LA RESA DI AUGUSTOpdf

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LA RESA DI AUGUSTOpdf
LA RESA DI AUGUSTO
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31 marzo 2010
Incipit
Alla fine s'era decisa: era morta, e tutto cominciò da lì, con quella
morte. Non era riuscita a morire nella sua casa, come avrebbe desiderato. Tutti vogliono morire nella loro casa, soprattutto quando cominciano a diventare vecchi e la considerazione della morte, come
concreta prospettiva, prende il sopravvento. Un tempo, se non fosse
stato per le guerre o le epidemie, difficilmente qualcuno sarebbe
morto fuori dal suo letto. Ora ci sono molti più vecchi, meno guerre e
più Ospedali, e i vecchi lo sanno: una volta entrati in ospedale, difficilmente gli vien data la possibilità di uscire, se non dentro al carro
funebre. Così nessun vecchio va in Ospedale volentieri, anzi, si oppone tenacemente ai tentativi dei figli e dei nipoti quando vogliono
mandarcelo a tutti i costi; mette i bastoni tra le ruote, contrasta le decisioni dei medici, perché sa che il ricovero equivale ad una condanna a morte: nove volte su dieci. Non che uno, anche quando è giovane, vada in ospedale volentieri, dal momento che gli esiti infausti,
vuoi per decorso naturale delle malattie, vuoi per inesperienza o incuria del personale sanitario, sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia ci
va, perché fino a quel momento, quello in cui la morte non è più soltanto un esorcizzabile sortilegio ma una concreta prospettiva, nessuno pensa seriamente al posto dove vuol morire. Anche Matilde
non era mai stata sfiorata da quell'interrogativo fino a quando Carlo,
suo marito, se ne era andato improvvisamente, per un infarto all'aorta addominale, e la morte, così drammaticamente fulminatasi nella
sua esistenza, era entrata nel novero delle possibilità concrete all'inizio di ogni giornata. Tanto che, a poco a poco si era ammalata. Prima il suo dimagrimento era stato attribuito al dolore per l'improvvisa
dipartita di un così immenso coniuge – era nel suo carattere essere
impulsivo, aveva pensato – poi aveva avvertito dei dolori, dei malesseri, certi mancamenti, ma i più avevano pensato ad un modo di at2
trarre su di sé l'attenzione del figlio; il figlio essendo un po' distratto a
questo proposito. Naturalmente aveva finito per ammalarsi gravemente e, dopo tutta una serie di esami, le era stato diagnosticato un
cancro ai polmoni, ormai irrimediabile: tutti quei brontolii, sbuffi, fischi, bofonchi, il boccheggiare e l'ansimare attribuiti al suo carattere
arcigno e scontroso, erano invece la testimonianza sonora del lavorio compiuto dalla malattia nei suoi organi. Poteva solo morire, non si
sapeva dopo quanto tempo, dal momento che il cancro si diverte a
ritardare il compito della morte nei corpi vecchi, mentre a quelli giovani riservava trattamenti spicci. Così il figlio, Augusto, aveva organizzato a Matilde un'adeguata assistenza domestica, trasformando la
camera matrimoniale della casa paterna, che era anche la sua casa,
in un ospitale rifugio per malati terminali, attrezzato di tutto punto per
le emergenze – ossigeno, trasfusioni, lettino da decubito a schienale
variabile e via discorrendo – e assistito da un infermiera professionista che, per non essere una suora, era veramente legnosa e scostante. Nonostante tutte queste premure, non aveva potuto fare a
meno di ricoverare la signora Matilde quando, alle complicazioni del
cancro, si era aggiunto un grave malfunzionamento dell'unico rene
ancora in efficienza.
Ora tutto era finito e, nella camera mortuaria dell'Ospedale, cominciavano a svilupparsi le manovre per metterla, come si suol dire,
nella cassa. In quei tetri locali ricavati in un sotterraneo, inutilizzabile
per altri scopi che fossero direttamente o indirettamente terapeutici,
e lindi di lisoformio, giacevano quattro cadaveri, ognuno in un quartierino; altri due erano liberi e pronti ad accogliere nuovi ospiti, mentre nel settimo solerti imbianchini stavano provvedendo ad una cosiddetta “bella rinfrescata”.
Ognuna di quelle spoglie mortali, rivestita con abiti acconci, giaceva in un pallore di cera, come se un vampiro, deputato a tale compito dall'ospitaliera previdenza, avesse provveduto a risucchiarne per
intero il sangue.
Ognuno, disteso con gli occhi pietosamente chiusi alle cose terrene, attendeva il suo turno per andarsene in via definitiva da una specie di porta di servizio affacciata su un cortilaccio disadorno; quivi so3
stavano, e fumavano, coi dolenti appena reduci dall'omaggio alla salma di pertinenza, gli autisti, grigi come i loro furgoni, ingannando il
tempo necessario ai necrofori per provvedere al laborioso incassamento e al trasporto del feretro, su un traballante carrello: pronta ad
accoglierlo l'edicola, dai vetri molati col segno della croce e il muso
da berlina fuori serie, si pavoneggiava nelle sue cromature sfolgoranti.
Zio Raimondo, cognato della defunta, non aveva voluto rinunciare
ad un salutino, prima che i solerti addetti la sprofondassero nelle
panciute fodere di seta distese sopra il legno a mitigarne la durezza .
Non erano mai andati molto d'accordo lui e Matilde, cionondimeno si
era degnato di non mancare all'evento, in quanto ultimo rappresentante di quella generazione dei Ronchi che con lui si sarebbe ben
presto estinta: Augusto vide la sua massiccia figura, avviluppata nel
soprabito grigio, avanzare zoppicando e sostare in silenziosa meditazione, appoggiandosi da una parte ad un elegante bastone e dall'altra alla sollecita premura della figlia Flavia. I due cugini avrebbero
dato chissà che cosa per penetrare nella mente di Raimondo e leggerne i reali pensieri, ma dovettero limitarsi a scambiare tra loro uno
sguardo complice. Non si vedevano da qualche anno ed entrambi,
pur rintracciando ciascun nell'altro l'antica impronta delle giovanili fattezze, erano rimasti sorpresi dai segni d'invecchiamento ormai incalzanti al punto da deformare anche i caratteri, per così dire, originari
del loro aspetto: il volto di Augusto aveva perso la lucentezza di
quand'era ragazzo e la massa scura dei capelli si era alquanto diradata, cosicché era emersa, con la leggera pinguedine, una certa propensione alla mediocrità, mentre Flavia sembrava gravata da ossessione giovanilistica e si era sovraccaricata di orpelli sguaiati: spille,
spillette, orecchini, volant, braccialetti, foulard e perfino un piercing al
mento, per non parlar dei tatuaggi inesplorabili al cugino essendo
nascosti, ora come ora, in epidermici anfratti di esclusivo appannaggio dei molti fidanzati della donna. Zio Raimondo stava tra loro, muto
testimone dell'inanità delle passioni umane: lui e la moglie, con Carlo
e Matilde, si erano per tutta la vita infastiditi reciprocamente con
sgarbi e ripicche, alimentati da rancori, invidie, gelosie ora evaporati
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nell'aria ed ormai inutilizzabili per quell'unico superstite imbolsito e
greve, rimasto privo di interlocutori contro i quali sfogare il suo animo
esacerbato dal non esser riuscito ad evitare l'unica cosa contro cui
valeva la pena combattere: il trascorrere inesorabile del tempo.
Quando il corteo funebre – corteo per modo di dire, perché al seguito del motorizzato catafalco c'era solo la macchina di Augusto giunse alla Chiesa della Parrocchia di San Vittore in Corpo, un popolo eterogeneo, già radunato sul sagrato ed accomunato solo dalla
necessità di partecipare alle esequie, contendeva lo spazio alle scolaresche intente a guadagnare l'accesso al limitrofo Museo della
Scienza e della Tecnica. Se Augusto non fosse stato concentrato
nella parte di figlio addolorato e rassegnato, alla quale aveva deciso
di conformare, oltre all'abbigliamento, anche i gesti, avrebbe potuto
agevolmente classificare i presenti secondo categorie ben precise: i
parenti, più o meno lontani, le amiche e gli amici della scomparsa, gli
amici suoi, i colleghi di lavoro. Ma naturalmente erano possibili anche altre distinzioni, sulla base dell'abbigliamento, da quello più ispirato al lutto a quello più esibizionista, o della loquacità, in alcuni soggetti mai doma, all'età, variabile dai quattro anni del figlio di un lontano cugino, ai quasi novanta dell'attendente del padre della defunta,
sepolto, il padre, ormai da più di mezzo secolo insieme alla sua divisa da Colonnello dei Carabinieri.
C'era veramente di tutto in quella fredda navata! Come si potesse
portare un piccino di quattro anni ad una cerimonia funebre era, solo
per fare un esempio, questione francamente intollerabile! Un po' di
buon senso, che diamine! Non era neanche un nipotino! In effetti veder saltellare di qua e di là il fanciullo ed ascoltarne la voce squillante
sotto le volte della Chiesa, costituiva un affronto sfacciato al perbenismo di cui era permeata tutta la funzione; uno sberleffo, un maramao
gettato come un mortaretto scoppiettante tra i piedi di quelle solenni
maschere impettite. Così il genitore, che forse per quello si era portato il pargolo, e cioè in funzione di preventiva excusatio, per sgattaiolare fuori dalla Chiesa pochi minuti dopo l'ingresso del feretro, lo
abbrancò per la vita e se lo portò via sotto al braccio.
La Messa, con relativa benedizione della salma, sembrò scorrer
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via veloce, non fosse stato per il pistolotto, francamente troppo agiografico – per dirla tutta - pronunciato dal vice-parroco incaricato della celebrazione: era incredibile, ed Augusto se ne meravigliò molto,
come quel Don Emanuele fosse riuscito a parlare tanto a lungo e in
termini così lusinghieri della defunta, basandosi sollo sulle scarne
note biografiche suggeritegli proprio da lui, Augusto, in Sacrestia prima di iniziare: Don Emanuele, infatti, non l'aveva mai conosciuta e
Matilde non si era mai recata in quella Chiesa. Un vero professionista! Soprattutto Augusto rimase colpito quando pronunciò la frase
“retta nei suoi principi, di cui era stata generosa dispensatrice in vita
fino alla sua ultima ora, riposa finalmente nella certezza che da essi
possano germogliare nei suoi cari le virtù da quei medesimi principi
fecondate”, tantopiù che il riferimento ai “suoi cari” poteva attagliarsi
solo a lui, non essendo rimasto che lui, vivo, tra i parenti diretti e
avendo zio Ferdinando limitato alla camera mortuaria la parentale
solerzia. Solo lui, il figlio, sapeva quante sofferenze, quante umiliazioni e privazioni proprio quei principi gli avessero procurato. Quanto
al “germogliare” poi, sembrava assai improbabile di veder spuntare
in quel terreno dalla madre accuratamente diserbato quand'era in
vita, una qualsiasi gemma di consolanti virtù.
Per tutto il tempo di quella giornata, fin dal suo risveglio e anche
ora, mentre il prete aspergeva dell'immancabile incenso la bara, gli
era parso di vivere come sospeso a mezz'aria. Né il dolore né la tristezza per essere rimasto completamente solo si erano impossessati
del suo spirito, ma invece la sensazione di dover nascere una seconda volta, di poter godere di una nuova opportunità, aveva fatto capolino nella sua coscienza; come se all'improvviso, la sua anima si fosse trovata in balia di spasmodiche doglie : col susseguirsi di contrazioni e sussulti – la chiusura della bara, il trasporto, la messa, l'incenso, le condoglianze di parenti ed amici – e poi ancora di spinte e di
sforzi - il trasporto alla tomba spalancata, la discesa del feretro, la
tumulazione definitiva - avrebbero dovuto concludersi con un parto
attraverso il quale una nuova vita gli sarebbe stata messa a disposizione.
All'uscita del convoglio dal portale di san Vittore in Corpo, i sette
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gradini suddivisi in due rampe irregolari, rispettivamente di tre la prima e di quattro la seconda, giocarono un brutto tiro al primo portantino di sinistra, proprio per via di quell' asimmetria inadatta ad un sagrato destinato alle cerimonie degli altolocati residenti di quella centralissima zona di Milano: non fosse stato per il suo fisico atletico e il
sostegno fermo degli altri tre, Matilde avrebbe subito un grave sconquasso prima di raggiungere la Mercedes grigia, per la quale la definizione di carro funebre sarebbe parsa decisamente infamante agli
occhi dei dolenti radunati a porgere l'estremo saluto.
L'assalto dei condoglianti fu sopportato da Augusto con estrema
dignità; nessuno di loro, quando fu il suo turno, gli fece mancare generose elargizioni di espressioni banalmente accorate, per poi ricongiungersi al branco dove, al riparo di velette d'ordinanza e pudichi
foulard si sviluppavano, rimbalzando su intramontabili trench Burberrys' e irreprensibili gessati scuri, le congetture relative al destino del
ragguardevole patrimonio di beni mobili ed immobili della famiglia,
ora che il giovane Ronchi ne era divenuto l'unico erede; salvo sorprese, come non mancò di sottolineare Pia, vecchia amica di Matilde, alludendo ad una ipotetica volontà della trapassata intesa a riscattare i propri peccati col destinare la quota disponibile, al netto
della “legittima”, ad un suo cugino, di terzo o quarto grado, missionario in Africa. Gli amici di Augusto lo abbracciarono implacabilmente,
uno dopo l'altro, taluno frettoloso e fugace, altri più calorosamente.
Non mancarono incoraggiamenti, e “fattisentire”, “vieniatrovarciquandovuoi”, “chiamacisehaibisognodiqualsiasicosa”, per finire con i “coraggiomiraccomando” su cui si interrogò a lungo: mi raccomando di
che cosa?
Quando giunse, accompagnato dai necrofori, al Cimitero Monumentale, stava cominciando a piovere e gli affossatori comunali avevano già provveduto a rimuovere una lastra dalla tomba di famiglia
per consentire a Matilde di entrarvi, secondo un piano già predisposto, con l'encomiabile preveggenza caratteristica dei vecchi milanesi,
dal capostipite della dinastia Ronchi, il nonno di Augusto, ancor prima che lei entrasse a far parte della famiglia. Ora i due angeli della
morte riparavano le ali dalla pioggia sotto lo sporto di gronda di una
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cappella, fumando tranquillamente una sigaretta mentre attendevano
l'arrivo dell'annunciato cliente. La bara fu calata in silenzio e Augusto
non attese neppure che la pietra la ricoprisse nuovamente; si sentiva
stanco, esausto e non sopportava quell'atmosfera umida, le foglie e i
rami bagnati. Quel luogo, così spietatamente isolato dal resto della
città, lo aveva sempre inquietato, non tanto per paura dei morti, o di
altre strane fobie a questi collegati, quanto perché, quella che poteva
tecnicamente definirsi una discarica, gli appariva ricoperta di una
quantità incredibile di segni, decorazioni, ornamenti, fregi e, qualche
volta orpelli, sotto forma di statue, bassorilievi, giardinetti, impianti arborei, architetture, più che non qualsiasi chiesa, piazza, monumento
religioso o civile di Milano. Lì, dentro a quella sproporzione tra morti
e vivi, a quella contraddizione tra memoria e realtà, si annidavano
probabilmente le risposte alle domande che cominciavano ad affiorare sulla superficie, normalmente quieta, della sua anima.
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Capitolo I – In cui Augusto torna a casa
C'era nebbia quella sera in città, come ormai se ne vedeva sempre più raramente. Augusto si incamminava verso casa infreddolito;
non era solo questione di temperatura: da quando sua madre, che
aveva abitato con lui in quell'elegante appartamento del centro, l'aveva lasciato solo, ormai da due mesi, dopo essersi spenta lentamente
a seguito dell'orrenda malattia contro la quale non c'era stato modo
di combattere con efficacia, sentiva freddo nelle ossa ogni volta che,
tornando dall'ufficio, si avvicinava alla strada, una traversa tra via
San Vittore e corso Magenta, dove tre architetti dei più noti avevano
edificato nei primi anni trenta una casa d'abitazione in quello stile novecento che li avrebbero resi famosi.
Suo nonno, Ernesto Ronchi, un importante commerciante di tessuti, non si era lasciato intimorire dai commenti sarcastici e piuttosto
scandalizzati della gente per quell'architettura così strampalata e, dai
più colti, in seguito definita razionalista: per dar perpetuo lustro mecenatesco alla famiglia, da lui faticosamente sollevata dall'anonimato
dei bottegai milanesi verso una cerchia di più raffinati benestanti, decise di acquistare un quartierino nel nuovo complesso.
Uno sciame di ragazzini e ragazzine vocianti rischiò di travolgere
Augusto occupando l'intero marciapiedi, intenti com'erano a rincorrersi e spintonarsi mentre facevano volare dall'uno all'altro il cappellino di lana con pon-pon che uno di loro, il malcapitato di turno, aveva
ricevuto in forzosa dotazione dall'apprensiva genitrice. Sparirono nella caligine ma il suono delle loro voci sopraffece ancora a lungo il rumore attutito del traffico. Aveva fatto in tempo a comprarsi qualcosa
da mangiare in uno di quei negozi di alimentari sempre più rari in città, sostituiti negli ultimi anni da inutili, a parer di Augusto, e costose
boutique. Anche il signor Pino, titolare in via San Vittore della gastronomia, che prima della Milano da bere si sarebbe chiamata salumeria e durante quel periodo di gaia acquiescenza si sarebbe fregiata
del titolo di gourmet, non scherzava coi prezzi almeno a giudicare
da quelli esposti in una vetrina rutilante di invitanti ghiottonerie sfog9
giate allo scopo, non dichiarato ma evidente, di selezionare la clientela sulla base del censo. Quella sera Augusto si era comprato una
porzione di nervetti e una d'insalata russa, giusto per concedersi una
piccola gioia in una serata che si preannunciava noiosa, senza partite di calcio o film interessanti.
La cabina dell'ascensore con le sue rassicuranti boiserie di noce
lucido accorse prontamente al suo appello, ossequiandolo con una
ben orchestrata serie di cigolii e colpi sordi sopravvissuti a tutte le
manutenzioni e gli adeguamenti subiti in conseguenza della solerzia
di strapagati amministratori. Una volta chiusa alle sue spalle la porta
del vano e, a seguire, quella della cabina, si accomodò sullo strapuntino di pelle rossa, artefice, anche grazie all'illuminazione soffusa, d'
un'atmosfera vagamente scaligera, onorandone, com'era aduso fin
da bambino, la seduta. Sfiorato il pulsante madreperlaceo del terzo
piano, ristette in attesa del colpo brusco il cui segnale, giungendo immancabilmente un attimo prima o un secondo dopo quello nel quale
si era immaginato di doverselo aspettare, annunciava, senza possibilità di equivoci, il raggiungimento della meta prefissata: ripiegò il
sedile, aprì e, una volta sbarcato, richiuse accuratamente le porte –
consapevole di quante controversie avessero provocato, tra coinquilini, consimili manovre allorché mal eseguite, e quanti sordi rancori,
finora trattenuti soltanto dalla buona educazione ma non esenti, per il
futuro, da imprevedibili rappresaglie! – ed entrò nell'accogliente penombra del suo appartamento.
Depositato quasi alla cieca l'impermeabile sul fragile ed elegante
divanetto direttorio primo ottocento, avanzò verso il soggiorno illuminato di risulta dal lampione che, dalla strada sottostante, non lesinava chiaroscuri giallastri sulla parete e ombreggiature inquietanti al
troumeau olandese di fine settecento il cui sussiego, nell'appoggiarsi alla medesima, era giustificabile solo per la pinguedine.
Aveva il vezzo di non attivare le invadenti luci al neon che, nascoste nella cornice del plafone, flagellavano, rattristandolo con il loro
impersonale bagliore, il soffitto. Preferiva scivolare poco per volta
dalla fioca illuminazione del pianerottolo a quella della sua casa, attraverso la graduale accensione di abat-jour, lampade da tavolo,
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appliques, plafoniere, modulandole secondo bisogno e assecondando gli stati d'animo: c'era in quelle penombre, l'eco attutita di lontani
avvenimenti, vi si respirava una continuità col passato che all'illuminazione naturale del giorno, si dileguava.
La vita di Augusto si era dipanata prevalentemente all'interno di
quelle stanze. Era nato nel millenovecentocinquantaquattro pochi
mesi dopo che un mastodontico mostro aveva diffuso, attraverso il
suo unico occhio di vetro, ciclopico ed inusitato, il primo telegiornale
RAI, e, impossessatosi del tinello, aveva inchiodato sulle poltroncine
gli abitanti di quella casa dov'era vanto non lasciare mai inappagata
la fame di progresso. Suo padre, Carlo Ronchi, classe millenovecentododici, aveva dunque quarantadue anni quando la moglie Matilde,
trentaquattrenne, gli partorì quell'unico figlio. La lunga attesa di questa nascita, insieme alla rapida constatazione della sua unicità, determinò all'interno della coppia un clima denso di ansie e apprensioni. Se Matilde, nel timore che il Signore si riprendesse l'indifesa creatura, gli eresse attorno quella che i milanesi definiscono una campana de véder, il padre cercò in tutti i modi di alimentare in quell'erede,
che fin dai primi mesi di vita gli era apparso fragile e inconsistente,
sentimenti di fierezza e aspirazioni al raggiungimento di nobili, obiettivi; proprio quelli stessi di cui, in virtù del benessere procuratogli dalla sua prosaica attività di commerciante, era riuscito a comprendere
la rilevanza, ma che il materialistico terreno del quotidiano esercizio
gli aveva impedito di perseguire.
Superata con un po' di fortuna la prima guerra e la conseguente
spagnola che preferì portarsi via la sorellina Claudia insieme ad
Apollinaire e ad altri cinquanta milioni di sconosciuti e, con molte raccomandazioni, la seconda, grazie ad un'accorta manovra paterna di
perorazioni, protezioni, intercessioni e favori che gli aveva consentito
di assistere dagli uffici del Comando del Genio Ferrovieri di Torino
alla tragica conclusione degli intrepidi sforzi del regime per mandare
al macello tanti figli del suolo patrio, Carlo non era rimasto indifferente al fermento creativo del dopoguerra milanese e della relativa “ricostruzione” cui aveva partecipato sia spiritualmente, ammirando la rinascita delle arti e dei mestieri, sia materialmente fornendo loro, o
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meglio ai loro protagonisti, le stoffe di cui addobbare sé stessi e le
loro signore. Ne derivò che, con l'incremento rapido degli affari e dell'agiatezza, crebbe anche la consapevolezza, e con questa il rammarico, di non poter aspirare a svolgere, per mancanza di adeguati strumenti culturali ormai irrecuperabili, un ruolo di primo piano nella sfera
elevata delle attività che trascinavano Milano verso un futuro degno
del suo passato e forse anche più luminoso. La conseguenza di quest'ansia fu il desiderio di generare un figlio capace, come un alter
ego, di riscattare tale sensazione di fallimento; vagheggiamento la
cui messa in pratica fu da Carlo sempre rimandata in attesa che si
determinassero le condizioni preliminari necessarie ad assicurare il
miglior successo possibile all'impresa: condizioni economiche personali, individuazione di una moglie idonea a sostenere l'ambizioso
progetto, accesso a quei concreti simboli di dignità e prestigio appropriati al rango sociale cui riteneva d'appartenere.
Intanto Milano si ingrandiva, le strade mostravano sempre meno i
segni dei bombardamenti, la rete dei tram si sviluppava, la ricchezza
cominciava a debordare dai confini sociali abituali. Ad ogni nuovo
traguardo raggiunto da quel tumultuoso sviluppo, Carlo, che pure
non mancava di condurre, presso certe case che di lì a qualche anno
sarebbero state chiuse, allenamenti utili a mantenere un livello di
prestazioni efficace nell'ingravidare subitaneamente la fortunata non
appena fosse stata prescelta, si sentiva purtuttavia in dovere di alzare ogni volta l'asticella da superare prima di mettere a segno il suo
programma e rimandava di qualche anno.
Quando la costruzione del grattacielo di Piazza della Repubblica
cominciò a modificare il profilo della città e fu chiaro che la linea rossa della Metropolitana non era più una generica intenzione ma un ardito progetto in grado di assicurare a Milano un altro primato, capì di
non poter più indugiare e, anticipando lo sferragliare dei convogli
per le viscere della città, puntò le sue carte su quella che, soppesati
i pro e i contro, gli parve, tra le giovani e meno giovani donne da lui
selezionate, senza nulla far trapelare dell' ambizioso disegno, lo strumento più idoneo ad ottemperare alla bisogna: Matilde.
Una triste necessità aveva spinto la donna, per quei tempi non più
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giovanissima avendo da poco superato la trentina, a varcare la soglia d'ingresso del negozio in Corso Magenta per approvvigionarsi di
tessuti appropriati per la confezione di un guardaroba invernale confacente al lutto che l'aveva colpita da pochi giorni con la scomparsa
del padre. Come balbettò al signor Carlo, avrebbe più volentieri utilizzato quello che si era fatto un paio d'anni prima allorché se ne era
andata la madre, ma purtroppo la data di quel decesso, il quattordici
aprile, aveva reso necessario che le gramaglie si attagliassero al periodo primavera-estate. Carlo, memore di averla già servita in quell'occasione, o meglio di aver servito l'arcigno padre che per lei aveva
scelto le stoffe, restò piacevolmente colpito da quella sobria avvedutezza non disgiunta da rispetto per le convenienze imposte a quell'esile ma vigorosa figura dall'appartenere a un rispettabile ceto sociale,
in quanto figlia, anzi ormai orfana, di un Colonnello dei Carabinieri.
Ebbe modo di notare il colorito sano e i fianchi larghi, il portamento
atteggiato a lucida modestia, lo sguardo sicuro senza essere sfrontato e quando, sfoggiando un sorriso quanto basta rispettoso del lutto,
ordinò alla commessa di prelevare dagli scaffali gli scampoli di stoffa
da esibire alla cliente, aveva già deciso di approfondire la conoscenza della ragazza. Occorreva verificare se anche le altre qualità richieste dal suo sempre vigile progetto albergassero dietro quella
fronte resa spaziosa dai capelli raccolti sulla nuca in un delizioso chignon, trattenuto, senza sforzo apparente, da due forcine di tartaruga. Dal canto suo Matilde non poté fare a meno di apprezzare i modi
dell'uomo e la delicatezza con cui le dita affusolate della sua mano
ben curata accarezzavano le stoffe. Non era avvezza a vedere uomini, tanto più estranei, occuparsi delle sue necessità né ad essere
trattata con tanta sollecitudine da maschi diversi dal padre o da qualche altro famigliare: era la prima volta, dacché era rimasta sola, che
metteva alla prova sé stessa in un rapporto così ravvicinato col mondo esterno. Il nervosismo che si era impadronito di lei in quell'esordio
si sciolse soltanto quando il signor Carlo, con gesti rassicuranti, le
propose dei tagli adatti sì al periodo di lutto, ma con caratteristiche
tali da poter durevolmente arricchire il guardaroba anche in tempi più
felici, dimostrando con questo suggerimento una premura quasi pa13
terna. La scelta definitiva delle stoffe, qualche incertezza a proposito
di un velluto blu scuro, quasi nero, l'insistenza del signor Carlo nel
volerle assolutamente mostrare altre varietà in via di spedizione da
parte di alcune tra le più prestigiose fabbriche di tessuti e affini, annunciate in arrivo di lì a qualche giorno, richiesero ulteriori visite ed
incontri, cui seguì un invito a colazione, premessa necessaria ad una
formale richiesta di matrimonio.
