guida alla realizzazione delle mappe comunitarie dei

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guida alla realizzazione delle mappe comunitarie dei
GUIDA ALLA REALIZZAZIONE DELLE
MAPPE COMUNITARIE
DEI BISOGNI E DELLE RISORSE
World Health Organization
D.A.R.E. Project
Development of Appropriate Response for Emergencies
GUIDA ALLA REALIZZAZIONE DELLE MAPPE COMUNITARIE
DEI BISOGNI E DELLE RISORSE
INDICE
RINGRAZIAMENTI
INTRODUZIONE
A CHI SI RIVOLGE IL MANUALE
CHE COSA E' UNA MAPPA COMUNITARIA DEI BISOGNI E DELLE RISORSE?
PARTE PRIMA
Come si realizzano le mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse. Quattro studi di caso:
1.
2.
3.
4.
Diario di un operatore socio-sanitario di base del Centro di Medicina Sociale di
Giugliano, Napoli, (Italia)
La lezione di Vincenzina, Comune di Polla, quartiere il Serrone, Salerno, (Italia)
Le battaglie di S. Marcos e San Jacinto, (El Salvador)
Il risveglio del leone addormentato, Mariquita, (Colombia)
PARTE SECONDA
I principi generali
PARTE TERZA
Le fasi della stesura delle mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse
Fase 1:
Fase 2:
Fase 3:
Fase 4:
Far esprimere i bisogni
Formulare un primo elenco di bisogni e risorse
La ricerca sul campo/La stesura delle mappe definitive
Istituzione del Comitato locale e la formulazione del Piano di Zona
ALLEGATO
Scheda di autovalutazione
RINGRAZIAMENTI
Questa guida alla realizzazione delle mappe dei bisogni e delle risorse è basata su una serie di esperienze
realizzate in Italia nella regione Campania (Polla e Giugliano) e attraverso attività di cooperazione
realizzate col finanziamento del Governo italiano e con la supervisione tecnica del centro Collaborativo
Oms/Dgcs del Ministero per gli Affari Esteri italiano. Tali programmi sono stati realizzati in Colombia
nel Dipartimento di Tolima; in Jamaica, nella località di Port Antonio; nelle Filippine, nella provincia di
Albay; in Salvador (S. Marcos e S. Jacinto).
Si ringraziano in particolare tutti i Comitati locali per l'emergenza le cui idee e le cui esperienze hanno
rappresentato un contributo fondamentale alla stesura di questo testo.
Si ringrazia inoltre in particolare la componente Edinfodoc del progetto PRODERE (Programa para
Desplazados, Refugiados e Repatriados de Centro America) per avere fornito i suoi materiali di lavoro.
Siamo inoltre grati agli esperti del programma PRODERE che hanno partecipato alle attività che sono
state realizzate in Centro America utilizzando le mappe. Ciò che fa di questa una esperienza particolare
consiste nel fatto che il metodo è stato utilizzato in una situazione, quella del Centro America, in cui le
emergenze naturali - terremoti, eruzioni vulcaniche, cicloni, etc - si combinano con disastri provocati
dall'uomo - guerre, spostamenti di massa delle popolazioni.
Si è trattato di una situazione estrema che ha reso possibile testare la possibilità di adattare il metodo ai
diversi tipi di emergenza, potenziali o realmente esistenti, nell'ambito della Regione. I risultati ottenuti
utilizzando le mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse in questo tipo di contesto forniscono il
materiale per un riesame critico di alcuni dei modelli teorici ed operativi che riguardano le emergenze.
Si ringrazia per la costante collaborazione, la consulenza tecnica e la supervisione il Centro
Collaborativo Oms/Dgcs di Roma e l'ufficio Oms di Roma per le Emergenze.
Hanno partecipato alla realizzazione del testo: Kim Assael, Giuseppe Orefice e Sergio Trippodo per la
stesura del testo.
Annina Lubbock per la traduzione e l'editing; Emanuele Giordana per la consulenza editoriale generale;
Roberto Pavan per la grafica.
Questo lavoro è stato prodotto all'interno del progetto D.A.R.E. (Development of Appropriate Response
for Emergencies) affidato al C.I.R.I. (Centro Internazionale di Ricerche Intervento) per conto
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS/ERO/EPP) sotto la supervisione tecnica del Centro
Collaborativo OMS/DGCS di Roma.
I
INTRODUZIONE
La realizzazione per tutti i cittadini del mondo di un livello di salute che permetta loro di avere una vita
socialmente ed economicamente produttiva è l'obiettivo che l'Organizzazione Mondiale della Sanità si è
posta entro l'anno duemila. Questo è il significato dello slogan "Salute per tutti"
Secondo l'Oms il raggiungimento di un soddisfacente livello di salute non può prescindere da un
intervento globale sui problemi dello sviluppo, del lavoro, dell'integrazione e dell'assistenza sociale.
L'Oms ha infatti raccomandato che si deve operare non solo negli ambiti tradizionalmente propri della
salute ma in tutti quelli che possono giocare un ruolo importante al fine di migliorare lo standard di vita e
di salute della gente.
Per tale motivo nei testi presentati in questa collana in cui si tratta il tema della preparazione e della
risposta alle emergenze (che sono un problema nel quale la salute occupa un posto prioritario), non
troverete per forza riferimenti espliciti alla medicina in senso stretto: vi troverete piuttosto il continuo
riferimento alla partecipazione delle comunità e a tecniche e strumenti che possono stimolarla.
Le esperienze riportate in questi testi si riferiscono a una serie di situazioni di emergenza nelle quali
queste tecniche sono state utilizzate (El Salvador, Colombia, Filippine, Bangladesh, Mozambico, Italia
etc.). In molti casi queste particolari forme e tecniche d'intervento sul campo si sono dimostrate efficaci
per promuovere soprattutto una effettiva partecipazione della popolazione e per aiutare gli operatori dei
servizi di base nella messa a punto dei programmi di preparazione delle comunità alle catastrofi
LA PARTECIPAZIONE COMUNITARIA. PERCHE'?
Chi lavora nel campo dell'emergenza attribuisce attualmente una notevole importanza ai programmi di
preparazione e organizzazione delle comunità locali. Questa tendenza nasce da varie esperienze di
intervento post-catastrofe e dalla valutazione dei limiti dei sistemi di protezione civile i quali risultano di
maggiore efficienza ed efficacia, non tanto per l`utilizzo di attrezzature e tecnologie d`avanguardia,
quanto piuttosto per il ruolo attivo che sono in grado di svolgere le popolazioni locali prima e dopo le
catastrofi.
L'osservazione di ciò che accade quando una comunità viene colpita da un terremoto, da un uragano o da
una qualsiasi altra calamità ha dimostrato che, dopo un primo momento di disorientamento e confusione,
la gente si attiva per soccorrere ed aiutare la propria famiglia, gli amici, i vicini; supera con facilità anche
le resistenze poste dalle barriere sociali e culturali che in altri momenti appaiono insormontabili. Risolve
una quantità enorme di problemi con le proprie forze, con i mezzi e le risorse a disposizione.
Si riesce così a salvare un alto numero di vite umane nelle prime ore dopo l'impatto (e prima dell'arrivo
dei soccorsi esterni) e ad affrontare i numerosi problemi di sopravvivenza e salute posti dall'emergenza.
Inoltre, si ritrovano ad operare insieme persone di differenti strati sociali, ognuno con proprie risorse e
capacità diverse che, collaborando, abbandonano gli atteggiamenti ostili e quella conflittualità che fino a
quel momento marcava i loro rapporti: ciascuno ritrova un ruolo e una funzione: le donne al fianco degli
uomini ad occuparsi di lavori pesanti; i bambini con la loro agilità e capacità di muoversi nel territorio
che supera ogni ostacolo materiale; la gente in generale che si rende disponibile ad assumersi anche
grosse responsabilità per collaborare con i diversi gruppi di lavoro.
Questa energia se viene organizzata rappresenta una risorsa che può essere utilizzata preventivamente: la
pianificazione preventiva degli interventi servirà a ridurre l'impatto dell'evento catastrofico e ad
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organizzare le attività di risposta e servirà al contempo anche a migliorare le condizioni di vita della
gente.
I COMITATI LOCALI
L'organizzazione di queste attività ha condotto alla costituzione di Comitati locali, articolati in gruppi di
lavoro territoriali, a cui partecipano amministratori locali, operatori dei servizi di base, del volontariato e
delle istituzioni sociali, e quanti altri sono disponibili e capaci di rispondere velocemente ed in modo
efficace ai bisogni urgenti posti dalla situazione di emergenza.
Tutte persone che conoscono da sempre il proprio territorio di appartenenza, la gente, le usanze
specifiche e le risorse (sia quelle potenziali che quelle effettivamente già a disposizione).
Inoltre, proprio la presenza di soggetti istituzionali, accanto ai rappresentanti delle comunità, garantisce
uno scambio di informazioni e una vera e propria contrattazione (potremmo dire un micro negoziato) che
ha l'obiettivo di pianificare gli interventi finalizzandoli ad essere un servizio reale nei confronti dei
beneficiari.
Dunque da un lato si tratta di facilitare l'emergere delle straordinarie capacità di reazione ai disastri delle
comunità locali, di mobilitare grosse risorse umane e professionali che in tempi normali invece sono
nascoste: un grosso potenziale inutilizzato. Dall'altro, si tratta di migliorare e sostenere queste capacità e
queste risorse per meglio poter affrontare e ridurre il grado di vulnerabilità e di rischio presenti nelle
condizioni di vita quotidiane della popolazione locale.
Tali attività dovrebbero anche cercare di riprodurre il clima positivo di relazioni sociali così come
emergono nelle situazioni di catastrofe, relazioni che sono il fondamento di un'organizzazione della
comunità più vicina ai problemi e ai bisogni della gente.
Di qui l'utilità di ricorrere a tecniche di partecipazione popolare che consentano un coinvolgimento attivo
dei diretti interessati nell'identificazione dei propri bisogni, nella scelta delle risposte più appropriate e
nella gestione delle risorse.
Fondamentale nella pianificazione delle attività dovrà comunque essere l'obiettivo finale: quello cioè di
poter poi concretamente risolvere i problemi che emergono. La creazione di un comitato locale, così
come la coscienza dei bisogni collettivi, crea una serie di aspettative che non devono rimanere deluse. E'
sempre necessario infatti che le risorse necessarie alla realizzazione delle risposte individuate esistano
realmente e siano accessibili, si tratti di fondi nazionali come di aiuti della cooperazione internazionale.
Sarà poi il comitato locale la sede negoziale idonea a "contrattare" le risorse ma ciò può avvenire solo
nel momento queste esistano realmente.
LE TECNICHE DI PARTECIPAZIONE COMUNITARIA
Per realizzare dunque obiettivi realmente utili alla comunità, ma anche per rendere manifesti bisogni e
risorse, può essere vantaggioso usare degli strumenti, delle "tecniche" che l'esperienza ci ha insegnato e
che sono l'oggetto di questa collana.
Se in un piccolo villaggio chiediamo alla comunità di disegnare assieme una mappa dei rischi e
invitiamo la gente a farlo scendendo nelle strade, stimoliamo un processo che alla fine mette in luce i
problemi reali: la buca davanti a casa di Pedro è sempre stata un suo problema ma in realtà è un
problema anche per i figli di Juan che abita due porte accanto e anche per il vecchio padre di Francisca
che l'altro ieri ci è inciampato. Il lavoro della costruzione della mappa mette in moto delle energie
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positive: positive perchè oltre a individuare il problema ne suggerisce evidentemente la soluzione
(tappare quel buco). La mappa dei rischi non è dunque da pensarsi come un prodotto tecnico di
cartografia: un geometra saprebbe farlo molto meglio. Ciò che interessa non è tanto quel colorato pezzo
di carta finale. Ciò che è importante è il processo scatenato da questa semplice operazione: una
liberazione di energie propositive che una classica assemblea non avrebbe risolto.
La costruzione di un romanzo fotografico ha per effetto finale una storia per immagini divertente ma è il
processo che l'avrà costruita la cosa che ci interessa di più. Nel costruire la sceneggiatura, la gente della
comunità avrà ripensato (anche attraverso un processo doloroso) al suo passato ma vi avrà trovato anche
il dato positivo della solidarietà che sempre si scatena a ridosso di una emergenza. Una solidarietà che
corre il rischio di diventare fatalismo solo se abbandonata a se' stessa ma non se, attraverso un processo
di rielaborazione di quanto avvenne dopo l'arrivo di quel famoso tifone, la comunità avrà trovato le
energie per preparasi a rispondere meglio alla prossima calamità.
Naturalmente, ed è bene ribadirlo, ha un senso portare alla luce bisogni e necessità solo se si è in grado di
dare delle risposte, se si è in grado cioè di usufruire delle risorse necessarie a fornire una soluzione
appropriata. E' questo il compito principale dei comitati locali che queste risorse deve individuare, gestire
e negoziare.
PREPARARSI ASSIEME
Le tecniche presentate in questi volumi si propongono di essere d'aiuto al lavoro di pianificazione alle
emergenze a livello locale e questo non è altro che la pianificazione allo sviluppo integrato della
comunità nella prospettiva dell'evento straordinario. Questo lavoro si riduce, fondamentalmente, alla
identificazione dei bisogni e dei problemi da risolvere, delle risorse materiali ed umane utilizzabili, nella
priorizzazione delle attività da intraprendere, nonchè nel loro coordinamento e nella valutazione costante
del lavoro.
