Guardare oltre se stessi per essere veramente liberi
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Guardare oltre se stessi per essere veramente liberi
IL MUNICIPALE L’INTERVISTA «Guardare oltre se stessi per essere veramente liberi» Monsignor Ambrogio Spreafico spiega i cardini della sua azione pastorale di DONATELLA GUIDO Studioso, profondamente studioso, ma anche convinto comunicatore. Perché la parola di Dio, che deve essere ascoltata, bisogna farla capire a tutti. Ergo, il regalo migliore da fare a un giovane è la Bibbia. Non ha assolutamente dubbi monsignor Ambrogio Spreafico, soltanto attraverso la conoscenza e la frequentazione della parola di Dio si può recuperare una dimensione spirituale della vita, l’unico nutrimento possibile. La dittatura del materialismo va combattuta. L’ostentazione della ricchezza è una fatica inutile e nociva, perché schiaccia gli uomini sotto il dominio dell’apparenza. Io valgo perché ho, non perché sono. E mentre sono tutto concentrato a mostrare ciò che probabilmente neanche possiedo, mi inaridisco, mi allontano dagli affetti, dagli amici, divento un individuo solo, non più capace di fare gruppo, di progettare con gli altri, di sognare con gli altri, totalmente privo di una visione d’insieme, sempre più lontano dalla vita vera. E’ proprio su questo che si concentra l’azione pastorale di monsignor Spreafico. La sua missione nella diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino che guida dall’ottobre del 2008. Portare il suo popolo a essere più unito, più predisposto a interagire, mettendo al bando ogni forma di individualismo, attraverso l’ascolto della parola di Dio. Aveva soltanto 10 anni il Vescovo quando incontrò il Signore per la prima volta, a Garbagnate Monastero, in Lombardia, la sua terra d’origine. Ascoltando le parole di un amico sacerdote che gli parlò di Lui come il personaggio di una favola meravigliosa, decise istintivamente di entrare in seminario, con la gioia e nello stesso tempo il dispiacere dei genitori che si separavano da quel figlio troppo presto. Da allora il piccolo Ambrogio non lo ha lasciato più il Signore e a 25 anni è arrivata l’ordinazione sacerdotale. A Roma ha finito gli studi teologici con il baccalaureato all’Università Urbaniana e il dottorato al Pontificio Istituto Biblico con specializzazione nello studio della Bibbia e delle lingue antiche, l’ebraico, il greco, l’aramaico. Le sue due grandi passioni, la Bibbia e le lingue antiche. Due passioni che però Ambrogio non voleva trattenere soltanto per sé, voleva regalarle agli altri, ai giovani di tutti i mondi e di tutte le culture, per aiutarli a incontrare il Signore dal di dentro, attraverso la comprensione di un cammino e di un linguaggio tanto lontano quanto attuale, presente. Quindi la scelta della docenza presso l’Università Urbaniana che lo avrebbe poi avuto come rettore per ben nove anni. Quindi l’esperienza nella comunità ecumenica e multietnica di Sant’Egidio e nelle parrocchie di Santa Maria in Trastevere e di San Filippo Neri alla Garbatella. Da una parte lo studio, oltre all’ebraico conosce il tedesco, l’inglese e il francese, e dall’altra il contatto con la gente, i poveri, le periferie di una capitale sempre più popolosa. Monsignor Spreafico, cosa le ha lasciato la comunità di Sant’Egidio? Un grande amore per la La missione: aiutare la gente a essere più unita, diffondendo la Bibbia Bibbia, per la parola di Dio. Un grande amore per l’eucaristia, per la bellezza della celebrazione della messa. E poi un grande amore per i poveri e l’interesse per il dialogo interreligioso. Si definisce uno studioso? Mi è sempre piaciuto lo studio. Ho scritto libri, articoli scientifici, la mia vita per molti anni è stata anche la vita di uno studioso, di uno che stava in biblioteca tutti i giorni, lavorando e scrivendo. E’ più affascinante il momento dello studio o quello del contatto diretto con le persone? Le due cose le ho vissute sempre in simbiosi. Non sono mai stato uno studioso che si è chiuso in biblioteca e ha buttato la chiave. Come ho speso ore e giorni per scrivere una riflessione su un versetto della Bibbia, così ho cercato di avvicinare la gente con un linguaggio semplice, comprensibile e diretto. Quanto è importante comunicare bene? E’ fondamentale, sempre. Nel