il quale parla di un processo di trasmissione inconscia di stati psicobiologici
attraverso l’emisfero cerebrale destro che, per inciso, risulta essere l’emisfero
dominante nel presiedere al corpo e alle emozioni nei primi tre anni di vita. Secondo
l’autore gli stimoli emotivi vengono elaborati in funzione delle reazioni somatiche
provocate dando così origine ad una sorta di primigenia comunicazione tra corpi o,
secondo quanto detto sin’ora, tra Sé corporei.
Non ci sembra azzardato poter pensare ad una consapevolezza primitiva del lattante
come un insieme di stati “corpo-mente”(Bowlby 1978, 1989) e non stati mentali.
Ancora le recenti scoperta delle neuroscienze ci sostengono, dice infatti Antonio
Damasio (1994) “ il corpo, così come è rappresentato nel cervello, può costituire
l’indispensabile cornice di riferimento per i processi neuronali che noi avvertiamo
come mente….” e ancora “il corpo è usato come riferimento base per le costruzioni
che elaboriamo del mondo circostante e di quel senso di soggettività, sempre
presente, che è parte integrante delle nostre esperienze”.
Il nucleo primitivo del Sé è dato da un’esperienza con conseguente vissuto fisico
che vede la sua origine nella relazione con un altro da sé
La prospettiva interazionista di Cooley (1963) sottolinea ed estende una definizione
del Sé relazionalmente inteso, attraverso una costruzione di un Sé sociale che implica
l’interiorizzazione di altri significativi. Secondo l’autore il soggetto fa propri gli
atteggiamenti che gli altri esprimono nei suoi confronti, e queste valutazioni riflesse
definiscono quello che metaforicamente viene indicato come il looking-glass-self.
Ciò segna un grande passo avanti nello sviluppo del self e della capacità di
interpretare gesti ovvero la capacità “di assumere la prospettiva dell’altro”. Senza
tale capacità sarebbe impossibile la cooperazione (Castelli 2001) che caratterizza
ogni società, perché implica che l’individuo consideri anche se stesso dal punto di
vista dell’altro: in questo modo, l’Io può meglio valutare le conseguenze del suo agire
nei confronti dell’Altro.
Il Sé è, quindi, anche un’entità relazionale complessa che include relazioni tra
aspetti propri dell’individuo nella sua realtà psichica e fisica e tra l’individuo
nella sua complessità e il mondo
In ambito sistemico si deve alla scuola relazionale di Palo Alto (Watzlawick 1971,
Whitaker 1984, 1991) lo studio sulla comunicazione. Il disagio psicologico, infatti,
viene inteso come una difficoltà di comunicazione verso se stessi e verso gli altri
(Bateson 1976). La comunicazione definisce la relazione tra gli individui attraverso i
messaggi verbali con le modalità linguistiche e vocali, i messaggi non verbali e gli
atteggiamenti del corpo (Onnis 1985, 1994, 2004).
La corrente sistemico – relazionale pone quindi l’accento su comunicazione e corpo
e come il corpo dia chiari segnali dello stato psichico del paziente.
Molto interessanti ci appaiono le indicazioni dell’americana Cohen (1993) che ha
integrato lo studio dell’anatomia e della fisiologia con un’analisi esperienziale dei
sistemi somatici (scheletrico, endocrino, etc.).
La ricercatrice indica col termine embodiment (incorporamento) la relazione
integrata tra sé e il mondo, tra le sensazioni provenienti dall’interno e le percezioni
dall’esterno. La Cohen definisce cinque azioni fondamentali nello sviluppo del
movimento inteso come modalità fondamentale di relazione integrata:
 Cedere alla gravità per attivare un contatto primario col mondo oggettuale
altro da me;
 Spingere per separarsi da questo contatto primario e ciò implica sentire il
proprio corpo nella sua massa-peso e nella sua posizione spaziale;
 La spinta ci fornisce appoggio al tendere la mano agendo per soddisfare il
bisogno di contatto col mondo;
 Afferrare e tirare intesi come propaggini logiche del tendere per
l’incorporamento dell’oggetto mondo fuori di me.
In modo conscio o inconscio, la nostra identità è strettamente legata
all’esperienza vissuta di essere un corpo. “ Io sono Corpo ” piuttosto di “ Io ho
un corpo “
Anche nell’ambito più strettamente legato all’Analisi Transazionale la dimensione
corporea dell’Io non è mai stata abbandonata.
Berne (1961, 1992) teorizzando le quattro diagnosi degli stati dell’Io, ha posto
attenzione alla diagnosi comportamentale che ci da indicazione di come il cliente usi
il non verbale. Nel nostro lavoro la diagnosi comportamentale è il grand’angolo di
osservazione. Attraverso la comunicazione non verbale ( Moiso 1985, Moiso e
Novellino 1982, Barnes 1981) rintracciamo cosa il corpo del cliente ci vuole dire e
cosa, nel qui ed ora, sta rappresentando del lì ed allora (Kernberg 1980, 1985, 1996).
Spesso accade che parlando durante un colloquio il cliente riveli qualcosa che in
realtà vuole tacere a chi gli sta davanti con un evidente contrasto tra la
comunicazione verbale, ciò che si sta dicendo a voce, e la comunicazione non
verbale, quello che il nostro corpo concretamente esprime. Imparare a rendere
coerente la comunicazione verbale (Berne 1961, 1964, 1966, 1970) e quella non
verbale permette di essere più chiari migliorando così i rapporti interpersonali. Infatti,
le posizioni del corpo, i segni e i gesti che l'individuo esprime, durante un pensiero,
durante un dialogo o altre forme di interazione, non sono casuali ma correlati ai suoi
stati emotivi. Il toccarsi in determinate zone del viso, l'accarezzarsi le labbra, il
toccare gli oggetti in un certo modo sono gesti che permettono all'esperto della
comunicazione non verbale di decodificare il linguaggio del corpo attraverso il quale
parla la sfera inconscia (Berne 1992).