Responsabili di questo processo dovrebbero essere dei Comitati locali di emergenza composti da autorità
governative locali, associazioni, gruppi omogenei, volontari, operatori sociali e rappresentanti delle
diverse forme organizzative della comunità. Questi comitati sono l'espressione della partecipazione della
comunità: rappresentano cioè il forum dialettico fra istituzioni locali e comunità, fra tecnici e
popolazione, tra i servizi e chi ne fruisce. Ed è internamente al lavoro di questi comitati che, come
strumento di pianificazione, si colloca l'utilizzo degli strumenti e delle esperienze che presentiamo.
In sostanza le "tecniche di partecipazione comunitaria", siano esse una mappa dei rischi o la costruzione
di una sceneggiatura per un racconto fotografico, sono strumenti il cui obiettivo è far crescere la
coscienza dei bisogni e la maniera per risolverli attraverso le risorse disponibili. In una parola portano
alla luce le necessità della comunità proprio perchè queste diventino il binario su cui possa muoversi il
comitato locale di emergenza. Ma queste tecniche sono anche situazioni organizzative nelle quali le
attività rappresentano già momenti di pianificazione: momenti cioè di scoperta delle soluzioni da
proporre al tavolo negoziale e che creano il clima nel quale il negoziato tra utente e istituzione, tra
popolazione e tecnici, si può svolgere positivamente.
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A CHI SI RIVOLGE IL MANUALE
La "Guida per la realizzazione delle mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse" illustra una delle
molteplici tecniche di partecipazione comunitaria. Si rivolge a tutti gli operatori di base dei diversi
servizi sociali che intendono stimolare l'organizzazione della comunità sul tema della preparazione alle
emergenze e risposta alle catastrofi naturali.
Si rivolge a maestri ed insegnanti, a medici e infermieri, ai tecnici dell'ambiente, agli animatori di
comunità Si rivolge anche alle persone ed ai gruppi che costituiscono l'organizzazione formale ed
informale della comunità, le persone cioè che fanno parte dei Comitati Locali per le Emergenze e a tutti
coloro che a livello locale ed internazionale, ONG, Associazioni di volontariato, etc., si assumono
l'impegno di migliorare l'organizzazione della comunità attraverso tecniche che ampliano lo spazio di
espressione della molteplicità dei suoi bisogni.
Questa Guida illustra la metodologia e le diverse tappe di realizzazione delle mappe. Si tratta di un
metodo che è stato sviluppato sulla base di esperienze pratiche sul campo. Opportunamente riadattato
alle specifiche situazioni locali, il metodo si presta ad essere riprodotto in contesti diversi. Le mappe
possono costituire un utile strumento didattico anche per studenti il cui programma di studio includa il
tema dell'organizzazione comunitaria e che realizzino il tirocinio pratico nell'ambito della comunità
locale.
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CHE COSA E' UNA MAPPA COMUNITARIA DEI BISOGNI E DELLE RISORSE?
Le mappe comunitarie dei bisogni non vanno confuse con la cartografia specialistica di tipo tematico o
generale territoriale. Rispetto ad esse sono qualitativamente più arricchite, ma non sostitutive.
Le mappe costituiscono una tecnica di partecipazione comunitaria orientata alla ricerca della migliore
qualità possibile nelle risposte ai bisogni di una popolazione. Ed è esattamente questo che viene messo
in discussione nel momento in cui si verifica una catastrofe.
Il metodo delle mappe comunitarie dei bisogni consiste nella trasposizione grafica (sotto forma di figure,
tabelle, schemi e mappe corrispondenti alle aree nelle quali hanno lavorato gruppi della comunità) dei
bisogni più urgenti che sono stati identificati, dei fattori di rischio, dei pericoli per la sopravvivenza e la
salute ed, infine, delle soluzioni più adeguate.
Anche se sono state spesso utilizzate per integrare il lavoro di mappatura di un territorio fatto dai tecnici,
le mappe comunitarie dei bisogni si differenziano dalla cartografia tematica perchè sono un metodo per il
coinvolgimento e la mobilitazione dei diretti interessati nella scelta e nella realizzazione delle soluzioni
ai problemi presenti nella comunità.
Il processo che si attiva, infatti, non è una convalida consensuale delle analisi dei rischi e dei bisogni
eseguite con metodologie "oggettive" e integrate dagli elementi tratti dalla percezione del pericolo e del
rischio della popolazione locale.
Si tratta di un processo attraverso il quale competenze e saperi diversi (di comunità locali, istituzioni,
tecnici, enti pubblici o privati, ecc.) convergano e concorrano alla definizione di obbiettivi comuni
attraverso un processo di negoziato collettivo.
Nelle comunità che hanno subìto un disastro il metodo delle mappe comunitarie dei bisogni e delle
risorse costituisce un sistema efficace per aiutare la comunità a riprendersi e per riattivare il meccanismo
di sviluppo. In molti casi ciò significa lavorare con comunità che vivono in zone dove i disastri si
possono ripetere. Quindi, il metodo costituisce uno strumento utile per analizzare, insieme alla
popolazione, ciò che è avvenuto durante il disastro e per identificare ciò che occorre fare per essere più
preparati ad affrontare un'eventuale altra emergenza. Inoltre, il metodo mette in atto un processo di
partecipazione comunitaria in cui le persone apprendono a formulare un piano di azione e a lavorare
insieme in modo organizzato, cosa che riveste una importanza fondamentale in caso di disastri.
Il metodo concorre alla creazione di un sistema collettivo di conoscenze e azioni che ha come scopo
quello di permettere alla comunità di assumere un ruolo attivo di fronte alle catastrofi. Spesso la
terminologia della "partecipazione comunitaria" viene utilizzata esclusivamente allo scopo di ottenere il
consenso riguardo ad un piano di azione precostituito. Con questo metodo la pertecipazione diventa
operativa. Rivela in quale modo il malessere ed il disagio vengono percepiti dalla popolazione ed in
particolare dai gruppi più svantaggiati e vulnerabili. Sono proprio questi i gruppi che si impegnano in
modo più attivo nel processo: donne, bambini, anziani, persone con particolari difficoltà in campo
sociale, fisico e psicologico. E sono spesso loro che riescono, con la collaborazione degli operatori
sociali e sanitari, a coinvolgere gradulamente anche il resto della comunità.
Il metodo delle mappe comunitarie aiuta anche a migliorare il rapporto fra la comunità, i servizi pubblici
e le istituzioni.
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Un tratto caratteristico del metodo consiste nel rilievo dato alla qualità della soddisfazione dei bisogni ed
all'importanza di comprendere le caratteristiche specifiche di ciascuna comunità ed il modo in cui
reagisce di fronte al disastro o all'emergenza.
Nelle esperienze realizzate attraverso l'uso delle mappe dei bisogni abbiamo scoperto che dietro alla
parola "emergenza" si nascondono significati complessi che variano da una comunità all'altra. Per
definire ciò che significa 'emergenza' per una determinata comunità occorre considerare in che modo si
manifestano e si rendono acute, in caso di disastri, le contraddizioni sociali, economiche e territoriali.
Occorre comprendere i fattori che sono alla base di ciascun rischio specifico nella vita quotidiana della
comunità.
La Guida si articola in tre Parti.
La Prima parte è costituita dal racconto di quattro esperienze di uso delle mappe. La scelta del metodo
"induttivo" (iniziare da un fatto e non da una premessa teorica) non è casuale: si è preferito partire dalle
esperienze dirette proprio perchè è da queste che è nata e si è sviluppata la tecnica delle mappe dei
bisogni.
Le prime due esperienze si riferiscono al terremoto del novembre 1980 in Italia ed è qui che il metodo è
stato usato per la prima volta. Successivamente questa tecnica è stata conosciuta e utilizzata nei paesi
dell'America Latina (dove ha ottenuto ottimi risultati ed è tutt'ora in fase di sperimentazione) e in
numerosi altri programmi di cooperazione internazionale (in Mali, nelle Filippine, etc.)
La Seconda parte illustra i principi generali su cui si basa il metodo.
La Terza parte illustra le fasi in cui si articola la stesura delle mappe.
Alla fine, è allegata una scheda di auto-valutazione come strumento per analizzare le attività in corso.
Infine va detto che, dal momento che il metodo viene presentato qui per la prima volta in forma
sistematica, è soggetto alla discussione ed al confronto.
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PARTE PRIMA
Come si realizzano le mappe comunitarie dei bisogni: quattro studi di caso
Per fornire un saggio dei molteplici modi di applicazione della tecnica delle mappe comunitarie dei
bisogni e delle risorse sono stati scelti quattro racconti tratti da esperienze di operatori locali. I diversi
contesti geografici, politici ed economici in cui si sono svolti i programmi mostrano la grande duttilità
delle mappe comunitarie e la loro peculiarità di agire sempre nel rispetto delle culture locali.
Da una parte vengono narrati i progetti pilota di Polla e Giugliano, due centri della Campania, colpiti dal
terremoto del novembre 1980. Si tratta in entrambi i casi di situazioni di post-emergenza e di
ricostruzione in un Paese industrializzato, ma in una regione su cui gravano gli squilibri economici
caratteristici del Mezzogiorno.
Dall'altra, viene raccontata l'applicazione della stessa metodologia in due Paesi in via di sviluppo: El
Salvador e Colombia.
Il Salvador, una zona di guerra in cui il piano di intervento ha subìto interruzioni e rallentamenti a causa
del conflitto tra le forze governative e quelle della guerriglia, pur riuscendo ad avere una certa continuità.
La Colombia, dove vige una politica di forte centralizzazione governativa, durante l'emergenza per
l'eruzione del vulcano Nevado del Ruiz, avvenuta nel novembre 1985. Un contesto in cui la povertà e la
guerriglia spingono a un continuo esodo dalle campagne, causando un processo di massiccia
urbanizzazione.
Nei due esempi italiani, uno riguardante soprattutto l'infanzia e l'altro le comunità di anziani, la tecnica di
partecipazione comunitaria ha permesso di superare la radicata diffidenza della popolazione locale nei
confronti delle istituzioni. Il caso salvadoregno e quello colombiano, invece, mostrano l'efficacia di tale
tecnica anche in condizioni politiche particolarmente difficili.
Il materiale qui di seguito esposto è una sintesi dei resoconti e dei rapporti di missione scritti dagli
operatori che hanno preso parte ai vari progetti.
Diario di un operatore socio-sanitario di base del Centro di Medicina Sociale di Giugliano - Napoli
(Italia)
Sono passati ormai quasi due anni da quando ho cominciato a lavorare in questa scuola di Giugliano, con
i ragazzi di una IV elementare. La fine dell'anno scolastico si avvicina rapidamente e sono molte le
osservazioni da fare. Tanto per cominciare non mi va l'idea di lasciare i ragazzi; li conosco uno per uno,
abbiamo sempre lavorato insieme, anche in modo divertente, instaurando una reale collaborazione.
Questo mi assicura che i risultati raggiunti riusciranno ad avere seguito nel tempo.
Ho pensato di riassumere le attività a mio avviso più significative per lasciare una traccia a chi
continuerà il lavoro dopo di me. Per sapere, invece, ciò che significa un lavoro di questo tipo, credo che
basterà semplicemente conoscere i ragazzi, saperli ascoltare con disponibilità, senza preconcetti.
Quando ho cominciato le attività nella scuola, il terremoto del novembre del 1980 si era appena
abbattuto su una popolazione rurale già estremamente povera ed emarginata, rendendo più drammatici e
acuti i problemi quotidiani della gente. Sono stato chiamato dall'Amministrazione scolastica per un
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intervento specialistico di tipo psichiatrico: c'era una richiesta ossessiva di tecniche didattiche e interventi
di questo tipo.
Bisogna però dire che i ragazzi facevano molta fatica a lavorare, a seguire gli insegnanti, a socializzare
fra di loro, a comunicare con i genitori. Il loro disadattamento scolastico e sociale si manifestava con
ritardi di apprendimento e disturbi motori di vario genere. Certo, i medici del posto dedicavano forse
maggiori attenzioni a qualche bambino in particolare, ma solo nel senso che avevano a disposizione dei
medicinali specifici in caso di bisogno improvviso.
In seguito al terremoto, a questa complessa realtà quotidiana si sono aggiunti altri problemi. I bambini
avevano paura, non dormivano per gli incubi, ma soprattutto prevaleva un forte senso di smarrimento e
scoraggiamento di fronte al fatto di dover ricominciare qualsiasi tipo di attività. Provavano disagio
anche per la mancanza di un loro spazio. Dal momento che gran parte delle aule erano andate distrutte,
una stessa stanza doveva ospitare tre classi insieme e i bambini erano aggressivi fra di loro, gelosi di uno
spazio troppo ristretto.
Emergenze come queste spezzano all'improvviso ogni continuità con il passato, con la vita quotidiana, e
sviluppano una fatalistica passività verso il futuro. Gli insegnanti, dal canto loro, troppo preoccupati di
dover finire i programmi entro l'anno, non riuscivano a capire il perché di tanta resistenza allo studio.
Così, i genitori (quasi tutti braccianti agricoli, con famiglie numerose a carico), richiesero
insistentemente un tipo d'intervento psichiatrico, specialistico.