Le indispensabili indagini erano state espletate, furono restituiti
regali scambiati con altre candidate, alle quali peraltro non si era
mai parlato esplicitamente di una prospettiva di nozze, furono fatte le
dovute presentazioni ufficiali a casa di lui, mentre, in quella di lei,
non essendo rimasto tra i parenti qualcuno che potesse pretendere
l'espletamento di questa formalità, fu sufficiente una visita agli zii ed
ai cugini: la cerimonia fu officiata, senza pompa, nella parrocchia di
Santa Francesca Romana, sotto la cui giurisdizione Matilde aveva
sviluppato le sue caste virtù e seguì un pranzo offerto ad un novero
di commensali limitato a parenti di primo e secondo grado. Poi i novelli sposi partirono per il viaggio di nozze d'ordinanza che, per la
cronaca, si svolse lungo la costiera Amalfitana e dopo nove mesi, a
testimonianza dell'idoneità come sparring-partner delle inquiline di
quelle citate case, nacque quel bambino tanto progettato, per il quale
da tempo era stato scelto un nome imperiale.
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Capitolo II – L'affollata penombra della solitudine
L'istantanea degli sposi campeggiava ancora sulla ribalta del citato troumeau olandese fine settecento accanto a quello di nonno Ernesto e di nonna Eleonora, capostipiti riconosciuti della famiglia, oltre
i quali la memoria aveva cancellato le tracce di ascendenze considerate dai successori non meritevoli di costituire elementi distintivi dell'albero genealogico. Le cornici d'argento avevano conferito caratteri
unitari a fotografie che, per tecnica di ripresa e stampa, composizione, atteggiamenti dei soggetti, denunciavano nella discrepanza l'intervallo trascorso tra le diverse riprese. Nel tentativo di risalire la china del tempo, sovrapponendo i suoi ricordi alle impressioni suscitate
da quelle raffigurazioni e alle fantasie suggerite dalla propria creatività, capitava che Augusto si concentrasse su quelle immagini, fissandole a lungo, finché, abbandonate le cornici, si dilatavano nella sua
mente, quasi ad incarnarsi nella penombra del salotto. Era arrivato a
domandarsi se questa riesumazione di un passato di cui si sentiva
così impregnato non sottindendesse una qualche propensione medianica della sua psiche. In queste solitarie sedute gli accadeva persino di sentire la voce dei personaggi evocati dalle istantanee, i profumi o i rumori coerenti con le ambientazioni, di percepire al tatto i
tessuti o le acconciature. Il negozio del padre, rappresentato di scorcio, con il suo bancone, le pezze di stoffa accatastate, si animava
improvvisamente di suoni e voci, mentre il volto severo del signor
Carlo, colto in un momento in cui si sentiva destinato a un glorioso
avvenire, si andava allargando in uno di quei sorrisi che soleva dispensare alle clienti più affezionate. Augusto poteva annusare l'odore caldo delle stoffe, mischiato a quello dell'acqua di Colonia con cui
il padre credeva di impreziosire la sua figura piuttosto scialba e scarsamente evocativa della grandezza cui si riteneva destinato.
Quel profumo penetrante sembrava ristagnare come se il padre
fosse appena uscito dalla stanza dopo una di quelle tirate con cui
tentava di smuovere l'indolenza di Augusto ancora bambino, spronandolo ad afferrare una di quelle meravigliose prospettive intravve15
dute solo dalla paterna ambizione: ora gli diventava medico, ora
musicista, ora architetto; e non medico, musicista, architetto qualsiasi, ma luminare, direttore d'orchestra (o quanto meno primo violino
alla Scala), demiurgo urbanistico della città.
La memoria di quel profumo gonfiava il fantasma di uno dei tanti
sensi di colpa tenuti appesi nell'ampio guardaroba della coscienza di
Augusto, pronti per essere indossati nelle occasioni più opportune. Il
senso di colpa per aver deluso il padre, per avere spezzato le tavole
della legge a lui affidate, lo accompagnava fin dai più lontani anni
della sua infanzia, là dove la memoria personale si confondeva con i
racconti degli altri. Infatti le aspettative di Carlo Ronchi si erano una
dopo l'altra infrante sul muro di gomma dell'inettitudine del figlio, sia
in occasione delle prime lezioni di pianoforte, quando la sua scarsa
attitudine alla musica fu irrimediabilmente dichiarata dall'occhialuta
insegnante privata, sia allorché la sua deficitaria competitività sportiva lo relegò, in qualità di ospite permanente, sulla panchina della
squadra di calcio presso la quale era stato avviato per temprarne il
carattere.
Ancor più paralizzante fu la sensazione di indegnità che travolse
Augusto quando, qualche mese prima dell'improvvisa scomparsa del
padre, fu scoperto dallo zio Raimondo in poco commendevoli commerci con la coetanea cuginetta Flavia, mentre questa, precocemente avviata verso una luminosa carriera in campo medico, stava accuratamente esplorandogli il pisello con le mani, pisello che per l'occasione si era presentato eretto in tutto il suo giovanile splendore. Ne
era seguita una durissima reprimenda con conseguenti, imbarazzatissime diatribe tra i padri-fratelli e le madri-cognate: l'occasione, rimestando il denso pozzo del perbenismo famigliare, aveva fatto riaffiorare vecchie questioni sopite e mai completamente risolte, riguardanti la gestione del negozio di tessuti, affidato congiuntamente ai
due fratelli dal padre Ernesto quando, a soli cinquant'anni, aveva deciso di mollare tutto per trasferirsi in costa Azzurra con nonna Eleonora. Mal digerite gelosie e ripicche resero ancor più spinosa la discussione del caso. In quella sede furono formulate le più nere previsioni circa il futuro di Augusto, ritenuto unanimemente responsabile
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dello scandalo da quella giuria poco incline a prendere in considerazione le attenuanti della provocazione da parte della cugina, avanzate timidamente da Matilde più per esorcizzare l'idea che il male potesse albergare nella sua creatura (e quindi anche in lei) che non per
intima convinzione, tant'è che rinunciò quasi subito al tentativo, finendo per adeguarsi al parere maggioritario degli altri giudici.
Quando gli accadeva di andare col pensiero a quella sentenza,
che nella sua memoria aveva completamente scacciato il piacere
presumibilmente procuratogli dai maneggi acerbi della cuginetta, pareva quasi che la fronte del padre, spaziosa nella foto come mai gli
era apparsa, si arricchisse di rughe cariche di rimproveri, mentre nella semioscurità del salotto anche la dolce figura di nonna Eleonora,
dava l'impressione di illuminarsi e staccarsi dalla sua cornice per accusarlo delle pene inflitte a quel suo figlio primogenito e prediletto: gli
era sopravvissuta per dieci anni durante i quali non aveva fatto altro
che rimproverare tutti, se pur dolcemente e in silenzio, come se l'aneurisma all'aorta, artefice di quella repentina dipartita, non fosse
una malattia congenita, ma conseguenza diretta delle incomprensioni e delle delusioni inflitte all'orgoglio di Carlo da moglie, padre e fratello, ma soprattutto da quel figlio quattordicenne, così lento a diventare uomo, se non per i più deplorevoli risvolti di tale divenire, e a sostituire il genitore nell'accrescere le glorie della famiglia. Augusto la
ricordava, appoggiata alla poltroncina del salotto mentre con l'uncinetto sfornava scarpette per neonati di cui nessuno in famiglia aveva bisogno, interrompendosi solo per asciugare gli occhi perennemente arrossati con un fazzolettino bianco che teneva infilato nella
manica.
Lo stesso atteggiamento, per così dire di tre quarti, campeggiava,
ma con ben altro sussiego, anche nel ritratto di lei, scattato nel millenovecentoventuno, in uno studio fotografico tra i più rinomati della
città allo scopo di assicurare ai trumeau di tutti i rami collaterali del
parentado quella bellezza languida giunta al suo apice, e non ancora sfiorita: in questo fulgore voleva essere ricordata da tutti e da questo fulgore spesso Augusto si trovava schiacciato, come se la bellezza della nonna emanata dal ritratto si fosse corrotta per causa
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sua, trasformandosi nella silente immagine di dolore che lo aveva
tormentato per i dieci anni in cui, da adolescente, si era finalmente
fatto uomo a tutti gli effetti; come se la vecchiaia avesse corrotto
quella perfezione non per il trascorrere degli anni ma per via della
sua irresponsabile noncuranza nell'affrontare la vita.
Quando l'intensità delle sensazioni provocate da questa compenetrazione con le immagini dei ritratti lo soffocava, Augusto chiedeva
aiuto a nonno Ernesto, o meglio alla fotografia del nonno ritratto
mentre circonda con un braccio le spalle di lui bambino, e con l'altro
teso verso l'orizzonte, le gambe leggermente piegate indica un punto
imprecisato sul mare di Cap d'Antibes, dove soggiornava e dove il figlio Carlo lo aveva immortalato con la sua Rolleiflex sei per sei, ottica Xenotar 80/2,8, otturatore Syncro Compur MXV, un gioiello di tecnologia tedesca, con tutte quelle rotelline zigrinate, quei contatori,
manovelle, specchietti scattanti di cui era gelosissimo e da cui Augusto era tenuto alla larga più perché era considerato incapace che per
paura che combinasse di proposito qualche pasticcio.
Il nonno era l'unico che si comportasse con naturalezza nei suoi
riguardi, l'unico che lo aveva sempre trattato come un bambino, senza pretendere nulla, lasciandolo giocare e giocando con lui, portandolo con sé durante lunghe passeggiate nella macchia mediterranea
inquadrata alle sue spalle nella fotografia: ad Augusto pareva ancora
di sentire il salmastro degli spruzzi che vaporizzandosi nell'aria nelle
giornate di maestrale, depositavano sulle labbra una impalpabile patina salata. Concentrandosi sul volto del nonno riusciva a leggere nei
suoi occhi il riflesso luccicante delle onde e dopo poco si faceva cullare dal rumore del mare frangente sugli scogli. Questa immagine allegra e un po' avventata non era intaccata neppure da quella del
vecchietto completamente fuori di testa incontrato quando accompagnava la nonna nella clinica per malattie nervose Villa Fiorita di Brugherio, dove Ernesto era stato ricoverato allorché una sindrome allora definita arteriosclerosi galoppante, ne aveva annichilito le facoltà
mentali riducendolo in condizioni che di volta in volta oscillavano tra
tenero ebetismo ed eccitazione non sorretta dalla coscienza di sé.
Non avendo Augusto conosciuto il nonno all'epoca in cui, nel pieno
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del suo vigore, si era spaccato la schiena per trasformare una rivendita ambulante trascinata di mercato in mercato a bordo di una topolino giardinetta, in avviato negozio a quattro vetrine in corso Magenta
presso il quale si rifornivano i ceti emergenti della Milano dell'immediato secondo dopoguerra, il nonno scanzonato che lo accompagnava nei giochi e nelle escursioni alla scoperta della natura durante le
vacanze in Costa Azzurra rappresentava la logica premessa del nonno scombinato nella testa, ma comunque allegro, che tampinava le
infermiere di Villa Fiorita.
Altre volte questo gioco condotto nella semioscurità del tinello gli
giocava scherzi ancor più inquietanti e i personaggi, usciti dalla sede
cui eran stati confinati, gli parevano intenti a dialogare tra loro, riprendendo quei temi ricorrenti che ne avevano amareggiato l'esistenza. Riecheggiavano nella stanza le preghiere, mai udite da Augusto ma di cui si parlava in famiglia, rivolte da nonna Eleonora al
marito per dissuaderlo dalla decisione di abbandonare tutto ai figli e
allontanarsi da Milano, dalle amicizie, dai parenti, dai nipoti; preghiere in procinto di divenire singhiozzi silenziosi a fronte dei laconici
commenti del nonno: - se vuoi stai qui tu, io vado in Costa Azzurra –
per trasformarsi in tormentato brontolio nei colloqui con i figli il cui atteggiamento oscillava tra generico incoraggiamento e malcelata
speranza.
Avanzò lentamente, procedendo dall'ampio ingresso, con passi sicuri ed abituali, verso la cucina per varcare poi i confini della zona
notte dove la sua camera, sempre la stessa dai tempi del liceo, con
guardaroba e bagno, fronteggiava la camera nuziale dei genitori, in
cui, successivamente, la madre aveva consumato gli anni vedovili.
La porta di noce scuro era, come sempre, chiusa ma non mancava
di evocare con la massiccia presenza, sentimenti intrisi di paura, dolore, speranza, delusione che invano Augusto tentava di rinchiudere
nella stanza.
Sparse qua e là, come naufraghi su arcipelaghi di isole, incorniciate da sapienti decorazioni ora argentee, ora in lucido legno di ciliegio o in velluto blu, ancora numerose istantanee erano raggruppate su tavolini, mensole, librerie. Tra quegli scogli indugiava spesso e
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senza motivo nell'invisibile risacca provocata dai suoi stati d'animo,
traghettando le immagini da una parte all'altra, ora per consentire ad
una zia materna di assaporare la gloria dei faretti, ora sprofondando
nell'oblio di una scaffalatura un'intera serie di quarti cugini.
La sensazione di essere in ritardo, di avere indugiato troppo fuori
casa, lo sfiorò anche questa volta mentre si avvicinava e poi superava quell'uscio oltre il quale, negli ultimi tempi del suo strascicato declino, restavano alla madre, ormai priva della parola, solo gli occhi
per esprimere al figlio un muto rimprovero per averla abbandonata
così a lungo. Subito dopo lo percorse quella rabbia sorda e inconfessabile, quell'avversione che non osava di fronte a sé stesso chiamare odio nei confronti della donna che col suo amore opprimente gli
aveva avvelenato tutto il tempo oltre il quale non poteva spingersi la
memoria.
Raccolto finalmente nell'ordinato silenzio della sua stanza ne fu
tranquillizzato: il pavimento in doghe di legno luccicanti e odorose di
cera, il tappeto persiano sul quale galleggiavano lievi le ciabatte di
velluto scuro, il copriletto a fiori disteso fino ad inglobare i cuscini, il
comodino con le medicine in attesa di essere deglutite prima che si
coricasse, tutto testimoniava l'alacre passaggio della filippina deputata alle pulizie. Lo stesso ordine regnava in cucina dove l'acciaio inox
del lavello e del piano cottura rifulgeva come negli spot pubblicitari,
le pentole stavano rintanate nelle loro scansie, i piatti formavano pile
ordinate dietro agli sportelli della madia, le posate si erano riunite per
famiglie negli scomparti dei cassetti e il piano del tavolo offriva un
candore immacolato al suo sguardo compiaciuto.
Stappò faticosamente una bottiglia di Marzimino e, scartati i pacchetti acquistati dal gourmet, iniziò melanconicamente la sua cena.
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Capitolo III – Orfeo incontra, senza volerlo, Euridice
Il giorno successivo era un sabato. Augusto si era ripromesso di
superare la propria avversione per il Cimitero e recarsi sul luogo della sepoltura materna, non più visitato dopo l'inumazione: si trattava
anche di verificare che i lavori di ripristino della tomba di famiglia e la
posa dell'epigrafe riguardante la defunta avessero conseguito quei risultati di decoro che, se non perseguiti con determinazione ed efficacia, avrebbero potuto alimentare disapprovazione e recriminazioni da
parte di autorevoli membri di altri rami della famiglia compartecipi,
come in un condominio proiettato verso l'eternità, dell'efficacia rappresentativa del monumento.
L'emarginazione della morte dalla frenetica vita quotidiana, perseguita con tacita determinazione dai milanesi come valore comune,
trovava in quei monumenti funebri una plastica rappresentazione:
pensati per ospitare generazioni di eredi, protagonisti - nell'attesa di
occupare i posti loro riservati - di inimmaginate peripezie e da queste
dispersi gli uni agli altri, giacevano qualche volta semiabbandonati e
corrosi dallo smog mentre altri esprimevano ancora la gloria del casato perpetuata grazie a sovraremunerate manovre di pulizia e lucidatura di mani mercenarie a ciò delegate. I discendenti neppure ne
conoscevano più l'esatta ubicazione, cosicché la ditta di onoranze funebri, incaricata di apparecchiare la tumulazione di qualcuno dei sopravvissuti ma non eterni eredi, era costretta a consultare le carte e
interpellare gli addetti della pubblica amministrazione deputati alla toponomastica mortuaria affinché fornissero le indispensabili coordinate d'interramento.
La tomba al Monumentale costituiva, per le famiglie milanesi arricchitesi nel tempo coi traffici e l'industria, il segno tangibile di un traguardo raggiunto e gli esponenti di tali dinastie, giunti all'apice del
successo, non avevano lesinato l'impiego di materiali costosi e artisti
alla moda pur di trasmettere alle generazioni future l'eredità di una
così prestigiosa testimonianza. La decisione di insignire la famiglia di
un così ingombrante segno distintivo, era foriera anche di altre con21
seguenze, complementari al lustro dinastico: il contatto con la pubblica amministrazione, la scelta del fornitore, quella ancor più delicata
dell'artista fornivano altrettante occasioni di evidenziare il rango del
committente, i suoi saldi rapporti con gli ambienti più elevati, la sua
posizione sociale, ma anche di arricchirne il blasone, attraverso incontri, riunioni, sopralluoghi, pose negli studi di esimi scultori e frequentazioni conseguenti nel mondo della cultura e delle arti.
Una volta scomparsi i fondatori, ingoiati dai sepolcri che si erano costruiti, figli, nipoti e pronipoti avevano dovuto gestire per quote
quegli ingombranti e infruttuosi immobili, rinfacciandosi spesso l'un
l'altro questo o quel particolare segnale di incuria e lassismo nella
cura dei sepolcri. Alcuni desistevano dall'impresa, altri erano ben
contenti di abbandonare a primi, secondi e terzi cugini il privilegio di
godere di quelle pietre della memoria. Liti e contenziosi si sviluppavano come fiamme dell'inferno dietro l'apparente imperturbabilità dei
graniti e dei serpentini, divorando le postume volontà così artisticamente scolpite.
Riflettendo su queste miserie, mentre avanzava nel viale di ghiaietto bianco e fine, tra file ordinate di tombe, ornate di fiori recisi e cespugli vivi di ornamentali essenze, Augusto capì come il suo stato
d'animo, più leggero e lieto di quanto ci si sarebbe potuto aspettare
dato il contesto, avesse a che fare col compiacimento scaturito dall'azione di devozione, sempre rinviata, nei confronti della memoria
materna, quella memoria con cui non era ancora riuscito a fare i conti fino in fondo sicché il decesso di Matilde aveva aperto nel suo
cuore una prospettiva d'inquietudine per il fatto stesso di non aver
suscitato, né prima né dopo, quei sensi di colpa che ci si sarebbe
aspettato di veder germogliare in un carattere come il suo.
Se riandava col pensiero alle numerose occasioni in cui, fin da
bambino e con una frequenza direttamente proporzionale al passare
degli anni, si era augurato che sua madre morisse, ora fulminata da
un infarto, ora tragicamente vittima di un incidente automobilistico o
in molte altre modalità per lo più rigorosamente indolori, non mancava di stupirsi per il fatto che mai aveva provato rimorso a proposito di
quelle stravaganti fantasticherie. Si domandava se la decisione di vi22
sitare la sepoltura fosse idonea a sanare quel cruccio per l'assenza
di sensi di colpa, alfiere di non pochi dubbi sulla sua vera indole, invereconda compagna dei suoi giorni: fastidiosa come uno sgradevole prurito, di quelli che, come per un'allergia sospesa nell'aria, più ti
gratti e più ti gratteresti.
La risposta era ormai a pochi passi, in fondo al vialetto imboccato
da qualche decina di metri, quando il suo sguardo, forse inconsapevolmente alla ricerca di un'occasione in grado di allontanare il momento della verità, fu attratto da uno strano oggetto emergente come
un iceberg da un cestino dei rifiuti, galleggiante sopra un sottofondo
di rametti, foglie, fiori appassiti e cartacce. Lo incuriosiva il colore,
bianco assoluto, la forma di un ovale perfetto, la consistenza dura
come la porcellana.
Deviò, sia pure di poco, dalla linea retta del suo percorso morale
e, osservando più da vicino, poté cogliere nel reperto una singolare
concavità regolare, solo leggermente sbrecciata al margine. Si guardò rapidamente intorno per assicurarsi che nessuno scambiasse il
suo interesse per il cestino con un tentativo di riciclare i fiori non del
tutto appassiti gettati da qualcuno intenzionato a sostituirli, nella loro
funzione di sentinelle sepolcrali, con altri freschi, e allungò la mano
verso l'oggetto come per saggiarne la consistenza. Il tocco maldestro
impresso con una forza impossibile da calcolarsi con precisione prima di aver saggiato la consistenza della cosa, mise a repentaglio il
precario equilibrio dell'ovale che trovò nuovo e più stabile posizionamento scivolando più in basso e rovesciandosi su sé stesso: il lato
prima nascosto, ora rivolgeva al cielo del mattino un volto delicato di
donna.
Augusto ne fu scosso, come se un fantasma fosse apparso d'improvviso in quell'angolo del Cimitero Monumentale. Fece per allontanarsi, ma ripresosi dallo spavento tornò sui suoi passi, incerto sul da
farsi: un impulso stravagante lo spingeva ad appropriarsi di quel relitto confliggendo con tutte le regole che avevano sempre tiranneggiato i suoi comportamenti. Non si raccoglie niente per strada, non ci si
appropria di cose altrui, non ci si immischia in faccende che non ci riguardano, non si fruga nell'immondizia.....: tutta la buona educazione
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impartitagli dalle cure materne si ergeva indignata contro quella tentazione in procinto di trasformarsi rapidamente in azione. Dopo
un'ultima perlustrazione, fu decisiva l'espressione di supplica che
credeva di avere indovinato nello sguardo del ritratto, come se la
donna lo implorasse silenziosamente di non essere abbandonata all'oblio della raccolta differenziata: Augusto non seppe più trattenersi,
e, afferrata l'immagine saldamente, la nascose tra le pagine del Corriere che teneva piegato tra le mani; invertì la rotta, senza preoccuparsi minimamente di dover rinviare ancora una volta quella visita
che fino a poco prima gli era sembrata indispensabile, e si diresse
senza esitazioni verso l'uscita.
Ormai la sua mente si era bloccata su quel tesoro nascosto tra le
pagine del quotidiano come in uno scrigno e non riusciva a staccarsi
di lì. A chi apparteneva quel ritratto? Chi poteva così irresponsabilmente averlo gettato tra i rifiuti? Aveva diritto di appropriarsene o
non sarebbe stato meglio consegnarlo in portineria? Una delle statue
che vegliavano le tombe lo incoraggiò silenziosamente a perseverare nella sua iniziativa, indicandogli con un dito teso la direzione dell'uscita. Si sentì trasformato in un improbabile Orfeo impegnato a
sottrarre una sconosciuta Euridice al potere degli Inferi e, per quanto
roso dalla curiosità, non si azzardò a chinare la testa per dare un altro sguardo al ritratto nel timore di veder svanire l'immagine, anche
se, sotto le pagine del giornale, la dura sagoma della riproduzione lo
rassicurava nelle certezze acquisite.
Si sentì al sicuro solo superati i cancelli del cimitero , quando salì
sul tram che lo accolse mentre, ancora in preda all'affanno e ad un
leggero tremito, accostava la sua mano bollente a quella superficie
fredda e inquietante. La liscia durezza delle panche di legno gli confermarono di trovarsi fuori pericolo, immerso in una comunità, a quell'ora del sabato non proprio numerosa, totalmente estranea alla sua
eccitazione, formata com'era da badanti in libera uscita e pensionati
di ritorno dal mercato. Il percorso che lo separava dal portone di
casa era troppo breve per consentirgli di approfondire la conoscenza
con la donna sottratta all'oblio, ma abbastanza lungo da permettere
alla sua fantasia di predisporsi a suggestioni infarcite da intrecci al
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centro dei quali la sua generosa tempra morale si incontrava col desiderio di tenerezza espresso dal volto dell'ombra ormai definitivamente intrisa, nella sua fantasia, del nome di Euridice.
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Capitolo IV – L'andeghée
Il volto emerso dal ritratto in bianco e nero era quello di una giovane donna: l'ovale del viso era incorniciato dalla massa scura dei capelli lisci, raccolti dietro la nuca e divisi proprio in mezzo da una scriminatura diritta. Gli occhi dal taglio vagamente orientale sottolineato
dalle sopracciglia quasi arcuate all'insù in corrispondenza dei margini
esterni, delimitavano l'ampia fronte, mentre il naso appena un po'
carnoso ma regolare sembrava governare con impercettibile smorfia
la fossetta che lo collegava al labbro superiore; quello inferiore, leggermente prominente e sensuale, si sporgeva come il petalo di una
labiata. Augusto, una volta estratta la sua refurtiva dal giornale, l'aveva appoggiata ad un vaso di cristallo per poterla osservare meglio
stando comodamente seduto in poltrona. Il viso, che si proponeva
frontalmente rispetto al punto di ripresa, era posizionato di tre quarti
rispetto al busto di cui si intravvedeva l'attaccatura morbida del collo,
sottolineata dal rigonfiamento dei tendini e dall'ombra dell'incavo là
dove le clavicole si divaricavano dal manubrio dello sterno. Il corpo
appariva fasciato in un semplice ed elegante abito di cotone grezzo,
di colore chiaro, da cui emergevano le braccia candide e ben tornite,
mentre al di sotto si appiattiva un seno appena pronunciato.
Da qualche minuto si era immerso nella contemplazione di quel
volto, quando squillò il telefono ad interrompere quel gioco di suggestioni capaci di trasportarlo lontano come il filo di una corrente lenta
in un fiume e a rammentargli come il momento più indicato per quelle
divagazioni fosse quello della sera. Coprì con una carta velina il ritratto, come per preservarlo dalle offese della vita quotidiana e rispose.
Gianluca, un suo amico di infanzia confermava, dall'altro capo
della linea, l'appuntamento del primo pomeriggio al Parco per il settimanale jogging. Dopo avere ultimato la conversazione, Augusto pensò a trovare una sistemazione conveniente, se pure temporanea, per
il ritratto, in modo da poterlo rendere accetto presso gli altri della famiglia, come per una fidanzata che venga per la prima volta presen26
tata ai genitori ed ai nonni, e scese in strada a cercare un negozio
dove trovare un portaritratti di dimensione adeguata. Passò in rassegna diverse cartolerie e anche qualche oreficeria, ma non era facile
trovare un articolo adatto: ormai ci si era abituati a cornici anonime,
adatte solo a formati standard, senza riguardo per esigenze particolari. Avevano preso sempre più piede orribili superfici in plexigas in
cui le istantanee andavano infilate come fette di prosciutto in un
sandwich o dozzinali scatole incorniciate in nero con specchiature in
vetro leggero come carta velina. In una gioielleria gli avevano proposto una cornice d'argento troppo volgare e barocca per contenere il
ritratto di quell'effimera Euridice. Pensò di rivolgersi ad un antiquario
per trovare qualcosa di adeguato e si incamminò per corso Magenta
in direzione del centro città.
La gente che a quell'ora affollava le vie non sembrava più rilassata del solito, nonostante fosse sabato. Una folla di coppie imbronciate con bimbi in carrozzina o appesi agli abiti, singoli ancora mezzo
addormentati, turisti giapponesi in gruppi variopinti affrontavano le
vie commerciali come pattuglie di soldati in perlustrazione nell'ansiosa ricerca dei prodotti di cui avevano, o credevano di avere, necessità. Aleggiava ovunque un'atmosfera di ingiustificata tensione, come
se un nemico sconosciuto potesse sbucare ad un tratto dagli uffici di
rappresentanza di una multinazionale o dai portoni lucidati di qualche ottonato studio notarile. Attraversò la Galleria lungo la quale
sciamavano altri turisti provenienti, a giudicare dagli accenti, da paesi dell'est, forse russi, polacchi, cechi, ma non mancavano spagnoli e
anglosassoni; passavano davanti alla Scala, alla cui facciata riservavano scarso interesse domandandosi perché la guida tascabile di cui
erano armati la segnalasse tra i monumenti da non perdere nella città ambrosiana, al Duomo che riconoscevano immediatamente per i
piccioni e la madonnina, questa sì degna di essere immortalata con
lo zoom digitale.
