utilizzo strategico di piante dei generi atriplex e opuntia nella lotta

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utilizzo strategico di piante dei generi atriplex e opuntia nella lotta
UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI SASSARI
NUCLEO DI RICERCA SULLA DESERTIFICAZIONE
UTILIZZO STRATEGICO DI PIANTE
DEI GENERI ATRIPLEX E OPUNTIA
NELLA LOTTA ALLA DESERTIFICAZIONE
Mulas M., Mulas G.
Short and Medium- Term Priority Environmental Action Programme
(SMAP)
Febbraio 2004
INDICE
Riassunto ......................................................................................................................... 4
1. Introduzione: la desertificazione ................................................................................. 5
2. Esperienze di lotta alla desertificazione condotte in diverse parti del mondo,
utilizzando i generi Atriplex ed Opuntia
2.1. Atriplex
2.1.1. West Asia e North Africa (WANA) ...................................................................... 9
2.1.2. America del Sud .................................................................................................. 18
2.2. Opuntia
2.2.1. West Asia e North Africa (WANA) .................................................................... 23
2.2.2. Continente Americano ......................................................................................... 32
3. Appendice scientifica
3.1. Genere Atriplex
I. Origine e diffusione ........................................................................................ 37
II. Tassonomia, botanica e fisiologia ................................................................. 37
3.1.1. Tecniche colturali per il genere Atriplex
I. Scelta della specie ........................................................................................... 40
II. Tecnica di propagazione e piantagione ......................................................... 43
III. Irrigazione .................................................................................................... 43
IV. Valore nutrizionale e utilizzazione zootecnica ............................................ 47
3.2. Genere Opuntia
I. Origine e diffusione ........................................................................................ 53
II. Tassonomia e caratteristiche botaniche dell’Opuntia ficus-indica ............... 53
III. Ruolo economico ed ecologico delle Opuntiae ........................................... 55
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IV. Aspetti biologici legati alla propagazione della specie e tecnica di
propagazione ...................................................................................................... 57
3.2.1. Ecofisiologia del genere Opuntia
I. Adattamenti strutturali agli ambienti aridi ..................................................... 60
II. Meccanismi di arido-resistenza ..................................................................... 61
3.2.2. Tecniche colturali per il genere Opuntia
I. Scelta della specie e della cultivar .................................................................. 66
II. Impianto ........................................................................................................ 66
III. Concimazione .............................................................................................. 69
IV. Valore nutrizionale ed utilizzazione zootecnica .......................................... 69
V. Gestione della risorsa .................................................................................... 74
VI. L’uso dell’Opuntia come fonte di acqua per gli animali ............................. 81
Conclusioni .................................................................................................................... 83
Bibliografia .................................................................................................................... 87
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RIASSUNTO
La desertificazione di vaste aree del globo è un fenomeno in costante aumento
contro il quale è indispensabile una strategia di lotta attiva, che tenda non solo a
salvaguardare la fertilità naturale degli ambienti a rischio, ma anche il suo ripristino
laddove questo è tecnicamente possibile.
Viene presentata una rassegna delle principali esperienze di lotta alla
desertificazione in cui sono state impiegate su vasta scala specie arbustive di interesse
foraggero, appartenenti ai generi Opuntia e Atriplex.
Numerose informazioni vengono riportate per le specie più impiegate nelle
regioni del Nord Africa e Medio Oriente e nel continente americano: Opuntia ficusindica, Atriplex nummularia, A. halimus e A. canescens. Elementi di natura tecnica e
scientifica vengono analizzati nella valutazione di tali esperienze, mentre ulteriori
aspetti sulla biologia, propagazione e gestione delle specie sono riportati nell'ampia
appendice scientifica.
Particolare interesse hanno suscitato nella comunità scientifica le possibilità di
gestire con il pascolamento gli impianti realizzati con queste specie, la necessità di
stabilire dei turni di utilizzazione per la ripresa vegetativa delle piante dopo
l'utilizzazione e le tecniche di potatura indispensabili per il rinnovo periodico della
chioma. Sono stati anche studiati il valore nutrizionale di ciascuna delle specie e la
possibilità di combinarle tra loro, così come con gli alimenti mediamente disponibili, in
vista di una ottimizzazione delle utilizzazioni.
Parole chiave: desertificazione, agroforestazione, arbusti foraggeri, Atriplex, Opuntia.
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1. Introduzione: la desertificazione
A partire dagli anni settanta il problema della desertificazione è diventato uno
dei punti cruciali che la politica ambientale si trova a dover affrontare in ambito
internazionale.
Il processo di desertificazione fu definito nel 1992, in occasione del Summit
Mondiale sull'Ambiente di Rio de Janeiro come “la degradazione del suolo nelle zone
subtropicali aride, semi-aride e secche a causa dell’impatto di diversi fattori, quali le
attività umane e i cambiamenti climatici”. L’utilizzo del termine “desertificazione”
nasceva dalla constatazione che le aree in cui si ha degradazione del suolo assumono un
aspetto simile a quello del deserto, a causa della perdita delle riserve produttive.
La desertificazione, oltre a creare dei complessi mutamenti dell’aspetto di un
determinato ambiente, implica anche gravi problemi di carattere sociale andando ad
intaccare, talvolta in maniera irreversibile, l’economia di intere nazioni. Il problema,
infatti, si mostra tanto più grave laddove le terre colpite sono abitate da popolazioni che
basano la propria sussistenza essenzialmente sulla pastorizia e l’agricoltura.
L’Africa è il continente più colpito, circa un miliardo di ettari, infatti, sono
interessati dal fenomeno.
E’ proprio in Africa che nel 1973 i Paesi del Sahel stabiliscono un centro di
controllo della desertificazione, intendendo con questo termine “l’attività volta allo
sviluppo integrato di terre, in zone aride, semi-aride e secche con l’obiettivo di
raggiungere lo sviluppo sostenibile, mirato alla riduzione e/o alla prevenzione,
riparando parzialmente le terre degradate e ristabilizzando le aree desertificate”.
Inoltre nel 1977 la conferenza delle Nazioni Unite sulla desertificazione fondò
l’UNEP (United Nations Environmental Programme, programma ambientale delle
Nazioni Unite) e stabilì il piano d’azione del controllo della desertificazione. Nel giugno
del 1994, la Convenzione delle Nazioni Unite sul controllo della desertificazione venne
adottata nei Paesi seriamente colpiti da siccità o fenomeni di desertificazione,
specialmente in Africa. Nel 1985 il Mali adotta un Piano di Controllo Nazionale della
desertificazione, costituito da otto sottoprogrammi che prevedevano la realizzazione di
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quarantotto progetti. Nel 1991 il gruppo di stima e monitoraggio del Piano, stabilì
l’esistenza di 236 progetti di controllo alla desertificazione e la gestione delle risorse
naturali, individuando varie attività:
- gestione delle risorse idriche;
- promozione delle produzioni agricole;
- controllo dell’erosione (consolidamento di argini e dune);
- promozione dell’agroforestazione (agroforestry), con costruzione di vivai,
rimboschimenti, frangiventi;
- sviluppo della piscicoltura;
- pianificazione e gestione di piantagioni e foreste;
- apicoltura;
- promozione di attività zootecniche (produzione di foraggio, gestione dei pascoli);
- sistemazioni idrauliche in prossimità dei centri abitati;
- utilizzo di fonti di energia reperibili entro i confini nazionali;
- applicazione della “new technology”: sfruttamento dell’energia solare per il
riscaldamento dell’acqua o per l’illuminazione delle case;
- attività accessorie: alfabetizzazione, sanità, comunicazione.
Fra tutte queste iniziative alcune sono state portate avanti con una buona riuscita,
mentre altre non hanno avuto un grande riscontro.
L’attività che ha sicuramente un ruolo predominante nella lotta alla
desertificazione è la forestazione (Berthe, 1997). La presenza della vegetazione, infatti,
non solo garantisce la copertura del suolo, offrendo protezione contro l’erosione e
regolando il livello d’acqua delle falde, ma è anche una potenziale risorsa alimentare
(foraggio) e fonte di altri prodotti forestali non alimentari, che possono comunque
essere sfruttati ai fini economici o per usi domestici quotidiani (legna da ardere).