Appena arrivato nella classe, al di là degli specifici problemi di ognuno, ho identificato una costante
comune tra i bambini: tutti esprimevano, appena era possibile, il loro bisogno di giocare. Allora ho
proposto agli insegnanti un tipo di lavoro che non li escludesse dalle decisioni che li riguardavano, un
lavoro che prevedesse il loro contributo come fonte d'informazione diretta e, chissà, forse anche molto
più attendibile.
Si trattava di costruire e disegnare insieme una mappa dei giochi che preferivano fare e dei luoghi in cui
solitamente giocavano. Se non altro era un tema che poteva essere condiviso da tutti e forniva una prima
risposta concreta al problema che essi stessi avevano fatto emergere.
Questa scelta, in qualche modo critica rispetto ai tradizionali approcci pedagogici e ai modelli proposti
dall'istituzione educativa, è servita a stabilire un ampio margine di collaborazione, intesa e complicità, sia
con i ragazzi che con gli insegnanti.
Per limitare il senso di smarrimento rispetto a un ambiente fortemente modificato dal sisma, abbiamo
fatto ricorso alla stimolazione della memoria e dei ricordi più piacevoli: quelli risalenti al periodo presismico.
La classe è stata divisa in piccoli gruppi di lavoro e i ragazzi hanno cominciato a ricostruire
mentalmente e a disegnare le prime mappe del loro quartiere, con le strade, i palazzi e i posti in cui
preferivano giocare. Questa prima fase di attività è stata importante anche perché, grazie ai gruppi, gli
alunni hanno socializzato e si sono confrontati, hanno suddiviso i propri compiti secondo un preciso
piano di lavoro e hanno scelto un coordinatore.
Purtroppo però, i gruppi di lavoro, anche se omogenei, non esprimevano fino in fondo dei bisogni
concreti e la percezione del loro spazio mutato, estraneo, rimaneva ciò nonostante molto forte.
Abbiamo cercato allora una vantaggiosa variazione alla "situazione di classe", organizzando piccole
uscite di perlustrazione del quartiere per verificare la realtà di ciò che si erano sforzati di ricostruire
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mentalmente, per discutere e intervistare altri abitanti del quartiere, i lavoratori delle zone visitate,
trattando in genere argomenti che erano allo studio.
Il metodo che si è pensato di utilizzare, durante questa seconda fase di attività, implicava l'uso di mezzi
di comunicazione audio-visivi e grafici che potevano stimolare maggiormente la loro espressività,
creatività e immaginazione, anche perché il bambino normalmente tende a cogliere più l'insieme che le
singole parti, riuscendo a identificare problemi e soluzioni ben differenti da quelli indicati dagli adulti.
Così, con macchine fotografiche, registratori, materiali da disegno, blocchi per appunti, hanno studiato e
individuato situazioni da valorizzare e trasformare secondo le idee, i desideri e i bisogni che ognuno
voleva soddisfare. Hanno fotografato ciò che per loro era più interessante (architetture di palazzi, spazi
abbandonati, strade, ecc.), hanno annotato sensazioni ed emozioni.
Fuori dall'aula e da una situazione di classe "standard", i bambini sono diventati più autonomi e riflessivi,
riuscendo finalmente a esprimersi liberamente.
Non era solo lo sforzo di ricominciare da capo e di reagire, organizzati insieme, a una catastrofe; non era
solo la soddisfazione nostra, degli insegnanti o dei genitori (che avevamo deciso di far partecipare alle
investigazioni nel quartiere) di averli finalmente visti al lavoro con blocco e penna per gli appunti, seri,
responsabili e motivati ad andare a scuola. Il risultato più importante fù che la mappa realizzata
rappresentava un sapere nuovo, elaborato grazie alla partecipazione della comunità intera che aveva in
un modo o nell'altro contribuito alla sua realizzazione. Rappresentava un tentativo di trovare la migliore
qualità possibile di risposte ai loro bisogni.
Dalle visite sul campo era infatti emerso, relativamente alla questione "gioco" posta dai bambini, un
cosiddetto rischio sociale e ambientale: una forte esiguità di spazi verdi di uso collettivo, una moltitudine
di zone polverose e semi-abbandonate in condizioni igienico-sanitarie inaccettabili, solo pochi cortili o
recinti di alcune case private dei più fortunati per giocare.
Tornati in classe, i ragazzi hanno quindi integrato le prime mappe disegnate con le fotografie e gli
appunti presi sul posto. Ne abbiamo discusso collettivamente, chiamando a partecipare sia i genitori che
altre persone esterne alla scuola: anziani, artigiani e operai che, in qualità di "esperti", hanno contribuito
con il loro sapere all'approfondimento dei temi volta per volta affrontati.
Ci è sembrato opportuno salvaguardare in qualche modo la cultura locale come patrimonio specifico di
idee, sapere, conoscenze, anche e soprattutto in un momento in cui invece appariva chiara la necessità di
"saper fare". E' stato facile poi trovarsi, forse per la prima volta grandi e piccoli insieme, esperti e non, a
discutere tutti intorno alla mappa per cercare di trovare le priorità da affrontare e gli interlocutori
(tecnici dei servizi, rappresentanti istituzionali, associazioni specialistiche, organizzazioni sindacali, ecc.)
con cui mantenere relazioni e collaborare per delle concrete attività di trasformazione.
E' certo che la tecnica delle mappe comunitarie dei bisogni non può, da sola, far fronte a emergenze
come quella del terremoto. Tuttavia, la flessibilità della sua applicazione fornisce all'intera comunità un
utilissimo strumento di analisi e di pianificazione. Il risultato finale di una mappa, infatti, non consiste
esclusivamente nell'evidenziazione dei bisogni più disparati della popolazione locale, ma anche nel
trovare i mezzi e il modo per soddisfarli con il migliore impiego di risorse.
La lezione di Vincenzina, Comune di Polla, quartiere il Serrone - Salerno (Italia)
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L'emergenza creatasi in seguito al sisma del 23 novembre 1980 ha investito tutta l'area campana ed in
particolar modo quelle zone rurali, socialmente più emarginate e arretrate come appunto il Comune di
Polla. Mi sono recato sul posto immediatamente in qualità di esperto in urbanistica. Facevo parte di una
piccola équipe di specialisti (chi del settore socio-sanitario, chi di quello educativo, ecc.).
Il terremoto aveva causato danni ingentissimi alle persone e al territorio: più di duemila senza tetto,
secondo quanto ci avevano detto con approssimazione; tutto il centro storico (di cui il quartiere Serrone
fa parte) era gravemente danneggiato e andava ricostruito, ma l'inaccessibilità ai veicoli e la rigida
stagione invernale rendevano molto difficoltoso il nostro intervento.
Il Serrone è un vecchio paese arroccato in cima a una montagna; è possibile raggiungerlo per una strada
stretta e tortuosa che si arrampica in salita, a senso unico, fino ad arrivare in cima a un crinale. Da lassù
lo sguardo può spaziare su tutta la vallata. Quando siamo arrivati in cima era poco dopo l'alba; subito
dietro la porta del paese ci siamo fermati, nell'aria pungente del mattino, ad aspettare il Sindaco.
L'appuntamento era nella piazza principale che era, in realtà, solo un piccolo slargo. Le case intorno,
dipinte di rosa dai raggi del sole che sorgeva, erano assiepate l'una sull'altra, quasi a testimoniare l'antica
solidarietà che lega da sempre gli abitanti.
Si poteva vedere ancora l'architettura tipica dei borghi medioevali, ma molte case erano gravemente
danneggiate e pericolanti. L'Amministrazione del comune di Polla ci aveva chiamati, in qualità di tecnici
esperti, per una stima particolareggiata dei danni, dal momento che la cittadinanza, soprattutto gli
abitanti più anziani del Serrone, non volevano accettare l'ordinanza di sgombero di quelle case ritenute
più pericolanti. Durante l'incontro, il Sindaco ci ha parlò a lungo della sua gente: degli anziani che
abitavano il Serrone da sempre, che lo avevano costruito e mantenuto con fatica e che adesso si
rifiutavano categoricamente di lasciare le loro case e la loro terra per andare a stare nei caravan
provvisoriamente installati.
Tutte le persone che incontravamo si aggiravano per le strade dato che due mesi dopo la catastrofe
ancora nessuna attività era ripresa normalmente. Successivamente andammo a vedere la scuola perché ci
era stata promessa un'aula per poter tenere le riunioni e organizzare l'intervento. Ma non solo l'aula, bensì
l'intera scuola era completamente vuota. In ogni modo ci siamo riuniti lì con gli amministratori comunali,
i tecnici locali e parte della popolazione, per discutere gli obiettivi del progetto, i compiti di ciascun
tecnico, ma soprattutto per decidere con la gente le iniziative da prendere e prendere quindi accordi sulle
attività.
A loro modo gli abitanti del quartiere si erano già organizzati: molti si erano sistemati nelle case meno
danneggiate, cercando di ricostituire in qualche modo dei nuclei familiari e di evitare che molti dei
giovani, rassegnati, andassero via. In ogni modo si era sviluppata una forte solidarietà nei confronti di
tutti.
Terminato l'incontro, finalmente ci siamo sistemati per dormire lì la prima notte. Molte ore più tardi
ancora riflettevo su questa prima giornata. La riunione appena terminata era stata un disastro e
ripensavo all'amministratore comunale che poco prima, con una pacca sulla spalla, mi aveva salutato
soddisfatto. Era contento -diceva -che tutti fossero stati ad ascoltare ed era sicuro che la situazione si
sarebbe presto sbloccata. Invece io sentivo ancora quel pesante silenzio intorno a me, rivedevo quegli
occhi ostili, fermamente convinti di non arrendersi mai.
Pensavo che la riunione era stata quasi una farsa, una pura e semplice richiesta di consenso da parte della
popolazione. E poi mi chiedevo delle sorti di tutti quei bambini di cui nella scuola non c'era traccia.
Come avremmo fatto a eliminare la forte sfiducia e i timori che la gente manifestava di fronte a un
"progetto di ricostruzione del quartiere"? Il nostro obiettivo appariva ai loro occhi un'altra delle tante
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promesse ufficiali raramente mantenute, che avrebbe comportato tempi lunghissimi e interventi rallentati
da modalità burocratiche troppo complesse.
L'indomani mattina ancora non sapevamo come comportarci. Soprattutto non eravamo convinti delle
richieste del comune e del "consenso" della popolazione. Il Sindaco, mentre ci parlava della sua gente,
non sembrava fatalisticamente rassegnato. Anche lui, forse, era nascostamente fiducioso di poter
risolvere la questione altrimenti.
Comunque, usciti appena fuori del paese, incontrammo un gruppo di bambini e ragazzi che parlava con
una una signora. Era una donna di mezza età, piccola, pacata, apparentemente insignificante, che invece
era sempre ascoltata da tutti. Un'altra volta,
infatti, l'abbiamo vista intenta a convincere un responsabile del comune perchè voleva ottenere il
permesso scritto di liberare dai rifiuti i canali di scolo delle acque piovane che ogni inverno invadevano
le case. Un'altra volta ancora discuteva con degli anziani fuori dal bar del paese sui servizi sanitari che
non funzionavano. Anche quella volta tentava di convincerli che sarebbe stato più giusto organizzarsi
autonomamente per gestirli e che forse così anche i giovani sarebbero stati più motivati a restare.
Avevo notato insomma che Vincenzina, pazientemente ma con pervicacia, veniva ascoltata dalla gente,
soprattutto in quei momenti in cui le voci si sovrapponevano nei concitati tentativi di trovare le soluzioni
ai problemi più immediati. Inaspettatamente Vincenzina mi dava l'indicazione dell'approccio giusto: in
effetti esistevano già dei gruppi spontanei di popolazione che si organizzavano a modo loro. Su questa
base potevamo instaurare uno stretto rapporto di collaborazione in cui le nostre diverse qualifiche
tecniche sarebbero servite soprattutto come consigli specifici.
Vincenzina conosceva le persone più indicate a cui rivolgerci. Così ci riunimmo ancora una volta nella
scuola, questa volta con persone selezionate della popolazione locale e con Vincenzina come portavoce e
coordinatrice.
L'esperta del settore educativo collaborò con lei affinché all'incontro partecipassero anche quei ragazzi
renitenti che, però, stavano ad ascoltarla. Volevamo stabilire con la popolazione il progetto di
ricostruzione. Un piano di ricostruzione che non partisse più dal quartiere nel suo insieme, bensì dalle
singole case di ognuno. Dai problemi quotidiani di tutti a cui, adesso, si aggiungevano quelli causati dal
terremoto.
Vista la stagione così inflessibile, le prime richieste riguardavano tutte la ricostruzione immediata dei
tetti. Anche se la richiesta era illogica, dal momento che non potevamo far riparare i tetti o costruirli
senza aver previamente fatto restaurare i muri o le fondamenta, l'accettammo ugualmente. Infatti, se dalle
prime riunioni emergeva disinteresse di fronte a un piano di ricostruzione generale del quartiere, adesso
si dava a ogni proprietario di casa la possibilità di proporre lui stesso un piano di ricostruzione della
propria, secondo le sue esigenze specifiche e i suoi bisogni.
Contemporaneamente cominciammo a fare i primi rilevamenti e a prendere le misure delle singole case.
A questa fase delle attività hanno partecipato in molti e anche con grande entusiasmo.
Noi lavoravamo insieme ai ragazzi che riscoprivano il valore architettonico delle costruzioni più antiche.