In corso Vittorio Emanuele si fece largo tra una folla cui si aggiungevano frementi moltitudini di abitanti della provincia alla ricerca di
prede da esibire all'happy-our del sabato sera: una giacchetta, una
cravatta, una cintura, un paio di occhiali da sole, piuttosto che niente
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una penna stilografica o una matita da designer.
Abbandonata velocemente San Babila si diresse per via Borgogna verso una tranquilla e stretta traversa, dove, al riparo dagli assalti delle truppe ossessionate dalla pulsione al consumo, riusciva a
sopravvivere una vecchia bottega artigiana di anticaglie e oggetti
usati, un misto di brocantage e modernariato, secondo la terminologia delle televendite: era riuscita a superare indenne sia gli appetiti
immobiliari che la curiosità soffocante delle signore milanesi, grazie
alla misoginia del proprietario, un andeghée1 poco propenso a separarsi dagli oggetti che ormai sempre più raramente riusciva a procurarsi per vie misteriose da traslochi, sgomberi di solai, demolizione di
vecchie case. Aveva avuto il suo momento di gloria negli anni sessanta, quando molte ditte di trasloco e sgombero e, secondo la questura, anche qualche ricettatore, riversavano carichi di carabattole
nel suo spazioso magazzino. L'impegno di certe matrone nella ricerca di pezzi con cui arricchire a prezzi convenienti una magione già
visitata dal benessere ma non ancora dal buon gusto; l'uzzolo di certe altre raffinate intenditrici di scoprire tra gridolini di gioia qualche
misconosciuto capolavoro dell'artigianato lombardo sfuggito alla considerazione degli esperti; la propensione di squattrinati giovani di
buona famiglia a procurarsi per poche lire panche e cassettiere da
vendere a prezzo triplicato a parenti ed amici troppo ingenui e ben
disposti nei confronti del rampollo; questi ed altri elementi avevano
fatto la fortuna dell' andeghée . Nella fretta anche qualche recente
capo d'opera canturino, da poco uscito dalle botteghe di falegnameria di quella ridente località della Brianza Felix e subitaneamente antichizzato con opportuni trattamenti, era stato elevato al rango di mobile d'epoca. Poi, dopo la morte della moglie, vigile presidio del negozio durante gli orari di apertura, e l'abbandono del magazzino che
occupava in affitto, trasformato in autorimessa dagli appetiti immobiliari della proprietà, aveva ridotto l'attività: il negozio restava chiuso
per la maggior parte del tempo e i clienti che lo cercavano erano co1
L' andeghèe nel dialetto milanese è l'uomo all'antica, immerso nella cultura passata,
ma anche la persona onesta che non accetta compromessi e non subisce il fascino del
denaro a qualsiasi costo
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stretti a farsi a piedi tre piani di scala per raggiungerlo nell'abitazione
ricavata in un sottotetto un tempo adibito a camera della servitù di un
vicino palazzo dal passato glorioso.
Augusto si era sempre trovato a suo agio in quell'ambiente un po'
polveroso e poco illuminato, tra vecchi tavoli e poltrone semisfondate
e anche questa volta pregustava la tranquillità della bottega lontana
dai rumori sguaiati della città, dove gli oggetti gli sembravano rivendicare inoperosi ed impazienti un nuovo destino, come corpi in attesa del giorno del Giudizio.
Si meravigliò di trovare aperto, circostanza che gli risparmiava di
sollevare per i tre piani di scale gli eccessi di grasso acciambellati
impietosamente attorno all'addome, e, spingendo l'anta della porta a
vetri, scorse in fondo al secondo locale la figura dell'andeghée, avvolta dall'immancabile vestaglia grigia come la polvere accumulata
sulle scansie, mentre illustrava a qualcuno, la cui vista era impedita
da una grossa madia, i disegni molati sopra la trasparenza di un bicchiere di cristallo. Attese che l'uomo finisse con l'invisibile cliente indugiando ad assaporare la stratificazione di oggetti circostanti. Superò il malridotto tavolo da cucina, con funzione di banco ed espositore, e si inoltrò verso un angolo in cui erano depositate alcune porte di
legno massiccio la cui vernice era sopravvissuta qua e là all'azione
dello sverniciatore, come un'abbronzatura ormai spelacchiata: nascondevano parzialmente un inginocchiatoio di epoca imprecisata
ormai disperato, dati i tempi, di poter riprendere la funzione per cui
era stato costruito. Maggiore ottimismo sembrava sorreggere le
aspettative di tre sedie spaiate abbandonate a sé stesse sopra una
bergère dal passato ricco di avventure che nessuno si era mai peritato di raccogliere e tramandare.
Il proprietario, con la sua voce roca e sputacchiante, sfoderava il
meglio del suo repertorio inframmezzato da colorite espressioni milanesi per dissuadere il cliente dall'acquisto del bicchiere, a suo giudizio inadatto a reggere il confronto con la ricca collezione di vetri di
ogni epoca e tipologia che arricchiva la casa dello sconosciuto. Si
separava sempre malvolentieri dai pezzi raccolti, non perché volesse
alzare il prezzo, ma in quanto ogni perdita rappresentava un ulteriore
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debito nei confronti della memoria. Ormai la vita stentava a riempirsi
di nuove esperienze, di nuovi ricordi così come era sempre più difficile che si arricchisse di nuovi oggetti la bottega: quelle cianfrusaglie
rappresentavano in fondo la sua coscienza di sé stesso, la conferma
di un'esistenza trascinata senza emozioni, le radici ormai atrofizzate
in un passato in cui quegli oggetti avevano vissuto la loro stagione
migliore tra gioie, fatiche, letizia, sudore, allegria e dolore.
Una voce femminile, da dietro l'armadio obiettò la propria convinzione a proposito delle virtù del recipiente, del sapore antico delle
sue forme eleganti; non mancò di sottolineare le prospettive di dignitosa esibizione cui avrebbe avuto diritto il luminescente calice nella
teca collocata a mo' di altare al di sotto dello schermo-tabernacolo al
plasma appeso alla parete principale del suo soggiorno, a formare
una contrapposizione suggestiva tra bei tempi andati e futuristiche
tecnologie. Continuando la conversazione i due raggiunsero il tavolo
del primo locale e scorsero Augusto, fino a quel momento mimetizzato tra le anticaglie. Il proprietario riconoscendolo gli rivolse un saluto caloroso e la cliente un cenno d'intesa come a sottolineare la comune esperienza di quel luogo così singolare. Era una ragazza, non
più giovanissima, ma ancora lontana da quel punto di non ritorno oltre il quale sventolare la propria bellezza si rivela grottesco per donne che amano sottolinearla con maquillage sovraccarichi e abbigliamento disinvolto.
Alta, elegante come una mannequin nel suo tailleur turchino, osservava con curiosità l'accozzaglia di aggeggi sparsi nel locale, roteando i suoi graziosi occhi scuri tutt'intorno, mentre i capelli castani,
scolpiti con maestria da qualcuno di quegli artisti dell'acconciatura di
cui la città della moda andava fiera come un tempo dei suoi artisti e
scienziati, ondeggiavano sensualmente. Nessun anello ne segnalava
la condizione anagrafica, come Augusto appurò con automatica indagine, anche se la mancanza di tale contrassegno non poteva garantirgli in alcun modo la disponibilità del soggetto, come, suo malgrado, gli era già capitato di verificare in altre occasioni. All'avvicinarsi della ragazza un lieve refolo di profumo gradevolmente aspro contribuì a imprimere nella sua memoria i lineamenti di quel viso imper30
cettibilmente mascolino. Il portamento, la voce, lo sguardo, tutto contribuiva a collocarla nel non esiguo novero delle milanesi benestanti
e a sedurre la sensibile propensione di Augusto a scovare in ogni
donna incontrata, dal vivo come nei sogni, gli elementi costitutivi della donna ideale. Di quest'ultima non sarebbe stato in grado di definire alcunché, né un ritratto né un'immagine, ma nelle altre rintracciava
sempre qualche riminiscenza di questo archetipo indefinibile: ora
una particolare accentuazione nella curvatura dei fianchi, ora la sinuosità affusolata di un paio di gambe, qualche volta il pronunciamento di un seno in una scollatura più profonda del solito, talaltra la
linea del rimmel disegnata a maggior gloria di grandi occhi celesti o
la carnosità contenuta di labbra proporzionate: questi ed altri particolari, spesso distribuiti capricciosamente dalla natura su volti sgraziati
o corporature obese, accendevano in lui la reminiscenza di un desiderio prorompente e assolutamente sproporzionato all'effettiva capacità di seduzione che la figura cui appartenevano era in grado di
esercitare secondo il senso comune. Qualche volta, soprattutto a cominciare dalla tarda adolescenza, questa tendenza a precipitare in
erotiche sineddochi lo aveva ficcato in brutti pasticci quando, attratto
da un dettaglio emerso a seguito di un colpo di vento sui capelli o
per la particolare illuminazione di un tramonto estivo su un'incarnato
altrimenti insignificante, aveva gettato il suo cuore ai piedi di un particolare che, a breve distanza di tempo, gli si era riproposto nella la
reale, sgraziata goffaggine dell'intero. Anche in questa occasione,
forse per la sorpresa derivante dal contrasto tra le polverose suppellettili e la freschezza del soggetto, fu inchiodato da un timoroso entusiasmo per quell'apparizione così soave soprattutto nel tratto aspro
degli zigomi un po' sporgenti della Sconosciuta. Cercò affannosamente nel bagaglio non smisurato ma comunque cospicuo delle proprie risorse intellettuali, gli argomenti attorno ai quali arrotolare il filo
di una conversazione atta a stabilire una testa di ponte nei pensieri
della donna, ma quel filo si aggrovigliò immediatamente in un inestricabile bofonchio e, prima che riuscisse a far scivolare nella penombra della bottega un'esca appetibile il pesciolino era già scivolato al
di là della porta e, dalla strada, rivolgeva verso l'interno un timido
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sorriso di saluto, accompagnato da un leggero movimento della
mano per un attimo alzata a livello del viso.
Non ancora riavutosi dall'apparizione Augusto illustrò le sue esigenze all' andeghée. Questi, dopo faticosa ricerca tra mucchi di vecchi arnesi irriconoscibili, sollevò tra le braccia un leggio metallico pieghevole da musicista; vi si poteva comodamente appoggiare l'ovale
in ceramica conferendogli quell'acconcia dignità di cui era sicuramente meritevole, valutazione accettata da Augusto come il minore
dei mali, più per fare in fretta che per vero convincimento: sperava di
poter incontrare ancora la ragazza magari attardatasi in qualche negozio della zona per fare altri acquisti. Pagò senza discutere l'esorbitante cifra, richiesta più per il gusto di iniziare una trattativa non
scontata che per concluderla al valore iniziale, e uscì senza neppure
ripiegare il congegno per avvolgerlo nei vecchi giornali utilizzati dalla
casa come carta da pacco. Ma, nonostante il suo buffo peregrinare
con in mano il leggio quasi fosse un artista di strada alla ricerca di un
angolo ben frequentato dove piazzarsi per mettersi a suonare il violino o il piffero, di lei si erano completamente perse le tracce.
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Capitolo V – In cui, fuggendo Minerva , Augusto ritrova un'Erinni
Mentre correvano lungo il consueto anello di sentieri del parco
Sempione e un' acquerugiola inzuppava con graduale discrezione le
felpe, Gianluca ansimò tutta la sua insoddisfazione per la piega presa dal matrimonio con Daniela; si erano conosciuti tutti sudando sulle versioni di greco tra i banchi del Liceo Beccaria, fucina di milanesi
ingegni, e dopo un paio d'anni, nel corso dei quali Augusto aveva
messo in campo una complessa manovra di avvicinamento alla ragazza senza prevedere ancora affondo specifici e sbocchi conclusivi,
gli altri due si erano messi insieme, del tutto ignari ed inconsapevoli
del trauma inflitto all'amico, colto di sorpresa dall'inopinata dinamica
dei fatti. Non aveva mai tradito il suo segreto anelito, la passione suscitata in allora dai bei riccioli fulvi di Daniela, da quel suo naso diritto, da Minerva volitiva e corrusca, sfoggiato sul volto ampio e severo,
dal corpo così pieno e possente rispetto alle acerbe rotondità delle
altre compagne di classe. Anzi, proprio ad evitare qualsiasi possibilità che quel suo remoto vagheggiamento venisse alla luce, si era
mantenuto fedele all'amicizia nei confronti dei due, anche se ormai si
erano perse nei ricettacoli della memoria le sere in cui aspettava per
ore sotto casa di lei, spiando le sue uscite per fingere di passare casualmente nei dintorni e cogliere l'occasione di salutarla, di rubarle
un sorriso, qualche volta di accompagnarla a ripetizione di latino.
Aveva seguito da vicino, sempre più annoiato e maldisposto, le loro
peripezie, la loro carriera universitaria, il matrimonio, il lavoro, i figli;
lo consideravano entrambi il loro migliore amico e non potevano immaginare quale abisso di ostilità e malevolenza si celasse dietro la
disponibilità e lo spirito di servizio ostentati da Augusto in virtù dell'impegno contratto con sé stesso di non svelare mai e per nessuna
ragione quell'amoroso incanto giovanile.
Ora Gianluca lo metteva al corrente della freddezza della moglie,
della sua propensione ad invadere ogni spazio della sua vita e anche
della sua coscienza, obbligandolo ad essere diverso da come si sentiva: non contenta di avere stroncato le sue aspirazioni cattedratiche
in nome del benessere economico della famiglia e della posizione
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sociale, gli rimproverava comunque una sua naturale indolenza, sollecitandolo a farsi valere nella cerchia dell'élite dirigenziale dell'istituto di credito dove era stato promosso, più per spinte trasversali di
raccomandazioni parentali che per meriti propri, vice-responsabile
del servizio titoli nella sede centrale. Daniela era divenuta dispotica,
bisbetica, saccente, non gli perdonava nulla, gli restringeva ogni spazio di libertà; perfino per ritagliarsi quell'oretta di jogging, doveva subire ogni sorta di angheria. Per contro, si era lasciata decadere, si
era fatta sciatta, non curava né il corpo, divenuto col tempo sempre
meno sodo e sempre più flaccido, né il viso, sul quale si leggevano
alcuni segni di una certa propensione ai superalcolici, né l'abbigliamento, che in casa era quasi sempre costituito da felpe, tute e maglioni, accomunati dall'esperienza deformante di bucati sbagliati. Non
gli si concedeva quasi mai e, quando lo faceva, non metteva nulla di
suo, all'infuori di quel che era tecnicamente necessario, e qualche
volta neanche quello. Tra un sorso di una smeraldina bevanda integratrice di sali minerali presuntivamente dispersi col copioso sudore
e un'occhiata nervosa al polso dove un congegno conteggiava l'accelerarsi delle pulsazioni, procurato più dallo sfogo nei confronti della moglie che per l'effettivo dispendio muscolare, Gianluca non dimenticò nessuna delle prevaricazioni subite nel corso di quella settimana dall'Erinni che aveva sposato: dal rifiuto di Daniela ad accompagnarlo a trovare la vecchia zia da cui presto o tardi avrebbe ereditato il bellissimo attico di corso Vercelli, allo sgombero con destinazione discarica di dieci annate della rivista di motociclismo per far
posto ad un nuovo servizio di piatti, dalla sparizione della maglietta
della Juventus col nome e la firma di Del Piero, alla pretesa di aggiungere un ulteriore turno di accompagnamento del figlio maggiore,
Federico, alle lezioni di scherma. La mente di Augusto reagiva intorpidita a quel diluvio di parole, restia ad accettare la possibilità di una
connessione tra l'immagine della dea romana ancora sospesa tra i
suoi ricordi e quelle indegne umiliazioni nel quotidiano disagio. Accolse con sollievo il termine stabilito per l'allenamento e, mentre l'amico lo salutava ricordandogli l'impegno strappatogli da Daniela per
la cena a casa loro la sera stessa, non poté fare a meno di registra34
re, con una certa acrimonia, come, per tutta la durata della loro inutile corsa, Gianluca non gli avesse chiesto assolutamente nulla della
sua esistenza, dando per scontato che, per il solo fatto di non essere
sposato, questa dovesse trascorrere serenamente.
Avevano sempre fatto così i suoi amici: l'assenza di problemi economici - tanto più dopo la scomparsa dell'estrema sentinella di guardia ai beni accumulati dalla famiglia Ronchi - , il lavoro poco impegnativo, considerato un passatempo più che una necessità, la disponibilità di una bella casa in centro, costituivano altrettanti argomenti
di conversazioni da cui, lui assente, si sprigionavano malcelata invidia ed evidente fastidio. Se qualcuna delle signore si azzardava a
controbilanciare i giudizi affrettati con un – Però è solo come un
cane - le amiche più indulgenti contrapponevano come dato di fatto
la molle indolenza del carattere di Augusto tale da rendere impossibile anche alla più benintenzionata delle donne una qualsivoglia ipotesi di convivenza con quel soggetto noioso ed irritante; sghignazzando amaramente i mariti, una volta certi di essere sfuggiti al controllo coniugale, si scambiavano salaci e grevi considerazioni a proposito dell'uso che avrebbero saputo fare di quella solitudine se si
fossero trovati nei suoi panni. Lo consideravano buono per gli sfoghi,
per le confidenze esacerbate, per le confessioni impellenti e salvifiche, ma si sarebbero stupiti di scoprire in quel loro amico così paziente e disponibile il ribollire di passioni brucianti o pensieri profondi.
Gianluca non faceva eccezione e la cosa in sé non lo infastidiva più
di tanto; faceva volentieri a meno, per esempio, di svelare le sue recentissime esperienze, ché sarebbe stato incapace di manifestare in
termini convenzionali il turbinio di sensazioni sbocciate in lui dopo la
visita al cimitero: non avrebbe saputo neppure da che parte incominciare ad esprimere le strane palpitazioni suscitate dal ritrovamento
del ritratto, il peccaminoso tremore con cui aveva sbirciato quell'immagine appena giunto a casa, il bisogno irrefrenabile di mettere
quell'effigie al centro dell'attenzione; tuttavia l'indifferenza dell'amico,
l'egocentrismo prevaricante lo avevano irritato: in fondo sperava, si
aspettava di essere indagato, sollecitato a rappresentare il suo stato
d'animo, aiutato a dipanare la matassa oscura in cui si erano impi35
gliate e aggrovigliate l'eterea defunta Euridice e la mascolina Sconosciuta incontrata dall'andehée. Una sensazione di freddo e di solitudine, in parte giustificata dal raffreddamento del sudore sulla pelle in
quel tardo pomeriggio del novembre milanese, lo accompagnò fin
quando, spogliatosi della tuta umidiccia, si lasciò accarezzare dal tiepido getto d'acqua e vapore della doccia.
Era stato quello, subito dopo la morte di sua madre, fanatica della
vasca da bagno, la prima manifestazione perentoria di autonomia
dall'ingombrante figura parentale: la parete di scintillante cristallo che
delimitava l'ampio recinto, il luccicante miscelatore, il doccione a forma di girasole, avevano sancito in modo inequivocabile la sua capacità di emancipazione. Ad Augusto, irrorato dal benefico trascorrere
di quella pioggia tiepida, il ritratto parve costituire, appoggiato com'era sul tavolino da scacchi del soggiorno in attesa di essere liberato
dalla carta velina e poi delicatamente disposto sul leggio già montato
davanti alla poltrona preferita, un altro passo avanti lungo il percorso
di emancipazione dal suo passato.
Uscito dalla doccia e rinfrancatosi nel ruvido accappatoio di spugna appena intiepidito dal termoarredo, rinviò ancora il momento tanto atteso in cui si sarebbe trovato a tu per tu con quella donna misteriosa per dedicarsi ad alcune noiose incombenze domestiche non
eludibili come l'inversione rituale del guardaroba estivo con quello invernale o la cernita delle camicie da eliminare per far posto alle nuove, ancora avvolte nelle scatole recapitate dal negozio di Londra
dove era abituato a fare ordinazioni alla fine dell'estate. Poi avrebbe
potuto prepararsi per la cena a casa di Gianluca e Daniela, non senza aver fatto un salto dal fiorista all'angolo per procurarsi quel mazzo
di fiori per la padrona di casa che, secondo le regole di comportamento profondamente radicate nel suo codice etico, non poteva
mancare tra le mani di un single ricevuto in una casa in cui tutti gli invitati si sarebbero presentati in coppia.
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Capitolo VI – Oloferne, per non sbagliare, disdegna Giuditta
La prospettiva della cena non lo allettava per niente, sapeva a
menadito quel che doveva aspettarsi: lunghe conversazioni sugli asili
nido, descrizioni particolareggiate di un certo ristorante fuori porta,
minuziose rievocazioni di una vacanza alle Maldive forse non disgiunte da sequenze fotografiche di maniera, dibattiti sul modo migliore di cucinare il risotto con gli ossibuchi; non sarebbero mancate
alcune discettazioni sulla qualità della vendemmia appena trascorsa
e infervorati comizi pro e contro il governo D'Alema. Nonostante tutto
aveva accettato l'invito, in quanto quell'insulsa melassa di rapporti
umani gli pareva comunque necessaria a mantenere in carreggiata
la sua deriva solipsistica. Questa volta un altro motivo rendeva se
non gradevole almeno accettabile l'impegno assunto: era punto da
un vago piacere in quanto quest'obbligo ritardava ancora il momento
propizio per dedicarsi completamente alla contemplazione del volto
raccolto tra i rifiuti del Monumentale, sospingendolo nella tarda serata prefestiva, quando non avrebbe avuto che il sonno come limite al
divagare della propria fantasia.
Naturalmente Daniela, in combutta con Beatrice che formava con
Alberto l'altra coppia invitata alla cena, non aveva mancato, da perfetta padrona di casa sempre intenta a sviluppare una materna propensione all'accasamento degli “sfigati”, - così definiva i pochi amici
ancora liberi da legami di coppia - di invitare anche un'amica, tale
Giuditta, riesumata da una vacanza trascorsa in Costa Smeralda l'estate precedente: anch'essa single, non per sua volontà, come presto Gianluca gli sussurrò nell'orecchio con poco encomiabile sarcasmo, ma perché mollata dal “fidanzato” per un'altra più giovane e ricca. Quando Augusto varcò la soglia le tre donne confabulavano in
cucina tenendo tra le mani un bicchiere di frizzantino al cui prezioso
brio si sforzavano di adeguarsi sciorinando sorrisetti giulivi e complici. Dopo le presentazioni e i necessari convenevoli Beatrice fu incaricata dal padrone di casa di disporre i posti a tavola e naturalmente
Augusto si ritrovò a capotavola, affiancato da un lato dalla padrona
di casa e dall'altro dalla giovane vedova di Betulia. Tanto per esibire
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le sue conoscenze bibliche, fu tentato di chiederle, per rompere il
ghiaccio, come se la passasse Oloferne, ma fortunatamente si morse la lingua, rendendosi conto che la battuta, rivolta ad una Giuditta
appena mollata dal “fidanzato”, sarebbe parsa di pessimo gusto; né
poteva pensare che una donna ancor giovane, costretta dalle bibliche intemperanze dei genitori a portare quel nome glorioso, ignorasse il racconto del Vecchio Testamento. Non poté tuttavia fare a
meno di osservare come anche questa Giuditta avesse scelto per la
cena un abito atto a mettere in evidenza quanto di positivo ancora
poteva offrire il suo corpo non ancora appesantito dal trascorrere degli anni. Il tubino nero prescelto per la serata lasciava ampiamente
scoperte le clavicole e la parte superiore del dorso con generosità
bastevole ad evidenziare la morbida curvatura della schiena ancora
un po' abbronzata, solcata nel mezzo da una scanalatura appena accennata di quel tipo per cui Augusto andava pazzo: non apprezzava
infatti le schiene femminili quando ostentavano in rilevato la struttura
della colonna vertebrale, ma quelle disponibili ad affossarla dolcemente tra le distese collinose dei muscoli dorsali.
Pensò che fosse comunque prudente non eccedere col vino.
L'antipasto, proposto su piatti quadrati dagli angoli leggermente
sollevati e dal disegno geometricamente conformato da linee colorate, casualmente disposte in concorrenza con cerchi irregolari di varia
dimensione, era costituito da porzioni microscopiche di sushi che
raccolsero l'incondizionata e conclamata approvazione dei commensali, benché tutti avessero riconosciuto in quei rettangolini l'inconfondibile e ordinaria provenienza della pietanza dal supermercato Esselunga di via Ripamonti presso il quale tutti inconfessabilmente, dato
l'humus pretenzioso in cui rigogliavano le loro ambizioni, ma immancabilmente, visti i prezzi delle pescherie, si rifornivano. D'altra parte
anche il sugo di frutti di mare che onorava gli spaghetti e l'orata al
cartoccio proposta come secondo, denunciavano la stessa provenienza a testimonianza della scarsa propensione della padrona di
casa ad adeguare le sue scelte culinarie alle rivendicazioni di distinta
raffinatezza con cui amava caratterizzare i suoi atteggiamenti così
come gli arredi di casa. Già dopo che fu servito il dessert la conver38
sazione si incanalò nel poderoso alveo, da Augusto temuto, concernente gli attriti tra i padroni di casa; o meglio: quella che fu, agli occhi
invaghiti di Augusto, la dea etrusca si gettò come un fiume, la cui
precipitosa portata sia sorretta da primaverile impeto, nella descrizione minuziosa e pedante dei difetti imputati a Gianluca . Furono passati in rassegna con certosina precisione tutti i capi d'imputazione,
veri o presunti, a carico del padrone di casa; l'ironia, sostenuta al
principio da tutti i commensali, lasciò il campo, col passare del tempo
e lo svuotamento delle bottiglie di Vermentino, ad una acrimonia testarda per nulla scalfita dalle battute con cui gli ospiti si sforzavano di
stemperarla. Di tanto in tanto Giuditta, per mancanza di altri argomenti in comune coi commensali, cercava di spostare la conversazione su episodi relativi alla vacanza in Costa Smeralda, ma anche a
proposito di quell'esperienza Daniela trovava spunti sarcastici per inchiodare Gianluca ormai incapace di replicare adeguatamente. Lo
sguardo perso di Augusto vagava oltre le basse lampade pendenti
dal plafone ad illuminare il tavolo da pranzo come in una bisca, e
spaziavano verso le pareti del soggiorno dove poltrone dalle forme
improbabili si conciliavano con avveniristiche librerie pensate per tutto fuorché per render la vita facile a quelli che avrebbero dovuto essere i suoi ospiti naturali. Ritornava poi sempre verso la vicina cercando di rinfrescare la vista della schiena che, programmata dalla legittima proprietaria per sfoggiare il suo sex-appeal, gli era stata negata dall'improvvida disposizione scelta da Beatrice e ora stava in
ombra, accarezzata dallo schienale trapezoidale, tra l'altro scomodissimo, delle sgraziate sedie o sedute, come le chiamavano i designer.