Tuttavia, riforestare le terre colpite da fenomeni di desertificazione non è
semplice: si tratta di zone aride, in cui la crescita delle piante è lenta e la distribuzione
delle piogge irregolare.
Questa situazione rende necessario l’utilizzo di specie che presentino
caratteristiche tali da poter tollerare condizioni di vita quasi proibitive: suoli pietrosi
privi di orizzonte organico, regimi di pioggia inferiori ai 300 mm e concentrazioni
saline molto elevate.
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Negli anni settanta in Niger e nel Mali per la riforestazione sono state utilizzate
diverse specie più o meno rustiche e di rapido accrescimento: Eucaliptus spp, Tamarix
spp, Ficus spp, Acacia spp, Euphorbia balsamiphera, Prosopis juliflora. Queste come
altre esperienze di forestazione, tuttavia, non hanno sempre dato buoni risultati a causa
delle esigenze ecologiche delle specie impiegate e della necessità di escludere
rigorosamente dal pascolo le zone riforestate (esigenza non sempre facilmente
rispettabile).
Migliori prospettive si sono aperte, sia pure con estrema lentezza, con l'uso delle
specie arboree a valenza foraggera e di specie arbustive (Le Houérou, 2000). Queste
hanno iniziato ad essere utilizzate in tentativi limitati di lotta alla desertificazione nella
prima metà del XX secolo, fino alla messa in atto di esperienze di una certa valenza
negli anni '70 in diverse zone aride del globo: area Mediterranea, Sud Africa, Australia,
Cile, Brasile e USA.
Oggi solo nell'area Mediterranea circa un milione di ettari sono interessati dalla
coltivazione di alberi e arbusti foraggeri, con una forte tendenza alla diversificazione
delle specie e all'incremento delle superfici. Questo mentre l'utilizzo delle specie
erbacee è sempre più limitato in questa tipologia di ambienti.
I vantaggi nell'uso di specie arboree ed arbustive sono individuabili nella grande
resistenza all'aridità e capacità di produrre biomassa in condizioni marginali delle specie
utilizzate, costituendo una risorsa alimentare per il bestiame.
L'impianto può favorire la sedentarizzazione di popolazioni nomadi, laddove le
risorse idriche del sottosuolo possono essere valorizzate dagli apparati radicali di specie
più competitive rispetto a quelle erbacee. La presenza della biomassa radicale e delle
parti di chioma permanenti, inoltre, può avere utili effetti nel controllo dell'erosione e
per modificare il microclima della zona (ombreggiamento, produzione di lettiera, ecc.).
Queste specie possono essere associate a colture di cereali nei sistemi estensivi,
consentono un miglioramento delle condizioni ecologiche e possono dare utili
sottoprodotti, quali legna da ardere e selvaggina.
I principali problemi che queste piantagioni manifestano sono legati agli elevati
costi di impianto e di protezione dall'utilizzo incontrollato da parte del bestiame. Le
colture hanno tempi lunghi per svilupparsi, necessitano di materiale di propagazione di
qualità, cure colturali (come l'irrigazione all'impianto e nelle fasi successive) e di
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corretti tempi e metodologie di utilizzazione. Tutto ciò implica l'accompagnamento e
integrazione dei progetti con azioni di tipo sociale e formativo complesse.
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2. Esperienze di lotta alla desertificazione condotte in diverse parti del mondo,
utilizzando i generi Atriplex ed Opuntia
2.1. Atriplex
2.1.1.West Asia e North Africa (WANA)
Il WANA, West Asia e North Africa, è una vasta regione che si estende dal
Marocco all’Afghanistan e dalla Turchia alla Penisola Arabica. Rappresenta la più
estesa e continua zona arida del Globo.
La regione presenta limitate risorse naturali e possiede pochi terreni fertili
utilizzabili per l’agricoltura. Le precipitazioni sono scarse e discontinue, solo limitate
zone ricevono piogge sufficienti per poter essere classificate come umide o sub umide,
inoltre la lunghezza della stagione di crescita per le piante non supera i 180 giorni (ElBeltagy, 1999). Esistono solo pochi fiumi permanenti, il territorio è prevalentemente
montuoso con suoli poco profondi e scarsamente fertili. La maggior parte delle terre
sono deserti aridi che attraversano il WANA da Ovest ad Est, dal Sahara in Africa, al
deserto del Thar nel Sud del Pakistan, fino al Karakum lungo la frontiera Nord-Est
dell’Iran. Le uniche terre utilizzabili per l’agricoltura si limitano a due strette fasce che
si estendono lungo i limiti Nord e Sud della zona desertica e rappresentano il 14%
dell’intero territorio. L’unico tipo di agricoltura sostenibile è rappresentato da quella
estensiva. Nonostante le condizioni critiche di aridità, la Regione rappresenta un
importante centro di biodiversità.
Il WANA presenta un tasso di crescita della popolazione estremamente elevato.
All’inizio degli anni 60’ la popolazione era composta da 200 milioni di abitanti, nel
1990 ha raggiunto livelli di 470 milioni e si prevede che nel 2020 raggiunga i 930
milioni di abitanti. Per far fronte a questa esplosione demografica sono state
intensificate le produzioni attraverso lo sfruttamento delle limitate risorse naturali, quali
suoli, acqua e vegetazione naturale.
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In molte zone del WANA è possibile sfruttare le acque superficiali e sotterranee
per intensificare le produzioni agricole grazie all’irrigazione. Nei trascorsi 30 anni i
governi hanno investito moltissimo in lavori su larga scala per catturare ed utilizzare le
acque provenienti dai pochi fiumi perenni. Dal 1991 circa il 35% della superficie
agricola è divenuta irrigua. Questo eccessivo sfruttamento degli acquiferi ha portato
all’impoverimento delle falde, alla salinizzazione delle acque ed all’impoverimento
della fertilità dei suoli.
Nelle zone dove la piovosità è maggiore, 400 mm/anno, i suoli vengono
maggiormente sfruttati ed è più frequente trovare coltivazioni arboree; ma è proprio in
queste aree, in cui i terreni sono più fertili ed hanno un potenziale maggiore, che il
rischio di desertificazione è più elevato. Oltretutto, la stagionalità dovuta alle condizioni
climatiche, comporta due periodi di deficit alimentare, uno invernale, della durata
variabile dai due ai quattro mesi, ed uno più esteso di durata compresa fra i 5 e i 6 mesi.
Questi periodi risultano di difficile gestione da parte degli allevatori e richiedono un
largo utilizzo di alimenti concentrati per supplire alle carenze alimentari.
Le specie del genere Atriplex sono in parte spontanee nella regione e in parte
sono state introdotte per verificare la loro adattabilità all'utilizzo come foraggere (Le
Houérou, 2000). Tra le specie spontanee si possono citare A. halimus subsp. halimus e
subsp. schweinfurthii, A. leucoclada e A. mollis; mentre le specie introdotte più
importanti sono A. nummularia, A canescens. A. lentiformis e A. semibaccata (Le
Houérou, 1992a).
Numerosi studi hanno messo in evidenza che consociando la coltura dell’orzo
con arbusti foraggeri appartenenti al genere Atriplex, la produzione del cereale è
aumentata del 25% (Brandle, 1987); ed inoltre il bestiame può eventualmente pascolare
le stoppie dell’orzo e gli stessi arbusti dell’Atriplex durante la stagione estivo autunnale.
La soluzione che finora ha dato i migliori risultati è rappresentata dalla
possibilità di consociare le colture cerealicole prevalenti della zona, come l’orzo, ad
arbusti foraggeri che, grazie alla capacità di resistenza alla siccità, all’azione
miglioratrice sul suolo svolta dall’apporto di sostanza organica ed alla capacità delle
radici di approfondirsi, hanno portato benefici effetti ambientali e di ripristino della
fertilità dell’ecosistema. Tra i diversi arbusti foraggeri, quelli che hanno dato risposte
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migliori sono stati quelli del genere Atriplex, in particolare Atriplex halimus e Atriplex
nummularia (Arif et al., 1994).