I canali non verbali sono classificabili in 5 sistemi (Argyle 1975):





Vocale (l'intonazione della voce);
Cinesico (i movimenti);
Aptico (il contatto fisico);
Prossemico (la distanza);
Cronemico (il tempo della comunicazione).
Berne ricordava al terapeuta di utilizzare nel trattamento tutti e 5 i sensi per udire,
vedere, annusare, gustare e toccare, magari anche solo attraverso la stretta di mano,
ogni piccola variazione del cliente di fronte a sé (Ligabue 1985).
L’abbigliamento, ad esempio, veste bene ma le scarpe no, lo sbattere gli occhi,
masticare la lingua, irrigidire le mascelle, aspirare con il naso, torcersi le mani,
picchiare il piede sono definiti da Berne (Berne 1972, James 1971, Stewart 1990),
segnali di copione. Il segnale di copione è un caratteristico atteggiamento, gestualità,
manierismo, tic o sintomo che rivela come la persona vive il suo copione. La
presenza di sintomi, quindi l’attivazione della componente neurovegetativa, è di
solito un segno del copione in azione. Viene chiamata componente fisiologica del
copione ed è legata alle direttive parentali. Berne risaliva alle direttive parentali
attraverso il parlare del corpo.
Il corpo "trattiene”, infatti, sia l'ingiunzione e il divieto, sia i messaggi della
"programmazione" parentale, sia le decisioni di adattamento (Berne 1961, Cornell
1992, Mellor 1980).
Il "corpo" dunque è custode, sia dei sentimenti più profondamente celati o negati, sia
di quelli consentiti a sé ed espressi nella relazione con gli altri. Se accettiamo l'idea
che il corpo allestisca la scena per le decisioni di copione (Steere 1985) e utilizzi ogni
genere di difese per mantenere le sue convinzioni di copione, allora dobbiamo trovare
delle modalità d'intervento, delle tecniche per comprendere come questo accada, e
come riorganizzare la scena in modo che nuove idee e decisioni possano farsi strada.
Berne ha indicato alcuni segnali di copione (1972) che il terapeuta può osservare nel
cliente come segnali vocali di base:
1.
2.
3.
4.
5.
Suoni di respirazione
Accenti
Voci del G, A, B
Vocabolario delle terminologie del G, A, B
La scelta delle parole
 Parti del discorso, aggettivi e nomi astratti, avverbi.
 Parole OK, approvate dalla parte parentale (ricorda che una
signora si offende se un uomo le fa una proposta scandalosa).
 Parole di copione forniscono importanti informazioni sui ruoli e
sulle scene di copione.
 Metafore, estensione delle scene di copione e un cambiamento
delle metafore significa un cambiamento di scena.
 Frasi di sicurezza, ovvero rituali o gesti, indirizzati al G, al fine di
proteggersi (forse, penso forse di si).
 Il condizionale (se, se solo, vorrei, potrei, dovrei).
 Struttura della frase ( si fa attenzione a bilanciare ogni parola con
congiunzioni oppure l’uso di eccetera o così via).
6. La transazione della forca.
7. Tipi di risata, risate da copione, risate sane.
8. Tipi di protesta, rabbia e pianto.
9. La storia della tua vita, ovvero come si manifesta il copione di una
persona.
10.Gli scambi di copione, ovvero i ruoli che gioca (1964) una persona nel
suo copione.
Attraverso il corpo mettiamo in scena il nostro copione
Col modello integrativo, Erskine (1980, 1988, 1996, 1997) ha posto l’attenzione al
corpo come indicatore dei segnali di copione, coniugando le basi teoretiche berniane
con il concetto di Contatto. Quando il bambino si trova a vivere situazioni
traumatiche risponde ad ingiunzioni o, in qualche modo, a bisogni che non vengono
soddisfatti. Il suo corpo reagisce in modo autoprotettivo ed il processo di formazione
del copione comporta una reazione somatica del corpo. Essa costituisce una difesa
muscolare o chimica contro quello che il bambino sperimenta come minaccioso: è
una chiusura fisiologica a scopo autoconsolatorio del bisogno insoddisfatto, una
sospensione, o inibizione dentro il corpo che sopprime i bisogni insoddisfatti e le
emozioni non espresse, quello che Reich (1970) definì alla base dello sviluppo della
"corazza caratteriale". Quanto piu' il bambino è piccolo o il trauma è grave tanto
maggiore sarà la reazione fisiologica. Ciò porta alla formazione del “copione
corporeo”, causa di molte malattie fisiche. La principale premessa della psicoterapia
integrativa è che il bisogno di relazione costituisce la principale esperienza che
motiva il comportamento umano e il contatto è il mezzo attraverso il quale tale
bisogno è soddisfatto. Il focus è sempre su dove la persona è aperta o chiusa al
contatto. Il Sistema di Copione si rivolge alle credenze intrapsichiche e alle emozioni,
ai comportamenti, alle fantasie, alle memorie, alle esperienze fisiologiche e su come
queste credenze centrali sono manifestate nel comportamento, nelle fantasie e nelle
tensioni fisiologiche.
La riorganizzazione della personalità avviene nella integrazione dei processi
intrapsichici affettivi, cognitivi e fisiologici con il comportamento manifestato
attraverso una relazione terapeutica piena di contatto ( Fig. 1).
