L`anteprima di Ho sposato il mondo di Elsa Maxwell

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L`anteprima di Ho sposato il mondo di Elsa Maxwell
Elsa Maxwell
HO SPOSATO IL MONDO
I
Il 24 maggio 1953 ho dato un pranzo da Maxim a Parigi, con
diciotto invitati. L’occasione era il mio settantesimo compleanno e il pranzo aveva luogo da Maxim perché è il miglior
ristorante della città e non mi manda mai il conto. Il dolcissimo mâitre Albert e io abbiamo eseguito la nostra solita scenetta
dopo che i camerieri più robusti avevano portato quanto caviale e champagne riuscivano a sostenere con le braccia. Quando ho chiesto il conto, Albert ha mormorato: «Mi rincresce,
signorina, è andato perduto».
Un pranzo sontuoso offerto dal ristorante non è stato l’unico mio trofeo di caccia, quella sera. Per quanto il ristorante
fosse affollato di bellissime donne vestite fino ai denti dai massimi couturier di Parigi, io indossavo l’abito più ricco e più elegante di tutti: una creazione in chiffon rosso che sarebbe costata a chiunque altro quattrocentomila franchi. Era stato eseguito da Jean Dessès, il quale mi dà ogni anno quattordici abiti
che, data la mia figura, bastano a confutare l’antico detto che un
artista non può migliorare la natura. Forse è per questo che Dessès ha scelto proprio me per il ruolo più esilarante della mia
carriera. Dopo essere stata conosciuta come la più grande sciattona d’America e d’Europa, ora sono la vecchia grassona più
elegante del mondo. Aver fatto di me una réclame vivente del
suo atelier rende Dessès un creatore altrettanto formidabile in
fatto di pubblicità di quanto lo sia in fatto di modelli.
Fu esattamente due anni fa che Jean Dessès mi disse: «Vorrei fare qualche vestito per lei».
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Risposi che non potevo permettermi nemmeno di comprare una sciarpa nel suo atelier.
«Oh, no, voglio farle i vestiti gratis» disse il grande Dessès.
«Però deve lasciarmene fare un numero sufficiente, almeno dodici all’anno».
«Dev’essere fuori di testa» esclamai. «Mi guardi!». Non mi
ero mai occupata minimamente del mio aspetto. Ma quale donna avrebbe potuto rifiutare una simile offerta? E quando, tornata negli Stati Uniti, andai in televisione, feci conferenze e diedi ricevimenti, tutti i giornalisti parlarono della mia trasformazione. L’anno scorso, quando ero a Parigi, Dessès mi prese
sottobraccio e mi fece, con un sorrisetto: «Lei mi disse allora
che ero fuori di testa. Ora, vorrei sapere, di chi hanno parlato,
della duchessa di Windsor, della signora Foy, o di qualcun’altra delle dieci dame più eleganti del mondo? No. Hanno parlato di Elsa Maxwell».
Il principe Ali Khan, uno dei miei commensali, mi regalò
per la mia festa un bellissimo pettine tempestato di brillanti.
Pochi giorni dopo avevo quel pettine nella borsetta quando andai a una festa per il compleanno della senatrice Jacqueline
Patenôtre, la quale lo ammirò talmente che glielo regalai. Magari potessi dire di avere l’abitudine di regalare oggetti così
costosi ai miei amici, ma qui mi piace ricordare un gesto che feci un quarto di secolo fa, poco prima di un altro mio compleanno.
Eravamo alla fine degli anni Trenta, a Parigi, e la segretaria
di Ralph Beaver Strassburger, editore del Times Herald di Norristown, Pennsylvania, mi telefonò per dirmi che da Cartier erano stati depositati cinquemila dollari a mio nome. Strassburger, già ricco per conto suo, aveva aggiunto altre piume al suo
nido sposando May Bourne, figlia del presidente della società
delle macchine da cucire Singer. Quando gli Strassburger erano a Parigi li avevo invitati a qualcuna delle mie feste. La segretaria mi spiegò che gli Strassburger dovevano partire per l’America prima del mio compleanno, ma che desideravano mostrarmi come avessero apprezzato la mia gentilezza.
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Allora, come oggi, nulla mi interessava meno dei gioielli
costosi. Chiesi quindi alla segretaria: «Dispiacerebbe al signor
Strassburger se usassi quel denaro per procurarmi Kreisler?».
La mia domanda scombussolò la ragazza. «Dovrò chiederlo al signor Strassburger» disse. «Vuole restare in linea, per
favore?».
«Che tipo di Chrysler vuole?» tuonò Strassburger. «Un’Imperial? Posso fare affrettare la consegna. Walter è un mio buon
amico».
«Non voglio un’automobile» gli risposi. «Voglio che Kreisler, il violinista, venga a suonare al mio ricevimento».
«Cinquemila dollari per un suonatore di violino!» esclamò
Strassburger, incredulo.
Era la quarta volta in quella settimana che sentivo ripetere
quella precisa frase, e la cosa mi fece salire la pressione in modo pericoloso. Le stesse parole sprezzanti le avevano pronunciate alcuni membri della famiglia Rothschild, i quali avevano
avuto l’idea di scritturare Kreisler perché suonasse in un loro
ricevimento privato prima del concerto che avrebbe dato in
pubblico all’Opéra di Parigi in quello stesso mese. Uno dei
Rothschild ci aveva pensato per primo, ma regnava una gelosia così tremenda tra i vari membri della famiglia che due sue
cognate decisero di batterlo di misura realizzando al posto
suo quel colpo eccezionale.
I Rothschild vennero da me separatamente, per domandarmi se potevo mettermi in contatto con Kreisler, che avevo conosciuto a Londra prima della Grande Guerra. Così gli telegrafai a Berlino per chiedergli quale sarebbe stata la sua parcella. Rispose che odiava suonare ai ricevimenti, ma che lo
avrebbe fatto per cinquemila dollari, una cifra buttata lì apposta per scoraggiare le offerte. Essa riuscì infatti a raffreddare gli ardori musicali dei Rothschild.
«Cinquemila dollari per un suonatore di violino!» esclamò
ognuno di loro. «Ridicolo».
La musica è sempre stata l’unica passione della mia vita, e
l’atteggiamento di superiorità degli immensamente ricchi
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Rothschild mi irritò. Fino a quel giorno, naturalmente, non
avevo mai avuto cinquemila dollari tutti in una volta, ma decisi subito di scritturare Kreisler per il mio ricevimento approfittando del regalo di Strassburger. Gli ospiti principali della festa erano i tre grandi della musica: Cole Porter, George Gershwin e Irving Berlin; e poi mi divertii a invitare anche i tre
Rothschild e le loro mogli. Volevo vedere la loro reazione quando Kreisler avrebbe suonato per una sconosciuta americana i
cui mobili erano stati messi in mezzo alla strada pochi mesi prima per non aver pagato l’affitto. L’esibizione dei Rothschild
fu per me una grandissima soddisfazione. Sembravano sull’orlo di una crisi cardiaca, mentre mi osservavano sospettosi
domandandosi come avessi fatto.