Atriplex halimus L., originaria del Nord Africa è ben adattata a terreni salinoargillosi ed in ambienti caratterizzati da precipitazioni annuali minori di 150 mm (Le
Houérou, 1980a). Se non pascolata, questa specie può raggiungere i 4 m di altezza
(Négre, 1961) e risulta tra le specie più appetibili di Atriplex per il bestiame nelle zone
aride del WANA (Tiedeman e Chouki, 1989).
Atriplex nummularia Lindl. è un arbusto a portamento eretto, perenne, originario
delle zone aride e semiaride dell’Australia. Cresce in ambienti in cui la pluviometria
media annuale è di almeno 180 mm (Thornburg, 1982). E’ in grado di sviluppare un
apparato radicale che si può approfondire nel terreno per più di 3 m e allargare fino a 10
m (Jones, 1970).
Prove condotte in Arabia Saudita hanno evidenziato che, fra le diverse specie di
Atriplex utilizzate, l’Atriplex nummularia produce la più alta quantità di biomassa e
contiene un alto livello di proteine grezze (16%) (Hyder, 1981). Abou El Nasr et al.
(1996), in prove condotte in Egitto, hanno ottenuto livelli di proteina grezza pari al
12,7%, 9,1% e 11,8% rispettivamente per il foraggio, il fieno e l’insilato di Atriplex
nummularia. Inoltre Atriplex nummularia ha mostrato un effetto positivo sul tasso di
accrescimento della lana e del peso corporeo di pecore alimentate in condizioni
controllate.
L’utilizzo di Atriplex nummularia, come foraggio, in ambienti sfavorevoli quali
quelli del WANA, caratterizzati dall’avere precipitazioni basse ed estremamente
variabili, alte temperature e suoli con elevata salinità, ha dato ottimi risultati (Fig. 1 e 2).
Grazie alla sua resistenza e rusticità, questa pianta, ricaccia vigorosamente anche dopo
essere stata recisa e pascolata (Fig. 3).
Attualmente nelle regioni del Nord Africa e dell’Asia Occidentale sono stati
messi a coltura migliaia di ettari ad arbusti foraggeri in combinazione con tecniche di
conservazione dell’acqua (Boulanouar et al., 2000; Nefzaoui et al., 2000a; Redjel e
Buokheloua, 2000). La produzione di sostanza secca varia con la specie e la densità di
impianto. Ad esempio, un campo di Atriplex nummularia avente densità di 1000
piante/ha, in Marocco, a tre anni dall’impianto, ha prodotto 1.250 kg ss/ha, equivalenti a
625 UF e 200 kg di proteina grezza/ha (El Mourid et al., 2001).
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Figura 1. Piantagione recente di Atriplex in Marocco.
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Figura 2. Piantagione di Atriplex in Marocco, al terzo anno d’impianto.
Figura 3. Piantagione di Atriplex in Marocco al quinto anno d’impianto, con evidenti
segni di utilizzazione diretta mediante pascolamento.
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L’alto contenuto in proteine e sali minerali (Tab. 1) hanno reso l’Atriplex
utilizzabile come riserva foraggera nel periodo estivo e durante l’autunno, supplendo
alla carenza di foraggio che si manifesta prima della crescita primaverile delle specie
foraggere erbacee in queste regioni (Kessler, 1990). Varie osservazioni sperimentali
hanno dimostrato che, grazie a questo arbusto, il bestiame può sopportare periodi
prolungati di carenza alimentare dovuti alla siccità (Le Houérou, 1980b).
Tra le altre specie del genere Atriplex utilizzate in modo diffuso nel WANA è
possibile citare A. leucoclada, specie biennale originaria del Medio Oriente, facilmente
propagata in Siria (Sankary, 1986) e in Libia (Le Houérou e El Barghati, 1982); A.
glauca, in suoli argillosi (Le Houérou, 1969); A. mollis, con portamento eretto e adatta a
suoli sabbiosi (Le Houérou, 2000).
Tra le specie introdotte in epoche diverse dobbiamo citare le seguenti: A.
amnicola (A. rhagodioides), A. undulata, A. lampa, A. lentiformis, A. breweri, A.
barclayana, A. canescens, A. isatidea, A. paludosa, A. cinerea, A. polycarpa, A.
repanda, A. nummularia (cv Grootfontein dal Sud Africa), A. inflata e A. halimoides.
Oltre alla già presentata A. nummularia, sembra di particolare interesse l'A.
canescens, in virtù della maggiore resistenza al freddo, sebbene sia meno produttiva
della prima specie (Forti, 1986). Di questa specie, originaria del Nord America, sono
state selezionate anche alcune cultivar ('Wytana', 'Rincon', 'Marana' e 'Santa Rita')
adattabili a diverse situazioni ecologiche.
Altre specie promettenti tra quelle saggiate nelle condizioni ambientali del
WANA sono: A. amnicola, appetibile, ma sensibile al freddo e al sovrapascolamento; A.
undulata, produttiva, appetibile e resistente al freddo; A. lentiformis, tollerante alla
salinità da carbonato di sodio e fortemente autoriseminante; A. semibaccata, specie
biennale che si insedia rapidamente e poi regredisce improvvisamente.
Le esperienze svolte su scala nazionale in Siria hanno coinvolto prevalentemente
le specie Atriplex leucoclada, A. canescens, A. nummularia e A. polycarpa, consentendo
di registrare migliori risultati soprattutto per le specie più resistenti alle basse
temperature, come A. canescens (El Fikiki et al., 2000; Murad, 2000; Rae et al., 2000).
In Giordania le specie più utilizzate sono state Atriplex halimus e A.
nummularia, con una quantità notevole di progetti sviluppati sia da parte di istituzioni
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nazionali, che da parte di organizzazioni internazionali (Mohamed, 2000; Nesheiwat,
2000; Tadros, 2000).
In Marocco le esperienze condotte sono numerose e su superfici piuttosto ampie
(oltre 40.000 ha). Soprattutto Atriplex nummularia è stata utilizzata in questi saggi di
lotta alla desertificazione ed incremento delle risorse foraggere naturali, arrivando
questa sola specie ad interessare oltre il 60% della superficie interessata (Boulanouar et
al., 2000; Fagouri et al., 2000; Tazi et al., 2000a; 2000b). Per questo motivo la specie è
ben conosciuta nei suoi pregi e difetti, sebbene anche A. vesicaria, A. semibaccata, A.
paludosa e A. halimus siano ben note e sperimentate. Le esperienze fin qui maturate in
questo Paese hanno portato, peraltro, a porre numerosi quesiti riguardanti i costi di
impianto, non sempre contenuti perché gli allevatori possano sostenerli per conto
proprio.
Prove sperimentale di una certa estensione sono state svolte in Arabia Saudita
utilizzando su oltre 2.000 ha le specie Atriplex leucoclada (autoctona), A. canescens, A.
lentiformis, A. halimus e A. nummularia (Mirreh et al., 2000).
Negli ambienti più aridi del Pakistan hanno trovato diffusione soprattutto
Atriplex canescens e A. lentiformis (resistenti al freddo), nonché A. nummularia negli
ambienti meno freddi. Numerose sono in questo Paese le iniziative ed i progetti di lotta
alla desertificazione e miglioramento dei pascoli naturali, sia promossi dalle autorità
pubbliche che da diverse Organizzazioni Non Governative (Mirza, 2000; Nawaz, 2000).
L'Iran possiede nella propria flora spontanea circa 20 specie di Atriplex, anche se
la maggior parte di queste sono erbacee (Koocheki, 2000). Di fatto solo Atriplex griffthi,
A. leucoclada e A. verrucifera hanno un portamento arbustivo. Gran parte delle
superfici interessate da piantagioni di arbusti foraggeri, tuttavia, sono state occupate da
specie del genere Atriplex esogene. Tra queste si segnalano A. lentiformis, A. halimus,
A. nummularia e, soprattutto, A. canescens (Rashed, 2000). Quest'ultima specie, infatti,
si è rivelata la più rispondente alle caratteristiche del territorio iraniano, in virtù della
sua resistenza al freddo (Nejad e Koocheki, 2000).
