tintoretto - collegio ballerini

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TINTORETTO
STEFANO CORTI • GIACOMO MANDELLI • LUIGI SEVESO
Tintoretto
Autoritratto
1588 circa
Olio su tela, cm 63 x 52
Parigi, Louvre
Jacopo Robusti
detto Tintoretto 1519 • 1594
Note Biografiche
Bruciato l'atto di battesimo nel rogo dell'Archivio di San
Polo, è solo dal necrologio custodito a San Marziale che si
ricava l'anno di nascita del pittore: poichè il 31 maggio
1594 muore, dopo "giorni quindese de fievre, messere
Jacomo Robusti detto Tintoretto de età de anni 75", sappiamo dunque che l’artista nasce nel 1519.
Al genitore, di nome Battista, Tintoretto doveva non solo la
nascita, ma anche il soprannome. Il padre era infatti "tintore"di panni e poiché Jacopo pare non fosse più alto di
"cinque piè", venne soprannominato "tintoretto".
Jacopo Robusti vive sempre a Venezia (escludendo un
viaggio a Roma che si suppone abbia avuto luogo nel 1545
e una visita a Mantova nel 1580). Frequenta, giovanissimo,
la bottega di Tiziano. Il carattere geniale e turbolento dell'artista lo porta presto a distaccarsi da quel particolare
classicismo veneto di cui Tiziano è uno dei maggiori esponenti. Tintoretto si avvicina maggiormente a Pordenone e a
Schiavone e il suo temperamento versatile e ricettivo lo
porta ad accettare il nuovo corso della pittura italiana.
Fin dagli inizi la visione di Tintoretto è legata al manierismo
toscoromano: studia con interesse le opere di Sansovino e
Michelangelo arrivando così a mediare il «disegno di
Michelangelo con il colorito di Tiziano» come vuole la tradizione stesse scritto sulla porta del suo studio.
Il primo periodo dell'attività di Tintoretto culmina
nell'Ultima Cena (1547) della chiesa di San Marcuola, in cui
il pittore prende già le distanze dal tonalismo tizianesco
impegnandosi in una dialettica figurativa sempre più
geniale. Anche il Miracolo di san Marco (Accademia di San
Marco, 1548), già considerato un capolavoro dai contemporanei, esprime l'anelito dell'artista a realizzare un più
saldo equilibrio della sintesi cromatico-plastica.
Per la scuola della Trinità, tra il 1550 e il 1553, dipinge le
Storie della Genesi di cui la Creazione degli animali, Adamo
ed Eva e l'Uccisione di Abele si conservano nell'Accademia
di Venezia. In queste opere si afferma un nuovo senso della
natura, nel paesaggio è proiettato il sentimento stesso dell'artista e ne è rappresentato il culmine lirico.
Avvenimento importante per l'esperienza artistica di
Tintoretto è l'arrivo sulla scena veneziana di Paolo
Veronese nel 1553.
Alcune opere, quali la Presentazione di Gesù al Tempio e la
Crocefissione di san Severo (Accademia di Venezia) rivelano una vivacità cromatica che si discosta dall'intima tendenza di Tintoretto verso il chiaroscuro.
A questo momento della sua vita artistica appartengono
anche il Viaggio di sant'Orsola (San Lazzaro dei
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Mendicanti) e il Mosè che fa scaturire l'acqua (Städelsches
Kunstinstitut, Francoforte).
Dal 1560 è la bellissima Susanna di Vienna in cui ritornano
i richiami a Veronese. Nel 1562 Tintoretto esegue per la
scuola di San Marco tre episodi della vita del santo:
Trasporto della salma di san Marco, San Marco salva
il Saraceno dal naufragio (Accademia di Venezia)
e Scoperta del corpo di San Marco (Brera, Milano).
Queste tre opere documentano la piena maturità dello stile
dell'artista; in ciascuna di esse predomina un gusto melodrammatico che tende all'effetto, un dinamismo rivolto
all'evento, al miracolo. Poco prima del 1556 esegue la
decorazione della Madonna dell'Orto che comprende due
tele, una raffigurante l'Adorazione del vitello d'oro e l'altra
il Giudizio Universale. Per quest'ultimo viene naturale il
confronto con Michelangelo il cui Giudizio poteva esser
stato visto da Tintoretto nel suo soggiorno romano.
Nonostante le similitudini iconografiche, una differente
concezione spaziale caratterizza in modo evidente l'opera
dei due artisti. Nel 1564 Tintoretto inizia una grandiosa
impresa che lo terrà impegnato fino al 1587: la decorazione della Scuola Grande di San Rocco.
L'opera viene compiuta in tre momenti successivi: dal 1564
al 1566 decora la sala dell'albergo, tra il 1576 e il 1581 la
sala grande superiore e tra il 1583 e il 1587 la sala inferiore. Nella sala dell'albergo dipinge la Crocifissione in cui si
afferma una nuova grandiosità spaziale, uno spazio definito dai movimenti concitati della folla, dal balenio delle luci,
da un dinamismo che crea un effetto altamente espressivo.
Nella Cena e nel Battesimo della sala superiore si esprime,
attraverso la tensione chiaroscurale portata al massimo
rendimento, un profondo senso religioso ed evocativo.
L'accentuazione luministica è ancora più evidente nei «teleri» della sala inferiore. La Fuga in Egitto, la Maddalena e la
Maria Egiziaca rappresentano il punto di arrivo stilistico di
Tintoretto; la sapiente orchestrazione chiaroscurale crea
effetti suggestivi e sublimi.
Tintoretto realizza, in tali «notturni», un luminismo integrale giungendo a effetti poetici altissimi. L'attività dell'artista
tra l'ottavo e il nono decennio è in aumento; assumono,
quindi, un ruolo importante i collaboratori e i figli che partecipano alla realizzazione delle opere: la grande tela del
Paradiso (1588-92) di Palazzo Ducale è, per esempio, in
gran parte di scuola.