Nella relazione terapeutica i frammenti non integrati del Genitore e del Bambino
sono avvicinati attraverso una comprensione di come i bisogni arcaici, i bisogni non
incontrati nelle primarie relazioni, sono riattualizzati nel transfert. (Erskine 1997). La
guarigione del copione a livello fisiologico consiste nel lasciar andare le tensioni,
l'armatura corporea e le restrizioni interne che impediscono alla persona di vivere a
pieno e a proprio agio nel proprio corpo: aspetto rilassato, aumento di energia,
movimenti più liberi e un livello di peso corporeo adeguato (1999).
cognitivo
affettivo
Sistema
relazionale
comportamentale
fisiologico
Fig. 1: Sistema Relazionale ( Erskine 1996)
Perché il Gruppo
Ad un certo punto del nostro lavoro come psicoterapeute ci è sembrato importante
cercare da una parte, una sempre maggiore connessione tra articolazione verbale e
non verbale, dall’altra ampliare lo spettro delle aree di intervento integrando diversi
livelli di operatività (corporeo, verbale e cognitivo, dell’immagine, della sensazione,
dell’emozione) di grande efficacia curativa, sia in situazioni di intervento breve
(workshop esperienziali) sia in quelle classicamente a breve o lungo termine
(counseling e psicoterapia), sia nell’ambito del setting individuale sia, a nostro
avviso, più pregnante in quello di gruppo.
Una delle caratteristiche più importanti della psicoterapia di gruppo è la sua maggiore
concretezza e capacità di impatto sulla realtà se paragonata alla seduta individuale.
Nella terapia individuale capita anche troppo spesso che l'analizzando, dopo aver
lavorato su un sogno o un problema, e dopo averlo « capito », abbia difficoltà nel
trasferire concretamente il risultato della sua introspezione nelle situazioni che sta
vivendo. Le situazioni che sono tipiche della vita non necessariamente si presentano
anche nello studio dell'analista. Troppo spesso il cliente evita di confrontarsi con la
realtà nuda e cruda, persino con l'unica persona di cui si suppone abbia fiducia.
Nel gruppo, invece, i contenuti non vengono semplicemente discussi come fatti di
ieri, possono manifestarsi proprio durante l'analisi e sono portati alla luce nel corso di
una reciproca interazione. In un gruppo è molto più difficile sfuggire con
razionalizzazioni ed evasioni.
I nostri simili possono e osano provocare, e riescono anche ad afferrare una varietà di
reazioni emotive molto maggiore di quella suscitata dalla singola persona dell'analista
(Stern 1998).
Ai fini del processo di conoscenza/comprensione dell’altro, “vedere” e “sentire” sono
importanti quanto “ascoltare”. Solo il confronto tra ciò che vediamo con i nostri
occhi, ciò che ascoltiamo con le nostre orecchie e ciò che sentiamo nella nostra
pancia e nel nostro cuore, ci permette una lettura più complessa della realtà.
Il nostro lavoro nel Gruppo
Con questo lavoro vogliamo porre l’accento su alcune linee guida dei nostri interventi
nell’ambito della dimensione corporea in un setting di gruppo. Il lavoro viene svolto
in base a coordinate:
 Spaziali
l’individuo è in uno spazio e questo spazio è dinamico, in
movimento
 temporali l’individuo è in un qui ed ora nel quale ha la possibilità di un
cambiamento rispetto ad un lì e allora.
 relazionali l’individuo è rispetto a parti di sé e ad un altro/i da sé.
L’obiettivo della psicoterapia di gruppo è di stimolare la presa di coscienza dei
singoli componenti del gruppo delle parti scisse e dei conflitti tra Sé, Sé – Altro da
Sé, Sé complesso nel Gruppo. Lavorando con la dimensione corporea ci è sembrato
fondamentale includerla e sostenerla in un ambito relazionale, perché un peso
eccessivo attribuito alla propriocezione può divenire un modo per eludere le
problematiche inerenti alla relazione e la separazione.
Scrive Cohen (1993): “ Se spinta troppo oltre c’è immersione totale in sé; c’è una
certa consapevolezza che questo sono io, ma non la consapevolezza che tu sei tu. Se
riguarda solo ciò che sono io e non ciò che non sono, allora non c’è nessun
controbilanciamento, nessuna definizione”.
La relazione è il punto cardine del nostro intervento terapeutico. Il bisogno di
relazione costituisce la principale esperienza che motiva il comportamento umano e il
contatto è il mezzo attraverso il quale tale bisogno è soddisfatto (Erskine 1996).
L’integrazione è nella relazione
Vogliamo rappresentare graficamente la relazione come un sistema circolare, un
processo che partendo dal Sé individuale, accede al Sé relazionale e si integra e
rinforza attraverso un Sé sociale, un processo che si alimenta e si concretizza
attraverso il movimento del corpo, di un corpo in uno spazio proprio e condiviso, di
un corpo che nel presente si muove verso la presa di coscienza di automatismi che
hanno origine nel passato.
Partendo dall’individuo nel qui ed ora, attraverso la sua narrazione, arriviamo a
definire la sua origine in una relazione con un Altro da Sé (Kernberg 1980, 1985,
1996), per giungere alla visione allargata altro da Sé – Gruppo. (Fig. 2)
Sé
Altro da
Sé
(pensare
sentire
fare)
Altro da
Sé Gruppo
T1
T2
Fig. 2: Sé relazionale
L’unità sta nella relazione e sulla compartecipazione di pensare sentire e fare. Nella
relazione duale l’individuo si relaziona con un altro diverso da sé, nella relazione di
gruppo con più individui, nella relazione terapeutica con la coppia terapeutica.
Anche la scelta di una coterapia è di supporto alla dimensione relazionale. I terapeuti
si relazionano col paziente integrando stili e osservazioni diverse, in sintonia o
alternandosi in un processo che vede tutti impegnati insieme a tener conto dell’altro
da sé, sia esso il paziente o l’altro terapeuta.
Possiamo quindi parlare di Sé individuale, Sé relazionale, Sé sociale. L’implicazione
voluta è che la psiche è intrinsecamente relazionale, vale a dire è un “Sé in
connessione – con – altri” anziché una specie di unità chiusa (Kernberg 1980, 1985,
1996, Greenberg 1986).