In Turchia viene citata l'importanza di due specie arbustive autoctone: Atriplex
nitens e A. laevis (Tahtacioglou, 2000), mentre l'utilizzo di specie del genere Atriplex in
Algeria ha subito diverse evoluzioni da programmi di tipo statale fortemente estranei
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alla partecipazione degli utilizzatori, verso approcci di tipo partecipativo (Redjel e
Boukheloua, 2000).
La storia dell'impiego di diverse specie di Atriplex, con predominanza di A.
halimus e A. nummularia, in Tunisia è lunga e complessa, comprendendo lo sviluppo di
numerosi programmi governativi e non governativi (Nefzaoui et al., 2000a).
Nei casi in cui l’Atriplex è stata consociata con il sistema di alley cropping con
orzo, avena o medica ha svolto un ruolo importante come frangivento, per la protezione
del suolo e per la creazione di un microclima favorevole, consentendo alle altre specie
foraggere, di incrementare la propria produttività (El Mzouri et al., 2000).
Recenti ricerche hanno dimostrato che l’integrazione dell’alimentazione del
bestiame con arbusti foraggeri e cladodi di Fico d’India fornisce ottimi risultati. Infatti
l’Atriplex ha un alto contenuto in azoto e fornisce bassi apporti di energia, mentre
l’Opuntia ha un elevato contenuto energetico e di acqua. L’Atriplex costituisce un
ottimo supplemento alla paglia, Opuntia incrementa l’ingestione di paglia, entrambe le
specie rappresentano una buona fonte proteica e possono sostituire la soia nella dieta
degli animali, consentendo una diminuzione dei costi di allevamento (Nefzaoui, 2000).
La combinazione di queste due risorse di foraggio è certamente una via
percorribile per soddisfare il fabbisogno alimentare del bestiame e per alleviare la
pressione sulle terre pascolabili e per prevenire il sovrapascolamento e la
desertificazione (Fig. 4).
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Tabella 1. Composizione chimica (% della sostanza secca) di tre regimi alimentari
contenenti Atriplex. (Adattata da: Abou El Nasr et al., 1996)
Sostanza secca
Proteina grezza
Estrattivi inazotati
Lipidi grezzi
Ceneri
Fibra da detergente neutro
Fibra da detergente
Emicellulosa
Cellulosa
FS
38,6
12,7
28,7
3,4
24,9
59,4
36,8
22,6
27,5
SH
87,2
9,1
29,3
2,2
26,5
63,8
39,2
24,6
28,3
FS: Atriplex fresco; SH: fieno di Atriplex; SS: insilato di Atriplex.
Figura 4. Pecore che si alimentano con Atriplex nummularia.
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SS
33,1
11,8
20,4
4,0
22,5
60,1
38,4
21,7
29,9
2.1.2. America del Sud
Nella IV Regione del Cile esistono vasti territori in cui si pratica esclusivamente
l’allevamento di ovini e caprini, in queste zone la copertura vegetale arborea ed
arbustiva è in parte scomparsa e il territorio mostra evidenti segni di un processo di
desertificazione.
Quando non perturbato, il paesaggio della IV Regione - Coquimbo, è dominato
dalla presenza di formazioni arbustive, note col nome di “matorral”, associate a specie
succulente (Cactaceae e Bromeliaceae), la cui densità dipende dalla esposizione.
In questo ambiente arido, l’eccessiva estensione delle frontiere agricole e delle
attività di allevamento hanno determinato conseguenze disastrose, in particolare in
territori in cui le strutture sociali ed economiche sono precarie. Allo stesso modo, la
coltivazione di terreni non idonei, il sovrapascolamento e lo sfruttamento eccessivo di
specie legnose hanno portato al degrado di vasti territori, il cui denominatore comune è
rappresentato da forti processi erosivi e paesaggi spogli, unitamente alla presenza di
popolazioni che vivono in condizioni di estrema povertà (Caldentey e Pizarro, 1980).
L’allevamento del bestiame rimane, comunque, la principale fonte di reddito.
Ciò nonostante la sostenibilità del sistema è molto precaria sia a causa delle
precipitazioni incerte per quantità e distribuzione, che della mancanza di una costante
copertura vegetale, poiché la disponibilità foraggera è garantita in prevalenza da specie
erbacee annuali.
In seguito al profilarsi di uno scenario così critico per il Cile, dal 1960,
istituzioni come la Corporacion de Fomento de la Producion (CORFO), la Universidad
de Chile, il Servicio Agricola y Ganadero (SAG) e più tardi l’Istituto Nacional di
Investigaciones Agropecuarias (INIA), si adoperarono per la ricerca di specie
promettenti, in grado di aumentare la disponibilità foraggera di zone aride legate a forti
processi di desertificazione. Di fatto si iniziarono ad intravedere alcune alternative
valide attraverso l’uso di specie arbustive locali e provenienti da altri areali. Tra tutte, le
più valide risultarono Atriplex nummularia, A. repanda, A. semibaccata, Kochia
brevifolia, Acacia saligna e Galenia secunda.
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A partire dagli anni ’70 la Corporacion de Fomento de la Producion iniziò i
primi impianti estensivi con arbusti foraggeri. Oggi, nella Regione di Coquimbo (IV
Regione del Cile), sono presenti più di 48.000 ha riforestati con arbusti foraggeri, per la
maggior parte dei quali (più del 90%) è stata utilizzata Atriplex nummularia ed in minor
misura A. repanda (Lailhacar, 2000).
Si può affermare che A. nummularia sia attualmente la specie più importante per
i progetti di riforestazione e lotta contro la desertificazione nella IV Regione arida del
Cile. Le caratteristiche di pregio sono: buoni rendimenti in foraggio; elevata resistenza a
condizioni di elevata aridità; alta resistenza al pascolamento con rapido ricaccio; alta
resistenza alle malattie e facile propagazione. La legna mostra inoltre un alto potere
calorifico.
Le prove sono state condotte in diversi Distretti agroclimatici della IV Regione Coquimbo del Cile (Tab. 2). Nelle seguenti tabelle sono riportati il posizionamento
geografico dei quattro settori, della regione di Coquimbo, interessati all’impianto di
Atriplex nummularia ed i rispettivi valori delle variabili climatiche.
In queste condizioni agroclimatiche (Tab. 3) la coltivazione di arbusti foraggeri
deve essere intesa come un complemento all’alimentazione del bestiame. Infatti la base
dell’alimentazione degli animali da allevamento, in zone aride, è rappresentata dal
pascolo naturale. Quando la disponibilità foraggera, da parte delle piante erbacee
annuali, diminuisce per mancanza di pioggia stagionale o per siccità, gli arbusti
foraggieri costituiscono un valido apporto all’alimentazione nei momenti difficili.
Il pascolo naturale di erbacee annuali attraversa normalmente due periodi
difficili: nello stadio iniziale di accrescimento, quando la disponibilità è molto bassa e al
termine del ciclo fisiologico, durante la fioritura e la fruttificazione, quando si produce
la risemina che garantisce la sopravvivenza successiva della copertura vegetale (Soto,
1996). La presenza di impianti di arbusti foraggeri consente di lasciare a riposo il
pascolo naturale durante i periodi critici e di assicurare al bestiame un foraggio di
mantenimento.
Pertanto, la funzione degli arbusti foraggeri non è legata all’incremento della
produzione di latte, di carne o di lana, durante la stagione produttiva, ruolo svolto delle
specie erbacee, bensì al fornire foraggio verde, ricco di proteine, durante la stagione
secca, in modo da limitare il deficit alimentare ed il decremento di peso degli animali.
19
Tabella 2. Descrizione del distretto agroclimatico di Coquimbo (Chile). (Adattata da
Soto, 1996).
