e il potente paranoico ci vedeva tutti morti, il si

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e il potente paranoico ci vedeva tutti morti, il si
S
e il potente paranoico ci vedeva tutti morti, il sistema della produzione ci vuole tutti vivi, perché
investe sulla vita, valorizza la sua capacità nel
mercato in cui ognuno diventa compratore di se stesso. Se c’è una fede di cui divengono preda l’uno dopo
l’altro i popoli più vitali della terra, quella è la fede
nella produzione, il moderno furore dell’accrescimento.
ISSN 2037-4240
(Elias Canetti, Massa e potere, 1960)
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXX (2010)
n. 4
Marco Almagisti
PER NON
ARRENDERSI
ALLA
DISAFFEZIONE
Michele Nicoletti
Emanuele Curzel
PER UNA NUOVA
PROPOSTA
POLITICA DEI
DEMOCRATICI
LE SVOLTE
DELLA
REPUBBLICA
Enrico Peyretti
VA CACCIATO
Periodico mensile - Anno XXX, n. 4, aprile 2010 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale
- d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Redaz.. e amministrazione: 38100 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20
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SIAMO
SCANDALIZZATI
E STANCHI
Luigi Giorgi
IL CONSENSO
IMPERFETTO
Antonio Rapanà
IL CIRCOLO
VIZIOSO DELLA XENOFOBIA
Fabrizio Mandreoli
Athos Righi
L’ESISTENZA
CRISTIANA DEL
PRESBITERO
DOSSETTI (I)
IL MARGINE
Michele Nicoletti
Enrico Peyretti
3
4
APRILE 2010
2010
Per una nuova proposta politica
dei democratici
12
Va cacciato
14
Siamo scandalizzati e stanchi
Luigi Giorgi
16
Il consenso imperfetto
Marco Almagisti
20
Per non arrendersi alla disaffezione.
La qualità della democrazia in Italia
Emanuele Curzel
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Le svolte della Repubblica
Antonio Rapanà
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Il circolo vizioso della xenofobia
Fabrizio Mandreoli
Athos Righi
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L’esistenza cristiana del presbitero Dossetti
(prima parte)
Camicie verdi o… Monteverdi?
All’indomani delle regionali, mons. Fisichella si è subito affrettato a “battezzare” il
movimento di Bossi, certo evidentemente che qualche santa ed eterna goccia del
Tevere sia tale da far dimenticare ai cattolici distratti le gocce pagane e padane
raccolte dalle camicie verdi a Crissolo. Lo stesso Monsignore ha spiegato, di fronte
alle immagini di un Berlusconi che si accosta deferente alla comunione, che «è solo
al fedele separato e risposato che è vietato comunicarsi poiché sussiste uno stato di
permanenza nel peccato. Berlusconi, essendosi separato dalla seconda moglie con la
quale era sposato civilmente, è tornato ad una situazione ex ante». Affermazione
forse poco eccepibile sul piano giuscanonistico, ma tale da legittimare ampiamente
la nota affermazione di Rudolph Sohm secondo cui l’«essenza del diritto della Chiesa è in contraddizione con l’essenza della Chiesa»! Insomma, un bel tacere mai
scritto fu, per parafrasare Monteverdi. Forse, dovrebbe ricordarsene anche il nostro
Monsignore… (F.G.)
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gratuito dei suoi autori e redattori e al sostegno dei suoi abbonati (avete rinnovato l’abbonamento?...), dovrebbe avere le risorse per affrontare la nuova
situazione. Certo è che questo provvedimento si situa nel cotesto di un più
generale tentativo di “asfaltatura” dell’informazione libera in Italia.
D’altronde, come il Presidente del Consiglio ha ricordato il 25 aprile,
l’obiettivo è andare «oltre» la nostra Costituzione. Probabilmente si vuole
andare anche «oltre» l’articolo 3 e «oltre» l’articolo 21. (E.C.)
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Editoriale
Per una nuova proposta
politica dei democratici
MICHELE NICOLETTI
M
ilioni di cittadini in occasione delle ultime elezioni amministrative
regionali hanno deciso di non andare a votare. Si è così trattato delle
elezioni meno partecipate nella storia politica italiana. Solo il 63,6 % degli
aventi diritto ha scelto di recarsi alle urne. Si tratta di una scelta che dovrebbe preoccupare chi ha a cuore una concezione della democrazia che vede
nella partecipazione forte e intensa dei cittadini un elemento fondamentale
della democrazia stessa.
I più preoccupati dovrebbero essere, insomma, quelli del PD. E ciò almeno per due ragioni. Anzitutto per una ragione generale: una democrazia a
bassa partecipazione rischia di indebolire il senso stesso della democrazia
come governo del popolo, ossia di tutti o per lo meno dei più. Una democrazia a bassa partecipazione rischia non solo di affidare il momento decisionale a una porzione ristretta della popolazione (un governo fondato sul voto
del 30% degli aventi diritto fa più fatica a definirsi interprete di quella volontà popolare in cui, in democrazia e secondo la nostra Costituzione, risiede
il potere sovrano ossia il potere di decidere sul destino della propria comunità politica), ma anche di non svolgere efficacemente quella funzione di integrazione sociale che gli istituti politici della democrazia svolgono
(l’esercizio del voto è anche una forma di inclusione sociale; senza di esso
può crescere il senso di non appartenenza e il tasso di anomia che indeboliscono il tessuto connettivo della società civile).
Ma una bassa partecipazione dovrebbe preoccupare i democratici anche
per una ragione particolare: perché il gran numero di astenuti – per altro assai maggiore nell’area del centrodestra rispetto a quella del centrosinistra –
rappresenta un interlocutore fondamentale del PD. In parte perché si tratta di
propri elettori che si sono allontanati perché insoddisfatti, in parte perché si
tratta di elettori non “ideologicamente” di centrodestra. In un caso come
nell’altro si tratta di elettori più facilmente conquistabili o riconquistabili al
voto del centrosinistra e dunque interlocutori da privilegiare
Il Margine 30 (2010), n. 4 --- 3
nell’elaborazione di una nuova proposta politica di qui alle elezioni del 2013
(sempre ammesso che non vi siano elezioni anticipate).
Le ragioni dell’astensionismo
Tra le molte ragioni dell’astensionismo, due sembrano prevalere: da un
lato, la sfiducia nella capacità della politica di “risolvere” i problemi concreti (lavoro, crisi economica, efficienza dei servizi, qualità della vita, eccetera)
e dunque la convinzione della sua “inutilità” pratica; dall’altro, la sfiducia
nella capacità della politica di dare corpo a ideali, ossia a rappresentazioni di
un futuro desiderabile, e dunque la percezione della sua “insignificanza”
nella sfera simbolica (incapacità di comunicare la società che desideriamo,
di anticipare il futuro, di sostenere la speranza in un’alternativa rispetto alla
vita che conduciamo).
La convinzione di un’inutilità pratica della politica si è fatta sempre più
strada in un Paese come il nostro, in cui la capacità riformatrice dei governi
dell’una e dell’altra parte è stata assai ridotta. Rispetto ai vecchi Paesi europei, l’Italia si trova priva di un sistema istituzionale capace di garantire efficienza ed equità. Il sistema politico, giudiziario, scolastico, universitario, le
infrastrutture di vario genere nonché gran parte del sistema produttivo appaiono largamente al di sotto dei migliori standard europei, nonché delle aspettative e dei bisogni dei cittadini. La resistenza delle corporazioni, il pesantissimo debito pubblico, la farraginosità dell’apparato legislativo e molto
altro riducono quasi a zero i margini di manovra dei governi, che devono
limitarsi a contenere più o meno la spesa pubblica, senza riuscire a introdurre significative riforme di sistema.
L’impotenza della politica italiana è stata esaltata dalla crisi economica
e i cittadini stanchi hanno interpretato tale impotenza non come l’impotenza
di “una” parte politica, ma come l’impotenza “della” politica tout court, vista sempre più come una macchina inutile e anzi dannosa in quanto costituita da un apparato di parassiti e privilegiati. Non a caso è stato questo
l’elemento maggiormente enfatizzato da inchieste giornalistiche (la “casta”)
e da movimenti sociali e politici di un qualche successo (la stessa Lega,
l’Italia dei valori, il movimento di Grillo). In questa crisi di legittimazione
pare immersa non solo la politica nazionale, ma anche quella locale: quella
amministrazione regionale, provinciale, comunale, che per molti anni ha
rappresentato l’esempio positivo della politica del “fare”, delle buone prati-
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che, contrapposta alla politica delle chiacchiere. La crisi del modello emiliano (perdita del 10% di voti relativi e del 22% dei voti assoluti dalle regionali
del 2005) con la crescita del voto “ideologico” della Lega non va sottovalutata.
Di fronte a questa crescente convinzione di impotenza della politica a
risolvere i problemi concreti è certamente vero che la nuova proposta politica del PD dovrà caratterizzarsi per la capacità di affrontare i temi concreti
che assillano la vita quotidiana dei cittadini e di indicare soluzioni concrete
ai problemi a partire da quelli di carattere economico-sociale. Ma non si può
ignorare il fatto che, stando all’opposizione sul piano nazionale, il centrosinistra può solo enunciare che cosa si dovrebbe fare per risolvere i problemi
senza avere la possibilità di tradurre in decisioni politiche queste soluzioni e
che, anche là dove si trova al governo a livello regionale, lo stato drammatico della finanza pubblica consente non molti margini di manovra.
Per questo occorre essere consapevoli che pur riconoscendo la centralità delle questioni concrete – e solo il cielo sa quanto urgente sia una politica
che metta mano con forza ai problemi materiali del Paese – una proposta
politica che si limitasse solo ad enunciare le cose da fare, rischierebbe di essere insufficiente di fronte al ritorno – in grande stile – di una proposta politica fortemente ideologica come quella avanzata dal centrodestra e, con incisività crescente, dalla Lega.
Prodi di una radicale ristrutturazione del PD su base regionale è certo motivata dall’istinto di conservazione di buona parte della classe dirigente del
partito, la cui legittimazione dal basso affonda le sue radici nel passato e la
cui permanenza ai vertici è in gran parte legata a meccanismi di cooptazione, ma anche da una diffusa stanchezza nei confronti delle discussioni attorno alla forma partito. Dopo le elezioni regionali i più hanno detto: “per carità, non rimettiamoci a parlare dell’assetto interno”. Sarebbe assurdo negare
la rilevanza di tutti questi aspetti del politico nella realtà dell’oggi, ma pensare di costruire una nuova politica su queste basi è illusorio. Nuovi linguaggi, radicamento nel territorio, organizzazione aperta e cariche contendibili da tutti sono scelte fondamentali politicamente rilevanti, non sono mere
forme organizzative politicamente neutre. Rispondono a valori e idee, ma
sono tuttavia “forme” del politico. Forme che devono riempirsi di contenuti
ideali e di scelte sociali, perché solo l’idea riesce a fare sintesi dei diversi
interessi sociali sempre più frammentati. Per fare sintesi l’idea ha bisogno di
strumenti che la mettano in contatto con le persone in carne ed ossa e perciò
ha bisogno di linguaggi, persone radicate, procedure e strutture senza cui è
inefficace e sterile. Ma è l’idea che ha la capacità di fare sintesi degli interessi sociali. Mentre prefigura una realtà alternativa a quella esistente, indica
una possibile realizzazione dei nostri desideri e una possibile composizione
di interessi tra loro diversi e talora in conflitto: così è stato nell’Ottocento e
nel Novecento con le grandi idee della libertà politica, della democrazia laica e cristiana, del socialismo.
Il ritorno delle idee
Occorre essere consapevoli che è tornata a manifestarsi nella storia la
forza delle idee. Da sinistra a destra, da Obama alla Lega, le proposte politiche che paiono oggi maggiormente in grado di attrarre consensi sono quelle
a forte tasso ideale. La politica spettacolo del Pdl – pure imperante su molte
reti televisive – appare perdere milioni di consensi e non si può dire che la
politica della Lega conceda molto alla logica dell’immagine. La sua classe
politica certo non si preoccupa dell’apparenza estetica. Anche il tema della
politica dei sindaci, del civismo, delle personalità locali, pare meno attraente. Il radicamento nel territorio, come si usa dire, è essenziale, ma più come
metodo che come contenuto. L’importanza delle questioni organizzative del
politico, le eterne discussioni sulla forma partito nelle sue innumerevoli varianti, storiche, reali, o virtuali, pare avere meno centralità di qualche tempo
fa. Una certa freddezza nei confronti della proposta avanzata da Romano
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La democrazia senza aggettivi
L’intuizione che ha portato a definire il nuovo partito come “partito
democratico”, uscendo dalla stagione della botanica e tornando alla centralità delle idee politiche, ponendo il partito nuovo sulla base dell’idea di democrazia (“la più bella idea” che la storia della politica abbia partorito), è
stata fondamentale e, ne fossero o meno consapevoli gli artefici di tale scelta, questa intuizione ha collocato la nuova formazione politica nel grande
alveo della tradizione del pensiero democratico. Tradizione per nulla vaga e
più risalente rispetto a quelle tradizioni di pensiero a cui di solito si fa riferimento quando si traccia la genealogia del PD e si invocano – quasi in una
sorta di litania – le divinità protettrici del passato, i liberaldemocratici, i socialisti, i cattolici democratici e via enumerando. Se solo si assumesse uno
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sguardo appena più ampio, ci si accorgerebbe che queste nobili tradizioni,
prima di essere nostre progenitrici, sono state a loro volta figlie, figlie di
quella tradizione di pensiero democratico che ha portato alle rivoluzioni americana e francese combattendo l’assolutismo regio e affermando la sovranità del popolo. E questa tradizione si è certo manifestata nel corso
dell’Ottocento in forme diverse, nelle correnti sopra ricordate, ma ha saputo
mantenere anche una sua forza unitaria, operante a livello carsico, ma capace via via di battersi per i diritti civili, l’abolizione della schiavitù,
l’emancipazione femminile, la giustizia sociale, l’educazione di tutti, la laicità del politico e il sacro rispetto della coscienza, e di lottare contro
l’imperialismo e il nazionalismo, contro i fascismi e i totalitarismi di ogni
colore, e di darci poi il frutto della Costituzione, frutto unitario di una lotta
unitaria dei democratici, e di un idea di ordinamento della società internazionale basato sui diritti umani e dei popoli.
Chi oggi dice che il PD non ha un’identità ideale non sa che cosa dice.
