1975-2005: la societa` italiana e la riforma dell`ordinamento

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1975-2005: la societa` italiana e la riforma dell`ordinamento
MODALITA’ DI PARTECIPAZIONE
La quota di partecipazione al convegno è di
€ 30 ( 20% di sconto per i giovani sotto i 26
anni)
SEDE DEL CONVEGNO
SALA CONVEGNI ISTITUTO SUORE MARIA
BAMBINA
Via Paolo VI, 21 – Roma
TEL06-69893511
E-MAIL [email protected]
PER LE ISCRIZIONI AL CONVEGNO :
SEGRETERIA ORGANIZZATIVA
COORDINAMENTO ENTI E ASSOCIAZIONI DI
VOLONTARIATO PENITENZIARIO – SEAC
Tel. 338-9489515
e-mail [email protected]
N.B. se si desidera partecipare alla
sessione prevista nel carcere di Regina
Coeli, è necessario iscriversi al convegno
entro il 20 novembre
Indicazioni per il pernottamento
Istituto Suore Maria Bambina, via Paolo VI, 21
Tel 06.69893511 fax 06.69893540 ( Sede del
Convegno)
Ospizio Salesiano Sacro Cuore, via Marsala,42
Tel 06.4463352 fax 06.4463352 ( di fianco alla
Stazione Termini)
Hotel Casa Tra Noi, via Monte del Gallo,113
Tel 06.39387355 fax 06.39387446
COORDINAMENTO ENTI E ASSOCIAZIONI
DI VOLONTARIATO PENITENZIARIO – SEAC
38° Convegno Nazionale
“1975-2005:
LA SOCIETA’ ITALIANA E LA
RIFORMA
DELL’ORDINAMENTO
PENITENZIARIO. TRENT’ANNI
DI LUCI E DI OMBRE.
QUALE FUTURO?”
Con il Patrocinio della Regione Lazio, della
Provincia e del Comune di Roma.
In collaborazione con SPES- Centro di Servizio
per il Volontariato del Lazio
Il SEAC (Segretariato Enti e Associazioni di
Volontariato Penitenziario) dal 1967 costituisce
una presenza attiva nel volontariato delle carceri
e della giustizia. Coordina circa 80 associazioni
diffuse sul territorio nazionale.
Il SEAC, nato per promuovere le attività delle
associazioni impegnate nelle carceri, si è
trasformato ed ampliato in un coordinamento
del volontariato tuttora impegnato nei confronti
delle persone detenute, ma che ha ampliato le
sue funzioni ad azioni non più ristrette ai soli
istituti di pena
ma diffuse sul territorio,
costruendo un confronto con le istituzioni ed il
governo sui problemi della giustizia, una
formazione dei volontari più qualificata ed
aperta alla dimensione politica del proprio
impegno. Oggi SEAC significa un volontariato
impegnato a pieno titolo nella promozione della
giustizia, tra le prime associazioni ad introdurre
in Italia il tema della mediazione penale, per un
nuovo modello di pace da raggiungere.
La forte motivazione sociale, una radicata
presenza negli istituti di pena e sul territorio
determinano l’identità del SEAC, le sue battaglie
per una giustizia rispettosa dei diritti delle
vittime e degli autori di reato, la tensione verso
una migliore qualità della vita, per una
espiazione della pena rispettosa dei diritti
umani, per l’ educazione alla legalità e di
promozione di politiche tese alla giustizia e pace
sociale mantenendo l’identità di fondo
dell’azione volontaria: il suo ruolo di cittadinanza
attiva.
Roma – 1, 2, 3 Dicembre 2005
Istituto Suore Maria Bambina, via Paolo VI, 21
38° CONVEGNO NAZIONALE
SEAC
programma
-
Luciano Eusebi (Ordinario Diritto
Penale, Università Cattolica di Piacenza)
Lunedì 26 luglio 2005
Conferenza stampa, presso il Senato della
Repubblica, per la presentazione del Convegno,
in occasione del 30° anno di approvazione della
legge
***************
Giovedì 1 dicembre 2005
1° sessione
Sala convegni Istituto Suore Maria Bambina
Ore 15,00
Saluti delle Autorità: Rappresentante del
Comune di Roma
Ettore Ziccone ( Provveditore Regionale
Dell’Amministrazione Penitenziaria)
E’ previsto un indirizzo di saluto del
Presidente Emerito della Repubblica
Sen. Oscar Luigi Scalfaro
Apertura dei lavori: Elisabetta Laganà
(Presidente Seac)
Ore 15,30
“PRINCIPI E INNOVAZIONI DELLA
RIFORMA”
Presiede: Giuseppe di Gennaro (Esperto
internazionale di problemi penitenziari)
Interventi:
-
IL MOVIMENTO PER LA RIFORMA
Giuseppe Di Gennaro
LA DOTTRINA NELLE SUE VARIE
ARTICOLAZIONI
-
LA RIFORMA E LA SUA ATTUAZIONE
-
L’ORDINAMENTO PENITENZIARIO E IL
REGOLAMENTO
-
-
DIRETTIVE,
LA POLIZIA PENITENZIARIA: IL
RECLUTAMENTO, LA FORMAZIONE,
L’IMPIEGO. IDENTITÀ E FUNZIONI TRA
SVILUPPO E MALESSERE
Fabrizio Rossetti (Responsabile
Nazionale FPCGIL, Settore penitenziario)
-
Ore 19,00 – Dibattito
Ore 19,30 – Conclusioni
I PROVVEDITORATI REGIONALI:
AUTONOMIA E GERARCHIA, IL
COORDINAMENTO, LA PROGRAMMAZIONE
ANNUALE
Luigi Pagano (Provveditore Regionale
AP Lombardia)
Venerdì 2 dicembre 2005
-
2° sessione
Sala convegni Istituto Suore Maria Bambina
Intervento
di
apertura:
Claudio
Cecchini(Assessore alle Politiche sociali della
Provincia di Roma)
L’APPARATO GIUDIZIARIO, AMMINISTRATIVO E
TECNICO, LE AUTONOMIE LOCALI E IL
VOLONTARIATO DI FRONTE ALLA RIFORMA”
-
-
Gianpietro Costa (Presidente Tribunale
Sorveglianza Bologna)
LE REGIONI E GLI ENTI LOCALI: LA
LEGISLAZIONE E I PROGETTI; L’AZIONE
NEGLI ISTITUTI E SUL TERRITORIO
Luigi Nieri (Assessore Bilancio Regione
Lazio)
-
SORVEGLIANZA
I CENTRI DI SERVIZIO SOCIALE ADULTI: IL
TRATTAMENTO, LA LIBERTÀ, LA RETE
INTEGRATA DI SOSTEGNO
Anna Muschitiello (Segretaria Nazionale
Coordinamento Assistenti Sociali
Giustizia)
Presiede: Bruno Benigni (Presidente Centro
Franco Basaglia Arezzo)
DI
GLI ISTITUTI: TIPOLOGIA, EDILIZIA,
LAVORO, SALUTE
Lucia Castellano(Direttrice Carcere
Bollate)
Ore 9,00
“CUSTODIA E TRATTAMENTO,
DETENZIONE E MISURE ALTERNATIVE -
Tavola rotonda sui temi:
- LA MAGISTRATURA
DAP:
Emilio di Somma (Vice Direttore DAP)
Giuseppe La Greca ( Avvocato)
Alessandro Margara (Presidente
Fondazione Michelucci Fiesole)
LA POLITICA DEL
PERSONALE, MEZZI
LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA MINORILE
Federico Palomba (Esperto ONU sui
diritti umani)
Ore 13,00 – Conclusioni
3° sessione
Rotonda del Carcere di Regina Coeli
Ore 15,00
“TESTIMONIANZE DI VITA CARCERARIA.
LA COMUNITÀ ECCLESIALE.”
Presiede: Padre Vittorio Trani (cappellano
Carcere Regina Coeli)
Ore 11,00
Assemblea
SEAC
annuale degli aderenti del
5° sessione
Ore 12,30
“Considerazioni e prospettive: l’impegno
per il futuro”
Celso Coppola (Consiglio Nazionale SEAC)
Ore 13,O0 – Conclusioni
Saluti: Mauro Mariani (Direttore Carcere
Regina Coeli)
Introduce: Elisabetta Laganà ( Presidente SEAC)
-
TESTIMONIANZE DAL CARCERE
-
LA CHIESA SI CONFRONTA CON LA REALTÀ DEL
CARCERE Mons. Marcello Semeraro( Conferenza
Episcopale Italiana)
Ore 18,00 – Conclusioni
*****************
Sabato 3 dicembre 2005
4° sessione
Sala convegni Istituto Suore Maria Bambina
Ore 09,00
“IL VOLONTARIATO PENITENZIARIO”
Presiede: Piergiorgio Licheri (Presidente
CONVOL)
Incontro
con
la
Conferenza
Nazionale
Volontariato Giustizia, con le associazioni, i
coordinamenti e i gruppi regionali.
PERCHÈ QUESTO CONVEGNO?
Il 26 luglio 1975, giorno di promulgazione
dell’ordinamento penitenziario ( Legge 354/75),
costituisce ad un tempo, sia il punto di arrivo di
un dibattito molto contrastato, iniziato nel 1947,
che il momento di avvio di un altro percorso di
applicazione
della
riforma,
altrettanto
contrastato, che arriva ai giorni nostri.
Rappresenta un punto di snodo che pone
tuttavia alcuni interrogativi: come è possibile
che siano occorsi ventotto anni per elaborare la
legge e che, dopo altri trenta, la democrazia
italiana si trovi ancora in una situazione di crisi
su questo tema, divisa com’è tra percorsi di
reinserimento e percorsi di esclusione nei
riguardi dei cittadini condannati?
E ancora: perché dopo trent’anni, pur in un
complessivo miglioramento, ci si trovi ancora in
uno stato di crisi, con una riforma realizzata a
macchia di leopardo, con rare punte di
soddisfazione,
con
un
sovraffollamento
intollerabile?
La situazione è certamente articolata, ma quel
che non si riesce a cambiare in larghi strati della
società è il modello del carcere come luogo di
sola pena (modello che spinge a costruire
sempre nuovi istituti) ed è soprattutto la
precarietà della condizione del detenuto,
sempre soggetto alla discrezionalità del potere
che in un attimo, per qualunque motivo, può
annullare ogni conquista di dignità.
Ecco perché, a trent’anni dall’entrata in vigore
della riforma, ci sembra importante, accanto al
dibattito dottrinario e culturale, cercare di
portare alla luce quegli aspetti oscuri, quei
meccanismi – spesso determinanti - che
bloccano la riforma stessa.
Ci sembra necessario esplorare come funzioni,
nella realtà, questo rapporto tra società e
organizzazioni/apparati, attraverso le varie parti
coinvolte nel processo: i servizi, gli operatori, i
volontari, gli enti locali, la magistratura, le
associazioni dei detenuti, il bilancio…Si tratta
quindi di individuare il contributo esplicito e/o
inconsapevole di tutti noi all’ingessatura della
riforma, per prendere consapevolezza su come
procedere in senso concretamente positivo.
E’ questo sforzo che chiediamo al Convegno;
sforzo che speriamo possa continuare anche in
futuro con una permanente riflessione critica su
quanto avviene e su quanto facciamo nel nostro
lavoro quotidiano.
SPECIALE
38° CONVEGNO NAZIONALE
“1975-2005:
LA SOCIETA’ ITALIANA E LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO.
TRENT’ANNI DI LUCI E DI OMBRE. QUALE FUTURO?”
Roma, 1 - 2 - 3 Dicembre 2005
Editoriale
di Elisabetta Laganà
In questo numero speciale di Seac Notizie vengono pubblicati i contributi di alcuni relatori del 38° Convegno
Seac “1975-2005: la società italiana e la riforma dell’ordinamento penitenziario. Trent’anni di luci ed ombre.
Quale futuro?”. Gli atti completi, che verranno successivamente pubblicati, potranno offrire un quadro più
esaustivo del lavoro svolto, che ha suscitato grande interesse sia nei partecipanti che nei relatori. Una delle
osservazioni più frequenti, colte nelle discussioni dei momenti informali, è stata la curiosità relativa all’analisi
storica dei meandri di un sistema così complesso da sfiorare l’indecifrabilità e l’impermeabilità nei suoi
funzionamenti. Ci si riferisce ovviamente al sistema di tutti i passaggi istituzionali che regolano l’esecuzione
della pena, i cui meccanismi, spesso lungi dal poter essere analizzati sotto il segno della trasparenza,
diventano opachi ed oscuri, ed in questa opacità va perso il senso della chiarezza nel rapporto tra istituzione,
detenuti e volontariato.
Ecco che, allora, una operazione culturale di analisi dialogica tra le parti coinvolte potrebbe restituire un filo
di luminosità che permetta di poter meglio vedere all’interno, non certo per mera curiosità (intrusione) ma con
la finalità di poter comprendere ed interloquire ai fini della realizzazione di un mandato sociale relativo alla
carta costituzionale, tuttora vigente, di conciliare la funzione retributiva della pena con quella della
riabilitazione.
In questo senso la cultura, la conoscenza divengono strumenti di partecipazione orientata al valore della vita,
al rispetto delle sue regole, che aiuti a cambiare le logiche di una cultura spesso più basata sul “sentito dire”,
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sugli stereotipi, sui pregiudizi che sulla ricerca di vera conoscenza: i vissuti dei detenuti, delle loro famiglie, la
qualità della vita nel carcere. Questa cultura può costituire una porta tra il dentro e il fuori: può informare e
sensibilizzare all’esterno l’opinione pubblica utilizzando tutti i pacifici strumenti a disposizione per recuperare
l’idea del diritto connesso alla rete dei valori della comunità esterna.
Il Seac, da sempre attento alla formazione culturale delle proprie associazioni, promuove una cultura che
sostenga l’intervento del volontariato non come attività sporadica o discrezionale, ma come funzione
inalienabile nel processo riabilitativo, con la dignità di uno spazio operativo integrato con le istituzioni.
Per rimanere nella dimensione della ricostruzione storica, è interessante e sconfortante insieme rileggere nel
libro “Il volontariato nelle carceri-la storia del SEAC” (Fivol, 2000) alcune parti riguardanti il dibattito avvenuto
poco dopo l’avvio della riforma. Un parte dell’analisi mette in luce l’aspetto dei “bisogni del detenuto, colpito
più dalla povertà sociale che morale. … Questa visione si rovescia e, anno dopo anno, il servizio di
assistenza nelle carceri permette di scoprire che i detenuti sono molto spesso vittime di processi di
esclusione sociale, che colpiscono i cittadini meno tutelati dallo Stato. La seconda idea che entra in crisi
riguarda il ruolo dei penitenziari italiani…osservati più come una struttura che rispecchia e mantiene le
contraddizioni della società e si evidenzia come siano soprattutto i poveri che si ritrovano in carcere. …La
scelta di stare accanto ai detenuti portando solo un po’ di sollievo può trasformarsi nella scelta di essere al
loro fianco e il servizio in carcere diventa, in questa prospettiva, una precisa scelta di trasformazione della
società”.
Si può chiaramente osservare come, già trent’anni fa, si andava potenziando l’area della detenzione sociale
che comprende in buona parte tossicodipendenti, immigrati, persone con problemi psichici o di abbandono
sociale, e come l’allargamento della penalizzazione si sia accompagnato ad una riduzione del sostegno
sociale alle situazioni critiche. Questo fattori hanno sicuramente inciso sulle drammatiche cifre del
sovraffollamento oggi presente nei nostri penitenziari.
Queste considerazioni evidenziano il limite delle istituzioni nel portare avanti i processi di riforma quando
esistano ostacoli – volontari o non - alla attiva partecipazione dei cittadini. In questo caso ci si intende riferire
ai volontari a cui va riconosciuto un ruolo essenziale che non è tanto quello di vicariare o supportare
l’istituzione, quanto quello di consentire lo sviluppo di quell’humus fatto di cultura e di cittadinanza attiva
senza la quale non è possibile un vero cambiamento. Per altri versi non si può pensare ad un vero
cambiamento senza il coinvolgimento, l’adesione dei soggetti interessati (i detenuti), senza un ascolto
attento dei loro bisogni, senza consentire loro di esprimersi e di farsi protagonisti del processo di
trasformazione. Questa messa in gioco dei ruoli necessita tuttavia di uno spazio, di un clima, di una
convergenza, una fiducia, che si costituisce e si alimenta nella riflessione, nell’incontro, nel dibattito, nella
produzione in definitiva di una “cultura”.
L’incontro avvenuto con i detenuti nella gelida rotonda di Regina Coeli è stato riscaldato dal saluto africano
preparato per noi. Le fantasie degli abiti, le danze hanno colorato di umanità un luogo inabitabile .
L’emozione scaturita ci ha rinnovato il senso della nostra azione e rimandato al senso più vero del nostro
essere presenti, il senso dell’incontro tra persone.
Senato della Repubblica
Roma, 30 novembre 2005
Alla Presidente Elisabetta Laganà
Sono con voi in questa ricorrenza trentennale della riforma dell’ordinamento penitenziario, cui dedicate il 38°
Convegno Nazionale del Seac, Coordinamento di Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario.
Stiamo vivendo un tempo in cui è assai difficile un dialogo vero e costruttivo atto a migliorare quella “Riforma
Gonella” che porta il nome dello statista democristiano che avvertiva l’importanza di attuare effettivamente
l’art. 27 della Carta costituzionale, nel rispetto del principio dell’umanizzazione della pena, e del quale
quest’anno celebriamo il centenario della nascita, non senza nostalgia per un ministro di Giustizia che seppe
incarnare il ruolo con autentico senso dello Stato.
Non v’è dubbio che anche per chi opera per la giustizia è necessario compiere passi coraggiosi per
migliorare una situazione che specie nel settore penitenziario va deteriorandosi.
Abbiamo il dovere di difendere, di tutelare i diritti della persona umana, che non può mai esser ridotta a peso,
disturbo della società senza averle offerto la possibilità di liberarsi dal disagio sociale nel quale è
abbandonata. Abbiamo più ancora il dovere di far quadrato per quei valori umani e, per chi crede, cristiani, di
fraterna correzione che sono garanzia essenziale perché ogni membro della comunità si senta
effettivamente cittadino.
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Può un tema così vitale per tutti e per ciascuno, essere affrontato e deciso solo da una maggioranza che usa
spesso la legge per adempiere ad interessi particolari, creando così un divario ancora maggiore verso le
persone immerse nel dramma dell’emarginazione?
Non scoraggiamoci, non abbandoniamo il faticoso impegno. Difendiamo a oltranza questa bella e sacra
Costituzione, anche negli articoli più scomodi.
Nella mia lunga vita ho visto prepotenza e prevaricazione vincere molte tappe, ma assolutamente mai
giungere vittoriosa al traguardo.
Saluto affettuosamente tutti con l’auspicio che anche il vigoroso impegno referendario per l’abrogazione della
riforma della Costituzione, appena licenziata dal Parlamento con un mortificante voto di maggioranza
governativa, sia di conforto per chi lotta in prima linea per aiutare tutti, per alleviare umane tragedie e portare
la luce dell’amore e della speranza cristiana.
Vostro
Oscar Luigi Scalfaro
PERCHÈ QUESTO CONVEGNO?
Il 26 luglio 1975, giorno di promulgazione dell’ordinamento penitenziario ( Legge 354/75), costituisce ad un
tempo, sia il punto di arrivo di un dibattito molto contrastato, iniziato nel 1947, che il momento di avvio di un
altro percorso di applicazione della riforma, altrettanto contrastato, che arriva ai giorni nostri.
Rappresenta un punto di snodo che pone tuttavia alcuni interrogativi: come è possibile che siano occorsi
ventotto anni per elaborare la legge e che, dopo altri trenta, la democrazia italiana si trovi ancora in una
situazione di crisi su questo tema, divisa com’è tra percorsi di reinserimento e percorsi di esclusione nei
riguardi dei cittadini condannati?
E ancora: perché dopo trent’anni, pur in un complessivo miglioramento, ci si trovi ancora in uno stato di crisi,
con una riforma realizzata a macchia di leopardo, con rare punte di soddisfazione, con un sovraffollamento
intollerabile?
La situazione è certamente articolata, ma quel che non si riesce a cambiare in larghi strati della società è il
modello del carcere come luogo di sola pena (modello che spinge a costruire sempre nuovi istituti) ed è
soprattutto la precarietà della condizione del detenuto, sempre soggetto alla discrezionalità del potere che in
un attimo, per qualunque motivo, può annullare ogni conquista di dignità.
Ecco perché, a trent’anni dall’entrata in vigore della riforma, ci sembra importante, accanto al dibattito
dottrinario e culturale, cercare di portare alla luce quegli aspetti oscuri, quei meccanismi – spesso
determinanti - che bloccano la riforma stessa.