Settore
Nord - costa (NC)
Nord – interno (NI)
Sud – costa (SC)
Sud – interno (SC)
Distretto agroclimatico
II: La Serena – Talinay
XVII: Ovalle
III: Amolanas – Los Vilos
XIII: Illapel
Tabella 3. Andamenti termopluviometrici medi annui nella regione di Coquimbo
(Chile). (Adattata da: Caldentey, 1987).
Variabili
Unita di
misura
Valori annuali
NI
SC
NC
Tm
RS
Lu
Gg
UR
pp
ETP
d
Iu
°C
Lux/giorno
ore
Gradi giorno
%
mm
mm
mm
---
13.8
343
3091
1401
85
113.0
821.8
708.8
0.14
15.2
432
4848
1904
61
143.9
1443.7
1299.8
0.10
14.1
362
4051
1472
82
201.1
912.7
725.5
0.22
15.0
394
4418
1865
68
243.7
1202.5
980.7
0.20
Periodo libero da gelate
T. max del mese più caldo
T. min. del mese più freddo
Ora di freddo anno
Somma di temp. Sett-feb
Somma di radiaz. Sett-feb.
Giorni
°C
°C
Ore
Gradi giorno
kcal/m2
365
19.9
8.4
104
875
81
320
28
5.5
455
1307
101
345
24.1
7.0
232
926
86
320
27.2
4.6
780
1274
93
SI
Tm = temperatura media; RS = radiazione solare; Lu = luminosità; Gg = gradi giorno; UR = umidità relativa; pp =
precipitazione media anno; ETP = evapotraspirazione potenziale; d = deficit idrico; Iu = indice di umidità.
NC = Nord Costa; NI = Nord Interno; SC = Sud Costa; SI = Sud Interno.
20
Numerose ricerche sono state condotte su Atriplex repanda per migliorare la
germinabilità del seme, che in questa specie è alquanto bassa (Lailhacar, 2000). Per
questo motivo la semina diretta di A. repanda non ha dato buoni risultati, mentre per A.
semibaccata questi sono stati più interessanti.
Anche la possibilità di propagare la specie agamicamente non è stata trascurata
(Peña, 1979).
Nella zona Sud della IV Regione del Cile, con precipitazioni da 100 a 220
mm/anno, impianti di A. nummularia hanno fatto registrare produzioni che variano da
50 a 900 kg di s.s./ha/anno, in funzione della età, del tipo di coltivazione e della densità
di impianto. Sono stati osservati rendimenti medi di 1.806 g/pianta con una
pluviometria media annua di 143 mm.
La densità di impianto influisce direttamente sulla produttività. Variando la
densità di impianto da 625 a 10.000 piante/ha A. nummularia mostra rendimenti sempre
crescenti, ma la produzione di foglie comincia a diminuire con impianti superiori a
2.500 piante/ha.
In condizioni ambientali medie per la IV Regione di Coquimbo, con una densità
ottimale di 1.600 piante/ha, si possono ottenere produzioni di circa 1.000-1.500 kg di
ss/ha/anno. Per ottenere questi valori è necessario evitare il sovrapascolamento, gli
arbusti foraggeri devono essere utilizzati dal periodo estivo (novembre-gennaio) fino
all’inizio delle piogge invernali, in modo da permettere il ricaccio della vegetazione. Il
periodo di attività vegetativa combinato con la sospensione dell’utilizzazione dell’A.
nummularia varia da 4 a 7 mesi.
Altri dati, relativi ad una piantagione di 42 mesi d'età di A. repanda riportano
una produttività variabile tra 1.000 e 5.000 kg di ss/ha/anno quando la densità di
piantagione va da 700 a 18.500 piante.
Il primo pascolamento deve realizzarsi non prima dei 18 mesi successivi
all’impianto. E’ risultato opportuno effettuare, ogni 4-5 anni, una potatura a 25 cm
d’altezza dal suolo, per favorire il rinnovo della vegetazione ed impedire, in particolare
per A. nummularia, un eccessivo sviluppo in altezza. Inoltre, la crescita in altezza
favorisce la produzione di tessuto legnoso a discapito della produzione di foglie e la
pianta assume un aspetto senescente.
21
Il prodotto della potatura rappresenta una risorsa energetica notevole. Infatti il
potere calorifico della legna prodotta da A. nummularia è di circa 4.538,3 kcal/kg
(Garcia, 1993). Anche dal punto di vista quantitativo la produzione di legna da ardere
può essere considerevole (Rivera, 1996).
Numerose ricerche hanno preso in considerazione il valore nutrizionale delle
diverse specie di Atriplex utilizzate (Silva e Pereira, 1976), con particolare attenzione
alla composizione degli amminoacidi, che appare ben bilanciata con esclusione della
metionina (Padilla, 1986).
Le osservazioni sull'appetibilità delle specie hanno messo in evidenza il valore
da questo punto di vista di A. repanda, A. undulata e A. clivicola (Lailhacar, 2000),
mentre è stato ampiamente dimostrato che l'impiego di questi arbusti ha reso molto più
produttive le superfici in cui erano presenti solo le erbe spontanee (Concha, 1975;
Olivares e Gastò, 1981).
La gestione di questi arbusti foraggeri implica la sospensione del pascolamento
dopo l'utilizzo e la potatura a 25-50 cm dal suolo quando le piante tendono a invecchiare
spostando verso l'alto la vegetazione (Pagliaricci et al., 1984; Olivares et al., 1986;
1989). Numerose osservazioni hanno dimostrato come da questo punto di vista A
nummularia, sia sostanzialmente più gestibile rispetto ad A. repanda (Garcia, 1993;
Soto, 1995).
Un ulteriore utilizzo di Atriplex nummularia, sperimentato con successo, è
rappresentato dal suo uso foraggero in associazione all’Opuntia ficus-indica. Infatti, nel
caso di allevamenti caprini, integrando la dieta con cladodi in fase giovanile di Fico
d’India, nell’ultimo periodo della lattazione, si è visto che la produzione di latte subisce
un incremento notevole (Azocar e Rojo, 1992). Le spiegazioni di questo possono
ricercarsi nell’alto contenuto di acqua, presente nei tessuti dell’Opuntia, che, tra gli
altri, ha l’effetto di neutralizzare i sali accumulati nelle foglie dell’Atriplex.
I risultati ottenuti in seguito all’utilizzo di Atriplex nummularia nella IV Regione
del Cile sono molto incoraggianti, tanto è vero che le superfici destinate all’impianto di
questo arbusto foraggero sono in aumento (Soto, 1996).
22
2.2. Opuntia
2.2.1. West Asia e Nord Africa (WANA)
Il WANA (West Asia and North Africa), è una regione geografica che, in parte,
si affaccia sul bacino del Mediterraneo e si estende dal Nord Africa all’Asia
Occidentale, Afghanistan e Pakistan.
La situazione economica e sociale che caratterizza questa regione è molto
complessa e problematica. Il WANA è caratterizzato, infatti, da una serie di
problematiche principalmente rappresentate dall’elevato tasso di crescita della
popolazione, dalla limitata disponibilità di risorse naturali (terra coltivabile, acqua),
dalla piovosità ridotta e incostante, dall’aumento dell’urbanizzazione, dalla crescente
domanda di alimenti da parte degli abitanti e dall’incremento del numero di capi di
bestiame allevati. Tutto questo va ad inserirsi in un contesto in cui le terre fertili sono
insufficienti, con conseguenze devastanti quali sovrapascolamento, erosione del suolo e
desertificazione.
Nelle zone semi aride ed aride del WANA la piovosità invernale media annua è
di 200-350 mm e la produzione di carne, latte, pelli e lana da parte dei piccoli ruminanti,
pecore e capre, rappresenta la principale attività economica. Nella regione, escludendo
l’Iraq, negli ultimi venti anni la popolazione totale di pecore e capre ha avuto un
incremento del 25% circa, passando da 62 milioni ad oltre 80 milioni di capi (El Mourid
et al., 2001).