L’individuo è corpo in relazione un corpo che ha un’interiorità, una soggettività,
un senso di essere capace d’azione, di movimento
In linea con le definizioni di Katya Bloom (2006) intendiamo con:
- Incorporamento la tendenza ad integrare e armonizzare i diversi aspetti del sé
(sensoriali, emotivi e mentali) entro i confini inclusivi della struttura corporea,
reattiva a stimoli interni ed esterni;
- Movimento le reazioni corporee agli stimoli suddetti comprendendo nel
concetto di movimento posture, gesti, posizioni, movimento nello spazio e le
sensazioni avvertite nello stato di immobilità quali i vissuti di restrizione fisica
o psichica.
Il lavorare sul corpo e col corpo è per noi essenzialmente lavorare sul movimento e
col movimento del corpo proprio inteso come espressione spesso inconscia di parti
del sé in ombra che, non solo si esprimono, ma possono anche essere riincorporate
secondo un linguaggio preverbale, il linguaggio del movimento. E’ noto a tutti come
spesso l’azione venga usata come mezzo di fuga per sostituire il pensiero o rimuovere
emozioni attraverso l’acting out. Crediamo che il corpo, attraverso i movimenti,
possa offrire un potente mezzo per entrare in contatto con strati profondi del Sé al
fine di promuovere sintonia psichica, al fine, cioè, di creare “ponti” tra modalità
diverse dell’esperienza, cognitiva, sensoriale, affettiva. Bilanciare o armonizzare
queste varie modalità permetterà all’individuo di non privilegiarne una a scapito di
un'altra o, addirittura, di non usare un aspetto dell’esperienza di sé come difesa contro
un altro.
Nel nostro intervento ci proponiamo di illustrare una serie di tecniche riguardanti la
dimensione corporea diventata, per noi, un originale e incisivo spazio di lavoro
psicoterapeutico, capace di fornirci una conoscenza profonda del mondo interiore del
paziente e capace di fornire al paziente uno strumento originale per il cambiamento.
Le vie per parlare al corpo, attraverso il corpo e col corpo sono varie. Ci sembra,
tuttavia, importante citare quelle che più comunemente usiamo adattando le tecniche
al contesto relazionale che, in quel momento, ci sembra importante privilegiare nel
lavoro col paziente. Sottolineiamo che, con contesto relazionale, intendiamo sia la
dimensione intrapsichica di relazione tra parti di sé, sia quella più comunemente detta
relazionale con altro/i da sé.
Tecniche
 Sintonizzazione
Con il termine sintonizzazione si indica “essere in armonia”, ovvero rendere
concordanti e in equilibrio le varie parti del Sé, mente – corpo. E’ un processo
composto di due parti, l’empatia e la comunicazione dell’empatia e, perché sia
efficace, richiede che il terapeuta rimanga simultaneamente cosciente del confine tra
cliente e terapeuta, così come dei suoi processi interiori (Erskine 1996).
La comunicazione della sintonizzazione convalida i processi del cliente, i suoi
sentimenti e pone il fondamento per riparare agli errori che sono accaduti nelle
precedenti relazioni.
a) sintonizzazione ritmica: consiste nel procedere con i passi lenti e regolari
dell’indagine e del coinvolgimento, prendendo il tempo e la cadenza che meglio
facilitano il processo elaborativo del cliente, sia delle informazioni esterne, sia delle
sensazioni interne, dei pensieri e dei sentimenti. Spesso il processo d’elaborazione
mentale di un’emozione procede ad un grado diverso di velocità dal processo
evolutivo. In questa fase si possono proporre "esercizi a freddo" cioè esercizi-stimolo
a partire dalla corporeità, riferite ad esempio alle modalità di contatto della persona,
alla postura, alla respirazione. Tramite essi oltre a nuove informazioni sul proprio
Body – script, la persona può ricevere input circa un funzionamento psico-fisico
maggiormente integrato e sano. Lavorare direttamente con le strutture del corpo può
includere il toccare, il massaggio muscolare, modificazioni dei comportamenti di
respirazione e l’incoraggiare o inibire i movimenti (Erskine 1980/1997).
Gli aspetti, prima in ombra, che vengono evidenziati possono essere stimolo e
supporto al cambiamento che ciascuno prefigura di fare. Attraverso la sintonizzazione
si giunge ad un punto che Downing (1995) chiama stadio del tremito, ovvero, quando
il corpo inizia a fremere e i muscoli a fibrillare. Da qui inizia la fase principale, lo
stadio dell’emozione, cioè quando un’emozione si insinua nella coscienza del cliente,
come se vi arrivasse dal nulla.
b) sintonizzazione affettiva: l’emozione è relazionale – transazionale nella sua
natura e richiede una risonanza emotiva nell’altro e questo produce il contatto
affettivo, che è essenziale nelle relazioni umane. Quindi la sintonizzazione affettiva è
la risonanza con l’emozione dell’altro che produce contatto interpersonale verbale e
non verbale che riconosce, convalida e normalizza l’affetto del cliente.
c) sintonizzazione evolutiva: rispondere al cliente al livello d’età nel quale c’era una
perdita di contatto nella relazione. Il terapeuta ascolta e osserva per capire quanto e
quando è accaduto per cui il cliente ha preso determinate decisioni di copione.
d) sintonizzazione ai bisogni relazionali: cioè quegli elementi che accrescono la
qualità della vita e un senso di essere in rapporto. L’assenza continuata della
soddisfazione dei bisogni relazionali può essere manifestata come frustrazione,
aggressività, perdita di energia e si mostra in opinioni di copione quali: “non c’è
nessuno per me” oppure “a che serve” difese di tipo cognitivo contro la
consapevolezza dei bisogni e/o in comportamenti e segnali corporei più o meno
evidenti.