Le ultime opere di Tintoretto rappresentano una continua
ricerca in senso luministico come, per esempio, la
Flagellazione di Cristo (Kunsthistorisches Museum, Vienna)
nella quale la luce evidenzia la tensione plastica. Infine
meritano particolare attenzione le due tele del coro di San
Giorgio Maggiore: La caduta della manna e l'Ultima Cena
(1594). In quest'ultima opera, che ripropone un tema tanto
caro all'autore, la luce trasfigura la realtà quotidiana creando toni surreali: ed è questa dialettica fra realtà e astrazione, profondamente manieristica, che caratterizza l'ultima
fase stilistica del grande artista veneto.
La critica ottocentesca ha spesso sentito l’esigenza di scavare a fondo,
oltre che nelle opere e nel modo di dipingere degli artisti del passato,
anche nelle loro vicende umane, con lo scopo di individuare quegli elementi che avrebbero potuto -nell’ottica del tempo, legata al predominante
gusto romantico– rendere più moderni, e quindi più interessanti e maggiormente appetibili al mondo degli studiosi, degli appassionati d’arte e
dei collezionisti, gli artisti stessi: è il momento in cui, solo per restare
all’ambito dell’arte veneziana, nasce per esempio il mito di Giorgione, alimentato dalla pressoché totale ignoranza delle sue vicende umane e biografiche e dalla estrema difficoltà nella lettura iconografica delle sue peraltro scarsissime opere giunte fino a noi. Ma ugualmente la critica si è comportata con Jacopo Tintoretto, giungendo a presentarlo sotto un alone
terribile, sovrumano, da autentico peintre maudit. Per quel che riguarda
Jacopo, tale esigenza aveva trovato facile esca nell’interpretazione data
alle parole di alcuni contemporanei e negli scrittori nei secoli successivi,
che viceversa erano rivolte a sottolineare solo l’eccezionalità e l’assoluta
indipendenza della capacità inventiva del pittore e della sua estrema rapidità esecutiva.
I ritratti
Una delle maggiori fonti di entrate per la bottega
di Tintoretto era costituita dai ritratti, nonostante
la grande concorrenza che doveva affrontare a
Venezia, in particolare quella di Tiziano: sembra
che in tale particolare settore l'artista fosse aiutato
dai figli Marietta e Domenico, e che la bravura
della figlia al tempo fosse nota. La ritrattistica era
un ottimo modo di divenire conosciuti presso le
alte sfere ed ottenere così incarichi importanti.
Per un ritratto era fondamentale il tempo di esecuzione: spesso il soggetto non poteva permettersi
lunghe sedute di posa, sia perché stancanti, sia
perché impossibilitato ad allontanarsi troppo dai
propri affari.
Perciò, si usava eseguire una serie di studi veloci
dal vero, da rielaborare poi per il dipinto vero e
proprio: tali studi potevano essere conservati e
riutilizzati anche in altre occasioni, come per
esempio nel caso dei ritratti di sovrani in più versioni. Girolamo Priuli, divenuto doge
nel 1559, incaricò Tintoretto dell'esecuzione del suo ritratto: Andrea Calmo, amico
dell'artista, riferisce che l'opera fu completata in mezz'ora. Tintoretto aveva infatti
preparato per tempo la tela; la posa era già abbozzata, dato che i ritratti dogali avevano uno schema determinato; le rifiniture e i panneggi delle vesti venivano eseguiti poi nello studio del pittore, con l'ausilio di manichini e stoffe. Nel caso in cui un
ritratto dovesse essere inserito in un'opera di grandi dimensioni, come per esempio
un dipinto votivo, Tintoretto soleva eseguirlo su una tela tesa su un telaio provvisorio, per poi farlo cucire direttamente sulla tela più grande.
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Oltre alle personalità di spicco della Venezia contemporanea, come nobili e politici,
tra i ritratti realizzati si annoverano anche quelli di alcune tra le più famose cortigiane dell'epoca: tra queste si ricorda Veronica Franco, donna colta e istruita che si
dilettava di poesia, frequentava le case nobili come quella dei Venier ed entrò persino nelle grazie di Enrico III di Francia. Tintoretto ritraeva le cortigiane anche nelle
vesti di eroine della mitologia, come Leda, Danae o Flora. Nei ritratti di fanciulle si
può riconoscere la “professione” di cortigiana grazie agli attributi tipici che posseggono: gioielli preziosi, girocolli di perle, pettini decorati o specchi.
Il ritratto costituisce un momento irrinunciabile e una componente primaria della
vena artistica e creativa del pittore lagunare: il suo universo mentale e astrattivo si
popola di una teoria di figure, scaturite dalla fervida e alchemica fantasia di
Tintoretto, senza mai risultare avulsa dalla realtà contemporanea, ma rivelandosi
informata da una materia colta nella serena
contemplazione della vita quotidiana, minuta e sorridente, cantata con uno stile fiorito
agilissimo. Rifuggendo i giochi concettisti
d’artificio, è attraverso la luce –prorompente all’interno del paesaggio– che il pittore
disvela figure, sottratte alla loro umbratile
dimensione e intessute di filamenti luminescenti, riverberi dorati, aurorali, archetipi del
mito generativo dell’essere.
Tintoretto non è debitore ad alcuno della
propria arte, in quanto usa il colore soprattutto per accendere di luce il disegno.
Ecco dunque l’invenzione straordinaria del
maestro veneziano: la luce. Non che essa
non fosse mai stata trattata nella tradizione
pittorica rinascimentale, ma ora la luce evidenzia i personaggi staccandoli da ogni
contesto reale e proiettandoli nello spazio
scenografico di una fantasia che più ancora
che in Correggio, prefigura la sensibilità
barocca. Egli riesce a impiegare la luce per
meglio caratterizzare le psicologie dei volti e
la ricchezza delle vesti, conferendo ai suoi
soggetti una fierezza e una dignità altissima.