Vincenzina e i bambini più piccoli, invece, aiutavano gli anziani che erano in pensione. Mentre
lavoravano, i piccoli ascoltavano con grande attenzione gli anziani che narravano le storie più belle del
quartiere, di quando loro non erano ancora nati. Imparavano molto e, nei momenti di pausa, correvano
dai genitori, impazienti di raccontare le loro nuove scoperte. Poi tornavano da noi con pasti cucinati o
con delle merendine che prendevano nelle case, e insieme continuavamo a lavorare in modo allegro e
molto piacevole. Il risultato di tutto questo sono state le prime mappe delle case, da cui emergevano con
chiarezza alcuni bisogni, ma anche e soprattutto la mancanza di risorse istituzionali per risolverli.
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Nonostante il coinvolgimento di numerose persone e la grande animazione sociale che si era creata così
facilmente, sapevamo che, altrettanto facilmente, si sarebbe diffuso fra la gente uno scoraggiamento
ancora maggiore e quel fatalismo passivo che sorge di fronte al fatto di veder enumerati in una lunga lista
tutti i problemi, se non si fosse potuto contare su chi aveva il potere istituzionale di prendere le decisioni
effetive, operative.
Noi stavamo collaborando con la popolazone, inseriti ormai in essa, e dovevamo cercare un modo per
accorciare l'enorme distanza che la separava dall'ambito istituzionale. Ci preoccupammo allora di
diffondere in tutta la zona informazioni dettagliate sulle attività che stavamo facendo, dimostrando che la
gente del posto stava mettendo a disposizione le risorse di tutti, bambini compresi, per soddisfare
l'interesse comune.
Questo bastò a coinvolgere nuovi interlocutori che arrivarono, incuriositi, da altre parti di Polla. Venne
anche la TV locale a documentare le attività. Il Serrone era ormai il centro dell'interesse di tutta la zona,
(spazio istituzionale compreso). Inoltre, questa scelta fu di primaria importanza per coinvolgere le
istituzioni e ottenere l'intervento sul posto di studenti di architettura francesi che presero
immediatamente parte ai lavori.
L'obiettivo era duplice: da un lato gli abitanti del quartiere potevano sentirsi più rafforzati dal fatto che
enti, organizzazioni, o apparati istituzionali competenti stranieri si interessassero attivamente a loro
quando nemmeno la stessa Amministrazione del comune di Polla lo faceva, e continuavano quindi a
collaborare. Dall'altro, si trattava di un elemento di ulteriore rivalutazione dei valori socio-culturali del
posto. Questa accortezza, apparentemente insignificante, ha facilitato l'espressione dei veri bisogni della
gente.
Per esempio, una coppia di anziani signori che doveva risolvere il problema di avere un bagno e una
cucina raggiungibili solo da una terrazza scoperta, quindi troppo ventilata e fredda, trovarono con noi la
soluzione che cercavano già prima del terremoto.
Uno dei valori socio-culturali che la gente ha in relazione al proprio quartiere, è proprio l'orgoglio della
vista su tutta la vallata che alcune case hanno. Insieme decidemmo di ricavare una stanza di accesso a
bagno e cucina che fosse chiusa, aprendo invece una veranda panoramica al piano di sopra.
Quando in una situazione di emergenza le necessità degli interventi istituzionali, che seguono la logica
dominante, si sovrappongono ai bisogni reali della gente, è difficile trovare delle soluzioni che risolvano
i problemi di tutti, specialmente quelli dei gruppi più poveri ed emarginati. In qualità di urbanista, il mio
compito era -non dimentichiamolo-favorire le condizioni per la riabilitazione del quartiere intero e,
semmai, curare solo successivamente i particolari.
In realtà non saremmo mai riusciti ad ottenere un'effettiva collaborazione da parte di tutti, se non ci
fossimo preoccupati di realizzare prima un'analisi particolareggiata dei diversi bisogni di ogni nucleo
familiare; se non fossimo stati attenti ad ascoltare la gente, proprio così come esprimeva i suoi bisogni.
Infatti, mano a mano che affrontavamo i problemi casa per casa, e che tutti quindi partecipavano alla
realizzazione di mappe specifiche, veniva componendosi anche il quadro generale dei problemi del
quartiere nel suo insieme.
Nelle successive riunioni, lentamente, la comunità del Serrone (tecnici del comune, operatori sociosanitari, insegnanti e tanti altri responsabili locali) realizzò, oltre le mappe specifiche delle singole case,
anche quelle dei guasti nelle strade interne ed esterne al quartiere che rendevano difficili i collegamenti e
delle relative modifiche da apportare.
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E' stato a quel punto possibile integrare tutte le mappe insieme; da questo sono emersi i problemi di
assoluta emergenza e le priorità, con le possibili soluzioni per risolverli. Una volta disegnate
collettivamente le mappe degli interventi da fare su ciascuna casa (riparazioni e miglioramenti richiesti),
la gente si è sentita rassicurata.
Pur essendo consapevole del fatto che si trattava solo di un primo passo, ognuno si è sentito considerato
e rispettato, accettando così di contribuire alla realizzazione di un piano globale di ricostruzione del
quartiere.
Discutemmo collettivamente anche della riorganizzazione e decentralizzazione delle strutture e dei
servizi pubblici, della necessità di svolgere un'analisi dei bisogni (tenuto conto del fatto che troppo
spesso la gente li esprime sotto forma di domande "condizionate"), di realizzare progetti tecnici
estremamente flessibili e, fatto fondamentale, di coinvolgere il maggior numero possibile di
rappresentanti istituzionali.
La fase di ricostruzione era ormai pronta ad essere avviata. In fin dei conti, potevo affermare che ogni
parte della comunità aveva raggiunto il proprio scopo. La popolazione locale e gli operatori avevano
ottenuto l'avviamento del progetto di ricostruzione del quartiere, mentre l'amministrazione comunale
aveva trovato la soluzione di una questione nodosa e il superamento del dissenso e dello scontento
generale rispetto all'ordinanza di sgombero. Ma il fatto più importante è stato che la popolazione intera
del Serrone aveva cercato e ottenuto soluzioni concrete alle necessità più urgenti. Inoltre, dopo aver
individuato le effettive risorse disponibili e gli enti pubblici e/o privati cui rivolgersi, aveva rafforzato la
propria organizzazione interna, evitando così che l'entità dei danni provocati da improvvise catastrofi
potesse essere ancora più grave.
Le battaglie di San Marcos e di San Jacinto - (El Salvador)
Faccio parte del mondo del volontariato e, durante i mesi invernali, insegno nelle scuole elementari di
una grande metropoli. Avevo sempre desiderato fare esperienze anche in situazioni diverse da quelle in
cui abitualmente lavoro, e quella salvadoregna dopo il terremoto del 1986 mi sembrò la più adatta alle
mie capacità professionali.
San Jacinto e San Marcos sono zone emarginate della periferia di San Salvador che presentavano, già
prima del sisma, gravi lacune nelle strutture urbane e nel sistema scolastico. Ebbi la possibilità di
lavorarci all'interno di un progetto di cooperazione internazionale concordato da un paese occidentale
con il governo salvadoregno.
Le popolazioni locali di quelle zone, da sempre abituate a una scarsa attenzione ai loro bisogni da parte
delle istituzioni, avevano risentito più di altre il disagio del dopo-disastro.
La necessità di valersi di tecniche partecipative nacque, quindi, dal bisogno di superare il clima di
sfiducia e di scoraggiamento che si era andato creando e rafforzando sia all'interno delle popolazioni
locali in questione che nei rapporti tra queste e gli enti preposti a salvaguardare i loro interessi.
In altre parole, bisognava ricucire il tessuto sociale dell'intera comunità eliminando le infruttuose
separazioni tra popolazione locale, operatori e istituzioni. Inoltre, per questo come per tutti i progetti da
avviare, era necessario controllare l'effettiva esistenza delle risorse necessarie alla realizzazione pratica
del piano di intervento.
E' infatti fondamentale coinvolgere la gente del posto soltanto quando ci sia assicurati, presso gli enti
governativi e le organizzazioni internazionali, che siano effettivamente reperibili le risorse economiche e
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tecniche indispensabili al compimento dei lavori. Sarebbe, logicamente, del tutto inutile, se non
estremamente dannoso, lavorare per mettere in luce i bisogni della gente senza essere sicuri che poi tali
esigenze possano essere soddisfatte.
Tra le varie forme di intervento, ho scelto il lavoro nelle scuole elementari perché i bambini
rappresentano una delle fasce sociali più vulnerabili (e lo sono ancor più in casi di calamità), ma al
tempo stesso sono anche i più sensibili e attenti a proposte innovative come quelle delle mappe.
Da un primo esame dei dati forniti dalle istituzioni, poi confermati dalle indagini compiute sul posto
mediante le mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse, risultò evidente che il livello nazionale di
istruzione era molto basso. E lo era maggiormente nelle zone emarginate.
Quella fu la mia prima esperienza con le mappe. Il governo aveva fornito a noi operatori le sue
statistiche sulla situazione scolastica, ma non sapevamo se rispecchiassero veramente la realtà locale. Ci
dividemmo per zone geografiche e andammo a controllare. Lavorando assieme alla gente del posto, il
mio gruppo scoprì molti aspetti che le cifre statistiche non avrebbero potuto evidenziare. Ne venne fuori
una prima lista dei bisogni che, in seguito, confrontammo con quelle delle altre aree in modo da ottenere
una visione generale più attinente alla realtà.
Nel Salvador, la cui popolazione è composta per metà da giovani al di sotto di 20 anni, c'è un tasso di
analfabetismo globale che si aggira attorno al 30%. Una percentuale che sale notevolmente tra le
popolazioni marginali, dove i bambini in età prescolare (4-6 anni) non frequentano alcun tipo di scuola
materna e quasi la metà di quelli tra i 7 e i 12 anni disertano le lezioni.
Inoltre, non bisogna pensare che quello dell'alfabetizzazione sia un problema di secondaria importanza
perché, senza avere la minima possibilità di comunicare e dialogare con le istituzioni, ogni popolazione
periferica rischia di diventare sempre più emarginata. E questo non facilita di certo un processo di
sviluppo.
Se le persone non sono in grado di ricevere e ricambiare informazioni, non hanno i mezzi per migliorare
la loro condizione sociale, igienico-sanitaria e ambientale.
A questa situazione, già di per sé preoccupante, si sono aggiunti gli effetti del terremoto del 10 ottobre
del 1986 e un'instabilità politica che non ha finora permesso un regolare svolgimento del progetto
globale. Ma, fortunatamente, ora le popolazioni locali di San Jacinto e di San Marcos hanno gli strumenti
e le conoscenze per mandare avanti da sole molti dei progetti avviati. In Salvador vi sono gravi problemi
di risorse umane ed economiche, ma abbiamo scoperto che con la partecipazione di tutti si trova sempre
una via di uscita.
Partendo dai bisogni degli alunni e dalle scarse risorse delle zone disagiate in cui vivono quei bambini,
siamo riusciti a trovare soluzioni spesso già esistenti sul posto o nelle zone attigue.
La docenza domiciliare, per esempio, permette di insegnare anche in mancanza di una scuola o
nell'impossibilità degli alunni di recarsi in classe quando essa esiste.
Lo stesso insegnante (nella maggior parte dei casi si è trattato di volontariato degli studenti universitari)
può prestare il proprio servizio in vari posti o può raggruppare diversi alunni in spazi che, in altri orari,
sono riservati ad altre attività. E questo riduce notevolmente le risorse da mettere a disposizione e i costi
da sostenere.
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Contemporaneamente, abbiamo cercato di trovare le risorse necessarie a costruire o migliorare gli edifici
scolastici, le strade e tutte le altre strutture necessarie a risolvere il problema generale
dell'alfabetizzazzione.
Abbiamo presentato le nostre richieste agli enti e alle organizzazioni competenti. E, quando non si
attraversava un momento di tensione sociale, abbiamo ottenuto buone risposte. Altrimenti, anche nelle
peggiori condizioni politiche ed economiche, siamo sempre riusciti a fare quel minimo che ci
permettevano le risorse locali.
La parte più significativa dell'esperienza salvadoregna, e anche la più delicata, è stata il collegamento e la
collaborazione tra le popolazioni locali, gli operatori, le istituzioni governative e le organizzazioni
internazionali.
Il fatto che un ristretto gruppo di persone sia riuscito a mettersi in contatto con il governo e con le
organizzazioni umanitarie rappresenta un grande successo.
Finalmente la gente comune ha trovato un suo mezzo di espressione e ha potuto formulare con precisione
le sue richieste, superando così la sfiducia e i timori che la condizionavano.
Durante le prime due missioni, durate rispettivamente cinque e nove mesi, si è riusciti a ottenere
l'appoggio delle istituzioni nazionali e delle organizzazioni internazionali.
Ai due progetti hanno partecipato, da parte salvadoregna, il Ministero della Pubblica Istruzione e quello
della Sanità, l'Università Nazionale, l'ITCA (Instituto Tecnologico Centro-Americano), la Regiòn
Metropolitana del Ministero della Sanità e dell'Assistenza sociale. Hanno poi dato il loro contributo
l'Unicef, l'Unesco e la Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari
Esteri italiano.
Un risultato soddisfacente, in particolar modo se si pensa che il coinvolgimento di enti e organismi vari è
partito dalle richieste presentate da piccole popolazioni locali, sperdute nell'entroterra salvadoregno.
La tecnica delle mappe e della partecipazione comunitaria si è così mostrata uno strumento adatto a
indirizzare meglio gli interventi delle grandi istituzioni, permettendo un'utilizzazione appropriata delle
risorse.