 Sculture
Si ripropone di ricreare simbolicamente nello spazio stati d’animo e rapporti emotivi,
attraverso una rappresentazione tridimensionale delle relazioni tra i membri della
famiglia del cliente, dove relazione, sentimenti, cambiamenti possono essere
rappresentati e sperimentati simultaneamente ( Erickson 1978, Andolfi, 1977). Se è il
corpo familiare che si esprime attraverso i linguaggi analogici, analogico deve essere
anche il linguaggio con cui il sistema terapeutico si rapporta al gruppo di
psicoterapia. Durante l’esecuzione di una scultura viene fatto pochissimo uso delle
parole, se non per quanto concerne indicare la posizione che ciascuno deve assumere.
La scultura è significativa proprio in quanto rappresentazione spaziale di una
situazione emotiva agita e non verbalizzata (Lowen 1967, Lammer 1992) e come tale
supera i limiti espressivi delle parole e permette la liberazione di stati emotivi e di
modalità comunicative spesso sopite o inespresse. Il primo passo, in direzione del
cambiamento, è vedere la relazione, il passo successivo è muoversi da un posto
all’altro. Così nella fase finale noi chiediamo allo “scultore” ( ovvero il cliente che
crea la scultura) e agli altri partecipanti come si sono sentiti in quella determinata
posizione e li invitiamo a spostarsi in una posizione più congeniale, ad assumere un
atteggiamento diverso se quello attuale è insostenibile.
 L’uso di metafore e di oggetti metaforici e la loro drammatizzazione
Il linguaggio metaforico può essere definito come un modo di comunicare riguardo a
una cosa che somiglia a qualcos’altro (Bowen 1979, 1990). Ciò è particolarmente
evidente con i pazienti psicotici, laddove la metafora sembra essere un canale di
comunicazione privilegiato. Un uso attivo della metafora è quando noi vogliamo
raccogliere delle informazioni altrimenti impossibili da esplicitare da parte del cliente
(Andolfi 1977). L’uso della metafora può limitarsi alla dimensione verbale oppure
includere quella corporea, per cui, scegliendo un argomento che somigli alla
situazione – problema ed evitando di renderne esplicita la connessione, si può
drammatizzare una metafora.
 L’uso di tecniche non verbali
Se il corpo è la via che la psiche sceglie per dire l’indicibile, il corpo può ben essere
la via maestra per fare una diagnosi che colga l’essenza della sofferenza e l’immagine
che ognuno ha di sé in rapporto agli altri. Ciò facendo ognuno è messo nelle
condizioni di “vedersi” e “vedere” il che può essere il primo passo per un
cambiamento. Ad esempio si può chiedere ai componenti del gruppo di comunicare
ad uno di essi un messaggio di “stima” senza parole e solo con il non verbale. Già
solo con questo esercizio si può cogliere la capacità di ognuno di trasmettere il
messaggio e come questo arriva al ricevente ( Boscolo et al. 1975).
 La drammatizzazione del materiale inconscio
La drammatizzazione come viene qui descritta non va confusa con l'« acting out ».
Quest'ultimo, guardato con disapprovazione, è l'espressione inconscia, di solito
coatta, di un comportamento aggressivo o distruttivo. La drammatizzazione viene
d'altra parte definita in questa presentazione come uno sforzo conscio e deliberato per
trovare un'espressione non distruttiva, spesso simbolica, ai fatti dell'inconscio allo
scopo di realizzarli. Questo viene effettuato tramite verbalizzazione e/o espressione
corporale con o senza verbalizzazione (Whitmont 1993). Abbiamo trovato
vantaggioso provare prima con l'espressione non verbale, e usare poi la
verbalizzazione unicamente per colmare i vuoti lasciati da questa. Una
verbalizzazione prematura comporta il rischio di una razionalizzazione e
intellettualizzazione.
La tecnica della drammatizzazione può essere di grande aiuto anche per il
chiarimento di sogni le cui associazioni coprono un campo cosi vasto o indefinito che
le implicazioni ne rimangono oscure, oppure nei casi in cui la scarsità di associazioni
personali rende possibile soltanto una generica comprensione archetipica che non può
essere messa in relazione, in modo adeguato, con alcuna situazione personale
concreta.
Tensioni vaghe e indefinite, angosce o emozioni « fluttuanti » possono essere portate
ad una maggiore consapevolezza dapprima, puntando l'attenzione sul luogo e sul
modo in cui vengono sentite come tensioni del corpo e, in un secondo tempo,
provocando movimenti o azioni che scaricano o alleviano la tensione (Andolfi 1977,
Watzlawick 1971, Withaker 1991). Il sollievo o consapevolezza possono venire da
una smorfia, da un’esclamazione, da un gesto simbolico, come stringere il pugno
oppure scagliare un cuscino per terra. L'atto liberatorio può essere ripetuto più volte
finché non ci si immerge nell'attività e spontaneamente si presenta un'immagine,
ricordo o associazione, verbale o non verbale, che getta luce sulla situazione.
Tutti vengono vissuti nella loro qualità emotiva di «ora e qui », non come ricordi
astratti di fatti accaduti nel passato.
Le tecniche corporali possono essere considerate come espansione o amplificazione
dell'immaginazione attiva o guidata, estesa ad abbracciare non solo il livello eidetico,
ma anche quello dell'immagine propriocettiva totale del corpo.
Come si può notare tutti gli strumenti fin qui esaminati condividono il privilegiare la
dimensione esperenziale ed i linguaggi non – verbali. Inoltre hanno lo scopo
principale di favorire la possibilità per il singolo e per il gruppo di dire ciò che, in
genere, non si riesce a dire, a riconoscere.
Contrariamente alle parole, queste tecniche non permettono di cognitivizzare
completamente in quanto presentano una serie di segnali che non sono solo cognitivi,
ma che attengono molto di più al mondo dei significati.
