Sessione 1: Le nuove famiglie e la scuola: realtà e pregiudizi vecchi

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Sessione 1: Le nuove famiglie e la scuola: realtà e pregiudizi vecchi
GIORNATA DI STUDIO “FAMIGLIE OMOGENITORIALI E SERVIZI EDUCATIVI E SCOLASTICI”
Sessione 1: Le nuove famiglie e la scuola: realtà e pregiudizi vecchi e nuovi
Famiglie omogenitoriali, realtà e ricerca
Federico Ferrari
Abstract
Il dibattito sull’omogenitorialità non può prescindere dai dati della ricerca scientifica: solo attraverso di questi possiamo
renderci conto della “tautologia” costituita dalla premessa che vorrebbe la famiglia eterogenitoriale come unico
possibile contesto di sviluppo sano e sereno.
Tuttavia la ricerca scientifica sull’omogenitorialità è stata negli ultimi 40 anni molto legata a questa funzione di
falsificazione del pregiudizio: ha accettato di porsi le domande del pregiudizio (“ci sono danni per i figli?” “saranno
compromessi nella loro identità sessuale?”, etc.), e ha finito troppo spesso per scordarsi le domande della curiosità,
della scoperta: “come funzionano queste famiglie? Secondo quali specificità? Quali bisogni specifici esprimono e come
i servizi educativi, sanitari, giuridici possono svolgere al meglio la loro funzione di sostegno nei loro confronti?”
Si affronteranno questi temi condividendo brevemente i dati emergenti dalle ricerche disponibili e dall’esperienza con
l’associazione Famiglie Arcobaleno.
Intervento
- La scienza è un metodo che garantisce un’affidabilità delle risposte in relazione alle domande
poste dal ricercatore, ma tali domande dipendono sempre dalle premesse epistemologiche e culturali
del ricercatore, e dai pregiudizi che ne derivano. Tali pregiudizi dovrebbero evolvere sulla base
delle risposte tratte dalla ricerca scientifica.
- Il fenomeno dell’omogenitorialità sembra fare eccezione, poiché nonostante 40 anni di risposte
che falsificano i pregiudizi iniziali, si continua a riformulare le stesse domande: possono queste
famiglie funzionare come le altre? Sì, ma la risposta, almeno in Italia, non riesce a trovare
riconoscimento nella committenza politica della ricerca scientifica (lo Stato che dovrebbe
riconoscere a sua volta queste famiglie), la trova invece, di solito, negli operatori che incontrano
l’omogenitorialità nel proprio lavoro e nell’interazione ne riconoscono la normalità. Questo rende
però il processo di sviluppo sociale molto lento.
- Le premesse che sembrano non essere scalfibili da parte delle risposte scientifiche e che
continuano a generare le stesse domande sono quelle di un sistema culturale eterosessista. Ciò
significa che esso si basa su un sistema di rappresentazioni chiuso, in cui le idee di 1. Binarismo
sessuale, 2. Complementarietà di genere, 3. Eteronormatività, 4. Finalità procreativa della
sessualità, e 5. Genitorialità biologica, sono gli assunti di base di una tautologia circolare
complessa: essi sono dati per scontato, fondando ciascuno la propria apparente “necessità” sugli
altri, creando l’illusione di un sistema esplicativo, che è in realtà un gioco di specchi tra postulati
diversi.
- Tale tautologia esclude a priori l’omosessualità, che viene tutt’al più tollerata come “patologia”.
Il fenomeno dell’omogenitorialità mina dunque alle fondamenta tale tautologia. Essa è, secondo le
premesse eterosessiste, inconcepibile (Lingiardi, 2013). “Vederla” e studiarla rappresenta di per sé
la risposta ad un “pensiero sovversivo” (Butler, 1990) che, la psicologia sociale ci insegna
(Moscovici, 1961; Mugny e Papastamou, 1982), esiste in ogni sistema culturale.
Tuttavia, sembra che per quanto le domande scientifiche, che nascono in tale confronto tra pensiero
egemonico e pensiero sovversivo, producano risposte che metterebbero in discussione il pensiero
dominante, tali risposte fatichino ad essere accettate, dando origine ad una ripetizione nevrotica
delle stesse domande, in una sorta di empasse epistemologico.
- Possiamo tuttavia notare un progressivo adattarsi delle domande alla crescente visibilità del
fenomeno omogenitoriale:
anni ’70: si sono indagate le capacità genitoriali delle persone omosessuali a fronte del
crescente numero di persone omosessuali che si separavano da matrimoni eterosessuali
chiedendo di continuare a partecipare alla crescita dei figli (a partire dal pregiudizio che un
omosessuale non potesse essere un buon genitore);
anni ’80: di fronte al lesbian baby boom si è studiato lo sviluppo identitario e sociale dei
figli di madri single e lesbiche, che crescevano senza il modello genitoriale di uno dei due
generi (paterno) (a partire dal pregiudizio che senza la figura di uno dei due sessi lo sviluppo
sarebbe stato compromesso);
anni ’90: al crescere della visibilità dei nuclei a fondazione omosessuale si è studiato lo
sviluppo sessuale, identitario e sociale dei figli cresciuti non solo senza il modello di uno dei
due generi, ma con un modello di coppia genitoriale omosessuale (a partire che un modello
in cui i ruoli genitoriali sono distribuiti tra persone dello stesso sesso e il modello di amore è
quello omosessuale i figli avrebbero avuto una crescita “deviante”).