Il numero crescente dei capi di bestiame e le moderne tecniche di alimentazione,
basate sull’impiego dei mangimi concentrati, hanno causato l’abbandono, da parte degli
allevatori, del nomadismo. Di conseguenza, il sovrapascolamento, l’asportazione della
vegetazione a causa dell’aratura e la deforestazione hanno favorito l’erosione ed il
deterioramento dei suoli. I terreni così impoveriti non sono più in grado di soddisfare le
esigenze alimentari degli animali (Nefazaoui e Ben Salem, 1998). In molti Paesi il
contributo dei pascoli naturali alla dieta del bestiame, sul totale della razione alimentare,
è diminuito passando dal 70% nel 1950, al 10-25% nel 2001 (El Mourid et al., 2001).
23
Inappropriate politiche riguardanti l’uso dei suoli e l’assenza di normative per la
salvaguardia delle terre coltivabili hanno esacerbato il problema. Così, in molti Paesi
della Regione, le tradizionali istituzioni che regolavano l’uso dei pascoli, sono state
sostituite da moderni sistemi che permettono il libero accesso alle terre pascolabili e non
prevedono limiti né di estensione di superficie utilizzabile, né tanto meno, di carico di
bestiame ammissibile.
Ultimamente, in molti paesi del WANA, si è verificato un vertiginoso
incremento delle superfici coltivate ad orzo. L’orzo è ormai divenuto l’alimento
principale del bestiame, ma la sua introduzione ha portato alla coltivazione anche delle
terre marginali, fino a quel momento inutilizzate, ed alla pratica colturale della
monosuccessione.
Per far fronte alla disastrosa situazione di degrado e sovrasfruttamento dei suoli
agrari, negli ultimi anni, sono state formulate diverse ipotesi di azione volte a
migliorare la produttività degli ordinamenti colturali.
In particolare, sono state proposte tecnologie e strategie di gestione volte a
sviluppare e migliorare le produzioni foraggere. Ci si è basati sulla integrazione tra le
tecniche di gestione già acquisite e moderne metodologie, più razionali, le quali
prevedono l’introduzione di nuove colture e nuove tecniche di allevamento (Tab. 4).
A partire dal 1996 varie istituzioni, quali IFAD, AFESD e IDRC con l’assistenza
tecnica dell’ICARDA e IFPRI hanno messo a punto un progetto, dal nome “The
Development of Integrate Crop/Livestock in the Low Rainfall Areas of West Asia and
North Africa” che coinvolge otto Paesi: Algeria, Libia, Marocco, Tunisia appartenenti
al Maghreb; Iraq, Giordania, Libano, Siria, appartenenti al Mashreq. Con la
realizzazione del progetto Maghreb/Mashreq è evidente la volontà dei Paesi che vi
aderiscono di far fronte ad una situazione critica (El Mourid et al., 2001).
Nel progetto sono state prese in considerazione, tra le altre, due diverse strategie:
quella dell’uso di cactacee e quella dell’impianto di arbusti foraggeri che, per le loro
caratteristiche, si mostrano particolarmente adatte a combattere la desertificazione; ed
inoltre rappresentano una fonte alternativa di foraggio per il bestiame, che viene
allevato sempre più numeroso nelle regioni del WANA.
24
Tabella 4. Calendario comune di alimentazione dei piccoli ruminanti nella regione del
WANA. (Adattato da Nefzaoui e Ben Salem, 2002).
Periodo
MaggioLuglio
AgostoSettembre
Stadio
fisiologico
Accoppiamentiinizio gravidanza
Zona
Suoli agricoli
Tipo di alimento
Integrazione
Stoppie di
cereali
Stoppie di
cereali, paglia
Crusca, orzo,
Opuntia
Crusca, orzo,
Opuntia, arbusti
Orzo, crusca di
grano,
sottoprodotti
olivicoli
Gravidanza
Suoli agricoli
OttobreGennaio
Fine gravidanzainizio lattazione
Pascoli, suoli
coltivati
Maggese, fieno,
pascolo naturale
FebbraioAprile
Svezzamentoingrasso
Pascoli, suoli
coltivati
Pascolo naturale,
maggese, orzo in
accrescimento,
paglia
25
Rametti e foglie
di olivo, orzo,
crusca
L’Opuntia è bene adattata a sopravvivere negli ambienti difficili delle zone aride
e, specialmente quando associata a tecniche di aridocoltura, rappresenta una valida
alternativa per gli allevatori, che la sfruttano come foraggio per gli animali nei periodi
critici. Inoltre ha un ruolo importante nel salvaguardare le risorse naturali, controllando
l’erosione dei suoli, in particolare quando viene impiantata lungo i versanti collinari
(Fig. 5 e 6).
Nelle vaste aree della fascia pre-desertica a vegetazione naturale della Tunisia ed
Algeria, l’inversione del trend relativo al processo di desertificazione ed il ripristino
della copertura vegetale sono stati perseguiti attraverso un approccio integrato,
rappresentato dalla coltivazione dell’Opuntia in combinazione con l’adozione di
tecniche di raccolta dell’acqua e con la sistemazione ad onde (Griffiths, 1933; Le
Houérou, 2000). Le onde sagomate nel suolo seguono approssimativamente
l’andamento delle curve di livello e, nel loro lato interno, vengono disposti due filari di
Opuntia (Nefzaoui e Ben Salem, 2000).
L’Opuntia è una specie con apparato radicale profondo e notevolmente espanso,
in grado di esercitare una efficace azione antierosiva stabilizzando le superfici in
pendenza.
Al fine di esercitare una efficace azione di contrasto dell’erosione eolica e del
fenomeno del movimento delle dune di sabbia, la coltivazione dell’Opuntia è spesso
accompagnata alla copertura del terreno con foglie di palma recise (IFAD, 2000a;
2000b).
Attualmente nel WANA la superficie complessiva coltivata ad Opuntia, è di
circa 900.000 ha (Nefzaoui e Ben Salem, 1998).
L’uso dell’Opuntia, come pianta foraggera, è noto fin dai tempi antichi nei Paesi
del Mahgreb (Tunisia, Algeria, Marocco) (Monjauze e Le Houerou, 1965; Boulanouar
et al., 2000; Nefzaoui et al., 2000a; Redjel e Boukheloua, 2000), mentre il suo utilizzo
non è comune nei Paesi del Mashreq.
Gli scambi di informazioni e di esperienze tra le due Regioni, hanno fatto in
modo che in Giordania ed in Siria, l’uso dell’Opuntia avesse inizio dal 1999. In Libia
l’uso di Opuntia ha avuto un impulso molto forte ed attualmente la superficie occupata
da questa coltivazione è molto vasta. Anche in Pakistan, recentemente l'Opuntia è stata
introdotta con successo nelle zone più aride (Mirza, 2000).
26
Figura 5. Piantagione di Opuntia ficus-indica al primo anno dall’impianto
27
Figura 6. Piantagione di Opuntia ficus-indica dopo alcuni anni dell’impianto.
28
Inizialmente l’Opuntia veniva impiantata principalmente su terreni comunali,
mentre attualmente, questa coltivazione si sta diffondendo velocemente anche in
aziende zootecniche private, dove si trova spesso consociata ad altre specie foraggere.
L’Opuntia, estremamente adattata a vivere in ambienti aridi, ha la capacità di
produrre elevate quantità di biomassa vegetale anche in condizioni estreme (Fig. 7).
Con piovosità compresa tra 150 e 400 mm/anno, in assenza di concimazione,
l’Opuntia ficus-indica var. inermis può arrivare a produrre, rispettivamente, dalle 20
alle 100 t di cladodi/ha/anno (Monjauze e Le Houerou, 1965).
Il valore nutritivo dell’Opuntia varia in funzione della specie e varietà che si
considera, è influenzato dall’età dei cladodi, dall’andamento termo-pluviometrico
dell’annata e da numerosi fattori agronomici quali il tipo di suolo e condizioni di
crescita e sviluppo della pianta.