Tutti gli strumenti di osservazione e cura presentati condividono l’uso dei linguaggi
analogici e valorizzano il ruolo del “vedere” dei terapeuti, il “sentire”e il “fare” dei
pazienti.
Anche nel caso di patologie che si sono instaurate nelle primissime fasi di vita e/o di
situazioni che hanno raggiunto un notevole grado di cronicizzazione, specialmente in
quei casi nei quali si sia verificato un intoppo evolutivo nel dialogo pre-verbale fra il
bambino e le sue figure di attaccamento, risulterà estremamente utile poter far ricorso
a situazioni psicoterapeutiche che utilizzino modalità comunicative più arcaiche, che
vedono nel corpo lo strumento privilegiato di espressione del disagio e attraverso il
corpo la sua cura. In questi casi è il terapeuta che deve mettersi in gioco anche con il
proprio corpo (Onnis 2004, Erskine 1996).
È molto difficile descrivere in parole ciò che capita in una seduta in cui si lavora sul
corpo, perché il non-verbale predomina. Ciò non significa che non si parli. Significa
solo che vengono messe in gioco altre importanti dimensioni dell'essere e dell'entrare
in relazione.
Ad esempio, se un cliente tende a posizionarsi all’interno del triangolo drammatico di
Karpman (1968) come un Persecutore proponiamo di drammatizzare la figura di un
dittatore.
Quello di cui ha bisogno è proprio una possibilità di viversi consciamente come
dittatore. Ora gli si può chiedere di cercare deliberatamente di essere il dittatore, e di
agire il suo ruolo.
A questo punto si potrebbe incorrere in opposizioni: il paziente non vuole farlo, non
può, « non è nella sua natura ». Gli si domanda, allora, di esprimere il suo
atteggiamento interiore senza parole, in una pantomima, di dire poi in prima persona
come sente se stesso in quel ruolo e come sente il mondo e le altre persone.
Nel corso della pantomima il gruppo o le terapiste gli fanno notare il modo in cui si
muove, il suo portamento, le tensioni del suo corpo. Gli si chiede quello che sente,
dove sente localizzate le proprie emozioni, siano esse espresse in una tensione o in un
cambiamento del portamento, nella schiena, nelle spalle o dovunque esse siano. Gli
viene poi chiesto di « porsi » con la consapevolezza di queste tensioni appena
scoperte e di vedere quali associazioni, ricordi o emozioni nascono «da esse » e di
fare attenzione alle occasioni e alle circostanze in cui analoghe tensioni e sentimenti
si verificano nella vita di tutti i giorni. A questo punto il dittatore viene già vissuto e
amplificato dalla consapevolezza di una serie di segnali del corpo di solito ignorati e
dall'apporto di materiale emotivo ed immaginativo che prima non veniva collegato ad
esso. Nel riallacciarsi a uno qualsiasi di questi fatti, il paziente può essere indotto a
comprendere che anche altre volte, in un dato momento, agisce il ruolo del dittatore.
Nel verbalizzare questo ruolo, potrà dire qualcosa del tipo « Non mi importa dei
sentimenti degli altri, io ho sempre ragione, io so tutto meglio di loro ».
Questo metodo non solo taglia corto e raggiunge direttamente quello intorno a cui
girano le consuete associazioni verbali: l'impatto emotivo è perciò trasformatore, e le
consapevolezze immediate sono indescrivibilmente maggiori.
Classificazione degli interventi che coinvolgono la dimensione corporea
A. I. Lavoro sul Sé Individuale in gruppo.
Esercizio Collettivo: “Lancia e lasciati andare”.(Manes 1997)
In questo esercizio facciamo nostre le osservazioni della Cohen e proponiamo
l’incorporamento di una relazione integrata tra sé e il mondo. I pazienti accovacciati a
terra in posizione fetale e con un largo nastro di tessuto leggero in mano
raggiungeranno la posizione eretta, lanceranno il nastro e lo riafferreranno.
A. II. Lavoro sul Sé Individuale in gruppo
Esercizio Individuale: “Esercizio guidato di visualizzazione del sé corporeo”
Attraverso questo esercizio emergono facilmente le zone del corpo negate o
comunque investite nel conflitto. Il terapeuta invita ed aiuta il paziente a guardarsi
attraverso gli occhi della mente: “ Chiudi gli occhi….Prendi contatto con il tuo
corpo….Sentilo…Guardalo….il volto…senti la tua testa etc…”.Questo esercizio
permette al paziente di “vedere e sentire” ciò che vede e ciò che rifiuta del proprio Sé
corporeo.
B. I.
Lavoro sul Sé in relazione duale con altro da Sé.
Esercizio Collettivo: “Schiena a schiena”
In questo esercizio i partecipanti seduti a terra schiena contro schiena simulano una
situazione conflittuale. L’elaborazione del conflitto intesa come uso dell’energia
impiegata nella situazione conflittuale diviene oggetto di osservazione.
B. II. Lavoro sul Sé in relazione duale con altro da Sé.
Esercizio Individuale: “L’altro è il mio specchio”.
Il paziente coinvolto nel lavoro chiede ad un altro partecipante del gruppo di
“prestargli il corpo” col quale realizzerà una scultura di sé stesso.
C. I. Lavoro sul Sé Sociale
Esercizio Collettivo: “La culla” (Manes 1997)
Questo esercizio prevede la possibilità di farsi realmente cullare in un grande e solido
telo dagli altri partecipanti del gruppo che ad uno ad uno si alterneranno nella culla.
Esercizio potenzialmente regressivo può essere usato altrimenti in un gruppo
“avanzato” per agevolare il “diritto alle carezze” in modo giocoso e partecipativo.
C. II. Lavoro sul Sé Sociale
Esercizio Individuale: “In piedi e in alto”.