- I risultati scientifici a questi quesiti sono consistenti, ottenuti attraverso disegni di ricerca andati
complessificandosi nei decenni. Inizialmente casi singoli (Osman, 1972), poi piccoli campioni con
gruppi di controllo (Flacks et al.1995), disegni longitudinali su più di 10 anni (Gartrell e Boss,
Golombok e Tasker), comparazioni cross-culturali (Boss e van Balen), campioni di convenienza,
ma anche “naturali” (Patterson e Wainright, 2004, 2006, 2008). I risultati sono sempre gli stessi: i
ragazzi stanno bene, sono perfettamente paragonabili agli altri nel livello di funzionalità, talvolta
sembrano stare anche meglio. Sono più liberi da pregiudizi eterosessisti e omofobici, ma non sono
più omosessuali degli altri (Stacey e Biblarz, 2001).
- La critica mossa di norma a queste evidenze (senza essere mai in grado di portarne di contrarie) è
la “non generalizzabilità” dei risultati dovuta alle difficoltà di un campionamento non
statisticamente significativo. Partendo da questo presupposto, si perde però di vista il fatto che non
si tratta di provare che le famiglie omogenitoriali stanno bene tutte, e nemmeno che stanno bene
nella maggior parte dei casi (il che sembra essere comunque il caso), cosa che è impossibile da
provare poiché le condizioni in cui funzionano sono socialmente diverse (mancanza di
riconoscimento!). Piuttosto si tratta di riconoscere che esse possono funzionare bene come le altre,
nonostante tali condizioni avverse, e che qualunque pregiudizio sociale possa renderne più faticoso
il successo, esso non è l’omogenitorialità in sé, quanto il pregiudizio sociale e la discriminazione
istituzionale. Accettare questa risposta è di per sé sufficiente a invalidare le premesse eterosessiste
da cui muovono le domande patologizzanti della ricerca.
- Diventa allora il nuovo compito della scienza cambiare le premesse della propria ricerca e porsi
delle nuove domande, dal momento che il buon funzionamento è possibile, come esso avviene? a
quale condizione?
1. A partire dall’emergenza di fattori di rischio: Quali ostacoli un sistema sociale
democratico ha il dovere di rimuovere per tutelare queste famiglie?
a. Per prima cosa si pone la questione dell’omofobia che risulta un fattore di rischio
• tanto per i ragazzi, che sono oggetto di discriminazione secondo alcune
valutazioni con una prevalenza che varia tra il 25 e il 50% (Morris et al.,
2002; Gartrell et al., 2005; van Gelderen et al., 2009), e soffrono tanto più
quanto ne sono colpiti, ma che riescono a non stare comunque peggio
degli altri ragazzi grazie a:
I.
•
il fatto che la caratteristica famigliare è talmente saliente da far sì
che non siano presi in giro per altre ragioni, per cui gli altri sono
discriminati (van Gelderen et al 2012);
II.
il sostegno delle famiglie, che hanno specifiche competenze (Bos
e Gartrell, 2010).
quanto per i genitori, specialmente i padri, che i risultati mostrano più
sensibili, nel loro senso di competenza genitoriale, al riconoscimento
sociale. Questo sia in negativo, sentendosi più stressati di fronte alla
squalifica (Bos, 2010), che in positivo, mostrandosi più sereni degli altri
quando l’istituzione li riconosce tramite l’adozione (Mellish et al. 2013).
b. In secondo luogo si pone la questione della tutela istituzionale delle relazioni poiché
un fattore di sofferenza si conferma quello delle separazioni, specie quelle da precedenti
coppie eterosessuali inasprite dallo stigma omofobico (Patterson, 2005)
2. A partire dai punti di forza delle famiglie omogenitoriali: cosa ci insegnano e ci
suggeriscono di ricercare sulle famiglie eterosessuali?
a. la condivisione paritaria del lavoro, e la maggiore soddisfazione di coppia ci
interrogano sulla tradizionale concezione del genere nella famiglie etero-genitoriali. Se
i padri gay mostrano maggiore competenza genitoriale (analogamente alle madri etero e
lesbiche) questo ci dovrebbe forse portare a rimettere in discussione il ruolo paterno
nella nostra società?
b. la maggiore libertà di esplorazione dei ruoli di genere e dell’orientamento sessuale
dei ragazzi, una maggiore apertura alla differenza (che non si traducono comunque in
differenze nella strutturazione dell’identità di genere né nella prevalenza di un
orientamento sessuale), che sembrano correlare con una maggiore competenza
relazionale potrebbero suggerire il valore di un’educazione affettiva in adolescenza
meno sessuofobica e genderista.
- In altre parole, mi sembra che negli ultimi 40 anni le risposte ottenute dalla ricerca scientifica alle
domande dettate dalle premesse eterosessiste sull’omogenitorialità siano sufficienti a rassicurarci
del fatto che il problema della sua “inconcepibilità” sta nelle premesse culturali e non nella realtà
delle famiglie di gay, lesbiche e bisessuali. Semmai, sembra giunta l’ora di imparare dal fenomeno
dell’omogenitorialità, per porsi importanti domande sui limiti delle norme genderiste ed
eterosessiste che informano il nostro sistema sociale e culturale.