momento dell’omelia, che non deve essere una lezione o un comizio ma la trasmissione del messaggio di Dio. Nei colloqui quotidiani con la gente. Nelle conferenze in cui si ha la possibilità di comunicare il proprio patrimonio culturale acquisito negli anni. L’omelia, in particolare, è un momento molto importante di condivisione e coinvolgimento. Bisogna prepararsi bene. Il sacerdote deve conoscere i fedeli per arrivare ai loro cuori. Se un’omelia non suscita lo stupore, la domanda, purtroppo non ha raggiunto il suo scopo. Carlo Bo, grande scrittore italiano, ha scritto un libro: “La predica, tormento dei fedeli”. Penso che in qualche caso abbia ragione. Spesso sono troppo auliche, distanti. O prive di contenuti. I giovani, oggi, lo conoscono veramente Gesù? Direi poco, ma non soltanto i giovani. Conoscere Gesù non è unicamente un fatto istintivo, bisogna approfondire, ripercorrere le sue tappe, leggere quello che è stato tramandato di lui. Oggi, per tanti motivi, la frequenza dei giovani ai momenti religiosi si è ridotta. Nello stesso tempo la Chiesa non si è sforzata sempre e abbastanza nella comunicazione, limitandosi a impartire nozioni e nutrendo poco la fede anche con la cultura. Insomma, bisogna far conoscere di più la Bibbia, bisogna leggerla di più. Che tipo di società ha trovato in questa Diocesi? La gente è buona, tuttavia c’è molto da lavorare per creare la vera unità, per superare un clima che tante volte è diffidente, litigioso. E’ una società che rischia di vivere nel proprio piccolo mondo. La Ciociaria come l’inizio e la fine di tutto. Meccanismi molto localistici che hanno poco a che fare con l’universalità della Chiesa. Ci sta lavorando? E’ un punto su cui torno spesso. Se ognuno sa guardare oltre se stesso, oltre il suo mondo, è più libero. I problemi, che pur ci sono, si stemperano e si affrontano meglio. Quando Gesù dice «prendi la tua croce e seguimi, rinnega te stesso», non vuol dire che ci dobbiamo flagellare, ma che dobbiamo prendere un po’ le distanze da noi stessi e affidarci di più a lui. E’ anche un modo per crescere? Certo, è una crescita collettiva. Anche perché questo territorio ha tante possibilità, culturali, di sviluppo. A mio parere, però, sono potenzialità che alcune volte non sono evidenziate a dovere, non sono utilizzate bene, perché non ci si lavora, non si ha una visione d’insieme. Ci si concentra sempre e solo sull’oggi. Se non si lavora con una visione per il futuro, alla fine si muore nel presente. Non si riesce a costruire. Qual è la sua visione monsignore? La mia visione è lavorare per l’unità, per la riconciliazione, perché si impari a vivere in amicizia, a impegnarsi insieme e non ognuno per sé e qualche volta anche contro gli altri. Mi ha colpito un dato in particolare, quante poche cooperative esistano in questo territorio. Per non parlare della vita politica. Si mettono sempre i bastoni tra le ruote, non si riesce a governare in armonia. Chi appartiene alla stessa terra dovrebbe lavorare per il bene comune. C’è un po’ di individualismo? Diciamo anche più di un po’. C’è troppo individualismo. Anche se si hanno opinioni diverse, bisognerebbe chiedersi: al di là del posto che occupo, che cosa c’è da fare per la collettività? La Chiesa è sede di comunione, se non è questo ha perso il senso della sua esistenza. Gesù ha detto: «Vi riconosceranno che siete miei discepoli se vi amerete gli uni gli altri». Come si costruisce questa unità? Con l’ascolto della parola di Dio, con l’amore verso gli altri, soprattutto verso i poveri. Un grande problema in questa diocesi, di cui non ci si rende conto, sono gli anziani. Se ne ha poca coscienza. Ci sono tanti poveri vecchi negli istituti e nelle case che nessuno va a trovare. In questo senso c’è molto da lavorare insieme. La Diocesi coopera con le altre forze del territorio? Si sono create delle sinergie. Con alcuni sindaci in parti- Monsignor Ambrogio Spreafico, vescovo della diocesi di FrosinoneVeroli-Ferentino colare c’è un rapporto molto buono. La nostra Caritas in genere lavora in consonanza con le municipalità. Certo, mi aspetterei un po’ di più. Le sinergie andrebbero rafforzate, rese più operative. Alcune volte emergono posizioni egoistiche. Noi siamo una Diocesi che non ha grandi mezzi, per questo se vogliamo