Ci sembra necessario esplorare come funzioni, nella realtà, questo rapporto tra società e
organizzazioni/apparati, attraverso le varie parti coinvolte nel processo: i servizi, gli operatori, i volontari, gli
enti locali, la magistratura, le associazioni dei detenuti, il bilancio…Si tratta quindi di individuare il contributo
esplicito e/o inconsapevole di tutti noi all’ingessatura della riforma, per prendere consapevolezza su come
procedere in senso concretamente positivo.
E’ questo sforzo che chiediamo al Convegno; sforzo che speriamo possa continuare anche in futuro con una
permanente riflessione critica su quanto avviene e su quanto facciamo nel nostro lavoro quotidiano.
Il cammino verso la riforma
di Giuseppe di Gennaro
La riforma penitenziaria, che ha preso avvio dalla legge n.354 del 26 luglio 1975, costituì un atto di rottura
con il passato, essa fu come uno spartiacque fra due culture, due modi diversi di intendere l’esecuzione
penitenziaria e la stessa funzione della giustizia penale.
1) Le iniziative legislative
L’emanazione della legge di riforma fu la conclusione di una vicenda quasi trentennale.
Le prime iniziative per una revisione della legislazione penitenziaria si manifestarono già
contemporaneamente al dibattito in sede costituente sui temi dell’ umanizzazione della pena e della
rieducazione dei condannati.
E’ del 1947, infatti, la decisione del Ministro Tupini di costituire una “Commissione di studio per la riforma del
regolamento carcerario” presieduta dall’ onorevole Umberto Merlin. Successivamente, il Parlamento istituì
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una “Commissione di indagine” presieduta dall’ onorevole Giovanni Persico che pubblicò la sua relazione il
22 dicembre 1950.
La questione continuò ad essere dibattuta in pubbliche riunioni e trattata dalla letteratura specialistica ma
solo nel 1957 il Governo, a mezzo del Ministro Guido Gonella, si impegnò in una iniziativa concreta
nominando una “ Commissione per la riforma del regolamento carcerario” presieduta dal Direttore Generale
degli Istituti di Prevenzione e di Pena Nicola Reale.
La commissione lavorò alacremente, in stretto contatto con ambienti accademici e professionali, ma non
giunse rapidamente a conclusioni definite per la divergenza ideologica su alcuni temi fondamentali.Per porre
termine agli indugi il Ministro nel 1959, con l’ intento di accelerare i tempi per la redazione di un testo
normativo, istituì una “Commissione ristretta” da lui stesso presieduta e diretta dallo stesso Nicola Reale.
La commissione ristretta raggiunse l’obbiettivo formulando un testo che venne presentato come disegno di
legge alla Camera dei Deputati il 19 luglio 1960.
La riforma proposta riguardava sia “l’ordinamento penitenziario” che la “prevenzione della delinquenza
minorile”. Questo disegno di legge decadde per fine della legislatura.
Si deve alla decisione dell’On.le Oronzo Reale, succeduto nella carica di Ministro della Giustizia, la
presentazione di un nuovo disegno al Senato il 12 gennaio 1966.
Il testo relativo è, con poche varianti, la riproduzione del precedente.
Neanche questo tentativo andò in porto e il 28 ottobre 1968 il Ministro Gonella, di nuovo in carica, presentò
al Senato un’altro disegno di legge che comprendeva soltanto la riforma dell’ordinamento penitenziario.
Il testo che venne approvato dal Senato il 21 gennaio 1971, decadde di fronte alla Camera per fine della
legislatura.
E’ ancora il Ministro Gonella che il 31 ottobre 1972 ripropone un disegno di legge al Senato.
Dal’72 al ’75 si susseguirono, in corso di legislatura, i Ministri Gonella, Zagari e Reale. Il Parlamento lavorò in
stretto contatto con la Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena e con ambienti scientifici e
professionali, anche internazionali, interessati alla materia.
Finalmente nel luglio ’75 la legge venne varata.
2) Gli ostacoli e il loro superamento
Questa è, in sintesi, la storia legislativa della gestazione della riforma, vi è però, un’altra storia parallela a
questa, meno conosciuta ma di grande importanza per comprendere quali sono state le cause che hanno
influito nel provocare un andamento così tortuoso e protratto della vicenda.
Coloro che, come tecnici, hanno partecipato all’andamento della riforma fin dall’inizio possono testimoniare
che le istanze innovatrici più convinte venivano proprio dall’interno dell’Amministrazione penitenziaria dove il
contatto diretto con la brutale realtà del carcere suscitava sentimenti di reazione e l’aspirazione ad una
umanizzazione della condizione detentiva.
Gli studiosi teorici, privi di questa esperienza pratica, pur propugnando un auspicato progresso, non
gridavano allo scandalo.
E’ difficile ammettere che, pur stando così le cose, persone illuminate, certo senza prave intenzioni,
resistessero alle istanze di riforma e non si rendessero conto che, così facendo, favorivano il permanere di
questo sconcio.
I riformisti (chiameremo così, per snellezza del discorso, coloro che militavano sul fronte del cambiamento)
dovettero battersi contro ostacoli resistenti, sostenuti dall’autorità e dal prestigio dei conservatori.
Il primo ostacolo, saldamente piantato all’inizio del percorso, lo si incontrò già quando si incominciò a parlare
di trattamento rieducativo. Il concetto che i riformatori avevano in mente era derivato dal settore minorile da
dove, all’interno dell’Amministrazione, il gruppo più avanzato di essi proveniva.
Il dettato del terzo comma dell’art.27 della Costituzione non faceva tentennare la ferma opposizione dei
conservatori.
Il capo fila di questa resistenza fu l’On.le Giuseppe Bettiol, professore di diritto penale, che aveva grande
influenza nel mondo cattolico e nella politica democristiana.
In vari scritti il Bettiol aveva manifestato la sua decisa contrarietà ad accettare l’idea di “trattamento
rieducativo”. Già nell’agosto del 1963 nel simposio di Bressanone, organizzato dall’Università di Padova, sul
tema “Il problema della rieducazione del condannato”aveva svolto la prolusione dal titolo “Il mito della
rieducazione” (Riv. It. Di Diritto e Prev. Penale 1963). In essa, quale campione della fede cattolica, affermava
che per il cristianesimo la trasfigurazione dell’uomo può essere fatta solo da Dio e ancora che: “l’uomo è
libero di fare il bene ma, è anche libero di orientarsi verso il male e di persistere nel male salvo subire le
conseguenze del male perpetrato. Nessuno può costringere l’uomo al bene perché in tal caso l’azione
perderebbe il suo più prezioso significato morale, nessuno è autorizzato a penetrare nell’intimo della
coscienza umana per cercare di imprimerle un dato orientamento” inoltre: “l’esperienza storica ci dice che i
risultati raggiunti laddove alla pena si è voluta dare una finalità sono stati assai scarsi o limitati. Non è con il
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diritto o con il criterio pedagogico, in intimo legame con un istituto giuridico coattivo quale la pena, che si
trasforma l’animo dell’uomo”.
Queste taglienti affermazioni parvero a molti una risposta, o meglio, un alto là ai fermenti in atto
nell’amministrazione penitenziaria laddove i progressisti già anni prima erano riusciti a convincere il Direttore
Generale Nicola Reale, magistrato civilista piuttosto ignaro dei problemi dell’esecuzione penale, a pubblicare
un elaborato dal titolo la “Rieducazione del condannato” (Rassegna Studi Penit. Fasc. IV luglio-agosto 1957)
che si apriva alle prospettive del trattamento rieducativo.
Chi ricorda le atmosfere culturali e politiche di allora può rendersi conto di quanto la posizione del Bettiol
abbia negativamente influito sulla disponibilità del Ministro Gonella a sostenere la riforma, dato che egli, non
giurista, apparteneva alla stessa area politica e religiosa del Bettiol.
Meno sensibile a questi motivi era il laico Oronzo Reale, che si alternò con Gonella alla guida del Ministero.
La sua tiepida riluttanza ad accettare e sostenere la riforma non aveva basi fedeistiche o politiche, era solo
un’espressione del suo carattere scettico. Egli non ne faceva mistero neppure nei colloqui con i suoi
collaboratori ministeriali, quando chiamava lo schema di legge di riforma: “il libro dei sogni” .
D’altra parte anche nel mondo criminologico laico vi era una corrente che non credeva nella validità del
trattamento rieducativo al punto da condividere l’espressione “nobile bugia” coniata da criminologi americani
per significare che il trattamento fornirebbe un elegante pretesto per negare i diritti fondamentali dell’uomo in
nome della “cura “ della delinquenza (G. di Gennaro v.Il trattamento Penitenziario “I Diritti dei detenuti e
trattamento penitenziario” N.Zanichelli ed. 1980).
Intanto la pressione che i riformisti esercitavano all’interno dell’Amministrazione aveva stimolato qualche
interessante novità.
Se si pensa che in una lezione tenuta all’Università di Roma il 31 gennaio 1955 l’allora Direttore Generale
degli Istituti di Prevenzione e Pena, Giuseppe Lattanzi, aveva affermato la “non urgenza di una riforma
penitenziaria” si può comprendere la soddisfazione dei riformisti nel constatare l’interesse dimostrato dal
nuovo Direttore Generale Reale a considerare, con intelligente curiosità, le loro posizioni avanzate. Essi,
incoraggiati dalla detta disponibilità proposero alcune iniziative, che al tempo apparivano ardite e rischiose,
ottenendo l’autorizzazione ad attuarle con la raccomandazione di usare la massima cautela.
Fu dunque nel 1956 che la prima assistente sociale cominciò ad operare nel carcere per adulti di Rebibbia
dove, contemporaneamente, venne creato l’Istituto Nazionale di Osservazione con il compito di approfondire
i metodi scientifici e applicativi per l’osservazione della personalità dei condannati.
Si intendeva, in tal modo, accreditare “l’osservazione della personalità” ai fini del trattamento rieducativo
rispondente ai bisogni individuali.
Anche su questa strada emersero, però, degli ostacoli che in parte trovavano sostegno nell’autorità del Prof.
Francesco Canelutti il quale, pure se aperto all’idea di una certa flessibilità dell’esecuzione, contestava la
possibilità di conoscere la personalità del delinquente.
L’intenso lavoro che, nonostante le riserve di alcuni dottrinari, si svolse a Rebibbia fu, a partire dal 1959,
affiancato dalla rivista “Quaderni di Criminologia Clinica” che acquistò, in breve tempo, grande autorevolezza
anche internazionale. La validità del lavoro svolto nell’Istituto di Osservazione fu anche lusinghieramente
confermata dalla assegnazione, per periodi di stage, di giovani criminologi stranieri provenienti perfino dagli
Stati Uniti d’America e dal Giappone.
L’esperienza del carcere che negli anni della gestazione della riforma era vissuta con attenzione critica dai
riformatori, aveva convinto che il sistema vigente non era in grado di dare risposte differenziate secondo la
tipologia di autore.
La legge penale dava quasi esclusiva importanza al tipo di reato commesso. Il riferimento alle caratteristiche
personali, fatto dall’art. 133 del codice penale, scalfiva appena questa impostazione. Comunque, la
mancanza di differenziazione e distinzione da caso a caso si coglieva specialmente dal sistema delle pene
che si risolveva in via immediata, o mediatamente come nel caso di pene pecuniarie, esclusivamente nella
privazione della libertà.
I riformisti, che attraverso la partecipazione alle attività dell’O.N.U. e del Consiglio d’Europa nel settore della
giustizia penale erano venuti direttamente a contatto con i sistemi di Paesi avanzati, si erano fermamente
persuasi che anche l’Italia dovesse introdurre nella gestione della lotta alla criminalità la possibilità di fare
ricorso ad un ventaglio di misure applicabili.
Si cominciò così a parlare di misure alternative alla reclusione . Su questo tema non fu facile aprire una
breccia nella resistenza di molti,fra cui anche illuminati accademici.
Come è noto le misure penali alternative introdotte in alcuni sistemi stranieri fin dai primi decenni del secolo
XIX, e successivamente largamente diffusesi in altri, risalivano al “probation system” degli Stati Uniti e
dell’Inghilterra.
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La copiosa letteratura al riguardo, che sottolineava la validità del sistema, era quasi del tutto ignorata in Italia
e non faceva parte del materiale di studio dei corsi universitari. L’opposizione degli ambienti accademici e
professionali era certo in larga parte dovuta all’ignoranza della materia.
I riformisti pensavano che fosse, perciò, necessario iniziare la battaglia proprio sul fronte dell’informazione.
Si colse, così, l’occasione di convegni nazionali o internazionali, a cui i giuristi italiani partecipavano, per
trattare il tema e fare opera di prose-litismo.
La iniziale occasione fu offerta dalla “Prima giornata italo-francese di difesa sociale” organizzata dal Centro
Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale nell’ottobre del 1969 a Vicenza dove il tema del probation fu
centrale.
La tendenza iniziale era quella di inserire le misure alternative nel codice penale, mettendole a disposizione
del giudice della cognizione, affinché fosse possibile, in considerazione della ridotta gravità del reato e della
personalità dell’autore, applicarle in sede di giudizio.
Il dibattito che si sviluppò sull’argomento convinse che quella strada era, all’epoca, decisamente sbarrata.
Fra gli argomenti addotti dalla resistenza almeno uno sembrava ben fondato. Per applicare la misura
alternativa sarebbe occorsa una conoscenza adeguata della personalità dell’imputato, delle vicende e degli
ambienti della sua vita. Ciò non era possibile secondo la procedura penale del tempo. Sarebbe stato
necessario un processo bifasico in cui la distinzione, anche temporale, fra la fase dell’accertamento della
responsabilità e quella della decisione sulla misura applicabile avrebbe consentito di fornire al giudice i dati
necessari.
Si rivolse, allora, l’attenzione all’ordinamento penitenziario. In questa prospettiva, ovviamente, occorreva
muoversi verso una profonda innovazione della fase dell’esecuzione penitenziaria.
Si trattava, in sostanza, di concepire un nuovo sistema che consentisse una modificazione del giudicato nel
corso dell’esecuzione. Di qui il rafforzamento dell’idea della giurisdizionalizzazione della fase esecutiva con
la introduzione di uno speciale organo giudiziario.
La figura del giudice di sorveglianza, già operante nel nostro sistema, fu l’ubi costistam.
Per differenziare la nuova figura di giudice da quella precedente si pensò all’espressione “magistrato di
sorveglianza”.
Nel processo di continua revisione dei testi che si preparavano per giungere alla riforma fu configurato,
dapprima, un giudice monocratico a cui venivano attribuite le delicate funzioni incidenti sulla struttura del
giudicato fra le quali quelle che trasformavano la pena detentiva in misura di trattamento in semilibertà o
addirittura in libertà.
Si decise successivamente di distribuire le funzioni di sorveglianza fra un giudice monocratico e un tribunale.
Anche il percorso verso l’istituto della “liberazione anticipata” non fu privo di ostacoli. Alcuni conservatori
trovavano difficoltà ad ammettere nel contesto del diritto penale un risvolto di “diritto premiale” che, oltre ad
apparire un segno di contraddizione, ledeva anch’esso il principio della immutabilità del giudicato.
3) La successione degli schemi di legge
Una terza linea della storia della gestazione della riforma, che è speculare rispetto alla storia degli ostacoli e
del loro superamento, attraversa i testi dei vari disegni di legge che sono stati presentati dal 1960 al 1972.
La comparazione fra le loro disposizioni e, infine, con quelle definitiva-mente approvate nel luglio 1975
documenta testualmente il difficile cammino della riforma e la sua progressiva apertura verso le concezioni
del movimento riformista.
Con riferimento al primo disegno di legge del luglio 1960 ricordo che il Ministro Gonella a conclusione del
dibattito sul Bilancio del 1960, affermò che in esso “si è tenuto conto dell’evoluzione delle dottrine giuridiche
e sociali, dei progressi delle tecniche psicologiche, sociologiche e criminologiche…. Tutto ciò nel quadro di
un movimento internazionale…..” ed elogiò il lavoro dell’Istituto di Osservazione di Rebibbia e l’impegno
scientifico dell’Amministrazione testimoniato, in particolare, dalla pubblicazione dei Quaderni di Criminologia
Clinica. Sottolineò fra le innovazioni che il disegno di legge intendeva apportare “il trattamento individuale e
di gruppo”, “l’osservazione scientifica della personalità”, “la specializzazione degli istituti in rapporto alle
esigenze particolari del trattamento”, “la concessione delle licenze ai reclusi meritevoli”, “il regime di
semilibertà per alcune categorie di condannati”.
Nella proposta normativa si attuò, oltre a quanto menzionato dal Ministro, una prima definizione dell’organo e
delle competenze del “ magistrato di sorveglianza” e si istituì il “servizio sociale” incaricato di svolgere
indagini dirette a meglio conoscere la personalità e le esigenze dei condannati.
Di rilievo è anche l’apertura verso la collaborazione delle società civile a mezzo dell’ammissione negli istituti
di assistenti volontari.
A parte le innovazioni sostanziali che, seppure ancora contenute e prudenti, dimostrano l’ingresso in una
nuova cultura rispetto al Regolamento del 1931, di speciale rilievo è la decisione di disciplinare la materia
con la forma di legge primaria a dimostrazione che ne fu valutata attentamente la natura la quale, per la sua
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rilevanza penalistica, deve rispettare il principio della riserva di legge. Il ricorso alla forma di legge manifesta
anche una iniziale consapevolezza che molti degli interessi dei detenuti si configurano come diritti soggettivi.
Il successivo disegno di legge del 12 gennaio 1966 ritenuto dai più e dallo stesso Ministro proponente una
ripetizione di quello del 19 luglio 1960 introduce, invece, alcune disposizioni aggiuntive molto importanti, che
anticipano il salto di qualità che sarà poi effettuato nel 1975.
Un’innovazione di grande rilievo è l’istituto della “liberazione anticipata” che ha contribuito a cambiare
decisamente il clima delle carceri e i rapporti fra detenuti e personale responsabile della loro custodia.
L’esperienza maturata nel servizio carcerario e la ampliata conoscenza, anche attraverso il Consiglio
d’Europa, di quanto avveniva in sistemi penitenziari di altri Paesi europei aveva convinto i riformisti che era
necessario e possibile trovare un rimedio adeguato per prevenire le rivolte e per rasserenare il clima allora
rovente delle carceri. Ciò appariva oltretutto indispensabile se si voleva veramente trasferire nella
dimensione operativa i precetti costituzionali dell’umanizzazione della pena e della rieducazione del
condannato.
Il rimedio fu individuato, appunto, nella fruizione della concessione di benefici che suscitavano un
grandissimo interesse da parte dei condannati. Il primo e più rilevante, è appunto la prospettiva di poter
lasciare il carcere prima di quanto stabilito con la condanna alla reclusione attraverso un guadagno che il
detenuto poteva procurarsi con il suo comportamento. Veniva, in sostanza, offerta ai soggetti la possibilità di
operare, con impegno personale, per migliorare il loro destino.
Al suo apparire in questo disegno di legge, la “liberazione anticipata” mostra la grande cautela dell’istanza
riformatrice. Era certo facile prevedere che un simile istituto avrebbe rinvigorito le critiche dei conservatori
che vedevano in ogni tentativo di progresso una non giustificata indulgenza nei confronti dei criminali.
La prudenza consigliò di dare un basso profilo all’innovazione che fu limitata ad “un abbuono di pena fino ad
un massimo di 10 giorni per ciascun semestre di pena detentiva scontata”.
Il premio si guadagnava con il distinguersi “per aver dato prova evidente di attiva partecipazione all’opera
rieducativa”.
Si noti l’incidenza nel contesto dell’espressioni “evidenti” e “attiva” che sarebbero pleonastiche se non
fossero state suggerite dall’intenzione di tranquillizzare gli oppositori con il sottolineare la intensità delle
condizioni richieste.
La “liberazione anticipata” comportava un impegno comportamentale per soli sei mesi in vista
dell’acquisizione di un beneficio immediato. La capacità sperimentata di resistere per sei mesi avrebbe
favorito l’impegno a continuare per il successivo semestre e, così via, fino ad acquisire l’abitudine al
comportamento impostosi.
A completamento del sistema fu introdotto anche l’istituto della “remissione del debito” per meglio affermare
l’apertura verso il diritto premiale nel sistema penitenziario.
L’ulteriore disegno di legge del ’68, epurato di tutte le norme relative ai minorenni, è l’esatta riproduzione del
precedente testo. Il Ministro si augurava, nel sottoporlo all’esame del Parlamento, che lo snellimento che ne
è derivato potesse “agevolare l’iter parlamentare” come, purtroppo, non è stato.
Nell’esplorazione della lunga gestazione della riforma la relazione che accompagna questo disegno di legge
riveste una grande importanza perché essa, nel dar conto dei motivi che animavano la riforma e
nell’illustrarne le norme, fornisce un quadro dotto ed ampio, seppur non esauriente, dei motivi e delle finalità
che l’avevano ispirata con richiamo agli avanzamenti nelle discipline socio-criminologiche e penologiche e
agli orientamenti delle organizzazioni internazionali interessate al rispetto dei diritti umani nelle situazioni di
marginalità.