Il paziente in piedi su una sedia si mostra al gruppo. Troviamo questo esercizio molto
utile per rappresentare ad esempio, ma non solo, la dimensione solipsistica del "sii
perfetto", in alto, ma solo.
Frammenti di interventi
Il Topolino
La cliente che chiamiamo J è una giovane donna di 36 anni. Bella, intelligente,
professionalmente affermata, spesso ricorre all’alcool e ha collezionato negli anni
numerose relazioni amorose fallimentari. Vive in una famiglia composta da una
madre e tre fratelli, due femmine (di cui una è lei) e un maschio. La madre presenta
un disturbo depressivo maggiore con manifestazioni psicotiche (DSM IV-TR 2001),
per la sorella maggiore, a seguito della descrizione di J ,si può dedurre sia affetta da
disturbo borderline di personalità e il fratello da psicosi schizoaffettiva con gravi
manifestazioni suicidarie. La cliente, invece, presenta un disturbo borderline di
personalità con tratti schizoidi. Il padre, morto da alcuni anni, viveva separato dalla
famiglia, ma non ha mai sciolto il legame coniugale.
In termini sistemico – relazionali questa famiglia viene definita ad alta emotività
espressa, tipicamente invischiata, centripeta; in termini analitico transazionali è un
nucleo familiare altamente simbiotico, in cui viene premiata la dipendenza piuttosto
che l’autonomia. Centrale nella simbiosi il fenomeno della passività e il concetto di
ridefinizione, quale meccanismo usato dalla persona per mantenere una visione
prestabilita ( non minacciosa) di se stesso, del mondo (sistema di riferimento) e degli
altri, onde rispettare il proprio copione di vita. Gli Schiff (1980) sembrano portare
avanti l’ipotesi di un copione schizofrenico, mentre da un punto di vista berniano ci
troviamo di fronte ad un’organizzazione psicotica di personalità di tipo compensato
con un funzionamento borderline. Gli Schiff affermano che l’agito suicidale o
l’autolesionismo sono eventi di copione e sono l’output derivante dalla sommatoria
negativa di messaggi ingiuntivi specifici. Questi messaggi se di una certa gravità, sul
piano fisico e sulla vita propria e altrui, possono portare alla formazione di copioni
perdenti di terzo grado. Nel copione (Steiner 1974) di J possiamo osservare come
driver primario il Sii forte ( non avere sentimenti e bisogni ) e il Compiaci, come
ingiunzioni il non esistere (Goulding 1979), non godere, non sentire, non farcela, non
fidarti, non essere sano di mente. La posizione esistenziale è senza sbocco Io non
sono OK – Tu non sei OK, i giochi gamba di legno, si ma, il racket di confusione, il
tornaconto di copione è diventare pazzo.
Nell’incontro al quale si riferisce lo stralcio, J riferisce l’ennesimo insuccesso rispetto
alla “decisione” di acquistare una casa per sé. J, pur essendo molto ricca, ha tentato
più volte di realizzare questo “desiderio di separazione”, ma le negoziazioni sono
sempre “magicamente” fallite. Nel corso del lavoro la invitiamo a riflettere sul
significato profondo del separarsi dalla famiglia e sulle difficoltà che ne scaturiscono.
J: sono paralizzata, mi sento come un topolino da laboratorio, un topolino su una
ruota che gira in tondo.
T1: con l’idea di girare intorno a chi o che cosa?
J: alla mia famiglia
T2: è un modo di muoverti intorno a loro?
J: si.
T1: scegli tua mamma, tuo fratello, tua sorella nel gruppo ( i singoli membri del
gruppo possono decidere di partecipare o meno all’esercizio).
T2: bene, sistemali fisicamente nella stanza, mettili nella posizione che vuoi e
controllane anche la postura, così come tu li vedi, così come vedi la tua famiglia.
J si appresta a disporre.
La mamma è di spalle,le
braccia stese sul capo dei
figli in ginocchio,tutti a
capo chino, non si
guardano
T1: gira in tondo a loro, fallo per un po’.
J: (inizia a ruotare intorno alla scultura) non mi vedono, non si accorgono neanche
che ci sono.
T2: è questo il motivo per cui giri in tondo, nella speranza che ti vedano?
J: (sospiro)
T1: Gira, gira….
J continua a girare intorno alle figure rappresentate dalla scultura della famiglia.
T1: cosa stai cercando?
J: non ce l’ho la risposta.
T2: continua…cosa senti quando giri intorno?
J: sento un po’ di angoscia, non lo so dire…
T1: quali sensazioni?
J: angoscia non riesco a sentire altro.
T2: li stai guardando?
J: no.
T2: guardali.
J: messi così sembrano senza speranza, in catene.
T1: sembrate tutti senza speranza….
J sospira
T1: cosa senti?
J: paura.
T1: cosa associ a paura?
J: davvero non lo so.
T2: prova ad associare.
J: paura come perdita, paura come incapacitazione…….impotenza.
Lo sguardo è smarrito, J si ferma.
T1: Ok, basta così ( il tono è rassicurante e comprensivo).Ora diamo la parola alle
figure della scultura:
fratello: mi sono sentito arrabbiato verso J perché girava a vuoto, un po’ come
facevo io con mia madre….
sorella: prostrata e non all’altezza, un po’ come mi sento io nei confronti di mio
padre…..
madre: nulla per me, emozionata per J, avrei sperato che mi avesse alzato la testa, un
po’ come ho fatto io quest’estate , vedo meglio mia madre, ora…
Ora diamo la parola ai membri del gruppo se vogliono dire qualcosa:
B: mi sono sentita angosciata, tutto fermo, statico. Mi sarei spostata, mi dava rabbia,
sottomissione……
C : mi sentivo ipnotizzata..