portare avanti dei progetti abbiamo bisogno del concorso degli altri. Chi sono i poveri aiutati dalla Caritas? Sono molto aumentati gli italiani che si rivolgono ai nostri centri di ascolto, prima il primato era degli stranieri la cui presenza, invece, quest’anno è leggermente calata. E’ un segno della crisi globale. Gente che ha perso all’improvviso il lavoro, con figli a carico, il mutuo o l’affitto sulle spalle. Gente di media età. Poi ci sono gli anziani, che in genere, però, non vengono nei nostri centri. Sono dei poveri invisibili. E i disabili, aiutati dall’Unitalsi e da Siloe. Alcuni di loro vivono stabilmente presso il Piccolo Rifugio a Ferentino. La famiglia del frusinate gode di buona salute? La famiglia tiene nella sua unità. Però la vedo un po’ in sofferenza, anche a causa della crisi economica. Molti non ce la fanno e i più disperati finiscono col rivolgersi agli usurai. Noi cerchiamo di aiutarli con il fondo antiusura, anche se non è molto capiente, e con il fondo solidarietà che ho fatto istituire l’anno scorso e che ha ricevuto un cospicuo contributo della Provincia che ci ha permesso di far fronte a tante richieste, dalle bollette all’affitto da pagare. Anche le nostre parrocchie si danno molto da fare, attraverso le collette e le raccolte di generi alimentari e abbigliamento. E’ una popolazione generosa? 30 Maggio 2010 9 Se si spiegano alla gente i motivi per cui si chiede, la gente dà. Se non c’è la possibilità di contribuire con il denaro, si può dare in tanti altri modi, anche prestando il proprio tempo libero per una buona causa. Una cosa positiva di questo territorio è che il volontariato esiste. E io vorrei rilanciare l’azione della Consulta delle associazioni di volontariato. Su cosa bisognerebbe maggiormente riflettere? Sulla disoccupazione. Chi governa dovrebbe puntare sulle risorse locali per creare nuove forme di occupazione e agganciare le forze giovani al territorio. Sul rapporto con gli immigrati, sono ancora un corpo un po’ estraneo. E poi bisognerebbe non abbassare le guardia nei confronti della criminalità organizzata. Se ne parla poco, si vede come una cosa che non ci riguarda. Ma bisogna stare attenti, non è vero che siamo esenti da questo problema. Un progetto nel cassetto? Vorrei valorizzare alcuni edifici importanti che negli anni non sono stati curati e che potrebbero, invece, una volta risistemati, diventare fattore di attrazione per il territorio, oltre che un notevole contributo culturale. Penso agli Episcopi di Veroli e di Ferentino, al Seminario di Veroli. Ho già avviato dei contatti e fatto richieste di finanziamenti. Abbiamo anche un grande patrimonio archivistico, ricco e unico, verso il quale è stato mostrato un po’ di interesse da parte di alcune istituzioni locali. Però mi aspetterei più collaborazione. Lei ha conosciuto papa Giovanni Paolo II? Si, ho anche avuto il piacere di pranzare con lui un paio di volte. Una persona meravigliosa. Si ricordava di tutti, aveva una memoria infallibile. Era un uomo con una grande capacità di ascolto, curioso del mondo, dell’umanità. E papa Benedetto XVI? Per la prima volta l’ho incontrato nel 1981, a Monaco. Un uomo di una cortesia e di una limpidità straordinarie. Sono stato ferito personalmente, ma anche sorpreso, dalle accuse infamanti che gli hanno rivolto. Perché è una persona di grande onestà. Le cose che gli sono piovute addosso sono completamente estranee al suo modo di essere. E lui questo momento lo sta vivendo in maniera molto sofferta. Condivide la visione, comune a entrambi i pontefici, di una Chiesa ecumenica? Senza dubbio. Ho guidato un’università che fa parte della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Un’università che raccoglie studenti da ogni parte del mondo. Vi sono rappresentate più di 110 nazioni. E’ una grande apertura mentale capire le altre religioni e le culture diverse. La Chiesa è universale, ma le diversità sono indubbie. C’è un libro di un rabbino inglese che amo molto, “La dignità della differenza”. Spiega che la differenza non nuoce agli altri, anzi, se uno la capisce e la coglie può essere una ricchezza. Il suo sogno per la gente del frusinate? E’ lo stesso grande sogno di Dio per il mondo, l’unità della famiglia umana. Soltanto così potremo essere veramente liberi.