Nella relazione si legge che i motivi ispiratori discendono, anzitutto, dal rispetto del precetto contenuto
nell’articolo 27 della Costituzione “rafforzato dal maturarsi della coscienza democratica nel clima di un
rinnovato rapporto fra l’autorità dello Stato e il cittadino”.
Si riconosce, poi, la influenza esercitata dal grande sviluppo avuto dalle “scienze penalistiche, biologiche,
psicologiche, psichiatriche, sociologiche e criminologiche “ negli anni del dopo guerra e cioè in tutto il
percorso fatto fino ad allora dai tentativi di riforma penitenziaria.
Altro motivo enunciato è “il rinnovato interesse verso l’autore del reato “ riguardato non solo in
considerazione del suo passato come soggetto responsabile da punire ma anche nella prospettiva del suo
futuro come persona da recuperare all’ordinato vivere sociale aiutandolo a risolvere i suoi problemi di
adattamento.
Infine si sottolineano le nuove conoscenze in tema di osservazione e di trattamento.
Con felice intuizione si auspica, anche, un effetto, che si è poi avverato, e cioè che la legislazione proposta,
oltre ad essere la risultante di un processo anteatto, “divenga essa stessa portatrice di idee forza atte a
determinare una realtà profondamente rinnovata nelle premesse, nelle esigenze e nei fini”.
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Molto interessante è il richiamo ai numerosi incontri di studio e alla incessante attività dell’ONU incentrati sui
temi penitenziari e ai documenti da essi prodotti i quali tutti indicano le mete che la prospettata riforma si
propone di raggiungere.
Nella nuova concezione della pena, che sta alla base di tutto il movimento e che quindi è l’idea -forza
dell’impegno riformista, si definisce la sanzione penale privativa della libertà come una misura necessaria di
reazione a forme elevate di criminalità in cui l’afflizione deve esaurirsi nel solo dato dell’isolamento dalla
società “al quale inevitabilmente si aggiungono le restrizioni imposte dalle particolari esigenze di ordine della
comunità penitenziaria”.
Va bandita, quindi, “ogni superflua privazione” affinché si mantenga “il giusto equilibrio fra le esigenze della
difesa sociale ed il preminente dovere del rispetto delle ragioni dell’umanità”.
Si chiude con questo disegno di legge la sequenza dei tentativi infruttuosi.
Come si è avanti detto il 31 ottobre 1972 il Ministro Gonella presentò altro disegno di legge al Senato. Nel
corso della vicenda parlamentare di questo testo, che sfocerà, poi nella legge del ’75, la riforma compie un
deciso balzo in avanti, un salto di qualità, rompendo gli ultimi argini di resistenza. Sarebbe molto interessante
percorrere in tutto il loro svolgimento i lavori parlamentari per individuare le posizioni degli schieramenti
politici e i portatori delle ultime qualificanti novità. E’ doveroso ricordare che dietro al lavoro parlamentare
operava la consulenza, e direi l’insistenza, degli esperti dell’Amministrazione che avevano in mente, fin
dall’origine, le mete finali. Corre anche l’obbligo di non dimenticare che dal luglio 1973 al novembre 1974 fu
Ministro della Giustizia Mario Zagari e cioè proprio nel periodo in cui il Parlamento lavorava intensamente
sulla materia.
Zagari era uomo aperto e sensibile che immediatamente condivise le più avanzate istanze e instaurò
continui contatti di lavoro con i propugnatori della riforma operanti nel suo Ministero sollecitandone la
collaborazione e il consiglio.
Un esame dettagliato e accurato degli atti parlamentari del tempo varrebbe a ripercorrere la cronaca
dell’ultimo percorso della riforma. In assenza di ciò, e nella speranza che in futuro qualche studioso ci si
voglia dedicare, si può condurre una analisi, comunque interessante, raffrontando i testi dei disegni di legge
’68 e ’72 con quello della legge emanata nel ’75. Si può, così, rilevare la decisiva importanza delle
innovazioni apportate dal Parlamento sui testi proposti dal Governo.
Il Ministro Gonella nel presentare, di concerto con il Ministro del Tesoro Malagodi, il disegno di legge del ’72
dichiarava che “il provvedimento che il Governo si onora di sottoporre all’esame del Parlamento riproduce il
testo di quello presentato nella decorsa legislatura, così come modificato e approvato dal Senato….” . “Il
provvedimento viene riproposto nello stesso testo salvo i necessari aggiustamenti agli anni di riferimento
della spesa alla indicazione dei mezzi di copertura” .
Dalla comparazione fra la versione del disegno di legge del’68 e quello del ’72 è, così, possibile rilevare le
modifiche che il Senato aveva apportato sul primo.
Il regime di semilibertà, a cui nel ‘68 era dedicato l’art. 63 viene sviluppato negli articoli 64 e 65 con una
nuova diversa configurazione: nella nuova versione la semilibertà si scinde in due istituti, l’uno
completamente nuovo, applicabile direttamente ai condannati a pene inferiori ai due anni, l’altro, applicabile
ai condannati a pene superiori che abbiano espiato almeno metà della pena in detenzione.
La liberazione anticipata, che nel testo precedente consisteva “in un abbuono di pena sino ad un massimo di
dieci giorni per ciascun semestre di pena detentiva applicata” viene estesa dal Senato ad un massimo di
venti giorni e scompaiono nella seconda versione le funzioni di vigilanza del procuratore generale e del
procuratore della Repubblica ritenendosi impropria la commistione fra funzioni giudiziarie e funzioni di
vigilanza dell’autorità inquirente e apparendo sufficienti le funzioni attribuite al magistrato di sorveglianza.
Ma è dalla comparazione fra il testo presentato dal Ministro Gonella nel ’72 e quello che venne
definitivamente approvato dal Parlamento che emergono i decisi avanzamenti per dotare il nostro Paese di
una legge penitenziaria non più timorosa di aprirsi al nuovo.
Nel testo finale viene usata per la prima volta l’espressione “ rispetto della dignità della persona” e si
chiarisce che “il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente improntato al principio che essi non
sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva” e si specifica che il trattamento deve avvalersi anche
dei “contatti con l’ambiente esterno”.
Quest’ultima statuizione va letta come la risultante di un deciso cambiamento nella cultura penitenziaria. Il
carcere non va più visto come un luogo separato dalla società ed estraneo ad essa ma come doveroso e
necessario servizio sociale a cui la comunità deve essere interessata e deve collaborare. Ciò non solo
agevola la umanizzazione della pena e il rispetto della personalità dei condannati, ma vale anche a ridurre il
processo di stigmatizzazione che relega gli ospiti del carcere alla loro marginalizzazione sociale anche dopo
le dimissioni.
Alla previsione dei “contatti con l’ambiente esterno” fa eco il testo dell’art.17 che tratta della partecipazione
della comunità esterna all’ambiente rieducativo.
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Queste norme, fortemente volute dall’interno dell’Amministrazione di allora, fanno giustizia dalle critiche che
sono state più volte espresse circa la mancanza di apertura del nuovo ordinamento alla società libera
dovuta all’arretratezza culturale dell’Amministrazione che si occupava della riforma.
Di una certa significati-vità come dimostrazione di una volontà di ridurre la distanza fra la società libera e il
carcere sono anche le previsioni in tema di vestiario e corredo, di alimentazione e di organizzazione delle
attività di lavoro, istruzione e ricreazione.
La novella formulazione della materia attinente ai colloqui e alla corrispondenza è anch’essa riflesso
dell’intento di favorire al massimo la vicinanza fra l’ambiente chiuso e la società libera.
L’affermazione che il trattamento deve “assicurare il rispetto della dignità della persona “assume nella legge
del “75 un significato pregnante che, a ben guardare, compendia il significato e la portata della riforma.
Tutte le disposizioni dell’ordinamento fanno puntuale applicazione di questo fondamentale principio.
Il detenuto non è più considerato come un soggetto passivo alla mercè dell’autorità che lo custodisce, la
legge lo promuove a titolare di precisi diritti e soggetto attivo responsabile delle sue decisioni. Ciò esprime
molto bene, in particolare, l’ultimo comma dell’art.13 il quale dispone che “deve essere favorita la
collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e di trattamento”.
La preoccupazione di Bettiol che sul condannato si potessero esercitare dall’esterno influenze che lo
condizionano viene tranquillamente superata.
Ma dove l’opera del Parlamento si è rivelata decisiva nell’aprire il nostro sistema a soluzioni tenacemente
rifiutate dai tradizionalisti, incapaci di superare inveterate concezioni trasmesse da una cultura arcaica, è il
settore delle misure alternative alla reclusione.
Il Ministro Gonella non era stato disposto ad andare oltre la concessione della semilibertà a chi aveva già
espiato buona parte della pena e solo dopo l’elaborazione del Senato aveva aderito ad estendere la detta
misura come sanzione non succedanea ai condannati a pene inferiori ai due anni.
La detenzione rimaneva, in ogni caso, elemento centrale del trattamento.
Il Capo VI della legge, dedicato alle “misure alternative”, è già nella sua intitolazione una dichiarazione non
ambigua dell’apertura al nuovo. Là dove la legge penale sostanziale non aveva avuto il coraggio di aprirsi, lo
fa l’ordinamento penitenziario.
I ripetuti richiami al “probation system” e alle misure analoghe, già in uso da decenni in Paesi democratici
moderni, avevano trovato, finalmente accoglimento.
L’affidamento in prova al servizio sociale fa così ingresso nel nostro sistema. E’ superfluo soffermarsi sulla
validità di questa misura che, fra l’altro, ha alleggerito la popolazione carceraria di circa il cinquanta per
cento, riducendo sofferenze individuali e spese della collettività.
L’affidamento in prova è senza dubbio fra le innovazioni di maggior portata nell’ordinamento penitenziario
che ha avuto, poi, influenza sull’intero sistema della giustizia penale.
Il Parlamento ha finito per accogliere un’altra modifica di straordinario rilievo e sotto il profilo istituzionale e
proces-suale.
Si è già visto come, nella prospettiva di potenziare il ruolo del giudice di sorveglianza si fosse già pensato,
oltre che ad ampliarne l’ambito delle competenze, a mutarne la denominazione in “magistrato di
sorveglianza”. Mentre andava avanti l’iter della riforma, nella nostra società era cresciuta la preoccupazione
non solo per il dilagare della criminalità organizzata comune ma, anche e soprattutto, per il cruento attacco
agli uomini dello Stato, da parte di gruppi rivoluzionari con pretese di eversione del sistema democratico.
La reazione delle forze dell’ordine e della magistratura, pur non essendo riuscita a debellare il fenomeno,
aveva, comunque, ottenuto importanti successi riuscendo ad assicurare alla giustizia e a detenere numerosi
esponenti delle organizzazioni criminali.
Chi operava nel campo in quel periodo ricorda certamente le conturbanti pressioni a cui i responsabili delle
decisioni giudiziarie erano subdolamente sottoposti da parte degli ambienti criminali interessati.
Si trattava di gravi minacce, che le circostanze del tempo facevano apparire molto concrete.
Si era propensi a pensare che i magistrati che ne erano oggetto potessero, per la loro etica professionale,
resistere, disposti anche a pagare con la vita, come tanti loro colleghi avevano fatto, allorché si trattava di
minacce rivolte alla loro persona. Ma la spietata strategia del crimine organizzato aveva sperimentato la
grande efficacia di rivolgere le minacce verso i figli e i più cari familiari.
Il magistrato di sorveglianza, a cui si era progettato di conferire la competenza per decisioni che si
risolvevano nella uscita dal carcere degli interessati, sarebbe stato un facile obiettivo di insostenibili
pressioni. A lui non si poteva chiedere un eroismo che arrivasse al punto di resistere anche quando era in
gioco la vita dei familiari.
L’idea di articolare le funzioni della magistratura di sorveglianza distribuendole fra un giudice monocratico e
un collegio, al quale ultimo erano attribuite le competenze attinenti alla modificazione delle misure detentive,
fu ispirata dall’intento di dare una adeguata risposta a questo problema.
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La maggiore capacità di resistenza alle illecite pressioni da parte di un collegio rispetto a quella del singolo
non richiede dimostrazioni. Di fronte alla prospettiva di questa capacità i criminali sarebbero stati anche
dissuasi dal tentare di esercitare intimidazioni.
La soluzione adottata, d’altra parte, rispondeva anche ad un assetto coerente con una logica sistematica
secondo cui la competenza per gli affari di più grande rilievo sono attribuiti ad un organo collegiale lasciando
al giudice monocratico quelli di minore importanza.
4) Conclusione
Oggi, a distanza di trenta anni dalla emanazione della legge di riforma si può serenamente valutarne la
portata.
Nel decorso degli anni essa ha subito vari emendamenti, anche di senso opposto, nei quali si riconosce il
segno dei tempi e delle circostanze che li hanno suggeriti.
Le modifiche apportate non hanno, però, scalfito l’impianto originario del testo del ’75.
I valori e le finalità che ne costituirono la trama sono rimasti indenni a dimostrazione che, seppure il percorso
fu lungo, le scelte del legislatore furono giuste.
Esse riuscirono a combinare l’esigenza della difesa della società con il rispetto della personalità dei
condannati aprendo il sistema penitenziario agli imperativi della civiltà e della riconquistata democrazia del
popolo italiano.
I miei ricordi
di Alessandro Margara
La storia della attuazione della riforma penitenziaria cominciò, per così dire, in frenata. Il testo della legge era
stato, in parti molto rilevanti, il frutto, maturato alla Camera, della revisione, in senso restrittivo e di
particolare cautela, del testo elaborato dal Senato, alla fine del 1973, dopo un lungo lavoro. Eppure, con una
sentenza del 1974, la Corte Costituzionale aveva riconosciuto il diritto del condannato alla verifica, durante la
esecuzione della pena, del livello rieducativo raggiunto e la conseguente possibilità di ottenere la liberazione
condizionale, unica misura alternativa al carcere allora esistente. Era un invito ad avere coraggio.
Ma la Riforma, invece, nacque con più timori che fiducia: il che non è bene per una riforma. I timori
riguardavano il disordine organizzativo del carcere, la risonanza, più che la eccezionalità, delle
manifestazioni delittuose nel paese. Mancava la fiducia che la riforma potesse essere utile anche per
superare quei timori. Eppure, era partita la esperienza dei brevi permessi di uscita ai detenuti e già questa
aveva migliorato il clima del carcere. Alla fine del 1976, dopo le proteste dei detenuti contro le restrizioni
eccessive che erano state apportate alle misure alternative, venne operato anche un modesto allargamento
di queste: fu la legge n. 1 del 1977.
Ma si trattò dell’ultimo fuoco. Il clima era diventato sempre più pesante, la critica di una parte della politica e
delle forze dell’ordine in particolare ai permessi ai detenuti metteva capo ad un intervento sistematico di
“legge e ordine” per il carcere: ovviamente non la legge della Costituzione e quella di riforma appena
approvata, ma la negazione di queste e dello spazio per muoversi ed affermarsi. Il luglio 1977 congelò la
riforma e ingessò il carcere in regole e prassi che lo segnano ancora oggi. In contemporanea, furono create
le carceri di massima sicurezza; la vita dei detenuti venne chiusa in cella; una legge eliminò i permessi di
uscita ai detenuti, riducendoli a casi eccezionali e, imponendo, in pratica, la scorta; le forze dell’ordine
assunsero il controllo esterno delle carceri, con ricadute sul controllo interno, particolarmente in quelle di
massima sicurezza.
Ovviamente il carcere non migliorò. Non migliorò, si chiarisce, oggettivamente: fu sempre più inumano, sia
dalla parte dei carcerati che da quella dei carcerieri. Furono gli anni delle peggiori nequizie di sempre e
particolarmente nelle carceri di massima sicurezza, che, pure, avrebbero dovuto assicurare un controllo
pieno su quanto accadeva. Furono gli anni di piombo. Non sarebbero, però, durati all’infinito. E, se vogliamo,
un superamento di quegli anni, in uno degli aspetti più critici e difficili, quello della lotta armata, cioè, fu
vissuto proprio in carcere, con la dissociazione dei detenuti che ne erano stati protagonisti e la creazione
delle aree omogenee, che segnò la fine effettiva della belligeranza, dentro e fuori dal carcere, e la
sostituzione alla stessa di una proiezione verso azioni di partecipazione sociale. E anche questo processo si
incanalò in un processo più largo che si era già avviato e che possiamo chiamare la riforma della riforma. Si
tratta della legge Gozzini.
Nell’ottobre 86 questa legge chiude il primo decennio di vigenza della riforma all’insegna di una rivisitazione
e di un rilancio di questa. Non occorre, credo, un’analisi: si possono ricordare i permessi premio e la
ammissibilità alle misure alternative per tutti, con tempi ovviamente diversi; ma nella legge c’erano molte
altre cose. Gozzini diceva però una cosa: il vino nuovo fu versato negli otri vecchi. Un nuovo modello di
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carcere, che era quello della Riforma del 75 e che veniva rilanciato con il coraggio e la speranza che allora
erano mancate, veniva concesso alla organizzazione penitenziaria vecchia, quella organizzazione, fra l’altro,
che era reduce dall’irrigidimento degli anni di piombo. Risentiamo ancora oggi quel limite tanto grave.
E nel frattempo altre tappe maturavano. Anni 91 e 92: la scelta del terrore e, comunque, di un livello alto di
scontro della delinquenza organizzata, provocò una risposta dura da parte dello Stato, che scelse la politica
della forza nel carcere, in tutto il carcere. Gli spazi delle misure alternative e dei permessi premio si
richiudevano o si restringevano notevolmente: fu particolarmente pesante il decreto legge del giugno 92,
convertito in legge nell’agosto. Ma è subito dopo quegli anni che si verifica un fenomeno singolare. Fuori
dall’ambito delle restrizioni relative alla delinquenza organizzata, comincia un aumento sempre più netto
delle misure alternative e, in particolare, della più ampia fra le stesse: l’affidamento in prova al servizio
sociale. Le ragioni sono rappresentate da piccole modifiche legislative e giurisprudenziali, mancava un
disegno consapevole: il carcere, in qualche modo si difendeva dalla pressione che si esercitava su di esso e
la scaricava attraverso le misure alternative. Era una sorta di astuzia della ragione, ammesso che la ragione
abbia parte in queste faccende. Comunque la legge Simeone, nel 1998, regolò e confermò questo indirizzo
e, salva qualche battuta di arresto, le misure alternative continuarono ad aumentare.
Un altro fatto importante, però, è che aumentavano anche i detenuti, aumentava tutta l’area della penalità.
Siamo al decennio finale della storia, che proprio in questi giorni si rende sempre più evidente: il carcere è
ingestibile, la sua riforma sembra sempre più lontana. Provo ad analizzare la situazione nel suo nodo di
fondo. Nel 1990 c’erano circa 30.000 detenuti e circa 6.300 misure alternative: in tutto, l’area della
esecuzione penale comprendeva 36.300 persone. Oggi: i detenuti sono 59.000, le misure alternative hanno
superato nettamente le 50.000; ma non basta: per effetto della legge Simeone, in attesa di decisione sulla
ammissione o meno alle misure alternative, ci sono circa 70.000 esecuzioni penali sospese:
complessivamente l’area della esecuzione penale o della penalità interessa 180.000 persone: il quadruplo di
quelle di 15 anni fa.
E’ chiaro quello che è successo. Due terzi dei detenuti sono tossici (27%), stranieri (30%) e altri poveracci di
vario genere: fanno parte, cioè, dell’area della detenzione sociale, un’area, cioè, di persone che non hanno
avuto risposte sociali ai loro problemi. Che dovevano essere sociali, e per le quali l’unica risposte buona a
tutti gli usi è stata, invece, il carcere: una risposta negativa che non affronta, né si interessa di queste
persone, ma semplicemente le esclude e le isola. E anche per i 50.000 delle misure alternative e i 70.000 in
attesa di esecuzione il discorso non è diverso, anzi, verosimilmente più accentuato perché queste due aree
riguardano pene minori e, quindi, una più accentuata presenza della clientela sociale indicata. L’area della
penalità è diventata enorme perché è cambiata la funzione della pena e prima ancora quella di ciò che è
reato: si considera tale non più l’aggressione ai beni e agli interessi più significativi in una società, ma
semplicemente il disturbo della quiete sociale, un disturbo che è l’espressione di situazioni di disagio sociale.
Si è sintetizzato questo percorso in una formula: dallo stato sociale allo stato penale. La pena diventa la
risposta principale dello Stato a problemi che sono sociali e che lo Stato stesso rinuncia ad affrontare.