Kreisler suonò come un angelo, divertito che fossi stata proprio io a sborsare la cifra richiesta. Il suo disprezzo per gli
snob è eguagliato soltanto dal mio. Una volta una donna americana, il cui modesto titolo nobiliare francese risaliva in linea
diretta al portafoglio di suo padre, invitò Kreisler a un ricevimento, soggiungendo con aria indifferente: «Naturalmente,
porterà con sé il suo violino».
«Allora la mia parcella è di cinquantamila franchi» rispose
Kreisler.
«Allora dovrò pregarla di non mescolarsi con i miei ospiti»
fece la donna in tono altezzoso.
Kreisler s’inchinò. «Allora la mia parcella sarà di diecimila
franchi soltanto».
Qualche tempo dopo, l’incidente Kreisler mi procurò un
gustoso, piccolo reddito. Mi trovavo in Riviera quando Lloyd
Osbourne, figliastro di Robert Louis Stevenson, mi telefonò
per dirmi che George Bernard Shaw desiderava conoscermi.
Rimasi lusingata e incuriosita.
«Perché mai Shaw vuole conoscere proprio me?» chiesi.
«Non ne ho la minima idea» rispose Osbourne. «Il vecchio
ti chiama l’ottava meraviglia del mondo».
Fu organizzato un incontro e posi io stessa quella domanda a Shaw. «Ho letto la cronaca del suo ricevimento sui gior10
nali londinesi» disse «e mi ha divertito il fatto che una donna
abbia preferito Kreisler a un gioiello costoso».
L’incidente Rothschild non era stato raccontato dai giornali,
però. Quando descrissi a Shaw il loro avvilimento, rise fragorosamente, dicendo: «Tutti sono stati contenti tranne quelli che
non avevano voluto pagare Kreisler, mentre lei se l’è potuto permettere: si tratta di un errato senso dei valori, ecco tutto».
Il grande Shaw era un po’ avaro ed era socialista. «Signor
Shaw» domandai «avrebbe pagato cinquemila dollari, lei, per
ascoltare Kreisler?».
«Non ne avrei avuto bisogno» ridacchiò. «Per me avrebbe
suonato gratis».
Suonerà gratis anche per me, un giorno, dissi tra me; e così fu.
La vanità monellesca di Shaw poteva irritare o incantare;
in ogni caso, riusciva a raggiungere lo scopo prefisso: quello
di provocare una reazione. Come accadde quando durante una
crociera in Grecia e nelle isole fu invitato a tenere una conferenza sui tre più grandi autori drammatici.
«Certo» rispose Shaw «parlerò di Shakespeare, di Molière
e di me».
«Mi dica, signor Shaw» gli domandai una volta «come studioso shakespeariano, qual è la commedia di Shakespeare che
preferisce?».
«L’Otello» rispose Shaw.
«Ma ho detto commedia» ripetei.
«Infatti, signorina Maxwell» rispose. «Quando la morte
del protagonista dipende dal fazzoletto di una donna, si tratta
di una commedia, non di un dramma».
Ricordo che quella era l’epoca dei primi cinegiornali. Già
Shaw si sentiva un’autorità in fatto di tecnica di ripresa.
«Prima di tutto» disse «bisogna voltarsi lentamente verso
destra e verso sinistra, e poi uscire dall’inquadratura con un
inchino. Tutti i movimenti devono essere lentissimi, in modo
che non sfugga nulla e si veda ogni dettaglio del soggetto. Ho
una bella testa e non vedo perché non debba fornire al pubblico l’occasione di ammirarla».
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Shaw, il quale aveva cominciato la sua carriera letteraria
come critico musicale, sarebbe rimasto ancora più entusiasta se
avesse partecipato alla festa che ebbe luogo nel 1923 a Montecarlo, per il mio quarantesimo compleanno. Il mio amico Serge Diaghilev, il famoso impresario, festeggiò l’avvenimento
mettendo in scena la prima esecuzione di due balletti nuovi con
Ernest Ansermet come direttore d’orchestra. Diaghilev mi
chiese il permesso di far suonare durante l’intervallo un giovane pianista appena venuto via dalla Russia. Gli dissi che non
potevo imporre uno sconosciuto a un pubblico così distinto,
ma Diaghilev si mostrò tanto insistente che finii col concedergli di far interpretare alcuni pezzi al suo protetto. Mi scusai con
l’Aga Khan, eletto rappresentante del mondo musulmano, che
è anche la persona più colta che io abbia mai conosciuto: «Spero che Sua Altezza avrà la pazienza di sopportare il pianista che
il signor Diaghilev ha insistito per far suonare stasera». Il principe mormorò cortesemente di essere sempre felice di incoraggiare i nuovi talenti.
Un ragazzo esile, dai capelli scuri, comparve sul palcoscenico e si mise a suonare il Mefisto Valzer di Liszt, procurandomi l’emozione più elettrizzante di tutta la mia vita. Era Vladimir Horowitz, il pianista più brillante della sua generazione,
la cui prima esecuzione europea ebbe luogo così durante il mio
ricevimento.
Questi, e mille altri incidenti riguardanti gente e luoghi affascinanti, sono così meravigliosi che sembra incredibile siano
accaduti davvero a una donna nata a Keokuk, nello Iowa, e cresciuta a San Francisco senza denaro, né famiglia né posizione
e nemmeno un diploma di scuola elementare. È per me un
fatto follemente divertente – ed è ironico ai nostri tempi – che
io sia l’arbitra mondana riconosciuta dalla società internazionale, e la più famosa organizzatrice di ricevimenti del mondo;
ruoli che sembrano richiedere vantaggi e attributi che mi mancavano totalmente quando mi lanciai la prima volta in quella
che si chiama l’alta società.
Come ha fatto dunque Elsie (è questo il mio vero nome)
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Maxwell, figlia di un modesto assicuratore, a diventare una
pubblica necessità del Gran Mondo? Walt Whitman disse che
la democrazia stimola “un’audacia infinita nelle persone elette”.
Parafrasando questa dichiarazione con la variante “auto-elette”,
si ha la spiegazione della reputazione che ho raggiunto.