Ogni tanto si sforzava di intervenire, quando le fattispecie addotte
dall'accusatrice erano riconducibili a circostanze generali e Augusto
poteva inquadrarle in ragionamenti di più ampia portata, supportati
da riferimenti filosofici, antropologici, scientifici o, a piacere, religiosi
secondo un metodo sperimentato grazie al quale in parecchie occasioni aveva acquisito un' immeritata fama di uomo saggio oltrecché
colto; ma nonostante il sostegno di Alberto e Beatrice e della stessa
Giuditta, Daniela, ormai decisa a dar fondo non solo a tutto il vermentino portato in tavola ma anche a quello ancora in fresco nel fri39
gorifero, non demordeva dalla sua instancabile azione demolitrice,
oscillando tra scherno e dileggio dell'ormai provato coniuge. La cosa
divenne definitivamente imbarazzante quando comparve nella sua
tutina rosa la piccola Ludovica, secondogenita dei padroni di casa,
tratta dal sonno per via dell'accalorata conversazione, e avanzò sfregandosi gli occhi umidi e socchiusi con le piccole dita in un atteggiamento assai poco confacente al nome altisonante. Daniela scoppiò
fragorosamente a piangere e, abbracciata la figlia, col pretesto di accompagnarla a dormire, scomparve, tra i singhiozzi, alla vista dei
commensali. Precipitati in un imbarazzato silenzio, non restò loro,
dopo aver indugiato su alcune banalità, che accomiatarsi dal frastornato e confuso padrone di casa il quale non smetteva di scusarsi anche per la moglie mentre li salutava con baci e abbracci esagerati
prima di vederli scomparire nell'ascensore.
Evitata con la scusa di far quattro passi l' alternativa di riaccompagnare Giuditta nel taxi appositamente chiamato da un'attenta e solerte Beatrice, Augusto si affrettò verso casa attraversando a piedi le
vie abituali alle quali la tarda serata sottraeva frenetica vitalità in favore di una sonnolente pacatezza interrotta qua e là dal pernacchiare scoppiettante di un motorino. Incrociò solo qualche coppia avviluppata in pesanti pastrani invernali e addetti alla pulizia delle strade
che a quell'ora maramaldeggiavano tra le poche auto incautamente
lasciate in sosta. Le mastodontiche macchine, agitando le loro spazzole rotanti, lampeggiavano una luce aranciata fin sui piani alti delle
facciate addormentate dei palazzi invadendo di un sudicio frastuono
meccanico lo spazio vuoto e incutendo nell'animo di Augusto, ormai
già predisposto all'introspezione e alla fantasia, un'ancestrale paura
come di draghi fiammeggianti. Allungò il passo per allontanarsi il più
presto possibile da quegli infernali congegni come da un orrido baratro di tormenti, scivolando silenziosamente tra le auto in sosta lungo
il marciapiede quasi temesse che un brusco movimento potesse risvegliarne istinti aggressivi, e fece cadere lo sguardo sulle strette
aiuole impegnate, dietro le recinzioni in cemento decorativo leggermente armato, a testimoniare la possibilità per la natura di sopravvivere, se pur stentatamente, all'ambiente artificiale solo rinunciando a
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qualsiasi autonoma iniziativa ed affidandosi in tutto e per tutto al ghiribizzo dei condomini che, qualora lo avessero ritenuto più opportuno
avrebbero potuto in un momento lasciare a sé stesse le rose e le ortensie fin lì accuratamente potate e innaffiate, per trasformare il fazzoletto di terra in un asfaltato parcheggio per moto, bici e altri rumorosi mezzi di velocizzazione degli spostamenti urbani. Anche ai bagolari di via San Vittore si era provveduto a lasciare, almeno fino a
quel momento, un fazzoletto libero dall'asfalto, attraverso il quale affondare nella terra dove poi si vendicavano del trattamento subito
dalle parti aeree contorcendo e allungando le radici fino a svellere tubazioni e condotti, con gravi danni all'infrastruttura urbana. Certe notti ad Augusto pareva, come ora, di sentire lo spiralare sotterraneo di
quegli enormi serpenti nereggianti, aggirantisi alla ricerca di acqua e
sostanze nutritive tra fognature e acquedotti. Qualche autobus illuminato e ritardatario, percorrendo inevitabilmente quelle vie centrali
per collegare due estremi della metropoli, gli ricordava l'esistenza, ai
margini dei quartieri da lui più frequentati, di una immensa periferia
piena di una vita che si srotolava insinuante tra casermoni, ospedali,
supermercati, depositi, capannoni, fabbriche; una vita a lui estranea
come un tempo erano estranei al borghigiano i boschi fuori le mura,
frequentati da briganti e animali selvatici. Fu lieto di svoltare nella
sua via riparata e chiuse fuori dal portone come da una sicura e
ospitale caverna le incognite insidie notturne della città.
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Capitolo VII – Bricolage della memoria
Il tepore ovattato del suo appartamento ristabilì ben presto l'ordine
interiore delle priorità cui volgere l'animo: dotatosi di tutti i confort cui
poteva liberamente attingere da quando era solo, si accomodò in
poltrona. Si era tolto i vestiti a favore di un'accogliente tuta; dal tavolino di fianco una bottiglia di vino rosso e un bicchiere attendevano i
suoi ordini insieme ad un portacenere, della cui provenienza tra le
suppellettili di casa si era persa la memoria; un pacchetto di sigarette
con relativo accendino usa e getta e il portatile che, collegato agli
amplificatori, diffondeva con misura e discrezione musica scaricata
in tempo reale da Radio Svizzera Classica, costituivano le altre comodità di cui era solito dotarsi Augusto per creare un ambiente favorevole alle sue estasi.
Infilate le ginocchia sotto una leggera copertina di lana, dopo aver
provveduto finalmente a liberare dal suo involucro provvisorio il ritratto, già preventivamente depositato sul leggio, si versò del vino, accese una sigaretta e liberate, tra sé e la donna immortalata, le note di
una ciaccona di non si sa bene chi, socchiuse gli occhi per importarne l'immagine nella memoria e cercare di animarla: una tecnica di
vaneggiamento già in altre occasioni rivelatasi efficace. Si trattava di
inquadrare un'effigie zoomando sul suo primo piano finché i contorni
si imprimevano nella pupilla, come quando una luce persevera nei
suoi effetti anche una volta chiuse le palpebre. Acquisito così il simulacro nello spazio cieco dell'intelletto, bisognava allargare di nuovo il
campo visivo sul soggetto, girarlo, farlo muovere, immaginarlo vestito con altri abiti, dotarlo di un sorriso o sostenerne lo sguardo fattosi
altezzoso: in questo gioco spesso il modello svaniva, soprattutto all'inizio o era sopraffatto da velami di altre visioni, più profondamente
radicate per precedenti esercizi o da esperienze pregresse, che vi si
sovrapponevano pian piano sostituendo l'originario vagheggiamento.
In questo caso, volendo ripristinare il miraggio senza abbandonarsi
all'apparente casualità dell'inconscio, si riaprivano leggermente gli
occhi, scrutando con rinnovata attenzione la riproduzione originale
per ravvivarne la reminiscenza. Poi, chiuse di nuovo le palpebre,
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l'immagine restava impressa più a lungo ed eventuali maschere
estranee facevano sempre più fatica a deformarla; cercavano ancora
di imporre le loro metamorfosi, di confonderne i lineamenti, mischiando le diverse componenti: i capelli di una trascoloravano nell'altra, il
mento si appuntiva, gli occhi si distanziavano, ma, dopo un po' di
tentativi le raffigurazioni indesiderate lasciavano il passo, si dileguavano nel buio, inghiottite nelle profondità della memoria remota.
Qualche volta era necessario ricominciare tutto daccapo, allora Augusto si alzava, accendeva la luce principale del soggiorno, leggeva
qualche pagina da un libro o guardava per un po' la televisione senza prestarvi molta attenzione e poi tornava al suo esercizio.
Quella sera non furono necessari molti tentativi: partendo dall'infossatura alla base del collo il volto della donna si fissò subito nella
sua cieca vista. La fotografia doveva essere stata scattata alla fine
degli anni cinquanta e ricordava ad Augusto certa pubblicità dei modelli di auto di quell'epoca; ben presto la vide , in bianco e nero, a dimensione intera mentre, raccogliendo l'ampia gonna pesante e larga
nelle sue pieghe arrotondate, saliva a bordo di una fiat millecento
centotre come quella che, non a caso, il signor Carlo tutte le sere tornando dal negozio parcheggiava accuratamente nel garage sotto
casa, affidandone le cure per la notte al custode come una mamma
premurosa affiderebbe alla tata di famiglia il suo bambino dopo avergli schioccato in fronte il bacio della buonanotte.
Forse era proprio una modella, ne aveva tutte le caratteristiche e il
portamento; mentre pensava a questo Augusto fu distratto dalla voce
della speaker radiofonica che, ripercorso il titolo, l'autore e l'esecutore del brano appena terminato, introduceva quello successivamente
previsto dalla inesorabile programmazione svizzera dell'emittente.
Tornò a concentrarsi sul ritratto, accompagnato ora da un'aria di
Vincenzo Bellini, e quando chiuse gli occhi Euridice, a colori, passeggiava in una strada davanti a lui guardando le vetrine, ma questa
volta indossava vestiti assolutamente contemporanei, un paio di
jeans, una camicetta bianca e un giacchino di pelle marrone. Di quali
vetrine si trattava? Che negozio stava guardando? In che via? I capelli erano disposti secondo un altro taglio, erano corti e per quanti
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sforzi Augusto facesse, non si allungavano più per raccogliersi nello
chignon della foto. Era meglio quella specie di frangetta o lo chignon? La prima ringiovaniva il volto annacquandolo nella contemporaneità, il secondo richiama atmosfere sepolte nella nostalgia. Cercò
anche di farla girare di fronte, ma fu inutile, Euridice indugiava davanti a un negozio, ruotava il volto fino a lasciarne scorgere il profilo,
ma poi lo volgeva nuovamente, offrendogli solo lo scorcio posteriore;
quest'ultimo punto di vista presentava elementi di interesse capaci,
in altri momenti, di catalizzare l'attenzione di Augusto, dato il grazioso ancheggiare del fondo schiena fasciato dalla tela dei pantaloni in
modo tale da non nascondere la contenuta pienezza e l'alta attaccatura dei glutei, ma in quel momento più di ogni altra cosa desiderava
poter indugiare sulla fossetta alla base del collo per capire se quel
carattere distintivo così attraente fosse ancora disponibile anche nel
nuovo assetto compositivo prodotto dalla spontanea dinamica della
sua fantasia.
Improvvisamente la ragazza, perché si accorse che di una ragazza si trattava, pur procedendo nella stessa direzione girò le spalle e,
ancor più il volto, accennando forse un sorriso: sì, nell'ombra stesa
tra il colletto della camicia e il collo, un segno più scuro annunciava
quella deliziosa incavatura che, pur contenuta nella casta allacciatura dei primi bottoni della camicetta, lasciava presagire l'elasticità di
un corpo agile e scattante, in cui i seni, non troppo grandi, non si risolvevano in superflue appendici. A chi era rivolto quel sorriso? Per
chi si era dischiusa quell'allacciatura? A quale incognito spettatore
erano destinati i segnali di trasgressiva complicità rivelati dagli occhi
maliziosi? Stava sforzandosi di inquadrare meglio quella figura, per
definire a quale ambiente appartenesse, quale tipo di famiglia l'avesse formata, che studi o che professione facesse, quando tutto ad un
tratto l'immagine svanì di nuovo.
Si versò un altro bicchiere di vino, vuotò il portacenere, prese un
po' di pane in cucina per riempire un certo vuoto che sentiva allo stomaco perché, come sempre quando mangiava fuori casa, si era trattenuto dal rimpinzarsi come avrebbe avuto voglia, un po' per darsi un
contegno, un po' perché la tensione tra Daniela e Gianluca non lo
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aveva messo a suo agio. Ora si era rilassato e ogni fibra del suo corpo reclamava una dose consistente di carboidrati, capaci di reintegrare le riserva energetiche disperse nella giornata.
Tornò ad accomodarsi in poltrona considerando Euridice da un altro punto di vista: si domandò che tipo di sentimenti fossero racchiusi
dietro quell'ampia fronte, quali emozioni avessero vissuto gli occhi
esotici, quali passioni avessero fatto fremere le labbra umide. Aveva
amato? Amava? Era stata riamata? Una specie di gelosia si insinuò
come una leggera nebbia tra lui e la donna del ritratto; Augusto non
aveva esperienze consolidate a proposito dell'amore, a parte i fugaci
trapestii con la cugina e gli unilaterali entusiasmi per Daniela e qualche altra compagna di liceo e di università. Anche per il sesso, inteso
come avventura erotica, non aveva mai manifestato particolare propensione, limitando la propria attività a qualche fugace incontro estivo nelle notti eccitate della Sardegna e alla supina accettazione dell'iniziativa isolata e disperata di una concierge francese che una notte, al suo rientro da uno spettacolo teatrale, lo aveva quasi violentato
nella salle à manger di un piccolo hotel parigino, ai tempi in cui amava trascorrere nella capitale francese qualche fine settimana di primavera.
Per il resto sapeva cavarsela da solo, senza importunare né molestare nessuno, ricorrendo solo alla propria fantasia, unica che, fino
ad allora, non gli si era mai rifiutata.
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Capitolo VIII – Sarabanda
Mentre l'impressione di aver perso l'ennesima occasione si faceva
sempre più strada nel suo animo ormai intorpidito dalla soddisfazione provocata allo stomaco dal panino con taleggio e dal Marzimino,
ebbe la sensazione di essere osservato dalla porta, questa volta della sua camera e non del soggiorno in cui credeva di essersi sistemato; è la ragazza dell'andeghée a scrutarlo con uno sguardo interrogativo, come per chiedergli conto di Euridce, ora improvvisamente
sdraiata accanto a lui con una gamba nuda, sgusciata dalla vestaglia
di cotone leggero che le copre il resto del corpo: è indiscutibilmente
appoggiata sopra al suo ventre. L'atteggiamento sonnolento è contraddetto dalla leggera, ritmica pressione della gamba impegnata suscitare in Augusto un'improvvida eccitazione la cui innegabile evidenza disegna un sarcastico sorriso sul viso androgino dell'altra donna, ancora avvolta nel suo tailleur turchino, poco prima che si giri per
abbandonare, apparentemente disgustata, la soglia. Augusto ha
appena il tempo di sollevare il busto dai cuscini e cogliere l'immagine
della collezionista di bicchieri, la Sconosciuta dagli zigomi pronunciati, mentre si allontana mostrando nella penombra la scollatura lungo
la schiena, una scollatura leggermente dorata in cui il solco tra i muscoli dorsali placidamente modellati appare teneramente incavato
come ... , ma sì proprio come ....., anzi è la schiena di Giuditta! Confuso e ottenebrato dal ginocchio sempre più insinuante di Euridice
cerca di staccarsi da lei e dal letto per rincorrere, senza potersi armare di una valida spiegazione, la biblica vedova-mannequin, ma
viene nuovamente attratto dal contatto di quella pelle asciutta e calda di cui le sue mani sono propense a percorrere le audaci e imprevedibili superfici. Mentre queste tagliano il traguardo di sode incurvature preludio di umidi abissi, procurandogli intimo scotimento e inebrianti aspettative, è colpito da concitate voci femminili echeggianti
dal salotto: riconosce tra le altre, quella alterata della madre: ora invoca la punizione divina ora implora il sostegno del marito defunto,
con accenti irati ben diversi da quelli supplichevoli caratteristici dei
suoi ultimi anni di malattia, simili piuttosto agli improperi eruttati dalla
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sua gola dopo esser risaliti dalla trachea per il collo gonfiato ed arrossato fino a farle raggiungere sembianze taurine, quando riteneva
– e lo riteneva abbastanza spesso - che gli impulsi insani del bimbo
avessero travalicato i limiti posti dal proprio egocentrico codice etico.
Quella voce ha l'effetto di disperdere in un istante il suo ardore ormai
prossimo al culmine; si alza di scatto e, pur cosciente di essere sommariamente vestito solo da una t-short spiegazzata e accompagnata
ad un paio di slip, accomodati in posizione eccessivamente inferiore
a quella da considerarsi ottimale per sostenere adeguatamente l'
apparato genitale, si precipita nel soggiorno, dove la madre, ingrassata sotto le gramaglie indossate il giorno dei funerali del povero
Carlo, lo accoglie con sguardo torvo e pieno di rimproveri mentre con
un gesto allontana tutti gli altri presenti dalla stanza: Giuditta, con la
sua smorfia da “te l'avevo detto”, naturalmente la presunta mannequin che andandosene gira il capo per fissarlo con i suoi occhi allungati in un silente rimprovero, ma anche Beatrice, ridacchiante tra sé
sotto la testa abbassata, mentre pure l'amica Daniela, restaurata nella sua originale monumentalità prosperosa ed elastica, adombra, attraverso il naso diritto che fende l'aria come la prua di un vascello di
sua maestà, la stessa irosa sete di vendetta di cui era ghermita Giunone quando Giove si incapricciava di donne mortali. Solo Euridice,
avvolta in un telo, stretto per i lembi sopra il seno, avanza fino alla
poltrona della madre, per inchinarsi a capo chino ai suoi piedi. Augusto intravede ormai solo le sue spalle nude e una gamba sospesa tra
il ginocchio e il piede appoggiati a terra, mentre i drappeggi candidi
del lenzuolo contendono lo spazio visivo al pesante tailleur nero della madre. Sorprendentemente Matilde, l'unica presenza sonora nella
stanza, si acquieta in un leggero sorriso sotto la veletta del cappellino grigio di lana e, alzata lentamente una mano per toccarne le spalle e il viso, la pone solennemente sul capo di Euridice come per
un'inspiegabile benedizione o investitura. Il figlio interdetto si interroga sul significato di quel gesto: tutta la scena gli sembra famigliare,
gli pare di averne raccolto alcuni particolari in un quadro di scuola
spagnola sulla benedizione di Isacco a Giacobbe, ma forse l'origine
della reminiscenza è in qualche fotogramma di un film o appartiene
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ad un contesto teatrale. E' sul punto di afferrare il senso di quel gesto che, amplificando di fronte a lui una volontà di trasmissione di un
qualche potere tra la donna anziana e la giovane, lo coinvolge in un
destino oscuro. Forse in quella messinscena si celebra la consacrazione di una novizia asceticamente prostrata ai piedi dell'altare mentre un officiante le svela i meravigliosi tesori della vita solennemente
dedicata a ad uno sposo celeste?
Non ha il tempo di indugiare per svelare a sé stesso l'enigma
rappresentato dinnanzi a lui, perché la violenta emozione di quegli
istanti ha provocato, come gli succedeva nella prima infanzia, qualcosa di assai disdicevole lungo la linea di congiunzione dei glutei là
dove si annida la foce della più importante via d'evacuazione dagli
interni visceri, interessando di una consistenza cedevole anche il
lembo di cotone di collegamento tra la parte posteriore dello slip e
quella anteriore. L'accadimento gli appare immediatamente incompatibile con la sacralità della scena e, giratosi repentinamente su sé
stesso, si dirige, animato da intenzioni purificatrici, verso il bagno di
servizio vicino alla cucina trovandolo occupato forse da qualcuna
delle signore poco prima raggruppate come Eumenidi attorno alla
sontuosa figura materna, ma un'inaspettata voce maschile gli partecipa, con tono perentorio, la temporanea inaccessibilità del locale.
Sbalordito dalla risposta si preoccupa di verificare la portata del danno inflittogli dall'emotività incontrollata delle interiora e, acclarata la
relativa limitatezza del fenomeno ormai assestato entro confini circoscritti, al punto di permettergli cauti spostamenti senza rischiar di
contaminare altre più vaste aree, prova a dirigersi verso il bagno della sua camera. Ma ecco sulla soglia, aggrappata agli stipiti con le
mani e i piedi puntati, sua madre gli impedisce l'accesso verso la
stanza dove, su un letto ormai sfatto come le sue carni giace Daniela, nuda con le gambe e le braccia aperte come una medusa spiaggiata1. Inutilmente Augusto cerca di far capire che la sua meta non è
il folto cespuglio entro il quale si nasconde, con ogni probabilità, l'ar1
Sono debitore della definizione di “medusa spiaggiata” ad un caro amico, mio
coetaneo, Alberto, che così descriveva, sinteticamente, l'aspetto di una poveretta, non
più giovanissima, infilata nel suo letto, durante una vacanza, da suoi conoscenti nella
speranza di procurargli un po' di compagnia femminile dopo anni di penosa solitudine.
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dente solco di quella Giunone; Matilde gli urla in faccia tutta la sua
collera furibonda. Non gli resta che cercare scampo nel bagno padronale, ma anche qui deve attraversare una camera, quella sempre
chiusa che fu dei suoi genitori; è restio a varcare quel limite, ma l'urgente desiderio di tornare in condizioni presentabili da Euridice per
cercare di capire quale effetto avesse prodotto su di lei il sortilegio
materno, gli conferisce la risolutezza necessaria a spalancare la porta: sul letto dei suoi genitori uno sconosciuto e muscoloso Oloferne,
nudo e tatuato dalla cintola in su, sta amabilmente conversando con
Giuditta il cui corpo sinuoso, rinnegato il tubino nero, è a malapena
velato da un negligé madreperlaceo. Beatrice comodamente appollaiata sulla sedia davanti allo specchio per il trucco osserva la scena e,
come sua abitudine, ridacchia tra sé e sé. L'uomo trasferisce la coppa da cui fino ad un attimo prima stava sorseggiando champagne
nelle mani di Giuditta, si alza in piedi e, slacciata la cintura, si cava
lentamente i pantaloni sotto i quali il biancore della pelle annuncia
l'assenza di qualsivoglia tipo di indumento intimo. Augusto resta impietrito dalla scena; ha quasi dimenticato lo scopo della sua presenza nel locale e vorrebbe intervenire per impedire ulteriori compromissioni di Giuditta o, forse, avvertire il possente Oloferne dell'incombente pericolo che lo sovrasta. Edotto circa la presenza del nuovo
venuto, più per la smorfia di disgusto apparsa sulle vellutate guance
di Giuditta che per il rumore provocato dall'incedere di Augusto, l'uomo si gira di scatto e, insieme alla possanza della sua altera virilità
oltremisura, compare il volto di nonno Ernesto, deformato in un ghigno selvatico e paonazzo.
La luce fioca e livida dell'albeggiare novembrino colse la figura
scomposta di Augusto ancora abbandonata sulla bérgère, la testa
reclinata in appoggio agli orecchioni della medesima mentre un suono di rauco fagotto annunciava col suo ritmo regolare un sonno profondo e ormai senza sogni. Sul tavolo il bicchiere rovesciato aveva
riversato un fiotto rosso di Marzimino sulla candida tovaglietta ricamata e di lì sul sottostante tappeto persiano. Radio Svizzera Classica indugiava su una ballata di Debussy.
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Capitolo IX – Ora, la moglie di Lot restò indietro a guardare...
Non era ancora Natale quando Augusto si decise a ritentare la
doverosa e tanto rinviata opera di pietà filiale in una rigida domenica
mattina di dicembre. Finalmente il bronzo della testa di nonno Ernesto, immortalata in una tipologia compositiva che risultava già superata al momento della fusione, gli sorrideva di fronte. Proprio il timore
di ritrovarsi davanti la facies sorniona del nonno, aveva ritardato di
almeno un mese il compimento di quel dovere; troppo sanguinante
ancora la ferita inferta al suo animo dalla sbrigativa concupiscenza
del satiro apparso nel sogno col volto del nonno, troppo ardente il
dolore dello sfregio procuratogli dal ghigno oltraggioso di Giuditta per
non temere una recrudescenza dolorosa di quell'allucinazione: la
sensazione di inadeguatezza scaturita in quella notte faticosa, col
sapore nauseabondo impregnato nel suo risveglio, lo aveva lasciato
per qualche giorno in uno stato di prostrazione assoluta.
Si era impadronita di lui la convinzione di aver compiuto in quella
notte una ricognizione alle origini di sé stesso, come se avesse risalito, esploratore coatto, un fiume dalla sua ampia foce verso le sorgenti, costeggiando giungle fittissime, risalendo con fatica rapide insidiose, aggirando isolotti di sabbia artatamente disseminati per arenare la chiglia del suo spirito. La sua seminudità infangata e derisa,
l'impossibilità di ricondurre il suo aspetto a condizioni normali, i lamenti della madre, la carne oscena di Daniela, si stagliavano lungo il
percorso come perentorie indicazioni della direzione da seguire. Il
rito di benedizione di Euridice da parte di Matilde, l'enigmatico sorriso di Beatrice, tutto sembrava suggerire qualche corrispondenza con
avvenimenti lontani. Non ricordava di essere arrivato alle sorgenti di
quel fiume di ricordi, ma forse ne aveva intuito la direzione. Gli restava ancora qualche sensazione di piacevole scorrevolezza, come di
una chiglia piatta che scivola sulla superficie immobile di un'acqua
profonda e trasparente al pensiero della tenera epidermide di Euridice e il desiderio di poterla ritrovare prevalse nei giorni seguenti sui
sentimenti negativi dal sogno appiccicati come ragnatele polverose
al suo spirito.
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Ora il volto del nonno, benevolo e pacioso sembrava volerlo interrogare sull'andamento della sua vita mentre dall'alto di una stele pareva ancora sovrintendere agli affari di famiglia, unico ancora in grado di mantenere contatti col mondo esterno, mentre gli altri, ricordati
solo da succinte epigrafi, se ne stavano chetamente accucciati nelle
viscere di quel fazzoletto di terra.
Tutto era a posto e nessuno avrebbe potuto aver qualcosa da ridire sul geometrico nitore dei marmi: ad Augusto non restò da fare altro che sostituire i fiori ormai deperiti con altri portati con sé per la
stessa ragione che lo aveva indotto a portarne a casa di Daniela e
Gianluca la sera della cena e cioè per il naturale rispetto di quel codice etico che la sepolta Matilde avrebbe saputo apprezzare essendone la principale artefice, ma quando, cercando di sbarazzarsi degli
steli rinsecchiti, lo sguardo cadde su quel fatidico cestino, come allora, muto spettatore dei suoi spostamenti, l'emozione gli tagliò le
gambe. Un calore liquido gli risalì dalle gambe lungo la schiena fino
alla nuca, dove, espandendosi come per un'esplosione, gli fece vacillare la vista prima di ridiscendere verso lo stomaco e ancora in
basso fino alla più profonda intimità. L'ondata violenta lasciò il posto
ad un desiderio dolente di Euridice o meglio di donna, di quella donna-bricolage, fatta di tanti pezzetti evocatori del supremo istinto, mai
ricomposta completamente nella sua fantasia e men che meno incontrata nella realtà. Ne poteva ammirare un frammento anche lì,
nella statua eretta a pochi metri dalla tomba di famiglia a perenne
decoro di una piccola cappella: appoggiata ad una stele, le braccia
protese quasi a sorreggere la pietra con le mani appoggiate, una
donna, nuda dalla cintola in su, era scolpita nell'atto di un'estrema invocazione. La chioma ondulata sciolta come una cascatella sulla
schiena levigata, lambiva i piccoli seni sollevati dai muscoli delle
braccia alzate. Quando, sollevati gli occhi dal cestino, trovò a corrispondere al suo stato d'animo quell'invocazione materializzata nel
marmo, furono le gambe snelle a sedurre Augusto, intuibili sotto la
veste scivolata all'altezza della vita e trattenuta in un equilibrio precario ed improbabile; avrebbe voluto avere il potere di sfiorare quel
drappeggio per farlo scorrere fino a scoprire con un delicato fruscio
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le nudità ammiccanti. Quel velo leggero e inconsistente divenne per
Augusto una provocazione inaudita, un ferro acuminato piantato tra
le costole. Lasciandosi alle spalle il cestino e la tomba di famiglia si
avvicinò, cautamente ma senza esitazione, verso quel miraggio e
solo il contatto dei suoi polpastrelli con la rigida asperità della pietra
lo riportò alla realtà. “No, meglio i ritratti” si disse a bassa voce mentre si ritraeva frettolosamente e quasi incespicando nei bordi bassi
dei vialetti. La rappresentazione plastica era sì fortemente evocativa
di una forma, ma aveva anche una materialità capace di sconfiggere
l'immaginazione, mentre il ritratto ancorché realisticamente restituito
sotto forma di fotografia poteva – o almeno così gli sembrava - essere immagazzinato agevolmente nell'officina della psiche.