E allora cosa sta succedendo in questo compleanno della Riforma penitenziaria? Si potrebbe ben dire che le
hanno fatto la festa. Per salvarla non c’è che da invertire la rotta: ritornare dal penale al sociale. E ciò può
essere fatto con alcuni interventi essenziali:
la riduzione dell’area della penalità, soprattutto con la revisione delle legislazioni in materia di
tossicodipendenti e stranieri;
la scarcerazione più larga possibile, intanto, dell’area della detenzione sociale attraverso interventi collettivi
sui gruppi che la compongono, servendosi delle misure alternative e del lavoro all’esterno;
il ritorno a dimensioni fisiologiche del carcere nelle quali la riforma possa trovare il proprio spazio, oggi
smarrito;
il ritorno a risposte e politiche sociali in luogo di quelle soltanto repressive e negative che hanno preso la
mano.
Si tratta, insomma, di ritrovare il bandolo della matassa, che sembra esserci completamente sfuggito.
La riforma e la sua attuazione
di Giuseppe La Greca
1. Premessa.
La legge penitenziaria del 1975 ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico novità di grande rilievo, teorico
e pratico, incidendo in profondità sulla disciplina esecutiva delle misure limitative della libertà personale e
concorrendo altresì, in modo determinante, ad avviare una dinamica evolutiva che direttamente e
indirettamente ha prodotto rilevanti conseguenze sul sistema penale nel suo complesso.
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Le innovazioni sono anzitutto di carattere generale e attengono ad aspetti fondamentali della disciplina. Una
novità riguarda la natura dello strumento normativo mediante il quale fu attuata la riforma: per la prima volta
nel nostro Paese, infatti, la normativa riguardante l’organizzazione penitenziaria e il trattamento dei detenuti
nel loro complesso venne disposta con legge, quindi non più come nel passato mediante regolamenti, che
prendevano la forma di regio decreto ma erano predisposti dallo stesso ministero che doveva applicarli.
Questo mutamento, già soltanto per il livello della fonte normativa, ha delimitato e reso più vincolato il potere
discrezionale dell’amministrazione.
Di una seconda novità di portata generale si può avere agevole riscontro mediante una citazione. Nel 1931
venne emanato un nuovo regolamento penitenziario, restato poi in vigore fino al 1975. Nel presentarlo sulla
Rivista di diritto penitenziario, l’allora direttore generale, Giovanni Novelli, sottolineava che “ad un
regolamento che sostanzialmente conteneva solo un complesso di norme della condotta dei detenuti segue
ora un regolamento nel quale trova completa disciplina l’esecuzione delle pene detentive e delle misure di
sicurezza detentive”. Quindi la nuova disciplina aggiungeva alle regole di condotta per i detenuti, prima già
contemplate, le regole di organizzazione e di funzionamento degli istituti penitenziari. Il testo del 1931
ampliava, dunque, la propria area; tuttavia anche nel nuova regolamento fl detenuto entrava in
considerazione soltanto come oggetto della disciplina della condotta e come destinatario di attività
amministrative.
Nell’ordinamento del 1975, per contro, il detenuto è collocato a1 centro della disciplina sin dall’art. í, che
definisce il contenuto e i limiti del trattamento penitenziario: umanità, rispetto della dignità della persona,
imparzialità, esclusione delle discriminazioni, restrizioni limitate alle esigenze di ordine e di disciplina,
indicazione dei detenuti con il loro nome, proiezione verso il reinserimento sociale e individualizzazione del
trattamento sono enun-ciazioni che divengono i cardini della nuova disciplina. Per effetto di questa
impostazione, il detenuto per la prima volta. acquista oltre tutto una specifica soggettività. giuridica, che è
così sostanziale come formale. E’ sostanziale, in quanto egli viene identificato e definito quale titolare di diritti
e di aspettative; ed è formale, in quanto egli viene legittimato all’agire giuridico, almeno in relazione a
determinate questioni, - proprio in riferimento alla condizione di ristretto: “i detenuti e gli internati - dispone
l’art. 4 ord. penit. - esercitano personalmente i diritti loro derivanti dalla presente legge anche se si trovano in
stato di interdizione legale”.
Emerge dunque un ulteriore effetto permanente della legge penitenziaria. Pur entro determinati limiti e pur
con i mutamenti che si sono in seguito avuti nella disciplina relativa alla condizione dei detenuti, e soprattutto
di alcune categorie relativa stessi, è rimasta. ormai acquisita per la persona ristretta l’attitudine alla
soggettività giuridica e alla tutela giurisdizionale di alcuni diritti e di alcune aspettative, attitudine che ha
suggerito o imposto - allorché, come si vedrà, sono state introdotte previsioni restrittive - precisi limiti
sostanziali e comunque mezzi di tutela giurisdizionale.
Il cambiamento, al quale siamo abituati oggi a guardare come cosa scontata, è stato i1 frutto di una
evoluzione concettuale considerevole, specialmente perché é avvenuto proprio con riferimento al c.d.
“rapporto punitivo”, del quale in passato era sottolineato in modo dominante, e condizionante un dato,
peraltro tuttora inevitabilmente esistente: lo stato di soggezione della persona ad un comando pubblico che
comporta restrizioni della sfera giuridica individuale.
2. Trattamento penitenziario e trattamento rieducativo.
Non a caso dunque l’ordinamento si apre con un titolo dedicato tutto a1 trattamento penitenziario, nel quale
con impegnative enunciazioni sono definiti i diritti del detenuto e la posizione complessiva dello stesso nella
esecuzione delle misure di custodia cautelare, della pena e delle misure di sicurezza, così come nei confronti
dell’amministrazione penitenziaria.
Si tratta di un complesso di norme che alla rilettura suscitano valutazioni di vario segno. Pur a distanza di un
trentennio, una impressione di attualità. e di perdurante condivisibilità destano i principi direttivi sulla
condizione della persona detenuta. Ciò vale anzitutto per la definizione data. per un verso ai trattamento
penitenziario tout court, per l’altro al trattamento propriamente “rieducativo”, nozioni che, almeno nella legge,
sono chiaramente diversificate. Il trattamento penitenziario riguarda tutti i soggetti ristretti e deve
caratterizzarsi a norma del già richiamato art. 1), assicurando, oltre ai principi in quell’articolo elencati, la
parità di condizioni contemplata dall’art. 3. Il trattamento rieducativo, a sua volta, riguarda soltanto le persone
già sottoposte all’esecuzione di pena ovvero di misura di sicurezza detentiva, è finalizzato al reinserimento
sociale e va attuato in modo individualizzato, anche mediante contatti con l’ambiente esterno (art. 1, comma
6).
La duplicità di previsioni e le differenti qualificazioni dell’uno e dell’altro tipo di trattamento, nel significato che
assumono nella lettura coordinata delle varie norme, sono tali da neutralizzare tante contrapposizioni di
principio che proprio il termine “rieducazione” ha spesso suscitato. Va sottolineata. infatti la misura con cui
l’art. 15, primo comma, stabilisce che il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi
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principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e
agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. E va segnalato che,
secondo il prudente dettato normativo, gli imputati per contro sono soltanto ammessi, ed a loro richiesta, a
partecipare ad attività educative, culturali e ricreative ed a svolgere attività lavorative o di formazione
professionale (art. 15, secondo comma).
Come si vede, il testo della legge resta lontano da prospettive di tipo terapeutico o rieducativo in senso
tradizionale, che potrebbero giustificare, in linea di principio, il timore di cadute verso pratiche capaci di
strumentalizzare o manipolare le persone: la legge prescrive che il tempo della detenzione sia caratterizzato
non soltanto dalla privazione o dalla limitazione di beni e diritti fondamentali, condizioni che hanno allo stato
la natura e 1’inevitabilità del “male necessario”, ma abbia anche - in quanto possibile e il più possibile - un
contenuto positivo, che attenui l’effetto destrutturante legato al vivere in una comunità coatta e aiuti il
detenuto a preparare prospettive e alternative, senza le quali può verificarsi un rapido impoverimento e
deterioramento della personalità. In questa ricerca, essenziali sono l’iniziativa e l’attiva partecipazione del
detenuto.
Si tratta di enunciazioni e di convinzioni che trovano un solido riferimento nell’art. 27, terzo comma, della
Costituzione, hanno avuto costanti conferme nella giurisprudenza della Corte costituzionale ed hanno
esercitato una riconoscibile influenza, cui si farà qualche riferimento più avanti, in ambiti che vanno ben al di
là del dominio strettamente penitenziario. Difatti - come ha osservato un autorevole penalista - “un dato va
indubbiamente segnato all’attivo dell’idea rieducativa: essa è assurta a bandiera di significative riforme del
sistema sanzionatorio, le quali - pur nel persistere di contraddizioni e limiti - hanno avuto comunque per
effetto di umanizzare e raziona-lizzare il trattamento punitivo. Al di là delle sue effettive proiezioni
riformistiche, la prospettiva della risocializzazione è valsa altresì ad additare un nuovo metodo di approccio
alla questione penale e penitenziaria”.
Semmai, è il raffronto delle enunciazioni, o almeno di alcune di esse, con la realtà organiz-zativa e
operativa, che può suscitare interrogativi e perplessità. Il rilievo riguarda non soltanto le norme relative al già
richiamato contenuto del trattamento, con il complesso di attività che sarebbero ovunque contemplate, ma
anche le previsioni riguardanti la struttura edilizia, quando si dice ad esempio che gli istituti penitenziari
devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati (art. 5), che
all’imputato deve essere garantito il pernottamento in camere ad un posto (art. 6), che il numero dei detenuti
e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato (art. I4, primo comma), che è assicurata la
separazione degli imputati dai condannati e internati, dei giovani al disotto dei venticinque anni dagli adulti,
dei condannati dagli internati, dei condannati all’arresto dai condannati alla reclusione (art. 14, terzo comma).
Queste previsioni, pur nella loro apparente modestia, già da sole concorrono a delineare un programma
amministrativo non da poco, divenuto nei tempi più recenti di realizzazione assai problematica, anche per
effetto dell’enorme incremento della popolazione penitenziaria. Ma il programma assume dimensioni ancor
più considerevoli, se si ha riguardo ad altre problema-tiche, cui la disciplina penitenziaria attribuisce
giustamente grande importanza: si pensi alla salute, tema di attualità sempre scottante; si pensi al lavoro,
problema tra l’altro avvertito in maniera molto acuta dagli stessi detenuti, ma che appare di difficile soluzione,
nonostante i tentativi fatti mediante l’approvazione di apposite norme (v., ad es., il d.l. 14 giugno 1993, n.
187, conv. dalla l. 12 agosto 1993, n. 296)
Ma un inventaria delle questioni da affrontare per l’attuazione della legge non finirebbe certo qui,
specialmente se si considera che secondo l’art. 15 il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari
bisogni della personalità di ciascun soggetto, e che per ogni condannato e internato deve essere predisposta
l’osservazione della personalità e va redatto il programma di trattamento rieducativi.
Il disegno che emerge dall’ordinamento del 1975 descrive dunque un istituto ricco di una serie di attività e di
competenze professionali diverse, armonicamente orientato verso una custodia arricchita di elementi
finalizzati al recupero sociale e comunque attento alle particolari condizioni e alle specifiche necessità di
ciascuno: quindi portato anche alla differen-ziazione interna, con quelle assegnazioni e quei raggruppamenti
dei detenuti, secondo l’appartenenza all’una o all’altra categoria, cui si riferisce il già richiamato art. 14.
3. Apertura verso la società esterna e territorializzazione.
Un istituto così caratterizzato al suo interno non è tuttavia destinato, nel progetto dell’ordinamento, ad
esaurire interessi ed attività in modo autarchico. Esso deve ricercare il colloquio con la comunità. esterna e
la partecipazione della stessa al reinserimento sociale dei condannati e degli internati, aprendo una doppia
via di comunicazione: da un lato favorendo presenze esterne nel mondo penitenziario e dall’altro
consentendo l’uscita e i contatti esterni del detenuto. Tutto ciò deve rompere l’isolamento dell’istituto e
favorire sia una vita interna meno condizionata dalla chiusura, sia la collaborazione in vista. del ritorno in
libertà della persona ristretta.
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Quanto alla prima linea di comunicazione, ai tradizionali colloqui, peraltro favoriti dall’art. 18 rispetto alla
precedente disciplina, si devono affiancare la ricerca e l’organizzazione della partecipazione di privati e di
istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa (art. 17). Ma anche singoli privati possono
essere ammessi, quando risultino in grado di promuovere utilmente lo sviluppo dei contatti tra la comunità
carceraria e la società libera. Ed in effetti queste possibilità sono state, almeno in alcune sedi, utilizzate in
modo ampio, tanto da portare a novità significative nella vita degli istituti e ad impegnare intensamente i
detenuti nelle corrispondenti attività.
Appartengono alla seconda linea le innovative previsioni riguardanti l’assegnazione al lavoro all’esterno, che
per l’art. 21 deve attuarsi in condizioni coerenti con gli scopi del trattamento penitenziario e rieducativo, e che
ha avuto speri-mentazioni di notevole interesse, sia pure in modo difforme quanto ai luoghi e al tempo. Nella
stessa linea si colloca la disciplina dei permessi premio, la cui introduzione, inizialmente auspicata per
l’opportunità che l’isolamento della vita carceraria trovasse un correttivo nella possibilità di brevi uscite
destinate a favorire il mantenimento delle relazioni familiari e sociali, e pur dopo alterne vicende legislative, si
è arricchita. nella formulazione definitiva dell’art. 30-ter della finalità di coltivare anche interessi affettivi,
culturali e di lavoro.
II progetto che emerge dalla legge è dunque quello di un istituto che si colloca in un complesso di relazioni
con la comunità sociale nella quale è insediato, della quale tende a divenire parte non più isolata e lontana,
ma anzi presente e attiva. Questo carattere si collega, risultandone ulteriormente accentuato, con
l’indicazione data dall’art. 42 in favore dell’assegnazione dei detenuti in istituti prossimi alle residenze delle
famiglie. L’indicazione è diretta evidentemente a favorire il mantenimento di quelle relazioni che, importanti in
sé e come tali fortemente percepite dalle persone private della libertà, possono anche preparare e favorire il
rientro nella società. Essa però concorre in via più generale al delinearsi di un programma di politica
dell’amministrazione diretto ad insediare il più possibile gli istituti secondo le caratteristiche e le necessità
delle situazioni locali: quindi a ricercare fin dalla creazione e dalla conformazione degli istituti un rapporto
funzionale con il territorio di insediamento. Si tratta di una linea di sviluppo che ha trovato non pochi ostacoli,
per un verso nella non agevole conversione di un patrimonio immobiliare e organizzativo formatosi nel tempo
in modo anche occasionale, in relazione alle risorse che risultavano qua o là disponibili, per l’altro verso nei
problemi che proprio la vicinanza all’ambiente di provenienza può determinare per talune categorie di
detenuti.
4. Misure alternative e flessibilità della pena.
Sul piano sia teorico sia pratico, una delle novità più importanti dell’ordinamento penitenziario si è avuta. con
l’introduzione delle misure alternative. Esse diedero ai condannati la possibilità di influire in modo consistente
con il proprio comportamento sulla durata della pena e quindi di organizzarsi e regolarsi in vista
dell’anticipata riconquista della libertà: un risultato verso il quale possono intuitivamente convergere, a
determinate condizioni, l’interesse del singolo e del suo nucleo familiare con quello della
collettività. Le nuove misure contribuirono inoltre a dare un significato e un contenuto tangibili
alle enunciazioni della legge circa il trattamento, il recupero, il reinse-rimento sociale,
introducendo importanti possibilità di deflazione mirata della pena, deflazione che prima
restava in pratica affidata soprattutto ai provvedimenti di amnistia e di indulto, che non a caso
ricorrevano con frequenza quasi triennale.
Introdotte con una certa prudenza, comprensibile in considerazione della novità che esse
costituivano per l’ordinamento italiano, successivamente sviluppatesi e affermatesi in modo
sufficientemente rassicurante, le misure alternative sono state il primo intervento legislativo di
importante correzione di quella rigidità sostanziale e processuale, che caratterizzava gli
interventi penali nel nostro Paese. Non è azzardato dire che proprio l’esperienza, complessivamente
positiva, fatta. con le misure alternative ha favorito la progressiva evoluzione del nostro sistema verso una
flessibilità che gli era prima sconosciuta. Nacquero infatti nel 1981 le sanzioni sostitutive, la cui applicabilità è
stata significativamente ampliata nel 1993, e nel 1986 1a detenzione domiciliare, intesa non più soltanto
come misura cautelare ma anche come pena, con applicabilità pure per essa ampliata dal 1993.
Mentre altra origine e diversa motivazione hanno, concorrendo anch’essi tuttavia al
superamento della rigidità del sistema, le riduzioni di pena legate al ricorso ai procedimenti speciali.
Le misure alternative dell’ordinamento penitenziario sono state anche un terreno privilegiato di impegno per
la magistratura di sorveglianza ed hanno avviato la progressiva concentrazione su di essa di tutte le
competenze riguardanti l’esecuzione dei trattamenti penali.
Quest’ultima è una evoluzione speculare per un verso al consolidarsi della concezione dell’ambito
penitenziario come luogo soggetto alla legge e nel suo insieme orientato al reinserimento delle persone
detenute, per l’altro al ruolo svolto in entrambe le direzioni - anche se in modo diverso secondo i tempi e i
luoghi - dalla magistratura di sorveglianza, presidio di legalità ma altresì partecipe della realtà degli istituti e
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prossima ai problemi e alle difficoltà di ciascuno, così come attenta alle risorse e alle prospettive dei singoli
destinatari degli interventi penitenziari.
Il cammino intrapreso con l’ordinamento del 1975 e nel complesso proseguito, nonostante considerevoli
difficoltà e non rari ripensamenti, non ha seguito un tracciato costantemente rettilineo e coerente con
l’impostazione originaria. La completa ricostruzione dei diversi passaggi richiederebbe troppo tempo; ma vi
sono due grandi temi ai quali va dedicato un sia pur rapido riferimento; per il forte rilievo, anche di
contrapposto significato, che essi hanno assunto: Io sviluppo ulteriore della disciplina volta alla
decarcerizzazione e al reinserimento sociale; l’emergere delle istanze relative alla sicurezza interna degli
istituti e alla difesa sociale.
5. Reinserimento sociale e “legge Gozzini”.
Come si è già accennato, il legislatore del 1975 aveva dato una formulazione circoscritta e volutamente
prudente ad alcune previsioni, tra cui quelle riguardanti le misure alternative, soggette a limiti che, da parte di
molti politici, studiosi e magistrati di sorveglianza, venivano considerati tali da impedire un’adeguata
utilizzazione di strumenti operativi potenzialmente di grande portata. Per giunta, un nuovo istituto definito nel
1975 con una formula che si prestava a qualche elasticità. interpretativa, quello dei permessi di uscita dagli
istituti, consentiti dall’art. 30 - nella sua primitiva stesura - anche per “gravi e accertati motivi”, aveva subito
nel 1977 una drastica limitazione agli “eventi familiari di particolare gravità”.
Gli intenti riabilitativi così chiaramente enunciati dalia legge penitenziaria apparivano quindi, nella prima
metà. degli anni ’80, scontrarsi con possibilità di applicazione troppo circoscritte.
Questi rilievi si congiunsero con altri, di ispirazione garantistica ma attenti ai dati della realtà, che tendevano
alla ridefinizione della disciplina della “massima sicurezza”, quindi del potere conferito dall’art. 90 al ministro
della giustizia di sospendere, in tutto o in parte, ed in uno o più stabilimenti penitenziari, l’applicazione delle
regole di trattamento che potessero porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.
La legge 10 ottobre 1986, n. 663 (legge Gozzini) nacque dunque da due differenti nuclei di istanze: quelle
della progressiva proiezione del trattamento individualizzato oltre le mura penitenziarie e quelle della
sicurezza, interna ed esterna.
L’esigenza del trattamento trovò uno spazio importante nella nuova disciplina, che avanzò molto nella
direzione della decarcerizzazione. Essa ampliò infatti le possibilità di uscita temporanea dei detenuti dagli
istituti penitenziari, con modifiche alla disciplina del lavoro all’esterno e della semilibertà e con l’introduzione
dei permessi premio. Inoltre vennero incrementate le opportunità di esenzione, in tutto o in parte, dalla
privazione della libertà., sia evitando l’ingresso in istituto (si pensi ai casi particolari di affidamento in prova
“senza osservazione” e di semilibertà “senza. espiazione”, alla detenzione domiciliare applicata ab origine),
sia rendendo possibile la cessazione anticipata della carcerazione: affidamento in prova, detenzione
domiciliare “residuale”, liberazione anticipata, liberazione condizionale.
Come è stato detto da un magistrato che fu convinto e competente tramite dell’Amministrazione penitenziaria
nel partecipare ai lavori per il nuovo provvedimento, la legge Gozzini segnò “d’acme della scommessa
sull’uomo, sulla sua recuperabilità, sulla flessibilità della pena, sulla sufficienza degli istituti premiali, sulla
bastevolezza del criterio valutativo fondato sul comportamento”. Essa è stata in sostanza la legge della
massima individualizzazione del trattamento esecutivo, della fiduciosa valorizzazione delle prospettive di
recupero e di reinserimento del condannato, di un favor libertatis che tende ad attenuare o interrompere
appena possibile lo stato di restrizione della persona.