O meglio parla di se stesso e del proprio disorientamento e ignora le grandi
correnti ideali della storia. Il semplice fatto di aver posto il partito sotto
l’egida – finalmente – di una democrazia senza aggettivi (e dunque non più
la democrazia liberale o la socialdemocrazia o la democrazia cristiana, ma la
democrazia e basta, perché – verrebbe da dire con il Marx della questione
ebraica – “la democrazia politica è cristiana”) rappresenta la consapevolezza
che l’idea di democrazia è il luogo dell’inveramento delle aspirazioni dei
liberali, dei democristiani, dei socialisti. La democrazia non è una tappa intermedia verso altro, ma è l’ideale verso cui essa stessa tende. La politica
sottratta all’essere strumento per la realizzazione di altre mete e restituita
alla sua natura originaria: autogoverno di donne e uomini che si vogliono
liberi e si riconoscono uguali. In uno sforzo perenne, mai del tutto raggiunto
perché sempre nuovi esseri umani si aggiungono alla nostra convivenza, e
abbiamo l’eterno compito di riconoscere anche ad essi pari opportunità.
Questa lettura più larga ci aiuta a collocare le diverse tradizioni che
sempre ricordiamo entro una storia comune e a concepire il PD non come la
costruzione artificiale di gruppi diversi ed eterogenei, ma come la ricongiunzione dei diversi rami della tradizione democratica al ceppo originario e
comune. Ciò non accade oggi per la prima volta, ma già altre volte è accaduto sia pure non nella forma del partito e solo a rileggere gli atti della Costituente respiriamo quest’aria di unità democratica, di ritrovarsi in famiglia.
Per cui è del tutto corretto dire che il PD è il partito della Costituzione e di
quella Costituzione in cui le tradizioni democratiche italiane arrivano alla
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formulazione di quella concezione “dinamica” dell’uguaglianza che si trova
originalmente formulata nell’articolo 3.
È questa concezione dell’uguaglianza che sta alla base delle cultura politica del Partito Democratico e che anche oggi costituisce lo spartiacque ideale tra i diversi schieramenti. Se rileggiamo la storia delle idee politiche in
Europa e nel mondo alla luce di questo spartiacque, ci accorgiamo di come
si possa rinvenire – pur nella pluralità – un’unità più profonda delle tradizionali distinzioni (liberaldemocratici, socialisti, cattolici democratici, eccetera) che si fonda su questa concezione inclusiva della democrazia, tesa perennemente a realizzare condizioni di uguaglianza in un mondo che non
smette di generare disuguaglianze. Uguaglianza non solo sul piano orizzontale dei diversi gruppi sociali, ma anche sul piano verticale dell’uguaglianza
tra governanti e governati che nell’età della democrazia di massa e della
professionalizzazione del politico si fa particolarmente acuta.
Dunque l’idea c’è, la storia c’è, vi è da chiedersi piuttosto se vi siano
fra noi oggi uomini e donne all’altezza di questa storia. Storia di impegno, di
sacrifici e di lotte, come ogni democratico di ogni tempo sa, perché non vi è
diritto di donna o di uomo che non sia stato conquistato attraverso lotte. La
politica democratica – ossia la democratizzazione della politica – non è un
gioco di società. E vi è da chiedersi se il deficit maggiore oggi non risieda
nella mancanza di serietà, nella mancanza di consapevolezza del senso della
nostra battaglia, nel deficit di carattere. Forse ci battiamo stancamente perché ci battiamo per i diritti altrui, avendo da tempo conquistato i nostri e badando semmai a conservarli gelosamente. Ma vi può essere politica democratica se quanti avrebbero un reale interesse all’espansione della democrazia – perché sfruttati o discriminati – non stanno dalla parte dei democratici?
Se non vedono nei democratici chi si fa carico delle loro aspirazioni, chi dà
mostra di “sentire” ciò che essi sentono e di “soffrire” ciò che essi soffrono?
La forza dei movimenti democratici stava nel coniugare gli ideali di libertà,
uguaglianza, fraternità con componenti sociali che avevano interesse concreto alla realizzazione di una società fondata su queste basi. Questa ricomposizione tra interessi e valori è essenziale e per questo è urgente una forte alleanza con le componenti della società che hanno interesse a un’espansione
dell’uguaglianza delle opportunità e sono disponibili a comporre questo loro
interesse in un orizzonte ideale di democratizzazione della società.
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Politica e speranza
Ma la forza dei movimenti democratici non stava, in passato, solo nella
loro rappresentanza sociale progressiva, stava anche nella loro capacità di
suscitare la speranza in un mondo diverso, attraverso rappresentazioni ideali
della società del futuro, che apparivano desiderabili, così desiderabili da
rendere sensata la lotta, e da rendere sopportabili le avversità del presente.
La politica moderna e in particolare la politica democratica si è costruita in
modo determinante sull’idea di un futuro diverso dal presente. Fosse il regno di Dio o la società dell’avvenire, fosse il mondo della libertà e degli
scambi pacifici, in ogni rappresentazione ideale stava la forza trascinante di
un futuro migliore per cui valeva la pena impegnarsi.
Quest’idea che il presente non è l’unico tempo dell’essere umano, ma
un altro tempo esiste per cui le donne e gli uomini non sono condannati
all’eterno ritorno dell’uguale miseria, ma sono destinati a un riscatto e a una
liberazione, è stato un contributo fondamentale offerto dalle tradizioni ebraiche e cristiane alla politica occidentale. La speranza della liberazione. E
la povertà della nostra cultura politica sta anche nell’inaridirsi di questo orizzonte perché le tradizioni religiose oggi di fronte alla vita politica appaiono più preoccupate di difendere i propri spazi attraverso lo strumento del
politico, anziché allargare lo spazio e il tempo del politico attraverso il proprio orizzonte spirituale. E invece è di questo allargamento dello sguardo e
del cuore che la politica democratica ha bisogno. Non certo per riproporre
messianismi terreni che non hanno giovato all’umanità. Ma per dispiegare
anche nella storia la forza liberante di una speranza in un orizzonte che trascende il presente. E in ciò – anche – sta certamente la forza trascinante della proposta di Barack Obama al suo popolo, proposta così fortemente nutrita
della speranza di una liberazione che ha radici salde nella tradizione democratica americana, dai padri fondatori ai difensori dei diritti civili.
La speranza non è certo un patrimonio esclusivo delle tradizioni religiose, essa può fondarsi e alimentarsi anche ad altre sorgenti. Ma di essa,
ovunque provenga, la democrazia ha bisogno per sostenersi nel momento in
cui la fiducia nel cambiamento viene messa alla prova dalla crisi, dalla stanchezza e dalla rassegnazione. È in quest’ora che il pensiero democratico ha
bisogno di tutte le energie spirituali di cui può disporre. Non deve costringere le persone a mettere tra parentesi le proprie energie spirituali, ma deve
riuscire a esaltarle e a comporle in un quadro comune.
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Ma non è solo per riaprire l’orizzonte del futuro che il pensiero democratico ha bisogno di attingere a energie spirituali. La crisi economica ha
mostrato i limiti non solo di un modello sregolato di capitalismo, ma anche
di un’economia di mercato che ha bruciato le risorse antropologiche da cui
essa pure è nata. La logica di funzionamento del sistema economico lasciata
a se stesso ha logorato quei presupposti di libertà della persona e di parità di
condizioni senza cui essa non avrebbe potuto svilupparsi e per questo entra
in tensione con le aspirazioni democratiche, che non possono accettare un
sistema che produce disuguaglianze sempre più ampie. La reazione del sistema politico democratico alla crisi economica è stata debole: come i meccanismi democratici sono stati spesso impotenti di fronte alle sregolatezze
del sistema, così nel momento della crisi raramente sono riusciti ad evitare
che le risorse pubbliche messe in campo non finissero nelle mani degli stessi
agenti e delle stesse logiche che hanno prodotto la crisi.
È su questo piano che si misura la difficoltà, per non dire l’impotenza
delle democrazie: quello che dovrebbe essere il sistema politico maggiormente in grado di difendere i meno abbienti, rischia di cooperare al maggior
trasferimento di risorse pubbliche (provenienti in gran parte dal lavoro) nelle
mani di chi già ha. È questo compromesso tra (cattivi) attori economici e
(cattivi) attori politici, che va rotto a favore di un nuovo e più avanzato
compromesso tra democrazia ed economia di mercato. Per questo serve non
solo una politica che intercetti gli attori sociali ed economici interessati al
cambiamento (spesso inclinanti verso la rassegnata astensione), ma anche
una teoria sociale capace di dare spazio in chiave dialettica ma non antagonista a quanti aspirano a una «revisione profonda e lungimirante del modello
di sviluppo» (Benedetto XVI) in una logica di rispetto dell’ambiente e della
giustizia sociale a livello nazionale, internazionale e intergenerazionale. Si
tratta qui, di nuovo, di nutrire il pensiero democratico con antropologie dialogiche e solidaristiche che nel radicale rispetto della libertà della persona si
oppongano però al rischio presente di reificazione dell’“altro essere umano”
presente nelle prospettive individualistiche. Occorre perciò accettare la sfida
del confronto antropologico anche sui terreni cruciali dell’inizio e del fine
vita, così come del valore sociale delle relazioni familiari, intessendo un
confronto aperto e intenso con quanti si occupano della “messa in salvo
dell’umano”.
Può darsi che questo confronto porti in ogni caso a divergenze sul piano delle concrete scelte da operare sul piano legislativo per operare nell’oggi
quel bilanciamento di beni che la nostra Costituzione ci chiede. Ma è essen-
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Documenti
ziale che in questo dialogo si renda a tutti percepibile il valore di tutti i beni
in gioco, perché le mediazioni giuridiche e politiche – sempre contingenti –
custodiscano la preoccupazione che nulla dell’altro bene vada interamente
perduto. Coltivando il dialogo con le tradizioni morali e religiose sul piano
antropologico, il movimento democratico potrà opporre all’alleanza strumentale tra trono e altare la proposta di un confronto e di una cooperazione
tra credenti e non credenti che riconosca da un lato la secolarità del politico
e la trascendenza del teologico e coltivi dall’altro la cooperazione dialettica
tra le diverse prospettive.
La situazione preoccupante della democrazia italiana esige certamente
che si faccia ogni sforzo per perseguire politiche di alleanza con le altre forze politiche di opposizione, ma un allargamento del fronte non basterà a
rendere i democratici i protagonisti del cambiamento se non sapranno anche
allargare l’orizzonte sociale e culturale della loro proposta. E se non sapranno allargare il loro cuore, la loro capacità di “sentire” ciò che gli altri soffrono. A loro spetta il dovere di testimoniare che la democrazia è in grado di
farsi carico più di altre forme di governo dei grandi problemi sociali che attraversano il nostro tempo e ciò va fatto in primo luogo esprimendo la propria vicinanza a quanti vivono con maggiore difficoltà. In questa vicinanza, i
democratici, se attingeranno al proprio – straordinario e intatto – patrimonio
ideale, sapranno riaprire l’orizzonte della speranza e, ritrovando il senso e le
energie di un nuovo impegno, potranno contribuire a costruire, assieme,
nuove condizioni di vita, più umane per tutti.
Novità dalla Casa editrice Il Margine (www.il-margine.it)
Adriano Ossicini, La sfida della libertà. Dall’Antifascismo alla Resistenza 1936-1945 (pp. 376 + 24 ill., € 20,00)
Il libro ricostruisce, a partire da una documentazione inedita, uno dei decenni
più drammatici della storia del nostro Paese. La politica del fascismo sul piano nazionale, i suoi rapporti con la Chiesa e con le associazioni cattoliche, la persecuzione
degli oppositori politici, le leggi razziali, l'avventura drammatica della guerra, l'esperienza del carcere, la resistenza, la liberazione, sono letti a partire dal diario dell'autore, allora giovane studente in medicina. Sullo sfondo della Roma fascista di quegli
anni tormentati si stagliano le vicende di una generazione, intrecciate con la storia
personale dell'autore, che traccia l'efficacissimo profilo di un'epoca. Illuminanti risultano gli incontri, descritti nel libro, con alcuni dei protagonisti di quella stagione, da
De Gasperi a Gentile, da Rodano a Togliatti.
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Nei giorni che hanno seguito le ultime elezioni regionali abbiamo sentito e
letto molti commenti. Due ci sono sembrati particolarmente interessanti, e
dunque volentieri li riprendiamo sulla nostra rivista (E.C.)
Va cacciato
ENRICO PEYRETTI
A
l momento di votare si fa quel che si può, che può essere il meno peggio, cioè il meglio relativamente possibile. Ma dopo si ricomincia a
ragionare in modo ampio, e a parlare liberamente, guardando anche lontano,
e non solo vicino. Ebbene, questo governo va cacciato. Senza violenza, col
metodo democratico, ma con la massima decisione politica. È il “governo
degli affari propri”, degli affari privati del suo piccolissimo capo, aiutato dai
suoi manutengoli e compari. Ora che il suo potere si è consolidato con le
regionali, si deve consolidare il progetto per cacciarlo.
Questo va detto e ridetto, e dimostrato, e martellato, proprio nel tempo
fuori-elezioni. È in questo tempo che si forma e si riforma l’opinione pubblica. Nel momento delle elezioni ci si adatta realisticamente. Nel tempo del
dibattito si cerca la verità più avanti della realtà. La verità di fatto è che questo governo, modellato su un piccolissimo uomo, immiserisce l’Italia.
La parola è una forza grande. Conta più dei fatti perché spiega e orienta
i fatti. I fatti sono sempre ambigui, oscuri. È la parola che dà loro significato
e li orienta. Gli operai della parola, gli intellettuali, informatori, educatori,
devono esporsi alla luce, senza calcoli, e dire la verità brutta dell’Italia di
oggi. Devono frustare il malcostume di cui il Piccolissimo è effetto e causa
nel contempo. Forse non cambieranno le cose. Ma forse invece sì.
Questo governo del Piccolissimo piace a egoisti e ignoranti e ingannati:
agli egoisti, che farebbero lo stesso se fossero al suo posto, perciò lo ammirano e lo approvano; piace agli ignoranti, appositamente mantenuti
nell’ignoranza, che non sanno cosa sia la civiltà giuridica, la quale è la limitazione della forza fattuale, e non la sua traduzione in legge che obbliga tutti; piace agli sprovveduti, ingannati e intossicati per decenni dall’arma mediatica che quel tale si è procurato da gran tempo, con l’aiuto di complici, e
dall’imperativo consumistico, che Pasolini aveva segnalato.