Quando siamo arrivati, dopo il terremoto del 1986, l'area di San Marcos era quasi totalmente priva di
servizi e versava in condizioni igieniche inimmaginabili. In più, essendo vicino alla capitale, San Marcos
ospitava come meglio poteva gli sfollati provenienti sia dalle zone maggiormente colpite dal sisma, sia
da quelle in cui il conflitto armato era più intenso. Chi poteva, si spostava verso San Salvador e i
municipi vicini perché lì era più facile trovare soccorsi, viveri e medicinali.
Naturalmente, quando a una popolazione locale già in difficoltà si aggiungono i terremotati e gli sfollati,
la situazione diventa caotica ed è molto difficile organizzare un qualsiasi piano di intervento.
Dalle prime analisi partecipate dei bisogni risultò evidente la carenza di abitazioni, di fognature e di
servizi socio-sanitari. Così iniziò un programma di costruzione e di risanamento. Ma la cosa più
importante che venne fuori dalle mappe dei bisogni, e alla quale nessuno aveva fino ad allora
minimamente pensato, fu la necessità dei gruppi famigliari presenti sul posto di essere riconosciuti
legalmente dal governo, in modo che potessero avere la garanzia di entrare in possesso delle case che
stavamo costruendo.
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Ad affrontare questa "battaglia legale" ci pensò il Comitato locale, formato dai rappresentanti della
popolazione locale, dagli operatori, dalle autorità locali, dagli insegnanti e dai volontari. In questo modo
riuscimmo a mandare avanti contemporaneamente i vari piani: legalizzazione degli abitanti, educazione
scolastica, risanamento sanitario, ricostruzione degli edifici, recupero e reinserimento dei gruppi più
vulnerabili, ecc.
Comunque, senza aver evidenziato il bisogno prioritario del riconoscimento legale delle famiglie, tutto il
resto del lavoro svolto sarebbe servito a ben poco. Oppure avrebbe addirittura danneggiato la
popolazione locale, che si sarebbe vista sopraffatta e usurpata da altri.
La vittoria legale del Comitato locale riuscì poi a dare un forte impulso alle attività comunitarie, dato che
tutti si sentivano finalmente coinvolti e tutelati. Man mano che andavamo avanti con i lavori e con le
ricerche sul posto, le discussioni di gruppo facevano affiorare nuovi problemi e nuove soluzioni.
La partecipazione dei gruppi vulnerabili alle attività comunitarie, per esempio, mise in risalto il fatto che
non esisteva un'Unità Sanitaria, pur essendo già pronto un progetto di alcuni professionisti. Ma le nuove
mappe dei bisogni e delle risorse e le relative discussioni comunitarie mostrarono che quel progetto non
si adattava alle esigenze reali. Allora se ne fece un altro in base a un'idea esposta dalle persone
maggiormente in difficoltà: perché non creare un'Unità Sanitaria dotata di un centro polivalente? Sarebbe
bastato anche un appartamento. Ogni stanza sarebbe stata adibita a un particolare servizio: riabilitazione
fisica, salute mentale, problemi nutrizionali, centro informativo e amministrativo, ecc.
Le varie soluzioni vennero vagliate dal Comitato locale di cui, dopo la proposta iniziale, facevano parte
anche alcuni esperti del Ministero della Sanità. Grazie al riconoscimento legale delle famiglie di San
Marcos, eravamo finalmente riusciti a coinvolgere le istituzioni. E fu proprio il Ministero ad approvare il
progetto definitivo e fornire buona parte delle risorse necessarie.
Il risveglio del Leone Addormentato - Mariquita (Colombia)
Nel novembre 1985, appena seppi dell'eruzione del Leone Addormentato (Leòn Dormido), come la
gente chiamava il vulcano Nevado del Ruiz, mi precipitai a vedere cosa era successo nel villaggio di
Mariquita.
Lì mi accolse Pablo, un operatore locale pieno di idee e di voglia di fare.
Oltre alla preparazione tecnica in campo sanitario, aveva il vantaggio di parlare il dialetto locale e di
conoscere le mille consuetudini del posto che conosce soltanto chi ci è nato. Se non ci fosse stato lui, mi
sarebbe risultato difficile introdurmi nella comunità senza inconvenienti.
Mentre mi mostrava i danni provocati sia dall'eruzione che dal terremoto, mi fece molte domande.
Desiderava sapere chi ero e da dove venivo. Era disposto a collaborare, ma prima voleva essere sicuro
delle mie buone intenzioni.
Una volta presa confidenza, mi parlò delle difficoltà organizzative che aveva incontrato durante e dopo
le prime ore di emergenza. Le risorse erano poche e la gente era ancora troppo frastornata per pianificare
un intervento ordinato.
Gli feci presente che sarebbe stato utile usare la tecnica delle mappe, in modo da trovare di comune
accordo le prime soluzioni e da evidenziare le risorse mancanti.
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Pablo capì al volo e ci mettemmo subito a discutere il modo in cui presentare questa idea agli abitanti di
Mariquita.
Ne parlammo con alcuni di loro, ma le barriere che ci mettevano di fronte sembravano insormontabili.
Come se non fossero bastati i danni e i problemi reali che il vulcano aveva causato. L'antica e radicata
diffidenza verso gli estranei e le novità si sommava a un cupo pessimismo di fronte al disastro.
Più ci chiedevamo quale fosse la soluzione e meno ci si chiarivano le idee. Finché capimmo che la via
d'uscita stava nel trovare la maniera di superare la divisione tra noi e loro.
Cosa aveva condotto a quella infruttuosa distanza? La mancanza di dialogo, di partecipazione alla vita
quotidiana di tutti. Parlando soltanto a qualcuno, non avevamo ottenuto alcun assenso.
Ognuno tirava l'acqua al proprio mulino e tutti rimanevano insoddisfatti. Se si accontentava il nipote, si
scontentava lo zio. Se si dava ascolto alle lamentele della moglie, il marito si sentiva escluso. E questo
creava un clima di rinuncia che non permetteva di pensare serenamente al futuro, a meno che non ci
fossimo seduti tutti attorno a un tavolo e avessimo discusso sul da fare.
Certo, i problemi erano tanti e molti risalivano a prima dell'eruzione. Immaginavo anch'io come ci si
sente isolati e impotenti in un paesetto dimenticato da tutti, e Pablo me lo ricordava spesso. Ma, a
maggior ragione, bisognava reagire. Ed era questo che non riuscivamo a trasmettere alla gente: il
coraggio.
L'unica maniera di sbloccare la situazione sembrò essere quella di parlarne tutti insieme, in una riunione
collettiva in cui ognuno poteva dire la sua.
Tuttavia, Pablo mi sconsigliò di radunare gli abitanti in qualche ufficio, o in altri luoghi "istituzionali",
perché anche quelle poche persone che avrebbero accolto la richiesta si sarebbero trovate in imbarazzo e
non avrebbero esposto i loro problemi.
Su suo consiglio, mi misi anch'io a frequentare assiduamente il piccolo bar sulla piazza. Da quel centro
di riunione spontanea cominciammo a lanciare le nostre sfide o, come si direbbe in linguaggio tecnico,
ad applicare le tecniche di partecipazione comunitaria.
Il primo a cadere nel tranello fu Miguel. Si era così intestardito nel voler confermare e dimostrare la
fondatezza del suo pessimismo che raccolse la sfida. "Voi dite che la risposta si trova già nella domanda
che uno si pone. Allora guardate come è ridotta Mariquita: un ammasso di macerie. Come possono le
parole risanare questa situazione?". E poi, rivolto a me: "Fai presto a dire, tu che vieni da fuori e che tra
un po' te ne riandrai via! Tornerai nella capitale e ti dimenticherai di noi, come ha sempre fatto il
governo".
A quelle parole, tutti si scagliarono contro di me, straniero e ruffiano delle istituzioni! Erano così
inferociti che le loro urla attirarono anche quelli che abitualmente non frequentavano il bar. Appoggiato
al bancone, Pablo ascoltava estasiato le accuse che mi lanciava quel tribunale improvvisato. Dai volti
rossi di rabbia e di frustrazione, capivamo che quella focosa discussione sarebbe continuata anche nelle
case e nei vicoli. Avevamo vinto la prima battaglia.
Il giorno dopo, tornammo in prima linea. Quale posto migliore di un bar per una buona colazione? Una
tazza di caffé bevuta in silenzio, con gli occhi fissi sul piattino sbeccato. Miguel ruppe il ghiaccio e si
scusò per le dure parole della sera precedente. Anche sua moglie pensava che, alla fine dei conti, non era
colpa mia se le cose andavano così a Mariquita. Ma molti tornarono sull'argomento e, pur ammettendo
che la litigata comune aveva ravvivato un po' gli animi, chiesero con che mezzi avrebbero potuto fare
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qualcosa per il villaggio. Erano tutte persone povere, non particolarmente colte, e soprattutto non si
fidavano. Temevano che a beneficiare degli interventi governativi sarebbero stati i soliti privilegiati di
sempre. Ogni tentativo non avrebbe fatto altro che rafforzare una situazione di fatto già consolidata nel
tempo. Come era possibile soddisfare i bisogni di tutti?
Intervenne Pablo: "Come fare? Parlando! Provate a invitare al bar anche i signorotti del paese, e vedrete
che si arriverà a un accordo". Ma Miguel non riusciva a vederla tanto rosea: "Tu hai la testa piena di
belle idee che, però, qui non funzionano. Oltre alle parole, non abbiamo altri mezzi per fare qualcosa!".
Più Miguel ci contraddiceva e più faceva il nostro gioco. Dopo un attimo di silenzio, durante il quale
vedevo già nascere su molte labbra un beffardo sorriso canzonatorio, chiesi in modo volutamente
distratto: "Possibile che nessuno sia capace di tirare su un muro?". E la risposta di Miguel arrivò come
una fucilata: "Già, e con quali mattoni?".
Con quelli che il governo era disposto a inviare entro pochi giorni, gli dissi. Ma, prima di richiederli,
sarebbe stato meglio controllare i danni e vedere quante persone erano in grado di contribuire ai lavori.
Il bar si rianimò, ma con meno aggressività del giorno prima. "Le case danneggiate sono venti, no, sono
ventisette. E la scuola che cascava a pezzi già da prima? Problemi da niente se paragonati alle malattie
dei bambini che bevono l'acqua inquinata. Bisognerebbe fare dei cartelli da mettere vicino ai pozzi.
Potrebbero farli i bambini stessi a scuola, durante l'ora di disegno, così capirebbero meglio il pericolo.
Ma siamo pochi per mandare avanti tutti questi lavori. Già, quanti siamo? Non sarebbe meglio dividerci
per zone? Ma no, che dici! Meglio dividerci in gruppi di lavoro".
Avevamo così iniziato a definire quelle che a Bogotà chiamavano "lista delle risorse", "elenco dei rischi
e dei bisogni", "analisi di vulnerabilità comunitaria", "mappa del territorio", ecc. Tutti paroloni che avevo
tenuto per me, ma che ci avevano aiutato a scoprire le soluzioni già esistenti e a trovare quelle mancanti.
Forse, se Miguel non fosse stato così pessimista, non avremmo trovato i mezzi e il modo di ricostruire
Mariquita, preparandola ad affrontare meglio la vita quotidiana e altri avvenimenti come quel terribile
risveglio del Leone Addormentato. Anche la prossima volta nessuno potrà fermare il vulcano, ma
riuscirà almeno a mettere in salvo se stesso e i suoi compaesani.
Dall'esperienza vissuta assieme a Pablo e agli abitanti di Mariquita imparai molte cose che potei
trasmettere ad altri.
Durante le riunioni al bar, capii che un luogo informale di incontro facilita il dialogo ed elimina le
resistenze che tutti hanno quando si trovano di fronte a una struttura istituzionale. Una cosa è parlare
appoggiati al bancone e un'altra è esporre un problema in una sala comunale o in un tribunale.
Coinvolgendo nella discussione tutti gli strati sociali della popolazione locale, vennero alla luce anche
modi diversi di percepire i rischi. Per esempio, se per un adulto il pericolo maggiore era una casa
pericolante o un filo elettrico scoperto, per un bambino era il cane randagio che voleva morderlo e che
poteva attaccargli la rabbia.
Notai anche un forte coinvolgimento emozionale delle persone mentre raccontavano la loro esperienza
del terremoto. Segnai su un taccuino le domande che feci per capire cosa era realmente successo e quali
erano state le difficoltà incontrate.
Ne venne fuori una lista che risultò molto utile quando preparammo il programma comunitario di
prevenzione alle emergenze. Furono gli stessi ricordi del passato a fornirci i punti essenziali per
pianificare un intervento appropriato.
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Da quel momento in poi, cominciammo ad annotare tutte le rilevazioni che avevano tratti in comune e
che si presentavano più frequentemente: problemi igienico-sanitari, di risanamento ambientale, di
rifornimento idrico, ecc. Insomma, una serie di gruppi di bisogni che chiamammo lista delle categorie di
vulnerabilità del territorio e della popolazione.
Lo stesso schema venne poi applicato all'inventario delle risorse umane e materiali. Anche la
popolazione fu divisa in gruppi, e questo definì un ordine di priorità che permise di favorire i gruppi più
vulnerabili: anziani, bambini, donne incinte, portatori di handicap, invalidi, ecc..