Mi sono guadagnata il mio titolo per mancanza di concorrenti. Mi rendo conto che suona banale quanto una soap opera dire che qualsiasi donna avrebbe potuto compiere ciò che ho
compiuto io, eppure è verissimo. Qualunque persona dotata di
sufficiente energia e immaginazione avrebbe sviluppato il mio
medesimo potere sui ricchi, i quali vivono in mausolei di marmo, circondati dai sospetti e dalle nevrosi che hanno rimpiazzato i fossati medievali che una volta isolavano dalla realtà i
cosiddetti nobili.
La maggior parte dei ricchi sono le persone più povere che
io conosca. Complessi di colpa, nati dal modo con cui hanno
raggiunto la ricchezza attraverso l’avidità, i matrimoni o le
eredità, alterano in loro le normali manifestazioni del calore
umano e della vitalità. Ho portato in quel mondo una nuova capacità di cordialità e di gaiezza che offriva possibilità insperate di evasione dalla loro noia foderata di velluto, dalla solita
avventura sessuale priva di passione e dal gioco d’azzardo esagerato ma senza eccitazione.
Non mi atteggio a modesta – una posa ridicola quanto lo
sarebbe un gonnellino d’erba sulla Venere di Milo – se dico di
aver compiuto un percorso stupefacente consumando pochissima intelligenza. Per quanto mi si colleghi di solito a grandiosi balli mascherati, i ricevimenti che hanno stabilito la fama della mia personalità nella gabbia di scimmie del Gran
Mondo erano basati su una formula semplicissima: sono le persone divertenti e interessanti a creare i ricevimenti ben riusciti. Il primo ricevimento che offrii a gente di sangue reale mi
costò sette dollari per una dozzina di invitati. La principessa
Elena Vittoria, nipotina della regina Vittoria, sedette per terra
nel mio piccolissimo appartamento di due camere ricavato da
una stalla londinese, mangiando uova sode e salsicce e si divertì
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un mondo delle buffonate di quattro giovani artisti di varietà
chiamati Noël Coward, Bea Lillie, Gertrude Lawrence e Ivor
Novello.
Voi protestate, dicendo che è impossibile procurarsi simili
attrazioni nelle case comuni? Lo ammetto. Un qualsiasi barlume divertente può riuscire un ottimo sostituto per i talenti professionali. Una volta, quando mi era capitata tra capo e collo
un’intera mandata di banchieri noiosi e di altri scocciatori assortiti, inventai una variazione di un vecchio gioco da bambini. Gli unici oggetti necessari erano alcuni tappi legati con lo
spago e una grande casseruola. I tappi furono posati tutti insieme al centro del tavolo, e lo scopo del gioco era impedire che
il proprio tappo venisse intrappolato quando il giocatore armato della pentola la calava bruscamente sul tavolo. I giocatori che non riuscivano a sfuggire dovevano pagare un piccolo pegno, mentre a quelli che ci riuscivano veniva pagata doppia posta dal possessore della casseruola. Le puntate erano
minime, ma i miei ospiti si emozionarono di più giocando a
quel gioco idiota di quando puntavano migliaia di dollari nei
casinò della Riviera.
Alcune delle mie idee erano così sceme che mi vergogno a
descriverle. Una quindicina di anni fa mi si presentò la malinconica prospettiva di dover tenere una conferenza annunciata
dalla pubblicità come vivace e sofisticata, davanti a parecchie
centinaia di membri di circoli femminili, alle undici della mattina nell’auditorium di un grande magazzino di Cleveland.
Avevo già consumato la mia provvista di scherzi improvvisati
e accuratamente imparati a memoria in una precedente conferenza tenuta a Cleveland durante quella medesima stagione,
e quindi avevo molte e magnifiche probabilità di fare un fiasco imponente dinanzi a un pubblico già risentito per aver pagato un prezzo esorbitante per i biglietti messi in vendita da
un’opera di beneficenza. Il pensiero di raccogliere del materiale nuovo era troppo deprimente perché mi ci soffermassi anche un solo momento. Disperata, comprai una quantità di baffi di carta e incaricai le maschere di consegnarli alla porta. I baf14
fi furono accettati con l’entusiasmo che avrebbero ispirato altrettanti topi morti, ma finalmente una signora si decise a mettersi il proprio paio, e via via che le altre la imitavano un coro
di risatine si sparse per la sala. Quando giunsi sulla pedana portando anch’io un paio di baffoni imponenti, l’intero auditorio
risuonò di risatine imbarazzate. Non dissi nulla di brillante o di
significativo, quella mattina, ma i pochi dollari spesi per il mio
stupido scherzetto mi conquistarono il pubblico rendendolo
il più benevolo tra quanti mai mi sia trovata di fronte.
Partecipai anche a ricevimenti e balli che costarono cifre
ampiamente sufficienti a mantenere una famiglia media per
dieci anni, ma di questi parlerò in un altro capitolo. So benissimo che ciò che desta soprattutto la curiosità è come io sia
riuscita, da quarant’anni a questa parte, a dare feste grandiose
e a vivere apparentemente nel lusso senza possedere denaro
né fonti di guadagno. Sono stata oggetto di calunnie, di mezze
verità e di pettegolezzi maligni durante l’intera mia maturità e
ho finalmente deciso di rispondere a tante brutte voci dichiarando pubblicamente il mio debito verso gli amici che mi hanno aiutata a superare i momenti difficili.
Si è detto che sfrutto i miei amici, che mi faccio pagare abbondantemente per sponsorizzare arrampicatori sociali, che ricatto la gente minacciando di pubblicare notizie scandalose sui
giornali e che colleziono mazzette elargitemi dai fornitori di
cibo e bevande. L’unico briciolo di verità in tutto questo è l’aiuto finanziario che ho ricevuto dalla signora Hearst. Tutte le altre accuse sono assolutamente false.
Negli ultimi quarant’anni ho domandato ogni tanto a un
piccolo gruppo di amici di tirarmi fuori dalle situazioni difficili con modesti prestiti, che ho quasi sempre restituito.
I pettegoli maligni non conoscono un altro particolare importante. Fin dal 1906 ho sempre lavorato. Sono stata pianista in un piccolo cinema; accompagnatrice di una stella del
varietà in America, in Europa e in Sudafrica; scrittrice di canzoni; socia di due locali notturni a Parigi; consigliera di un
sarto; addetta alle pubbliche relazioni per Montecarlo; attrice
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entusiasta, sebbene completamente priva di talento, per il cinema, il teatro, la radio e la televisione; sceneggiatrice, giornalista, collaboratrice di riviste e conferenziera. Dal 1938 a oggi
mi sono guadagnata cifre rispettabili, per quanto sia io la prima a riconoscere che non possono bastare per il tipo di vita
mondana che conduco.