Ora il Piccolissimo stravolgerà la Costituzione. Non solo guida male,
ma guasta la macchina, che è proprietà di tutti. Non farà riparazioni e ritoc-
12 --- Il Margine 30 (2010), n. 4
chi, ma guasti gravi, perché il suo pensiero e il suo piano sono semplicemente l’autocrazia. Nulla di meno. Non ci deve essere mediazione sul progetto
anticostituzionale. Lui e i suoi devono restare soli con le loro malefatte.
La macchina e la casa della Repubblica (res publica, cioè la “cosa di
tutti”) non appartiene a chi comanda, neppure se fosse designato nel modo
più corretto. Appartiene a tutti, e solamente tutti, o la grandissima parte,
possono modificarla, ma non possono lecitamente rovinarla.
Il Piccolissimo («uomo la cui statura supera l’altezza morale», come
Sturzo disse di Giolitti, che era molto alto), il cui piano è notoriamente attuare il piano eversivo della P2, è l’avversario del bene comune. Va cacciato.
Semplicemente cacciato. Certo, soltanto con la democrazia. Ma la democrazia non esiste senza chiarezza di visione e di volontà. Va cacciato anche per
il suo bene personale, perché è a rischio fisico e psicologico per l’ossessione
del potere che lo possiede e lo costringe a mosse quantitativamente vincenti,
ma umanamente disperate. Come persona fa pena. È il più ingannato di tutti,
avvolto nelle spirali del proprio gioco degli inganni. Che possa vivere i suoi
ultimi anni libero dalla propria malattia. Ma che paghi i conti con la legge,
vincolante anche per lui.
L’opposizione, se vuole esistere, deve proporre agli italiani la cacciata
del Piccolissimo dal governo, dicendone chiarissimamente i motivi stringenti. La sua proposta positiva deve consistere nel perfetto contrario dei piani
della P2. Si tratta, dunque, della difesa positiva della Costituzione nei suoi
valori indisponibili, e della sua evoluzione coerente con i suoi valori fondanti, con la forma democratica e non autoritaria e personalistica dello Stato. Si
tratta del primato indiscutibile dei bisogni e diritti di tutti sulle pretese di pochi o di uno solo: perciò giustizia sociale, lotta ai privilegi, equità e proporzionalità fiscale, quindi attuazione del super-articolo 3 della Costituzione. Si
tratta di salvaguardia del futuro per le nuove generazioni, perciò restaurazione e tutela del territorio, “economia verde”, e non grandiose e pericolose
speculazioni. Si tratta di dare qualità alla vita della popolazione, perciò istruzione, informazione, comunicazione, come beni primari della libertà
giusta, della società aperta, della ricchezza umana, al di sopra di tutti i profitti materiali particolari. Si tratta di restituire sicurezza ad una società artificiosamente spaventata, ridotta nella gabbia degli egoismi tristi, mentre cadono gli steccati fra i popoli, e di farlo non con le politiche ingiuste securitarie e discriminanti, ma con la fiducia nelle legge fatta rispettare anzitutto a
chi è più fortunato, a tutela dei più sfortunati, nativi o immigrati. Se
l’opposizione dicesse chiaramente queste cose – cioè se le pensasse e le vo-
13
lesse davvero (io temo di no) – il popolo capirebbe: l’egoismo umano è distribuito tra tutti; anche l’inganno colpisce tutti; ma alla fine la gente non è
stupida. Puoi ingannare molti molte volte, ma non tutti per sempre. Le difficoltà economiche si affrontano meglio con la solidarietà per il bene generale
e per i diritti deboli, mentre si aggravano sotto la tempesta della rivalità scatenata tra gli interessi particolari e sotto il dominio incontrollato degli interessi forti. La politica può ancora essere ispirata da moralità, giustizia, verità: diciamo pure da fraternità. Se ci crediamo. La debolezza
dell’opposizione è nelle idee assai più che nei numeri. È debolezza morale
più che politica. Ci sono riserve morali nel Paese, ma la politica come mestiere non ha occhi per vederle e non sa accoglierle quando si presentano. Il
Piccolissimo va scacciato dal potere. Non esiste opposizione senza questo
programma risanatore dell’Italia. È possibile se si capisce, se si vuole, se
non si è implicati nel disastro civile attuale. La gente potrà capire, a un certo
punto, se le si dicono subito chiaramente le ragioni della giustizia, della vera
libertà, del vero interesse comune.
Se trovate un po’ giuste queste ovvie considerazioni diffondetele, che
diventino volontà. (Torino, 9 aprile 2010)
Siamo scandalizzati e stanchi
S
iamo un gruppo di credenti e scriviamo per esprimere lo sconcerto
troppe volte represso o manifestato in privato, tra le mura domestiche o
nel confronto con persone amiche. Pensiamo, a questo punto, di dover dichiarare anche pubblicamente quanto ci indignano e ci avviliscono le ingerenze più o meno esplicite della gerarchia ecclesiastica nella vita politica
italiana e, soprattutto, nelle scelte elettorali dei cattolici. Questa indignazione si è riaccesa in seguito alla recente presa di posizione pre-elettorale del
presidente della CEI cardinale Bagnasco, che com’è noto ha indicato
nell’opposizione all’aborto il criterio primo della scelta politica dei cattolici.
Tale pronunciamento è palesemente apparso come tentativo di condizionare
l’elettorato cattolico, orientandolo a un voto di centro-destra. Per quanto il
tiro sia stato parzialmente e malamente “corretto” nei giorni successivi, esso
è apparso all’esterno come espressione della Conferenza Episcopale Italiana
o quanto meno di una corrente prevalente al suo interno.
14 --- Il Margine 30 (2010), n. 4
Storia
La nostra contrarietà tuttavia non è di oggi e si è rinnovata nelle varie
occasioni in cui, in questi anni, la chiesa gerarchica si è servita strumentalmente e, con pari condiscendenza, si è lasciata strumentalizzare da forze politiche che oltretutto non si sono distinte per comportamenti e iniziative particolarmente compatibili con i principi evangelici. Anzi, in ambiti diversi,
che vanno dalla politica fiscale alla sicurezza all’immigrazione alla giustizia
all’istruzione pubblica all’informazione all’ambiente, le scelte ci sono parse
di tutt’altro segno e improntate a tutt’altri obiettivi e interessi. In questi ultimi tempi la classe dirigente in generale, e segnatamente le forze al governo, hanno dato di sé esempi e prove che spesso hanno oltrepassato i limiti
dell’ordinario squallore.
Pensiamo sia sempre inopportuno che la gerarchia ecclesiastica o suoi
alti esponenti fiancheggino apertamente un determinato schieramento politico, fornendo addirittura inequivocabili prescrizioni elettorali. Ma farlo oggi,
agitando ancora una volta la bandiera, spesso abusata, della contrarietà
all’aborto (o alla legge che lo regolamenta?) come priorità assoluta, appare
tanto più sconcertante. Il momento è grave, per tante ragioni: le sperequazioni sociali ed economiche aumentano, la democrazia è in aperta crisi, la
corruzione dilaga, la giustizia viene subordinata agli interessi di singoli e
gruppi di potere, l’informazione viene manipolata e vessata, la clandestinità
è un reato e agli immigrati irregolari vengono negati diritti fondamentali,
come quelli alla prima accoglienza, all’assistenza medica o all’istruzione per
i loro figli. Si assiste inoltre al triste ritorno dell’aborto clandestino o fai da
te, prassi a cui ricorrono sempre più donne, soprattutto immigrate, in forza
di una legislazione che non solo non le tutela ma le persegue. Perché alte
personalità ecclesiastiche e settori rilevanti della gerarchia intervengono in
modo così pesante e inopportuno, ben oltre le loro competenze, nella dialettica politico/partitica italiana? Forse per garantire i finanziamenti alle scuole
private cattoliche, mentre alla scuola pubblica, l’unica davvero di tutti perché accessibile a tutti i cittadini e garante di laicità, vengono tagliati i fondi
con un’irresponsabilità che non ha confronti in Europa? O forse per confermare un potere lobbistico e settoriale che sembra avere poco di cattolico,
cioè di universale? O per perpetuare un clericalismo che accetta di parlare di
“responsabilità dei laici” solo quando fa comodo ai preti?
Siamo scandalizzati e stanchi. A quando un deciso cambiamento di rotta nello stile della comunicazione e del confronto ecclesiali? (Merano, 28
marzo 2010).
15
Il consenso imperfetto
LUIGI GIORGI
I
l consenso sociale e politico è uno dei temi maggiormente attuali della
politica italiana. Ogni uomo o forza politica si accredita, periodicamente,
alti consensi, facendo derivare da questo la facoltà di agire al di là delle regole.
Il consenso però in storiografia rimanda alla stagione del regime fascista. Renzo De Felice nei suoi studi ne fornì forse per primo una periodizzazione e un significato ben preciso. Lo periodizzò, infatti, negli anni fra il
1929 e il 1936 e lo concettualizzò mettendolo a confronto con i regimi conservatori e autoritari classici che precedettero il regime. Ha scritto infatti lo
storico reatino che il fascismo al contrario di questi:
«ha sempre teso (e da ciò ha tratto a lungo la sua forza) a creare nelle masse la sensazione di essere sempre mobilitate, di avere un rapporto diretto col capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni) e di partecipare e contribuire non ad una mera restaurazione di un ordine sociale di cui sentivano tutti i limiti e l’inadeguatezza storica, bensì ad una rivoluzione dalla quale sarebbe gradualmente nato un nuovo ordine sociale migliore e più giusto di quello preesistente. Da qui il consenso goduto dal fascismo»1.
Ma cosa è stato il fascismo? Domanda impegnativa da non dipanare in
poche righe. Tasca ne parlò come di una «controrivoluzione postuma e preventiva», secondo un’analisi fatta con la lente della lotta di classe; Gobetti
ne individuò i caratteri di «autobiografia della nazione», dandogli un senso
etico. La storia ci ha mostrato che probabilmente contenne, fra altri, entrambi gli aspetti citati, “sintetizzati” dal carisma del Duce. Lo stesso Angelo Tasca scrisse che: «per noi definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia»2.
1
2
R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 262.
A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, in R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, cit. p. 220.
16 --- Il Margine 30 (2010), n. 4
E il libro del prof. Ferdinando Cordova, Il ‘consenso imperfetto’ Quattro
capitoli sul fascismo, indagando il tema del “consenso” utilizza forse il metodo migliore per definire il fascismo, ne scrive la storia appunto. Facendo
oltretutto tesoro della testimonianza di Vittorio Foa, che lo stesso Cordova
riporta nell’introduzione, laddove il vecchio partigiano piemontese scriveva
che:
«Negli ultimi tempi si è tornati a discutere se c’era, oppure no, consenso popolare al
fascismo. La cosa che mi stupisce è che se ne parli come, consenso o no, fosse una
storia omogenea nel tempo. Ho vissuto in età consapevole tutto il tempo fascista,
dal 1922 al 1943, così breve nella storia e così lungo da vivere, e ho sperimentato
climi di opinione estremamente diversi fra loro: come confrontare le sensazioni che
provavo verso il fascismo nell’estate del 1924 dopo l’assassinio di Matteotti con
quelle del 1929 dopo la conciliazione con la Chiesa cattolica, oppure nel 1932 al
punto alto della crisi economica, o del 1935, al tempo della conquista dell’Etiopia o
dell’ingresso nella guerra del 1940? … Come giudicare un evento ignorandone il
contesto, come confondere un evento della storia con tutta la storia?»3
Cordova “smonta”, non eludendola nella sua complessità, la categoria
del consenso nei regimi totalitari, e vi “guarda dentro” affidandosi ad una
documentazione inedita. Dai diari di Gian Francesco Guerrazzi, irredentista
e amico personale del Duce, ai documenti dell’Archivio Centrale dello Stato. Il professore calabrese utilizza inoltre quattro casi concreti: due storie
personali (Bergamini e Rygier) e due aspetti più ampi (il problema dei fiduciari di fabbrica e quello dei prefetti e podestà, con attenzione alla vicenda
della città di Reggio Calabria).
Gli aspetti e i fatti concreti proposti dal saggio rappresentano però, a
mio giudizio, un modo che Cordova usa ad arte per parlare di quattro “macro problemi” posti dal totalitarismo fascista nella sua genesi e consolidamento (e quindi nella costruzione del consenso).
Il primo capitolo, con riferimento al caso Bergamini, già direttore del
“Giornale d’Italia” e fiancheggiatore del regime, caduto in disgrazia per i
rilievi (Cordova fa riferimento ad un tono “vigile e paterno”), per quanto
pacati, fatti alla politica mussoliniana tanto da essere aggredito e pugnalato
da ignoti (il giornalista rimarrà colpito dalla rassomiglianza fra Dumini, indagato poi nell’omicidio Matteotti, e uno dei suoi aggressori), può essere
inquadrato nello “sforzo” profuso dal regime nel controllare l’informazione,
3
V. Foa, Questo Novecento, in F. Cordova, Il consenso imperfetto. Quattro capitoli sul
fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. X.
17
finanche quella vicina, che aveva individuato in Mussolini l’interlocutore
adatto per frenare le agitazioni sindacali nel Paese.
Il secondo capitolo, parlando del problema dell’introduzione nelle aziende dei fiduciari di fabbrica legati ai sindacati fascisti (nel quadro complessivo delle difficoltà e delle resistenze incontrate dal modello corporativo
e delle sofferenze dei lavoratori di fronte alla crisi economica del 1929) affronta le difficoltà del regime, mai del tutto risolte, nel “normalizzare” gli
operai e i lavoratori. In appendice viene infatti riportata un’ampia tabella
degli scioperi e dei conseguenti arresti di quel periodo. Tutto a dimostrare
come fosse difficile, se non impossibile, costruire quell’Italia “proletaria e
fascista” perseguita dal regime, che veniva a malapena sopportato nelle roccaforti operaie come Sesto San Giovanni, dove Mussolini parlò accolto da
un freddo silenzio. Il quadro si completa con le resistenze degli industriali
che “scavarono” dall’interno il Fascismo non cedendo quasi nulla nelle posizioni acquisite.
Il terzo capitolo, affrontando la sostanziale sovrapposizione fra podestà
e prefetti di nomina fascista con le vecchie classi dirigenti del notabilato meridionale, si cimenta con le difficoltà del regime nel controllo della burocrazia e della macchina statale, che viveva (e avrebbe vissuto anche dopo la caduta del regime) una sostanziale continuità mal tollerata da alcune frange del
Pnf. Scrive infatti Cordova che per governare il meridione del Paese
«il regime era stato costretto a sottoscrivere un compromesso tacito con le vecchie
classi dirigenti che furono, così, in grado di continuare a gestire gli interessi locali,
pur nel mutato clima politico»4.