La galleria dei ritratti di Tintoretto del resto
incanta non solo per la straordinaria varietà
delle tipologie umane, ma in particolar
modo per l’immediatezza della resa.
Ecco allora che fra gli scuri velluti di ricche dimore veneziane emergono di volta in
volta, caratterizzate da poche e asciutte pennellate, austeri volti di magistrati, nobili
senatori, vecchi mercanti, rinomati collezionisti, giovani gentiluomini.
Nonostante l’assoluta omogeneità della classe sociale di appartenenza, l’artista riesce a far vivere in ciascuno di essi le caratteristiche e l'individualità del singolo.
I lineamenti e i particolari, infatti, sono sempre modellati da una luce intensa e indagatrice, che ora vibra con vivacità fra i peli delle barbe, ora si adagia pigramente tra
le pieghe pesanti dei mantelli e delle cappe.
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Ritratto di guerriero
Per lungo tempo il ritratto è stato identificato come la rappresentazione di Sebastiano Venier, uno dei vincitori della battaglia
di Lepanto, per via di un’iscrizione con il medesimo nome che
compariva nella parte inferiore del quadro, risultata aggiunta ed
eliminata nel corso di un recente restauro.
L’opera è pervenuta al museo del Prado dalle proprietà di
Filippo IV di Spagna, al quale fu donata prima del 1734 dal marchese di Legales.
Il dipinto raffigura un anziano guerriero colto di tre quarti,
tagliato alla cintola.
Nonostante la canizie dell’uomo, il ritratto mette in risalto
l’energia e la possanza del personaggio. Il soggetto volge lo
sguardo fermo allo spettatore, la potente corporatura appare
appena contenuta nell’armatura arricchita da una decorazione a
cordoncini nelle cerniere del gomito e della spalla.
La corazza risplende baluginante sotto una luce a fascio che
investe la figura da destra, illuminando parzialmente anche la
mano stretta intorno alla lancia di cui si vede solo una porzione.
L’elmo giace appoggiato sul tavolo, dietro la figura, pronto ad
essere indossato dall’uomo la cui energia sembra colta un attimo prima della battaglia...
Tintoretto
Ritratto di guerriero
1570 - 1575 circa
Olio su tela, cm 82 x 67
Madrid, Museo Nacional del Prado
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Ritratto del procuratore Jacopo
Soranzo
Jacopo Tintoretto dipinse ritratti fin dall’inizio della sua attività.
La tela delle gallerie dell’Accademia ritrae Jacopo Soranzo, elevato alla
carica di procuratore nel 1522, come indica la data parzialmente cancellata che figura nell’iscrizione. Il ritratto è puntualmente ripreso dal ritratto del procuratore che figurava al centro di un grande telero, eseguito
dal Tintoretto nel quale i membri della famiglia circondavano il decano.
Nel telero della famiglia Soranzo, oggi diviso in tre parti conservate al
museo del Castello Sforzesco di Milano, Tintoretto aveva iniziato un
nuovo genere, quello del ritratto di gruppo.
Come per il busto del procuratore del telero, anche in questo ritratto alla
posa canonica del personaggio si accompagna una conduzione vitale e
vibrante dell’espressione del volto, enfatizzata dal potente chiaroscuro
generato dalla luce soffusa da destra.
L’illuminazione incide il profilo del naso e l’orbita dell’occhio di Jacopo
Soranzo, evidenziando il volto di anziano, la barba e i capelli del procuratore.
Alla fine conduzione del volto e delle mani corrisponde una fattura più
sintetica della ricca toga, definita nelle pieghe e nei disegni damascati da
tocchi lunghi e sintetici.
Tintoretto
Ritratto del procuratore Jacopo Soranzo
1550 circa
Olio su tela, cm 106 x 90
Venezia, Gallerie dell’Accademia
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Tintoretto
il talento innovativo
Già l’Aretino, parlando del giovane artista, contribuisce a far nascere il primo elemento fondativo del mito di Tintoretto, sottolineandone l'inusitata prestezza del fare
pittorico, definito in seguito “tintorettesco”: l'estro irrefrenabile che starebbe alla
base di ogni sua creazione, il genio invasato che avrebbe presieduto alla realizzazione delle sue opere.
Ma soprattutto gli antichi critici hanno trovato validissimi motivi per confermare
l'idea di un Tintoretto estremamente "moderna", stando ovviamente ai loro
parametri, nelle affermazioni di Giorgio Vasari, che nella seconda edizione delle Vite,
data alle stampe a Firenze nel 1568, aveva definito il pittore veneziano "stravagante,
capriccioso, presto e risoluto: il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura".
Definendo Tintoretto un "terribile cervello" Vasari non voleva certamente creare
attorno a Jacopo quell'alone di misteriosa "terribilità", anzi è da credere che le parole vasariane costituissero nella realtà un sincero omaggio alla capacità inventiva di
Jacopo, che lo portava a praticare strade del tutto personali, creando opere "fatte
da lui diversamente e fuori dell'uso degli altri pittori".
le luci
...il pittore si apriva a nuove ricerche incentrate soprattutto sulla luce. Un luminismo intensamente
drammatico e irreale...
Ma, anche nel secolo successivo, la fama del Tintoretto si è legata soprattutto alle
presunte stravaganze della sua personalità, che gli scrittori d'arte ritenevano fossero evidenziabili anche dalle sue opere: Carlo Ridolfi, nel 1648, lo definisce, riecheggiando il Vasari, "il più arrischiato pittore del mondo", descrivendo anche con
particolare attenzione la sua tecnica di lavoro, che sarebbe stata figlia, a suo dire,
proprio della sua "terribilità".
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Narra lo storico seicentesco che Jacopo aveva attrezzato a studio una stanza della
sua casa nei pressi della Madonna dell'Orto e qui si esercitava con assiduità a
copiare dal vero modelli e gessi, studiandone i particolari effetti "a lume di
lucerna".