Alcuni amici, che sanno come io mi trovi sempre a corto di
denaro liquido, mi regalano assegni sostanziosi per Natale o
per il mio compleanno. Nel 1943 la signora Evelyn Walsh
McLean mi pregò di andare con lei a Hollywood e mi diede
un assegno per risarcirmi della perdita di un contratto con la
radio per quattromila dollari cui non potevo permettermi il lusso di rinunciare. La signora McLean, favolosamente ricca, si divertì talmente a fare la conoscenza delle celebrità del cinema
che le presentai da aggiungere a quanto avevamo pattuito una
pelliccia di visone.
Simili colpi di fortuna occasionali non spiegano però come
io abbia potuto seguire il sole della mondanità sulla Costa Azzurra, a Parigi, Londra, Venezia, Roma, Vienna, Biarritz, New
York, Washington e Hollywood per quasi mezzo secolo.
Tanto per dimostrare come il successo addormenti la memoria: anni fa rimproverai il principe Cristoforo di Grecia
perché aveva accettato l’ospitalità di una famiglia di New York
nota per quello che Thorsten Veblen chiamava “consumo vistoso”. «Dove potrebbero procurarsi tre pasti al giorno i poveri membri delle famiglie reali se non ci fossero gli snob?» rispose. E con questo mi chiuse debitamente la bocca.
Francamente non potrei piantare le tende nei tre punti più
costosi del mondo senza qualche speciale accordo o combinazione con gli alberghi e i ristoranti, ansiosi di capitalizzare sulla pubblicità che io procuro loro.
La sede che si avvicini di più a un focolare domestico tra
quelle che ho avuto da quando lasciai San Francisco nel 1907
è il Waldorf-Astoria Hotel di New York, dove abito da ottobre ad aprile, più o meno, fin dal 1931. Sono andata a stare al
Waldorf per l’ottima ragione che là mi è stato offerto un ap16
partamento gratis. Il Waldorf si aprì nell’ottobre 1931, in piena crisi, e Lucius Boomer, il presidente della società, mi fece
quell’offerta pensando che la mia presenza nel suo albergo
potesse procurargli altri clienti desiderabili. Aveva ragione; le
Towers si riempirono di amici. Boomer era un uomo meraviglioso, che divenne mio grande amico e che mi capiva magnificamente. Nel 1946, dopo la guerra, quando ripresi le mie
peregrinazioni, provando qualche scrupolo a bloccare tanto
spazio in un albergo così ricercato, feci l’accordo di pagare al
Waldorf trecentocinquanta dollari al mese per un appartamento di due camere, circa un terzo del suo prezzo.
A Parigi ho sempre pagato il prezzo completo per l’appartamento che occupo al Ritz. Questo famoso albergo si basa sulla saggia convinzione di non avere affatto bisogno del mio aiuto, però la direzione mi fa una concessione speciale permettendomi di pagare i miei conti a lunghi intervalli. La spesa
amministrativa cui va incontro per tenerli aggiornati è stata ripagata mille volte dai ricevimenti epici che mi sono stati offerti al Ritz da amici ben provvisti. Una volta fu necessaria una gru
per raccogliere un conto di ventimila dollari piombato addosso a Jay O’Brien.
O’Brien, ex marito e compagno sul palcoscenico di Mae
Murray, la stella del cinema, aveva sposato l’ex moglie di Julius
Fleischman, dopo che questa aveva divorziato e ottenuto un’enorme liquidazione dal re del lievito. Io presi sotto la mia protezione Jay e Dolly, una coppia di giovani allegri e belli, che furono un acquisto prezioso per i miei ricevimenti, quando vennero in Francia verso il 1925. Vecchi ganimedi ritrovavano la
loro gioventù perduta flirtando con Dolly, e Jay faceva cadere
dall’emozione i diademi di brillanti dalla testa delle vecchie dame quando ballava con loro. Jay domandò a Cole Porter che
cosa poteva regalarmi per il mio compleanno, e Cole gli disse che
nulla mi piaceva quanto una festa, e allora Jay mi diede carta
bianca. C’era Serge Diaghilev a Parigi, e questo, naturalmente,
significava che bisognava assolutamente che il suo corpo di ballo desse uno spettacolo durante il mio ricevimento. Feci co17
struire un palcoscenico nel giardino del Ritz e spedii trecento
inviti per una cena in piedi. Nell’immensa confusione dimenticai, però, di avvertire Jay della vastità che stava assumendo il
suo grazioso gesto. Il giorno prima del mio ricevimento, Jay stava attraversando l’atrio del Ritz, quando vide dozzine di operai
che si davano da fare intorno a un’impalcatura a cinque piani.
«Costruite una nuova ala nell’albergo?» domandò.
«No, stiamo facendo i preparativi per il ricevimento di gala della signorina Maxwell» risposero quelli.
Jay fu rianimato dal concierge, che teneva sempre a portata di mano cognac e sali in vista di simili incidenti.
Dopo Parigi, il mio solito programma mi porta in Riviera per
quattro mesi, con brevi gite a Biarritz e a Venezia. Sarei invitata in permanenza nei locali più magnifici della Côte d’Azur,
ma preferisco stare da Dorothy “Dickie” Gordon, la mia più
vecchia amica, proprietaria di una modesta fattoria ad Auribeau, un villaggetto tra le colline, a una ventina di chilometri
da Cannes. La fattoria di Dickie, costruita nel 1841, si distingue soprattutto per un meraviglioso panorama, una cascata e
un’enorme mola trasformata in tavola all’aperto. Il piedistallo
su cui è posata la mola è così basso che ci si sta decisamente
scomodi, eppure centinaia di persone i cui nomi compaiono nei
titoli di testa dei giornali del mondo intero percorrono volentieri in macchina quelle strette stradine di campagna per farsi
venire i crampi alle gambe sotto la mola, durante il pranzo. In
un tipico raduno di qualche anno fa c’erano i duchi di Windsor, quando ero ancora in buoni rapporti con la duchessa, Clark
Gable e Dolly O’Brien, Tyrone Power e Linda Christian, Darryl
Zanuck, Jack Warner e Charles Feldman con le loro mogli e
Lord Milford Haven.
Perché ci venivano? Certo non erano attratti dalla mia bellezza, né dal mio spirito e nemmeno dal pranzo, per eccellente che fosse. Forse sembrerò immodesta fino all’arroganza,
ma credo sinceramente che fossero attirati dall’allegria che irradio intorno a me, così naturalmente come respiro. Per lontano che io vada con la memoria, mi sono sempre sentita co18
me una bambina la mattina di Natale. Mi sveglio ogni giorno
con la convinzione incrollabile, chiamatela idiota, se volete, che
qualcosa di meravigliosamente emozionante stia per accadere. La capacità di comunicare questo senso di attesa è la qualità che da principio attirò la gente verso di me.