Il quarto capitolo, parlando della storia di Maria Rygier, prima anarchica socialista incarcerata per la sua attività, poi neutralista, poi ancora massone e interventista, esule in Francia e infine propostasi a Guerrazzi come spia
a servizio del regime presso il composito e debole fuoriuscitismo antifascista d’oltralpe, esamina il tema, controverso ma innegabile, del ruolo della
polizia politica nella costruzione del consenso e nel “contenimento” del dissenso. Scrive Cordova infatti che
«Coloro i quali sostengono il “consenso” di massa degli italiani al regime, non considerano mai abbastanza … il potere non solo di repressione, ma anche
d’intimidazione, di cui poteva disporre lo stato fascista»5.
4
F. Cordova, Il consenso imperfetto, pp. 196-197.
18
Politica da cristiani
Aggiunge poi lo stesso autore, parlando dei timori di Guerrazzi di fronte alle richieste della Rygier di passare informazioni alla polizia politica, che
«Se tanta era la cautela di un personaggio … che certo, poteva contare non solo sul
proprio prestigio sociale, ma anche su amici altolocati, sarebbe opportuno chiedersi
– e la domanda è retorica – quanto più grande doveva essere la prudenza di coloro
che non godevano, nella vita di tutti i giorni, né di prestigio, né, tanto meno, di conoscenze influenti»6.
Per non arrendersi
alla disaffezione
La qualità della democrazia in Italia
MARCO ALMAGISTI
docente di Scienza Politica, Università di Padova
Cordova, però, come già detto, non nega il consenso di determinati ceti
al Fascismo, ma annota che
«è … ragionevole ritenere che ad esso si intreccia, in maniera inestricabile, un dissenso, il quale in una struttura repressiva, ha difficoltà ad esprimersi nelle forme
della protesta di massa e assume, spesso, il tono dell’ ironia o della mormorazione o
della fronda»7.
Consenso e dissenso in definitiva si intrecciano nello studio di Cordova, e lo sforzo, riuscito, del suo saggio è quello di cogliere i due aspetti nella
rispettive articolazioni tentandone di afferrarne i motivi e le dimensioni.
Uno scritto di chi sa qual è il mestiere di storico e ne usa abilmente gli strumenti e che inevitabilmente è fonte di riflessione anche per l’oggi.
Novità dalla Casa editrice Il Margine (www.il-margine.it)
Astrid Mazzola, Kosovo tutto ok. Attraverso un giovane Paese stanco
di guerra (pp. 256 + 16 pp. a colori, € 17,00)
Il libro si apre con un'accurata ricostruzione storica della regione, soffermandosi poi sugli eventi del recente passato per scandagliarne radici, motivazioni, conseguenze. Frutto di viaggi e incontri con alcuni dei più significativi protagonisti della
storia recente, il testo della giovane autrice getta infine uno sguardo sulla complessa
transizione del presente e propone una chiave di lettura per comprendere il futuro di
un Paese fondamentale nello scacchiere balcanico.
N
orberto Bobbio e Giovanni Sartori ci hanno insegnato che la democrazia è soprattutto un insieme di regole. Il nucleo minimo fondante consiste nell’esistenza di procedure che consentano la libera scelta dei governanti da parte dei governati1. Senza tali condizioni, giusta la lezione dei fondatori della politologia italiana contemporanea, discorrere di democrazia risulta esercizio retorico quando non ingannevole. L’esistenza di questo nucleo minimo di procedure democratiche rappresenta una condizione necessaria, ma non sufficiente, affinché si consolidi e progredisca una democrazia
di qualità. Alle procedure della democrazia, infatti, vanno aggiunte quelle
dimensioni di contesto che ne rendano effettiva l’applicazione. Se è vero che
i governi democratici possono scaturire solo dalla corretta applicazione di
procedure democratiche, purtroppo non è vero l’inverso: l’esistenza di regole democratiche non garantisce mai del tutto dall’utilizzo perverso delle medesime2.
La storia italiana ed europea del Novecento dimostra come la democrazia sia stata distrutta attraverso l’utilizzo dei medesimi istituti democratici,
facendola implodere, “svuotandola” dall’interno. La ricostruzione di tali vicende ci aiuta a rammentare come, da sole, le “buone” regole democratiche
non possano bastare; per consolidare la democrazia e migliorarne la qualità
diviene necessario trasformare queste regole in forza culturale, vivente nella
1
Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino, 1955; Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano, 1993.
2
Per approfondire tali questioni: Marco Almagisti, La qualità della democrazia in Italia.
Capitale sociale e politica, Carocci, Roma, 2009.
5
Ivi, p. 304.
6
Ivi, p. 305.
7
Ivi, p. IX.
19
20 --- Il Margine 30 (2010), n. 4
filigrana della società, diffondendo i principi costituzionali democratici nella
cultura politica diffusa. Maurice Duverger affermò che, in ultima istanza, le
sorti della democrazia si fondano sulle credenze radicate nel cuore delle
persone3. Per utilizzare il linguaggio corrente nella scienza politica, si può
tradurre l’affermazione di Duverger sostenendo che lo stato di salute della
democrazia dipende da quelle indispensabili risorse integrative che definiamo come capitale sociale (valori, significati intersoggettivi, prassi condivise
che tengono assieme la società, favorendo soluzioni prese di comune accordo)4.
Negli anni Cinquanta, il ricordo del sacrificio di cinquanta milioni di
esseri umani in due guerre mondiali, a pochi anni di distanza l’una dall’altra,
ha favorito il radicamento nel cuore di molti della convinzione che la democrazia fosse l’unico sistema politico accettabile, soprattutto se confrontato
con i recenti orrori perpetrati dai nemici della democrazia. Su questa consapevolezza condivisa dalle classi dirigenti e dai cittadini è stato possibile ricostruire le istituzioni della democrazia, in diretta connessione con il capitale sociale sopravvissuto alle logiche liberticide dei totalitarismi.
Dopo la caduta del muro di Berlino abbiamo vissuto l’illusione di una
repentina e sostanzialmente indolore diffusione planetaria della democrazia.
La tragica data dell’11 settembre 2001 resta lì a ricordarci quanto fallace
fosse tale speranza e di quanti rischi (non solo di quante opportunità) si
componga oggi lo scenario “globale”. Inoltre, nelle stesse democrazie liberali, i fenomeni caratterizzati dalla sfiducia verso le istituzioni, pur deflagrando molto raramente in palesi contestazioni del sistema democratico, rischiano di minarne il consenso e di incidere così sul concreto funzionamento
della democrazia. Per tale motivo, negli ultimi anni il tema della qualità della democrazia si è affermato nel mondo quale principale filone di ricerca politologica, assumendo nel nostro Paese alcuni tratti specifici.
Infatti in Italia il capitale sociale è storicamente collegato alle vicende
di lungo periodo di società locali dai profili molto spiccati, quali il Veneto
largo (coincidente con i possedimenti “di terra” della Serenissima repubblica di Venezia), di antica matrice cattolica, e l’Italia centrale innervata
dall’esperienza del municipalismo socialista. Costituisce un indubbio capolavoro della classe politica uscita dalla Resistenza aver saputo costruire relazioni fra queste società e lo Stato nazionale, radicando nei contesti locali i
principali serbatoi di consenso per i maggiori partiti dell’Italia repubblicana
(la DC e il PCI). Tuttavia, negli anni Settanta, la crisi di detti partiti e della
loro funzione di mediazione ha trasformato radicalmente il contesto italiano,
in particolare i rapporti fra istituzioni e società (locali). Tanto che negli anni
Novanta lo scenario politico italiano è cambiato completamente quando parte del Nord (e, segnatamente, il Veneto) ha deciso di ritirare la delega alla
DC per premiare una neo-formazione partitica come la Lega che faceva (e
fa) del riferimento immediato alla società locale il proprio stendardo. Le difficoltà di adattamento del ceto politico proveniente dalla “Prima repubblica”
a questo importante processo di trasformazione hanno amplificato il disagio
della società locale, anche nei termini eclatanti, spesso ripresi dai media.
Utilizzatore finale di tale scontento, Berlusconi propone un modello politico nuovo, fondato sulla centralità del leader mediatico5, ma trova nel
proprio alleato un concorrente formidabile. Infatti, la Lega impiega esplicitamente la propria robustezza organizzativa e il proprio radicamento territoriale quali risorse politiche6. Militanti e simpatizzanti della Lega sono presenti sul territorio, cercano di alimentare l’esistenza di corpi intermedi connessi con il partito, organizzano incontri e feste anche nei comuni più piccoli
(soprattutto nella campagna urbanizzata del Veneto), mantengono un rapporto di prossimità con i cittadini dei ceti meno elevati e, pertanto, più esposti ai rischi dell’anomia e dell’insicurezza. In tal senso, la Lega, rielabora a
modo suo l’eredità dei partiti fondatori della Repubblica, da cui si distacca
per due rilevanti differenze. In primo luogo, il leader, Umberto Bossi, non è
solo il sacerdote della liturgia, bensì il demiurgo del partito, il simbolo vivente, come Berlusconi nel PDL. Inoltre, alla somiglianza organizzativa con
i partiti storici, non corrisponde un’analogia ideologica. Infatti le parole
d’ordine della Lega fanno sempre riferimento immediato alle peculiarità delle società locali, mentre manca il richiamo alla dimensione universalista che
la DC e il PCI, nei loro momenti migliori, seppero riprodurre. Anche per
questo “tenere unito il Paese” e “fare gli italiani” sono compiti più difficili
oggi rispetto a trent’anni fa.
Proprio il confronto con l’esperienza leghista ci può suggerire una duplice osservazione. Innanzitutto, nonostante abbia trovato non pochi sostenitori fra gli intellettuali, il modello di partito “liquido” non può essere recepi-
5
Marc Lazar, L’Italia sul filo del rasoio. La democrazia nel Paese di Berlusconi, Rizzoli,
Milano, 2009.
6
Cfr Almagisti, La qualità della democrazia, cit.
3
Maurice Duverger, La République des citoyens, Ramsay, Paris.
4
Almagisti, La qualità della democrazia.
21
22
to dal Partito Democratico, poiché comporta la rinuncia al ruolo di “cinghia
di trasmissione” del consenso sociale e di “sensore” delle aspettative almeno
di iscritti e simpatizzanti, se non della società più vasta, che solo una struttura organizzativa radicata sul territorio può garantire. Non è affatto casuale
che la flessione elettorale del PD risulti meno ingente laddove il partito può
attingere a forme consistenti di radicamento sociale.
Inoltre, essendo sprovvisto di leader demiurghi (e proprietari), il PD
dovrà percorrere strade originali, aperte e condivise, per ripristinare quel
collegamento fra capitale sociale e politica da troppo tempo interrotto, favorendo la partecipazione di ampi settori sociali.
Dalla formazione alla partecipazione
Chi analizza oggi il sistema politico italiano dal punto di vista delle società locali si trova al cospetto di realtà molto composite e attraversate da
spinte contrastanti. Il richiamo al territorio, infatti, si nutre di ambiguità, non
essendo mai alcuna società locale cromaticamente omogenea e portatrice di
istanze “semplici” e definite una volta per tutte. Si consideri il caso del Veneto, ossia della regione da cui originò lo smottamento della “Prima repubblica” (e per questo laboratorio di processi potenzialmente dilatabili ben oltre i suoi confini): in questa regione si registra una domanda imponente di
formazione socio-politica, che coinvolge in primissimo piano diocesi, parrocchie, associazioni religiose, laiche e di categoria, gli enti locali. Si tratta
di fenomeni che rendono dubbia la reiterata chiave interpretativa degli accadimenti di questa regione attraverso il concetto dell’“antipolitica”. Anziché
rifiutare genericamente l’impegno politico, molti cittadini, fra cui quelli più
giovani, sono alla ricerca di strumenti che consentano loro di incrementare
la propria consapevolezza dei processi che stanno trasformando le nostre
esistenze. Si tratta di un fenomeno degno di attenzione, anche perché in grado di produrre effetti sistemici nei confronti della stessa politica istituzionalizzata. Sospinti dalle inquietudini e dalla vivacità della realtà circostante,
gli stessi partiti stanno cercando di invertire la rarefazione di cui si sono resi
corresponsabili in passato, riproponendo su scala locale proprie scuole di
formazione.
Il caso del Veneto può essere esteso a molteplici realtà locali; in tutti
questi casi, l’aspetto di maggior interesse risiede nelle possibilità di confronto fra i diversi canali di formazione e partecipazione, fra capitale sociale e
23
politica. Infatti, un maggiore attivismo delle società locali può non bastare
da solo a corroborare la qualità della democrazia in Italia. Anche la politica
deve fare la sua parte. Infatti, l’allontanamento fra capitale sociale e politica
ha sortito alcuni effetti negativi per entrambi: le difficoltà di interlocuzione
con le istituzioni, conseguenti alla crisi dei partiti di massa, hanno reso le
reti sociali più segmentate e di “corto raggio”, mentre la classe politica si è
orientata alla massimizzazione della propria autonomia, rivelandosi refrattaria all’innovazione e ad una fisiologica “circolazione delle elite”7.
La sindrome da disaffezione democratica che sta caratterizzando le ultime stagioni della politica italiana nasce anche dalla percezione di scarsa
permeabilità del sistema politico. Una possibile via per ripristinare una soddisfacente qualità della democrazia in Italia è rintracciabile in tutti quei tentativi di ricostruire connessioni e linguaggi condivisi fra capitale sociale e
politica. Per molte ragioni, questa è una sfida che riguarda in primo luogo le
forze politiche oggi all’opposizione e, a partire dal partito più rilevante
dell’area del centrosinistra. Proprio perché le sorti del Partito Democratico,
a differenza dei suoi principali antagonisti, quali il Popolo delle Libertà e la
Lega Nord (ma anche di un alleato come l’Italia dei Valori), non dipendono
dalla parabola di leader carismatici, le strategie per offrirsi all’attenzione
della società civile non possono emulare (al ribasso) quelle perseguite dalle
forze politiche leaderistiche.
Ciò che “tiene assieme” quella vasta porzione di opinione pubblica che
ancora guarda con fiducia al centrosinistra e al PD, che non gradisce
l’offerta politica delle destre e nemmeno accetta passivamente un orizzonte
di “disaffezione democratica”, è “una certa idea dell’Italia”, che emerge
soprattutto a livello di società locale (non necessariamente solo nelle regioni
tradizionalmente orientate verso il centrosinistra, si pensi all’esperienza del
Trentino, ad esempio) e l’attitudine al coinvolgimento nell’attività politica,
emersa puntualmente in occasione dell’elezione del leader della coalizione
di centrosinistra o del segretario del partito, ma esistente quotidianamente
nei valori e nelle prassi di molti cittadini non rassegnati.