Ci rendemmo anche conto che i più vulnerabili, specialmente gli handicappati e gli anziani, erano anche i
più emarginati e i più difficili da contattare. Decidemmo allora di fare delle interviste porta a porta. Una
rilevazione importante, quando si pensa che sono queste le categorie più a rischio in caso di emergenza.
Grazie all'adozione di un linguaggio comune formato da simboli e disegni, risultò facile e comprensibile
a tutti il trasferimento di questi dati sulle mappe parziali e di queste ultime sulla mappa comunitaria
generale.
Man mano che andavamo avanti, riuscivamo a centrare sempre più precisamente i problemi. Un processo
che ci aiutò molto a trovare le soluzioni meno dispendiose e più rapide. Inoltre, ci permise di capire
meglio quali fossero le risorse essenziali da richiedere alle istituzioni, permettendo loro di adattare i
programmi generali di intervento alle necessità locali.
Pablo fece un rapido censimento dei bambini al di sotto dei cinque anni e promosse presso il Ministero
della Sanità una campagna di vaccinazione. Un gruppo di giovani chiese alla Croce Rossa locale di
organizzare un corso di formazione al pronto soccorso per volontari. Altri formarono un comitato locale
per le emergenze. Mentre le madri costituirono un gruppo di sorveglianza per i bambini, chiedendo al
governo di costruire un asilo e spazi per gli anziani. Gli operai di una fabbrica vicina a Mariquita, che
impararono da noi la tecnica delle mappe per rilevare i loro rischi in caso di emergenza, vollero
approfondire la conoscenza della vulcanologia in modo da migliorare i loro sistemi di sicurezza. Il leader
del gruppo li mise in contatto con il SENA e ottennero di partecipare a una visita guidata da esperti
dell'Observatorio Nacional. Dopo di che la Protezione Civile locale organizzò per loro un corso sui
sistemi anti-incendio.
In conclusione, imparai che più uno strumento di intervento è flessibile e adattabile alle esigenze di una
particolare comunità, più il programma di intervento è efficace e duraturo.
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PARTE SECONDA
Principi generali
Le esperienze di costruzione delle mappe comunitarie dimostrano che queste rappresentano uno
strumento per consentire un'effettiva e sostanziale partecipazione della popolazione, tanto all'analisi dei
propri bisogni, quanto alla scelta delle soluzioni più appropriate.
La metodologia partecipativa delle mappe ha il suo maggiore punto di forza nell'inversione del
meccanismo di intervento. Non si parte più dall'alto, ossia dalle agenzie umanitarie internazionali e dalle
istituzioni governative in direzione dei gruppi sociali più colpiti, ma dal basso, ovvero dai reali bisogni
espressi direttamente dalle popolazioni locali e poi trasmessi alle alte gerarchie.
In questo modo avviene un costruttivo collegamento tra la popolazione e le autorità. Il concetto di
"comunità" non è più limitato alla popolazione locale, ma comprende tutte le parti interessate al processo
(comprese le istituzioni, le associazioni, le ONG, i sindacati, i servizi, etc). Si tratta di un approccio
globale e mirato che va a beneficio di tutte le parti interessate e capace di favorire una mediazione fra
queste, ove necessario.
Le esperienze narrate dagli operatori locali nei quattro studi del caso mostrano che è possibile
salvaguardare tutti gli strati sociali facendo fronte alle più svariate esigenze. E questo, sia in condizioni
di normalità, che in stati di emergenza e di conflitto, oppure in programmi di prevenzione e di
ricostruzione.
Il metodo si basa su una concezione della partecipazione comunitaria come processo negoziale tra le
persone in difficoltà, i tecnici, le istituzioni, e le organizzazioni che dovrebbero aiutarle ad identificare le
risposte più adeguate ai loro bisogni.
Nel negoziato si cercano le ragioni, gli obiettivi comuni da perseguire per il raggiungimento delle finalità
concordate.
Lo scopo è quello di identificare i bisogni fondamentali, le risorse necessarie e, soprattutto, i modi in cui
organizzare tali risorse al fine di trovare le risposte più appropriate ai problemi identificati utilizzando il
metodo delle mappe comunitarie. Ciò che si ricava da tale processo negoziale è la comprensione di quali
siano i problemi che le persone considerano essere più urgenti ed i mezzi con cui intendono risolverli.
Diversi gruppi e individui all'interno di una stessa comunità possono avere punti di vista che sono in
constrasto fra loro. Soprattutto, questi punti di vista spesso non coincidono, o possono coincidere solo in
parte con gli obiettivi, le regole e le procedure operative degli organi istituzionali. Attraverso quello che
abbiamo chiamato un processo di negoziato collettivo fra i diversi gruppi, individui ed istituzioni,
diventa possibile determinare la migliore qualità tecnica, sociale, economica e culturale possibile delle
risposte ai bisogni di una comunità di una data area geografica in momento storico definito.
Il fatto che la risposta venga sentita come adeguata dipenderà da una questione in gran parte soggettiva,
la percezione dei rischi, E' quindi necessario che la soddisfazione dei bisogni venga valutata in termini
qualitativi. Occorre teneder conto delle diverse percezioni individuali, altrimenti possono generarsi
rilevanti conflitti sociali.
In base a questo metodo, le soluzioni ai problemi individuati di comune accordo sono identificate come
risultato della convergenza delle risorse spontanee e potenziali della popolazione e di quelle che le
strutture ufficiali sono in grado di mettere a disposizione, anche attraverso un loro adeguamento alla
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natura e alle caratteristiche specifiche dei problemi da affrontare. Le soluzioni vengono identificate
raffrontando, da un lato l'importanza relativa dei problemi da risolvere - definita collettivamente sulla
base dei valori sociali e culturali di quella comunità - dall'altro, le risorse della comunità (tecniche,
economiche e finanziarie) che sono realmente disponibili.
Le esperienze mostrano che, affinché tale processo possa essere avviato, si rendono necessarie le
condizioni che seguono.
La prima è che la gente sia messa in grado di esprimere i bisogni, le domande, le aspettative, i desideri e
gli interessi, di essere consapevole dei propri diritti e di avere la possibilità di sostenere le proprie
ragioni.
Ciò che è necessario è ampliare gli spazi di espressione di quei bisogni che, altrimenti, rimarrebbero
sconosciuti, nascosti o confusi con problemi strettamente individuali. A questo scopo, ciò che si richiede
da parte di coloro che operano nella comunità è un sincero desiderio di comprensione, la disponibilità ad
ascoltare ed una forte solidarietà nei confronti della popolazione.
Altra condizione essenziale per avviare e rendere reale il negoziato, è la disponibilità di operatori e
tecnici a creare le opportunità di espressione dei bisogni, di comunicazione e di scambio per la gente, ad
ascoltare criticamente le domande, le aspirazioni e i desideri, a sottoporle ad un confronto con l'analisi
dei rischi e dei danni oggettivamente determinabili attraverso metodi oggettivi, oltre che con i diritti
fondamentali ed il loro effettivo esercizio.
Ciò significa, per gli operatori, rivedere metodi ed organizzazione del lavoro per adeguarli a ciò che
emerge in termini di bisogni e di diritti dal loro lavoro con la popolazione.
Tutti i membri della comunità devono essere messi in grado di esprimere i propri bisogni. In particolare è
molto importante che vengano attivamente coinvolti i gruppi più deboli e svantaggiati della popolazione:
le donne, gli anziani, i bambini, i portatori di handicap psicofisici, i giovani e gli adolescenti sottoposti a
provvedimenti giudiziari. Si tratta di quelle persone per le quali è spesso difficile esprimere i propri
bisogni e, soprattutto, hanno difficoltà a farsi ascoltare. Tuttavia, come si è detto, i loro bisogni sono
molto grandi e quindi esse sono anche molto pronte a mobilitarsi.
Una delle caratteristiche più importanti del metodo consiste nel fatto che utilizza un sistema di
comunicazione particolarmente efficace, in modo da consentire a tutti di capire. La scelta di simboli
semplici e chiari per ciascuno dei problemi, dei rischi e dei bisogni individuati attraverso incontri,
sopralluoghi e ricerca sul campo, consente di disegnare una mappa, che rende visibile e comprensibile
per tutti i temi che si vogliono affrontare. Ciò permette di risolvere il problema dell'uso del linguaggio
degli esperti che, in genere, è troppo tecnico e resta sconosciuto per la popolazione colpita, crea una
barriera di comunicazione, genera errori di assimilazione e comprensione delle misure di prevenzione ed
evacuazione, delle caratteristiche stesse del pericolo o del fenomeno che genera la crisi.
Ciò che avviene durante il processo di negoziato fra individui, gruppi ed istituzioni può essere definito
come un apprendimento reciproco che è educativo tanto per la popolazione come per i tecnici.
Nasce un sapere di tipo nuovo sviluppato e condiviso da tutti i partecipanti; tale sapere si fonde con
caratteristiche, concetti e forme di espressione diverse per:
-
identificare le cause, i pericoli ed i rischi sociali ed ambientali cui la popolazione è
esposta;
21
-
ridurre i fattori negativi e di vulnerabilità presenti nel territorio, al fine di migliorare le
condizioni di vita della comunità facendo il miglior uso possibile di risorse umane e
competenze professionali che altrimenti rimarrebbero nascoste, inespresse o non
verrebbero utilizzate al meglio;
-
valutare le azioni di intervento (importanza e significato per la comunità delle misure
adottate, qualità percepita degli interventi realizzati, analisi costi-benefici, etc.)
Il processo deve portare alla definizione di obiettivi e strategie comuni che possono essere realmente
attuati dai gruppi di popolazione che concorrono ai processi decisionali al livello locale.
E' però necessario sottolineare che qualsiasi tecnica o metodo che stimoli le popolazioni locali a prendere
coscienza dei propri bisogni, non ha alcun senso e corre, anzi, il rischio di portare a inutili frustrazioni, se
non si arriva poi a una soluzione; se non ci si è, cioè, assicurati della reale disponibilità di risorse
economiche e tecniche. E' necessario controllare tutte le possibili fonti (municipalità, ONG, legislazione
vigente, finanziamenti internazionali, ecc.) al fine di verificare l'effettiva reperibilità delle risorse
necessarie all'eventuale piano di intervento.
In numerose esperienze, il ruolo centrale nel processo di pianificazione locale viene svolto dal Comitato
Locale, in cui sono rappresentate le comunità, le istituzioni e i tecnici locali, le associazioni economiche
e sociali, le organizzazioni di volontariato, ecc. E' ad esso che si affidano le funzioni di analisi dei
bisogni fondamentali del territorio, quelle di selezionare le priorità e di decidere su modalità e tempi di
intervento.
Il Comitato locale diventa il perno del processo negoziale. E' il luogo in cui i risultati dell'analisi
partecipata dei bisogni si incontra con le istanze tecniche per elaborare, attraverso l'apporto cordinato di
risorse dei diversi soggetti presenti nel Comitato, le risposte più appropriate.
Infine, un'altra condizione necessaria, ma non sufficiente, per facilitare dei reali processi di
partecipazione sociale alle decisioni, è l'autonomia locale, di gestione amministrativa e finanziaria,
almeno delle politiche sociali, sanitarie, territoriali. Ciò vuol dire disponibilità di risorse umane e
finanziarie sottoposte agli orientamenti e agli indirizzi di una pianificazione locale. Altrimenti nessun
piano sarà mai efficace, gli sforzi della comunità risulteranno quasi inutili, generando frustrazione.
E' importante notare che non bisogna attendere che il Comitato sia stato formalmente istituito, nè che sia
stato formulato il Piano per cominciare a risolvere alcune delle difficoltà pratiche che per quella
comunità costituiscono una priorità. Anzi, l'azione per risolvere singoli problemi deve iniziare appena
possibile. Spesso le soluzioni possibili ad alcuni problemi pratici emergeranno anche dalle prime
discussioni o durante la ricerca sul campo e, con le risorse già disponibili, le persone si possono
organizzare per risolverli. E' importante risolvere abbastanza presto alcuni problemi, anche se piccoli,
perchè questo dà fiducia alle persone ed aiuta a mentenere il livello di mobilitazione della comunità.
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PARTE TERZA
Le fasi della stesura delle mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse
Quando si parla di realizzare le mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse si allude, in primo luogo,
alla partecipazione della popolazione e al coinvolgimento attivo dei diretti interessati all'analisi dei propri
bisogni e dei rischi socio-ambientali. Si tratta di scegliere le risposte più appropriate ai bisogni in base
alle risorse esistenti. Ciò può essere fatto sia in tempi normali, per facilitare la realizzazione dei
programmi di sviluppo, sia dopo una catastrofe, per favorire gli interventi, ma soprattutto prima, per
prevenire gli effetti nocivi delle catastrofi naturali e non.
Le fasi di realizzazione delle mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse sono esposte in una
successione logica. Non si tratta necessariamente anche di una successione cronologica. Alcune attività
descritte in relazione a singole fasi possono in realtà anche svolgersi contemporaneamente e le attività
proposte in una fase possono essere ripetute in altre. Inoltre, il modo in cui le attività vengono realizzate
dovrà essere adattato ad ogni specifica situazione.
Fase 1. Far esprimere i bisogni
Fase 2. Formulare un primo elenco di bisogni e risorse
Fase 3. Ricerca sul campo/Stesura delle mappe definitive
Fase 4. Istituzione del Comitato locale e formulazione del Piano di Zona
Fase 1. Far esprimere i bisogni
a) Raccogliere informazioni prima di iniziare.