6. Sicurezza e difesa sociale.
Il problema della sicurezza degli istituti e delle esigenze di difesa sociale si era posto già negli anni
successivi all’entrata in vigore della legge del 1975. La riforma, forse in qualche misura sottovalutando la
possibile presenza di detenuti fonte di pericoli per le collettività carcerarie e per gli altri soggetti presenti nelle
stesse, o addirittura in grado di creare difficoltà anche all’esterno del circuito penitenziario, aveva trascurato
di prevedere adeguate diffe-renziazioni del trattamento e aveva definito in termini troppo sommari e lacunosi
la disciplina destinata ad affrontare le situazioni de fenomeno del terrorismo politico, per affrontarlo si ricorse
alla creazione di un apposito circuito di istituti detti di “massima sicurezza”, relativamente ai quali il ministro
autorizzava la sospensione delle ordinarie regole di trattamento, mediante decreti temporanei, che venivano
però costantemente reiterati. La prassi diede luogo a molte critiche e venne giudicata per vari aspetti
abnorme, anche se determinata dalle carenze della legge, che avrebbe dovuto stabilire presupposti,
contenuto e modalità di esecuzione di regimi detentivi contrassegnati da limitazioni e controlli di estensione
superiore a quella ordinaria.
Anche a tali problemi intese rispondere la legge Gozzini. Essa provvide infatti alle esigenze permanenti
legate alla presenza di determinate categorie di detenuti con l’istituzione della inedita “sorveglianza
particolare”, definita quanto ai presupposti applicativi e alla procedura di adozione del relativo provvedimento
(art. 14-bis), al controllo giurisdizionale su quest’ultimo (art. 14-ter), al contenuto dello speciale regime (art.
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14-quater). Provvide altresì alle situazioni di emergenza con l’art. 41-bis, erede dell’abrogato art. 90, ma
ridefinito con l’intento di evitare utilizzazioni improprie dello strumento di emergenza.
Nuove difficoltà insorsero peraltro all’inizio degli anni “novanta”, all’interno e ancor più all’esterno degli istituti,
per il concorrere di due ordini di fattori che portarono ad atteggiamenti critici nei confronti della legge Gozzini:
da una parte la diffusione di una criminalità organizzata sempre più violenta e pericolosa, autrice di
gravissime aggressioni personali e di costanti azioni intimidatrici; dall’altro l’avvenuta applicazione di misure
premiali ad alcuni condannati di elevata pericolosità, applicazione che diede luogo a diffuse preoccupazioni e
indusse a pensare che si dovessero ridefinire e delimitare i presupposti per l’applicazione delle misure
alternative penitenziarie.
Le innovazioni vennero introdotte su due direttrici, con alcuni provvedimenti legislativi approvati nel biennio
1991-1992. Da una parte una serie di restrizioni e di esclusioni dai benefici penitenziari furono previste nei
confronti dei condannati per delitti riferibili alla criminalità. organizzata dagli artt. 4-bis e 41-bis. Dall’altra, gli
inasprimenti venivano esclusi per coloro, che pur appartenendo alle categorie prima indicate, collaborassero
con la giustizia, nei termini definiti dall’art. 5 8-ter: quindi per evitare che l’attività delittuosa fosse portata a
conseguenze ulteriori, ovvero per aiutare concretamente l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi
decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individua-zione o la cattura degli autori di reati.
Con queste ed altre previsioni si creò quindi una nuova forma di premialità, non correlata. con la valutazione
dei comportamenti nella prospettiva del trattamento rieducativo, ma ricollega-bile invece ad esigenze di
diritto penale sostanziale (l’evitare che l’attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori) e di natura
processuale penale (l’acquisire elementi probatori decisivi per lo svolgimento delle indagini in relazione a
determinati delitti), esigenze travalicanti almeno in parte le tradizionali caratteristiche e finalità
dell’esecuzione delle pene detentive.
Per effetto di tali norme, il sistema penitenziario viene quindi utilizzato nell’ambito descritto non solo come
strumento di neutralizzazione di soggetti pericolosi, ma anche come mezzo di incenti-vazione della
collaborazione con la giustizia. E il risultato è ormai la creazione di un secondo regime di trattamento,
diversificato sulla base della natura del reato commesso e caratterizzato da forti inasprimenti, ma per
converso suscettibile - a determinate condizioni - di procurare importanti benefici premiali.
La nuova disciplina, voluta per contrastare i fenomeni più gravi di criminalità, non è andata esente da
qualche eccesso, cui ha posto rimedio la Corte costituzionale: vanno ricordate in particolare la sent. n.
306/1993, in tema di revoca delle misure alternative già disposte; la n. 357/1994, riguardante la posizione di
chi, responsabile di una limitata partecipazione al fatto criminoso, non possa prestare - quand’anche lo voglia
- una “utile” collaborazione con la giustizia; le n. 349/1993 e 440/1993, relative all’ambito di applicazione
della sospensione delle regole di trattamento a norma dell’art. 41-bis, mentre non va trascurata per la sua
rilevanza pratica e di principio la n. 410/1993, che ha riconosciuto il diritto a proporre reclamo al giudice
avverso il provvedimento di sospensione.
Ciò che rileva in termini più generali é da una parte che le previsioni, soprattutto nella loro stesura originaria,
hanno raggiunto anche aree criminali di minore pericolosità; dall’altra che le stesse hanno determinato una
sorta di “effetto alone”, che in qualche misura é andato oltre 1Inevitabile e il dovuto, talvolta ingenerando una
sorta di diffusa sfiducia e di pessimismo operativo, sentimenti rafforzati dal progressivo sovraffolla-mento
degli istituti, percepito come una sconfitta della prospettiva di decarcerizzazione e al tempo stesso come
fonte di ulteriori problemi e difficoltà.
I richiamati provvedimenti restrittivi sono stati seguiti da altre iniziative legislative, dirette a qualche recupero
della prospettiva della risocializzazione nonché, sia pure in stretto nesso causale con il sovraffolla-mento,
della tendenza alla decarcerizzazione.
Si possono riferire alla prima le già segnalate disposizioni in tema di lavoro penitenziario contenute nell’art. 2
del d.l. 14 giugno 1993, n. 187, convertito dalla l. 12 agosto 1993, n.. 296, ed in tema di servizio sanitario
(artt. 6 e 7 dello stesso provvedimento).
Appartengono invece alla prospettiva della decarcerizzazione, almeno in apparenza senza ulteriori finalità: le
norme per l’espulsione dei detenuti stranieri (art. 8 del d.l. n. 187, sopra menzionato); le disposizioni con cui
è stato elevato a tre anni il limite massimo della pena che può essere espiata a domicilio e con cui sono stati
ampliati i presupposti soggettivi per l’ammissibilità al beneficio (art. 3 del d.l. n. 187); 1'interpretazione
autentica con cui il legislatore ha precisato che il limite di tre anni di pena entro i1 quale il condannato può
beneficiare dell’affidamento in prova va inteso nel senso che deve trattarsi della pena da espiare in concreto,
tenuto conto anche dell’applicazione di eventuali case estintive (art. 14 bis, comma l, d.l. 8 giugno 1992, n.
306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356).
Pur con i loro limiti, i richiamati provvedimenti hanno segnalato quanto meno una rinnovata ricerca delle
iniziative adot-tabili per contenere i disagi derivanti sia dalle particolari condizioni personali dei detenuti, sia
dalla promiscuità conseguente ad una crescita imponente ed imprevista della popolazione ristretta.
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Negli ultimi anni, peraltro, l’attenzione si è reite-ratamente concentrata sullo speciale regime introdotto con il
combinato disposto degli artt: 4-bis; 41-bis e 58-bis dell’ordinamento. Tale regime ha dato luogo ad una serie
di questioni nella giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale e ha suscitato anche
prese di posizioni contrastanti nella dottrina, risvegliate dal periodico presentarsi del problema della
conferma o non delle norme, nate come temporanee ma via via prorogate per un decennio da appositi
provvedimenti legislativi. Il problema di questa provvisorietà prolungata nel tempo è stato infine risolto dalla
legge 23 dicembre 2002, n. 279, che ha stabilizzato la disciplina, ritoccandone alcune previsioni sostanziali e
processuali. Anche questa. legge ha dato luogo ad una serie di reazioni, prevalentemente critiche, incentrate
specialmente sull’avvenuta stabilizzazione di un regime considerato pur sempre di emergenza e quindi per
sua natura temporaneo.
7. Situazione attuale e prospettive.
Trascorso un trentennio, la legge del 1975 risulta ampiamente modificata. Si nota da una parte un forte
sviluppo di due linee presenti già nell’impianto originario, quelle delle alternative alla detenzione e della
giurisdizionalizzazione; dall’altra, ha assunto un grande rilievo la questione della disciplina relativa alla
sicurezza interna ed esterna, mentre è stato progressivamente introdotto uno statuto differenziato per i
detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, statuto che in quanto tale risulta distonico rispetto alla
tendenza al pari trattamento ampiamente presente nel testo originario. Al tempo stesso, la detenzione viene
utilizzata non più soltanto per la custodia prima del giudizio e per l’esecuzione di pene detentive: essa serve
anche a promuovere la collaborazione alla giustizia, e il regime detentivo si modula fortemente in relazione al
raggiungimento di questo scopo.
Le differenziazioni interne vanno anche oltre: norme particolari riguardano gli stranieri, i tossicodipendenti, i
malati di aids. Pur al di là delle categorie legali, la composizione della popolazione penitenziaria non è più
prevalentemente omogenea com’era all’epoca della preparazione della legge del 1975, quando
comprendeva per la gran partesoggetti disadattati, appartenenti alle fasce “marginali” della società, poveri di
mezzi materiali e di risorse personali. Questa tipologia di persone è ancora ben presente, ma non è più
dominante come prima. Per fare qualche esempio, ora sono presenti importanti fasce di detenuti
appartenenti alla delinquenza organizzata, forti delle loro solidarietà e dei mezzi acquisiti con le attività
illecite. Né vanno dimenticati gli appartenenti alle vecchie e nuove organizzazioni terroristiche, che ancora si
trovano in esecuzione di pena o in custodia cautelare. Hanno acquisito una certa visibilità. persino soggetti
assai diversi per caratteristiche sociali, quanto al ceto di appartenenza, all’attività lavorativa svolta, alla
disponibilità di risorse economiche; non certo i soliti “disadattati”, dunque, anzi almeno in apparenza persone
molto ben inserite nella società. Anche questi “colletti bianchi” hanno dato luogo a problemi particolari, negli
istituti, dove potevano correre pericoli diversi da quelli degli altri ristretti, ed anche nell’applicazione e
nell’esecuzione delle misure alternative, disciplinate in un modo che rivela la loro destinazione legislativa alla
tradizionale tipologia di detenuti.
Nel mondo penitenziario si sono verificati, in definitiva, una serie di mutamenti, ben rappresentativi di ciò che
é avvenuto nella realtà sociale esterna e spesso inseguiti dalla legislazione in modo affannoso e
improvvisato, con provvedimenti ora in una direzione, ora nell’altra. Osservata dall’esterno, l’Amministrazione
penitenziaria appare come una galassia, di dimensioni notevoli e di composizione complessa, eppure
tendente a divenire sempre più grande e sempre più caleidoscopica.
Con questo già lungo discorso, ho cercato di accennare alle luci e alle ombre richiamate dal titolo del
Convegno. Ma il titolo pone anche un interrogativo: quale futuro? La domanda coinvolge una serie
imponente di problemi riguardanti prima di tutto la giustizia nel suo insieme. Accenno soltanto a due
questioni.
Prima di tutto, per quello che si può ragionevolmente pensare, allo stato delle cose e proiettando la visione
in un periodo di tempo anche medio-lungo, si deve dire che i1 quadro normativo del sistema, nelle sue linee
generali, appare sufficientemente solido. Un trentennio non è prova da poco e sembra significativo che in
questo periodo la pressione dei fatti, pur talora drammatici, e gli avvicendamenti politici, che non sono certo
mancati, abbiano comportato soltanto “aggiu-stamenti”, più o meno ampi, più o meno condivisibili, ma
comunque non eversivi della logica complessiva del sistema. Questo del resto, a parte occasionali critiche e
periodiche burrasche, appare sorretto da un consenso piuttosto ampio tra la gente, da una forte e adesiva
elaborazione culturale multidisciplinare e da una giurisprudenza, specialmente costituzionale, che ha posto
molti e significativi “steccati” e che trova conforto, nei suoi chiari parallelismi con le convenzioni internazionali
e con le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. In sostanza, non sembra che si possa tornare ad
un sistema penitenziario così chiuso e rigido com’era prima del 1975: vi sono principi e regole della disciplina
penitenziaria che possono ritenersi acquisiti in modo stabile. Specularmente, però, non pare nemmeno che
si possa tornare al generoso ottimismo del 1986: le dure prove che si sono affrontate hanno di certo lasciato
a loro volta qualche segno non facilmente delebile. L’affermarsi di prospettive più coraggiose potrebbe
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invece essere efficacemente incoraggiato da visibili e duraturi progressi nella lotta alle mafie e, in generale,
alle forme organizzate del crimine.
Il problema dei problemi risulta, allo stato, l’impressionante incremento della popolazione penitenziaria. E’
chiaro che una eventuale ulteriore crescita, ma anche il semplice assestamento sui livelli attuali, sarebbero
tali da pregiudicare molti programmi e da far dubitare della effettività complessiva della normativa
penitenziaria. Per di più, sulla situazione grava l’incognita degli effetti che potranno avere le recentissime
modifiche introdotte dalla legge c.d. “ex Cirielli”, riguardanti da una parte l’anticipata prescrizione di reati,
dall’altra l’inasprimento delle pene nei confronti dei condannati recidivi: tutto deliberato senza alcuna
considerazione per le possibili ricadute sugli istituti penitenziari. La situazione è dunque molto difficile.
Su questa determinante questione si dovrebbe ragionare a partire dall’ovvia, sebbene trascurata,
considerazione che la quantità delle persone incarcerate non è una variabile indipendente: essa é invece un
autentico “precipitato” di una serie di funzionamenti e disfunzionamenti di meccanismi sociali e istituzionali.
Basta osservare come si compone la popolazione penitenziaria, che oggi è numericamente dominata da
immigrati, da tossicodipendenti e da soggetti che paiono appartenere all’area del disagio psichico, per intuire
quante e quali carenze concorrano a determinare la presenza di oltre 60.000 detenuti.
Rispondere a questo problema incrementando la capienza degli istituti e costruendone di nuovi sarebbe
evidentemente sbagliato. Il problema è penitenziario nella sua manifestazione, ma trova altrove le sue
cause. Bisogna individuare ed eliminare le cause o comunque trovare risposte anticipate rispetto a quella del
carcere.
Siamo di fronte ad una questione che obiettivamente dovrebbe entrare nella parte alta dell’agenda
governativa e parlamentare. Ma sul punto, purtroppo, l’esperienza recente e lontana non lascia molto spazio
all’ottimismo.
I CENTRI DI SERVIZIO SOCIALE ADULTI:
IL TRATTAMENTO, LA LIBERTÀ, LA RETE INTEGRATA DI SOSTEGNO
di Anna Muschitiello
Ringrazio gli organizzatori di questo convegno per aver invitato ancora una volta il Coordinamento assistenti
sociali della giustizia a rappresentare quella che oggi viene chiamata area penale esterna, in un momento di
profonda trasformazione di questi servizi e in occasione della ricorrenza del trentennale della Riforma
penitenziaria
La convergenza tra le nostre associazioni è ormai consolidata da tempo e sempre più spesso si trovano a
condividere analisi e proposte perché sono entrambe consapevoli che la politica penitenziaria da perseguire
non può essere solo quella di costruire nuove carceri e di ampliare i corpi di sicurezza e di controllo
poliziesco: in una equilibrata gestione delle risorse, della produzione e della distribuzione (e quindi del
potere), deve trovare spazio una politica sociale solidale tesa alla prevenzione e all’inclusione sociale dei
gruppi più deboli, nel rispetto dei loro diritti.
Generalmente i 30 anni nella vita di un individuo coincidono con la maturità, quindi consentono di pensare a
cambiamenti senza con questo mettere in discussione l’identità stessa della persona o in questo caso di un
sistema.
Ormai sono in molti a sostenere l’opportunità di modificare la legge del 1975 e perfino il presidente Margara,
fedele interprete di tale legge per l’intero trentennio, ha sentito il bisogno di riscriverlo alla luce dei numerosi
interventi legislativi e giurisprudenziali che in questi anni ci sono stati.
L’ O. P. aveva però un carattere programmatico e presupponeva una serie d’interventi successivi, finalizzati
a tradurre le enunciazioni di principio in pratica operativa. Poiché la distanza tra i contenuti della riforma e la
realtà sociale in cui s’inseriva, sia penitenziaria sia più generale, era notevole, era scontato pensare che ci
sarebbe voluto molto tempo, oltre ad uno sforzo organizzativo e culturale decisamente ampio per consentire
alla stessa riforma di decollare. Invece, subito dopo la sua entrata in vigore, anche per la mancanza di una
politica penale organica, iniziarono una serie di oscillazioni e di modifiche parziali e contraddittorie,
contribuendo a creare un sistema dell’esecuzione delle pene non sempre omogeneo e congruente.
I provvedimenti legislativi, nei vari periodi, hanno subito numerose oscillazioni: si è passati da interventi di
mera decarcerizzazione, quasi al limite dell’automatismo, ad interventi restrittivi e riduttivi per le possibilità di
accesso alle MM.AA.
In questi giorni si sta, ancora una volta, procedendo ad ulteriori modifiche senza un vero e proprio dibattito
sulla materia dell’esecuzione penale. Modifiche che rischiano di ridimensionare in modo considerevole il
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sistema delle misure alternative alla detenzione senza essersi seriamente posti il problema dell’impatto sul
sistema carcerario già oggi al limite del collasso, (mi riferisco alla cosiddetta legge Cirielli).
Con questa legge si è deciso di affrontare il problema della recidiva esclusivamente in termini punitivi e
ancora una volta con il ricorso al carcere, anche se ormai recenti ricerche stanno dimostrando che la recidiva
è maggiormente presente tra i soggetti che scontano la pena interamente in carcere e meno tra quelli
ammessi alle misure alternative, ma purtroppo i fatti contano molto poco in queste materie.
Eppure quasi tutte le forze politiche per anni hanno sostenuto che non era possibile tornare indietro rispetto
al sistema che prevede le misure alternative al carcere.
Condividiamo quanto affermato da Antigone che non si può affrontare il nodo della giustizia senza assumere
l’impegno, non rinviabile, di riformare il codice penale, in un’ottica realmente garantista, in cui il carcere
divenga l’extrema ratio del sistema punitivo, riducendo le fattispecie di reato e rivedendo l’intero sistema
sanzionatorio. Il diritto penale minimo dovrebbe difendere beni protetti costituzionalmente, evitando di
sanzionare comportamenti che hanno un carattere sociale più che penale come: il consumo di droghe,
l’immigrazione irregolare, ecc.
La riforma del sistema sanzionatorio dovrebbe articolarsi in diversi passaggi ed è opportuna una differente
disciplina delle misure alternative, non più inquadrate in un’ottica meramente suppletiva o integrativa al
carcere, quale premio finale di un percorso trattamentale, ma comminabili anche sotto forma di pene edittali,
previste direttamente dal codice penale e applicate dal giudice nella sentenza di condanna.
Stiamo invece assistendo ad una progressiva espansione del sistema penale - frutto di interventi
parcellizzati, che coprono una a una singole paure – che è andata di pari passo con lo smantellamento delle
garanzie sociali. La riduzione delle risorse per il welfare ha escluso intere categorie di persone dal sistema
della sicurezza sociale, lasciando loro il solo ruolo di bersaglio privilegiato del sistema penale.
Non a caso, oggi, siamo costretti a confrontarci, a trent’anni esatti dalla riforma penitenziaria, con la modifica
dell’art. 72 dell’ O.P. attraverso la legge 154/2005 (legge Meduri) che ha modificato la denominazione dei
“Centri di Servizio Sociale per Adulti” in “Uffici per l’esecuzione Penale Esterna” (U.EPE).
Questa legge ci ha visti protagonisti come CASG tra gli oppositori perché, a nostro parere, il cambio di
denominazione sottende ad un cambiamento sostanziale delle natura di tali uffici, oggi certamente diversi
rispetto a 30 anni fa; però ci spiace constatare che il rinnovo di queste strutture sia passato attraverso
l’eliminazione di ogni riferimento al servizio sociale e non riteniamo affatto sufficiente che la legge 154/2005
abbia rinominato il Capo terzo del titolo II dell’ O. P. in “Esecuzione penale esterna e assistenza”
reintroducendo un termine ormai obsoleto e non più adeguato ai contenuti dei moderni servizi sociali
integrati, dando comunque l’idea che l’assistenza sia solo un’appendice dell’esecuzione penale.