7
Cfr. Vilfredo Pareto, Trattato di sociologia generale, Barbera, Firenze, 1916.
24
Corsivo
Fondata sul lavoro
Le svolte della Repubblica
Il circolo vizioso
della xenofobia
EMANUELE CURZEL
ANTONIO RAPANÀ
L
e considerazioni su Moro e la politica italiana negli anni settanta, espresse da Lorenzo Perego sul n. 3/2010 de “Il Margine”, mi hanno
suscitato alcuni pensieri che vorrei condividere con i lettori.
Trovo insoddisfacente il modo in cui (nell’opinione comune e anche,
spesso, nei nostri discorsi) si parla del terrorismo degli anni settanta, quasi
che sia stata una tragica stagione che la nostra Repubblica ha affrontato e
superato: con molto dolore, certo, ma ha superato. Come se non fosse stata
invece una svolta nella nostra storia. Come ho già avuto occasione di scrivere (“Il Margine”, 6/2008), perfino la definizione stessa di “terroristi” è,
secondo me, sbagliata. Terrorista è chi mette una bomba alla stazione, sul
treno, o al mercato, e così intende seminare il terrore facendo strage di persone che non c’entrano niente. Ma quando viene ucciso il presidente del
partito di maggioranza relativa, uno dei protagonisti – forse IL protagonista
– di una delicata fase politica, non è terrorismo. È violenza politica.
Non voglio dare attenuanti, anzi. Voglio sottolineare che quello che è
stato chiamato “terrorismo”, in Italia, ha spesso scelto bene i suoi obiettivi.
Pensiamo a Roberto Ruffilli: anche in quel caso fu una selezione molto precisa. Quindi il 1978 andrebbe riletto in modo più cinico, meno consolatorio:
non è stata una battaglia vinta, o forse è stata vinta solo sotto certi aspetti,
perché lì la storia ha preso un’altra direzione (e non è detto che quella direzione non stesse nei programmi stessi dei “terroristi”, o almeno di alcuni di
essi). Oggi, riflettendo sul biennio 1992-1993 (le morti di Falcone e Borsellino, la bomba ai Georgofili…) siamo di fronte allo stesso problema. Pasolinianamente sappiamo tutti molto bene che le bombe, quelle bombe, hanno
avuto a che fare con quello che è successo dopo. Forse ne stanno emergendo le prove.
La rilettura degli ultimi trenta o quarant’anni della nostra storia dovrebbe dunque essere meno consolatoria, meno ottimistica, e avere il coraggio anche di riconoscere i momenti di svolta. Ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, ciò che non avrebbe dovuto essere e si è invece realizzato.
Il Margine 30 (2010), n. 4 --- 25
I
drammatici fatti di Rosarno esprimono l’inquietante realtà di un Paese
caratterizzato da pluralità di culture, eppure incapace e perfino ostile, almeno in larghi settori della società, a elaborare e sedimentare una narrazione
collettiva coerente con la realtà strutturale, necessaria ed utile,
dell’immigrazione. Al contrario, il discorso pubblico sull’immigrazione e
sulle politiche per la convivenza appare sempre più inquinato dalla saldatura
temibile fra l’opera di costruzione di stereotipi e pregiudizi svolta dal sistema mediatico, la cultura e l’azione discriminatorie e talvolta apertamente
razziste di governi e di alcuni partiti politici, e la diffusione di forme di xenofobia popolare1. Ma l’insinuazione nella società di un mix ideologico di
populismo, di étnos escludente delle piccole patrie, di aggressività liberista,
di rifiuto di vincoli sociali e di autodifesa non è stato l’esito di un processo
spontaneo ed ineluttabile, ma la determinazione di una pervicace operazione
politica condotta dagli imprenditori politici dell’intolleranza. In un contesto
sociale di crescente insicurezza e di diffusa solitudine senza legami gli imprenditori politici e mediatici del razzismo hanno cavalcato spregiudicatamente disagi e paure sul mercato delle emozioni e della politica, socializzando il rancore popolare, legittimando pulsioni e discorsi xenofobi, indirizzando l’insicurezza verso il comodo capro espiatorio dello straniero-nemico.
Ed è stato gravissimo errore strategico delle forze politiche e sociali progressiste non avere assunto la questione dell’immigrazione e della convivenza plurale come decisivo tema della lotta per la democrazia, cercando di
costruire e socializzare un’altra narrazione ed un’altra pedagogia in grado di
contrastare la tendenza al progressivo imbarbarimento xenofobo della comunità.
1
Per l’analisi dei caratteri, delle tappe e dello sviluppo di queste tendenze importanti contributi in A. Rivera, Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, edizioni Dedalo, 2009
e in A.A.V.V., Rapporto su razzismo in Italia, Manifestolibri, 2009.
26 --- Il Margine 30 (2010), n. 4
Il manifesto ideologico e politico del razzismo istituzionale
Un inquietante salto di qualità nel circolo vizioso della xenofobia è stato indubbiamente rappresentato dall’adozione da parte del governo di centro-destra di misure legislative improntate esplicitamente all’ideologia del
rifiuto aggressivo della convivenza plurale. Riconoscendo legittimità istituzionale alle chiassate becere e retrive della Lega, le disposizioni normative
del cosiddetto «Pacchetto sicurezza»2 definiscono un vero e proprio manifesto ideologico del razzismo istituzionale, perfino orgogliosamente esibito. Si
tratta, infatti, di provvedimenti legislativi che drammatizzano e sviluppano
organicamente la pericolosa tendenza, già in atto da qualche anno, a strutturare un «diritto speciale e diseguale» per lo straniero, in evidente violazione
di norme fondamentali della Costituzione e delle Convenzioni internazionali. Il governo Berlusconi ha inteso così realizzare il programma, urlato nelle
piazze e nelle aule parlamentari, di condurre la guerra all’immigrazione irregolare con qualunque mezzo, perfino con «cattiveria»3, ed insieme di aggravare la precarietà giuridica e sociale anche dei cittadini stranieri che pure
soggiornano regolarmente.
In effetti la repressione contro la componente irregolare della presenza
straniera è stata storicamente principale preoccupazione della politica
dell’immigrazione dei vari governi nazionali, sia pure con accentuazioni diverse. La legge «Turco-Napolitano», approvata nel 1998 dal centro-sinistra,
ha proposto azioni di contrasto contro i «clandestini», prospettando però per
i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti anche un orizzonte di possibili
diritti, secondo la logica di «rigore e solidarietà». Nelle politiche dei governi
di centro-destra, invece, è del tutto scomparsa la solidarietà, ed è stato esaltato ossessivamente il rigore del pugno di ferro, con norme inutilmente vessatorie e repressive ispirate dalla oscena equazione «insicurezza uguale immigrazione». Ora, con le novità legislative introdotte dal «Pacchetto sicurezza», la criminalizzazione dello straniero irregolare si è spinta fino a crea2
3
Il «Pacchetto sicurezza» è costituito da un insieme di provvedimenti legislativi ispirati
da una comune ossessione securitaria e repressiva: il D. Lgs. 3 ottobre 2008, n. 159 relativo alle procedure di riconoscimento e di revoca dello status di rifugiato; il D. Lgs 3
ottobre 2008, n. 160 relativo alla disciplina dei ricongiungimenti familiari; la L. 24 luglio 2008, n. 125, «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica»; la L. 15 luglio
2009, n. 94, «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica».
Della elevazione della cattiveria a categoria della politica è autore il ministro Maroni:
«Con i clandestini dobbiamo essere cattivi» (Corriere della Sera, 2 febbraio 2009).
27
re una nuova figura: quella della persona illegale, non-persona esclusa dai
normali percorsi di vita della comunità umana. Inasprendo l’impostazione
prevalentemente penale della disciplina dell’immigrazione, è stato introdotto
il reato penale di ingresso e soggiorno irregolare, sconvolgendo il profilo
costituzionale dell’illecito penale: infatti, viene stigmatizzata una persona
come criminale non per aver commesso fatti lesivi di beni meritevoli di tutela penale, ma per la sua condizione soggettiva, esistenziale, di appartenere
ad una categoria, quella del migrante irregolare. Alla condizione di irregolarità, inoltre, è stata collegata l’aggravante di clandestinità per qualsiasi reato
– indipendentemente dalla gravità del fatto commesso – con l’aumento di
pena di un terzo e l’esclusione dal beneficio della sospensione della pena:
una evidente violazione del principio costituzionale di eguaglianza, destinata
a creare illegittime e paradossali disparità di trattamento tra persone che
commettono l’identico reato. Il capitolo delle soluzioni repressive prevede
poi nuove tipologie di reati e di espulsioni e il prolungamento da 2 a 6 mesi
della permanenza degli stranieri irregolari nei centri di identificazione e di
espulsione (CIE), strutture detentive persino peggiori delle carceri. È stata
attivata, infine, tutta una serie di restrizioni giuridiche dirette a creare terra
bruciata attorno alla persona priva del permesso di soggiorno: il divieto di
matrimonio, di affittare un’abitazione e di effettuare rimesse di denaro alle
famiglie, e di accedere agli atti di stato civile e ai pubblici servizi, con
l’eccezione della sanità e delle prestazioni scolastiche obbligatorie, da cui
però secondo recenti orientamenti giurisprudenziali sarebbe esclusa
l’iscrizione al nido e alla scuola dell’infanzia. Poiché per gli imprenditori
politici dell’intolleranza gli immigrati in quanto tali sono non-persone, il cui
solo valore è quello di mano d’opera a basso costo per lavori troppo faticosi,
pericolosi o umilianti, il «Pacchetto sicurezza» si è preoccupato anche di inasprire le condizioni di insicurezza e precarietà degli stessi stranieri regolari. Al fine della «promozione» della loro integrazione sociale è stato introdotto il permesso di soggiorno a punti che prevede, proprio come avviene
per la patente, un rigido sistema di parametri premiali o sanzionatori, e
l’espulsione nel caso dell’azzeramento dei crediti; è stato appesantito fino a
200 euro l’iniquo balzello che i cittadini stranieri già pagano – 72,12 euro –
per il rilascio di un permesso di soggiorno normalmente consegnato dopo
mesi di attesa e spesso già scaduto; è stata operata una stretta vessatoria sui
requisiti per la residenza, condizione per l’accesso a fondamentali diritti sociali, e per il ricongiungimento familiare, fondamentale fattore di stabilizzazione e di integrazione sociale; è stata umiliata la legittima e diffusa doman-
28
da di riforma della legge sulla cittadinanza, appesantendo le condizioni per
l’acquisizione della cittadinanza per matrimonio; si è reso quasi impossibile
il rilascio del soggiorno ai minori non accompagnati, al compimento della
maggiore età, pur al termine di complessi percorsi di inserimento attivati dai
servizi sociali.
Miti e realtà degli immigrati irregolari
L’architrave puramente ideologica dei durissimi provvedimenti che
compongono il «Pacchetto sicurezza» è costituita sostanzialmente dalla presunzione assoluta di pericolosità sociale dell’immigrato irregolare, derivata
automaticamente dalla sola condizione soggettiva della irregolarità del soggiorno. Secondo l’idea di fondo che ispira questa legislazione, insomma, chi
entra irregolarmente in Italia ha già violato le norme dello Stato e, quindi, ha
rivelato una naturale propensione a delinquere4. La realtà sociale della grande maggioranza degli immigrati irregolari, al contrario, non giustifica in alcun modo questa operazione di demonizzazione.
Certamente l’immigrazione è fenomeno complesso, ma vi sono alcune
cose molto semplici da capire: l’immigrazione è oggi essenzialmente
un’immigrazione per lavoro, e per lavoro a bassa qualificazione di cui la nostra economia ha un bisogno estremo. Ma, per assumere dall’estero la forza
lavoro necessaria, i datori di lavoro hanno bisogno di canali agili e realistici,
concretamente praticabili, che non sono mai esistiti. Il meccanismo attualmente in vigore è basato, come è noto, sulla programmazione dei flussi di
ingresso che prevede la determinazione annuale di quote di ingresso per motivi di lavoro – generalmente del tutto insufficienti rispetto al reale fabbisogno di famiglie ed imprese – e la chiamata da parte di un datore di lavoro
del lavoratore straniero ancora all’estero e mai visto in faccia. Un meccanismo assolutamente irrealistico di incontro tra offerta e domanda di lavoro ed
una crudele, disumana lotteria5 che brucia la speranza di conquistare un po4
La presunzione di pericolosità sociale dello straniero irregolare è già stata confutata dalla Corte Costituzionale: «una condizione soggettiva – il mancato possesso di un titolo
abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato – di per sé non è univocamente
sintomatica di una particolare pericolosità sociale» (Sentenza del 5 marzo 2007, n. 78).
5
A fronte dei 156.000 ingressi fissati per il 2008 dall’ultimo decreto flussi sono state presentate 665.000 domande di assunzione, con uno squilibrio di 4 domande per ogni ingresso autorizzato.
29
sto sul filo dei secondi, perché solo le domande presentate nei primissimi
minuti di avvio della procedura hanno qualche possibilità di essere accolte.
In effetti questo meccanismo di programmazione dei flussi di ingresso non
ha mai regolato nulla: parte consistente dei lavoratori immigrati che oggi
vivono e lavorano regolarmente nel nostro Paese, contribuendo a produrre
sviluppo e ricchezza per tutti e rispettando le leggi, è stata costretta ad entrare in Italia dalla porta di servizio, perché il canale legale era, e continua ad
essere, concretamente impraticabile. Il normale canale alternativo è costituito dall’ingresso con un visto turistico, concesso magari non dall’Italia, ma
da uno dei Paesi europei dello Spazio Schengen6 entro il quale è possibile
poi circolare liberamente. Questo visto, però, comporta l’assoluto divieto di
lavorare e consente di soggiornare in Italia solo per un massimo di 3 mesi, al
termine dei quali si è obbligati comunque a rientrare nel Paese di provenienza, anche se si ha la disponibilità di un lavoro. Naturalmente, dato che si
tratta di lavoratori e di lavoratrici e non di turisti, nessuno fa rientro, scegliendo di protrarre il soggiorno, pur in condizioni di irregolarità, lavorando
in «nero» e recuperando poi legalità e libertà solo grazie alla casuale vincita
nella successiva lotteria delle quote7 o all’ennesima sanatoria8. Questa è stata l’esperienza di gran parte dei lavoratori stranieri oggi positivamente inseriti nella comunità dei cittadini: brutti e cattivissimi clandestini poi diventati
buonissimi e utilissimi grazie ai provvedimenti di sanatoria. Irregolari, quindi, non si nasce, si diventa, così come da clandestini si diventa regolari; e da
regolari si rischia sempre di precipitare nuovamente nell’irregolarità: non va
dimenticato, infatti, che tra gli attuali irregolari ci sono anche persone che
hanno perso il permesso di soggiorno per la colpa di aver perso il lavoro e di
non avere trovato una nuova occupazione entro 6 mesi.