Se possedessi tutto il denaro che ho speso di tasca mia nei
ricevimenti, non dovrei a settant’anni affannarmi come faccio
per guadagnarmi da vivere. Devo confessare, però, che alcuni
dei miei grandiosi balli mascherati e delle mie feste memorabili furono dati per conto di terzi. Gli amici mi affidavano la loro
casa e la loro servitù oppure prendevano in affitto i saloni di
un albergo, soltanto per poter essere sicuri di partecipare allo
spasso. Immagino risulti incomprensibile a un lettore ragionevole che la gente si sfinisca al punto da aver bisogno di un consigliere mondano per imparare a divertirsi. Sarebbe come promuovere una nuova versione della Via del tabacco a Broadway
solo per assicurarsi una poltrona la sera della prima.
Mi sembra ancora assurdo, eppure il gaio circolo intorno a
me cresceva in proporzione geometrica via via che le cacce al
tesoro, le cene con delitto e i balli mascherati di Elsa Maxwell
furoreggiavano sempre più a Parigi, a Londra e a New York.
Le persone che avevano goduto dell’ospitalità altrui rendevano la pariglia dandomi carta bianca per organizzare altre feste
grandiose.
Voglio rendere chiari parecchi punti. Non ho mai organizzato feste per persone sconosciute. Non ho mai messo un prezzo ai miei servigi, per quanto alcune delle mie feste richiedessero settimane di preparazione accurata. Non ho mai sfruttato
gli amici per un mio guadagno personale. Il vortice mondano
era semplicemente una mia opera affettuosa a beneficio del
piacere.
Il denaro non mi ha mai interessato per i beni materiali che
può procurare. L’esempio offertomi da mio padre ha soffocato in me ogni impulso a possederne e, via via che invecchiavo,
ho visto tanti abusi volgari commessi col denaro che ho sviluppato un vero disprezzo per quei simboli che mettono in mo19
stra la ricchezza. Fino a cinquant’anni non ho avuto una macchina e anche allora fu un macinino di seconda mano. L’unico
gioiello che possiedo è un semplice anello con uno smeraldo,
la mia pietra di nascita. Quando tornai a Parigi dopo la guerra, un commesso di Cartier mi telefonò per dirmi che aveva serbato in cassaforte, durante l’occupazione tedesca, un pacchetto che avevo affidato alla ditta nel 1939. Conteneva due anelli
con brillanti, del valore di parecchie migliaia di dollari ognuno,
che mi aveva regalato la baronessa Eugene de Rothschild,
vent’anni prima, per Natale. Mi ero infilata così di rado quegli anelli che li avevo completamente dimenticati. Sei mesi dopo, li regalai a un’opera di beneficenza di New York, proprio
in un momento in cui ero afflitta dalla più plebea delle malattie: una grave anemia del conto in banca.
Nel 1927 un tale mi diede ventimila dollari per lanciare
Montecarlo come luogo di ritrovo estivo. Perdevo regolarmente alla roulette le rate trimestrali del mio compenso via
via che le ricevevo. Nel maggio 1953 gli editori mi hanno dato
un anticipo su questo libro. Immediatamente l’ho versato per
contribuire a una campagna che raccoglieva fondi per il New
York City Center, un’organizzazione culturale senza alcuno
scopo commerciale, che mi aveva onorata in passato eleggendomi a membro del consiglio direttivo.
Se avessi approfittato delle occasioni che mi sono piovute
addosso, oggi sarei ricca. Nel lontano 1916 trascorsi un fine settimana a Short Hills, nel New Jersey, in casa di Louis G. Kaufman, presidente della Chatham Phoenix National Bank e
membro influente di vari imperi industriali. Kaufman e William C. Durant, un pioniere dell’industria automobilistica, passarono l’intero weekend discorrendo della riorganizzazione
della General Motors. Non potevo fare a meno di udire ciò che
dicevano: quello fu infatti l’unico argomento della loro conversazione. Una ventina di anni più tardi incontrai di nuovo
Kaufman. Mi sorrise benignamente.
«Ebbene, Elsa, dovrebbe avere messo insieme un bel patrimonio, ormai» disse.
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La frase mi sembrò uno scherzo di cattivo gusto, perché in
quel periodo mi trovavo ancora più in bolletta del solito. «Forse non frequento gli ambienti adatti» feci seccamente. «Ma il
suo senso dell’umorismo mi sfugge».
«Non si ricorda quando Durant e io parlammo tanto della
General Motors?».
«Non ascoltavo. Gli affari mi seccano a morte».
Kaufman mi guardò stupefatto. «Sarebbe milionaria se
avesse comprato qualche azione allora. Chiunque altro si sarebbe fatto tagliare il braccio destro pur di ascoltare la nostra
conversazione».
Non mi diedi la pena di dire a Kaufman che il mio braccio
destro mi serviva per altre cose, per esempio per suonare il
pianoforte, passatempo più soddisfacente che non staccare
cedole.
L’identica cosa si ripeté nel 1922 quando ero ospite di Harold E. Talbott e della sua graziosa moglie Peggy, miei carissimi amici, a Long Island. Talbott, attualmente dinamico segretario delle Forze Aeree, stava organizzando l’Auto-Lite Corporation con Royce G. Martin, presidente del consiglio di
amministrazione. Di nuovo seppi che una nuova società avrebbe rivoluzionato l’industria automobilistica e di nuovo feci orecchie da mercante. Le azioni Auto-Lite furono messe sul mercato a pochi centesimi. Alla mostra dell’automobile del 1953
Martin mi ha accennato per caso che le azioni della sua società
si vendevano per qualcosa come settantotto dollari l’una.
La ricchezza non mi ha mai interessato perché non ho avuto bisogno di quella chiave per varcare le porte che per me erano sempre aperte. Più di tutto ammiro gli artisti e i geni creativi, e sono sempre vissuta in mezzo a loro. Ho conosciuto parecchi presidenti degli Stati Uniti, ho ospitato una dozzina di
re e chiamo per nome di battesimo metà dei titolati dell’Almanacco di Gotha, ma farei a cambio con chiunque conoscesse una
certa persona che non ho mai visto: si tratta di Albert Schweitzer, musicista e filantropo, il quale si è isolato dal resto del mondo per prendersi cura degli indigeni africani.
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Mi hanno detto che uno psichiatra passerebbe una giornata campale con me, ma io sarei portata a dubitarne. Credo che
potrebbe completare la mia analisi in un’unica rapida seduta,
perché so, con precisione quasi cronometrica, quali siano i
due incidenti che mi hanno liberata da quelle complicazioni
che ingombrano la vita della maggior parte della gente: il denaro e il sesso.