Si diresse più lesto che poté verso l'uscita, ma ormai nel suo animo si era messa in moto una bizzarra eccitazione in cui confluivano
il ricordo dell' Euridice ritrovata e del suo rapimento, il languore di
quel drappeggio apparentemente così transitorio, ma anche, chissà
perché, la schiena di Giuditta, la possanza di Giunone, gli zigomi della Sconosciuta e perfino il sorriso enigmatico di Beatrice. Ad una
svolta gli si parò dinnanzi un'altra statua, questa volta molto articolata e assai realistica: su un ricco giaciglio di cui erano state scolpite
anche le nappe e il cordoncino della sovraccoperta, stava una fanciulla col busto curiosamente scoperto dalla vita in su, sollevato da
generosi guanciali, in un sonno che nelle intenzioni dell'artista e dei
parenti doveva essere quello estremo: ciò che colpì Augusto non fu,
come si potrebbe immaginare data la natura dei suoi pensieri di quel
momento, la morbida naturalezza dei seni allargati sul torace snello,
ma il volto sereno leggermente inclinato nell'abbandono, gli occhi
chiusi senza sorriso ma sognanti, i capelli sparsi con naturalezza sui
cuscini. La ragazza sembrava attendere proprio da Augusto un bacio
leggero sulla fronte spaziosa per aprire gli occhi, stirare le braccia
come si usa ad un piacevole risveglio, allungarle poi in un abbraccio
foriero di altre conseguenze, intuibili dal leggero movimento accennato dal corpo sotto le coperte.
Sfinito da queste smanie Augusto tornò a rammaricarsi di non poter disporre a suo piacimento di quelle statue, per praticare anche su
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queste la sua particolare inclinazione meditativa; a parte gli evidenti
impedimenti logistici, quelle rappresentazioni avrebbero trovato migliore destinazione nel suo salotto piuttosto che tra i viali del Monumentale. Che senso avevano quelle figure sensuali, quegli atteggiamenti ambigui, quegli slanci languidi in un luogo celebrativo della
Morte? Una volta scomparsi i parenti superstiti ancora capaci di distinguere nell'abbandono di quei corpi, in quelle pulsioni eccitate la linea sottile di separazione tra la Vita e la Morte, il resto dell'umanità
si sarebbe limitato a goderne come opere d'arte, da valutare e interpretare secondo la propria originale sensibilità, distogliendo l'attenzione dalla sacralità del luogo e dalla pietas che li aveva condotti fin
lì. Oh! Quanto era più atto a riconciliarsi con la morte un cimitero
come quello ebraico della vecchia Praga con i suoi cippi grezzi ed irregolari, a segnalare sepolture sovrapposte una all'altra in un affollamento di morti molto simile a quello in cui da vivi avevano operato o
certi sobri e inappuntabili camposanti che circondano affettuosamente le chiese protestanti! Un tumultuoso accavallarsi di memorie o un
giardino di silenziosi ricordi sembrava ad Augusto più congruo che
non tutto questo artigliare la vita in un ultimo disperato tentativo di
acciuffarne gli estremi spasimi per congelarli al di qua dell'ignoto
come se qualcuno potesse prima o poi avere il potere di far rifluire
nuovamente linfa vitale a riscaldare i corpi inanimati, scolpiti nella
pietra strappata al suo millenario riposo.
Come poteva conciliarsi con la Morte il volto sensuale attribuito ad
un'altra statua che ora veniva incontro ad Augusto lungo uno dei percorsi principali? L'abito - chissà poi perché le statue erano sempre
addobbate con drappeggiate tuniche, appropriate per antiche matrone romane ma non per moderne o addirittura contemporanee sciure
milanesi - scivolava da una spalla lasciandone trasparire la carnosità; il volto ampio proteso in avanti, incorniciato da una massa di capelli raccolti in ampie e dense onde, raccoglieva nella sua florida ed
eccitante irregolarità un naso atipico ma volitivo nella sua corposità,
labbra tumide sulla bocca socchiusa, occhi grandi, spalancati verso
un lontano avvenire da cui la ragazza sembra volersi difendere impugnando con entrambe le mani un giglio simbolo di quella purezza
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che la poverina non aveva evidentemente fatto in tempo a macchiare. Se non fosse stato ben attento ad allungare il passo Augusto non
avrebbe potuto fare a meno di cedere alla seduzione di quello sguardo stupito e verginale, ma nuove meraviglie si succedevano come
per incanto in quel cammino ormai ingarbugliato fino a smarrirsi
come se un Dedalo demoniaco avesse sovvertito in un labirinto l'ordinata sequenza di viali.
Due figure, un lui, nudo con portamento da romano antico alla
cui reminiscenza contribuivano, oltre ai muscoli – è il caso di dire –
scolpiti, i riccioli ben disposti sulla fronte, e una lei discretamente
drappeggiata dalla solita veste che, sia detto per inciso, nascondeva
alla vista del passante, per un artificio delle posture, la romana virilità
di lui, si baciavano, in modo certamente casto, anche per la presenza ai loro piedi di un grazioso bimbetto accarezzato da una mano
della donna, presumibilmente sua madre; l'altra mano era dispiegata
sullo sterno con un vezzo vagamente sospetto che, proteggendo il
cuore, tradiva una voluttuosa emozione.
Dovunque si girasse Augusto incontrava queste icone del trasporto amoroso: lì una donna nuda, seduta, quasi inginocchiata, atteggiava il suo viso leonardesco alla speranza che un principe azzurro
le riscaldasse gli acerbi seni marmorei di cui non nascondeva la perfezione, là un' esaltata, discinta come al solito dalla cintola in su, si
slanciava con impeto tra le braccia di un angelo estremamente possente e indubitabilmente maschio nelle sembianze, immobile nell'attesa con le ali erette in verticale secondo un costume più consono ad
un demone che ad una creatura celeste.
Ritrovò la via d'uscita quasi per caso e fu lieto dello sferragliare
dei tram e della puzza di gasolio di uno scappamento poco revisionato efficaci a scaricare dalla mente affaticata i fantasmi che vi si
erano abbarbicati.
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Capitolo X – Verso un nuovo millennio
Non fu un atto di piaggeria quello del direttore del personale della
ditta di import-export presso la quale Augusto, dai tempi della sua
stentata laurea, conduceva una blanda attività lavorativa riconducibile al sodalizio intrecciato da uno dei titolari, il Commendator Rossetti,
col defunto Carlo Ronchi fin dai tempi della comune frequentazione
di quelle citate case che ormai da molto tempo erano irrimediabilmente chiuse a perenne gloria di ogni rispettabile associazione a
delinquere impegnata nel traffico di extra-comunitarie lungo i marciapiedi della metropoli. Augusto occupava quel posto con apatica inerzia e lo occupava, non perché ne avesse bisogno, dal momento che
non gli erano mai mancate le risorse per vivere di rendita, ma in
quanto l'appartenenza al consorzio umano, per un uomo della sua
età e condizione sociale, non poteva prescindere, a suo avviso, dalla
disponibilità di un impiego da sfoderare, come egida indistruttibile,
nell'agone dei rapporti sociali. Non si rendeva neppure conto di sottrarre un'occasione a qualche giovane disoccupato e men che meno
di non essere di alcuna utilità all'azienda: percepiva anzi la sua regolare presenza quotidiana in ufficio come un inevitabile ma pregiato
fenomeno naturale, alla stregua dell'eruzione periodica di un geiser,
quasi si trattasse di un prezioso blasone capace di conferire maggior
prestigio alla premiata Ditta.
Non può destare meraviglia, di conseguenza, che il direttore fosse effettivamente contento di poter sottoscrivere la richiesta di ferie
inoltrata per le consuete vie gerarchiche, anche perché Augusto aveva accumulato un arretrato spaventoso, restio com'era negli ultimi
anni a variare il monotono trascorrere delle settimane con vacanze
piene di insidiose incognite. D'altra parte l'assenza del suo sottoposto non avrebbe certamente determinato un vistoso calo nell'andamento degli affari della ditta, dal momento che il dottor Ronchi, lungi
dal passare per stakanovista, propendeva per un'interpretazione
cauta delle iniziative di volta in volta sottoposte alla sua attenzione
dalla Ditta. E poi era Natale, c'erano parecchie feste, il Capodanno,
l'Epifania e quindi la Ditta poteva fare a meno di quel prezioso ma ti55
tubante collaboratore, beniamino dell' ottantacinquenne titolare secondo una vulgata da tutti conosciuta e non priva di fondamento,
pur se supportata da semplice tradizione orale mancandone ormai
da anni i riscontri tangibili causa riduzione delle capacità motorie di
quel burbero e rubicondo colosso: non capitava più che, imbattendosi nel figlio dello scomparso sodale vagando sorridente tra le stanze
degli uffici, avesse il destro per deliziare il personale, soprattutto
femminile, col racconto dettagliatissimo - fin nei più crudi e, secondo
la sua opinione, spassosissimi particolari - di quello che lui e il padre
di Augusto, ma soprattutto lui combinavano tra le mura delle già
menzionate case.
Fu così che la mattina della vigilia Augusto poté caricare di buon
ora la sua incredula Opel Corsa, ormai invecchiata disperando di poter mai esprimere le qualità implicite nel nome, e filare lungo strade
extra-urbane, munito di tutto l'armamentario necessario a trascorrere quindici giorni sulla neve dell'amena località Engadina dove lo attendevano i suoi amici tutti ospitati nella villa di famiglia dei genitori
di Beatrice. Costei, più o meno felicemente sposata con Alberto Ponti, apparteneva al glorioso casato degli Spadari; contrariamente a
quel che ci si poteva aspettare dal combattivo cognome, avevano
fatto fortuna nel campo delle forniture idrauliche: pompe, tubi, turbine, autoclavi, serbatoi, braghe, sifoni e quant'altro contribuisse a far
viaggiare speditamente in su e in giù senza intoppi fluidi recalcitranti.
Da ragazza aveva suscitato gli appetiti di molti, intenzionati a riposare all'ombra delle possenti spalle del suocero, ma, essendo per di più
una bellissima giovane, aveva potuto godere del privilegio di scegliere un fidanzato di suo gradimento: perché, nonostante questo beneficio, avesse sposato Alberto, restava un mistero assolutamente inesplicabile. Accortasi ben presto di avere banalmente sprecato questa
doppia carta consistente appunto nell'essere bella e ricca, si era
dedicata a guidare, utilizzando il fascino di cui comunque ancora disponeva, uno stuolo di intellettuali, artisti, letterati, musicisti, verso la
meritata gloria. Anche Augusto non era del tutto insensibile a questo
fascino, ma, non possedendo requisiti da scapigliato tali da far breccia nel cuore di quella Mecenate, si limitava ad esercitare i suoi diritti
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di bennato per mantenere caldo il rapporto.
Benché fosse anch'egli invitato a farlo, non aveva voluto alloggiare con gli altri, ma si era prenotata una camera in un comodo albergo
ancora a conduzione famigliare, assai comodo perché situato al bordo delle piste da sci, presso il quale era stato costume della famiglia
Ronchi trascorrere bei periodi invernali ed estivi quando Augusto era
ragazzo.
Ebbe tutto il tempo di ripensare a quei trascorsi mentre arrancava
intruppato nell'immancabile coda provocata da una riduzione di carreggiata sull'infelice Statale Trentasei. Durante quei lontani soggiorni
aveva imparato a sciare, come si conveniva ad un milanese di buona
famiglia e, contrariamente alle sue abitudini sedentarie, aveva trovato quello sport di suo gradimento, un po' perché individuale, un po'
perché nel gruppetto di ragazzi che apprendeva con lui i segreti svelati dagli istruttori valligiani per mezzo di un curioso linguaggio in cui
accenti tedeschi si mescolavano all'italiano stentato, c'era una ragazzina sua coetanea, molto carina e sorridente, naturalmente anch'essa milanese, con cui aveva fatto amicizia e presso la quale sperava
di trovare più intima udienza pur non sapendo esattamente che cosa
si dovesse intendere con tale espressione. Non riusciva più a ricordare né il viso né il nome della fanciulla probabilmente escissi dalla
sua memoria dalla violenta amputazione provocata dalla protervia
espressa dalla madre Matilde nel negargli in modo perentorio ed
inappellabile la possibilità di accettare l'invito della ragazzina a raggiungerla: si trattava solo di festeggiare insieme a lei con un brindisi
l'anno nuovo al veglione dell'albergo dove alloggiava coi genitori ed i
fratellini. Il mattino seguente, primo gennaio dell'anno nuovo sulla pista da sci i maestri, per l'occasione alquanto malsicuri sulle proprie
gambe, attesero invano che la ragazza si presentasse ed iniziarono
la lezione senza di lei. Augusto non la vide più per quante ricerche
avesse condotto presso l'albergo che gli era stato indicato: di lei sparita nel nulla restava solo un tenero rimpianto a scaldargli il cuore
ogni volta che Sankt Moritz si riaffacciava alla sua vita.
Un clacson importuno e petulante lo staccò dalle sue rimembranze e la Opel impaziente con un balzo repentino percorse con giova57
nile baldanza cinquanta metri prima di arrestarsi all'evidenza delle
luci di frenata della macchina che la precedeva.
Quando Dio volle fu ai piedi del Maloja e, inerpicatosi per i tornanti cupi dalle precipiti pareti incombenti, sboccò nell'ampia vallata dell'Inn coi suoi laghi ghiacciati e coperti di neve. In albergo fu accolto
calorosamente, si ricordavano di lui, gli espressero le più sentite condoglianze per il lutto così recente nell'aspro accento del posto, così
poco adatto ad esprimere sentimenti delicati, e lo accomodarono nella sua stanza. Dopo un pasto frugale ed una breve passeggiata lungo il lago si accinse a incartare ed infiocchettare i libri acquistati in vista del consueto scambio di doni ineluttabilmente abbinato alla cena
della Vigilia in casa di Beatrice ed Alberto. Ogni anno era la stessa
storia: non si decideva mai ad acquistare i regali di Natale per tempo
e alla fine si rifugiava in libreria, cercando di assecondare, con la
scelta di titoli appropriati, la personalità dei destinatari. Soccombeva
dopo il terzo o il quarto titolo, acquistando il resto a casaccio ed in
soprannumero, riservandosi di ottimizzare la copulazione di soggetto
ed oggetto all'ultimo istante e impacchettava l'ultimo libro convinto di
aver fatto un buon lavoro e sicuro di avere ottemperato, pur col rischio di esporsi a qualche sottaciuta critica per eccesso di ripetitività, alle convenienze sociali. La sua perseveranza nel confezionare
ogni anno i Demoni, Il giovane Olden, Lord Jim e altri corposi manufatti consimili per un consesso immune da curiosità letterarie ricevendone in cambio un bizzarro assortimento di pipe, sciarpe, oliere,
grattugie per il formaggio e stramberie varie, era ormai divenuta proverbiale e toccava il suo apice quando il destinatario, negando con il
dovuto imbarazzo di averne già ricevuta e non letta una copia due o
tre Natali prima, estraeva dalla carta frusciante il corposo tomo de Le
anime morte o, peggio, de L'uomo senza qualità.
Anche se ogni anno, pur con modalità e scenografie diverse, il rito
dello scambio di doni si ripeteva uguale nel suo canovaccio, al momento della fatidica cerimonia veniva colto da un'indefinibile sentimento di inadeguatezza quando scopriva come tutta la sua fatica venisse liquidata rapidamente in poche battute accompagnate da baci
schioccanti quanto sbrigativi su entrambe le guance mentre si pas58
sava oltre tra acuti strilli di meraviglia, al disvelarsi delle sorprese
contenute negli altri pacchetti. Dettagliati racconti ora ad alta voce,
ora sommessi, sul come e sul perché fosse stato selezionato un determinato regalo e soprattutto circa gli ostacoli superati e le astuzie
messe in campo per conquistare l'obiettivo così pervicacemente perseguito evidenziavano come il rito sopravvivesse più per il piacere di
dannarsi alla ricerca di percorsi trasversali ed inconsueti, alla scoperta di sconti e occasioni speciali, che non per testimoniare affetto e
apprezzamento per i destinatari.
La cerimonia, e la cena consumata come ouverture, trascorsero
senza particolari intoppi, ad eccezione di una scenata di gelosia di
Daniela nei confronti del marito, reo, a suo dire, di avere circondato
di eccessive premure tale Rachele, antica compagna di università
della padrona di casa con la quale la stessa Beatrice aveva sempre
mantenuto stretti contatti anche dopo trasferimento dell'amica, causa
convivenza, ad Udine di dove si apprestava a rientrare a Milano,
causa separazione; appunto per favorirne il reinserimento nell'ambiente milanese Beatrice, che per le amiche svincolate o abbandonate nutriva sentimenti degni di un don Bosco, aveva preteso, e Rachele accettato, che l'amica trascorresse le vacanze di Natale con i vecchi amici portandosi appresso il figlio quattrenne e relativa tata peruviana. Nei giorni successivi tutto si accomodò e il tempo trascorse
tranquillamente, anche perché sembrava che la Borsa non se la sarebbe sentita di fare a meno della presenza laboriosa di Gianluca repentinamente scivolato giù dal Maloja conducendo la sua Audi trionfalmente bianca per gli insidiosi tornanti.
Furono giorni di lunghe sciate in compagnia, di prolungate sieste
meridiane favorite dalle giornate cortissime, di meditazioni accanto al
fuoco del caminetto, di letture lente nell'accogliente salottino dell'albergo; con qualche scusa improvvisata o semplicemente motivando
col desiderio di stare solo Augusto riuscì ad evitare quasi tutti gli
aperitivi, le cene e i dopocena cui era stato invitato, ritemprando le
proprie energie, così provate dai festeggiamenti della Vigilia, in vista
del temuto Veglione di fine anno, organizzato da Beatrice ed Alberto
con gran profusione di inviti: si preannunciava, data la coincidenza
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con l'inizio del nuovo millennio, come vero e proprio avvenimento per
la popolata colonia di villeggianti milanesi. Augusto nutriva una certa
apprensione all'avvicinarsi dell'evento, come gli capitava sempre in
simili occasioni, in quanto l'esperienza gli aveva insegnato che il più
delle volte terminava la serata o in un patetico stato di frustrazione
per non aver saputo reggere con naturalezza il ruolo di sua competenza, e cioè quello del giovanotto brillante e spensierato, o in penose condizioni di ubriachezza manifesta e portatrice, come una nube
è gonfia di pioggia, di tristissima malinconia. In questo caso poi un'incognita, ulteriore apprensione compariva in un angolo remoto del
suo cervello a segnalargli un imprecisato pericolo in grado di turbare
quelle giornate serene. Era come se nell'ambiente incantato della
valle insieme al profumo dei boschi aleggiasse un'aura maligna e velenosa, alimentata dalle scorie delle sue funeste fantasticherie.
Fu sollevato apprendendo, grazie ad una soffiata giunta telefonicamente dall'Ufficio titoli della nota Banca milanese, che lo smoking,
cautelativamente infilato in valigia all'ultimo momento, avrebbe potuto trascorrere tutto il periodo di vacanza comodamente appeso nel
guardaroba della sua camera d'albergo, dove i suoni dei botti gli sarebbero giunti attutiti nella loro carica dirompente. Un po' invidiava il
suo abito da cerimonia, ma fu contento di sapere che un abbigliamento casual e sportivo sarebbe stato apprezzato come segno di
appartenenza alla cerchia più stretta degli amici di famiglia: anche di
queste sottigliezze era cementata la solidarietà annosa di quell'ambiente.
L'esercizio fisico, l'aria frizzante, il ritmo regolare del sonno ristoratore, il cambiamento di ambiente avevano contribuito, dopo qualche giorno, ad allontanare da Augusto i fantasmi di quelle statue, le
ubbìe infondate suscitate dai suoi sogni balzani, i percorsi tortuosi
alla ricerca della donna prototipo; solo, di tanto in tanto, il pensiero di
Euridice impegnata nel salotto silenzioso in un lungo dialogo di
sguardi con gli altri membri della famiglia tra i quali era stata abbandonata, lo trascinava verso orizzonti che, almeno per il momento, voleva allontanare dai suoi occhi.
Ma il veglione di Capodanno stava in agguato.
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La serata era limpida e fredda anche se non non buia per una falce di luna crescente incaricatasi di irradiare di un tenue velo azzurro
la coltre scintillante. Augusto aveva preferito giungere a piedi dall'albergo per assaporare l'incanto di quella sera, e una volta varcato il
cancello della recinzione esterna seguì la traccia delle torce piantate
nella neve – le torce non potevano mancare in queste occasioni! –
per raggiungere l'ingresso della villa appollaiata sul dosso della montagna come un ben pasciuto plantigrado. Dalle finestre la luce si
espandeva verso i rami del bosco incombente giocando con le ombre, quasi a stuzzicare col suo artificio scintillante le tenebre affacciate dalle balze di un mondo selvaggio.
All'interno fu accolto da saluti entusiastici e convenevoli ciarlieri;
non si era ancora tolto il piumino che a colpo d'occhio aveva già potuto abbracciare, nella fuga di stanze vividamente illuminate e sobriamente addobbate, quell'umanità varia che trasferiva da Milano a
Sankt Moritz la sua inesauribile voglia di occuparsi dei fatti altrui. Riconobbe amici non si sa quanto felicemente coniugati, qualche infelice separato ciondolante per le stanze col bicchiere in mano quasi
per avere la certezza di non incontrare quella che era stata in un'altra vita la sua metà, nonché alcune signore sotto le cui sembianze
recentemente rinnovate facevano capolino i tratti di vecchie conoscenze. Non era stata apparecchiata una vera e propria cena, ma
dai tavoli addossati alle pareti occhieggiava una profusione di tartine,
torte salate, pizzette, tortillas, pezzetti di formaggio, continuamente
rimpolpati dal solerte personale ingaggiato per l'occasione. La modalità d'approvvigionamento prescelto aveva il pregio, non consentendo
di sostare a lungo in una posizione, di incoraggiare le signore e signorine presenti ad esibire la propria persona con tutto il corollario di
toilettes, acconciature, accessori, gioielli, profumi, scarpe ed accompagnatori. Un gruppo di maschi se ne stava raggruppato, taluni seduti, altri in piedi, attorno al mastodontico camino della sala principale a rimestare i soliti temi da bar: la politica, le tasse, il calcio, le tasse, le automobili, le tasse, lo sci e ancora le tasse. Non si parlava
ancora di donne, argomento che richiedeva, data la sua complessità,
di un'ora più discreta e di un'intorpidimento alcoolico ancora di là da
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venire, almeno per la maggior parte dei convenuti ché qualcuno mostrava già le avvisaglie di un'ebbrezza sospetta. Era il caso di Gianluca, tornato in giornata da Milano spingendo l'acceleratore della sua
Audi oltre ogni limite d'imbecillità: “ Due ore e dieci minuti, col casino
che c'è a Monza! “ gli sussurrò nascondendo la stupidità della sua
bocca con una mano. Prendendo poi Augusto sottobraccio esordì
con un “Quella cretina – evidentemente riferito alla moglie Daniela –
pensa che io voglia portarmi a letto quella scimmia di Rachele, ma
non ci penso proprio – poi invertendo la marcia con una risata sgangherata – Però quasi quasi, piutost che nient l'è mei piutost!” e giù a
ridere.
Il vice-titolare dell'ufficio titoli che sonnecchiava in lui si riprese
alla vista di una signora attempata ma ancora animata da velleità
svelate dall'accurata acconciatura, dall'abbronzatura caraibica e dal
maquillage vistoso, vedova benestante e non recentissima, ma neppure così annosa da giustificare, agli occhi di alcuni benpensanti, lo
sgargiante corpetto in raso verde bosco che la fasciava, anche con
funzione di contenimento delle carni in esubero, sopra la gonna a
balze della stessa tonalità. Gianluca, abbandonato a sé stesso l'amico come fa un naufrago la zattera alla vista di un più consistente
approdo, accostò la signora con una troppo ampia manovra, non
necessaria secondo le leggi della dinamica, ma indispensabile a mascherare un certo tentennamento instabile sullo spostamento breve,
porgendole un bicchiere di frizzantino e apostrofandola con un
“Cara, carissima Maristella! “ non scevro, per chi come Augusto conosceva bene Gianluca, da intenzioni esplorative circa la consistenza e l'ubicazione del patrimonio mobiliare della suddetta.
Non si deve pensare che la casa di Beatrice fosse in quest'occasione frequentata solo da individui animati da appetiti così materiali
ed interessi di natura così prosaica, manager, industriali, commercianti, broker. Non mancavano infatti gli intellettuali, architetti, designer (non a caso la padrona di casa era anch'essa architetto), professori, giornalisti, creativi della pubblicità, medici e primari, ma si
notavano poco, a meno di avvicinarsi a certi capannelli in cui a bassa voce ci si scambiavano notizie sussurrando di cattedre, incarichi,
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contratti, redazioni, reparti. Qualche volta i due settori si intrecciavano e ne scaturiva un effervescente miscela di reciproche adulazioni,
piaggerie che celavano vigili congetture sul reciproco tornaconto di
eventuali asservimenti. Non era certo un giudizio morale quello balenato per un attimo nella mente di Augusto, ma la sensazione di essere uno dei pochi presenti invitati per una specie di diritto naturale,
senza che si potesse rintracciare in lui qualche titolo idoneo a giustificarne la presenza; certo aveva studiato per molti anni con alcuni
dei presenti, compresi i proprietari e li aveva frequentati per così dire
alla pari, dal punto di vista del censo, ma oggi col suo tranquillo lavoro ordinario, la scarsa ambizione, la modesta pigrizia, l'esigua curiosità intellettuale, perfino con la sua Opel Corsa, non si trovava certamente nella condizione di essere protagonista in quella cerchia di
privilegiati; eppure proprio per questo era soddisfatto di esserci, per il
compiacimento di sentirsi in un certo senso un aristocratico in mezzo
ad una folla di borghesi plebei.
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Capitolo XI – La calda poltrona di Rachele
Il mistero pagano dello scoccare di mezzanotte, affiorando dall'ancestrale notte primigenia delle intorpidite coscienze, aveva scatenato
l'elevazione dei calici di quella corpacciosa e capricciosa moltitudine
verso un' oscura divinità secolare, e la celebrazione aveva contribuito, con brindisi, auguri, baci e abbracci a mescolare gli appartenenti
ai diversi gruppi: i più intimi contraddistinti da abbigliamento casuale
e sportivo e gli altri impietosamente lasciati a macerare nelle loro tenute di gala, come sottolineatura indiscutibile di sbertucciato arrivismo. Signore dalle inesaurite risorse, in abito da sera scollato e tacchi vertiginosi, nell'eccitazione del ballo concedevano l'epidermide
scoperta al rude sfregamento della lana cruda di cardigan tirolesi indossati con leggerezza da giovanotti in pantaloni di velluto a coste,
mentre giovinette con jeans firmati, felpine decorate e doposci illudevano signori, resi ancor più maturi d'anni dall'abito scuro con giacca
e cravatta a farfallino, di guidarle nella danza. Altrove il tintinnio di
orecchini a sonaglio e braccialetti sfacciatamente risonanti intralciavano le conversazioni tra sottane di chiffon di seta e di cotone, dolcevita di kashmeere, minigonne stivalate, pantaloni di fustagno tutti impegnati, coi loro proprietari, ad annusarsi, pesarsi, valutarsi per decidere le gerarchie e le appartenenze sociali per il nuovo anno, per il
nuovo secolo, per il nuovo millennio.