La cosa più sconfortante è che nemmeno queste leggi crudelmente persecutorie sono bastate a soddisfare le pulsioni razziste presenti nell’attuale
6
Lo Spazio Schengen, entro il quale i confini interni sono aboliti, comprende attualmente
Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera e Ungheria.
7
In effetti negli ultimi anni il meccanismo dei flussi ha funzionato come sanatoria mascherata, autorizzando l’ingresso in Italia di lavoratori stranieri che già vi soggiornavano e vi lavoravano da anni.
8
Tralasciando l’ultima sanatoria del 2009 tra il 1986 ed il 2002 vi sono state 5 sanatorie
che hanno regolarizzato 1.429.638 stranieri: numero superiore agli ingressi autorizzati
nello stesso periodo.
30
governo, responsabile anche dell’infamia, esibita con vanto, dei respingimenti in mare dei disperati che sulle carrette del mare, a rischio della vita,
cercavano un rifugio dalle persecuzioni di regimi dittatoriali o da devastanti
conflitti locali9. In violazione di norme della Costituzione e delle Convenzioni internazionali sul diritto d’asilo centinaia di persone, cui è stato impedito di fare domanda di protezione internazionale, sono state rigettate nei
campi libici, dove si praticano violenza e torture, o nei loro Paesi di provenienza da cui erano fuggiti per sottrarsi a persecuzioni e a violazioni dei più
elementari diritti umani.
Si tratta di messaggi e politiche magari convenienti sul mercato delle
emozioni e delle competizioni elettorali, ma assolutamente fallimentari nel
proporre qualunque ipotesi di governo della questione complessa
dell’immigrazione e della convivenza pluriculturale. La presenza di oltre 4
milioni di cittadini stranieri10, provenienti da oltre 130 Paesi, impone di assumere piena consapevolezza dell’ampiezza e dei caratteri del fenomeno
migratorio. La situazione, infatti, è tale che non si tratta tanto di decidere se
volere o meno una società pluriculturale, che è già realtà strutturale, ma di
definire in che modo governare un fenomeno ineludibile ed anche utile per
costruire, nella complessità dei problemi e dei processi, una convivenza plurale e arricchente. Siamo, insomma, destinati a confrontarci e a convivere
9
L’allarmismo contro questa area di immigrazione irregolare non è giustificata nemmeno
dalla sua dimensione quantitativa: infatti, si stima che mediamente solo il 13-15% del
totale annuale degli ingressi irregolari avvenga attraverso questa via disperata (L. Coslovi, Brevi note sull’immigrazione via mare in Italia e in Spagna, CeSPI, 2007).
D’altra parte non si tratta nemmeno di immigrati irregolari, ma in maggioranza di perseguitati che hanno diritto a qualche forma di protezione internazionale: Fortress Europe ha accertato, sulla base di dati ministeriali, che tra gennaio ed ottobre del 2008
sono sbarcate a Lampedusa 27.000 persone (2.124 i minori non accompagnati), in gran
parte in fuga dalla guerra del Corno d’Africa; il 75% ha fatto domanda di asilo ed il
50% dei richiedenti ha avuto un permesso di soggiorno per asilo politico o per protezione internazionale. Dal 1988 al 2009 sono stati 14.978 i «morti di frontiera», nel deserto o in mare, di cui 4.193 nel Canale di Sicilia (Fortress Europe, Osservatorio delle
vittime dell’emigrazione).
10
Il XIX Rapporto Immigrazione. Dossier Statistico, Caritas-Migrantes, 2009, indica in
3.891.295 gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2009, pari al 6,5% della complessiva popolazione residente; considerando anche gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma non iscritti negli elenchi anagrafici della popolazione residente, la presenza
straniera regolare è stimata in circa 4.300.000 unità, cui si devono aggiungere gli stranieri irregolari stimati in circa 4-500.000 presenze.
31
stabilmente con questa realtà, che segnerà profondamente anche gli scenari
del nostro futuro11, poiché tenderà ad accentuarsi la complessa interazione
tra fattori di spinta e fattori di attrazione che hanno alimentato i flussi migratori in questa fase storica.
L’immigrazione tra fattori di spinta e di attrazione
Gli immigrati, infatti, non sono «invasori» che penetrano e si insediano
in «casa nostra», da nessuno chiamati. Certamente i flussi migratori, che dagli anni settanta si sono diretti verso nuovi Paesi di destinazione come
l’Italia e gli altri Paesi dell’Europa meridionale, sono stati indotti da un
complesso di fattori di natura diversa, riconducibili sostanzialmente a fattori
di spinta da parte dei Paesi d’origine: l’inasprimento delle disuguaglianze
provocate dai processi di globalizzazione, la dissoluzione politica ed economica dei regimi del socialismo reale, la violenza terribile delle pulizie etniche e delle guerre locali, la repressione di regimi dittatoriali. Tuttavia, se i
fattori espulsivi hanno determinato un potenziale migratorio, la spinta si è
tradotta in concreto flusso solo perché ha interagito con fattori di attrazione
espressi dal sistema sociale ed economico dei Paesi di destinazione. Infatti
«è opportuno sottolineare con forza che in generale l’effetto spinta si
concretizza solo nella misura in cui esiste una capacità di attrazione da parte
di un’altra area: l’effetto di richiamo»12. Dalla crisi del modello fordista di
produzione e di accumulazione, infatti, si sono dispiegati, anche nel nostro
Paese, processi di frammentazione e di decentramento produttivo, di terziarizzazione, di segmentazione del mercato del lavoro in una pluralità di mercati distinti per profili professionali e condizioni lavorative. Questi processi
hanno strutturato una specifica domanda di forza lavoro connotata da specifiche caratteristiche qualitative – bassa qualificazione, flessibilità, frammentarietà – che ha trovato solo nei nuovi immigrati i lavoratori disposti a soddisfarla. Oltre alla domanda di lavoro, che rimane il fattore più significativo,
11
12
Gli studi sull’evoluzione della presenza straniera stimano che nel 2030 la popolazione
straniera residente in Italia crescerà a 10,7 milioni, pari al 16% della popolazione
complessiva (ISTAT, Previsioni demografiche, 2008).
M.I. Macioti, E. Pugliese L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Laterza editori, 2010, p. 62. Gli studi di E. Pugliese costituiscono un contributo fondamentale per comprendere i caratteri e le forme di insediamento dell’immigrazione in
Italia.
32
hanno agito anche altri aspetti quali la situazione sociale e politica, le trasformazioni del sistema delle aspettative sociali, il carattere della legislazione e della politica dell’immigrazione, le forme del sistema di protezione sociale. L’insieme di questi fattori ha espresso un effetto di attrazione, richiamando una crescente immigrazione da lavoro: braccia necessarie, utili e
convenienti per lo sviluppo del sistema sociale ed economico in generale e
per i profitti degli imprenditori. Pure di quelli «padani», che magari hanno
sbraitato contro l’«invasione degli infedeli», ma che hanno messo a tacere
ogni ansia di purezza etnica e culturale di fronte al valore sacro degli schei.
E lo stanco campionario dei luoghi comuni, dal «rubano il lavoro» fino al
«si prendono tutti i servizi che noi paghiamo con le nostre tasse», si sgretola
di fronte ai numerosi vantaggi documentati non dalle narrazioni delle «anime belle» dell’associazionismo per la convivenza interculturale, ma dalle
analisi rigorose di severe istituzioni quali la Banca d’Italia.
«L’afflusso di immigrati dall’estero nell’ultimo decennio ha sostenuto la crescita
dell’occupazione in Italia, contribuendo a contrastare il progressivo invecchiamento
della popolazione. … La crescita della presenza straniera non si è riflessa in minori
opportunità per gli italiani che sembrano invece accrescersi per gli italiani più istruiti e per le donne»13.
Il lavoro immigrato con il suo carattere di complementarietà e di non
concorrenzialità, dunque, ha per lo più sostituito i lavoratori italiani nelle
occupazioni meno qualificate e meno pagate, più faticose e più povere di
prospettive di promozione sociale, “i lavori che gli italiani non vogliono più
fare”, come si è soliti ripetere, ma anche a condizioni che non sono disposti
ad accettare in un contesto di deregolamentazione e di svalorizzazione del
lavoro. Ma oltre a svolgere una funzione sostitutiva nel mercato del lavoro,
l’immigrazione ha persino inventato utilissime figure professionali, prima
praticamente inesistenti, come nel caso delle lavoratrici dell’assistenza alla
famiglia e alla persona, le cosiddette «badanti»: le utilissime lavoratrici straniere, soprattutto dell’Est europeo, non solo coprono il deficit assistenziale
del welfare pubblico, ma consentono una più ampia partecipazione al lavoro
delle donne italiane liberate dal faticoso impegno nelle attività di cura ed
assistenza14.
13
14
Banca d’Italia, L’economia delle regioni italiane nel 2008, p. 62.
Una esauriente ricerca sulla complessa realtà delle “badanti” in F. Vietti, Il paese delle
badanti, Meltemi, 2010.
33
Abbondante e flessibile, generalmente malpagato15, il lavoro immigrato
offre anche il vantaggio di una forza lavoro prodotta a costo zero, perché i
costi della sua riproduzione sociale sono interamente sostenuti dal Paese di
origine, e di costituire, nel medio periodo, anche una risorsa fondamentale
per l’equilibrio del sistema previdenziale. Infatti, la costante crescita
dell’occupazione straniera, almeno fino al 2008, a fronte della sostanziale
stabilità di quella italiana, e la più giovane età media dei lavoratori stranieri
(in media 30,9 anni, contro 43,5 degli italiani: generalmente ben lontani,
dunque, dal godimento delle prestazioni pensionistiche), stanno svolgendo
un ruolo determinante nel puntellare lo squilibrio tra la popolazione attiva e
quella a “riposo”, concorrendo con i loro contributi a tenere in piedi il sistema pensionistico italiano. Non a caso, proprio per effetto del maggiore
apporto contributivo degli immigrati, insieme all’aumento delle aliquote
contributive, il bilancio dell’INPS dopo decenni di passivo ha cominciato a
virare in positivo fino a realizzare un avanzo di circa 6,9 miliardi nel 2008:
magari non saranno i lavoratori stranieri a salvare l’INPS, ma intanto loro
stanno pagando le nostre pensioni16. Anche l’altro luogo comune che imputa
agli immigrati di essere ingordi e privilegiati fruitori delle prestazioni del
welfare, generosamente pagate dalle tasse degli italiani, non regge alla prova
delle verifiche analitiche come quella proposta, ad esempio, dall’ultima Relazione annuale della Banca d’Italia che, sulla base dei dati riferiti al 2006,
stima che
«gli stranieri che rappresentavano il 5% della popolazione residente contribuivano
per circa il 4% alle entrate derivanti dall’Irpef, dall’Iva e dalle accise, dai contributi
sociali e dall’Irap, e assorbivano circa il 2,5% della spesa per istruzione, prestazioni
pensionistiche, sanitarie e a sostegno del reddito»17.
15
16
17
Molte ricerche hanno cercato di stimare il differenziale retributivo a svantaggio dei lavoratori stranieri rispetto ai colleghi italiani: la Banca d’Italia stima il gap salariale
mediamente superiore al 22% (Banca d’Italia, Relazione annuale sul 2008, p. 130), valore sostanzialmente confermato anche dalla ricerca della Fondazione Leone Moressa I
livelli retributivi dei dipendenti stranieri e i differenziali con gli italiani, 2009.
Sull’effetto positivo dell’occupazione straniera sui conti previdenziali; A. Stuppini, E
l’immigrato aiuta la pensione degli italiani, www.lavoce.info, 1 dicembre 2009 e G.
Cazzola, Gli immigrati ci stanno già pagando la pensione, Il Riformista, 31 gennaio
2010.
Banca d’Italia, Relazione annuale sul 2008, p. 133. Uno studio puntuale dei complessi
effetti dell’immigrazione sulla finanza pubblica è contenuto in ISAE, Rapporto ISAE:
politiche pubbliche e redistribuzione, 2009.
34
Scritti su Giuseppe Dossetti
Gli immigrati, insomma, danno più di quanto ricevono, determinando
effetti positivi perfino sui conti della finanza pubblica.
L’esistenza cristiana
del presbitero Dossetti
L’immigrazione, questione della nostra democrazia
Prima parte1
Anche da una sommaria analisi dell’esperienza migratoria in Italia emerge, quindi, un positivo quadro di utilità dell’immigrazione, in cui tuttavia non può esaurirsi la consapevolezza della complessità dei problemi e dei
processi con cui deve confrontarsi una politica per l’inclusione sociale delle
persone migranti e la convivenza plurale di tutti i cittadini. Soprattutto sarebbe miope e fallimentare limitarsi a opporre – secondo un diffuso approccio meramente difensivo – alla politica di criminalizzazione e di marginalizzazione delle persone straniere il valore della convenienza economica. Questa argomentazione, infatti, rischia di immiserire l’orizzonte culturale e politico della convivenza pluriculturale nel modello dell’inclusione subordinata
che considera il cittadino straniero esclusivamente nella condizione limitante di mero lavoratore, cui consentire tutt’al più precarie opportunità di inserimento nel sistema produttivo, ma negando con durezza il pieno accesso ai
diritti della persona e del cittadino.
La situazione oggi impone un salto di qualità nella mobilitazione delle
coscienze e nell’iniziativa politica non tanto per dare voce all’indignazione,
ma soprattutto per costruire e socializzare, dentro la materialità dei processi
sociali e culturali, un’altra narrazione dell’immigrazione ed una politica della convivenza interculturale che non condanni il Paese alla barbarie della
molteplicità etnica caotica, separata, conflittuale. Le scandalose leggi varate
dall’attuale governo contro gli immigrati iniettano veleno razzista nel senso
comune, sono destinate ad aggravare e drammatizzare tutti i problemi che si
illudono di risolvere, rischiano di compromettere l’identità democratica del
nostro Paese. Non è più possibile sottrarsi all’impegno – finora sviluppato
con incisività solo dalla Chiesa – di assumere la questione
dell’immigrazione e della convivenza plurale come tema strategico della
democrazia: perché non è questione settoriale che riguardi solo gli immigrati
cui dedicare tutt’al più una episodica solidarietà, ma investe le forme della
convivenza e la qualità dei rapporti sociali, nella loro globalità, dell’intera
comunità.