Jacopo usava allo scopo costruire delle piccole prospettive teatrali, appendendovi
figure modellate in cera, nude o vestite di pochi stracci, per poter meglio studiare le
pieghe degli abiti, e illuminandole con candele, per verificare gli effetti della luce.
Naturalmente anche la descrizione di questa prassi di lavoro, che probabilmente era
condivisa anche con altri pittori del tempo, ha assunto agli occhi dei critici ottocenteschi un significato del tutto particolare: e ancor più il fatto che il Ridolfi abbia sottolineato come Tintoretto avesse sentito l'esigenza di metter in piedi questo suo teatrino a lume di candela solo dopo aver "scorticato cadaveri": dopo essersi dedicato, cioè, allo studio dell'anatomia umana.
Pochi anni dopo, nel 1660, anche Marco Boschini dedica la sua attenzione ai dipinti
del Tintoretto, e le due quartine che riporto danno il senso di come ormai si fosse a
quelle date consolidato il mito tintorettesco:
"Che gran stupor, che cose tremende / Che pensieroni pregni e che fierezze!
Tuto bulega e salta come frezze; / No' fu visto in virtù cose più orende.
Qua se ferma el mercurio, e le montagne / Se fa svolar, per arte e per virtù.
Negromanzia de tal valor mai fu, / Che suga i fiumi e alaga le campagne."
Va da sé che questi versi del barocco e non sempre del tutto credibile Boschini, che
sottolineano l'ineguagliato dinamismo delle realizzazioni di Jacopo e lo stupore che
coglie chi vede queste opere, al punto da spingerlo a pensare che esse siano frutto
di arti magiche, hanno costituito una véra e propria manna per quanti, nei secoli
successivi, hanno voluto sottolineare la "diversità" del pittore veneziano.
Ma nella realtà quello che sappiamo della vita di Jacopo non lascia possibilità alcuna
di credere che egli fosse dotato di una personalità invasata o perfino demoniaca: anzi
le sue vicende biografiche testimoniano di una esistenza assolutamente normale, trascorsa accanto alla numerosa Famiglia, avendo come principale, se non unico interesse il proprio lavoro.
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Leda e il cigno
La precisa scelta di rappresentare il momento in cui la principessa Leda
si appresta ad accogliere il cigno, e non quello, suggerito dalle fonti letterarie, in cui avviene l'incontro tra Leda e la personificazione di Giove,
rappresenta un'interpretazione del tema in chiave erotica ampiamente
diffusa in ambito veneto intorno alla metà del Cinquecento.
All'epoca solo una cortigiana avrebbe potuto comparire nuda, seppure
in veste di dea o eroina del mondo classico, del quale comunque, a parte
la presenza del cigno in relazione all'episodio mitologico, non compaiono altri elementi.
E infatti spesso è stata avanzata l'ipotesi che in talune di queste rappresentazioni figurassero i ritratti di famose cortigiane del tempo. In questo
senso potrebbe essere meglio spiegata l'ambientazione dell'episodio.
Leda ingioiellata e pettinata secondo la moda cinquecentesca, è distesa
entro un'alcova coperta di ricchi tessuti e ai suoi piedi compare un
cagnolino.
All'incontro tra la principessa e il cigno assiste, mentre regge una gabbia,
una serva che, ornata da ricchi orecchini di perle e vestita di abiti moderni, è simile a una delle mezzane che spesso accompagnavano le cortigiane, figure femminili di grande rilievo nella cultura cinquecentesca veneziana. Il tema di Leda con il cigno è stato più volte affrontato da
Tintoretto, che in questo caso aggiunge particolari, come la figura della
serva e il cagnolino, che contribuiscono ad attualizzare il tema mitologico, fornendo uno spaccato della società del tempo.
Il mito
Leda era l'affascinante regina di Sparta, figlia di Testio. Era stata sposa di Tindaro re
di Sparta, e da lui aveva avuto due figlie: Clitennestra, che fu poi moglie di
Agamennone e di Egisto, ed Elena, per la cui bellezza avvenne la guerra di Troia. Zeus
se ne innamorò e per poterla vedere scese dal cielo e raggiunse la vetta del monte
Taigeto. Mentre Leda dormiva sulle sponde di un laghetto, fu svegliata dallo starnazzare delle ali di un candidissimo cigno; intorno c'era profumo d'ambrosia che la stordiva e il cigno col suo collo sinuoso amorosamente accarezzò il suo viso, i suoi capel-
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li e le sue braccia. Era Zeus che per avvicinarla si tramutò in cigno e appena la giovane regina si svegliò, si fece riconoscere e le preannunciò che dal loro amore sarebbero nati due gemelli, i Diòscuri: Càstore, gran domatore di cavalli, e Pollùce, invincibile pugile. Tutti e due sarebbero stati a difesa del paese e guida dei marinai, che consideravano come segno della loro protezione il fuoco di Sant'Elmo.
Siccome Càstore era mortale e Pollùce immortale, quest'ultimo voleva essere mortale
per amore del fratello. Zeus, impietosito, stabilì che ognuno di essi abitasse un giorno, vivo, sull'Olimpo e il giorno dopo, morto, nell'Erebo, dandosi cosi il cambio.
Tintoretto
Leda e il cigno
1578 circa
Olio su tela, cm 162x218
Firenze, Galleria degli Uffizi
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Lo sposalizio di Bacco e Arianna alla
presenza di Venere.
II dipinto raffigura "Arianna, ritrovata da Bacco sul lido, coronata da
Venere d'aurea corona, dichiarandola libera e aggregandola al numero
delle celesti immagini" al fine di rappresentare "Venetia nata in una
spiaggia di mare, resa abbondevole non solo d'ogni bene terreno
Tintoretto
Lo sposalizio di Bacco e Arianna alla presenza di Venere
1577 1578 circa
Olio su tela, cm 146x167
Venezia, Palazzo Ducale,
Sala dell’Anticollegio
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mediante la celeste grazia, ma coronata con corona di libertà dalla divina mano, il cui dominio è registrato a caratteri eterni nel cielo".