La preoccupazione di apparire sempre occupato per non essere
coinvolto in qualche stucchevole conversazione aveva spinto Augusto a peregrinare di qua e di là, sempre tenendo in mano un bicchiere continuamente vuotato e nuovamente riempito per rendere più
credibile il suo impegno, cosicché, non molto tempo dopo il suo avvento, il nuovo anno lo ritrovò pericolosamente avvitato lungo una
china sdrucciolevole e instabile. Si appoggiò con noncuranza ad una
credenza per mettersi in sicurezza e scrutare con attenzione gli altri
convitati, assecondando un'inclinazione da cui si sentiva affetto fin
dal momento in cui, abbandonato da Gianluca tra i flutti e salutati i
conoscenti con adeguati sorrisi e frasi di circostanza, si era ripromesso di concludere la serata senza incidenti di percorso.
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Non che avesse qualcosa di particolare da indagare, non era neppure in quello stato d'animo in cui un individuo della sua età e del
suo stato civile, volteggiando sopra il gregge come una poiana affamata, cerca una pecorella, una preda appetibile, non troppo pesante
e abbastanza indifesa da non protrarre la lotta per la sopravvivenza
oltre i limiti della decenza. Aveva da tempo abbandonato questo tipo
di atteggiamenti dal momento che negli ultimi anni aveva imparato a
sue spese come in certe pecorelle gli esili zoccoli lasciassero ben
presto il posto, come per una spietata evoluzione della specie, ad
acuminati artigli con cui gli aggressori, attratti dalla fragilità sfoderata
per l'occasione dalle presunte vittime come arma impropria di caccia,
erano proditoriamente abbrancati e dilaniati, per essere abbandonati,
quando ne fosse stata consumata la polpa, come carcasse dolenti a
disposizione degli avvoltoi.
No, l' interesse che quelle creature avevano suscitato in lui con la
loro esibita falsificazione era per così dire scientifico, antropologico
per la precisione.
All'inizio si era trovato quasi per caso a fissare l'immagine di una
cugina della padrona di casa, tale Sofia, che aveva evidentemente
impegnato gran parte della giornata a modellare le sue sembianze
normalmente piuttosto scialbe, ingolfate com'erano in lunghi maglioni
di lana grezza e calzamaglia scura, per trasformarsi in una di quelle
spensierate adolescenti protagoniste di spot confezionati per magnificare i vantaggi di un colluttorio o di un assorbente intimo nell'intervallo di un quiz o di un reality. Il risultato di quell'impegno ossessivo
determinava un effetto totalmente estraneo al suo carattere imbrigliandone la spontaneità, idonea, se ben indirizzata, a costituire, insieme alla particolare doratura dei capelli biondo cenere e alle gambe snelle e ben modellate, la robusta intelaiatura su cui edificare
un'affascinante architettura. Invece se ne stava visibilmente impacciata, con le sopracciglia sfoltite, i capelli arricciati in una precaria
combinazione, indossando una camicetta bianca con le maniche a
sbuffo e un paio di pantaloni più adatti ad un safari che ad un veglione, seppure in versione casual: stivali d'ordinanza completavano l'impietoso bouquet . Da chi era stata mal consigliata la ragazza? Cosa
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aveva oscurato quella saggezza che pure portava nel nome?
Mentre cercava una risposta a queste oziose domande lo sguardo di Augusto si imbatté nella figura di un suo coetaneo frequentato
ai tempi del liceo: un guascone sempre pronto allo scherzo e alla risata larga, capace con una battuta di conquistarsi la simpatia e, con
uno sguardo dei profondi occhi verdi, la fiducia di tutti. Ora, fortemente dimagrito e probabilmente palestrato, stava lì, allampanato,
con lo sguardo avido, costretto in un completo grigio ferro con cravatta gialla, i capelli corvini lisci e tirati all'indietro, costretti dal gel in
una posizione innaturale, convergente verso la mezzeria del capo e
tuttavia utile a nascondere un'incipiente calvizie che si stava facendo
strada proprio in cima alla nuca. Gli ultimi riccioli, quasi dei boccoli
erano allungati quel tanto che basta per rallegrare con il loro brio il
candido colletto della camicia. Certo non tutto era da attribuirsi ai
preparativi di un giorno, ma certamente anch'egli si era dato da fare
per assomigliare ad un noto manager in grande ascesa nel mondo
della formula uno e trarre da questa immagine la forza che avrebbe
più facilmente potuto attingere dalle risorse della naturale esuberanza a sua disposizione per conquistare il consenso.
Altri individui di ambo i sessi, che Augusto aveva avuto modo di
accompagnare nella loro naturale evoluzione imparando a riconoscerne i caratteri di fondo, si erano industriati a sfoderare per l'occasione barbe mal rasate da intenditore di whisky o da nostromo tonnato, acconciature telefilmicamente orientate a velleità di potere, cardigan blu zippati su trippe automobilistiche, decoltée trapuntati di silicone da donna in carriera o da tronista; nessuno di loro sembrava disposto ad accettarsi così com'era o ad indirizzare le proprie aspettative di crescita ottimizzando le risorse migliori di cui poteva disporre
ma sembrava preferire un faticoso adattamento agli stereotipi più facilmente disponibili; ne derivava una forzatura, come quando, per riciclarlo, si tenta di rimettere nella sua confezione un regalo di cui si
sia decretata l'inutilità dopo averlo sperimentato. Aleggiavano nei saloni, sospesi come il fumo delle sigarette, strati di artificiosità collosa,
non quella allegra o tragica dei travestimenti teatrali o carnevaleschi,
ma impotente e dozzinale come un falso realizzato da un pittore di66
lettante.
Augusto stava immaginando una galleria di questi quadri e per
un attimo la confrontò con la ben nota sequenza di statue del monumentale, languente, ma non dimenticata, negli strati superficiali della
sua momentaneamente assopita memoria. Quel regno fantastico, né
animale né vegetale o minerale, avrebbe richiesto un nuovo Linneo
in grado di estrapolare dalle molteplici combinazioni tra modelli virtuali e caratteri originari un criterio di classificazione sistematica per
famiglie e specie, utile ad una migliore conoscenza di quel complesso universo. Sarebbe stato facile anche in quel salone individuare
endemismi, specie che allignano solo in un determinato contesto, o
specie vicarie che, pur somigliandosi, si differenziano in funzione del
substrato.
Una voce femminile, si insinuò delicatamente tra lui e questi pensieri.
“Cosa ha scoperto il nostro entomologo?” gli stava sussurrando
Rachele in un orecchio.
Augusto si schermì, ma non potè negare la perspicacia della sua
interlocutrice; tentò di giustificarsi adducendo la sua naturale ritrosia
ed insofferenza ai balli e in generale alle feste, ma dovette piegarsi
al sorriso sardonico apparso sul volto un po' sgraziato di Rachele, e,
insieme all'alzar di sopracciglia responsabile di garbate rughe disegnate sulla fronte e al ditino ammonitore puntato su di lui, metteva a
nudo la vacuità delle sue giustificazioni. L'effetto del frizzantino e soprattutto del successivo champagne, assunto in dosi di per sé minute
ed innocue ma che la frequenza con cui veniva trangugiato senza lasciare tra un sorso e l'altro le necessarie distanze di rispetto, aveva
reso pregiudizievole all'autocontrollo, finì per manomettere i suoi
collaudati apparati difensivi.
Come un vascello che abbia improvvidamente salpato l'ancora e,
sollevato dalla corrente della marea, si allontani verso il mare aperto
abbandonando la fonda prestabilita nonostante gli sforzi in contrario
profusi dal nocchiero orbato dell'abbrivio necessario al governo del
timone, così Augusto si lasciò trasportare dall'imperiosa necessità di
rivelare a quegli occhi miti e profondi il percorso dei suoi pensieri, a
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partire dalle sue aspirazioni linneiane, risalendo sempre più indietro,
alle origini del suo sincretismo erotico o scivolando giù giù verso la
parata di monumenti funebri del Monumentale. Aggrappati ad un'altalena sbilenca, pensieri e parole si affollavano, come se dovessero
passare da un imbuto, determinando un livello di pressione che accelerava il flusso della corrente, travolgendo ogni filtro.
Una volta apertasi la breccia nella diga della dignità nulla avrebbe
potuto fermare l'ondata di fango che si riversava nell'esterrefatta vallata del compatimento in cui ambiva sguazzare. Non si era fermato
neppure di fronte ai particolari più imbarazzanti del sogno o delle sue
solitarie esercitazioni, non aveva taciuto l'odio covato nei confronti di
Matilde che, come un rigurgito, gli era risalito per la strozza; aveva
anche pianto, o quanto meno delle lacrime si erano confuse con le
gocce di sudore provocate da un calore interno improvvisamente
alla ricerca di sbocco dai suoi visceri verso l'atmosfera già di per sé
piuttosto soffocante della stanza.
In un susseguirsi di deflagrazioni, coincidente con la successione
di pirotecnici spari in corso nel giardino, Euridice, la Sconosciuta,
l'andeghé, Giunone, il nonno Ernesto e Giuditta erano riemersi dalla
bolgia sulfurea delle sue reminiscenze esplodendo nel racconto
come demoni infuriati alla ricerca della loro vittima e ricadendo, per
spegnersi, negli occhi profondi di Rachele.
L'unica reazione percepibile della ragazza, sprofondata in una
poltrona sul cui bracciolo stava appollaiato precariamente Augusto
nella sua contorta affabulazione, fu quella di appoggiare il mento su
una mano sostenuta dal braccio saldamente puntellato sulle gambe
accavallate, senza smettere di guardarlo da sotto l'arruffio dei suoi
capelli neri già insidiati qua e là da qualche filo completamente bianco. Sulle prime il gesto gli apparve come un segnale di annoiata noncuranza e lo fece incollerire, come succede agli ubriachi quando si
accorgono di essere misconosciuti o, peggio, presi in giro, ma una
calma partecipe ed assorta si irraggiava da quell'esile figura, da violoncellista intenta ad ascoltare, nella pausa delle prove di un quartetto, un collega mentre estrae dal suo violino una straziante melodia.
Non ci fu bisogno neppure dei rituali – Ma perché ti annoio con
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queste storie? - - Ma figurati! Se ti fa bene - - Non so proprio cosa
mi abbia preso questa sera - -Ti capisco perché anch'io con mia madre...- : tutto fluì dall'animo di Augusto e, prendendo forma per un attimo nelle sue parole, fu accolto senza un sospiro dalle gracili spalle
di Rachele.
Gli ospiti avevano iniziato lentamente a sfollare, ancora i più intimi
e qualche ubriaco che non si sapeva come rispedire al mittente indugiavano nei saloni. Augusto si accasciò nella poltrona silenziosamente abbandonata da Rachele e il calore del corpo di cui era impregnata lo trascinò in un vaporoso oblio. Gli sembrò di aver dormito
per ore quando, dopo qualche minuto la donna lo svegliò con una
leggera carezza mentre con l'altra mano gli porgeva una tazza di caffè nero e bollente. Si leggeva in quei gesti una grazia quasi riconoscente, come se la beneficiata di quel lungo sfogo fosse stata lei e
non Augusto. Dire che restò allibito è impreciso: quella donna aveva
ascoltato per tutta la sera le sue fisime senza commentare, senza
giudicare, senza consigliare, senza intromettersi con paragoni tratti
dall'esperienza sua o delle sue conoscenze, lo aveva accolto come
si fa con un naufrago ansioso, ancor prima di rifocillarsi, di raccontare la sua avventura e ora gli portava silenziosamente un caffè con un
gesto semplice di solidale complicità. Poco dopo, quando fu in grado di alzarsi per guadagnare la porta la cercò invano con gli occhi,
ma si era già ritirata.
Si incamminò giù dal vialetto verso l'albergo nella nottata gelida
propensa già ad albeggiare, sentendosi più leggero e protetto dal
calore di quella soffice poltrona.
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Capitolo XII – Uno slalom difficile
Quando nella tarda mattinata, dopo esser stato beneficiato da un
sonno ristoratore e da una abbondante colazione, affrontò con la necessaria cautela la prima discesa dal Corvatsch, conscio del fatto
che, se la testa pareva ormai sgombra e sembrava aver smaltito la
più parte dei fumi della sera precedente, tuttavia le gambe potevano
non corrispondere con la necessaria prontezza alle insidie di qualche
lastra di ghiaccio disseminata sulla pista e ancora superstite nonostante l'ora avanzata. Al termine di un lungo traverso, intravide Rachele ferma ai bordi del percorso con Beatrice, Alberto e i bambini.
Proseguì facendo finta di non notare il gruppo, fermo a riposare prima di intraprendere l'ultimo tratto di pista: aveva ancora bisogno di
tempo per esplorare quali fossero i suoi sentimenti nei confronti di
Rachele dopo gli avvenimenti della notte passata e decidere con
quale atteggiamento affrontare i paletti di uno slalom forse assai più
scabroso di quello del Corvatsch.
Da una parte, appena sveglio, gli era parso di riconoscere nel suo
intimo i postumi di un rancore profondo nei riguardi della donna, rea
di avergli estorto dalle segrete dell'animo avvenimenti e passioni inconfessabili, ma poi, ricuciti i brandelli di quella deriva notturna, gli
parvero accertati non solo la spontanea adesione, da parte sua, alla
piega presa dalla serata ma anche lo struggente desiderio di tradurre
per la prima volta in parole allineate secondo le regole della grammatica e della sintassi, per quanto gli era concesso dai fumi del vino,
tutte quelle deliranti esperienze. Allora prevalse in lui la vergogna per
essersi lasciato andare, dopo una conoscenza così effimera e superficiale, oltre i limiti suggeriti dal decoro, per avere infranto una di
quelle regole non scritte del vivere civile, quella del pudore, così profondamente radicata nella sua educazione. Si sentiva come una specie di Noè che, dopo essere scampato al diluvio, “ si inebriò e si
scoprì dentro la sua tenda” finché Cam lo vide nudo come un verme
e con i fratelli Set e Jafet lo ricoprì con un mantello.
Poi, dopo la colazione, quel tepore accogliente della poltrona,
quel calore umano in cui si era rannicchiato e lo aveva scortato fino
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all'albergo, anche sotto il piumino dove aveva trascorsa la notte, gli
fece balenare in una prospettiva diversa il sorriso davvero dolce che
gli era stato offerto col caffè forte e profumato. Vi scorgeva ora una
generosità disinteressata per la sua debolezza, una sollecitudine
amorevole ma non amorosa nei confronti dell'essere umano che le si
era parato davanti, nudo ed implume nel suo abisso.
Non poteva definire il sentimento albeggiante nel suo cuore, non
aveva sufficiente esperienza per distinguere i diversi gradi dell'affezione. Ma era affamato di quella sensazione di cui si era sentito prigioniero quando si era accasciato su quello scanno; non aveva mai
sentito di nessuno che si fosse innamorato per il contatto col calore
lasciato da una persona sui cuscini di una poltrona, né che ne fosse
nata una profonda amicizia. D'altra parte quell'intimo calore non pareva aver sfiorato qualche erotica sensibilità, né quando il tasso alcolemico del suo sangue poteva inibire qualsiasi reazioni di questo
tipo, ma neppure quando al risveglio il calduccio dell'alcova invogliava facilmente a disperdersi in fantasticherie, facilitate dalla naturale
fisiologia maschile, neppure allora la sensazione di quel calore si era
insinuata a smuovere le stropicciate lenzuola. Falsificati in via per
così dire sperimentale amore, amicizia e sesso, quale altra ipotesi
poteva essere avanzata per comprendere il fenomeno di cui era testimone privilegiato?
Si era immerso in queste meditazioni epistemologiche per tutta la
risalita e stava aggiustandosi gli attacchi degli sci prima di affrontare
nuovamente la discesa, quando fu interrotto dalle grida festose dei
bambini che, riconosciutolo, lo avevano raggiunto precedendo il
gruppone compatto degli adulti.
Scesero tutti insieme dandosi la baia per lo stato in cui si erano lasciati la sera precedente. In particolare Augusto fu oggetto di battute
salaci e di allusioni alle condizioni di smarrimento a causa delle quali
non aveva potuto cogliere le occasioni propiziate dal veglione e ancor più dalla particolare atmosfera del nuovo millennio. Rachele sciava con tranquillità e sicurezza in mezzo ai bambini senza mostrare
emozioni particolari, ma distribuendo utili consigli sul modo di affrontare un dosso o di scaricare la gamba a valle nell'affrontare una cur71
va stretta. Augusto, dopo un cenno di saluto cercava di stare alla larga da quella presenza per lui così ingombrante, ma quando furono
in fondo alla pista, tolti gli sci, Alberto propose di andare a bere qualcosa di forte e corroborante alla prima baita ospitale incontrata lungo
il cammino. Cominciava già ad imbrunire e il clima all'interno dello
stanzone era umido e caldo, la luce artificiale non prevaleva ancora
sulle vampate del tramonto, mentre i gatti delle nevi si stiracchiavano
fuori dalle loro postazioni coi lampeggianti gialli accesi apprestandosi a compiere il lavoro di manutenzione delle piste cui erano preposti.
Fu così che, mentre lui ordinava un caffè doppio, trovandosi fianco a fianco entrambi scoppiarono in una complice risata capace di
alleggerire lo sforzo con cui Augusto proruppe in uno strozzato
“Cosa fai stasera?” che, per quanto solo gorgogliato, risuonò per il
locale come uno sparo.
“Partiamo tra poco, perché domani pomeriggio ho una riunione di
lavoro a Monfalcone ma – proseguì Rachele con la sua erre moscia
disinvoltamente arrotata – tra qualche settimana mi ristabilisco a Milano e chissà che ci possiamo incontrare. Spero non al Monumentale! “ e rialzato lo sguardo dal cappuccio che, nonostante l'ora, si era
procurata, lo fissò con l'intensità malinconica di chi sta per affidare
un cucciolo al canile per una temporanea vacanza.
I giorni seguenti non ebbero particolare storia, trascinandosi tra
un sempre più spento interesse per le discese, qualche faticosa e
scoraggiante esperienza sugli sci da fondo lungo i laghi, porzioni
esuberanti di pizzoccheri e bicchieri di Inferno e Sassella. Qualche
volta, soprattuto quando Augusto si attardava sulla soglia di quell'oblio là dove la veglia si confonde col sonno, la erre moscia di Rachele si incardinò nelle sembianze algide di Euridice e un mattino,
prima che il risveglio definitivo gli confondesse le idee, gli sembrò di
avere rivissuto la parte di quel famoso sogno in cui si celebrava l'investitura di Euridice, ma questa volta inspiegabilmente, al posto di
Matilde scorse il volto spigoloso di Rachele.
La speranza di rivederla a Milano non si tradusse mai in fattiva
sollecitudine: considerava troppo compromettente chiedere notizie di
lei ai suoi amici nel timore che questi assumessero atteggiamenti iro72
nici e grevi come avveniva sempre quando non gli riusciva di nascondere il suo interesse per qualche ragazza. Pur non non rintracciando in sé alcuno dei sintomi dalla letteratura specifica attribuiti all'innamoramento, qualsiasi allusione volgare o grossolana a Rachele
e al loro inesistente rapporto avrebbe potuto provocare, nel suo animo eccitabile, conseguenze imprevedibili come in un ragazzino la cui
madre fosse apostrofata con epiteti relativi al di lei non specchiato
comportamento. Anche in gioventù aveva sopportato con noncuranza il dileggio amichevole, anche se un po' perfido e salace, dei compagni: la sua recidiva inclinazione ad innamorarsi di ragazze indifferenti al manifestarsi dei suoi sentimenti aveva fatto di Augusto il bersaglio preferito dei motteggi più coloriti, spietati e cinici che gli amici,
incoraggiati dal senso di impunità garantito dall'appartenenza al
gruppo e dalla scarsa attitudine di Augusto alla rissa, sapevano trarre dal repertorio non ancora raffinato della loro grettezza metropolitana.
In questa decisione di scacciare ogni debolezza investigativa lo
soccorse un episodio accaduto quando aveva forse dodici o tredici
anni e provvidenzialmente rimosso, in quanto umiliante, dalla sua coscienza vigile: si era innamorato, ricordò ad un tratto, di una ragazzina che abitava un appartamento nella casa da poco costruita proprio
sul retro di casa sua, sul lato dove si affacciavano le camere. Si rammentò dei pomeriggi primaverili trascorsi nella sua stanza, affaccendato a risolvere l'ingarbugliato enigma di un teorema inafferrabile
come una vivace anguilla scivolosa o a masticare vocaboli inglesi le
cui scorie restavano intrappolate tra i denti come residui appiccicaticci di torrone: in quelle interminabili ore aveva fatto l'abitudine ad un
sottofondo sonoro in cui le blasfeme gutturalità bresciane di un capomastro e le litanie napoletane del suo manovale, incomprensibili ma
assai melodiche, contribuivano, in un precario equilibrio messo sempre a rischio da altri rumori di macchine, a mandare avanti il cantiere
giorno dopo giorno. Era, nel vasto e indistinto brusio metropolitano,
un concerto tutto sommato gradevole, capace almeno di alleviare la
noia del tempo in cui Matilde costringeva il figlio a incaponirsi sui libri
anche quando ciò non era affatto richiesto dalla mole dei compiti e,
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soprattutto, dalla voglia di un dodicenne. Man mano che la casa cresceva e, dall'aspetto ingarbugliato e precario assunto nei primi mesi,
acquistò sembianze più consone a quella che, secondo l'opinione
comune, doveva definirsi una casa, gli intrattenimenti musicali divennero più rari. Augusto sprofondò, gli pareva di sentirlo come allora, in
una solitudine ancor più cupa: quando la parete di un grigio chiaro,
quasi bianco, per tanto tempo sfumata nei suoi netti contorni dal segno incerto delle impalcature, emerse finalmente dal gioco di chiaroscuri - l'ingabbiavano le assi da ponte e solo allora poté dispiegare le
sue austere proporzioni, ammorbidite dal ritmo pacato delle finestre,
ancora accecate da tapparelle verniciate in una tonalità di grigio più
scuro - udì per l'ultima volta il ritmo incalzante, da basso continuo,
del capomastro; poi, nei giorni seguenti solo occasionalmente qualche litania partenopea accompagnava un acre odore, quasi un profumo d'incenso ma più aspro, che scaturiva da alcuni bidoni di latta in
cui bruciavano, secondo l'uso del tempo, le minutaglie dei rifiuti di
cantiere, spazzate via in previsione dell'arrivo dei nuovi padroni degli
appartamenti.
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Capitolo XIII – Emma: un doloroso precedente
Anche quell'ultimo flebile legame sonoro col mondo esterno si
era interrotto da tempo quando Augusto fu sorpreso da un chiacchiericcio fluttuante nell'aria, quasi un fruscio, prima piuttosto debole,
tant'è che sulle prime lo attribuì ad un crocchio di passanti attardati
in una strada laterale, poi più forte e ricco di espressività. Corse alla
finestra: si trattava di tre donne affacciate ad un balcone della nuova
casa, intente a valutare le virtù non proprio esaltanti della vista esterna, dopo aver praticato gli ambienti interni, come testimoniavano le
tapparelle alzate. Socchiusa l'anta del serramento Augusto fu subito
ammaliato da una voce femminile, armoniosa e argentina: dopo ripetute osservazioni, nascosto dietro la leggera tenda, localizzò la
fonte di quel limpido ruscello nella gola di una ragazzina più o meno
della sua età, alta e snella, di cui era in grado di percepire, da quella
distanza, solo la figura ben modellata, il caschetto di capelli castano
chiaro e l'abito quasi estivo di cotonina a fiori che, accollato e aderente, lasciava scoperte le lunghe gambe abbronzate fin sopra le ginocchia. Propenso già allora a quelle erotiche sineddochi che gli facevano balenare un particolare per il tutto, fu stregato da quel caschetto e da quelle gambe lunghe. Naturalmente non aveva ancora
consapevolezza di questa sua inclinazione e attribuì quell'infatuazione al contatto, predisposto dal destino, tra due anime nobili, erranti
senza tregua nell'empireo in cerca l'una dell'altra. Avrebbe dato qualsiasi cosa perché le sue dita potessero scorrere in quei capelli soffici
e trasmettergli sensazioni inebrianti di serica cedevolezza!
La notte, quando prima di addormentarsi era solito lasciare libero
sfogo alla sua immaginazione e costruire, grazie a questa, improbabili scenari in cui dispiegare finalmente tutto il suo valore agli occhi
dei famigliari, si ingegnò per estrarre dal cilindro della sua fantasia
azioni tanto eclatanti, generose ed esemplari da suscitare l'incondizionata e definitiva ammirazione della sua ancora sconosciuta dirimpettaia e da legarla a sé in modo irresolubile. Era la prima volta che i
destinatari di queste allucinazioni non erano il signor Carlo e la signora Matilde; l'avvenimento non mancò di rivelargli il dolce sapore
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della rivalsa nei confronti dei genitori privati così dei suoi generosi e
misconosciuti omaggi. Come una tisana il piacere sottile di questa
tardiva ripicca contribuì, anche nelle notti seguenti, ad accompagnarlo senza scosse nelle praterie del sonno profondo.
Passò qualche settimana in questo stato di esaltazione, con la finestra aperta nonostante la stagione si fosse alquanto incarognita,
aspettando che quella voce delicata gli annunciasse nuovamente la
presenza tanto attesa; certamente i nuovi inquilini non avevano ancora preso possesso del loro appartamento, forse la ragazza non faceva parte della famiglia ma era solo una parente, una cugina, una
nipote coinvolta in una visita in cui venivano disvelate come un trofeo le nuove stanze dove i congiunti di lì a poco avrebbero potuto
sfoggiare il loro benessere.
Venne la fine dell'anno scolastico, le vacanze, ma, nonostante i
nuovi stimoli che la Versilia e la valle dell'Inn avevano procurato a
ciascuno dei membri altrimenti assai intorpiditi della famiglia Ronchi,
Augusto aveva sempre in mente lei, la delicata apparizione il cui insediamento nella sua esistenza attendeva con eccitato anelito. Ogni
volta che sulla spiaggia un caschetto di capelli castani ondeggiava
sulla battigia o su un ripido sentiero dei muscoli saettavano su un
paio di gambe snelle guizzanti dall'orlo di pantaloncini attillati fin giù
agli scarponi sgraziati, un tuffo al cuore metteva a repentaglio la
tranquillità delle sue giornate e solo dopo qualche tempo era in grado di riprendere le sue normali occupazioni. Ma quel giorno di settembre in cui l'apertura dell'anno scolastico aveva radunato fuori dei
cancelli della scuola una marea di teste sciabordanti tra la cancellata
e l'ingresso della costruzione, la vista di un caschetto che spariva e
compariva come una sagola trai i flutti gli annunciò l'avverarsi del desideri che, nel corso ultimi tre mesi, avevano appiccato il fuoco alla la
sorgente della sua ancor immatura mascolinità. Apprese dai compagni in contatto con i coetanei di una sezione parallela alla sua e
sempre vigili a fiutare nuove opportunità, che la ragazza si era trasferita lì da un altro più periferico istituto della città in previsione dell'imminente trasloco della sua famiglia programmato per un futuro
abbastanza prossimo, di lì a qualche settimana.
