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Gianni Garamanti
Dopotutto è normale, cadono anche le stelle
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Quando gli tolsero le bende fu come la gente si accorgesse solo allora della devastazione
che gli avevano lasciato sul cranio. E pensare che il peggio non lo vedevano perché gli rimaneva
dentro.
“Michi, Vichi, Nichi” stringeva in mano forchetta e coltello come se volesse essere più
certo del suo corpo “e poi Tricchi, Ricchi e Cucchi! Sulle ultime due non sono sicuro, ma ti giuro
che avevano scritto sul dietro delle magliette Vichi, Nichi...” e riprese a fare quei nomi, questa volta
forse solo un po' diversi.
La giornata non era andata così male: in città aveva imparato a camminare senza le
stampelle (un successo notevole) e ora provava a alzare sempre più i piedi da terra, come per
prepararsi a fare una corsa, quella però non sarebbe certo riuscita a farla. Anche se non si poteva
dire che gli mancasse la volontà.
L'ictus gli era entrato nelle zone più profonde e posteriori della parte destra del cervello.
Lui e Cris l'avevano preso come un presagio: nella vita era arrivato il momento di cambiare
qualcosa.
“Lesbiche! Vichi e Nichi, Trichi e Bichi! Sono lesbiche e mi si possa ammazzare se non è
così!”
“Mangia la carne, Rudi,” come moglie Cris valeva davvero qualcosa in cucina “non voglio
buttare via tutto quel ben di dio che t’ho messo nel piatto” per il resto era grassa, stupida e, a volte,
finiva per diventare perfino arrogante con lui.
“Ma se non è ancora pronto niente!”
“È nel piatto, davanti a te...”
“Questa roba l'hai messa ora perché prima non c'era”
“Mangia qualcosa” disse lei.
“L'hai messa ora, vero? E allora perché non m'hai detto prima che era pronta? Ora è
fredda,” marito e moglie si guardarono un po' così, come per dirsi delle cose che temevano di
sentirsi dire.
Erano sposati da quasi trent’anni. Erano andati a scuola insieme, poi il matrimonio, i primi
tempi a casa dei genitori di lei (una specie di carcere che con decenza aveva fatto intendere che tipo
di vita avessero davanti), un aborto.
“Va bene, mangio questa carne, non si butta la roba da mangiare”
“Oggi pomeriggio hai la clinica...”
“Lo so!” la interruppe lui
“Se vuoi t’accompagno io in macchina”
“Non c’è bisogno di ripetermi le cose sempre mille volte!”
“Prima di ora non te l'avevo detto che hai la clinica” Cris era calma, ma era chiaro che
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stava sforzandosi di fargli notare bene che si era un po’ rincretinito. Non lo faceva con cattiveria,
ma sforzandosi di rimanere sempre tranquilla.
“Allora non l'avevi detto,” Rudi iniziava a capire, era diventato lento a capire le cose.
“No,” fece lei continuando a liberare il tavolo intorno al piatto con la carne.
“Va bene, allora ho la clinica e devo preparare la roba, le ultime analisi... sei sicura?”
“Di cosa?”
“Mi sembrava che me l'avessi già detto, della clinica…”
“No.” per lei bastava così.
“Tricchi, Nichi, Ficchi... ridicole, ci sono gli uomini per uscire e fare le loro cose! Questo
lo dice la Natura, non io” ma Cris non parlò più, gli tolse il piatto con la carne da sotto e si avviò nel
cucinotto, dentro quella casa che era una specie di roulotte in cui erano finiti ad abitare, Come
zingari, diceva sempre lui.
Le cicatrici di Rudi sporgevano ancora dalla sua testa ricamata dal chirurgo. Era
appoggiato sui gomiti al tavolo e non riusciva a stare fermo. Intorno a lui un vespaio di casupole,
per lo più baracche abitate da gente curiosa che voleva sempre sapere cosa era successo, come e
quando. Per tutto, per niente che importasse veramente.
Ora si era avvicinato il figlio dei vicini. Se ne stava in piedi, senza dire una parola,
guardava Rudi aspettando che succedesse qualcosa. Era un bimbo un po' strano, giocava con le
mani come fossero una cosa nuova e sempre diversa. Non rideva mai.
Rudi urlò: “Cris, vieni qui che ti dico cosa fanno quelle là...” ma non disse cos'erano o casa
facevano le ragazze che aveva visto perché Cris non era più lì in giro e poi perché c'era il ragazzo
che stava ascoltando, “Che vuoi tu?”, Rudi si alzò dalla sedia facendo un balzello e uscì fuori dalla
baracca andandogli incontro come per colpirlo.