Non ho mai avuto esperienze sessuali, né le ho mai desiderate. Mi rendo conto che il sesso è la molla più importante del
mondo, che le donne devono sposarsi e avere figli per raggiungere la loro piena maturità e che il sesso è la manifestazione naturale dell’amore. Ma io possedevo un orgoglio tutto particolare che mi impediva perfino di provare curiosità per le questioni
del sesso e di permettere a qualcuno di conoscermi intimamente. Sono affascinata dalle passioni amorose dei miei amici, e li
ho aiutati a risolvere i loro problemi con devozione altrettanto
appassionata. Ho amato l’amore, ma non gli amanti. Ho scoperto a sedici anni che non riuscivo nemmeno a lasciarmi baciare
da un uomo. Non fu un trauma psichico a inibire le mie reazioni; l’uomo era delizioso e dolce. Eravamo fidanzati e già progettavamo il nostro avvenire, eppure un blocco psicologico mi
obbligò a respingere l’aspetto fisico del matrimonio.
Forse fu l’egoismo, o un falso idealismo, a impedirmi di permettere che un uomo mi conoscesse abbastanza bene per giungere a tanta intimità. Forse mi aspettavo troppo. Sono stata
attirata da due uomini in vita mia: da Cole Porter, per il suo spirito e il suo genio musicale, e da Ali Khan per il suo fascino virile; ma ero di gran lunga troppo vecchia quando li ho conosciuti per prendere in considerazione un legame romantico con
loro. Meglio così. Quel pensiero almeno non li ha mai sfiorati.
Via via che crescevo non potevo non domandarmi se non mi
stavo lasciando sfuggire dei rapporti carichi di arricchimento
spirituale. È possibilissimo che il mio atteggiamento sarebbe
cambiato se avessi visto la molla del sesso sublimata dall’amore per la famiglia. Ma mi muovevo in un ambiente dove i divorzi, gli scandali e i cuori spezzati erano così numerosi che for22
se la mia prospettiva ne è stata distorta. Vedendo l’infelicità
nei matrimoni dei miei amici, mi sentii soddisfatta di avere scelto la musica e le risate in sostituzione di un marito.
Ci fu almeno una persona autorevole che riconobbe che
sono una persona equilibrata dal punto di vista emotivo. Nel
1931 conobbi a Vienna il grande Sigmund Freud. Dovette divertirsi della mia conversazione, perché mi trattenne a parlare
per una mezz’ora buona. Freud mi interrogò sul mio ambiente. Quando glielo ebbi descritto, annuì col capo, mormorando:
«Una donna sana che non soffrirà mai di nevrosi…». Allora
ignoravo perfino che cosa fosse una nevrosi.
Invece di concentrare il mio affetto su una famiglia sola sono stata libera di regalarlo a piene mani a centinaia di amici, stabilendo accordi armoniosi con personalità piene di vita. Il mio
sfogo emotivo sarà stato di seconda mano, ma sono contenta di
avere occupato una poltrona di prima fila di fronte a qualcuno degli episodi più romantici della nostra epoca.
Per esempio, una trama inventata non avrebbe potuto avere una conclusione più felice o deliziosa di quella della storia
della duchessa di Grammont. La duchessa era la bellissima
principessa Maria Ruspoli, appartenente a un’antica, ma impoverita, famiglia italiana, ed era la terza moglie del vecchio duca, uno dei nobili più ricchi di Francia. I de Grammont diedero il primo grande ballo sfarzoso di Parigi dopo la Prima
guerra mondiale, nel loro palazzo vicino all’Étoile. Mentre
Lady Alex Colebrook e io ce ne stavamo andando, vedemmo
allontanarsi un giovanotto col bavero del cappotto tirato su per
ripararsi dalla pioggia. Era George Cuevas, il quale allora ballava per guadagnarsi materialmente la cena. Cuevas, che non
avendo il denaro sufficiente per pagarsi un taxi correva il rischio di sciuparsi il frac (che in realtà per lui rappresentava
l’abito da lavoro), accettò con gratitudine la nostra offerta di
un passaggio.
Quando il duca morì, lasciando alla moglie una notevole
fortuna, Maria sposò Jean Hugo, figlio del romanziere, e restaurò il castello di Vigoleno, una magnifica fortezza medieva23
le posta su un picco montagnoso a Salsomaggiore, vicino a
Milano. Maria aveva un istinto naturale per gli effetti drammatici, che le servì per rendere Vigoleno uno dei luoghi turistici più impressionanti d’Europa. Una volta, mentre conducevo un gruppo di persone, tra le quali la principessa Winnie
de Polignac, Arthur Rubinstein e un quartetto d’archi, a farle
visita durante un temporale spaventoso, Maria ci fornì un faro di guida illuminando l’intero profilo del castello con torce
infilate sui bastioni e sulle torri: uno spettacolo da far sfigurare le luci di Broadway o di Piccadilly.
Maria perse il suo castello e tutto il suo denaro durante la
Seconda guerra mondiale. Allora andò a lavorare a New York
in un famoso istituto di bellezza. Tenne quel posto per sei anni finché nel 1951 la sua salute cagionevole non la obbligò a
lasciarlo. Nel frattempo, Cuevas aveva sposato Margaret
Strong, che ereditò più di cinquanta milioni di dollari da John
D. Rockefeller, suo nonno. Diversamente da tanti che hanno
raggiunto posizioni di successo, Cuevas non dimenticò i favori ricevuti in passato. Nel settembre del 1953 a Biarritz offrì
un elegante ricevimento in cui si esibì la compagnia di balletto che finanziava. Ospite d’onore fu la duchessa di Grammont,
già sua benefattrice, che ora Cuevas mantiene in grande stile
in una villa che le ha comprato ad Aix-en-Provence.
Poi ci fu la vicenda di Laura Corrigan, protagonista di una
piccola gemma nella storia dei matrimoni d’interesse. Laura,
telefonista in un albergo di Cleveland, fissò un appuntamento
al buio con un cliente che aveva bevuto abbondantemente, lo
sposò la mattina dopo e ne ereditò l’intero patrimonio quando il marito morì sei mesi più tardi. Tra le proprietà lasciate a
Laura c’erano delle azioni di acciaierie, che lei vendette in seguito per ottanta milioni di dollari in contanti. L’Europa, tra il
1920 e il 1930, era zeppa di ricchi americani che si servivano
del denaro come trampolino per tuffarsi in grande stile nell’alta
società, ma nessuno di loro sollevò un’onda più grande e più
spumosa di Laura. Regalava agli ospiti della sua tavola portasigarette e braccialetti tempestati di brillanti. Prese a nolo uno
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yacht, invitò una quantità di gente a una crociera nei Caraibi e
in ogni porto offriva a ciascuno duecento dollari per le piccole spese.