La spiegazione del quadro fornita da Carlo Ridolfi nel 1648, si inserisce
appieno nella tematica sviluppata nei tre dipinti che insieme allo
Sposalizio di Bacco e Arianna ornavano l'Atrio Quadrato di Palazzo
Ducale a Venezia l'ambiente adibito a sala d'aspetto per le personalità
in attesa di essere ammesse alla presenza dei senatori o dei membri del
collegio. Le tele erano celebrazioni politiche intese a glorificare il concetto di unione e concordanza ma, come è stato supposto in tempi
recenti, hanno anche un significato cosmologico che collega ognuna di
esse a una delle Stagioni figurate sul soffitto.
Lo Sposalizio di Bacco e Arianna rappresenterebbe quindi le nozze simboliche di Venezia con il mare Adriatico, che si rinnovavano ogni anno
con grande fasto nel giorno dell'Ascensione, ma anche la stagione dell'autunno a cui si riferiscono la corona di pampini di Bacco e l'elemento dell'acqua dello sfondo marino. Come avviene nelle altre tre tele della
sala, la composizione vede il disporsi delle poche figure monumentali in
pose elegantemente dinamiche. Nello Sposalizio di Bacco e Arianna il
movimento ritmico che informa i tre personaggi ha origine nell'incontro delle loro mani, proprio al centro della composizione.
Il mito
Arianna è una figura della mitologia greca, figlia del re di Creta Minosse e di Pasifae.
Il noto mito è raccontato in varie versioni. In una si narra che Arianna si innamorò di
Teseo quando egli giunse a Creta per uccidere il Minotauro nel labirinto. Arianna
diede a Teseo un gomitolo di lana per poter segnare la strada percorsa nel labirinto e
quindi uscirne agevolmente. Arianna fuggì con lui e gli altri ateniesi verso Atene ma
Teseo la fece addormentare per poi abbandonarla sull'isola di Nasso (chiamata anche
Dia). Ad ogni modo, durante le loro passioni segrete, Arianna concepì dall'eroe due
figli, Demofoonte e Stafilo.
In un'altra versione, Arianna al risveglio vide la nave di Teseo allontanarsi ma il dolore dell'abbandono fu di breve durata poiché giunse Dioniso su un carro tirato da pantere che, conosciutala, volle sposarla. Secondo un'altra variante ancora fu il dio stesso
a ordinare a Teseo di abbandonare Arianna per averla in sposa. Dagli amori di
Dioniso e Arianna nacquero Toante, Stafilo, Enopione e Pepareto.
Dioniso, per le nozze, fece dono ad Arianna di un diadema d'oro creato da Efesto che,
lanciato in cielo, andò a formare la costellazione della Corona Boreale.
Le varie versioni sono accomunate da un comportamento meschino da parte di Teseo
che appare inspiegabile; quindi sembrerebbe che una parte del mito originario sia
andata perduta.
Esiste un'ulteriore versione della tradizione secondo la quale Dioniso ordinò ad
Artemide di uccidere Arianna sull'isola di Nasso.
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Atena e Aracne
Le incisioni finalizzate al corredo illustrativo delle traduzioni cinquecentesche delle Metamorfosi di Ovidio, privilegiavano la rappresentazione
della contesa tra la dea Atena e la fanciulla Aracne, manifestando un'attenzione particolare per la raffigurazione del telaio su cui lavorava
Aracne, trasformata in un ragno per la gelosia della dea.
In accordo con la diffusione di tali pubblicazioni intorno al Cinquecento,
Tintoretto organizza la composizione della scena intorno al grande
telaio visto da sotto in su. La giovane Aracne con la camicia aperta,
ingioiellata come una cortigiana
cinquecentesca, si intravede attraverso le stecche e i fasci di fili,
intenta nella tessitura, mentre la
dea attende reggendosi la testa
con il braccio piegato, seduta su
una sedia impagliata, con l'elmo e
la corazza che ne definiscono dettagliatamente il ruolo divino.
La sapiente articolazione degli
spazi, predisposti dalla struttura
geometrica del telaio, precorre le
future moltiplicazioni dei vuoti
delle opere più mature ottenute
attraverso l'uso sapiente degli
scorci e di palchi teatralmente scenografici dove troveranno posto i
personaggi e i nuclei narrativi. La
rappresentazione dell'episodio di
Atena e Aracne, invece, si svolge in
uno spazio che sebbene sfori in
profondità è ancora unitario.
Il mito
Aracne è una figura mitologica narrata
da Ovidio nelle "Metamorfosi", ma che pare sia d'origine greca.
Aracne viveva a Colofone, nella Lidia. La fanciulla, figlia del tintore Idomeneo, era abilissima nel tessere, tanto girava voce che avesse imparato l'arte direttamente da Atena,
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mentre lei affermava che fosse la dea ad aver imparato da lei.
Ne era cotanto sicura, che sfidò la dea a duello.
Di lì a poco un'anziana signora si presentò ad Aracne, consigliandole di ritirare la
sfida per non causare l'ira della dea. Quando lei replicò con sgarbo, la vecchia uscì
dalle proprie spoglie rivelandosi come la dea Atena, e la gara iniziò.
Aracne scelse come tema della sua tessitura gli amori degli dei; il suo lavoro era così
perfetto ed ironico verso le astuzie usate dagli dei per raggiungere i propri fini che
Atena si adirò, distrusse la tela e colpì Aracne con la sua spola.
Aracne, disperata, si impiccò, ma la dea la trasformò in un ragno costringendola a
filare e tessere per tutta la vita dalla bocca, punita per l'arroganza dimostrata, nell'aver osato sfidare la dea.
Tintoretto
Atena e Aracne
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1543 1544 circa
Olio su tela, cm 145x272
Firenze, Galleria degli Uffizi
(collezione Contini Bonacossi)
Venere e Adone
Nelle Metamorfosi Ovidio narra che Adone, figlio di Cinira, re di Cipro,
e di Mirra, nacque dalla pianta in cui era stata trasformata sua madre.