In ogni caso noi riteniamo che, permanendo in vigore il Nuovo Regolamento di Esecuzione (la legge 230/00),
la nuova legge (L. 154/05) non possa comunque alterare il ruolo professionale degli assistenti sociali e le
finalità degli uffici che li comprendono.
Pertanto quando si parla di U.EPE riteniamo si debba continuare a pensare a:
- Uffici dove si valutano e si progettano interventi per percorsi di inclusione sociale della persona autore di
reato a mezzo di personale di servizio sociale;
Uffici dove il monitorag-gio di tali percorsi viene effettuato attraverso la funzione di aiuto e controllo. La
necessaria coesistenza tra la funzione del controllo e quella dell’aiuto nell’intervento dell’assistente sociale è
stata dichiarata espressamente con il DPR 30 giugno 2000, n. 230, in particolare nell’art. 118 comma 8: In
particolare, gli interventi del servizio sociale per adulti, nel corso del trattamento in ambiente esterno, sono
diretti ad aiutare i soggetti che ne beneficiano ad adempiere responsabilmente gli impegni che derivano dalla
misura cui sono sottoposti. Tali interventi, articolati in un processo unitario e personalizzato, sono
prioritariamente caratterizzati:
a) dall’offerta al soggetto di sperimentare un rapporto con l’autorità basato sulla fiducia nella capacità della
persona di recuperare il controllo del proprio comportamento senza interventi di carattere repressivo;
b) da un aiuto che porti il soggetto ad utilizzare meglio le risorse nella realtà familiare e sociale;
c) da un controllo, ove previsto dalla misura in esecuzione, sul comportamento del soggetto che costituisca
al tempo stesso un aiuto rivolto ad assicurare il rispetto degli obblighi e delle prescrizioni dettate dalla
magistratura di sorveglianza;
d) da una sollecitazione a una valutazione critica adeguata, da parte della persona, degli atteggiamenti che
sono stati alla base della condotta penalmente sanzionata, nella prospettiva di un reinserimento sociale
compiuto e duraturo.
E’ opportuno ribadire che l’assistente sociale ha, in qualsiasi ambito intervenga, un mandato professionale
di aiuto a soggetti in difficoltà, accompagnato da forme di controllo sui comportamenti e sugli obiettivi e
comunque si può con certezza affermare che non c’è intervento di aiuto se manca un controllo sulle capacità
e sulle difficoltà del soggetto a rispettare regole e contratti.
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Per questo motivo non ci convince neanche la proposta fatta dal Presidente Margara nel suo progetto di
revisione dell’ O.P. che prevede di affrontare il problema del controllo durante l’affidamento attraverso
l’introduzione di una nuova figura professionale (impropriamente chiamata operatore sociale) oggi
inesistente nell’ambito dei profili professionali della giustizia o di altro settore; è previsto che tale figura abbia
compiti di controllo accanto all’assistente sociale e in sostituzione delle Forze di polizia. Riteniamo invece
che il controllo degli affidati al servizio sociale debba continuare ad essere di pertinenza dell’ Assistente
sociale (questo dice chiaramente la legge del 1975) e delle forze dell’ordine territoriali, esclusivamente
nell’ambito dei più generali compiti di prevenzione dei reati, differenziandosi dalle altre forme di misure
cautelative o di esecuzione penale quali: gli arresti domiciliari, la detenzione domiciliare, la libertà vigilata,
con le quali viene oggi confusa. Qualsiasi altra soluzione modificherebbe la natura di tale misura alternativa,
basata prevalentemente sulla responsa-bilizzazione quindi sulla crescita personale del soggetto e ne
ridurrebbe l’efficacia, contribuendo semplicemente a duplicare i controlli.
- Uffici diffusi capillar-mente sul territorio e in continuo dialogo con gli attori sociali presenti;
- Uffici dove le altre figure professionali esistenti sono chiamate a contribuire al concretiz-zarsi dell’intervento
sociale;
- Uffici che si integrano con il territorio. Riprendendo quanto suggerito nell’art. 118 c. 7 del nuovo
regolamento di esecuzione, che ribadisce l’opportunità di un lavoro in rete con il territorio, diventa necessaria
una certa flessibilità, che consenta di utilizzare, attraverso precise intese e protocolli, le risorse presenti nei
luoghi dove il soggetto viveva al momento della commissione del reato, vive durante l’esecuzione della pena
e vivrà anche dopo.
Gli Uffici EPE devono essere servizi agili che svolgono attività di integrazione con il territorio a più livelli: tra
servizi, tra professioni, tra risorse istituzionali e non.
In relazione all’ultimo punto, nell’ottica di rendere quanto più effettiva possibile la promessa costituzionale
della finalità “rieducativa” della pena ci si deve chiedere quali spazi debbano avere le Regioni e gli enti locali
nell’esecuzione penale. Noi riteniamo che la corresponsabilizzazione delle competenze “trattamentali”
(formazione professionale, orientamento e politiche attive del lavoro, programmazione dell’offerta formativa,
politiche sociali, sanità, ecc.) con le regioni e gli enti locali sia l’unica modalità che consente di integrare al
meglio gli interventi nell’ambito del sistema penale.
E’ importante eviden-ziare il lavoro avviato da ormai molti anni tra Ministero della giustizia e Regioni, che ha
portato a protocolli di intesa per un lavoro integrato. Intese che devono essere recepite dalle regioni in
relazione a specifici progetti che vedano coinvolti i detenuti all’interno e all’esterno del carcere. Protocolli che
hanno favorito la partecipazione congiunta di più servizi per la formulazione di politiche sociali nei confronti
delle persone detenute e/o sottoposte a misure restrittive della libertà intese come garanzia dei diritti di
cittadinanza.
In quella sede tutti: amministrazione penitenziaria, ente locale e comunità locale, intesa come forze attive del
territorio (associazioni di volontariato, sindacato, associazioni d’imprenditori ecc.) possono fare molto per una
politica di prevenzione dei reati e d’inclusione sociale dei soggetti che hanno commesso reati.
Proprio in questi mesi la scadenza della prima triennalità dei piani di zona ci vede impegnati in molte regioni
e ci sta offrendo concretamente un’occasione di integrazione con gli enti locali, il privato sociale e il
volontariato sia quello diffuso sul territorio sia quello che si occupa in particolare di giustizia.
Infatti, soprattutto i CSSA (oggi U. EPE) (44 su 60) ma anche gl’istituti penitenziari (89 su 199) anche se non
in modo uniforme sul territorio nazionale (come risulta da un monitoraggio dell’ufficio rapporti con le regioni
del DAP, pubblicato sull’ultimo numero di “Pena e territorio”) stanno intervenendo all’interno dei piani di zona
territoriali.
Ormai da anni è cresciuto anche in modo consistente l’impegno del volontariato della giustizia fuori dal
carcere nei confronti dei soggetti in misura alternativa e la collaborazione con i CSSA sta aumentando,
soprattutto sotto forma di incremento dell’attività progettuale.
Abbiamo negli ultimi anni notato segnali di diversa attenzione da parte del mondo del volontariato e del
privato sociale nei confronti dell’esecuzione penale esterna. Segnali che si sono voluti raccogliere e
convogliare in una prospettiva di lavoro integrato, elaborando progetti di intervento stabili, volti a dare
risposta a bisogni reali espressi dall’utenza dei CSSA, più che a interventi di singoli volontari.
Tra le tante differenti iniziative che ogni territorio ha attivato in relazione alle proprie caratteristiche si vuole
sottolineare l’ormai consolidata esperienza sull’attività di sportello informativo (Sp.In) operante in molte
regioni. Con tale attività è stata creata una “struttura intermedia”, attraverso la quale il CSSA può offrire
all’utenza un servizio concreto da realizzarsi in integrazione appunto con il volontariato e con il privato
sociale.
Ultimamente stiamo, infatti, assistendo sempre più spesso al consolidarsi di buone prassi, attraverso la
stipula di protocolli operativi ed intese tra conferenze regionali e PRAP, a seguito dell’intesa firmata nel 2003
tra Conferenza nazionale Volontariato giustizia e Dipartimento Amministrazione Penitenziaria.
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Riflessioni
di Gian Pietro Costa
Nel documento di introduzione del convegno si denuncia la precarietà della condizione del condannato
soggetto alla discrezionalità del potere. Se vi chiedessi se l’attività della funzione del magistrato di
sorveglianza è discrezionale, sono convinto che mi rispondereste positivamente. Del resto lo leggo nei
manuali e negli occhi dei detenuti nel corso delle mie visite penitenziarie. Ma la discrezionalità è il segno
dell’amministrazione; significa opzioni diverse e scelte di opportunità, mentre la giurisdizione vuol dire
opzione unica in base alla legge.
Allora perché hanno messo un giudice a sentenziare sulle modalità di esecuzione della pena? Perché si è
ritenuto che l’Amministrazione penitenziaria potesse non dico subire condiziona-menti, ma decidere in
termini di tranquillità/ordine nell’istituto o valutare la concessione delle misure in base a principi correzionali.
Invece il giudice terzo deve per legge favorire, tendenzialmente per tutti, l’avvio e lo sviluppo di percorsi dì
reinserimento sociale in vista di misure alternative alla detenzione, garantendo con la sua indipendenza
l’imparzialità del trattamento.
Si tratta non vi è dubbio di un potere, che però sono solito definire sofferto. Certo è di moda parlare di potere
servizio; ma c’è un modo semplice, per accertare se un -potere è goduto o sofferto: basta vedere se il titolare
è disposto a spartirlo con altri.
Bene il magistrato di sorveglianza chiede di dividere il suo con il C.S.S.A., con la Polizia, con la direzione
degli istituti, con le comunità, con l’ente locale; è certamente un potere sofferto.
Queste istituzioni non dipendono da lui, agiscono con finalità proprie, talora sono riluttanti a partecipare alla
applicazione di regole ancora poco condivise nella coscienza collettiva. E poi al giudice occorrerebbe tempo,
ma per chi attende in carcere è sempre tardi; ed allora decide ed aspetta il miracolo. Se penso al detenuto
con fine pena 2016, che rientra volontariamente in carcere dal permesso in un paese scombinato come il
nostro, non mi viene altra parola. Naturalmente la responsabilità del mancato rientro viene attribuita
esclusivamente al giudice.
Da questa stretta noi magistrati di sorveglianza possiamo uscire solo con la nostra professionalità. Nell’etimo
di professione (dichiarazione aperta, promessa) si coglie questa idea di una attività a rischio garantita dalla
conoscenza e dal rispetto delle regole dell’arte, nonché dall’abitudine a trattare casi simili,con la
consapevolezza che ciascuno è unico.
Professionalità vuol dire sforzo nella raccolta degli elementi di conoscenza, personali ed oggettivi, e
nell’adempimento dell’obbligo di contributo da parte degli organi competenti. Professionalità vuol dire darsi
delle regole ed applicarle in modo imparziale, ma nel dubbio far prevalere la funzione rieducativa della pena,
la riduzione dei danno da prisonizzazione, la salvaguardia dei diritti della persona detenuta.
A quest’ultimo proposito voglio riportare l’intervento fatto al nostro recente convegno dal prof. Onida,
presidente emerito della Corte Costituzionale ed operatore volontario in carcere. Dopo un excursus degli
interventi della Corte in materia penitenziaria sotto la sua direzione o con la sua partecipazione, che hanno
contribuito a fare del nostro sistema uno dei migliori al mondo sulla carta, richiamava le istituzioni alla
effettività dei diritti, non solo riconosciuti ma applicati, dei detenuti.
Questo deve essere lo scopo del volontariato, la più radicale contestazione del crimine e del carcere. Del
crimine, perché alla subcultura del detenuto, per cui tutti sono criminali, e quelli fuori solo più fortunati di lui, il
volontario oppone la cultura della solidarietà. Del carcere come istituzione totale e separata, in quanto
rivendica il diritto/dovere di cittadino di verificare lo statuto delle persone, detenute anche in suo nome, nella
realtà di fatto.
Questo in verità è anche terreno dei magistrati di sorveglianza, rivelatosi in questi 30 anni scivoloso tra buoni
sentimenti e cattiva intelligenza. Si è passati dalla cogestione degli istituti praticata negli anni ’70 e non
rimpianta alla odierna pratica della delega prevalente. La magistratura di sorveglianza non si oppone alla
istituzione di autority in questo campo (sempre perché si tratta di un potere sofferto) ma di sicuro non
rinuncerà alla presenza in carcere per garantire il rispetto dei diritti essenziali fuori di ogni logica politica.
Nell’altra funzione del magistrato di sorveglianza, l’applicazione delle misure alternative ai condannati liberi,
sì sono ottenuti risultati migliori: circa 4 condannati su 5 eseguono la pena fuori dal carcere. Gli inconvenienti
derivano spesso dalla inadeguatezza e quindi dalla scarsa credibilità delle misure alternative come pena. Se
l’affidamento in prova non deve essere stigma bensì opportunità dì revisione critica e prova di responsabilizzazione, la verifica costante del rispetto delle prescrizioni ne rappresenta strumento essenziale. Il
regolamento all’art. 118 attribuisce ai C.S.SA. funzioni di promozione di fiducia, prestazione di aiuto,
impegno di controllo. La dialettica tra tali attività nel rapporto professionale con il condannato deve essere
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componibile; la prospettiva di reinserimento con le prescrizioni si realizza con l’accertamento non casuale
delle violazioni: la fiducia, come si dice, nasce dall’esperienza.
Inoltre la sospensione automatica della esecuzione delle pene fino a 4 anni senza passaggio detentivo
comporta un maggiore impegno di osservazione in libertà, in cui dovrebbero essere coinvolti i servizi sociali
dell’ente locale e gli assistenti volontari.
Insomma lo stato attuale dell’esecuzione, sia esterna che intramurale, rende tutti noi poco conosciuti ed
amati dalla gente: tutti ci si deve muovere insieme nei rispettivi ruoli per cambiarlo e cambiare l’opinione
pubblica,. Perché siamo consapevoli che in questi 30 anni si è andati molto avanti nella storica marcia di
umanizzazione della pena e ci piace poter dire di avervi partecipato.
Il contributo
delle persone detenute al Regina Coeli di Roma
SALUTO INIZIALE
Mi è stato assegnato il gradito compito di porgere, a nome dei detenuti presenti e non; i più cordiali saluti e i
ringraziamenti alle autorità, ai membri del Seac e ai partecipanti ai lavori del convegno.
Questa occasione ha portato tra noi i volontari delle associazioni e enti impegnati nelle carceri che operano
sotto la sigla Seac. Gli iscritti a questo organismo costituiscono - su tutto il territorio nazionale - l’ossatura
portante del volontariato penitenziario.
Vorrei dar voce in questo contesto al senso di gratitudine e di riconoscenza di tutti i detenuti che nel corsoi
degli anni hanno ricevuto da loro sostegno morale e aiuto materiale.
A nome di tutti dico, “grazie”. Grazie del tempo che ci donate. Grazie del servizio disinteressato e gratuito
che ogni giorno offrite.
Siamo grati ai responsabili del Seac che hanno voluto far svolgere una sessione dei lavori del loro 38°
Convegno Nazionale proprio qui nella rotonda del carcere di Regina Coeli, mettendo insieme detenuti,
volontari, autorità, rappresentanti della comunità civile.
Il carcere - lo sappiamo tutti - crea isolamento, innalza barriere tra chi si trova dentro di esso e il resto della
società.. Manifestazioni come questa di oggi giovano molto per far conoscere il carcere e i tantissimi
problemi che ad esso sono connessi, e anche consentono di scalfire,in qualche modo, la mentalità corrente
che ha un atteggiamento di rifiuto di questa realtà.
Siamo lusingati di poter dire una nostra parola su un argomento così importante come la riforma
dell’Ordinamento penitenziario. Possiamo dare solo un piccolissimo contributo che ha, però, il merito di
essere la “voce” di chi sperimenta sulla propria pelle gli effetti postivi e anche i limiti della legge.
Dopo esserci confrontati tra noi abbiamo individuati alcuni argomenti che sembrano collocarsi dentro il tema
che i convegnisti stanno affrontando. Vogliamo dare un nostro contributo, espresso con serenità e, per
quanto possibile, con oggettività.
Il primo contributo lo abbiamo individuato nella valutazione, fatta dall’interno, della “legge 354 e seguenti
modifiche”. Nulla di particolare. Voi avete già fatto dotte disquisizioni nel corso dei lavori. Noi diciamo alla
buona quello che sentiamo.
Il secondo argomento è una breve panoramica sull’esecuzione della pena in alcuni paesi europei. Il
proverbio dice che si è propensi a vedere “1' erba del vicino” sempre come “migliore della propria”. E’ vero.
Ma nel nostro caso troviamo i loro ordinamenti pieni di praticità,di grande buon senso e, in alcuni casi, di
effettiva efficacia per il reinserimento
Abbiamo poi individuato alcuni temi specifici che hanno grande rilevanza quando si parla di pene alternative.
E sono:
1. L’annoso problema della pericolosità sociale e di tutto ciò che è connesso con questo tema. In particolare,
l’argomento “dei precedenti”, la classica mannaia sospesa in eterno sulla testa della persona. Un reato che si
paga infinite volte.
2. La sanità in carcere, guardata attraverso due tipologie : i malati e i tossicodipendenti.
3. I “vuoti” che attana-gliano la vita negli gli istituti e condizionano l’attuazione delle aperture previste dalla
legge.
LEGGE 354/1975"ORDINAMENTO PENITENZIARIO”
Il 26 luglio 1975 rappresenta per i detenuti una data importante, poiché in tale giorno entrarono in vigore, con
la legge 354/5, le nuove norme sull’Ordinamento Penitenziario, che sostituirono quelle obsolete del 18
giugno 1931.
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Il nuovo Ordinamento Penitenziario, giunto al traguardo dopo tante sofferenze e fatiche, risultò innovativo ed
orientato ad operare un graduale reinserimento del condannato nel tessuto sociale, nel pieno rispetto
dell’articolo 27 della Costituzione, che all’effetto punitivo della pena affianca un trattamento tendente alla
rieduca-zione, sempre nel pieno rispetto del senso di umanità.
I legislatori di allora giunsero a varare una legge che aprì spiragli di speranza per tutta la popolazione
detenuta e che, con le successive modifiche, tende a portare i condannati, mediante un percorso di
trattamento inframurario, ad ottenere una giusta collocazione nel tessuto sociale, onesto e lavorativo, una
volta estinto il debito con la giustizia.
Lo spirito dell’Ordinamento Penitenziario è di far trovare al reo, durante l’espiazione della pena, opportunità
lavorative, culturali e sportive, capaci ad aiutarlo nella ricerca dì stimoli alternativi e diversi da quelli criminali,
sino ad allora perseguiti.
Gli Istituti penitenziari devono (...e non dovrebbero!) offrire tutti i mezzi necessari per rispettare tali autorevoli
dettami, affinché il reo non abbia più a subire tentazioni, convinto dì sapere e di potere intraprendere percorsi
non devianti.
Una seconda data storica per i detenuti è senza alcun dubbio, il 10 ottobre 1986, ‘quando entrò in vigore la
legge 663l86, meglio nota quale “Gozzini”, che pianificò il sistema dei permessi premio e delle misure
alternative alla detenzione in carcere, pur rimanendo regolamentata da una legge del 29 aprile, 1976.
Quest’ultima è stata integralmente sostituita dal d.p.r. 230/2000, entrato in vigore il 5 settembre 2000, che è
caratterizzato da una maggiore attenzione al programma trattamentale, con specifico riferimento ai rapporti
con i familiari, al lavoro e allo studio.
Questo nuovo Regolamento d’esecuzione, purtroppo, non decolla e spesso è disatteso l’encomiabile spirito
che l’anima. Anche in questo caso, alle parole ed agli scritti non hanno fatto seguito i fatti.
Il 5 settembre 2005, a cinque anni di distanza, si sarebbe dovuto assistere alla sua piena applicazione nelle
206 carceri italiane. Pochissimi, invece, l’hanno applicato e moltissimi sono ancora fermi alte condizioni di
trent’anni fa.
Il lavoro seguita ad essere una chimera per i più nonostante sia uno dei pilastri portanti del nuovo
Regolamento.
I benefici e le misure alternative sono assai ardue da raggiungere a causa di un esubero di lavoro
denunciato dagli educatori e dai magistrati di sorveglianza. I primi, su un organico previsto di 1.500 per
42.000 detenuti, sono attualmente 570 per 56.000 detenuti. I secondi sono in 120 su un organico previsto di
400.
Questa carenza di personale dilata a dismisura i tempi dell’osservazione del detenuto, modificando i
contenuti della “legge Gozzini” che prevede l’inizio dell’esperienza dei permessi premio dopo l’espiazione di
un quarto di pena in modo tale da fare iniziare tale fondamentale esperienza quando manca un quarto di
pena.