Prima di cominciare è necessario acquisire quante più informazioni possibili riguardo ai valori
tradizionali (usanze, costumi, abitudini, ecc.) e religiosi (miti di origine, ricorrenze religiose, festività,
tabù, ecc.) oltre alla storia specifica già vissuta e interiorizzata dalla popolazione locale.
Questo può essere fatto in vari modi. Individuando e leggendo libri, studi, ecc, parlando con
persone che conoscono bene il posto, parlando con i leader delle comunità (vedi sotto) e
semplicemente osservando e partecipando alla vita quotidiana della comunità, soprattutto
quando si svolgono attività sociali di vario tipo, e nei luoghi che hanno un rilevanza sociale:
partite di calcio, cerimonie religiose, riunioni, bar, mercati, ecc.
Evidentemente, non sarà possibile raccogliere tutte le informazioni prima di cominciare e
l'acquisizione di informazioni che riguardano quella specifica comunità costituisce una attività
continuativa. L'operatore raccoglierà tali conoscenze attraverso l'ascolto, l'osservazione, la
partecipazione alle attività comunitarie, via via che procede il lavoro di elaborazione delle
mappe.
Soprattutto quando si prepara una comunità a fronteggiare i disastri, la raccolta dei dati è
essenziale (sono fondamentali per determinare la situazione, per avere i dati necessari sulla
popolazione e la zona, sui bisogni e le risorse e anche per registrare le attività peculiari dell'area).
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Sia al fine di acquisire conoscenze riguardo alla comunità, che al fine di avvicinare la popolazione nel
modo più corretto, è necessario anche individuare quelle persone, uomini o donne, che hanno maggior
carisma e vengono più ascoltate di altre nei momenti importanti, quando si deve affrontare un problema
e decidere. Ci riferiamo a quelle persone che, per consenso sociale, sono i leader della comunità. Molto
spesso sono persone senza doti particolari, ma che l'insieme di una popolazione e non solo un gruppo, ha
tacitamente eletto come portavoce. Nell'approccio con la popolazione locale è importante poter
comunicare con tali persone perché spesso riescono a coinvolgere la gente e a far sì che vengano
socializzati i problemi di ognuno o le questioni più urgenti, più rischiose da affrontare, che altrimenti, di
solito, ognuno percepisce individualmente ed in modo diverso.
Instaurare un rapporto con il leader di comunità permette di creare più facilmente delle occasioni
d'incontro tra popolazione e tecnici, con la partecipazione di un vasto numero di persone interessate.
b) Scegliere un luogo di riunione adatto.
Si tratta poi di scegliere un luogo per le riunioni, uno spazio sociale significativo, preferibilmente tra
quelli che la gente già individua come spazi propri. Altrimenti tali riunioni possono essere sono
momenti molto formali che creano tensione, aspettativa ed è bene, invece, renderle il meno formali
possibile.
E' consigliabile un luogo in cui la popolazione locale si riunisce spontaneamente in condizioni di
quotidianità (p.ex. circoli, dopolavoro, bar, ecc.). Il luogo informale favorisce la partecipazione
comunitaria, mentre quello istituzionale (p.ex. sale comunali, tribunali, ospedali, sale congressi,
ecc.) rischia di intimidire alcune fasce di popolazione.
E' consigliabile usare luoghi informali che siano abbastanza grandi, dove ciascuno possa sentirsi
a suo agio e dove poter parlare liberamente. E' anche possibile rendere meno formali i luoghi di
incontro più formale organizzandovi delle feste, oppure altre attività sociali. Anche un normale
luogo di lavoro può diventare un luogo di incontro sociale.
c) Realizzare la riunione.
Le riunioni e gli altri contatti informali dovrebbero essere organizzati secondo criteri semplici che
facilitano l'espressività sociale. Si ottiene così che ciascun partecipante esprimerà agli altri con maggiore
tranquillità la propria esperienza vissuta, relativa a passate situazioni di emergenza, o solamente il
proprio vissuto quotidiano. La popolazione si sente accomunata di fronte a difficoltà che tutti hanno
affrontato, ma che ognuno, fino a questo momento, ha percepito come problema strettamente individuale
e personale. Il fatto di scoprire che si tratta, in realtà, di problemi che anche altri hanno vissuto,
constribuisce a creare un senso di unità e solidarietà.
A volte non è facile avviare una riunione. Avete mai provato a rompere il ghiaccio instaurando
per primi un dialogo o scherzando magari sulle vostre difficoltà? A volte è sufficiente una
battuta iniziale per cominciare a comunicare.
Spesso l'esperienza delle comunità più povere ed emarginate è costituita da continue disillusioni
dovute anche alla mancanza di risposte ed interventi appropriati. Di conseguenza, possono
essere diventate diffidenti. E' bene quindi, innazitutto, chiarire i timori che sono alla base di tale
sfiducia. E' anche importante spiegare apertamente e con franchezza quello che ciascun membro
della équipe è in grado di fare o non fare in modo da evitare di provocare aspettative che non
possono essere soddisfatte.
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Fase 2. Formulare un primo elenco di bisogni e risorse
Con il contributo diretto dei partecipanti e con l'aiuto dei leader locali, è possibile ottenere una prima
lista dei bisogni e delle risorse che viene poi discussa secondo il metodo illustrato nella Fase 1. Si tratta
dei bisogni e dei rischi che quotidianamente, e ancora di più in caso di catastrofi, contribuiscono
all'aggravamento della vulnerabilità sociale di queste comunità.
a) L'analisi delle esperienze passate.
Nel caso di comunità che hanno già subìto dei disastri si può formulare una prima lista di bisogni e
risorse analizzando le esperienze passate.
Nel prepararsi ad affronatre un possibile nuovo disastro, è necessario elencare i problemi
principali che richiedono attenzione qualora dovesse verificarsi una nuova emergenza, ponendo
domande come:
-
cos'è che ha causato le vittime e i danni?
quali sono state le principali difficoltà durante i soccorsi?
quali i problemi nelle ore e nei giorni successivi?
si sarebbe potuta prevedere la catastrofe?
quali preparativi avrebbero permesso di limitare vittime e danni?
quali sono gli errori da non ripetere?
quali sono state le azioni più riuscite?
b) Usare un linguaggio semplice.
Chiunque è incaricato di coordinare le riunioni è bene che usi un linguaggio semplice e chiaro per tutti,
in modo che nessun partecipante si debba sentire escluso o in difficoltà e che faccia in modo che a questa
prima analisi di vulnerabilità tutti contribuiscano e partecipino attivamente, nessuno escluso.
c) Annotare le cose più importanti.
Il coordinatore delle riunioni si occuperà inoltre di segnare i punti che emergono su un grande foglio
bianco appeso al muro in modo che sia visibile a tutti e sul quale ogni partecipante possa segnare a sua
volta ciò che ritiene più urgente.
Sia per la rilevazione dei dati, che per la stesura delle mappe, sono sufficienti carta e matita.
Nulla vieta, quando le condizioni lo permettono, di usare mezzi più sofisticati come colori,
fotografie, filmati, registrazioni sonore, ecc.
d) Stesura di mappe preliminari - Uso dei simboli.
A questo punto può essere elaborata una mappa provvisoria dei rischi e delle risorse utilizzando simboli
scelti assieme alla popolazione. Le mappe vengono poi verificate e completate attraverso la ricerca sul
campo (Fase 3).
Ciò che emerge dalle discussioni può venir segnato sulla mappa mediante simboli grafici
convenzionali che i membri della comunità locale stabiliscono secondo le loro preferenze e in
accordo con i loro tratti culturali e semantici. Si ottiene così un prodotto estramemente concreto,
visibile, immediato e facilmente comprensibile anche per i più giovani.
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Fase 3. Ricerca sul campo/Stesura delle mappe definitive
Una volta ottenuta una prima lista dei bisogni, l'obiettivo della fase sucessiva è quello di produrre la
mappa vera e propria. Il passo successivo consiste nell'organizzare attività di gruppo di visita nei luoghi
più a rischio o nei posti di cui si è parlato durante le riunioni. Lo scopo è quello di verificare le
informazioni che sono emerse nelle riunioni e che sono state trascritte sulle mappe provvisorie.
a) Formazione dei gruppi.
Per svolgere queste attività bisogna utilizzare quei gruppi omogenei di popolazione che si formano
spontaneamente, come, per esempio, gli abitanti di uno stesso quartiere, gli operai di una fabbrica, gli
alunni di una scuola, oppure i bambini che giocano in uno stesso luogo, i contadini di una stessa zona
rurale, ecc. Tutti quei gruppi di persone, insomma, che formano già di per sé delle unità operative e che
hanno una loro organizzazione interna collaudata nel tempo, quei gruppi che vivono gli stessi rischi
sociali ed ambientali e ne condividono le difficoltà. Essi abitano gli stessi luoghi e conoscono il
territorio in cui vivono ma, soprattutto, le risorse di cui ogni gruppo specifico si avvale. Questi gruppi
costituiscono di per sé delle unità operative che svolgeranno le azioni richieste per risolvere specifici
problemi.
E' bene ricordare, nel momento in cui si formano i gruppi, che sono più efficienti ed operativi
quelli composti da pochi individui (possibilmente non più di dieci, anche se ovviamente
dipenderà dal numero dei partecipanti).
Un gruppo piccolo favorisce l'assunzione di responsabilità maggiori e più precise da parte di
tutti. In un gruppo più piccolo è più facile la scelta di un coordinatore ed una programmazione
più puntuale del lavoro. Inoltre, il gruppo piccolo contribuisce a creare un maggiore senso di
sicurezza e solidarietà di fronte ai possibili ostacoli da affronatre ed alle siatuazioni difficili da
risolvere.
Più i gruppi sono piccoli, più sono flessibili, ottimizzando le loro capacità di azione sia in
situazioni straordinarie e di emergenza che quando si discutono gli interessi comuni, le
responsabilità, le funzioni ed i diritti di ciascuno. Con i gruppi piccoli è inoltre più facile
ampliare il consenso sociale con una rete organizzata di altri gruppi (sindacati, stampa, entità
competenti, responsabili dei servizi, ecc.).
b) Ricerca sul campo/Interviste.
La ricerca sul campo veine concentrata su determinate aree del territorio, su particolari settori della vita
sociale e lavorativa, su aspetti specifici da affrontare, in breve su ciò che concerne ogni gruppo più da
vicino. Questo rende possibile confrontare il livello di informazioni possedute dalla popolazione e la sua
capacità di analizzare i disastri naturali con la situazione così come si presenta realmente. Rende inoltre
possibile evidenziare tutta la serie dei rischi quotidiani che riguardano il risanamento ambientale, la
carenza di servizi di base, i rischi sociali, quelli del territorio, etc.
Lo scopo di tali investigazioni sul campo è quello di redigere delle mappe dei bisogni e delle risorse per
singole zone. Per fare questo ci si può avvalere anche di interviste da fare porta a porta. Si tratta di
intervistare il maggior numero possibile di persone e soprattutto quelle che per motivi vari non possono
o non vogliono partecipare alle discussioni comunitarie, ma che ogni membro dei gruppi di lavoro
specifici conosce bene e sa dove andare a cercare e in quali momenti.
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Per quanto riguarda le visite sul campo, ci si raccomanda di tenere presenti gli orari ed i turni di
lavoro di tutti (o preferibilmente, se è possibile, usare giorni non lavorativi). E' importante
inoltre tener conto delle occupazioni domestiche e sociali, per evitare sovrapposizioni e
mancanza di partecipazione.
c) Un posto dove raccogliere i dati.
E' necessario disporre di un posto fisso dove poter raccogliere ed analizzare i dati e dove poter redigere le
mappe parziali e finali.
E' preferibile un ambiente asciutto e vasto (l'aula di una scuola, una stanza del municipio, ecc.),
in modo che il materiale non venga danneggiato e che i vari gruppi possano scambiarsi le
informazioni e lavorare anche contemporaneamente alla stesura delle varie mappe.
E' necessario inoltre avere un posto (che potrebbe essere lo stesso menzionato sopra) da usare
come magazzino per gli attrezzi o eventuali altri materiali necessari, utilizzati dai diversi gruppi
di lavoro. Evidentemente, se manca un luogo specifico da utilizzare come magazzino, ciascuno
si occuperà dei propri strumenti.
d) La produzione di una mappa finale sulla base delle mappe parziali.
Le mappe parziali elaborate in seguito alle visite sul campo vengono poi fuse in un'unica mappa. Le
risorse che sono state identificate o che sono emerse dalle interviste vengono poi segnate sulla mappa,
utilizzando i simboli scelti di comune accordo (vedi Fase 1).
e) Analisi della mappa.
Dopo aver svolto l'analisi dei bisogni e aver individuato le priorità, è opportuno discutere di queste in
una riunione successiva, con l'aiuto di quelle persone che si sono rivelate più "esperte" dei settori o dei
temi volta per volta analizzati come oggetto delle attività durante le visite, per controllare ed
eventualmente modificare tali priorità evidenziate grazie proprio al contributo di tutti.