Amato da Venere, che colpita dalla sua bellezza abbandonò l'Olimpo
per vivere con lui fra boschi e monti, un giorno si lanciò all'inseguimento di un cinghiale, ma venne da questo ferito a morte. Venere, accorsa
ai lamenti del giovane ottenne che ne rimanesse memoria perenne
attraverso la sua trasformazione in anemone.
Tintoretto rappresenta il momento dell'idillio amoroso tra Venere e
Adone circondati da fronde, arbusti e fogliame entro i quali circolano gli
amorini svolazzanti. La composizione della tela, originariamente ottagonale ridotta poi al formato rettangolare, è impostata secondo il punto
di vista da sotto in su dello spettatore, come se fosse stata concepita dal
giovane Tintoretto per un soffitto.
L'ipotesi è avvalorata dalla tematica mitologica amorosa, diffusa nelle
decorazioni ornamentali delle stanze private dei palazzi aristocratici.
Tintoretto
Venere e Adone
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1543 1544 circa
Olio su tela, cm 145x272
Firenze, Galleria degli Uffizi
(collezione Contini Bonacossi)
La visione scorciata si accompagna a una chiara definizione plastica
delle figure, elementi stilistici che associano quest'opera alle quattordici
tavole ottagonali con gli episodi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio che
decoravano un soffitto del palazzo dei conti Pisani a San Paternian a
Venezia, ora alla Galleria Estense di Modena, talmente vicine alla concezione degli episodi del soffitto della Sala di Psiche di Palazzo Te a
Mantova, da aver indotto a ritenere che Tintoretto si sia recato a
Mantova intorno al 1540 per studiare l'opera di Giulio Romano.
Il mito
Adone è una figura di origine semitica, oggetto di importante culto nelle varie religioni legate ai riti misterici.
Teiade , regina di Cipro, si era vantata della bellezza della figlia Mirra, ritenendola
persino superiore ad Afrodite. La dea, indignata per le parole della regina, fece innamorare la fanciulla di suo padre, il re Cinira. La povera Mirra era tormentata dall'insano amore verso il padre, e , disperata, si rivolse alla sua nutrice. Durante i festeggiamenti in onore della dea Cerere, Teiade aveva fatto voto di
castità, perciò la nutrice comunicò a Cinira che una fanciulla
vergine sarebbe stata disposta a dormire insieme a lui, purchè
il volto della ragazza rimanesse sconosciuto al re. Cinira accettò e per nove notti dormì e si accoppiò con sua figlia, a sua
insaputa, facendola rimanere incinta. Quando il padre scoprì
l'inganno, sbalordito e inorridito, cercò di uccidere Mirra, inseguendola con una spada. La ragazza, disperata, pregò gli dei
che, impietositi, placarono i suoi dispiaceri trasformandola nell'albero della mirra. Poco dopo, dal tronco dell'albero, nacque il
figlio che aveva in grembo: nacque così Adone. Il bambino era
di una bellezza straordinaria, tanto che sia Afrodite che
Persefone volevano prendersene cura. Zeus, per evitare il litigio
fra le due dee, fece in modo che Adone fosse affidato a turno:
il ragazzo avrebbe trascorso un terzo dell'anno con Afrodite, un
terzo con Persefone e il rimanente terzo poteva trascorrerlo con
chiunque lui desiderasse. Afrodite, però, innamoratasi di
Adone, faceva in modo di passare anche quell'ultimo terzo dell'anno con il suo amato. Adone amava molto cacciare e , nonostante le raccomandazioni di Afrodite, non si lasciava sfuggire
prede feroci e pericolose. Un giorno, però, Ares, invidioso della
relazione tra Adone e la sua amante, fece in modo che il giovane incontrasse un cinghiale. Adone si battè con la belva, ma
quest'ultima lo colpì a morte. Afrodite disperata e affranta
dalla perdita del suo amato, trasformò il suo sangue nel fiore
dell'anemone.
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Tintoretto e i temi religiosi
Tintoretto -che verrà definito in tempi moderni il pittore religioso per eccellenza- "fanciulletto, si dava a disegnare co' carboni e colori delle tinte del padre
sopra de' muri".
Una selezione rappresentativa dell’ opera di Tintoretto finisce sempre per comprendere quasi esclusivamente dipinti che si trovano tuttora a Venezia, perlopiù nei luoghi originari; e si tratta invariabilmente di grandi dipinti, grandissimi e talvolta giganteschi, fino ai dodici metri abbondanti in orizzontale della
Crocifissione della Scuola di San Rocco e ai quattordici metri e mezzo in verticale degli Ebrei che preparano il vitello d’ oro e del Giudizio alla Madonna dell’
orto.
Sono dati che qualificano automaticamente la dimensione istituzionale, pubblica o semipubblica, di mezzo secolo di pittura, caratterizzata dall’ assidua presenza nelle chiese, con particolare riguardo alle cappelle del Sacramento, ma
soprattutto da una vera e propria esclusiva sulle imprese delle Scuole granidi,
ossia sul mondo delle associazioni di ceto medio cittadino, mirate ufficialmen
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te alla devozione, all’ assistenza e al mutuo soccorso e più concretamente all’
affermazione e alla difesa dei propri interessi corporativi.
In questi contesti, la committenza, individuale o incrociata, di laici e religiosi, di
mercanti, artigiani e funzionari statali, di uomini di legge e di scienza, riflette
una cultura attenta alle tradizioni consolidate e alle trattative tridentine ma lontana dalle rigidezze del disciplinamento d’ importazione; e reclama una religione immediatamente comprensibile e facilmente comunicabile, fondata su una
cristologia radicale e sui temi evangelici della salvezza e grazia, ma anche una
religione didascalica e propagandistica, pronta a ribadire l’ importanza dei miti
di fondazione (corpi, reliquie, traslazioni e protezioni, leggende e miracoli), a
ravvivare il dibattito sull’eterno confronto tra mondo ebraico e mondo cristiano, a sostenere la necessità di riforma delle istituzioni ecclesiastiche e delle
pratiche quotidiane in risposta alla progressiva diffusione di pensieri e parole
delle Riforme protestanti.