I cladodi di Opuntia ssp. presentano un elevato contenuto in acqua (90%), ceneri
(20% ss), Ca (1,4% ss), carboidrati solubili e vitamina A; mentre hanno un basso
contenuto in proteina grezza (4% ss), fibra grezza (10% ss) e fosforo (0,2% ss)
(Nefzaoui et al., 1995).
Numerose ricerche (Gonzales, 1989) hanno dimostrato che l’uso di concimi
azotati e fosfatici incrementa il contenuto di proteine grezze in cladodi di Opuntia, che
passa dal 4,5% al 10,5% della ss. Si rende necessario evidenziare tuttavia che, nelle
zone aride del WANA, la piovosità media e le scarse risorse economiche non
consentono normalmente la fertilizzazione dei suoli.
Il contenuto di sostanze nutritive varia al variare dell’età dei cladodi. La
percentuale di proteina grezza diminuisce (dal 5 al 3% di ss) mentre il contenuto di fibre
aumenta (dal 9 al 20 % di ss), quando i cladodi passano da 1 a 5 anni di età (Nefzaoui e
Ben Salem, 2000).
In generale si può affermare che l’Opuntia ha un’elevata appetibilità. Monjauze
e Le Houerou (1965), hanno osservato che pecore alimentate con cladodi di Opuntia,
potevano arrivare ad ingerire fino a 9 kg/giorno di questo foraggio.
Inoltre, è stato dimostrato che l’assunzione di Opuntia porta ad un incremento
nell’ingestione di paglia, effetto molto positivo, considerando il fatto che, nelle zone
aride del WANA, la paglia rappresenta la principale fonte di nutrimento per il bestiame
(Ben Salem et al., 1996).
29
Questo effetto positivo (Tab. 5) può essere spiegato ipotizzando che l’ingestione
di Opuntia migliori le condizioni di fermentazione del rumine. L’ingestione di Opuntia
incrementa di circa 2,5 volte la richiesta, da parte del bestiame, di fibre facilmente
fermentescibili. Inoltre, animali che hanno ricevuto una razione alimentare contenente,
oltre alla paglia, più di 500 g di Opuntia non mostrano problemi di digestione (Nefzaoui
e Ben Salem, 1998).
L’Opuntia può essere utile nella soluzione del problema dell’abbeveraggio del
bestiame nelle zone aride del WANA. In queste condizioni, infatti, l’acqua rappresenta
un bene prezioso la cui mancanza, nei periodi estivi o asciutti, può arrivare a
compromettere seriamente l’allevamento degli animali.
Oltre al dispendio di energia dovuto alla ricerca dell’acqua da parte del bestiame,
il danno maggiore è rappresentato dalla degradazione delle aree circostanti i punti
d’acqua, seriamente compromesse dal continuo calpestio.
In queste condizioni, l’elevato contenuto di acqua presente nei tessuti
dell’Opuntia, rappresenta una valida fonte di liquidi per gli animali. In pecore
alimentate con una dieta che contiene circa 300 g di ss di Opuntia, l’assunzione di
acqua da parte degli animali è pressoché nulla.
30
Tabella 5. Livello di ingestione di paglia e Opuntia. (Adattata da Nefzaoui e Ben Salem,
1998)
0
Ingestione di paglia
(g/giorno)
Livello di Fico d'India inerme (g di ss/giorno)
150
300
450
600
550
547
523
643
716
Figura 7. Piantagione di Opuntia ficus-indica dopo alcuni anni dell’impianto
31
2.2.2. Continente Americano
La famiglia delle Cactaceae contiene circa 130 generi e 1500 specie, 300 delle
quali appartengono al genere Opuntia Mill. Sono caratterizzate dall’avere un
metabolismo fotosintetico di tipo CAM (Crassulacean Acid Metabolism). Avendo una
elevata efficienza nell’uso dell’acqua, sono utilizzate con successo in zone a clima arido
o semiarido.
Il genere Opuntia comprende numerose specie che producono frutti nutrienti e
germogli commestibili usati nell’alimentazione umana allo stato fresco (molto diffusi in
America Latina) (Pimenta-Barrios, 1994). Inoltre, trovano utilizzo come piante
foraggere.
La specie commercialmente più diffusa in Argentina, Cile, Messico e Brasile è
l’Opuntia ficus-indica (L.) Mill., molto usata anche in altri Paesi quali Italia, Grecia,
Algeria e Sud-Ovest degli Stati Uniti (Russel e Felker, 1987).
La propagazione avviene principalmente per via agamica, attraverso germogli,
frutti e cladodi di uno o più anni. La riproduzione può avvenire anche per seme, ma in
questo caso si possono verificare tre problemi fondamentali: segregazione genetica, una
lunga fase giovanile e un lento accrescimento delle giovani piantine. La fruttificazione
nelle piante agamicamente propagate inizia al secondo-terzo anno dall’impianto, mentre
la piena produzione viene raggiunta al settimo anno. Normalmente, con una densità di
impianto di 2.000 piante/ha si possono ottenere 30 t di frutti di ottima qualità, dal quarto
anno di impianto (Yasseen et al., 1996), mentre in Messico la produttività è più bassa a
causa del pH elevato dei suoli (Barbera, 1987a).
Le piantagioni di Opuntia vengono spesso situate lungo i versanti siccitosi delle
colline così da evitare problemi di formazione di muffe o marciumi nei casi di piogge
abbondanti o nel caso in cui il terreno sia pesante ed argilloso. I sesti di impianto più
comunemente usati variano da 5 a 6 m sulla fila e da 5 a 14 m tra le file (Yassen et al.,
1996).
I frutti non commestibili, prodotti da alcune specie di Opuntia, vengono chiamati
xoconoxteles, mentre i frutti dolci e commestibili, prodotti da altre specie, prendono
32
comunemente il nome spagnolo di tuna. Il frutto dell'Opuntia (Tab. 6) è
tradizionalmente usato dai Messicani e dagli Indiani del Nuovo Messico, Arizona,
California e Utah (Bailey, 1976). Possono essere consumati allo stato fresco, spesso
bolliti in acqua o seccati per la loro conservazione ed il consumo invernale. Dalla polpa
del frutto è possibile ottenere numerosi sottoprodotti. In Messico è tradizionale, ad
esempio, la produzione del 'queso de tuna' (mostarda), del 'colonche' (bevanda alcolica),
della 'melcocha' (marmellata), del 'miel de tuna' (sciroppo) e di 'tunas pasas' (frutti
secchi) (Pimenta Barrios, 1990; Barbera, 1991a; 1991b). Oltre ai frutti vengono
utilizzati, come parti commestibili, anche i giovani cladodi di 10-15 cm di lunghezza,
sia come legume che come ingrediente per la realizzazione di altri preparati alimentari.
La produzione foraggera delle regioni a clima tropicale e sub tropicale
dell’America Latina, dove la piovosità annua spesso scende al di sotto dei 200 mm,
normalmente concentrati in brevi periodi, e la temperatura media annua è piuttosto
elevata, non può essere assicurata dalla coltivazione delle comuni piante da foraggio,
anche se aridoresistenti, quali sorgo ed altre graminacee annuali. In tutta questa vasta
area, la fonte principale per l’alimentazione del bestiame è rappresentata in prevalenza
dalla vegetazione spontanea, che si sviluppa nei periodi di maggiore disponibilità idrica.
A causa di ciò gli animali, per gran parte dell’anno, sono costretti a vivere in condizioni
di sotto-alimentazione e di conseguenza le produzioni che essi forniscono non possono
essere che modeste. Inoltre, in questi ambienti, non è pensabile un’alimentazione basata
sul largo uso di foraggi concentrati, pratica che risulterebbe eccessivamente onerosa
(Crosta e Vecchio, 1979).
L'uso delle cactacee, nell’alimentazione umana ed animale, è una pratica molto
antica. Come piante foraggere si diffusero in varie parti del mondo, in particolare in
Messico, Brasile, Italia, Tunisia, Africa del Sud, Madagascar e parte del Sud degli Stati
Uniti (Monjauze e Le Houérou, 1965).