35
FABRIZIO MANDREOLI – ATHOS RIGHI
P
ochi giorni dopo la morte di don Giuseppe Dossetti Pietro Ingrao – antico dirigente del Partito Comunista Italiano – scriveva in un articolo:
«Caro Don Giuseppe … questo suo farsi monaco e insieme stare nella Istituzione
ordinante – forse si potrebbe dire, semplificando, questo ‘contemplare’ e ‘fare’ in un
tale tempo di transito che Lei ha chiamato la ‘fine della Cristianità’, ecco qui è il
punto che per me è stato il Suo fascino e un enigma. Qui la Sua autentica esperienza
su cui mi pare essenziale interrogarsi. E forse, cercando su questo sentiero, ci incontreremo anche con la Sua così manifesta ricerca dell’Oriente, di risalire alle radici di
un’enorme scaturigine di religiosità. E Le confesso che allora la sua vicenda mi appare anche meno italiana, più tipica di un tempo che vede enormi dislocazioni globali (e anche terribili ritorni di fondamentalismo). Non riesco a staccare la piccola
comunità monacale di Monteveglio da queste domande: quei pochi e le mutazioni
universali che stanno aprendo terremoti nel mondo, e anche nei legami tra vita e lavoro, tra agire e contemplare. E forse è solo su di esse che è chiamata a ritessersi, a
questo livello, il dialogo tra credenti e non credenti: anche su quel nodo del lavoro
che è l’inizio e la base della Costituzione. Ho in mente un’immagine singolare: Lei,
don Giuseppe, in abito di sacerdote celebrante, nella solennità dei paramenti sacri,
con uno sguardo quasi assalito da un appello, come se uno La chiamasse e Lei si
volgesse al richiamo. Quell’immagine mi fa un po’ paura.
Mi è più dolce, molto più dolce, lei che indossa quel largo saio di monaco sul corpo
alto e magro. Credo (mi sembra) che Lei abbia ragionato, nella sua esistenza sulla
connessione fra quei due abiti, in termini che io non so affrontare, ma certo in un
rapporto con tempi straordinari in cui viviamo (ricorda le ore abiette – come si vedono chiare oggi! – della guerra del Golfo?). … Addio Don Giuseppe, uomo di pace»2.
1
Il testo in versione differente e divulgativa uscirà per le edizioni Tau che qui ringraziamo.
2
P. Ingrao, Il mistero, in Dossetti tra Chiesa e Stato, Reggio Emilia 1997, 60-61.
36 --- Il Margine 30 (2010), n. 4
Ingrao, partendo da premesse culturali ed esistenziali molto diverse,
sembra cogliere, con acutezza e amore, alcune delle prospettive fondamentali della vita dell’uomo e del presbitero Dossetti. Su queste prospettive cerchiamo ora di compiere una piccola ricostruzione nella convinzione che esse
siano tutt’ora, più che mai, eloquenti.
prosegue a Reggio e alla facoltà giuridica dell’università di Bologna5. Sono
questi gli anni di diversi contatti con la vita ecclesiale reggiana, mediati in
maniera decisiva dall’incontro e dalla protratta frequentazione di don Dino
Torregiani. Lo stesso Dossetti, ancora nel discorso all’Archiginnasio, ricorda Don Dino:
«il prete dei carcerati e degli zingari, che riempì il mio impegno, nell’Azione Cattolica, dei contenuti sempre vitali della liturgia da un lato, e dall’altro di un’attenzione
amorosa e fattiva agli umili, agli emarginati, ai nomadi e forse – aggiunge Dossetti
– mi si è attaccato un po’ il male del nomade, che non contraddice con la mia stabilità»6.
Una lunga esperienza di vita
Nel discorso pronunciato da Don Giuseppe Dossetti all’Archiginnasio
di Bologna nel 1986 egli riferì – applicandolo alla sua esperienza di vita –
l’episodio contenuto nel testo i racconti dei Chassidim di Martin Buber:
«Rabbi Bar … pregò un giorno il Rabbi Giacobbe Isacco … suo maestro: Indicatemi una via universale al servizio di Dio. Rabbi Giacobbe Isacco rispose: ‘Non si deve dire agli uomini quale via devono percorrere. Perché c’è una via in cui si serve
Dio con lo studio e un’altra con la preghiera, una col digiuno e un’altra mangiando.
Ognuno deve guardare attentamente su quale via lo spinge il cuore, e poi quella
scegliere con tutte le sue forze»3.
Probabilmente l’esistenza di Don Giuseppe Dossetti può essere letta attraverso questa dedizione di sé alla propria via con tutte le proprie forze, con
una totale spendita di sé nelle vicende che hanno caratterizzato la sua esistenza. Vi è una sorta di passione d’amore e desiderio di totalità che sono
come una risposta all’eccesso di amore e di grazia da cui egli si sente prevenuto. Tale passione e «volontà di consacrazione nella sequela di Cristo»4
innerva dall’interno la sua vita di uomo, di credente e infine di presbitero.
Don Giuseppe, infatti, riceve il sacerdozio in età matura nel 1959, a quarantasei anni, dopo una lunga esperienza di vita senza la quale la ricchezza del
suo ministero sacerdotale sarebbe, semplicemente, incomprensibile.
Egli nasce a Genova nel 1913 e trascorre la sua infanzia e adolescenza
a Cavriago, un paese della provincia di Reggio Emilia. La sua formazione,
segnata dall’ambiente sociale e dalla figura molto importante della madre,
Nel 1934 Dossetti, dopo l’intenso studio a Bologna, è alla Cattolica di
Milano per l’ulteriore approfondimento degli studi giuridici dove viene in
contatto con padre Gemelli e con Giuseppe Lazzati. Nel contesto di un lavoro di ricerca scientifica molto impegnata entra, solo per breve tempo, nei
Missionari della regalità guidati da padre Gemelli nel 1935 per poi, nel
1950, decidere di entrare nell’istituto secolare dei Milites Christi diretto da
Lazzati, emettendo i voti nel 1951. Le date aiutano a comprendere come negli anni milanesi e negli anni della guerra – quindi tra, all’incirca, il 1935 e
il 1951 – avviene una progressiva determinazione interiore nella propria
scelta di consacrazione a Dio. Negli scritti di Dossetti di quel periodo si intravede una crescente chiarezza della chiamata, per pura grazia e dono misericordioso, ad una vita di donazione totale a Dio, di «immolazione
nell’amore»7. Suor Agnese Magistretti riporta un episodio narrato dalla madre di Dossetti che, in maniera simbolica, permette di intravedere le radici
profonde di questa ricerca di una totalità di consacrazione:
«quando don Giuseppe era ancora molto giovane (18 anni) andò con la mamma a
Torino, in un anno in cui la sacra Sindone era offerta alla venerazione dei fedeli
(1931). E la mamma ci disse: ‘Quando ho visto come la guardava, ho capito che
l’avevo perso’. Aveva capito cioè che egli era stato totalmente preso dal Signore, in
5
3
4
G. Dossetti, Discorso dell’Archiginnasio, in Id., La parola e il silenzio, Bologna 1997,
35.
G. Dossetti, Appunti sulla forma communitatis, in G. Alberigo (ed.), L’«officina bolognese», Bologna 2004, 122
37
6
7
Cf. E. Galavotti, Il giovane Dossetti. Gli anni della formazione 1913-1939, Bologna
2006.
G. Dossetti, Discorso dell’Archiginnasio, in Id., La parola e il silenzio, Bologna 1997,
32.
Cf. G. Ruggeri, La vita cristiana in Giuseppe Dossetti, in A. Melloni (ed.), Giuseppe
Dossetti: la fede e la storia, Bologna 2007, 25.
38
quella contemplazione di Gesù Dio e uomo, Dio infinito e uomo sofferente, tutto
coperto di piaghe, morto per amore degli uomini»8.
cità di speranza e amore di Giorgio la Pira, al suo fascino di purezza e di contemplazione”11.
Sono anni, inoltre, di fermento, di lavorio intellettuale e civile, in cui
Dossetti pone le premesse, una volta esplosa la seconda guerra mondiale,
per la maturazione di ferme convinzioni antifasciste e la consapevolezza che
rispetto al nascere e al dispiegarsi del fascismo non ha fallito solo la società
italiana nel suo insieme, ma la stessa Chiesa nel suo compito di
discernimento storico e profetico. In un testo del 1946 afferma in modo
eloquente: «il problema italiano è essenzialmente qui: la Ecclesia italiana ha
in gran parte mancato il suo compito negli ultimi decenni»9.
Durante gli stessi anni della guerra Dossetti partecipa a diversi incontri
clandestini per progettare il futuro dell’Italia dopo «la grande farsa»10 del
fascismo e negli anni finali del conflitto entra nelle formazioni partigiane,
arrivando ad occupare posti di notevole responsabilità nel movimento di resistenza reggiano. Una volta terminata la guerra Dossetti si trovò, a partire
dall’impegno nella resistenza e dall’impegno accademico all’università di
Modena, coinvolto tra i quadri dirigenti della Democrazia cristiana e, in particolare, entrò a far parte dell’assemblea costituente, dove ebbe un ruolo significativo nella commissione dei 75 che doveva redigere la nuova Costituzione della Repubblica. Nel 1986 afferma:
La vicenda politica di Dossetti è connotata da un lato nell’impegno diretto nel partito, nelle sue dinamiche interne fino a giungere alla nomina a
vicesegretario della Democrazia Cristiana e dall’altro in un’opera culturale e
intellettuale di vasto respiro dove insieme ad altri cercava di «tirare fuori
dall’abisso educativo del fascismo»12 e predisporre gli strumenti per un vero
rinnovamento civile, un reale ammodernamento dello Stato e uno sviluppo
durevole dell’economia; è il periodo, dal 1947 al 1951, della rivista le Cronache sociali con la quale, insieme a molti, dà corpo e pensiero ad un vasto
progetto di profonda riforma sociale e politica per la costruzione di una democrazia reale13. L’esperienza di impegno diretto nella politica non è semplice: piena di tensioni, di disaccordi con le linee di politica – interna ed estera – di De Gasperi, di differenti concezioni del compito educativo del partito; già nel 1948 Dossetti pensa ad un ritiro, rinviato su insistenza di Pio
XII. Dossetti, uomo di pensiero e di cuore, lascerà comunque l’impegno parlamentare nel 1952 per la maturata consapevolezza che le condizioni del
tempo della società italiana e della Chiesa in Italia non permettono di porre
le basi di un’efficace e profonda opera di rinnovamento civile e morale. In
un discorso del 1953 egli si chiede:
«Certo di tutta quella fase della mia vita (tra il 1945 e il 1952) mi si è particolarmente impresso il ricordo della Costituente, soprattutto del lavoro svolto per oltre
un anno nella prima sottocommissione: nella quale mi soccorse, quasi tutti i giorni,
la collaborazione costruttiva con l’intelligenza acuta e pensosa di Aldo Moro e il
confronto con Lelio Basso e soprattutto con Palmiro Togliatti che – pur nella netta
diversità della concezione generale antropologica e quindi politica – molto mi arricchì con la sua vasta esperienza storica e con la sua passione per un rinnovamento
reale del nostro paese rispetto alla situazione prefascista sia pure ammodernata. Di
quel periodo … è incalcolabile quello che debbo alla fraternità e all’inesausta capa-
«Vale la pena di lavorare in strutture che si sanno a priori marce? … Ad esempio
posso dire che è inutile lavorare nella Democrazia Cristiana, se invece voglio rallentare la catastrofe, allora posso rimanere nella DC ma non devo più porre come
obiettivo la trasformazione della realtà»14.
Egli si ritira, dunque, per lavorare ad un rinnovamento di alcune vitali
premesse civili, morali e, soprattutto, spirituali in vista di una trasformazione più profonda e autentica. Nelle riflessioni che motivano il suo incipiente
ritiro Dossetti si mostra consapevole, nel 1951, dei due problemi riguardanti
11
8
A. Magistretti, Introduzione, in G. Dossetti, Discorso dell’Archiginnasio, in Id., La parola e il silenzio, Bologna 1997, 10.
9
G. Dossetti, Relazione al convegno di Civitas Humana del 1 Novembre 1946, in Id.,
Scritti Politici, Genova 1995, 317.
10
G. Dossetti, Un itinerario spirituale, in Id., I valori della costituzione, Reggio Emilia
1995, 5.
39
G. Dossetti, Discorso dell’Archiginnasio, in Id., La parola e il silenzio, Bologna 1997,
33.
12
G. Dossetti, Un itinerario spirituale, in Id., I valori della costituzione, Reggio Emilia
1995, 11.
13
Cf. L. Giorgi, Le «Cronache sociali» di Giuseppe Dossetti, Reggio Emilia 2007.
14
Citato in P. Prodi, Crisi epocale e abbandono dell’impegno politico. Riflessioni di Giuseppe Dossetti nei ricordi dei primi anni ‘50, in «Rivista di storia del cristianesimo» 1
(2004), 446.
40
la società e la Chiesa e ritiene che tali problemi siano tra loro intimamente
collegati; in particolare si concentra sulla concreta assenza di fede operante
da parte del cattolicesimo italiano – soprattutto da parte della gerarchia ecclesiastica – che è tentato di assumere una visione della cose agitata e attivista: «Il cattolicesimo oggi ha questa colpa: di attribuire all’azione ed
all’iniziativa degli uomini rispetto alla Grazia un valore di nove decimi»15.
Egli avendo preso atto di queste impostazioni che letteralmente “bloccano”
il sistema politico e il sistema ecclesiale16 sceglie di andare in un’altra direzione. Una direzione che aiuti a sanare la mentalità e la vita ecclesiale da
questo esasperato spirito di conquista e di frenetico attivismo ridando il primato concreto all’opera e alla grazia di Dio e, quindi, alla vita dell’uomo
interiore, all’esperienza spirituale cristiana, alla formazione di abiti virtuosi
nelle coscienze. Solo tali condizioni possono, per Dossetti, permettere un
rinnovamento ecclesiale, della vita cristiana e, quindi, anche una profonda
fecondazione di virtù civili e sociali. In tale quadro l’incidenza storica della
missione della Chiesa è, in modo apparentemente paradossale, tanto più efficace e rinnovante quanto più nascosta, autentica e profondamente radicata,
a livello personale e comunitario, in una vita da discepoli.