Non è, poi, da trascurare la diversità di giudizio e di interpretazione delle leggi tra un Tribunale di
Sorveglianza e l’altro, con la conseguenza che assume un’importanza determinante essere detenuti in
un’area o in un’altra della Penisola italiana.
E da augurarsi che, salvo il rispettare una unitarietà d’indirizzo, i contenuti della “legge Gozzini” e del suo
Regolamento di attuazione siano applicati nella loro totalità ed interezza, nel pieno rispetto dei diritti del
condannato, che, pur avendo commesso crimini contro la società, resta sempre un cittadino dello Stato.
Le istituzioni, malgrado le carenze sopra accennate, devono profondere i loro sforzi affinché si realizzi
l’effetto rieducativo della pena, memori che una società civile si misura anche dal proprio sistema giudiziario,
ivi comprendendo l’esecuzione della pena.
Solo così, potremo gratificarci di appartenere ad uno stato democratico, civile, umano e libero.
Domanda: sono trascorsi cinque anni dall’entrata in vigore del “nuovo” ordinamento penitenziario (D.P.R.
230/2000 del 15/09/2000) ma ancora non ne vediamo l’applicazione. Quanto tempo dobbiamo ancora
aspettare?
UNO SGUARDO SULL’EUROPA
Circola nelle carceri italiane da tanti anni una frase che recita così: “l’Italia deve adeguarsi
all’Europa”.
I detenuti, infatti, sembrano quasi convinti che in Europa si possano commettere impunemente reati e che l’espiazione della pena avvenga in una sorta di Eden. Non è esattamente
così.
La controversia sul “mandato di cattura europeo” ha dimostrato che non solo l’Italia ma. tutti i
paesi europei devono adeguarsi ad un unico sistema giuridico per evitare contraddizioni
insanabili tra i diversi codici penali e le ancor più diverse interpretazioni dei delitti e delle
pene.
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Punto di partenza è il Regolamento sul trattamento dei prigionieri adottato dai Consiglio
d’Europa nel 1973. Tutti gli Stati dell’EU hanno riconosciuto che le pene non devono ledere
l’umanità e la dignità delle persone, devono avere finalità rieducative anche attraverso il
contatto con l’esterno, così da rendere possibile il reinserimento sociale attraverso criteri volti
alla individualizzazione del trattamento avuto riguardo della condizione del singolo:
L’esecuzione penale, sosteneva il giudice italiano Fassone, deve dare la massima importanza
alla personalità del condannato e alla centralità del trattamento penitenziario. Tutti i
regolamenti penitenziari e le leggi sull’esecuzione penale sono stati introdotti e si sono sviluppati a
partire da questi principi (e.g. art. 80 c.p. esp.; Ley de Peligrosidad y Rehabilitation Social).
Anzi, la pena deve avere contenuti specifici in ragione del triplice scopo rieducativo; di difesa sociale, di
prevenzione generale e speciale.
Alla luce di questi fondamentali principi che abbiamo riscontrato in gran parte dei codici ed
ordinamenti penitenziari presi in esame andiamo brevemente ad esporre alcuni dati.
E’ pacifico che per motivi di opportunità dettati dalla vastità degli argomenti da trattare
abbiamo fatto una rapida carrellata su alcuni Stati europei sfiorando sia lo spirito rieducativo e
risocializzante contenuto nei loro ordinamenti sia la vera e propria esecuzione della pena.
Un primo confronto riguarda il problema del sovraffollamento. Nell’ordine i carceri più
sovraffollati si trovano in: Grecia, Ungheria, Romania e Italia. Dell’Europa dei quindici,
solamente Austria, Danimarca, Finlandia e Olanda non hanno problemi di sovraffollamen-to.
Un secondo confronto riguarda le presenze in carcere a seconda delle pene. Turchia e Belgio
hanno ancora la pena di morte. L’ergastolo non è previsto in Croazia, Olanda, Norvegia,
Slovenia e Spaglia, i Paesi che hanno il maggior numero di condannati all’ergastolo, m
percentuale rispetto all’intera popolazione detenuta, risultano nell’ordine; Irlanda del Nord,
Scozia, Lussemburgo, Inghilterra e Galles, Belgio, Turchia, Albania, Svezia ed Italia.
Per pene inferiori ai tre anni che sono scontate in carcere, invece, risultano; Olanda, Islanda,
Svezia, Macedonia, Slovenia, Slovacchia, Ungheria, Inghilterra e Galles, Francia, Lussemburgo,
Scozia, Croazia, Irlanda del Nord, Bulgaria, Italia.
II terzo dato riguarda la presenza, in percentuale degli stranieri. Il numero maggiore si trova in
Svizzera, Lussemburgo, Grecia, Belgio, Austria e Italia.
I Paesi ove la durata media della detenzione è pia lunga sono: Bulgaria, Moldavia, Slovacchia, Spagna, Repubblica Ceka, Austria, Belgio e Italia.
La quinta classifica riguarda i suicidi: Lussemburgo, Finlandia, Austria, Irlanda del Nord,
Danimarca, Francia, Irlanda, Belgio, Scozia, Inghilterra e Galles, Lituania, Albania, Slovenia,
Olanda e Italia.
Per quanto riguarda le sanzioni sostitutive e alternative al carcere notiamo che, dal 1975, m
Francia si è operata una cospicua riforma tendente a ridurre l’uso delle pene detentive brevi e,
parallelamente a potenziare le misure alternative tradizionali.
Francia. I1 sistema sanzionatorio francese presenta una stretta analogia con quello italiano,
sia con riferimento alle sanzioni sostitutive sia con quelle alternative tra le quali è prevista
anche la semili-bertà.
Quando la pena è al massimo di sei mesi il giudice può consentire di scontare la stessa al di fuori dell’istituto
penitenziario per svolgere lavoro, seguire corsi professionali o sottoporsi a trattamenti medici.
Tra le cosiddette pene correzionali esiste la condanna a prestare un lavoro non retribuito a favore della
collettività pubblica che varia tra le 24 e le 240 ore.
Belgio. Il sistema belga per le pene inferiori ai sei mesi prevede una misura molto simile alla nostra
semilibertà.
Esiste, altresì, il congedo penitenziario concesso ai detenuti meritevoli di fiducia per periodi compresi tra uno
e tre giorni: esso rappresenta un periodo di libertà giustificato dall’esigenza di realizzare un determinato
scopo pratico solitamente la soluzione di problemi familiari e sessuali.
Spagna è il paese dell’Ovest europeo che presenta il sistema penale più complesso con un elevato numero
di sanzioni.
Il codice penale spagnolo, infatti, non solo fornisce una dettagliata elencazione delle pene principali ma
anche delle misure di sicurezza e prevenzione tra le quali particolare importanza riveste “l’arresto fin de
semana” per pene detentive comprese tra le quattro e le dodici settimane.
L’ordinamento spagnolo, in particolare, prevede che le pene detentive lunghe siano eseguite in quattro fasi
nel cosiddetto "sistema progressivo" nel quale si colloca la semilibertà.
La “Prelibertad”, simile alla nostra semilibertà; costituisce una figura anticipatrice della libertà condizionale; in
essa il detenuto può lavorare fuori dal carcere in “regimen abierto” ottenendo periodicamente un weekend
libero.
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Dal 24/05/1996 sono state soppresse le pene detentive brevi, ossia sino a sei mesi di reclusione,
sostituendole o con la pena pecuniaria, a tassi giornalieri, oppure con gli arresti di fine settimana. In Spagna
va ricordato che nove anni or sono entrarono ih vigore sia il nuovo codice penale sia l’ordinamento
penitenziario che si sono ispirati ..... a quelli italiani.
Svezia. Paese dotato di un sistema correzionale rieducativo all’avanguardia; è la Svezia che sin dagli anni
’30 si è caratterizzata per la cosiddetta “filosofia del trattamento” attraverso la quale si è cercato di ridurre al
massimo l’area della pena detentiva, ampliando le forme alternative e la discrezionalità nella
commisurazione della pena (cosiddetto “sentencing”) al fine di privilegiare gli aspetti più pedagogici e medici
dell’esecuzione penale, in una prospettiva di riabilitazione del reo.
La Svezia, infatti, ha un tasso di detenzione tra i più bassi d’Europa anche sé più alto rispetto agli altri paesi
scandinavi.
La pena più largamente utilizzata è quella pecuniaria e si tende a favorire la pena detentiva breve.
In controtendenza ci appare la Gran Bretagna: con il “Crime Sentence Act” del 1997 presentato in
Parlamento nel marzo del 1996, il legislatore britannico ha affermato i principio della “effettività della pena”,
disponendo che la pena scontata dal detenuto deve essere il più possibile corrispondente a quella irrogata
con la sentenza di condanna.
In Germania, di contro, il sistema penale tedesco si basa già dalla fine del secolo scorso sugli insegnamenti
di Von Liaszt, che tendeva al rigettò della pena detentiva breve. La riforma del 1975 ha portato ad una
sostanziale restrizione nell’uso della pene detentiva breve, considerata antiria-bilitativa, e ad un più
generalizzato impiego della sanzione pecuniaria quale strumento di politica criminale diretta alla prevenzione
delle future offese.
L’Olanda si caratterizza per il clima sanzionatorio particolarmente mite e per la tradizionale tendenza alla
riduzione dell’uso della pena detentiva breve. Tutto ciò ha fatto dell’Olanda il paese dell’Europa con la più
bassa densità di popolazione carceraria; le pene irrogate sono mediamente le più brevi d’Europa e circa un
quarto delle condanne sono in parte o totalmente sospese.
Questa “felice” situazione si è andata deteriorando, però, nel corso degli anni ’80 quando cioè l’aumento
della criminalità ha fatto emergere problemi di sovraf-follamento delle carceri ed ha conseguentemente
portato ad un inasprimento delle pene e dei termini delle sanzioni di custodia nonché alla introduzione del
“lavoro non pagato a favore della comunità”.
Tuttavia essendo il sistema detentivo olandese formato ai principi di umanizzazione della pena e dalla
risocializzazione fuori dal carcere, nel sistema carcerario le decisioni sono prese dall’autorità amministrativa.
Le osservazioni che sono scaturite alla fine di questo nostro breve lavoro ci hanno visti unanime-mente
concordi nel riconoscere che l’Italia é la “Cenerentola” d’Europa riguardo l’esecuzione della pena. Pur
avendo dei codici all’avanguardia essi, purtroppo, sono troppo spesso disattesi.
I1 nostro rammarico consiste nel riscontrare che ad un ordinamento penitenziario sulla carta così innovativo,
rieducativo e rispettoso della dignità del Recluso non corrisponda quasi mai una fattiva e concreta
applicazione del medesimo.
Perché a leggi buone, anche se passibili di miglioramento, non corrispondono quasi mai per molteplici motivi,
politici, organizzativi e finanziari applicazioni reali? Sono domande che giriamo a Voi con la speranza che
tramite la Vostra intercessione arrivino a coloro che hanno il potere e l’autorità di renderle finalmente e
concretamente operative.
Domanda: umanizzazione della pena, reinserimento, affettività, lavoro. Sono le parole d’ordine dell’Europa,
ma l’Italia dove si colloca?
PERICOLOSITA’ SOCIALE
Il problema che ci appare doveroso mettere in evidenza è quello inerente alla pericolosità sociale.
Essa si basa su due fattori di valutazione che rappresentano i due elementi centrali per valutare la potenziale
pericolosità: i precedenti penali e la possibile commissione di reati.
I codici penali identificano nella recidiva uno degli elementi capaci di influire sulla durata della pena
pronunciata dalla Magistratura giudicante allo stesso modo se l’essere recidivo viene indicato in sentenza
cambia la valutazione della personalità e, in particolare, quando il condannato presenta istanza di liberazione
condizionale, affidamento in prova o detenzione domiciliare (ad esempio dopo un periodo trascorso in
carcere) può determinare un rigetto da parte della corte dell’istanza di ammissione alla misura alternativa.
E’ interessante per noi italiani osservare che il sistema olandese, dal lontano 1986, ha abolito dal codice
penale la recidiva in quanto si è ritenuto che la sua applicazione attraverso la sanzione più severa non
avesse dato buoni risultati.
Si è detto in particolare non avrebbe azione preventiva rispetto alla commissione di ulteriori reati.
In Italia in tema di pericolosità sociale si è assistito ad un giro di vite per l’ottenimento dei benefici della legge
“Gozzini”, giro di vite nato sull’onda emotiva provocata dagli omicidi dei magistrati Falcone e Borsellino.
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Dal 13 maggio 1991 al 7 agosto 1992 è stato creato un regime differenziato per la concessione dei benefici
con il préciso intento di arginare il fenomeno della criminalità organizzata.
Non vogliamo sollevare alcun tipo di polemica ma è doveroso sottolineare come 1 norme restrittive inerenti il
“4 bis”, sostanzialmente volute per coloro che avevano avuto l’ardire di sfidare lo Stato abbiano, in effetti,
indiscriminatamente colpito nella generalità punendo pesantemente ed ingiustamente anche coloro che tale
ardire proprio non avevano avuto e tanto meno pensato. E' importante sottolineare come tali norme sia state
viziate, sin dal loro nascere, non solo da incostituzionalità, ma anche da violazione delle convenzioni
internazionali alle quali lo Stato Italiano ha conferito il valore di legge.
Ricordiamo che la Corte Costituzionale ha sostanzialmente costruito un’opera di vera e propria demolizione
dei contenuti dell’articolo “4 bis”.
Le otto autorevoli sentenze della Corte Costituzionali hanno provocato una. situazione di “abrogazione di
fatto” accettata da alcuni Tribunali di Sorveglianza ed altri no.
Le assurde conseguenze che l’ammissibilità ai benefici e l’entità di pena da espiare per esservi ammessi
varia da città a città a seconda dove si trovi l’Istituto Penitenziario in cui il condannato è destinato ad espiare
la pena.
La disomogeneità dei trattamenti operati dai Tribunali di Sorveglianza ha provocato molteplici interventi della
Corte di Cassazione che ha ricondotto i Tribunali stessi a ritenere non più operante la norma restrittiva.
Riteniamo opportuno concludere che le limitazioni dell’articolo “4 Bis” sono contrarie allo spirito rieducativo
del trattamento risocializzante.
Auspichiamo una seria revisione del medesimo in considerazione che, ad oggi, anche i normali tempi previsti
dalla legge “Gozzini” non vengono rispettati facendo accedere ai benefici i condannati addirittura ben oltre i
termini previsti dalle norme restrittive.
Domanda: l’ex “Cirielli”, in via di approvazione definitiva, cadrà su tutti i recidivi aumentando i1 problema del
sovraffollamento; ritenete sia una legge necessaria e che veramente garantisca maggior sicurezza sociale?
SANITA’ IN CARCERE
Parlare di sanità è toccare un argomento scomodo, ovunque. In carcere poi i problemi e le disfunzioni si
ingigantiscono, per tutta una serie di fattori che sono legati alla realtà detentiva.
Carcere e malattia è un binomio che proprio non può reggere. Il sistema sanitario già fa acqua per chi è nello
stato di libertà e può cercare almeno muoversi per superare gli ostacoli che incontra.
Il malato tra le sbarre è come impacchettato dalle esigenze giudiziarie e deve solo attendere. Ma l’attesa per
il malato significa aggravamento, complicazione... e, qualche volta, morte.
Non vogliamo fare il piagnisteo,ma sollecitare una presa di coscienza da parte di tutti su un tema delicato.
Il diritto alla salute non viene interrotto dal provvedimento restrittivo. Dinanzi alla malattia, non ci sono alibi.
Ovunque il malato deve trovare risposte. Fuori e dentro il carcere.
“Non ci sono soldi” - si trovano. “ Non c’è personale” - si assumono altri operatori. “ La legge non permette
questo o quello” - si cambia la legge. “ Gli ospedali non accettano il ricovero” - si creano le condizioni per
imporlo Con la malattia è in gioco la vita. La cosa più sacra che si ha.
All’interno degli istituti, oltre alle innumerevoli piccole patologie, sono presenti problemi di salute gravi che le
strutture attuali non sono in grado di risolvere. Ricordiamo i tanti sieropositivi, i malati di aids, i cardiopatici, i
diabetici e quanti altri che devono sopportare la mancanza di cure inadeguate.
Un discorso a parte andrebbe riservato ai tossicodipendenti che andrebbero curati in strutture adeguate ai
loro disagi e per i quali il carcere rappresenta tutto fuorché uno spazio di cura e di sostegno.
Il primo problema cui va data risposta nel carcere è quello della salute.
Domanda: perché ai malati cronici non viene sospesa tempestivamente la pena? Perché i tossicodipendenti
non vengono curati in strutture extracarcere?
I VUOTI DA COLMARE
Quando si parla tra noi detenuti si toccano tasti dolorosi, legati propriamente alla detenzione: la noia che si
patisce per gran parte della giornata, la mancanza di affetti familiari, il senso di solitudine e di abbandono
che troppo spesso ci assale e ci spinge a pensare che il mondo esterno si sia dimenticato di noi.
La quotidianità di tutti è ormai caratterizzata dalla frenesia del correre: non c’è tempo per pensare a sé stessi
e tanto meno agli altri. Se poi “gli altri” sono un argomento scomodo, come i malati,i disabili, gli anziani, i
detenuti, allora si tende proprio a girare la faccia dell’altra parte.
Nel contesto di questo convegno, ci sembra importante richiamare l’attenzione su due tipi di “vuoti” che si
ritrovano intorno al carcere e che vorremmo che fossero colmati.
1. I1 primo “vuoto” è rappresentato dalla “lontananza mentale” dal carcere. Prendiamo, per esempio, Regina
Coeli. E’ qui al centro della città. Ogni giorno passano sul Lungotevere migliaia di automobilisti. Quanti di
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essi hanno un pensiero per chi vive tra queste mura? Crediamo pochissimi. Viene da dire di essere così
vicini eppure così lontani.
Oltre alle mura materiali, il carcere è racchiuso in palizzate di diffidenza, di paura, di ignoranza. A costruirle
nelle teste è stata una cattiva informazione formatasi all’ombra di una cultura del castigo e non del perdono.
Negli ultimi anni si sono fatti tanti passi per avvicinare questa realtà “scomoda” alla società, ma la strada da
percorrere appare ancora lunga.
2. Poi i “vuoti” dentro e intorno al carcere. Vi facciamo cenno per i riflessi che essi hanno sulla gestione della
pena soprattutto nella fase in cui per il reo maturano secondo la legge, possibilità alternative alla detenzione.
Li elenchiamo come richiesta.
- Chiediamo che sia potenziato tutto l’organico dell’area educativa ( educatori, psicologi, assistenti sociali...).
- Chiediamo che sia potenziata la magistratura di sorveglianza con l’auspicio che i benefici non vengano
applicati solo a pena espiata.
- Chiediamo che si creino opportunità di lavoro e si curino corsi di formazione al lavoro in modo da agevolare
tutto il discorso del reinserimento esterno.
- Chiediamo che i malati con gravi patologie, i tossicodipendenti siano curati in strutture specifiche e più
adatte alle loro problematiche. Se ciò avvenisse anche l’esecuzione della pena troverebbe una modalità più
giusta, più umana e più rispettosa della dignità del reo.
Voi volontari già conoscete queste problema-tiche.
Qui le ricordiamo anche noi, che le avvertiamo ogni giorno. Ne facciamo cenno perché insieme si possa
arrivare a vivere un futuro migliore anche all’interno delle carceri e dove ci sia la consapevolezza che ad una
espiazione della pena all’insegna del ricupero del reo corrisponde una migliore sicurezza sociale.
Rimettiamo nelle vostre mani questo messaggio, perché la società arrivi a guardare con occhi diversi, più
umani e più attenti coloro che sbagliano, perché la pena non sia vendetta e l’espiazione di essa sia un reale
percorso di ricupero e di reinserimento.
QUALE FUTURO CON “QUESTA” CIRIELLI???
L’incontro odierno ci appare la sede più opportuna per sottolineare, all’indomani dell’approvazione della
legge ex Cirielli. come l’esecuzione della pena abbia subito uno sbalzo nel passato.
La mannaia di questa legge classificata da gran parte del mondo politico e giudiziario con aggettivi non certo
lusinghieri si sta per abbattere sulla testa dei detenuti.
Gli effetti o meglio i disastri più immediati saranno quelli di provocare un sovraffollamento carcerario ancora
più drammatico di quello attuale e l’abrogazione di fatto della legge Gozzini.
Assistiamo ad un ritorno alla preistoria dell’esecuzione della pena, le carceri sono da anni una polveriera che
solo grazie al senso di responsabilità e maturità dei detenuti non è ancora esplosa. Senso di responsabilità e
maturità che non riscontriamo nei nostri legislatori che di fatto stringono in mano una torcia accesa troppo
vicino alle polveri.