Uno dopo l’ altro, i grandi pittori veneziani –da Lotto a Tiziano, da Jacopo
Bassano a Paolo Veronese– scelgono una religione cristocentrica, fortemente
individualistica, di alta temperatura sentimentale, e ne fanno immagini piene di
‘effetti speciali’ secondo le loro esigenze e quelle dei committenti, secondo le
logiche degli schieramenti politico-culturali, secondo le specificità dei linguaggi.
Tutti si dimostrano più o meno ‘spirituali’ per una parte della loro vita o per la
vita intera; tutti sfiorano, o attraversano, il dissenso e lo risolvono in una pacificata inquietudine, lasciandolo talvolta affiorare –mai troppo visibilmente- fra
gli interstizi delle immagini.
Nessuno sceglie il conformismo, nessuno tollera il controllo; e fra tutte la
risposta più continua e più completa alle questioni all’ ordine del giorno è
quella di Jacopo Tintoretto.
Negli anni della polemica e del disciplinamento, a nessuno –né al pittore, né al
committente– interessa più la traduzione figurativa letterale di un testo religioso.
Quello che interessa sono i significati di una storia religiosa, che sono variabili secondo i diversi tempi, contesti e funzioni, e che in ogni diversa occasione
vengono selezionati da un’ ampia gamma di significati possibili: il che può dar
conto di apparenti contraddizioni tra le singole opere.
Dunque i testi sono importanti, ma più importanti sono i lettori e le letture.
Con l’ eventuale guida di uno o più lettori, che di norma coincidono col committente e la sua cerchia, il pittore segue con le immagini un percorso di interpretazioni che rimanda a letture elaborate in precedenza o sul momento: non mette
in figure uno o più libri, ma una o più letture inedite di quel libro o quei libri.
L’ analisi dei contesti e delle immagini mostra con assoluta chiarezza che
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Tintoretto e i suoi lettori leggevano testi religiosi in volgare, prendendo consapevolmente posizione contro i divieti di traduzione, interpretazione e diffusione delle Sacre Scritture fuori dal controllo ecclesiastico.
Allora al pittore non bastano più il corredo della tradizione e il repertorio del
mestiere.
Ha anche bisogno di una formidabile strumentazione retorica per orientarsi fra
letture sempre rinnovate e per comunicare l’ intera complessità dei significati
prescelti.
Nasce così un linguaggio fondato soprattutto sulla metafora, che –a differenza
del simbolo- non necessità di stabilità, né di lunga tradizione, e neppure di codificazione erudita; si può creare per l’ occasione, e dunque il suo contenuto è
prontamente riconoscibile in quell’ occasione, in quella determinata circostanza.
La conseguenza più rilevante è l’ alterazione delle strutture narrative a vantaggio della concentrazione di momenti diversi di una storia entro un’ unica immagine compattata e esclusivamente da una logica metaforica e dunque non narrativa, sequenziale; oppure, e al contrario la selezione di un unico momento di
una storia, rafforzato dalla metafora figuarativa al punto di potersi caricare del
peso, e del senso di tutto quel che resta non rappresentato: con l’ ulteriore risultato, in entrambe i casi, di sensibili modifiche delle iconografie consolidate.
La retorica figurativa di Tintoretto non è soltanto la pratica di un sistema di
costruzione modellato sulle regole stabilite nella sfera propria del discorso orale
o scritto ma soprattutto la continua sperimentale invenzione di nuove metafore che nascono direttamente con l’ immagine e che dentro l’ immagine generano dettegli inediti e significativi, spesso determinanti per la definizione e la
descrizione dei significati.
Che poi questi dettagli fossero spesso nascosti, invisibili o quasi per le enormi
dimensioni, le affollate impaginazioni e le impervie collocazioni dei dipinti,
dimostra una volta di più che la completezza dei significati era riservata all’
intenzione e alla consapevolezza di chi i dipinti li progettava e li eseguiva, ossia
del pittore e dei suoi committenti; mentre all’ indistinto spettatore restavano al
massimo l’ identificazione del soggetto e la valutazione generale dell’ insieme.
Possiamo ancora appiattirci su quello spettatore di facile contentatura, oppure
–sfruttando al meglio i vantaggi dell’ era tecnologica- possiamo inseguire e scovare quei dettagli, quei gesti, sguardi e oggetti che chiariscono azioni, intenzioni e concetti, quei segnali isolati o intrecciati che funzionano come indicatori di
percorso e richiedono un lentissimo attraversamento dell’ immagine, con
pazienza e insistenza infinite, con gli stessi tempi del pittore quando la pensava
e la organizzava senza alcuna prestezza: in modo da ricostruire il suo percorso,
da cogliere le sue indicazioni, da recuperare le sue intenzioni.
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Tintoretto
Cristo e l’adultera
1546 circa
Olio su tela, cm 118,5x168
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica,
Palazzo Barberini
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Cristo e l’adultera
“Chi tra di voi è senza peccato scagli la prima pietra”,
con queste parole Cristo placa la folla ostile alla
donna colpevole d'adulterio, isolata da Tintoretto di
fronte al suo salvatore, l'unico che le rivolge lo
sguardo e "mentre nostro Signore accenna col dito
le lettere da lui scritte in terra, si veggono gli Scribi e
i Farisei partirsi l'uno dopo l'altro, celandosi dietro le
colonne d'un porticale".
I colonnati in prospettiva del "porticale" a cui si riferisce Carlo Ridolfi, che nel 1650 vide l'opera a
Venezia a casa di Vincenzo Zeno dove era in coppia
con L'entrata di Cristo in Gerusalemme ora agli
Uffizi di Firenze, moltiplicano lo spazio aperto
sullo sfondo in un paesaggio naturalistico.