Tale progetto si concretizza nella fondazione del Centro di Documentazione nella Bologna del Cardinale Lercaro. Il Centro viene, inizialmente,
pensato come un luogo di formazione e ricerca culturale, inquadrata
all’interno di in un ampio spazio di preghiera personale e comunitaria intorno alle fonti della vita cristiana. Proprio in questi anni intorno a Dossetti si
raduna un gruppo di giovani studiosi attratti inizialmente da tale progetto
intellettuale e spirituale, che sempre più diviene una ‘famiglia’, comprendente celibi e sposi, organizzata in una forma di vita intorno alla Bibbia letta, pregata e celebrata nell’Eucarestia17. C’è chi ha raccontato questo inizio
della Piccola Famiglia dell’Annunziata come quello di «una comunità nata
dalla Bibbia»18. In un testo più tardo, del 1995, Dossetti così descrive la sua
esperienza della parola di Dio in comunità:
«Al centro, quindi, vi è la Parola e il suo culmine, l’incarnazione della Parola: cioè
l’eucarestia. All’origine c’è una grande fede nella possibilità della Parola e
dell’eucarestia di trasformarci pian piano, di cambiare totalmente il nostro modo di
vivere, di donarci quasi senza sforzo, senz’altro sforzo che accoglierle – Parola ed
Eucarestia – una vita nuova, una coerenza che vince tutte le nostre debolezze e le
nostre pigrizie, che può aggregarci nonostante le nostre diversità e divisioni, che fa
nascere un soggetto nuovo, la comunità, la quale non è precostituita a queste cose,
ma nasce da queste cose, dalla Parola e dall’Eucarestia»19.
In diverse sue riflessioni della seconda metà degli anni sessanta viene
espresso in maniera ampia la qualità di questo rapporto del tutto singolare
con la Scrittura. Egli lo individua come il primo rimedio «all’astenia spirituale e alla disorientabilità permanente di molti credenti»20. Egli parla di un
rapporto nuziale con la Bibbia, di un rapporto – pur non disprezzando i contributi scientifici – essenzialmente orante e credente, di una necessaria «egemonia della Scrittura» nella vita cristiana e nella vita della Chiesa:
«l’unica forza generante, l’unico seme di vita nuova, per sé incorruttibile, è
la parola del Signore»21.
Al progetto di vita del Centro va aggiunta un’ultima dimensione che, a
partire dall’esperienza dei poveri di Cavriago e degli zingari di don Torregiani, riemerge in diversi modi per tutta l’esistenza di Dossetti, ossia la comunione di vita con i minimi e i piccoli. Per un certo periodo Dossetti ed un
fratello vivono nelle case popolari a Bologna e nel 1954 lo stesso Dossetti in
un discorso alla ‘comunità’ del Centro sostiene che
«per noi [si tratta di] una preferenza impegnativa per i minimi di ogni terra. Perché
sono i preferiti di Gesù, perché sono le vittime di un’enorme ingiustizia a cui né il
mondo né la Chiesa oggi pongono riparo e, infine, infine la causa più drammatica e
profonda, perché la linea di divisione fra oppressi ed oppressori passa anche attraverso la Chiesa»22.
È all’interno di questa ricca esperienza comunitaria del Centro che va
rintracciata la motivazione ultima e prossima che porta Dossetti, con tutto il
15
G. Dossetti, Catastroficità sociale e criticità ecclesiale, in A. Alberigo (ed.), Giuseppe
Dossetti. Prime prospettive e ipotesi di ricerca, Bologna 1998, 105.
16
Cf. G. Dossetti, Un itinerario spirituale, in Id., I valori della costituzione, Reggio Emilia 1995, 12-14.
17
Cf. G. Dossetti, Linee essenziali della storia della comunità, in Id., La piccola famiglia
dell’Annunziata, Milano 2004, 293-331.
18
Cf. M. Gallo, Una comunità nata dalla Bibbia, Brescia 1999.
41
19
G. Dossetti, Un itinerario spirituale, in Id., I valori della costituzione, Reggio Emilia
1995, 26-27.
20
G. Dossetti, La Parola di Dio seme di Vita e di Fede incorruttibile, Bologna 2002, 37.
21
G. Dossetti, La Parola di Dio seme di Vita e di Fede incorruttibile, Bologna 2002, 55.
22
G. Dossetti, Appunti sulla forma communitatis, in G. Alberigo (ed.), L’«officina bolognese», Bologna 2004, 127.
42
me ovunque e in tutto (nel mio sacerdozio, al concilio, in curia, in tutti i rapporti e
per tutti i valori) un marchio indelebile»23.
suo bagaglio di esperienze umane e di maturazioni cristiane, a divenire presbitero.
Il divenire presbitero
La crescita della comunità intorno alla parola di Dio e all’eucarestia accompagna il lavoro di ricerca del Centro che si concentra – in maniera lungimirante – soprattutto sulla storia dei Concili, intesi come una via privilegiata di rinnovamento per la Chiesa. Nel 1955 Dossetti esce dai Milites di
Lazzati e nello stesso anno emette i voti nelle mani del cardinale Lercaro
con cui si è instaurato un profondo rapporto di paternità spirituale ed ecclesiale. Proprio in ragione di tale rapporto lo stesso Lercaro chiede, per obbedienza, a Dossetti di sospendere il lavoro di studio al Centro e di candidarsi
nelle elezioni comunali bolognesi nel tentativo di strappare il comune
all’amministrazione comunista. Dossetti, pur essendo da subito pienamente
consapevole che tale tentativo è destinato a fallire, si impegna con dedizione
nella vicenda elettorale, insieme a molte giovani intelligenze si cimenta in
una innovativa riflessione sul futuro di Bologna, e una volta perse le elezioni
si dedica ad una presenza significativa e sapiente sui banchi
dell’opposizione in consiglio comunale. In un appunto spirituale del 1971
Dossetti reinterpreta questa obbedienza a candidarsi a sindaco di Bologna
come una delle grazie più grandi a lui date da Dio, una grazia di purificazione e di spogliazione che lo prepara immediatamente al sacerdozio e lo conferma, inoltre, nella sua diagnosi sui problemi profondi della società italiana:
«Sono passati sedici anni e mi è sempre più chiaro che a quell’atto di obbedienza si
deve la nascita della Famiglia e tutte le grazie che sono venute dopo. Fu tremendo.
Veramente lo sentii come un disonore. Mi tagliava la faccia: erano poco più di tre
anni che ero uscito dalla vita politica in modo solenne e definitivo e vi dovevo rientrare per la porta di servizio, per un pasticcio … Una cosa è certa: che essa ha fatto
piazza pulita di ogni mio possesso, mi ha strappato all’Università, al Centro, alle
mie velleità di ricerca, a qualunque altra ambizione umana, per ridurmi al lastrico e
darmi così alla Famiglia. Ho sentito che quella è stata una grazia immensa, una grazia di fuoco che mi ha distrutto molto più di quanto io stesso allora e anche negli
anni successivi abbia capito. Forse comincio a capire solo ora: è da quel momento
che io sono finito, veramente ho sentito ‘una morte civile’ che poi ho portato con
A metà del proprio mandato in consiglio comunale nel 1958 Dossetti,
su consiglio di don Divo Barsotti in relazione alla piccola comunità radunata
intorno a lui, matura definitivamente la propria personale chiamata al sacerdozio che lo porta a dimettersi dal consiglio comunale e a ricevere il ministero presbiterale nel 1959. Il divenire presbitero è, quindi, all’interno di un
consorzio di vita raccolto intorno alla Bibbia e all’eucarestia. Non è affatto
secondario: la scelta di una vita comune, prevalentemente di preghiera, è
«anteriore alla scelta sacerdotale»24, il sacerdozio di don Giuseppe è nato
come lo sbocco di una vita che egli, insieme ad altri, già conduceva.
Nello stesso mese, una ventina di giorni dopo l’ordinazione di don Giuseppe, Giovanni XXIII dà l’annuncio inatteso e sorprendente della convocazione di un Concilio ecumenico, il Vaticano II. Il ricco itinerario di vita,
umana e cristiana, di don Giuseppe che sembrava trovare, per così dire, un
approdo con l’ordinazione sacerdotale per e nella Piccola Famiglia si apre
ad uno scenario inedito – ma non impreparato – di servizio alla riforma della
Chiesa che di lì a qualche anno si sarebbe radunata in un Concilio la cui importanza epocale per la vita della Chiesa è difficile esagerare.
Lercaro, che diviene progressivamente una delle figure episcopali più
significative, chiede a Dossetti di accompagnarlo in Concilio e don Giuseppe vi svolgerà un ruolo significativo: come consigliere personale, come segretario dei quattro moderatori, come perito di Lercaro, come animatore di
diverse riflessioni e incontri e come colui che in un momento decisivo ha
messo a frutto la propria esperienza assembleare per aiutare il Concilio a
trovare procedure veramente adeguate alla manifestazione delle sue vere intenzioni. I temi su cui don Giuseppe scrive testi per Lercaro e altri vescovi
sono molti: ricordiamo la collegialità, il rapporto intrinseco con il mistero di
Israele, l’imprescindibile compito di pace della Chiesa e, infine,
l’importantissimo tema della povertà culturale ed effettiva della Chiesa. Nel
testo – molto intenso – sulla povertà pronunciato da Lercaro in Concilio nel
23
24
43
G. Dossetti, Appunti personali del 1971, citato in A. Magistretti, Introduzione, in G.
Dossetti, La piccola famiglia dell’Annunziata. Le origini e i testi fondativi 1953-1986,
Milano 2004, 23-24.
G. Dossetti, Un itinerario spirituale, in Id., I valori della costituzione, Reggio Emilia
1995, 15.
44
1962, si risponde alla domanda su dove si trovi il principio unificante e vivificante la riflessione sulla vita della Chiesa:
del Concilio; in un’omelia del dicembre del 1965 tornando nella sua comunità a Concilio appena concluso afferma:
«In questo: in un atto di sovrannaturale docilità di ciascuno di noi e del concilio tutto all’indicazione che sembra farsi sempre più chiara e imperativa: questa è l’ora dei
poveri, dei milioni di poveri che sono su tutta la terra, questa è l’ora del mistero della chiesa madre dei poveri, questa è l’ora del mistero di Cristo soprattutto nel povero … Intendo dire: il mistero di Cristo nella Chiesa sempre è stato ed è, ma oggi è
particolarmente il mistero di Cristo nei poveri: in quanto la Chiesa, come ha detto il
santo padre Giovanni XXIII, se è la Chiesa di tutti, oggi è specialmente la Chiesa
dei poveri … Perciò mi sembra nostro dovere in questa conclusione della prima
tappa del nostro concilio riconoscere e proclamare solennemente: noi non faremo il
nostro dovere, non sapremo intendere con animo aperto la volontà di Dio e l’attesa
degli uomini su questo concilio, se non metteremo al centro a un tempo del suo insegnamento dottrinale e della sua opera di rinnovamento, il mistero di Cristo nei
poveri, l’annunzio dell’evangelo ai poveri»25.
«Tutta una serie di idee e di intenzioni della Chiesa, che avevamo intuito, ha fatto sì che
ci mettessimo insieme con la prospettiva di amare Gesù rinnovando la sua Chiesa … In
questi dodici anni (dall’inizio della vita comunitaria) il nostro proposito era di amare Gesù in vista del Concilio che doveva venire, ora il nostro proposito è di amare Gesù in vista del Concilio che c’è già stato e che va realizzato. Ormai non si può più prescindere
dal Concilio. Se uno di voi oggi mi dicesse: adesso basta, mi basta Gesù solo! – veramente non so se oggi si possa fare un discorso così – in questo caso io dovrei dirgli: questa
non è la tua casa»28.
Nel ritorno dalla celebrazione del Concilio don Giuseppe si dedica alla
diffusione, spiegazione e approfondimento critico della prospettiva conciliare, tra questi approfondimenti si trova la sua importante riflessione sulla
comprensione ‘eucaristica’ della Chiesa26. In questo periodo, tra il 1966 e il
1972, hanno luogo, spesso presiedute dallo stesso Don Giuseppe, le affollate
liturgie della Parola all’Abbazia di Monteveglio, che divengono un luogo di
riscoperta fondamentale delle ricchezze della Bibbia, della Liturgia e delle
prospettive conciliari. Tra il 1966 e il 1968 si impegna, su incarico del Cardinal Lercaro, in un vasto e articolato programma di riforma della Chiesa
locale di Bologna, che lo porterà, nell’ultimo tratto dell’episcopato di Lercaro, a divenire pro-vicario generale della diocesi27. La percezione di Dossetti
è chiara: il Concilio ha introdotto la Chiesa in un cammino di rinnovamento
evangelico e per questo va interpretato in modo accrescitivo, come una via
da percorrere con sempre maggiore profondità. Il sacerdozio di don Giuseppe diviene – insieme alla sua Piccola Famiglia che si andava progressivamente componendo di fratelli, sorelle e sposi – un sacerdozio per la Chiesa
25
G. Lercaro, Per la forza dello Spirito, Bologna 1986, 114-117.
Cf. G. Dossetti, Per una Chiesa eucaristica, Bologna 2002.
27
Cf. G. Gervasio, Le dieci commissioni, in M. Tagliaferri (ed.), Il Vaticano II in Emilia
Romagna, Bologna 2007, 121-136 e G. Forcesi, Il primo biennio del postconcilio a
Bologna. Il progetto di Chiesa locale di Lercaro e Dossetti, in Studium 81 (1985),
766-767.
26
45
In questi anni intorno alla conclusione del Concilio iniziano a prendere
vita contatti sempre più intensi con la Terra Santa, che vanno ad arricchire i
rapporti della Piccola Famiglia con l’oriente cristiano e con la Grecia ortodossa e allargano ulteriormente l’orizzonte di don Giuseppe e della sua Piccola Famiglia. Proprio tali prospettive divengono preziose quando, con la
complessa vicenda della conclusione dell’episcopato del Cardinale Lercaro
a Bologna, anche l’impegno di don Giuseppe non è più richiesto ed egli entra progressivamente in un lungo periodo di silenzio, ritiro ed ‘esplorazione’
dell’essenziale del cristianesimo e dei mondi da esso remoti. (continua)
Errata corrige
Egidio Maggioni, che dirige Mab q., agenzia di pubblicità citata
nell’editoriale de “Il Margine“ n. 3/2010, NON è il responsabile del Centro
Televisivo Vaticano. Mi scuso per l’errore. (E.C.)
28
Omelia citata in M. Gallo, Introduzione, in G. Dossetti, Omelie del tempo di Natale,
Milano 2004, 9.
46