Sempre durante questa fase di attività (sia per le visite all'esterno che per le successive
discussioni ed integrazioni delle diverse mappe) si consiglia di scegliere attentamente i mezzi di
comunicazione. In realtà basta anche solo un foglio di carta grande e qualcosa con cui scrivere
ma, se la situazione e le risorse della comunità lo permettono, sarebbe molto utile poter disporre
di mezzi di comunicazione audiovisivi e grafici (per esempio, simboli e lucidi colorati, oppure
videoregistratori, apparecchi fotografici o per diapositive, ecc.) i quali, essendo mezzi di
comunicazione non verbale, risultano non solo comprensibili per una larga parte della
popolazione, che in alcuni casi è scarsamente alfabetizzata, ma stimolano anche maggiore
interesse ed espressività, oltre ad un lavoro più creativo.
f) Collocare la mappa dove sia ben visibile.
Una volta elaborata la mappa finale sulla base delle discussioni collettive, dovrebbe essere
affissa in un luogo in cui tutti la possano vedere. Si potranno tenere ulteriori riunioni per
coinvolgere persone che possono non aver partecipato alle discussioni sulle mappe, ma che,
dopo aver visto la mappa finale, hanno delle proposte o dei commenti da fare.
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Il cartellone deve essere affisso in un luogo riparato e ben illuminato, così da poter essere
consultato in qualsiasi momento della giornata e in ogni situazione meteorologica.
Per facilitare la fruizione collettiva, è preferibile utilizzare uno spazio socialmente riconosciuto e
significativo (per es. la piazza del paese, il centro del villaggio, il centro storico o il luogo più
facilmente raggiungibile e meglio collegato dai mezzi pubblici nel caso di una metropoli, ecc.).
Fase 4. Istituzione del Comitato locale e formulazione del Piano di Zona
L'obiettivo della quarta Fase è quella di istituire il Comitato locale e formulare il Piano di Zona. Come
accennato nell'Introduzione, i membri del Comitato locale saranno amministratori locali, operatori sociosanitari, leader della comunità, rappresentanti di organizzazioni nazionali ed internazionali,
organizzazioni di base, sindacati, ONG, etc. Si tratta di persone che saranno già state contattate e
coinvolte in varia misura nelle attività descritte nelle fasi precedenti. Ciò che avviene nella Fase 4 è che
la partecipazione di questi soggetti viene formalizzata attraverso la costituzione ufficiale del Comitato
con lo scopo immediato di formulare il Piano di Zona.
Lo scopo del Comitato è quello di mobilitare risorse che altrimenti rimarrebbero passive ed inutilizzate.
Il Comitato deve essere in grado di assumere decisioni operative altrimenti non sarà in grado di ottenere
risultati concreti, subentrerà la delusione e la gente smetterà di partecipare.
a) La scelta delle priorità.
La scelta delle priorità, identificate tramite la realizzazione delle mappe comunitarie, è soggetta e
condizionata dalla possibile risposta da parte delle istituzioni (nazionali e/o internazionali), le sole che di
fatto decidono le attivita` operative. Una volta creato il Comitato, è indispensabile che alle riunioni
successive partecipino questa volta anche i rappresentanti tecnici dei servizi che normalmente svolgono
attività nella comunità, con i quali ricercare le soluzioni.
b) La stesura dei Piani di Zona.
Verranno redatti dei Piani d'azione locali per le emergenze sulla base dei bisogni, delle risorse disponibili
e delle priorità emerse, tra le quali i tecnici possono individuare quelle del settore di loro diretta
competenza e contribuire finalmente alla formulazione di un Piano di Area, questa volta complessivo, da
presentare a livello nazionale.
c) Rendere il Piano operativo.
La cosa che più conta in questa fase è rendere operativo il Piano, trovando risposte concrete, senza le
quali anche un dettagliato Piano di Zona risulterebbe inutile. Ad esempio, per la preparazione alle
emergenze, si tratta di formare gruppi di lavoro, pianificare programmi di salute, di educazione e
alfabetizzazione, istituire corsi di addestramento per l'autoprotezione e il pronto soccorso, simulazioni di
emergenze per la prevenzione in caso di catastrofi, ecc. Sono solo degli esempi, ma favoriscono lo
sviluppo e la progressiva autosufficienza dei gruppi locali.
d) Uso delle mappe per la valutazione.
Durante la fase di attuazione del Piano, le mappe comunitarie dei bisogni e delle risorse possono essere
utilizzate per informare la comunità riguardo ai progressi fatti in termini di attuazione del piano, per
assicurare la pertecipazione continuativa dei diversi gruppi, per valutare le attività in modo partecipato.
e) E' necessario aggiornare periodicamente le mappe.
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Si raccomanda di aggiornare periodicamente le mappe con i risultati che si ottengono man mano e per
tenere conto della percezione che le persone hanno di una realtà che si va evolvendo. E' utile e
consigliabile aggiornarle con il numero delle attività comunitarie già svolte per ridurre la vulnerabilità
sociale, con l'organizzazione di gruppi nuovi e per valutare l'efficacia dell'attività svolta dalle persone
coinvolte (in termini economici ed in termini di tempi e di risorse).
Le mappe costituiscono anche uno strumento importante per fornire alla popolazione una informazione
completa, esatta e tempestiva allo scopo di assicurare la perparazione ed una risposta adeguata alle
situazioni di emergenza.
f) Il Comitato deve disporre di un archivio.
Il Comitato locale dovrebbe essere dotato di un archivio all'interno del quale dovrebbero essere
conservati i dati raccolti e le mappe comunitarie parziali. Potrebbe trattarsi di un armadio o anche,
semplicemente, di una scatola.
L'archivio fornisce anche una sorta di data-base sui gruppi di lavoro (membri, luogo, tipo e
settore di attività, ecc.) e sul lavoro stesso (raccolta di fotografie e registrazioni, resoconti
parziali, elenchi di bisogni e risorse, contabilità, ecc.).
L'archivio è uno strumento utile per fornire informazioni sia all'interno della comunità, che
all'esterno (contatti con i mass media e con le autorità, punto di riferimento per coloro che
lavorano per la comunità -personale sanitario e sociale-, ecc.).
g) Divulgazione di informazioni su attività in corso.
Durante questa fase e durante l'applicazione del Piano di Zona, la divulgazione di informazioni
selezionate riguardanti attività in corso è importante al fine di stimolare un maggiore interesse da parte
delle autorità e della comunità nazionale ed internazionale. Le stazioni televisive e radiofoniche locali
potranno essere convocate per documentare le attività e diffondere informazioni riguardanti i dibattiti, le
conferenze, le analisi effettuate da personale tecnico e da esperti, e anche storie individuali e discussioni
nate spontaneamente nel corso delle attività collettive. Tutto questo può essere divulgato tramite i mass
media.
E' bene ricordare che i mezzi di comunicazione ed i canali attraverso i quali diffondere le
informazioni non sono tutti uguali, e non possono essere utilizzati indiscriminatamente. I media
possono rivelarsi utili, ma a volte possono anche diffondere informazioni false o critiche
distruttive o controproducenti. In certi casi, i media possono addirittura moltiplicare gli effetti
negativi di una catastrofe. L'utilità del contributo dei media dipenderà fortemente dalle qualità
professionali ed etiche di coloro che li gestiscono.
h) Collegamenti con altre comunità - "gemellaggi".
Costruire la solidarietà delle altre comunità è altrettanto importante. E'importante perchè consentirà alla
popolazione colpita da un disastro di non sentirsi isolata, e la incoraggerà a lottare per superare le
difficoltà. Le comunità ad alto rischio possono essere "gemellate" con comunità a basso rischio, così
come con comunità di zone o paesi diversi esposte allo stesso tipo di rischi, o con comunità simili per
ragioni culturali o politiche.
Il "gemellaggio" contribuisce a sviluppare un senso di cooperazione e solidarietà, stimola la
partecipazione ed il senso di responsabilità della comunità. I "gemellaggi" possono anche
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comprendere iniziative comuni e scambi tra le comunità in materia di misure preventive. La
comunicazione orizzontale tra le comunità contribuisce a ridurre la dipendanza dagli aiuti e può
rivelarsi di grande aiuto durante la fase di riorganizzazione e di ripresa delle normali attività in
quanto la comunità potrà dividere con altre il pesante fardello di una catastrofe.
i) Organizzazione delle attività del Comitato.
Malgrado lo scopo di questa Guida non sia quello di entrare nel dettaglio riguardo al modo in cui
dovrebbero funzionare i Comitati locali, vi sono alcune cose, a questo proposito, che sarebbe bene
ricordare brevemente. Tra queste:
- incoraggiare i membri del Comitato a scegliere un coordinatore;
- fissare le date per le riunioni del Comitato;
- stabilire il modo in cui il Comitato viene finanziato.
Nel caso di attività di preparazione alle emergenze, è necessario stabilire quando e come il Comitato
discuterà questioni quali:
- corsi di auto-protezione;
- sistemi di allarme ed evacuazione;
- punti di raccolta e di incontro;
- liste di controllo per la verifica dei danni;
- divulgazione del Piano di Emergenza;
- attività per la fase di riabilitazione;
- criteri di base per la fase di ricostruzione.
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ALLEGATO
Scheda di autovalutazione
La scheda di autovalutazione è uno strumento per il controllo dei progressi, a tutti i livelli, delle mappe
comunitarie. Serve anche da guida per le azioni future. Tale scheda può essere utlizzata sia dai singoli
gruppi di lavoro, che dal Comitato. Certo, la scheda che segue fa riferimento ad una situazione ideale.
Sarà poi necessario compiere degli adattamenti a seconda delle contingenze spaziali e temporali.
Ecco alcuni suggerimenti consigliati dall'esperienza.
Per cominciare:
-
si è pensato di studiare e approfondire la specifica storia socio-economica, culturale, politica
della comunità prima di iniziare qualsiasi attività?
-
si conosce anche la storia recente che la popolazione ha vissuto (in particolare quella relativa ad
altre situazioni di catastrofe, se già si sono verificate altre volte), ciò che si è fatto e ciò che non
si è fatto in tali occasioni?
-
si sono individuate e contattate le persone che hanno un ruolo più carismatico di altre all'interno
della comunità?
-
si è formato il gruppo che deve convocare l'assemblea della popolazione locale?
-
sono stati verificati l'ora e il luogo in cui realizzare gli incontri?
-
sono stati scelti luoghi sufficientemente grandi, ma soprattutto informali (magari quelli in cui la
comunità già si ritrova quotidianamente)?
-
la comunità è stata informata sufficientemente sulle attività da svolgersi?
-
è stato scelto un coordinatore delle riunioni che sappia usare un linguaggio semplice e chiaro per
tutti?
-
si è pensato a delle dinamiche utili a motivare i presenti (feste, attività ricreative, ecc.?)
-
si sono raccolte le esperienze dei partecipanti sull'accaduto, relative a tutti i diversi problemi che
si presentano in queste situazioni (salute, sanamento ambientale, informazione, organizzazione,
nutrizione, ripari, acqua, ecc.)?
-
è stata fatta una lista dei rischi e dei problemi?
-
e una delle risorse?
-
si è pensato ad alcuni simboli corrispondenti ai problemi e alle risorse identificate da disegnare e
annotare accanto alle liste?
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-
sono stati identificati quei gruppi di gente più omogenei, quelli di persone che sono già
spontaneamente organizzate fra di loro (per es. anziani, operai di una fabbrica, alunni di una
scuola, casalinghe di uno stesso quartiere, ecc.)?
-
sulla base di questi, si sono formati dei gruppi di lavoro (possibilmente piccoli) per le ricerche
sul campo?
-
è stato designato un responsabile per ogni gruppo?
-
è stato elaborato uno schizzo della zona che ogni gruppo andrà ad esaminare?
-
le ricerche sul campo sono state stabilite in orari e giorni comodi per tutti?
-
sono state annotate le caratteristiche del territorio assegnato ad ogni gruppo?
-
e i rischi sociali, ambientali, culturali che ogni gruppo ha individuato (anche quelli cui la
comunità sembra ormai essere abituata)?
-
sono state annotate anche tutte le risorse?
-
si è conversato dei rischi quotidiani porta a porta con tutte le famiglie, coinvolgendo anche tutti
coloro che alle riunioni precedenti non avevano partecipato?
-
si è discusso delle risorse individuate anche con i tecnici e gli esperti degli specifici settori?
-
è stata fatta un'altra riunione per integrare tutte le mappe parziali di zona in un'unica mappa,
completa dei simboli corrispondenti?
-
è stato invitato alla riunione il numero più vasto possibile di persone, oltre ai rappresentanti delle
istituzioni e dei servizi pubblici e privati?
Per le attività del Comitato:
-
si è costituito un Comitato per le Emergenze tra le persone interessate con un coordinatore
responsabile?
-
è stata fissata la data di riunione del Comitato?
-
sono stati studiati i mezzi per sostenere finanziariamente le attività del Comitato?
-
è stato fatto un Piano di Zona per le Emergenze?
-
ci si è preoccupati di far sì che venga non solo programmato e deciso ma anche attuato?
-
sono stati registrati servizi ed organismi di emergenza presenti nella comunità?
-
si è organizzata una rete di informazione sia all'esterno che all'interno della comunità?
-
si sono identificate le linee di comunicazione più appropriate?
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-
si è pensato all'utilità pratica di informare, coinvolgere e magari gemellare anche comunità
diverse?
Per il futuro:
-
sono state riviste le attività del Comitato, divise in giornate di discussione relativamente ad
argomenti specifici (dovrebbe essere redatta una lista a seconda della situazione).
-
si continuano a raccogliere dati sulle attività svolte e sui nuovi gruppi che si formano?
e, in base a questo, ci si ricorda di aggiornare periodicamente le mappe?
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