Prendere in giro le sue gaffe e i suoi svarioni linguistici era
uno dei passatempi preferiti del mondo elegante. Una volta
qualcuno domandò a Laura, che si preparava a partire per una
crociera nel Mediterraneo, se intendeva visitare i Dardanelli.
«Ho qualche lettera di presentazione per loro» rispose con
disinvoltura «ma non ho il tempo di andarli a trovare».
Elsie Mendl accompagnò Laura a fare un giro nella sua deliziosa villa di Versailles poco dopo che Wendell, un decoratore austriaco, vi aveva installato l’illuminazione indiretta. Laura rimase assai impressionata, come di dovere. «Adoro questa
illuminazione confusa» esclamò.
Laura era una parvenue, si sa, ma aveva più nobiltà di carattere e più coscienza sociale nel dito mignolo di tutti quei piccoli aristocratici che la prendevano in giro. Quando i tedeschi
invasero la Francia nel 1940, Laura rifiutò di rifugiarsi negli
Stati Uniti. Restò in Francia e vendette a prezzi fallimentari i
suoi favolosi gioielli a Hermann Göring, quel mostro ributtante che si diceva avesse sotto la divisa le braccia coperte dal
polso al gomito dai braccialetti comprati a Laura, la quale spese il ricavato in pacchi di alimenti per i prigionieri di guerra
francesi caduti nelle mani dei nazisti. Quando Laura morì, nel
1948, la Francia perse una leale sostenitrice.
Che cosa fu a dare l’avvio a Elsa? Credo che la spinta principale si possa rintracciare nella prima volta in cui rimasi vittima dello snobismo, a dodici anni. I miei genitori abitavano a
Nob Hill, a San Francisco, nella casa di fronte a quella del senatore James G. Fair, la cui ricchezza proveniva dal Virginia
Lode, un leggendario filone d’oro nel Nevada. Costui si preparava a dare una festa in onore della figlia maggiore Teresa, ed
ero sicura che avremmo avuto anche noi un invito dai nostri
vicini. Ancora oggi, quasi sessant’anni dopo, riprovo il bruciante risentimento che mi invase quando mia madre mi disse
che eravamo troppo poveri per essere invitati alla festa.
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Non è stata una vita facile per una donna che non sarebbe
riuscita a sembrare chic neanche indossando una creazione di
Molyneux in mezzo a una riunione di preghiera di Amish.
Nello sforzo di raggiungere il mio obiettivo, adottai da principio un atteggiamento che ora disprezzo. Fui un’insopportabile snob musicale e intellettuale, lo riconosco. Ma una tendenza naturale al divertimento, alla gaiezza e alla felicità mi restituì ben presto la mia prospettiva.
I nemici me li sono fatti, e me li faccio ancora, volutamente,
non molti, ma importanti. I nemici sono per me la salsa piccante
sul piatto della vita! Di solito si tratta di persone che mi sono antipatiche o che disapprovo. Lady Cunard, la quale dominò la società londinese per tre decenni con pugno di ferro, operava in
una sfera di gran lunga più alta della mia, ma mi era antipatica
perché, pur essendo stata adottata da un uomo ricco, un certo
Carpentier, quando era rimasta orfana in California, disprezzava assolutamente l’America e gli americani, suoi compatrioti. Lady Cunard non aveva posto nei suoi salotti brillanti se
non per tipi di successo i quali fossero in grado di rendere più
vistosa la lista dei suoi ospiti sui giornali, o per adulatori pronti a leccarle i piedi. Quando l’attuale regina madre Elisabetta,
allora duchessa di York, diventò regina, le domandarono se
era mai stata invitata alle cerimonie mondane di Lady Cunard.
«Oh, no» rispose con calma. «Bertie e io non eravamo abbastanza chic per lei».
Lady Cunard provava antipatia per me, naturalmente, perché credeva che io fossi venuta a Londra a offuscare il suo fulgore mondano. Dopo molti anni ci conoscemmo finalmente a
casa di Cole Porter e fu allora che sparai una delle mie rare frecciate maligne.
«Oh, signorina Maxwell» mi fece, guardandomi radiosa con
i suoi occhi lucidi e penetranti, «che piacere conoscerla. Abbiamo tanti amici in comune a Londra».
«Sono molto contenta, Lady Cunard» risposi, lasciando che
l’aspide nascosta in me salisse alla superficie, «di conoscerla
per ultima invece che per prima».
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Due americane che Lady Cunard aiutò a salire su per la scala della mondanità furono la signora Corrigan e Mabel Gillman,
la famosa stella di Broadway moglie del re del rame e dell’acciaio, Corey. Tutte e due sovvenzionavano generosamente l’opera di Sir Thomas Beecham: gesto abbastanza lodevole, che
servì al doppio scopo di mantenere aperto il Covent Garden e
di assicurare loro l’amicizia di Lady Cunard, perché questa ha
sempre avuto a cuore la causa della musica e di Sir Thomas.
Mabel Corey fece un intervento di lifting al viso in tarda
età, e con scarso successo. Un giorno, mentre visitava una cattedrale in Francia, il sagrestano si avvicinò redarguendola dolcemente. «Madame» disse «il est défendu de siffler» (È proibito fischiare). Povera Mabel, non fischiava affatto, ma l’operazione le aveva contorto la bocca in modo tale che sembrava lo
stesse facendo.
Se la mia malignità verso alcuni dà l’impressione che io abbai continuamente contro i trasgressori come se mi fossi autonominata cane da guardia della morale pubblica, voglio correggere in fretta questo equivoco. Tra le due guerre mondiali
sono stata colpita dalla forma più grave di sviluppo a scoppio
ritardato che si sia mai vista. Mi piaceva troppa gente ed ero
troppo occupata a divertirmi per perdere tempo nei litigi. Inoltre, guardavo con tanta curiosità i protagonisti recitare la Storia sul palcoscenico del mondo, che non mi unii all’esercito
dei lanciatori di dardi avvelenati, finché non divenne mio mestiere, come giornalista, redigere alcune piccole note di commento a piè di pagina.
Non sono superstiziosa, ma non posso fare a meno di domandarmi se non sono nata sotto un’intera galassia di stelle
propizie. Non c’è altra spiegazione alla serie di occasioni fantastiche che mi sono capitate.