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Fu preso dal panico. Da una parte non poteva che rallegrarsi: i
suoi più rosei auspici si avveravano come se la sua vita, fin lì inceppata da mille ostacoli, si fosse improvvisamente incanalata dentro un
alveo virtuoso; dall'altra era terrorizzato dall'idea di esporre l'oggetto
della sua devozione ad una concorrenza molto agguerrita e priva di
scrupoli. Già nei conciliaboli dei primi giorni aveva avuto conferma
del vischioso interesse suscitato tra i compagni dalla comparsa di
quella candida creatura, così superiore per bellezza ed eleganza a
tutte le compagne di classe e d'istituto, e non tardò a trapelare, tra i
denti dei più audaci, qualche commento piccante a proposito di presunti progressi compiuti da qualcuno di loro sulla via di un fruttuoso
sviluppo dei rapporti con la bella incantatrice. Ben presto affiorarono
incertezze e perplessità, finché prevalsero, tra una battuta e l'altra,
interpretazioni spregevoli ispirate al tema esopico della volpe impegnata a denigrare le qualità dell'uva.
Questi ultimi messaggi parevano placare per qualche istante l'ansia del giovane Ronchi confermandolo nel suo convincimento che
quella creatura sublime fosse ben meritevole delle epiche imprese
prima o poi da lui compiute e già delineate nella sua fantasia per
conquistarne se non l'amore almeno la perenne gratitudine; ma poi il
suo carattere apprensivo e la poca fiducia nei suoi mezzi lo ricacciava in una tetra ambascia, stimando che, là dove sembravano non far
breccia soggetti ben più dotati di charme e fascinosa sfacciataggine,
ben poco avrebbero potuto la timidezza e una certa goffaggine tanto
radicate nel suo carattere. Nelle ore in cui, confinato nella sua cella a
far finta di studiare, si accaniva nell'esaminare la questione da tutti i
punti di vista non gli si paravano davanti che vicoli ciechi: l'unica
possibilità che intravvedeva era quella di far conoscenza della ragazza, parlarle e aprirle, con tutte le cautele, il suo cuore ma si trattava , dal suo punto di vista, di un'azione talmente eroica ed estrema
da condannarlo al fallimento e alla perenne ignominia. Le altre imprese invece, pazientemente sceneggiate nell'accogliente tepore del
letto, non implicavano la partecipazione attiva del soggetto, se non
come immaginaria vittima di rapimenti, tentativi d'assalto, imprigionamenti, sortilegi cui egli l'avrebbe sottratta mettendo a repentaglio la
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vita per poi scomparire nel nulla, senza che le gesta così pericolosamente intraprese comportassero dall'altra parte riconoscimenti concreti, ma solo che esaltassero il coraggio, la nobiltà e la purezza degli ideali in cui Augusto poteva eccellere per conquistare un posto
privilegiato nella considerazione soggettiva della dirimpettaia. Ma
una mossa come una dichiarazione esplicita era qualcosa di deflagrante, avrebbe irrimediabilmente spazzato via ogni possibilità, per il
suo anelito, di farsi strada fino a quell'animo delicato: sarebbe certamente inorridito a fronte di una tale proclamazione d'intenti, come se
si fosse trovato faccia a faccia con un esibizionista intento a spalancare improvvisamente le falde dell' impermeabile nell'umida nebbia
del Parco Ravizza. Eppure le possibilità (non quelle dell'impermeabile naturalmente) non gli mancarono: era riuscito anche a sapere dai
soliti bene informati il nome della ragazza, Emma, e questo aveva
aggiunto un tocco realistico alle sue imprese notturne, dal momento
che poteva figurarsi di urlare quel nome nell'attimo in cui spirava in
un'ampia pozza del suo sangue. Ebbene sì, sempre più spesso la
sua delirante fobia lo conduceva fino a figurarsi, dopo aver liberato
Emma dai suoi aguzzini, di morire per le mani vendicative di questi, il
che conferiva particolare suggestione all'insieme perché poteva mettere in conto, come sovrappiù, anche lo scorno del suo caro padre ti faccio vedere io! - pensava, che non aveva saputo apprezzare per
tempo le sue doti. Anche se poi si interrogava sul come avrebbe potuto godere di tutto ciò visto che sarebbe stato morto e che “quando
c'è la morte non ci sono io e quando ci sono io non c'è la morte”,
come gli aveva laicamente insegnato nonno Ernesto prima di lasciarsi trasportare dall'arteriosclerosi su un terreno infido dove questa argomentazione, rimuginata come palliativo propedeutico all'ansia del
momento estremo, non poteva far presa.
Intanto la conoscenza della ragazza faceva progressi: si era trasferita con la famiglia nella nuova casa, poteva intravvederla di tanto
in tanto dietro il doppio velo dei vetri e si incontravano spesso andando a scuola.
Augusto aveva imparato a regolare i suoi orari in modo che, uscito
di casa e svoltata la via, gli capitasse sempre più spesso di intravve78
dere la sagoma di Emma incappottata in una specie di giacca da cavallerizza di panno rosso scuro, dall'ampio bavero di pelliccia, su cui
i passi, fasciati da lunghi stivali in pelle, facevano oscillare il fatidico
caschetto talvolta protetto, nelle giornate più fredde o ventose, da un
foulard di Gucci.
Altre volte, uscito da scuola, rallentava il passo per farsi raggiungere e superare da quell'elegante apparizione; quando questo artificio era vanificato dall'attardarsi della ragazza con i compagni di classe, allora Augusto si fermava a guardare nelle vetrine, anche in quelle vetrine per lui, fino a quel momento, totalmente prive di interesse.
Una volta Emma mentre gli sfilava dietro incontrò il suo sguardo e lo
salutò con un allegro “Ciao!” accompagnato da un accattivante sorriso e dopo qualche altra occasione in cui anche Augusto aveva trovato le forze per ricambiare il saluto, si ritrovarono a compiere il tragitto
affiancati, chiacchierando amabilmente attorno alle differenze d'impostazione tra la linea didattica della sezione di Augusto e quella di
Emma e tra questa e quella della scuola da lei frequentata fino all'anno precedente. Quelle conversazioni, del tutto prive di contenuti allusivi di maggiore intimità, mandavano bensì in visibilio Augusto e
quando si passò a considerazioni inerenti l'ubicazione delle rispettive abitazioni e di come le loro camerette si fronteggiassero, ebbe la
certezza che per circondare con un braccio la spalla di Emma e
stringerla delicatamente a sé nessun prezzo sarebbe stato adeguato.
Naturalmente questo suo infervoramento non era rimasto inosservato nella cerchia delle conoscenze, prima in quella più ristretta nelle
cui fila qualche segnale aveva inevitabilmente tradito così appassionati sentimenti, poi via via in orizzonti sempre più larghi inclusivi di
tutta la scuola ad eccezione dei più secchioni, non tutti, e di qualche
scolaro completamente emarginato, vuoi per carattere vuoi per condizioni sociali. Come aveva paventato ciò diede la stura al dileggio
più sfrenato e alle canzonature più sfacciate: le freddure più azzeccate venivano scritte sulla lavagna durante l'intervallo o gridate di
soppiatto quando Augusto si trovava alla toilette. Nacque perfino
un'associazione ANDAREM, acronimo di Associazione Nazionale
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per la Derisione di Augusto Ronchi ed Emma Monguzzi, che in dialetto milanese significava “andremo”: ma dove non lo sapeva nessuno, nemmeno il presidente, uno dei pochi ripetenti annoverati ancora
tra le fila dell'Istituto. Tutto quell'accanirsi, la banalità delle facezie, il
maligno tormento gratuitamente elargito, scorrevano come acqua
fresca sul bel viso di Emma, consapevole, senza esserne per questo
angustiata, che tutta quella giovanile cattiveria aveva come bersaglio
non lei bensì il suo cavaliere: la splendida indifferenza, ammantata di
un lieve sorriso di complice intesa, materializzava la risposta scaturita con assoluta spontaneità dal bagaglio di espedienti in dotazione
alle femmine, fin da bambine, per neutralizzare la maschile protervia.
E' inutile dire che a quel punto se ne parlava anche tra le ragazze:
se la ridevano sia di Augusto che degli altri, assumendo con tutti un
equanime atteggiamento di indifferente pazienza come si fa con i
bambini troppo petulanti e lasciando intendere di essere occupate da
ben altre faccende tra cui quelle inerenti alcuni fantomatici pretendenti assai più maturi d'età, capaci di apprezzare le donne piuttosto
che scialbe femminucce ancora acerbe, com'era da considerarsi, a
loro avviso, Emma. Ciononostante non disdegnavano la compagnia
di quei ragazzini nelle scorribande che, soprattutto nel pomeriggio
del sabato, portavano queste orde, ondeggianti come branchi di pinguini sulla banchisa, a sfoderare la loro allegria nelle vie del centro,
attorno al Duomo e alla Galleria: qualche volta si univa loro anche
Emma, vincendo le resistenze della madre Vincenza, più propensa a
selezionare le frequentazioni della figlia sulla base di consistenti e
documentabili disponibilità di quegli aristocratici quarti di quella particolare nobiltà che i milanesi chiamano danée e che rappresentava e ancora rappresenta - l'unica aristocrazia veramente riconosciuta da
tutti. Da questo punto di vista il giovane pretendente non era messo
male, se era vero che, come aveva appreso donna Vincenza, grazie
alla familiarità coltivata presso la moglie del macellaio di via De Amicis in virtù delle comuni appartenenze culturali, casa Ronchi era universalmente annoverata tra le più rispettabili del quartiere: vi si consumavano infatti più filetti di vitello, arrosti di codino e costate di
Chianina che in tutte gli altri deschi serviti dal negozio. Così il nome
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di Augusto era sempre il primo pronunciato dalla bocca di Emma
quando si trattava di rispondere agli interrogatori della mamma incaricata, sulla base degli esiti, di concedere o meno l'assenso alla figlia, ora per partecipare ad una festicciola, ora per andare al cinema
o semplicemente per sciamare tra le bancarelle degli Oh bej oh bej.
La presenza di Augusto era garanzia per donna Vincenza di frequentazioni rispettabili ma anche di assenza di reali pericoli per la figlia,
dal momento che quel ragazzo, come aveva detto ad Emma ripetutamente e come Augusto venne a sapere molto tempo dopo, - l'era
propri brutt.
Fu così che un giorno l'allegra brigata decise di passare il pomeriggio al Luna Park da poco in funzione alle Varesine. Facevano già
parte della compagnia a quel tempo sia Gianluca che Alberto e ancora si sbellicavano dalle risate quando capitava loro, nelle serate
dedicate ai ricordi di gioventù, di raccontare quegli avvenimenti ormai sbiaditi.
La ANDAREM si era organizzata ben benino per l'occasione: a
turno i membri della benemerita associazione scortavano Emma trascinandola sull'autoscontro o la imbarcavano, stretta tra due marcantoni, sull'ottovolante, mentre Augusto, cui non sfuggivano le risatine
acquiescenti della ragazza, bighellonava qua e là pensieroso e incupito dalla gelosia, limitandosi a sparacchiare distratte serie di colpi al
tirassegno nella patetica speranza di vincere un piccolo trofeo da regalare alla sua Emma: se non una collanina almeno uno spelacchiato pélouche. Finì per tentare inutilmente anche con le palline da
ping-pong lanciate a centrare le vaschette di pesci rossi, ma non
gliene andò bene una, anche perché la mano tradiva il nervosismo si
cui era ormai preda.
Era già ora di tornare e il giovane Ronchi pregustava il momento
di rimanere solo con la sua diletta, essendo l'unico residente vicino a
lei; stavano scendendo dalla scalinata che collegava quella rutilante
acropoli col resto della città quando, come per magia, comparve,
srotolato tra i pali dell'illuminazione, uno striscione con la scritta: AUGUSTO INNAMORATO-EMMA FURIOSA.
Non era una gran pensata, ma coglieva il segno, metteva il dito
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sulla piaga aperta nel cuore di Augusto dal comportamento di
Emma, indifferente agli evidenti, secondo il suo giudizio, segnali d'amore a lei indirizzati, pur avendoli egli in realtà confinati nel baratro
onirico del suo solipsismo, mentre invece la ragazza si era mostrata
sensibile alle rozze avance degli altri maschi.
Non si pensi che la letteratura a cavallo tra quindicesimo e sedicesimo secolo fosse argomento di quotidiane dissertazioni tra quegli
studenti, ma proprio il mattino precedente l'insegnante d'italiano, un
candido quasi pensionato troppo incline alla timidezza per insegnare
alle superiori, aveva declamato alcuni versi delle due opere sottolineandone la continuità narrativa contrapposta alle differenze di linguaggio. I risultati di quest'encomiabile afflato didattico si trovava
brutalmente esposto a tre metri d'altezza nel cielo grigio di Milano insieme alle timidezze e alle prudenze di Augusto. Una canea di ragazzini più piccoli quasi lo travolse correndo mentre si indicavano
l'un l'altro col dito quell'inusitata locuzione. L'allusione a quegli illustri
poemi cavallereschi, storpiata dalle menti più acculturate e ciniche
dell'Associazione si era materializzata grazie ai soci più spregiudicati e temerari, secondo un modello organizzativo che, non a caso,
ebbe molta fortuna in città a partire dagli anni ottanta.
Non ebbe cuore di guardare in direzione di Emma per coglierne le
reazioni. Un senso di rabbia e impotenza miste a panico gli faceva
stringere i pugni nella tasca della giacca a vento fin quasi a fargli
sanguinare le palme per l'azione tagliente delle unghie: a sconvolgerlo non era tanto il criterio di scelta dei nomi da sostituire a quello
di Orlando nel titolo del Boiardo rispetto a quello dell'Ariosto, criterio
che in fondo avrebbe potuto condividere, quanto la profanazione
pubblica dei suoi più intimi sentimenti, dolorosa come uno schiaffo.
La signora Matilde attribuì alla prolungata esposizione all'umidità
e al freddo tardivi di quell'aprile che non se ne era mai visto uno così
da quando aveva l'età della ragione, la febbre da cavallo a causa
della quale Augusto fu confinato a letto per tre giorni di fila. Quando
tornò a scuola aveva già virilmente appeso il caschetto di Emma in
una remota parete della sua spaziosa memoria, pronto ad essere ripescato, anni dopo, dal repertorio per conferire speciale caratterizza82
zione ad una visione appannata, come una parrucca dimenticata in
un cassetto.
Quanto ad Emma, agli esami di fine anno si presentò con una
nuova pettinatura.
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Capitolo XIV - Cataclisma
Una domenica sera di gennaio, di ritorno da un fine settimana in
campagna, ansioso di transitare dal torpore in cui era sprofondato
nell'ozio ruggente della pianura lodigiana ancora spalmata di neve e
di nebbia, al sopore vigile della bergère con vista sui ritratti da centellinare nell'ultima coda festiva, era appena sgusciato dal cigolante
apparato piermariniano dal quale era stato fedelmente depositato al
terzo piano, quando venne investito da una visione strabiliante e così
offensiva dei suoi sentimenti, che Augusto dimenticò l'imperativa
consegna di chiudere entrambe le porte dell'ascensore. L' inviolabilità di casa Ronchi, sempre difesa orgogliosamente alla stregua d'un
verginale imene, era stata infranta irrimediabilmente, come la porta,
scassinata e dischiusa, e le luci, barbaramente vivide, svelavano patentemente; uno scenario di inesplicabile follia spalancava i suoi fondali accecanti all'esterrefatto padrone di casa, custode pro-tempore
di quell'illibatezza ormai trasgredita: vetri rotti, libri sparpagliati, suppellettili di varia natura, innocui ninnoli, fogli di carta, foto strappate,
tovaglie, sottobicchieri e tante altre minutaglie erano state disseminate a terra come rifiuti in una raccapricciante palude, mentre sulla
tappezzeria delle pareti, strappata qua e là, si stagliavano, come i
segni del bikini su un decolté aperto lungo una schiena abbronzata,
le pallide impronte dei quadri per decenni affacciati a rappresentare
l'affidabilità borghese dei Ronchi.
All'iniziale sbigottimento fece seguito la ricerca, freneticamente
elaborata dall'intelligenza sconvolta di Augusto, della possibile ragione di quel furioso e inspiegabile attentato alle sue marmoree certezze: quale arcana forza si era introdotta in quella cittadella e perché
aveva provocato un tale sconquasso? Chi lo avesse visto in quell'istante, leggermente piegato verso l'ingresso, appoggiato con un
braccio allo stipite, impossibilitato ad avanzare come se un mare in
tempesta gli schiumasse davanti, avrebbe stimato si fosse parata
dinnanzi a lui una scena terrificante di massacro e che un lago di
sangue lo lambisse come magma infuocato. Finalmente comparve,
sullo schermo della sua mente fulminata, la semplice soluzione di
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quell'enigmatico scotimento: ladri, ladri d'appartamento.
La dolorosa conferma gli venne, quando si decise a varcare il limite di quell'inferno, dallo straziante urlo di dolore proveniente dai cassetti e dalle ante degli armadi quasi divelte, dai mobili abbandonati in
posizioni innaturali e sorpresi della nuova irragionevole collocazione,
dallo stillicidio senza tempo. Maleodoranti chiazze di liquido opaco
gocciolanti dallo sportello aperto del congelatore e raccolte in pozze
stagnanti sul pavimento della cucina acuivano l'orrore di quella Stigeo pantano. Gli asciugamani parevano fantasmi sorpresi senza
avere il tempo di dileguarsi nelle tenebre perché impigliati nelle maniglie o nelle sedie; il guardaroba invernale e quello estivo, confusi
in una promiscuità oscena, proclamavano, con la loro catasta informe ammucchiata sui materassi rivoltati del letto, il tramonto di ogni
ordine costituito. Man mano che Augusto avanzava in quel campo di
battaglia cui erano stati inspiegabilmente sottratti i cadaveri, le conseguenze concrete e pratiche di quello sconvolgimento cominciarono
a sopraffare la sconcertante sorpresa che per qualche minuto aveva
paralizzato il suo sistema nervoso come l'esplosione di una bomba al
gas nervino.
Era sparita dalle vetrinette del soggiorno tutta l'argenteria composta da piatti, zuccheriere, tazze, fruttiere, centro tavola, vasi e vasetti;
dei portaritratti, dalle cornici anch'esse d'argento, erano rimasti per
l'appunto i ritratti, sparsi sul pavimento insieme alle scatole e alla
carta velina in cui era avvolto, da tempo immemorabile e con cura
sacerdotale, il servizio di posate da dodici prudentemente raddoppiato nella dotazione di cucchiaini da caffè e di forchettine da déssert,
mentre i già citati quadri e le stampe del settecento dovevano essere stati deportati con tanto di cornici e tarli incorporati, insieme alle
sciabole di Solingen che così tronfio appagamento avevano procurato al signor Carlo ogniqualvolta, varcato l'uscio di casa, gli si paravano dinnanzi, nobilmente incrociate sull'opposta parete. Fortunatamente i gioielli di famiglia più importanti, appartenuti a nonna Eleonora ed a Matilde non erano stati toccati: collane di perle, braccialetti
d'oro giallo e bianco, orecchini con rubini, anelli con diamanti, orologi
rigorosamente svizzeri se ne stavano ancora rintanati al sicuro nel85
l'incavo di una traversa del letto della camera padronale dove la sospettosa diffidenza del signor Carlo aveva ricavato, con abile lavoro
di artigiano di cui egli stesso era stato l'autore, un nascondiglio protetto dalla testiera del letto, talché ogni qualvolta la signora Matilde
decideva di esibire le insegne della maestà del casato, era costretto
ad infilarsi sotto il talamo mediante affannose contorsioni per estrarre, dopo un consistente tributo di imprecazioni, quel che l'estrosa
consorte aveva prescelto. Erano spariti solo gli anelli nuziali dei genitori, qualche spilla, collanina e altre bigiotterie rovesciate fuori dal
cassetto dei comodini.
I carabinieri, interpellati telefonicamente, non seppero cogliere
nella voce farfugliante di Augusto lo scoramento per l'affronto subito
e la protesta per l'infranta intimità così orribilmente esposta limitandosi a consigliare burocraticamente il signor Ronchi, come erano soliti fare in questi e consimili casi, di recarsi personalmente la mattina
successiva alla più vicina stazione dell'Arma con un elenco dettagliato dei beni sottratti per sporgere denuncia contro ignoti.
Nell' adempiere quest'umiliante obbligazione di riscontro dei beni
arraffati balzò quasi subito ai suoi occhi atterriti la scomparsa del ritratto in ceramica di Euridice: non era più al suo posto sopra il leggio
quasi miracolosamente intatto ed eretto in precario equilibrio davanti
alla poltrona. Cercò invano in tutte le stanze, in tutti gli angoli e perfino lungo le scale utilizzate dai ladri per la fuga: non poteva trattarsi
di una coincidenza e pur non potendo capacitarsi del motivo di quell'ulteriore sfregio, visto lo scarso valore commerciale del manufatto,
ne dedusse che i profanatori, forse del tutto inavvertitamente, dovevano averlo imbarcato col resto della refurtiva, strappando Euridice
alla provvisoria pace di casa Ronchi e trascinandola verso una nuova tappa del suo interminabile viaggio.
Nelle settimane successive l'appartamento stentò a ritrovare
un'accettabile configurazione: i mobili furono ricollocati nelle originarie postazioni, ma i vuoti delle vetrinette, degli scaffali, delle mensole
non furono riempiti. Quando iI vestiario fu riallineato negli scomparti
di pertinenza e poté riconquistare, con la forma, la propria dignità, si
palesarono delle assenze non più colmate. La cucina tornò a brillare
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senza che la scorta di vivande imprigionata nel congelatore fosse ripristinata, mentre cominciarono a sfumare le malinconiche impronte
dei quadri che l'esausto padrone di casa non dava segno di voler sostituire. Le fotografie raccolte dal pavimento trovarono provvisoria
collocazione in uno scatolone. Augusto le aveva amorevolmente sollevate con la cautela dovuta ad oggetti fragili ed effimeri ma quando
la sera le sfogliava, una dopo l'altra mentre, abbandonato in poltrona, cercava di ricreare l'atmosfera magica dei vecchi tempi, restavano spente ed inanimate dinnanzi ai suoi occhi: non parevano neppure più le stesse, come se un'espressione di sbigottimento avesse
per sempre imprigionato le immagini entro i confini del supporto cartaceo nel quale giacevano.
Era proprio questo il tormento di Augusto, non tanto il danno economico subito o la materiale desolazione della casa quanto la sensazione che i topi d'appartamento avessero spezzato per sempre l'incantesimo che teneva insieme la sua vita: ora giaceva frantumata in
tanti spezzoni inanimati, privi di rapporto gli uni con gli altri, incapaci
di illuminare, con le loro suggestioni, i sentieri grazie ai quali lui era
in grado, partendo dal passato altrimenti insondabile, di inerpicarsi
su su fino al presente per perdersi verso le brumose aspettative del
futuro.
Gli mancava soprattutto la presenza di Euridice, il suo volto evocativo, i lineamenti, multiformi generatori di campi magnetici sovvertitori dell'ordine sedimentato dei fantasmi che popolavano le stanze e
la mente di Augusto. I personaggi degli altri ritratti gli parevano marionette afflosciate sul proscenio, ormai private per sempre della possibilità di recitare e, recitando, di generare emozioni, mentre l'unica
emozione ancora capace di penetrarlo, con una fitta lancinante, era il
calore, senza volto, del corpo di lei impresso sul suo, come lo aveva
percepito in quell'ormai lontano sogno. Era come se l'impossibilità di
affiancare quella sensazione con la sua immagine corrispondesse ad
un abbandono definitivo, ad una lontananza intollerabile e per sempre impossibile da superare. Eppure, negli ultimi tempi, prima che gli
inconsapevoli argonauti la seppellissero nel labirinto dell'ignoto, l'interesse per la fanciulla aveva cessato di essere pressante: raramen87
te gli capitava di soffermare uno sguardo assorto sul leggio o di indugiare nella rievocazione di quelle sembianze. Gli era parso in un primo momento che, a trattenerlo, fosse la ripugnanza manifestatasi
poco per volta in lui in conseguenza dell' inspiegabile cerimonia, d'investitura o di consacrazione che dir si voglia, cui aveva assistito in
quella notte così contraddittoria; ma in fondo il sentimento di ripulsa
riguardava, più che non la ragazza, la madre ancora una volta impegnata a sottrargli sotto il naso un'occasione di libera scelta. Non era
neppure il tempo trascorso a sfocare la visione ma si trattava di qualcosa di diverso, come se un processo di calcificazione avesse sostituito, granello dopo granello, ogni immateriale particella di quell'effige
con sabbia inerte. Anche quando si impegnava di proposito concentrandosi sull'ovale di ceramica per consentire ad Euridice di contaminarsi di inaspettati scenari e di confrontarsi con inusitate situazioni, nulla scaturiva dalle buie profondità degli abissi in cui riposava
nella sua mente.
Ora invece il fallimento di tutti i tentativi di ricreare quelle condizioni, la spasmodica astinenza dai sogni, la brutalità dell'effrazione subita dal suo sacrario avevano risvegliato in Augusto il desiderio prepotente di Euridice e la consapevolezza della separazione lo spingeva
a cercare nuovi contatti, a sperimentare su un nuovo soggetto quell'artificioso stratagemma la cui impraticabilità lo angustiava.
Così, un sabato mattina di febbraio in cui il nevischio fitto e silenzioso dalla notte s'industriava di conferire al riposo del capoluogo
lombardo la sorpresa di un'inusitata allegria e si stava trasformando
per eccesso di zelo in una coltre paralizzante inspessita in larghe falde, Augusto, imbacuccato in giacca a vento, protetto da guanti di
lana, cappellino, sciarpa e scarpe da montagna affrontò caparbiamente la bufera facendosi strada nella Milano deserta, diretto al Cimitero Monumentale.
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Capitolo XV – Augusto rapisce Proserpina a Plutone
Non sapeva bene perché avesse assecondato quell'impulso che
lo aveva afferrato per la gola appena sveglio, quando affacciandosi
alla finestra della sua camera, tutti gli innumerevoli frammenti costitutivi del paesaggio milanese gli erano apparsi uniformi e indistinguibili sotto il manto nevoso. Forse questa uguaglianza appianatrice,
per certi versi analoga all'azione livellatrice della Morte, aveva sollecitato il mondo di ombre che giacevano inerti nel suo spazio interiore
facendone levitare i lemuri. Forse lo sfarfallio e l'evanescenza di quei
larghi fiocchi, che conferivano la loro individualità nella massa candida ed indistinta, riproponevano l'instabile evanescenza delle effigi alitate in passate nelle sue stanze. In realtà già da qualche tempo, ripensando all'infinità di statue, ritratti, riproduzioni abbandonate e
così poco utilizzate in quel monumentale magazzino incastrato nel
bel mezzo della città, e al casuale ritrovamento di Euridice, gli era
balenata l'idea che tra quelle vestigia avrebbe impunemente potuto
approvvigionarsi di nuovi stimoli, rinnovando le sorgenti ormai esaurite delle sue fantasticherie. Si convinse che, arricchendo poco per
volta la sua collezione con nuovi arrivi, le stanze del santuario domestico avrebbero potuto ritrovare condizioni idonee a rianimare anche
le altre istantanee, a farle dialogare ancora tra loro e con sé stesso.
Chissà! Forse l'instabile fluttuare delle correnti avrebbe riportato
anche Euridice a godere di quell'oasi di pace.