Nell'impianto architettonico rappresentato da
Tintoretto è stata riconosciuta una puntuale derivazione dai trattati di architettura di Sebastiano Serlio,
la cui prima parte era stata pubblicata proprio
durante il suo soggiorno a Venezia concluso nel
1539.
Il tema di Cristo e l'adultera fu affrontato più volte
da Tintoretto che ambienta l'episodio biblico nella
realtà veneziana del suo tempo. Le vesti all'antica
sono attualizzate dai copricapi orientaleggianti, i
soldati a destra hanno armature moderne e sia l'acconciatura che l'abito dell'adultera appaiono talmente vicini alla modernità da aver indotto a ipotizzare che egli avesse usato una modella reale. Queste
sottigliezze narrative apparentano il dipinto alla produzione dei primi
anni di attività di Tintoretto quando, con un'analoga conduzione pittorica di tocco rapido, svolgeva le decorazioni dipinte su suppellettili come
cassoni, spalliere o dossali di mobili e decorazioni su coperchi e parti di
strumenti musicali.
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La disputa di Gesù nel Tempio
Rimasta a lungo nei sotterranei del Duomo di Milano, la tela è stata
riscoperta e confermata come opera di Tintoretto da Francesco
Arcangeli nel 1955.
L'opera risente dei modelli di Michelangelo e della maniera di Giulio
Romano da cui derivano la struttura poderosa della figura femminile a
sinistra e la torsione del dottore di destra.
I due personaggi sono rappresentativi delle schiere impegnate nella
disputa, calate in una scatola prospettica tesa verso la profondità e per-
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fetta grazie alla geometria delle colonne laterali e al disegno del pavimento su cui si alza una doppia tribuna sul fondo.
La pennellata fluida di questa parte delinea figure veloci concatenate
l'una all'altra tramite contorcimenti e sbalzi, mentre in primo piano la
materia pittorica si fa densa e plastica, in sintonia con i volumi potenti e
la gestualità estrema. A tali scelte formali adottate per il soggetto della
Disputa, sono stati dati precisi significati. Il movimento "iperbolico" sotteso a tutto l'insieme ha fatto ipotizzare che, nell'affermazione"della
Divinità del Figlio" alla
Vergine, Tintoretto mirasse
a rappresentare "la prima
coscienza di una sgomentante lontananza" (Arslan,
1960).
Arcangeli invece ha avanzato una suggestiva ipotesi che vedrebbe nel giovane a sinistra "dagli occhi
grossi, attoniti, coi capelli
neri arruffati", l'autoritratto
di Tintoretto assorto nell'ascoltare il ragazzo di
spalle che legge "qualche
vangelo della 'maniera'
tosco-romana", mentre il
vecchio incappucciato che
si appoggia al bastone,
poco più avanti, sarebbe
Tiziano che offeso dalle
scelte di Tintoretto, si volgerebbe indignato dall'altra parte.
Tintoretto
La disputa di Gesù nel Tempio
1542-1543 circa
Olio su tela, cm 197x319
Milano, Museo del Duomo
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La Trinità
Nel 1780 Carlo Giuseppe Ratti ricordava a Palazzo Durazzo a Genova il
dipinto "con Christo in croce, il Padre
Eterno, e qualche Angioli", spiegando
che si trattava di una "porzione di quadro" sopravvissuta al resto che invece
"è stato abbruggiato". Le tracce di bruciature che la tela reca ancora sulla
parte inferiore hanno permesso di collegare il dipinto della Galleria Sabauda
con quello citato da Ratti nel palazzo
genovese. La Trinità doveva concludere
la parte superiore di una pala ricordata
dalle fonti sull'altare di sant'Adriano
nella chiesa veneziana di San Girolamo,
sulla quale erano raffigurati i santi
Agostino, Francesco e Adriano.
Questo spiega la prospettiva così scorciata dal basso verso l'alto.
Nonostante la Trinità della Galleria
Sabauda sia solo un frammento di una
più ampia composizione, l'intensa
drammaticità e la coerenza compositiva
dell'insieme risultano ancora potentemente evocative.
Le figure si dispongono ordinatamente
intorno al busto di Cristo crocifisso,
scorciato ai limiti dell'equilibrio.
Due angeli bambini con le mani giunte
e la testa inclinata in preghiera sono collocati entro lo spazio delle
braccia aperte inchiodate alla croce. Altri due angeli sostengono la
croce e sopra le colombe dello Spirito Santo domina la figura di Dio
Padre che scende in volo con le braccia aperte da un nugolo luminescente in cui appaiono in trasparenza teste di cherubini.
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Tintoretto
La Trinità
1564-1568 circa
Olio su tela, cm 122 x 181
Torino, Galleria Sabauda
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INDICE
• Note biografiche..........................................................pag. 3
• I ritratti........................................................................pag. 4
• Tintoretto, il talento innovativo..................................pag. 10
• Tintoretto e temi religiosi............................................pag. 20
BIBLIOGRAFIA:
http://www.artemotore.com/storiadellarte/biografietintoretto.html
http://digilander.libero.it/debibliotheca/Arte/tintoretto/page_01.htm
http://www.galleriaborghese.it/barberini/it/tintor.htm
http://www.tintorettovenezia.it/
http://www.storiadellarte.com/periodi/rinascimento/manierismo.htm
http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/c/c178.htm
http://www.girodivite.it/antenati/xvisec/xviuma.htm
http://www.visibilmente.it/02arts/story/2/controriforma.html
http://www.studiolo.it/categoria_dettaglio.asp?articolo=31623
Tintoretto • I Classici dell’Arte • Rizzoli
Da Canaletto a Tiepolo • Palazzo Reale • Skira
La scuola grande di S. Rocco a Venezia • DVD
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TINTORETTO
ANNO SCOLASTICO 2008•2009
RELATORE: prof. ADRIANO MARIANI