Chiediamo a tutti coloro che hanno ben saldi in mente i principi di giustizia, uguaglianza ed umanità di
attivarsi affinché non si cancellino con una sola bieca ed anacronistica legge, anni di conquiste umane
risocializzanti faticosamente raggiunte con tanto lavoro e sacrificio comuni.
Vista da dentro l'amministrazione
di Celso Coppola
1 - Il 26 luglio di trent’anni fa, il DDL n. 538/72 (denominato “Riforma Gonella”), approvato in via definitiva dal
Senato il 17 luglio 1975, veniva promulgato a firma del Presidente della Repubblica Leone, del Guardasigilli
Reale e del Presidente del Consiglio dei Ministri Moro.
Le “norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” –
legge 26 luglio 1975, n. 354 – saranno pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 212 del 9 agosto 1975 –
supplemento ordinario.
Il relativo Regolamento di esecuzione veniva approvato con D.P.R. del 29 aprile 1976, n. 431.
2 - Si compiva così un lungo e tormentato cammino iniziato nel 1947 con la proposta di riforma Gullo,
proseguito con l’emanazione della Costituzione nel 1948 che elevava a dignità costituzionale gli indirizzi nei
riguardi della pena (art. 27), con l’inchiesta parlamentare del 1949-50 sulle carceri, con le varie proposte di
legge succedutesi per cinque legislature e riunite alla fine nella proposta di riforma Gonella del 1972, a sua
volta oggetto di dibattiti e stesure diverse attraverso il lavoro di commissioni e di gruppi di lavoro ristretti.
Se si concludeva tale iter, se ne apriva un altro altrettanto lungo e tormentato, quello iniziatosi subito dopo
nel 1977 con le prime restrizioni ai “permessi”, con le blindature conseguenti alla stagione del terrorismo, con
il rilancio del 1986 attraverso la legge Gozzini e successivamente con il nuovo regolamento e via via fino ai
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nostri giorni con la continua “riduzione” della riforma, sempre più appiattita nella persistente cultura della
“centralità del carcere”.
Quel 26 luglio assume così il ruolo di un simbolo, di un momento spartiacque, di un punto importante di
riferimento per una vicenda complessa, contraddittoria e, talvolta, anche paradossale se non inquietante.
Una vicenda che va anche al di là della legge stessa per estendersi al problema complessivo della pena e
della questione penale.
Occorre che la società italiana prenda piena consapevolezza delle proprie ambiguità e contraddizioni in
materia; come in altri settori della vita nazionale finché non ci sarà coscienza di tutto ciò non potremo dirci
una società compiutamente civile e democratica.
3 - Assunta come momento di svolta e di riferimento la promulgazione della legge 354, l’avvio di un simile
processo di chiarificazione non può che partire da una lettura il più possibile obiettiva delle innovazioni e dei
limiti che caratterizzano la legge 354 nel contesto culturale e politico dell’epoca per poterne poi interpretare
le evoluzioni degli anni successivi.
A proposito del contesto culturale e politico va subito annotato che la legge, pur essendo praticamente coeva
con le altre leggi di riforma che hanno caratterizzato gli anni ’70 (relative all’adozione, al diritto di famiglia,
alla sanità, ai consultori familiari, agli asili nido, ai disabili, alle tossicodi-pendenze...), non partecipa se non in
parte di quel clima, anzi sostanzialmente ne è quasi estranea.
La circostanza è dovuta al fatto che, come si è accennato, la legge 354 è nata molto prima. In tal senso ha
avuto un ruolo precursore. Essa infatti è nata essenzialmente dalle esperienze compiute dal Ministero di
Grazia e Giustizia nel settore minorile a partire dagli anni ’50 quando la cultura italiana, dopo il periodo
dell’autarchia propria del regime fascista, ha scoperto il servizio sociale (con l’azione di comunità di Olivetti al
nord e del UNRRA CASAS nel mezzogiorno); sono poi sorti nel 1948 i primi focolari per minori del Ministero
della Giustizia in Abruzzo e nel 1949 il primo ufficio di servizio sociale presso il Tribunale per i minorenni di
Roma. Via via si sono acquisite poi l’antropologia culturale, la sociologia, la psicoanalisi, la psicologia (con la
costituzione delle prime cattedre universitarie in materia).
Negli stessi anni ’50 riprende vita il movimento dei volontari che già dal secolo precedente operavano nelle
carceri italiane; le prime forme organizzative si definiscono a Milano sotto l’egida della Sesta Opera S.
Fedele e il Primo Convegno del Seac si tiene a Portoferraio nel 1967: oggi viene qui presentato il 38° della
ininterrotta serie.
Applicate al settore della devianza sociale queste aperture culturali portano innanzitutto a riconoscere nel
“detenuto” non solo l’autore di un reato ma anche una “persona” con il suo contesto di struttura di personalità
e di riferimenti ambientali.
Ecco quindi la principale, rivoluzionaria, innovazione della 354: la individualizzazione del trattamento con la
conseguente necessità di una conoscenza approfondita del quadro personale e sociale del detenuto.
Dall’anonima e indifferente massa di detenuti condannati alla reclusione della pre-riforma si passa a una
considerazione più attenta delle singole personalità con conseguente, potenziale utilizzo di una gamma di
pene non più limitate solo alla reclusione e con lo stabilimento di un rapporto nuovo con i detenuti, aspetto
quest’ultimo cui il volontariato è stato particolarmente attento.
La lotta contro le “istituzioni totali” è cominciata quindi nel settore giudiziario, nei riformatori, nelle case di
rieducazione, almeno vent’anni prima agli altri settori a cui si estese nella stagione delle riforme (brefotrofi,
gerontocomi, ospedali psichiatrici...).
Proprio la precocità della riforma costituisce però, a posteriori, un certo suo limite. Infatti essa si pone come
primo atto di un lungo processo e soffre di un’accentua-zione a volte esclusiva degli aspetti individuali;
l’osservazione scientifica della personalità, a parte l’impossibilità di estenderla a tutti i detenuti, risulta alla
fine una presunzione pseudoscientifica e paternalistica: gli “esperti” decidono del progetto di vita del
detenuto e lo costringono nei binari della propria concezione culturale. La massa dei detenuti è atomizzata in
un aggregato di situazioni individuali da gestire singolarmente.
A ciò si aggiunga che il trasferimento di questo modello rieducativo dal settore dei minori a quello degli adulti,
opera una forte riduzione dei contenuti innovativi e tende ad appiattire l’individualizzazione del trattamento in
una pratica burocratica e formale di scarsa incisività sulla realtà del vissuto del detenuto.
Per questo motivo la riforma penitenziaria, pur precorritrice e rivoluzionaria rispetto alla cultura degli anni ’50,
non appare omogenea alle altre riforme degli anni ’70, tutte tese ad una socializzazione dei problemi, a
interventi strutturali e di gruppo più che a una loro individualizzazione.
Un equilibrio tra le due tendenze è ancora da raggiungere.
4 - Oltre all’innovazione concernente l’individualizzazione del trattamento cui si è accennato, altri aspetti di
carattere positivo caratterizzano la riforma, quali:
- considerare per la prima volta il tema dell’esecuzione penitenziaria oggetto di una legge; in precedenza
infatti era sempre stato trattato a livello di semplice “regolamento delle carceri”;
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- l’introduzione delle misure alternative all’esecuzione penitenziaria, altro aspetto fortemente innovativo; non
si tratta ancora della previsione di pene autonome, diverse dal carcere, ma più semplicemente di alternative
all’esecuzione detentiva.
Comunque una grande conquista. Si intuisce l’uscita dalla centralità del carcere, dalla detenzione come
unica e sola pena; in qualche modo si supera la detenzione per aprirsi a un ventaglio di possibilità.
In pochi anni, nonostante il poco personale e gli scarsi mezzi a disposizione dei Centri di servizio sociale per
adulti, le misure alternative in libertà giungeranno a pareggiare quelle alla detenzione definitiva, assestandosi
sulle trentamila unità (l’equivalente degli ospiti di circa sessanta istituti di media capienza) con tutti gli
innumerevoli vantaggi connessi: alleggerimento dal degrado della vita carceraria, mantenimento dei rapporti
familiari e sociali, costi infinitamente inferiori per lo Stato (meno di 1/10), scarsissima percentuale di recidive
(circa il 3%);
- l’inserimento, nel circuito penitenziario, conseguente a quanto finora enunciato, di nuovi operatori
(educatori, assistenti sociali, psicologi, psichiatri...) e dei relativi servizi, portatori di esperienze e di culture
professionali diverse, contributi che spingono all’interdisciplinarietà, al lavoro di equipe superando la rigida
gerarchia del sistema di custodia tradizionale;
- altrettanto “rivoluzionaria”, se non nell’assetto previsto ma nelle sue potenzialità, la previsione della
partecipazione della comunità esterna e del volontariato al trattamento sia in detenzione che in libertà (artt.
27 e 28).
Si tratta dello stabilirsi di un rapporto con l’esterno, una vera eresia rispetto alla chiusura e all’autarchia del
tradizionale istituto di pena.
L’apporto della comunità esterna e del volontariato è di matrice completamente diversa e, in qualche modo
esercita anche una forma di controllo da parte della comunità e avvia l’inserimento degli istituti e dei servizi
penitenziari tra i servizi sociali del territorio, la loro inclusione nelle politiche sociali locali.
Non per niente saranno queste le innovazioni che troveranno e trovano tuttora le maggiori difficoltà di
realizzazione: esistono ancora istituti ove, nonostante la legge, il regolamento e i protocolli d’intesa i volontari
non possono entrare o la loro attività è ridotta al minimo. Ancor di più meraviglia il fatto che quei direttori non
siano richiamati ai loro doveri (ecco gli aspetti “inquietanti” cui si accennava all’inizio).
Nonostante le difficoltà, l’attività degli enti locali, delle regioni, del volontariato e della società civile nei
riguardi del sistema penitenziario si è allargata quasi dovunque con iniziative di formazione professionale,
occupazione lavorativa, attività sportive, culturali e ricreative. Non è mai stato fatto un calcolo dei fondi
stanziati per queste attività dalle varie realtà istituzionali e volontarie locali, ma è ragionevole pensare che
esso sia vicino a cifre oscillanti tra il 40 e il 70% dell’intero bilancio statale in materia.
Una forte spinta a questa crescita è stata data dalla “Commissione Nazionale per i rapporti tra il Ministero
della Giustizia, le Regioni, gli Enti locali e il volontariato” istituita con la partecipazione di tutte queste realtà
già nel 1978 a seguito del trasferimento di competente dallo Stato alle Regioni ex D.P.R. 616/77.
La Commissione ha costituito un concreto esempio della possibilità di collaborazione tra Stato e Regioni, in
un campo di attività in comune quale quello penitenziario, nel rispetto delle reciproche competenze e ruoli. In
venti anni di attività ha prodotto “indirizzi” sulle modalità di integrazione nel campo della sanità, della
formazione professionale, dell’istruzione, del volontariato, dell’edilizia penitenziaria e via dicendo; ha anche
impostato e contribuito alla stesura dei protocolli d’intesa tra le singole regioni e il Ministero della Giustizia.
Fatto ancora una volta inquietante: la Commissione non è stata più riunita dall’attuale Ministro Guardasigilli,
dopo una prima convocazione all’inizio del suo mandato.
5 - Un aspetto positivo, indiretto ma molto significativo scaturito dal processo di maturazione della riforma è
dato dalla costituzione, nel 1970, del “Comitato per la Riforma Penitenziaria” formato dagli operatori attivi nel
settore (oltre 30 organismi tra associazioni, sindacati e comitati; da registrare l’allargamento a interessi più
vasti attraverso l’adesione dei “Comitati d’azione per la giustizia”). Si è trattato della prima occasione di
dialogo libero e di partecipazione attiva da parte degli operatori al dibattito.
6 - Contemporaneamente occorre accennare, in assoluta sintesi, anche ai limiti “interni” alla riforma, oltre a
quello accennato inizialmente, quali:
- la mancata soluzione, giuridica e tecnico-organizzativa, al problema del doppio mandato costituzionale:
custodia e trattamento, vissuti spesso come inconciliabili dai giuristi (vedi il dibattito tra “certezza” e
“flessibilità” della pena) e dagli operatori (concetto di trattamento, di aiuto, di controllo, di offerta di
opportunità, di contratto tra detenuto e operatore...);
- la mancata riforma del Corpo degli agenti di custodia: stato giuridico (vedi altalena tra inquadramento
militare e inquadramento civile), selezione, formazione, lavoro sul campo, rapporto tra custodia e
trattamento...
La riforma verrà solo nel 1990 (legge 15 dicembre 1990, n. 395) ma non sarà risolutiva: il Corpo continua a
soffrire (i sintomi non mancano: vedi tra l’altro l’alto tasso di assenze per malattia...) e cerca di far fronte ai
problemi con una militarizzazione strisciante e con continue richieste di aumento degli organici;
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- scarsa dotazione strumentale necessaria per l’attuazione degli istituti previsti: dagli organici della
magistratura di sorveglianza a quelli degli operatori tecnici, dalle attrezzature per gli istituti, per l’istruzione e
la formazione professionale a quelle per la sanità e la cultura...
7 - Limiti, invece “esterni” alla riforma possono essere considerati:
- la mancata contestualità tra le riforme del Codice Penale, del Codice di Procedura Penale e
dell’ordinamento penitenziario, con tutte le conseguenze facilmente intuibili;
- l’incremento e il cambiamento della popolazione detenuta: si pensi ai tossicodipendenti e agli
extracomunitari e alle diverse esigenze da loro poste circa comportamenti, convivenza, modelli culturali;
quanto è stato possibile accoglierlo e quanto invece, nell’impossibilità di farvi fronte, queste stesse esigenze
sono state appiattite nella standardizzazione degli interventi e nella semplice custodia?
- il clima di chiusura e di repressione conseguenti alla stagione del terrorismo, evoluto poi in un generale
(spesso presunto) stato di “insicurezza” proteso alla difesa sociale, alla “tolleranza zero” e quindi del tutto
sfavorevole alle iniziative di socializzazione sul territorio.
8 - Su quest’ultimo tema, considerato oggettivamente un limite ad una realizzazione completa della riforma
peniten-ziaria, appare opportuno soffermarsi brevemente in quanto esempio concreto della difficile
situazione in cui ci si trova.
La discussione sulla tolleranza zero e sul sovraffollamento delle carceri è sotto gli occhi di tutti e non occorre
certo riprenderla. Quello che appare necessario sottolineare è che essa è tenuta a un livello per lo più
astratto, ideologico, se non demagogico mentre le soluzioni sul piano concreto sarebbero possibili ma non
sono ricercate.
I due temi sono tra loro strettamente collegati e la soluzione da più parti proposta è unica: costruire altre
carceri e assumere altri agenti di polizia penitenziaria.
Occorre ripetere fino alla noia che questa soluzione è illusoria, impraticabile, impossibile. Carceri e agenti
non basteranno mai, dovranno essere continuamente incrementati! A parte i tempi lunghissimi necessari per
la costruzione di nuovi istituti penitenziari non è certo possibile pensare di decuplicare carceri e agenti,
portandoli rispettivamente al numero di 2000 e di 500.000: tanto sarebbe necessario per raggiungere i livelli
di tolleranza zero adottati ad esempio negli USA. Si tratterebbe solo di affermazioni destinate a restare tali, di
promesse mai mantenute, di una crescita formale, di involucri vuoti prodotti in serie dovunque, senza
nessuna articolazione e attenzione al particolare, al rapporto col detenuto con la comunità. Simboli, emblemi,
proclami.
La possibile via di contenimento del fenomeno passa piuttosto attraverso le misure alternative. Per legge
tossicodipendenti ed extraco-munitari potrebbero essere subito posti in misura alternativa almeno per il 50%,
il che significherebbe deflazionare gli istituti di circa 15.000 detenuti, abolendo in pratica il sovraffollamento.
Ebbene, perché non si applica la legge e si perseguono invece fantasie impossibili? Un altro aspetto
incredibile e inquietante della nostra politica penitenziaria.
Certo per realizzare questo sfollamento è necessario potenziare l’organico degli educatori negli istituti e
quello dei Centri di servizio sociale per gli interventi di rafforzamento della rete territoriale di sostegno, ma
queste sono iniziative possibili e di costo infinitamente più limitato.
Rafforzare i C.S.S.A., sia detto tra parentesi, non è certo approvare il disegno di legge Ddl 5141 che li
vorrebbe trasformare in “uffici locali per l’area penale esterna” cioè una sorta di piccole carceri territoriali
adibite prevalentemente alla matricola e al controllo dei soggetti in misura alternativa, rinunciando a tutti i
contenuti professionali previsti dall’attuale ordinamento.
9 - Tra innovazioni e limiti si può dire che la riforma avanza e regredisce contemporaneamente con
un’applicazione a pelle di leopardo: realizza punti di eccellenza e lascia sopravvivere nicchie e tradizioni
intollerabili. Manca una generalizzazione organica.
Il potere politico appare anch’esso diviso e debole di fronte al problema: non bastano certo le interrogazioni
parlamentari, le visite negli istituti o i difensori civici ad affrontare la situazione.
Tra dibattito ideologico e azione concreta esiste quindi uno scarto troppo forte, un vuoto che si dilata sempre
di più.
In questo vuoto l’amministrazione penitenziaria si trova sola. Si tratta di un ulteriore problema.
Dovendo far fronte a tante situazioni diverse e difficili senza un sostegno e un orientamento univoci,
l’amministrazione adotta il modello della “riduzione”, della gestione a livello minimo, cercando di evitare ogni
rischio.
Si tratta peraltro del modello più consolidato nella tradizione secolare dell’amministrazione ma è anche il
modello che tende a frenare le innovazioni e si concentra, ancora una volta, sulla mera custodia.
Al di là così di leggi e di regolamenti ciò che conta veramente nella gestione del sistema penitenziario è
l’attività minuta, quotidiana degli uffici centrali e periferici. Osservata nel suo insieme risulta in tutta la sua
importanza: attraverso queste circolari, lettere, fax si realizza o si spegne la riforma. La formazione e la
gestione del bilancio e le relative priorità, la politica del personale (assunzioni, assegna-zioni, trasferimenti,
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punizioni e promozioni, concorsi, formazione...), la manutenzione e gli arredi, l’edilizia, la sanità, il vitto...:
tutto viene deciso nel solco della tradizione e secondo i canoni consolidati.
Occorre rilevare che non è mai stato fatto uno studio sulla “politica” e sulla “gestione interna”
dell’amministrazione penitenziaria. Sembra che questo organismo dello Stato goda di una sorta di
extraterritorialità. All’autarchia del carcere e alla sua separatezza dalla società si accompagna, in parallelo,
analoga separatezza delle strutture dirigenti.
Come si è detto questo ripiegamento dell’amministrazione su se stessa ha una lunga tradizione dall’unità
d’Italia in poi: è sempre stata, come accennato, una componente essenziale, intrinseca alla funzione del
carcere.
Un tempo infatti era la regola costante, la sola regola:
“La storia delle istituzioni penitenziarie nell’Italia moderna sembra correre lungo binari dotati di una logica
esclusiva e autonoma, del tutto avulsa dagli avvenimenti politici e sociali del mondo “libero”... La forma e la
continuità, sul terreno burocratico organizzativo e amministrativo, delle strutture penitenziarie sembrano
vivere di un’esistenza propria, di una forza d’inerzia...” (Guido Neppi Modona: “Carcere e società civile” in
“Storie d’Italia” Vol. V, Einaudi).
E risalendo più indietro negli anni un’altra testimonianza in situazioni ben diverse: “L’amministrazione
carceraria non è sospettata unicamente perché non è conosciuta, perché nessuno ne sa nulla, perché non vi
è comunicazione alcuna fra nostro mondo e quei cimiteri di vivi che sono le carceri...” (Filippo Turati:
Discorso sul bilancio degli interni pronunciato alla Camera dei Deputati il 18 marzo 1904 – all’epoca
l’amministrazione penitenziaria era inserita nel Ministero dell’Interno – citata da Guido Netti Modona: ibidem).
La situazione oggi è ben cambiata, ma in certe situazioni di difficoltà è possibile il riproporsi di alcuni tratti di
questa separazione.
10 - Questi e molti altri ancora i problemi in cui si è dibattuta la riforma in questi anni, in un’alternarsi di
conquiste, di arretramenti, di incertezze e di contraddizioni, problemi che necessitano di essere portati tutti
alla luce e analizzati approfonditamente in se e nelle loro correlazioni e conseguenze.
La riforma ha molti limiti e non è stata neppure attuata in molte sue parti. ma un fatto emerge chiaramente: il
problema penitenziario, con la riforma, ha spezzato secolari blocchi, è emerso alla storia civile, ha dato vita a
una diversa cultura e ha aperto molti sentieri nuovi. Sta a noi percorrerli e consolidarli.
Il volontariato che agisce nel campo della giustizia vuole dare un contributo all’approfondimento e allo studio
di questi temi, così sommariamente accennati, facendosi anche carico delle proprie responsabilità in materia.
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