Naturalmente non lo colpì, ma sventrò lo stesso la porta perché per lui era difficile dosare
le forze. Il bimbo si mise a giocare con le mani. Dopotutto era normale che lo facesse, perché era
davvero bravo a farlo.
Tornarono dalla clinica alle sette e mezzo di sera, il sole iniziava a calare dietro il villaggio
di catapecchie, si scorgeva appena lontano il camino lungo, spennacchiato e grigio dell’inceneritore.
Cris avrebbe voluto fermarsi in una trattoria o anche in un bar a mangiare, fosse solo per non tirare
ancora fuori pentole e padelle e mettersi a cucinare. Quel giorno, disse, era stato già stato bello
lungo e non c'era bisogno di allungarlo ancora cucinando cose.
“È buio” disse Rudi.
“Sì, è normale, dopotutto siamo alla fine di quest'estate,” lei faceva avanti e indietro dalla
cucina con delle buste in mano. Lui stava vicino alla macchina.
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“Normale cosa?” disse lui guardando il culo di Cris che era grosso come quello della
madre.
“Come?” Cris non aveva capito, era dura e a volte sembrava avessero operato lei al
cervello.
“Hai detto che è normale. Cosa vuol dire normale?”
“Non c'ho fatto caso, m'è venuto così, è normale!”
“Non è affatto normale” e nemmeno il suo culo lo era, cosa le costava buttare giù qualche
chilo?
“È normale perché siamo a fine estate e sono le sette passate” disse lei.
“Dire sempre normale non è normale!”
“Ah, quello. Anche tu lo dici sempre... non so che vuol dire, ma che importa... dopotutto lo
fanno tutti!” a lui sembrava di venir preso in giro quando lei diceva così. Tipo i suoi genitori che,
quando abitava da loro, volevano sempre avere ragione: chiusi e stretti come la vagina di una
vecchia zitella. A loro non c'era verso di spiegare una cosa diversa da come la pensavano loro. Ecco
l'arroganza da dove veniva fuori!
“Sì, ma se hai detto normale volevi dire qualcosa altro o no?” Cris scosse le spalle e se ne
andò.
“Quando mangiamo?” chiese lui, ma lei non gli rispose nemmeno.
Quella notte il cielo era pieno di stelle. Rudi lo guardava immerso nei suoi pensieri, in
piedi, il cappello in testa, sommerso nel prato vicino le baracche, il più possibile lontano da sua
moglie.
Il medico gli aveva detto molto della neuropatia, qualcosa di semplice sulla sua situazione
clinica, ma poco, quasi niente, sulle prospettive e sulla qualità della vita che l'aspettava. Non voleva
mai sbilanciarsi quel dottore: era giovane e non poteva saperne granché sui tempi di recupero.
“Tra i medici, i neurologi,” sospirò tra sé Rudi, senza accorgersi di farlo, “potessi morire se
non sono i peggiori di tutti” guardava Orione e Sirio, ma lo sguardo gli sfuggiva anche sulla Luna,
una grassissima balena bianca, così luminosa e butterata che gli sembrava la faccia di un idiota.
Una voce stridula gli fece fare un balzo in avanti dallo spavento: “Una stella cade!”, era
sicuro che non ci fosse nessuno intorno, invece un ragazzo era là, in piedi, con la testa all'indietro a
guardare il cielo, come lui prima.
“Chi caz... qui a quest'ora...” il ragazzino non rispose “I tuoi genitori ti mandano fuori da
solo?”, la luce della luna illuminava a mala pena il viso tondo del bimbo e le sue spalle. Poteva
essere chiunque. Non lo riconobbe subito, ma notò che indosso aveva solo pantaloncini da mare e
delle ciabattine ai piedi.
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“Ti piacciono le stelle?”, gli chiese a muso duro Rudi, ma forse i genitori gli avevano detto
di non parlare agli estranei, “Sirio e Orione non sono stelle che cadono facilmente,” il ragazzo non
ascoltava e Rudi si rimise a puntare gli occhi verso il cielo, verso le sue due stelle preferite “almeno
non lo faranno oggi”
Non aveva avuto figli ed era figlio unico. Di quando era piccolo ricordava poche cose, un
ridicolo film senza parole e senza colori. L'adolescenza l'aveva scavalcata a piè pari con quella
donna che aveva sposato. Insomma, che ne sapeva, lui, di un ragazzino? Che dirgli? Qui, ora, di
notte... non c'era modo di farci un discorso. Cosa ci faceva là, in mezzo al suo prato?