I cancelli del Monumentale erano stati aperti regolarmente, ma le
poche impronte presenti nella neve avevano origine e destinazione
nei locali di servizio più vicini agli ingressi; all'infuori del personale di
custodia nessuno aveva ancora avuto il coraggio di sfidare quella
natura morta cosicché viali e vialetti si offrivano, assolutamente incontaminati e soffici di neve alta, al passo deciso di Augusto mentre
si inoltrava per il camposanto con l'incedere sicuro di chi ha ben
chiara la meta del cammino intrapreso, nascondendo, dietro a quella
parvenza, il tumulto del cuore. I sepolcri imbiancati – sorrise tra sé
all'eco di questa locuzione interiormente risonata – si offrivano anonimi; le epigrafi cancellate, i ritratti ricoperti da sbuffi candidi, le statue
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deformate dagli accumuli ovattati avevano cancellato ogni segno di
riconoscibilità a quelle dune irregolari: soltanto i lumi segnalavano,
come fanno i fari all'ingresso dei porti, la presenza di quegli approdi
eterni.
Quando si fu allontanato dall'ingresso abbastanza per non essere
visto, Augusto spolverò da qualche ritratto il velo di neve depositato
sulle immagini, come un pensionato alla ricerca dei simboli vittoriosi
di una lotteria grattaevinci, senza che mai apparisse la combinazione
vincente: ora un austero signore provvisto di baffi, ora un giovanotto
pacioso o una casalinga tronfia, qui un vigile urbano con la divisa
d'ordinanza, lì un'arcigna megera dallo sguardo incattivito. Nessuna
di quelle figure sprigionava sensazioni positive, nessuna era degna
di essere presa in considerazione per i suoi ghiribizzi archeologici.
Se qualcuno di questi reperti rivelava all'ispezione frettolosa delle
dita di Augusto qualche debole intenzione di abbandonare il supporto, si poteva star certi: si trattava dell'effigie insignificante di qualche
anonimo e corpulento commerciante all'ingrosso dalla pancia rivelatrice di una certa propensione alla trippa e al barbera o di quella di
un' inacidita zitella rimasta in famiglia fino alla fine dei suoi giorni per
accudire a vecchi e bambini, vittima di una selezione certamente non
fondata sull'avvenenza. Se invece dal velo emergevano le aggraziate sembianze di una giovane donna dallo sguardo pensoso o quello
di una pudica signora dal portamento sornione, allora la cornice opponeva una solidità non scalfita dal trascorrere degli anni e dal sovrapporsi delle intemperie della malsana atmosfera milanese. I ritratti scoperti per primi stavano già per rintanarsi sotto la soffice coperta di neve e le dita intirizzite di Augusto denunciavano principi di
congelamento, quando il combinato disposto di un'identità ammaliante coniugata ad un parziale cedimento nell'aggancio alla lastra tombale assorbì l'attenzione di quello che, agli occhi di un osservatore
esterno, appariva come il fantasma di un alpinista alla ricerca dei dei
suoi compagni di cordata sepolti sotto il gelido manto.
Armeggiò febbrilmente, chino tra le lapidi senza riuscire a vincere
la resistenza del fregio in bronzo il quale, pur intaccato dalla vetustà,
opponeva caparbiamente le sue spire alla furia del profanatore e av90
vinghiava coi suoi artigli ossidati l'ovale di ceramica tipologicamente
così simile a quello che doveva aver imprigionato Euridice. Ah! Se
avesse avuto un arnese, una pinza, un cacciavite! Tastando affannosamente i pantaloni e la giacca alla ricerca di una leva per sconfiggere la ritrosia della sua preda, Augusto sentì sotto le dita la sagoma
dura del coltellino svizzero, prudentemente affossato nella tasca interna della giacca a vento, in attesa di qualche occasione per dispiegare la sua multiforme versatilità; aveva sognato – il coltellino - d'intagliare artistici bastoni di dolce nocciolo per qualche pastore dell'Oberland Bernese o di partecipare da protagonista alla meticolosa rianimazione di un cronometro di precisione: mai avrebbe potuto immaginare uni impresa bislacca come quella di forzare una cornice presso una tomba del Cimitero Monumentale di Milano. Con l'ausilio determinante del proteiforme attrezzo il ratto di quella Proserpina dalla
prigione dell'Ade in cui era stata confinata dalla tenebrosa lussuria
di un geloso Plutone, fu compiuto.
Augusto ripercorse le sue impronte con febbrile impazienza, scivolò due o tre volte su infide lastre di marmo levigato e reso sdrucciolevole dalla neve compressa, rischiando di rompersi l'osso del collo proprio ora che una nuova prospettiva d'amore era balenata nella
sua esistenza; incrociò soltanto un mesto e infreddolito corteo funebre: accompagnava verso l'estrema dimora, con grande dispiego di
ombrelli e abiti scuri, la salma di qualcuno che, con ogni probabilità,
aveva trascorso la sua esistenza a giocare brutti tiri alle persone più
care e, con questo spirito, aveva centellinato le sue ultime forze per
celebrare il suo funerale proprio in una giornata tanto fredda, umida
e ventosa, sotto raffiche di vento sibilanti tra i veli neri a raggelare le
pallide prefiche, mentre lui giaceva al calduccio della bara.
Varcò inosservato il limite del cimitero, attraversò la città ormai
alle prese con l'impraticabilità delle strade, si fece largo tra pale meccaniche azionate da trattori allegramente stupiti per quell'inusuale
impegno così poco contadino e alacri portieri filippini non avvezzi ad
un'attività tanto estranea alle proprie tradizioni.
Giunse finalmente a destinazione col ritratto ben riposto nello zaino trascinato, per tutto quel tempo, sulle spalle e chiusa dietro di sé
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la porta, finalmente blindata, lasciò scivolare a terra gli abiti zuppi inzuccherando il parquet di chiazze di neve e corse nel bagno padronale dove, aperto il rubinetto dell'acqua calda, lasciò scorrere un fiotto fumante nella vasca: sentiva urgere, per la prima volta dopo mesi,
il bisogno, non di esporsi allo scroscio detergente e sbrigativo della
doccia, bensì di immergersi nell'acqua calda ed avvolgente come in
una rivitalizzante sorgente, non prima di mescervi olii essenziali e
schiumosi profumi. Già dopo qualche minuto impiegato in caute e
soporifere verifiche sperimentali del principio di Archimede, l'immagine di Proserpina, affidata alla sua memoria nei tratti essenziali grazie
alla fuggevole sbirciata effusa tra i fiocchi di neve volteggianti, si materializzò audacemente tra i vapori del bagno.
Nelle settimane e nei mesi successivi fu un succedersi di sopralluoghi, appostamenti, incursioni; il coltellino svizzero ebbe modo di
mostrare la sua elvetica efficienza nello svitare contorni, grattare sigillature di stucco, insinuarsi tra supporti cementizi, infrangere cornici. Augusto non aveva ancora molta pratica e spesso le sue sortite
non si concludevano con prelievi significativi; altre volte le prede
troppo fugacemente esaminate prima della cattura, mancavano delle
caratteristiche atte ad accendere la sua fantasia. In questi casi provvedeva coscienziosamente al ripristino in sede del maltolto, cosicché, dopo un paio di mesi la sua collezione non aveva compiuto progressi soddisfacenti. Si trattava di fare esperienza.
Il custode del sacrario di casa Ronchi sentiva di non avere né
tempo né testa per il lavoro, impegnato com'era, oltre che sul campo
tra l'infinita riserva di caccia del Monumentale e nelle notturne scorribande della fantasia tra occhi, nasi, mani, schiene, continuamente
combinate in digressioni infinite, anche in quotidiane visite alla bottega dell'andeghée alla ricerca di cornici, leggii, supporti di ogni tipo,
dimensione e materiale per accogliere acconciamente la folta popolazione progressivamente accumulata nella sua casa: dopo avere
esaurito tutte le ferie arretrate ed esser ricorso in più occasioni a permessi non retribuiti per non meglio specificati motivi di famiglia, si
decise a chiedere un periodo di aspettativa generosamente concesso dal capo del personale, convinto com'era – quest'ultimo - del no92
cumento arrecato al buon andamento del corso aziendale da quel
soggetto sempre più stralunato ed eccentrico e della necessità di assecondarne il volontario allontanamento, vista la temporanea impossibilità di licenziarlo.
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Capitolo XVI – Il crollo
“Ma che fissazione questa Ekaringhòf , veramente ! “ 2 pensò Augusto dopo aver interrotto l'ennesima telefonata di amici impegnati a
sollecitarlo per aggiungere il suo nome ad eterogenee liste di partecipanti a vacanze in barca, in montagna, su qualche sperduta isola
delle Eolie o del Dodecanneso, per aggregarlo a viaggi in Nepal,
Botswana, Australia o proporgli soggiorni culturalmente impegnati a
New York, Toronto, Sanpietroburgo: come Oblomov era poco propenso ad abbandonare il suo rifugio per intraprendere inutili spostamenti che avrebbero comunque finito per ricondurlo al punto di partenza.
Si celebrava la fine di luglio; quando l' horror vacui della popolazione metropolitana assume i caratteri di vero e proprio terrore e ciascuno si preoccupa di circondarsi, lontano da Milano, di un microambiente in tutto e per tutto simile a quello che si prepara ad abbandonare per due, tre, quattro settimane. Quanto ai soggiorni marini o
montani in compagnia, Augusto aveva sperimentato, in qualche fine
settimana di giugno trascorso a Santa Margherita, l'ansia di cui finiva
per esser preda la sera quando, lontano dal suo soggiorno milanese,
gli mancava la materia prima necessaria ad alimentare le sue parossistiche visioni. Per i viaggi turistici poi aveva maturato una vera e
propria avversione: che senso aveva quell'alternarsi ossessionante
di vedute selezionate da occulte regie, quel succedersi di avvenimenti artificiosamente casuali? Trasportarsi col proprio viatico da un
avvenimento all'altro, ognuno sapientemente predisposto per l'occasione, finiva per occupare inutilmente la mente e la memoria della fotocamera digitale di esperienze bidimensionali, prive della profondità
che solo può conferire la vita vera. Un conto, pensava, è viaggiare
per necessità, fosse di lavoro o d'amore, di denaro o di studio; allora
le esperienze accumulate riuscivano ad arricchire, migliorare, temprare i protagonisti, i quali, narrando le peripezie di quell'esplorazione, potevano ravvivare anche le serate più spente. I resoconti di
viaggio elargiti dopo quindici giorni di incessante peregrinare da par2
In “Oblomov” di
Ivan Aleksandrovic Goncarov
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te di amici tornati affaticati e dimagriti all'opulenza milanese, riproducevano invece, a suo parere, le movenze di certe coppie impegnate
a fare la spesa al supermercato spingendo affannosamente il carrello tra gli scaffali dei diversi reparti, un occhio alla lista delle merci da
comprare, l'altro alle offerte sconto disponibili.
Lo atterriva l'idea di incontrare ragionieri di Pinerolo intenti a ragionare alle Maldive e ingegneri di Brescia mentre si ingegnano alle
Seyshelles o ancora giapponesi che, sprofondati nelle poltrone della
hall del Danieli, si specchiano nelle foto scattate tre giorni prima a Firenze - che non hanno potuto vedere per niente in quanto impegnati
a fotografare, come i ciechi di Canetti! -. Che gusto ci può essere a
centellinare Venezia, così malandata e maleodorante di alghe putrefatte, quando la si è ammirata, pulita e scintillante, in un grande albergo di Las Vegas? Allo stesso modo pendolari del metro della linea rossa di Milano pendolarizzano sulla linea rossa di Praga, ruminando hot-dog come in pausa pranzo a piazzale Loreto, mentre a
Bellagio, in piscina con un drink, californiani abbronzati e pingui scrutano l'altra sponda del lago alla ricerca della villa del connazionale
George Clooney. Tutti girano per il mondo sicuri di ritrovare le certezze domestiche, ripetendo inconsapevolmente le proprie abitudini,
nella certezza che non ci siano differenze reali tra un contesto e l'altro, ma solo esemplari emotivi e sfondi di desktop da collezionare.
Forse all'ultimo istante avrebbe comunque ceduto all'insistenza
degli amici, sopraffatto dalla solitudine, se non avesse da tempo valutato tutti i vantaggi disseminati, grazie allo spopolamento della città, sulla via del più agevole svolgimento della sua attività preferita, il
saccheggio di tombe, per dirla senza infingimenti: ormai non si trattava più di sporadici e prudenti incursioni, ma di vere e proprie campagne militari condotte secondo piani preordinati.
Le ore della tarda mattinata e quelle centrali del pomeriggio erano
occupate da sopralluoghi attenti ed accurati rilevamenti. Si era procurato una planimetria generale del cimitero in scala uno cinquecento e l'aveva dispiegata, inchiodandola con puntine da disegno a una
parete dell'ingresso di casa Ronchi in luogo delle ormai dimenticate
quadrerie e, grazie a tratti di evidenziatore di diverso colore, registra95
va le informazioni utili a ottimizzare il lavoro: in giallo le aree già percorse e prive di elementi di rilievo, in magenta quelle dove erano già
state espiantati, grazie all'onnipresente coltellino svizzero, i reperti
più notevoli, in azzurro quelle dove erano stati individuati nuovi siti
promettenti. Piccoli cerchi verdi segnalavano statue, certamente non
disponibili al trasferimento neppure grazie all'intercessione dell'onnipotente attrezzo, ma suscettibili di riprese fotografiche: quando i digitali scatti avevano carpito anche quelle sembianze una crocetta dello
stesso colore segnalava il compimento della missione, pur tra le dovute cautele, stante il divieto esposto all'ingresso.
Non si trattava delle uniche precauzioni messe in campo da Augusto per condurre la sua ormai sistematica azione. Il suo andirivieni
avrebbe potuto destar sospetti, soprattutto nelle prime ore del mattino o nelle ultime del pomeriggio, quando con le sue manovre repentine piombava come un falco sugli obiettivi e ripartiva verso gli scoscesi dirupi urbani dove si celava la sua tana, trattenendo ben salda
la preda tra le pagine del Corriere della Sera o sotto la camicia. Augusto non si preoccupava minimamente della possibile violazione di
qualche articolo del codice ma era terrorizzato all'idea di veder messa a nudo, dai circospetti guardiani, la deliberata violazione del codice di comportamento su cui aveva impostato la propria vita pubblica
e privata. Per evitare che la frequenza dei suoi ingressi mettesse i
Cerberi sull'avviso a proposito dell'autentico scopo delle visite, si affidò a frequenti cambiamenti di vestiario che assunsero ben presto la
consistenza di veri e propri travestimenti.
Davanti ad uno specchio sopravvissuto al saccheggio provava e
riprovava abiti, pantaloni, magliette, occhiali, bastoni da passeggio,
borselli. Qualche perturbazione atlantica, sfuggita con l'inganno all'implacabile anticiclone delle Azzorre, gli consentiva di tanto in tanto
di estendere la scelta anche ad impermeabili, felpe, kee-way, ombrelli di varia foggia e colore. I capelli, che erano abbastanza folti e
da qualche mese non conoscevano la forbice del parrucchiere, si
prestarono con disponibile pazienza ad assumere, grazie all'uso di
gel e lacche, fino a quel tempo ignote, gli assetti più svariati: perfino
un' impolverata parrucca di sua madre, dimenticata in fondo ad un
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armadio a imperitura memoria di qualche velleità modaiola della signora Matilde, venne impiegata in diverse occasioni e, opportunamente trattata, conferì un'aria hippy a un visitatore mattutino e un
tocco intellettuale all'occhialuto professore dall'incedere zoppicante,
ma solenne, sorpreso dal tramonto sul viale principale del camposanto. Augusto fu, di volta in volta, giovane vedovo benestante, operaio devoto, trascurato misantropo, nobile altezzoso, manager frettoloso, addetto alle pompe funebri, turista tedesco, postulante decoroso, jogger distratto e cominciò a prender gusto al succedersi di queste metamorfosi: esse completavano di significato, in maniera imprevista e complementare, la parte strumentale delle sue imprese.
Non si limitava ad una teatrale combinazione di trucchi, ma si calava
nel personaggio di cui assumeva le sembianze, cercando di compenetrarsi fino in fondo nella parte. Quando usciva furtivamente dal palazzo, in quei giorni quasi deserto, sfoggiando un paio di pantaloni di
tela spiegazzati e una T-short sbiadita, con la barba lunga, i capelli
arruffati e un paio di scarpe palesemente anacronistiche, appartenute a suo padre alla metà degli anni cinquanta, si riteneva in tutto e
per tutto un muratore in libera uscita e gli pareva che le case, coi loro
intonaci screpolati, i pluviali ammaccati, le inferriate rugginose, i marmi cavillati, gli parlassero un linguaggio diverso dal solito. Sbirciava
con interesse nelle fessure tra le assi delle cesate erette a protezione dei cantieri resi silenziosi dall'esodo ferragostano, accorgendosi
per la prima volta della quantità di ristrutturazioni in corso in quella
parte di Milano. Echi lontani di imprecazioni bresciane e canzoni napoletane affioravano dai ponteggi deserti, mentre un acre profumo di
plastica bruciata aleggiava tra le cataste di forati.
Altre volte, immerso nei panni d' insegnante di scuola media, si divertiva a immaginare come potesse essere la scolaresca di quel professorino che era diventato, sprofondato a mo' di spaventapasseri in
una leggera giacchetta di cotone blu, mentre scrutava i rari passanti
ignari da dietro un paio di occhiali da miope montati a giorno. Vagava con la mente tra i volti dei suoi compagni di classe delle scuole
medie e ne percepiva l'ottusità ostile nei confronti dell'insegnante,
cioè nei confronti di sé stesso, e delle emozioni, passioni, tormenti
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che albergavano in quella testa – sua, ma del professore - ornata da
un untuosa scriminatura laterale dei capelli.
Ognuna delle maschere indossate gli trasmetteva emozioni che,
spiccando il volo dai recessi dei suoi cimenti remoti, gli comunicavano prospettive diverse, punti di vista inusitati, inversi eppur contemporanei di quelli sperimentati al tempo in cui avevano avuto origine.
Era una sensazione inebriante, quella di vivere ondeggiando in una
specie di sincronia bipolare che allargava le cognizioni del tempo e
dello spazio oltre i limiti usuali e conferiva ai sentimenti un risalto più
consapevole e duraturo.
Ben presto non potè fare a meno anche di questa droga. Augusto
viveva giorni pieni, non aveva un momento di sosta, andava avanti e
indietro freneticamente, tra aggiornamenti cartografici, travestimenti,
rilievi, perlustrazioni, missioni, mentre i trofei, sempre più numerosi,
si accumulavano nella casa, sparsi sui tavoli, esposti disordinatamente sulle sedie, appoggiati in bella vista nelle vetrinette in luogo
delle mai rinnovate argenterie, perfino ostentati sulle mensole dei bagni e sui sanitari meno utilizzati!
Alla guida dell'Opel Corsa, incuriosita dall'insolita piega che avevano preso gli avvenimenti, percorse chilometri e chilometri nella città semideserta alla ricerca di negozi aperti per approvvigionarsi di
cornici per ritratti, dal momento che anche l'andeghée aveva tirato
giù la claire per trascorrere quindici giorni al fresco di Carenno, dove
passavano le vacanze certi suoi cugini. Visitò, sempre allo stesso
scopo, mercatini periferici e centri commerciali nell'hinterland, in uno
dei quali acquistò barba e baffi posticci per ampliare la gamma delle
potenziali trasformazioni.
Le giornate trascorrevano senza intoppi, una dopo l'altra: il giorno
di ferragosto il Cimitero era chiuso, chiusi erano supermercati, bar,
ristoranti. Nei parchi allegre famigliole erano impegnate in simpatici
dèjeuner sur l'herbe, mentre i piccoli rincorrevano il pallone. I profumi
delle cucine etniche si espandeva dal Parco Sempione, veleggiando
sopra la città fino a ricongiungersi con quello delle grigliate lombarde
di salsicce e costine del Parco Ravizza in una sequenza di aromi,
canti e suoni senza ostacoli.
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Augusto passeggiò a lungo per le strade deserte, senza rinunciare a indossare l'ennesimo travestimento, questa volta da domestico
lasciato da qualche famiglia signorile a presidiare le proprietà insidiate da incogniti malintenzionati, certamente annidati come guerriglieri
nel deserto metropolitano: la giacca leggera di cotone a righine nere
e bordò, dai bottoni dorati, trovata chissà dove, e i guanti bianchi,
appartenuti a nonna Eleonora, gli conferivano un'andatura impettita
da maggiordomo. Purtroppo non c'erano spettatori in grado di
apprezzare questa teatrale esibizione mentre, entrando al Monumentale, si premurava, evidentemente per conto dei suoi presunti
datori di lavoro, di non lasciare soli in quella giornata desolata, i cari
estinti.
Il diciannove agosto alle undici e trenta di un mattino soleggiato,
due agenti in borghese della Polizia di Stato, fermarono con discrezione un inappuntabile barbuto signore in abito di cotone grigio antracite completo di giacca e pantaloni, con la camicia bianca allacciata fino al collo, mentre, con la Bibbia tra le mani, un cappello nero in
testa e tutte le evidenze di un pastore evangelico di mezza età, si
aggirava tra le tombe assolate come recitando tra sé e sé i versetti
dei salmi.
Una rapida perquisizione effettuata nella guardiola del Cimitero,
dove era stato accompagnato lontano da occhi indiscreti, fece scivolare dalle sue tasche un coltellino Svizzero ancora in ottimo stato ma
recante i segni di un uso prolungato, comunque non incompatibile
con la veneranda figura del prelato, anche se inusuale in quel contesto: ma la prova schiacciante che incastrò Augusto fu rinvenuta tra le
pagine del libro di Giobbe tra le quali si affacciarono, come se fossero dei segnalibri, due piccole fotografie, una nelle tonalità del seppia
raffigurante l'ovale aggraziato di una giovinetta paffuta dalle lunghe
trecce; sull'altra, in bianco e nero, spiccava l'incarnato di una signora
dai capelli biondi ridondanti su un colletto bianco di pizzo e un abito
di velluto scuro dall'ampia gonna. Nella profondità di una tasca fu reperita una contorta foglia di rame abbarbicata ad una ceramica dove
il vaporoso cappellino di una dama dall'incarnato scuro era stato ripassato con ingenui colori per evidenziare i fiori e i frutti della deco99
razione.
Ogni residuo dubbio, se ancora quei solerti funzionari di questura
ne riservassero in cuor loro, venne fugato nel corso del sopralluogo
all'abitazione del presunto pastore dove, furono ritrovati, in un'indescrivibile confusione, tra fogli di carta d'imballo stropicciati, confezioni
strappate di fagioli e di prosciutto, vasetti di yogurt e scatole di cartone di diversa misura, sacchetti del supermercato, lattine di birra e
calzini spaiati, settantadue tra ritratti e fotografie a colori e in bianco
e nero. Solo otto di questi furono reclamati nei mesi successivi dagli
aventi diritto, gli altri giacciono ancora ad ammuffire sconsolatamente in qualche scaffale dimenticato nell'archivio della questura. Nel
computer erano annidati oltre settecentocinquanta scatti di statue,
cippi, sepolcri, gruppi monumentali.
Augusto apprese con stupore che, da tempo alcuni, discendenti
delle dinastie di appartenenza di quelle sepolture visitate dalla sua
solerzia collezionistica, insistevano presso i custodi del Monumentale nella segnalazione di sparizioni inspiegabili riguardanti i più disparati cimeli.
Questi avevano girato le lagnanze alla vigilanza urbana, la quale,
dopo attento sopralluogo, aveva stilato un rapporto al comando, infarcito di termini approssimativamente burocratici e incongruenze
sintattiche, certificando la necessità di approfondimenti investigativi
che non erano di propria competenza di quell'Amministrazione.
La questione era finita dunque sulla scrivania del magistrato di
turno e lì era rimasta in sospeso finché la notizia del saccheggio era
comparsa sulle pagine locali di un noto quotidiano nazionale ad opera di un solerte cronista lasciato a presidiare la redazione nei primi
giorni di agosto. La polizia giudiziaria, dato il periodo di vacanza dei
normali malfattori, pur essendo impegnata con tutte le forze nella disinfestazione dai topi d'appartamento, aveva potuto disporre innumerevoli appostamenti e, finalmente, aveva fatto piena luce sulla curiosa vicenda.
Il 21 agosto i milanesi, sia quelli già tornati in città o non ancora
partiti, sia quelli che non rinunciavano a mantenere il contatto giornaliero con la realtà metropolitana attraverso la lettura del loro quoti100
diano anche dalla spiaggia o dai pascoli montani, trovarono la notizia evidenziata in tono diverso ma più o meno di questo tenore:
“Gli agenti della Questura di Milano hanno denunciato un cittadino
milanese di quarantasei anni, A.R., incensurato, per un insolito tipo
di furto: l'uomo rubava dalle lapidi del Cimitero Monumentale le fotografie raffiguranti donne in giovane età.
A fare la macabra scoperta il personale dei servizi cimiteriali che
ha avvisato i vigili urbani e la Polizia. Gli agenti, dopo alcuni servizi
disposti ad hoc in abiti civili, hanno individuato il quarantaseienne
aggirarsi con fare sospetto tra le tombe e dopo averlo seguito lo hanno sorpreso mentre con un coltellino stava tentando di rubare l'ennesima fotografia della lapide appartenente ad una giovane ragazza
scomparsa negli anni venti.
Gli agenti della Questura di Milano nel corso della perquisizione
presso l'abitazione dello strano ladro hanno trovato altre fotografie
che sono state messe a disposizione dei parenti delle defunte. Nella
memoria del personal computer sequestrato nell'appartamento, erano immagazzinate centinaia di fotografie riguardanti statue raffiguranti sempre soggetti femminili.
L'uomo ha cercato di giustificare la sua azione adducendo motivazioni vaghe circa una non meglio precisata ricerca sulla condizione
femminile nel Novecento”
Augusto non trovò nulla di falso o di eccessivo in questa ricostruzione dei fatti; solo gli parve che la definizione esagerata di macabra
affibbiata dal cronista alla scoperta degli agenti, gettasse una luce
equivoca circa il suo modo di agire e le sue intenzioni.
E penso che in fondo avesse ragione.
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Finale
Al rientro in ufficio, ai primi di novembre, Augusto apprese che il
Commendator Rossetti era morto di vecchiaia nella sua casa di Sanremo e trovò sulla scrivania una busta con carta intestata dell'Azienda in cui si annunciava, senza giri di parole, il suo licenziamento.
A dicembre subì il processo per direttissima e patteggiò due mesi
di reclusione con sospensione della pena in quanto incensurato, oltre alla refusione completa dei danni provocati per un totale di Lire
sedici milioni e settecentoventicinquemilacinquecentonovanta (pari
ad Euro ottomilaseicentotrentotto e quattro centesimi).
Il diciotto febbraio dell'anno successivo, dopo un breve fidanzamento, salutato con dichiarata gioia e intimo disprezzo dagli amici
più cari, convolò a giuste nozze con Rachele. Beatrice, per la sposa,
e Gianluca, per lo sposo, furono i testimoni.
Gli sposi andarono a risiedere in un delizioso attico di via Fiori
Chiari a fianco dello studio di architettura aperto da Rachele presso il
quale Augusto svolgeva un'intensa attività di pubbliche relazioni,
sfruttando l'ampia rete di conoscenze che aveva saputo rinverdire
proprio grazie alla bizzarria di quell'avventura e al clamore che aveva
suscitato presso le élites milanesi.
Fioccarono come non mai incarichi di ristrutturazione d'interni e di
costruzione di villini al mare e in montagna.
Ebbero due figli, un maschio ed una femmina che portarono il
nome di Ernesto ed Emma.
Concluso il 19 Agosto 2010
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