Per esempio, fui la prima persona americana, non in veste
ufficiale, a conoscere dalle labbra di Winston Churchill in persona la verità sulla storia di Rudolf Hess. Si ricorderà che Hess,
principale collaboratore di Hitler, nel 1941 provocò una sensazionale emozione mondiale buttandosi col paracadute da
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un aeroplano tedesco sui possedimenti del duca di Hamilton,
in Scozia, poco prima che i nazisti invadessero la Russia. Gli inglesi rinchiusero immediatamente Hess in una cella isolata, e
rifiutarono di pubblicare una dichiarazione ufficiale sulla sua
fuga, misure che sortirono l’effetto di fomentare infinite congetture sul bizzarro incidente.
Quando Churchill venne negli Stati Uniti per incontrare il
presidente Roosevelt poche settimane dopo l’entrata in guerra dell’America, i giornalisti mossero, come pazzi, tutti i fili
per tentare di avere da lui qualche chiarimento su Hess. Però,
concluso il proprio compito con Roosevelt, Churchill sfuggì
agli intervistatori rifugiandosi segretamente in casa di Edward
Stettinius, a Palm Beach, a godersi un meritatissimo riposo.
Era la prima volta da vent’anni che mi trovavo a Palm Beach
e non sapevo che Churchill si trovasse nella medesima città, e
nemmeno nel medesimo emisfero, finché una sera Jacques Balsan e sua moglie (gli amici dei quali ero ospite) non diedero
un pranzo per pochi intimi. Ero appena tornata in macchina da
Miami dove avevo fatto una trasmissione radio, ed ero depressa
dalle notizie di guerra che giungevano dalle Filippine, quando i Balsan mi promisero una “sorpresa” eccezionale. E non
stavano esagerando.
Quando mi riebbi dallo stupore provato alla vista di Churchill, sfruttai una conoscenza superficiale di trent’anni prima
con Charles de Gaulle per domandargli la sua opinione sul
generale, il mio idolo del momento, il quale stava organizzando la resistenza francese contro i conquistatori nazisti. «La
mia più grande croce è la Croix de Lorraine» borbottò Churchill, riferendosi allo stemma di de Gaulle. Per quella volta,
tenni discretamente la bocca chiusa (la valutazione di de Gaulle da parte di Churchill era esatta, a quanto risultò) e menzionai invece la faccenda di Hess. Churchill, al quale è sempre piaciuta una bella storiella, rise e si mise a parlare liberamente.
«Gli unni sono talmente sciocchi che credono a tutto quello che leggono» disse Churchill. «Qualcuno mostrò a Hitler
una vecchia rivista in cui il duca di Hamilton veniva chiamato
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“cameriere” del re. Perfino i bambini sanno che si tratta di un
titolo puramente onorifico, ma quell’idiota di Hitler ha creduto che Hamilton servisse veramente il pranzo al re, e mandò
Hess da Hamilton perché questi persuadesse sua Maestà, a mia
insaputa, a negoziare una pace separata prima di attaccare la
Russia. Che stupidi! Così quando ho detto che avremmo combattuto gli unni sulle spiagge e per le strade, hanno creduto che
avessimo davvero armi sufficienti per respingerli».
Churchill proseguì, raccontando l’imbarazzo del duca di
Hamilton perché l’avevano scelto come filo conduttore fino a
Giorgio VI, dando così luogo alla diceria che fosse filonazista.
Il primo ministro ridacchiò descrivendo lo smalto rosa che
Hess portava sulle unghie dei piedi. Stringendo la sua famosa
mascella da mastino, mormorò cupo: «I nazisti perderanno».
Ma l’occasione più fantasticamente fortunata mi capitò la
sera dell’8 novembre 1932. Non mi aspetto quasi che mi si
creda, ma fui la prima a congratularmi con Franklin Delano
Roosevelt per la sua elezione a presidente.
La catena delle coincidenze ebbe inizio quando ricevetti
un cablogramma dal conte Stanislao de la Rochefoucauld, il
quale mi diceva che stava arrivando a New York e che aveva urgente bisogno del mio aiuto. Risultò che il conte era stato incaricato dal Figaro, uno dei principali giornali di Parigi, di
scrivere una serie di articoli sulle elezioni, e voleva che io gli
organizzassi interviste con i candidati più importanti.
«Tu conosci tutti» mi disse con fare seducente. «Ti sarò molto grato per qualsiasi piccolo aiuto tu mi possa dare».
Non volendo deludere il conte col confessare che nemmeno l’ultimo dei candidati a un posto di segretario comunale
mi aveva mai sentita nominare, fissai con lui un appuntamento in tarda serata. Telefonai subito a Elisabeth Marbury, una
vecchia amica, per domandarle qualche suggerimento brillante. Elisabeth, sovvenzionatrice del fondo per la campagna dei
democratici, era malata e mi disse che mi avrebbe ceduto i
suoi biglietti d’invito per i festeggiamenti preparati dalla direzione del partito al Biltmore Hotel. Era sempre meglio che
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piantare il conte davanti a una radio per ascoltare i risultati delle elezioni, unica altra alternativa che potessi offrirgli, e quindi fui costretta ad accettare.
Per ammazzare il tempo, condussi il conte in Times Square
a osservare gli strani costumi degli indigeni americani la sera
delle elezioni, e poi andammo al Biltmore. Quando mostrai i
miei biglietti alla porta del Comando supremo, le guardie si misero in agitazione e ci diedero una scorta per salire al piano
superiore. Elisabeth Marbury era una fortissima sovvenzionatrice del fondo per la campagna elettorale e i suoi biglietti ci
aprirono le porte del sancta sanctorum. Soltanto il grosso Jim
Farley, la signora Millicent Hearst e Vincent Astor con la moglie erano stati ammessi in quella stanza. Farley mi salutò con
un cenno del capo e mi invitò a varcare un’altra porta.
«Vada là dentro a fare la conoscenza del principale» disse.
«Ma non l’ho mai avvicinato e non mi sembra il momento
adatto per presentarmi» protestai.
«Mai troverà un momento migliore» disse Farley, ridendo.
«È al settimo cielo stasera».
Aprii la porta, col conte alle calcagna, e vidi Roosevelt, circondato da una batteria di macchine telescriventi, e con un
telefono infilato tra la spalla e la guancia. In quel preciso istante gli giunse la notizia di un risultato parziale che gli assicurava la vittoria. Gettò all’indietro la testa massiccia, e il famoso
sorriso magnetico gli inondò la fisonomia.
«È fatta» annunciò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Siamo arrivati».
C’erano due o tre aiutanti di campo nella stanza, ma io ero
più vicina di tutti a Roosevelt, e fui la prima ad afferrargli la mano. Non ricordo ciò che dissi, e sono sicura che Roosevelt non
mi udì. Ma ricordo vividamente, come fosse accaduto dieci minuti fa, la mia estasi nel trovarmi presente a quella svolta decisiva della storia.
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