“Un'altra!” gridò forte il ragazzo.
“Cosa...?” Rudi non aveva visto niente di strano in cielo “Ma dove guardi tu?” e quello
indicò subito un punto molto in alto, allungando il braccio più che poteva, “Quelle che vedi ogni
tanto non sono vere stelle che cadono, sono pezzi di roccia nello...”
“Un'altra!”
“Dove, dove!”
“L'altra!” il ragazzino tirò di nuovo fuori il braccio e lo tenne ancora più teso verso l'alto.
“Ah, sì...” disse Rudi “e allora?” poi gli venne in mente qualcosa di quando era piccolo, di
quando era molto piccolo, e riprendendo a scrutare nel cielo, intorno a Orione e Sirio, disse piano
“Un desiderio,” il ragazzo non rispose, come poteva?, stava immobile e silenzioso, concentrato
sulle stelle. Era una fantasia da bambini, ma ora Rudi la ricordava, quella cosa delle stelle che
cadono e dei desideri che si avverano… fosse stata vera Rudi sarebbe diventato ricco, famoso e non
si sarebbe mai ammalato… ma tant’è, ora la ricordava e ci giocava pure, questo succedeva tanto
tanto tempo fa… sorprendente! Un ricordo di quand’era bambino, tornato a galla senza bisogno di
starci troppo a pensarci su, venuto fuori così, come se nulla fosse, con quel ragazzino accanto.
“Chi sei tu?” disse Rudi che strinse gli occhi per vedere meglio al buio.
Doveva essere una specie di Gesù, un essere con dei poteri che non s’aspettava nessuno,
uno in grado di cambiargli la vita con un niente, di fargli tornare i ricordi, con pensieri leggeri e
densi come panna, dolce e stuzzicante, liscio e pulito come non era mai stato lui, nemmeno tanti
anni prima, prima di diventare il mostro che era adesso con quelle cicatrici sul cranio.
Questo finì di pensare: Un altro principe che morirà rospo.
Il naso e le labbra del ragazzo, al chiarore della luna, che gli definiva contorni del viso
come quelli di un giovane appena truccato, un tenero Apollo, giovane dio della bellezza, allo stesso
modo affascinante. Gli pareva di sentire il suo respiro spargersi nell'aria della notte rinfrescandola,
rendendola più rarefatta, più... eterea. Gli venne in mente anche quel termine! Avrebbe voluto della
carta su cui scrivere la parola Etereo, anche se non era convinto del suo significato. Fece finta di
nulla, ma s’avvicinò al ragazzo che, immobile, non smetteva di farsi guardare. Aveva le orecchie
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piccole e proporzionate, con i lobi di una carne tenera, da mordere, era un bambino incantevole.
Rudi avrebbe voluto essere bello e innocente come lui, scostò il suo sguardo un po’ per pudore, un
po’ per pietà di come s’era ridotto. Ma non voleva compatirsi troppo.
Si tolse il cappello per toccare le cicatrici che aveva sulla testa.
Il ragazzo allora lo guardò e ebbe paura.
“Sei sempre tu!” era il figlio dei vicini, sempre lui, che lo aveva seguito, che lo amava
perché quella doveva essere per forza la sola ragione di averlo accanto, un piccolo principe tutto per
lui, che ora però era spaventato.
“Non è nulla, queste sono… è normale… normale” e il ragazzino prese a muovere le mani
come se avesse trovato un motivo nuovo per farlo “Mio dio, sta fermo un attimo!” anche il figlio
dei vicini era normale, a modo suo, e poi che voleva dire… normale… ma quello non guardava più
il cielo, aveva preso a fissare la testa di Rudi e, in punta di piedi e senza ritegno, senza più pudore di
niente, muovendo le mani, sfiorando le ferite sul cranio.
“Vuoi toccare?” chiese Rudi, il ragazzo scosse in su e giù la testa, “Ti piace…” chinò la
testa, ma la rialzò appena si accorse che il ragazzo si era tirato indietro e se n’era andato via di corsa
“No!” gli gridò dietro quando quello era già lontano.
La notte venne attraversata da un sottile graffio di luce. Rudi provò il desiderio di avere
accanto la moglie, di accarezzare la sua pancia, di stringerla forte, di dare piacere solo a lei.
Il desiderio di fare ancora qualcosa per un’altra persona e di trattenere tutto quello che
aveva al mondo. Dopotutto è normale, anche le stelle cadono per davvero.
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