T1 e T2 rivolte a J : tu hai sentito l’effetto di questo movimento perfetto di orologio
(girava sempre nello stesso modo) , quasi ipnotico, tu hai sentito l’effetto di questo
meccanismo familiare, l’incapacitazione, l’impotenza e l’angoscia che ne deriva.
A distanza di cinque mesi J acquista una casa.
X e lo stomaco
X è la secondogenita di due sorelle. La sua famiglia di origine vive in un paese
dell’Italia meridionale. I suoi genitori si separarono quando x aveva 15 anni con
grande felicità di entrambe le sorelle. X descrive il padre come un grande narcisista,
sempre attento alla sua immagine estetica e professionale e la madre passiva, fredda e
formale. La sua famiglia si può descrivere disimpegnata e nel contempo
simbioticamente adesiva con il nucleo allargato ( famiglia della madre). X ha
sviluppato nel corso della sua vita un disturbo narcisistico di personalità e un disturbo
aspecifico dell’alimentazione (DSM IV-TR). I principali messaggi spinta che ha
ricevuto sono sii perfetto e sii forte, le ingiunzioni sono non essere te stessa (sii
questa immagine idealizzata che ho nella mia testa di chi tu dovresti essere), non
essere intimo o fidarti (Goulding 1979), non sentire ciò che senti – senti ciò che io
sento, non pensare ciò che pensi – pensa ciò che io penso.
E’ una professionista affermata, intelligente e vivace, curata e ricercata
nell’abbigliamento. La cliente inizia a lavorare in gruppo partendo da un sentimento
di rabbia che ha percepito nei confronti della coppia delle terapeute T1 e T2 perché
nel precedente incontro le avevamo detto che è affezionata al “dolore”; nel triangolo
drammatico si posiziona nel ruolo di vittima, (Karpman 1968). Qualche giorno prima,
in occasione di una visita alla famiglia, riferisce di essersi messa in una situazione di
umiliazione con il padre, ed è arrabbiata con la madre perché anche in questa
circostanza si è preoccupata più per il ruolo di rispettabilità del padre piuttosto che di
protezione della figlia ( nella storia di X il padre ha “giocato” sessualmente con le sue
figliolette con la probabile omertà della madre). La cliente “sente” un nodo allo
stomaco. Le si chiede di drammatizzare la percezione di nodo e X lo definisce come
un uovo sodo, mostra sofferenza e dolore epigastrico, da qui riferisce un “senso di
nausea” e dichiara di voler dimagrire perché si sente grassa ( storia di disturbo
alimentare del tipo anoressia).
La si fa stare con la sensazione di vomito e le si chiede di posizionarsi in ginocchio e
simulare dei conati di vomito e poi di stare con ciò che prova. Durante l’esercizio
della durata di qualche minuto, la cliente piangendo fa due affermazioni, “ uovo sodo
come qualcosa che le ha messo il padre” e “uovo sodo come acido”, come descrive la
madre che non l’ha protetta.
La cliente piange per quella bambina che ha subito l’abuso.
Y e la passività
Y è una brillante professionista di 40 anni. Non ha mai avuto relazioni intime, non
guida l’auto e solo recentemente ha definito la sua autonomia rispetto alla famiglia
d’origine acquistando un’abitazione. Y presenta un grave disturbo alimentare di
bulimia con condotte espulsive ed obesità (DSM IV-TR), associato ad
un’organizzazione di personalità borderline. Le sue principali controingiunzioni sono
dacci dentro, sii forte e compiaci (Goulding 1979), le ingiunzioni non esistere, non
fidarti, non essere intimo, non sentire, non crescere, non essere importante, non essere
te stesso. I giochi che maggiormente attiva in gruppo sono il si …. ma (Berne 1964),
prendimi a calci e spalle al muro.
Numerose diete iniziate si sono concluse con clamorosi insuccessi.
In questa seduta Y riferisce la propria incapacità a seguire un regime alimentare sano
e la decisione di “ rimanere ferma è più comodo”. Mentre annuncia questa decisione
Y la agisce, tutto in lei è fermo: la voce è atona, la mimica facciale è assente, è seduta
con il busto accasciato a destra, la mano destra piegata all’interno del collo sorregge
il capo, il braccio e la gamba sinistra sono rispettivamente costretti dietro e sotto il
busto. E’ visibilmente scomoda e altrettanto visibilmente non ne ha consapevolezza.
La decisione copionale di passività così chiaramente espressa viene rinforzata con la
negazione del corpo, con la negazione della sofferenza del corpo che diviene così
solo “un pilastro per la testa”.
Y sta ferma, allora T1 la invita a visualizzare il proprio corpo.
T1: Ok, Chiudi gli occhi e comincia a sentire il tuo corpo. Accorgiti della tua
testa….del tuo volto….lentamente scendi al collo…le spalle ….. ….
Y: sono molto contratta.
T1: Bene, ora concentrati sul piede a terra e sul tuo ginocchio piegato sotto la gamba
destra. Cosa senti?
Y: è molto sofferente. Il bacino è storto, il braccio destro è scomodo, il sinistro è
costretto, le spalle sono contratte, il collo è storto.
T2: adesso dì quello che hai detto prima “è comodo stare fermi”.
Y: sì non è comodo, ma mi da meno fatica di fare qualcosa.
T2: se continuiamo la metafora di A e B( pazienti che hanno lavorato poco prima)
“sei testa senza corpo”, per vederlo , averne cura e godere del tuo corpo hai bisogno
di sentirlo .
Y: adesso non sento più il corpo.
T1: continua a concentrarti sul tuo corpo, ripeti l’esercizio di prima…………..occupa
lo spazio di cui hai bisogno………
Y: (piange) ora lo sento…., è un peccato che per sentirlo lo devo far esplodere.
Y Inizia a muoversi per darsi sollievo
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Dott. Marina Del Bono psicoterapeuta Associazione Lekton