Molte Opuntia rappresentano una valida fonte alternativa di foraggio, in
particolare durante i periodi siccitosi quando le altre specie foraggere sono scarse. Il
bestiame allevato nel Sud Est degli Stati Uniti ed in Messico viene alimentato
utilizzando le branche recise o frutti di molte tra le specie indigene.
33
Tabella 6. Composizione chimica del frutto di Opuntia ficus indica.
(Adattata da: Pimienta-Barrios 1990).
Composto chimico
Quantità
Acqua
Solidi solubili totali (%)
Zuccheri totali
Zuccheri riduttori
Proteine
pH
Grassi
Fibra
Acidità titolabile (% ac. citrico)
Acido ascorbico (vitamina C, mg/100g)
Viscosità (30°)
Triptofano
Calcio
Magnesio
Fosforo
Ferro
Vitamina A
Tiamina
Riboflavina
Niacina
Acido nicotinico
85-90%
12-17%
10-17%
4-14%
1,4-1,6%
5,3-7,1%
0,5%
2,4/100g
0,01-0,12
4,6-41
1,37 cps
8,0 mg/100 g proteina
49 ppm
13-15 mg/100 g
38 ppm
2,6 ppm
0,002 ppm
0,0002 ppm
0,02 ppm
0,20 ppm
0,40-0,60 mg/100 g
34
In Texas ed in Messico viene comunemente usata l’Opuntia lindheimeri per
l’alimentazione del bestiame nei periodi di emergenza. Durante la stagione secca,
quando l’erba è stata pascolata o inizia la senescenza, queste piante rimangono
succulente e verdi (Russel e Felker, 1987).
Per consentire l’uso dei cladodi da parte del bestiame, le spine, eventualmente
presenti, vengono eliminate con torce alimentate da benzina, attraverso un’azione
diretta del fuoco sulla superficie delle piante. Le spine bruciano facilmente,
specialmente se sono numerose o chiuse. Esistono altri metodi per eliminare le spine,
quali, l’immersione in acqua, l’utilizzo del vapore, od il lavaggio con soda. Le specie
spinose, sono caratterizzate da un valore nutritivo maggiore rispetto alle specie inermi
(Yassen et al., 1996).
Nel Nord Est del Brasile gli allevatori preferiscono che gli animali pascolino
direttamente il Fico d’india, in quanto considerano questa forma di utilizzazione più
conveniente rispetto all’utilizzazione dell’alimento in stalla che comporta la raccolta
delle branche ed il loro taglio in porzioni di ridotta dimensione. Vi è comunque da
osservare che i danni arrecati dal pascolamento diretto, nel lungo periodo, comportano
un danneggiamento dei cladodi e la diminuzione della longevità della pianta, risultando
nel complesso più onerosi rispetto alla distribuzione in stalla (Santana, 1992).
Anche se il valore nutritivo dell’Opuntia non è molto elevato, in particolare in
termini di percentuale di proteina contenuta, è una coltivazione strettamente necessaria
in ambienti aridi e semi-aridi, poiché in alcuni periodi dell’anno risulta essere il solo
alimento disponibile per il bestiame.
Le cactacee foraggere sono ricche in carboidrati digeribili, lipidi e vitamine,
inoltre sono un alimento succulento e contribuiscono in gran parte alla necessità di
acqua degli animali, al punto da mantenerli per diverso tempo senza altre fonti di liquidi
(Monjauze e Le Houérou, 1965; Russel e Felker, 1987). L’eccessiva presenza di acqua,
se da un lato ha un benefico effetto, dall’altra, in animali alimentati prevalentemente
con Opuntia, può provocare ripetute diarree, che compromettono la digeribilità
dell’alimento e riducono la sua caratteristiche nutrizionali. Nei casi in cui il Fico d’India
è l’alimento principale della dieta del bestiame, si è osservata una perdita di peso negli
animali, dovuta alla evidente deficienza nutrizionale, probabilmente dovuta
all’inadeguato rapporto proteina/energia (Santana, 1992).
35
Per questo motivo è consigliabile integrare la dieta degli animali con la
somministrazione di concentrati od insilati caratterizzati da un elevato contenuto
proteico, bilanciando così il rapporto proteina/energia.
36
3. Appendice scientifica
3.1. Genere Atriplex
I. Origine e diffusione
Il genere Atriplex è il più grande e diversificato della famiglia delle
Chenopodiaceae, ad esso appartengono circa 200 specie distribuite nelle zone temperate
e sub tropicali, persino nella zona polare sono presenti esemplari di questo genere,
benché in numero molto ridotto. Generalmente è associato a suoli salini o alcalini e ad
ambienti aridi, desertici o semi desertici (Rosas, 1989; Par-Smith, 1982).
Comprende soprattutto piante erbacee perenni e, sebbene più rari, anche alberi e
arbusti. Le specie appartenenti a questa famiglia sono alofite. Sono, quindi, in grado di
vivere su suoli contenenti una percentuale elevata di sali inorganici. Spesso si tratta di
componenti dominanti degli acquitrini salmastri e, poiché i suoli salini sono tipici degli
ambienti aridi, molte specie presentano anche adattamenti xerofitici.
Le Chenopodiaceae sono ampiamente distribuite in habitat salini temperati e
subtropicali, particolarmente nelle regioni litoranee del Mar Mediterraneo, del Mar
Caspio e del Mar Rosso, nelle aride steppe dell’Asia centrale e orientale, ai margini del
deserto del Sahara, nelle praterie alcaline degli Stati Uniti, nel Karoo in Africa
meridionale, in Australia, e nelle Pampas argentine. Crescono anche come erbacee nei
suoli ricchi di sale delle zone abitate, specialmente in presenza di acque di scolo e in
terreni dissestati.
II. Tassonomia, botanica e fisiologia
Morfologicamente le Chenopodiaceae sono caratterizzate dal possedere radici
profonde e penetranti, atte ad assorbire la maggior quantità d’acqua possibile, e le foglie
alternate, piccole a trama farinosa o coperte di peluria, lobate, talvolta spinose,
conformate in modo tale da ridurre la perdita d’acqua dovuta alla traspirazione.
37
Alcuni generi hanno steli polposi, a brevi segmenti internodali e privi
completamente di foglie, che conferiscono alle piante un singolare aspetto simile a
quello di un cactus. I fiori, poco appariscenti e raggruppati in infiorescenze a spiga o
cimosa, sono piccoli, ermafroditi o unisessuali e sono impollinati dal vento. I petali e i
sepali, molto simili gli uni agli altri, di solito sono costituiti da cinque, tre o due lobi di
colore marrone o verdastro. Generalmente le antere, in numero uguale o di poco
inferiore a quello dei segmenti del perianzio, sono disposte in cima all’ovario o su un
disco. L’ovario é costituito da una sola loggia, tre carpelli e due stimmi, produce un
unico ovulo che alla fine matura in un achenio (Rosas, 1989).
Alla famiglia appartengono circa cento generi che possono essere divisi, in base
alla forma dell’embrione, in due tribù:
- Spirolobae, presentano l’embrione attorcigliato a spirale e l’endosperma si trova
diviso in due parti dall’embrione;
- Cyclobae, presentano l’embrione a forma di ferro di cavallo o semicircolare che
include in parte o completamente l’endosperma.
In quest’ultima tribù si colloca il genere Atriplex (Rosas, 1989). Il genere conta
più di quattrocento specie distribuite nelle diverse regioni aride e semi-aride del mondo,
in modo particolare é diffuso in Australia dove é possibile individuare una grande
diversità di specie e sub-specie.
Il fiore, la cui morfologia è spesso utile al fine del riconoscimento, è avvolto da
due bratteole generalmente di consistenza fogliacea, che permettono di distinguere le
specie a seconda della loro forma e se si presentano oppure no, saldate tra loro.
Le specie del genere Atriplex sono caratterizzate dall’alto grado di tollerabilità
all’aridità e alla salinità; e per produrre foraggi ricchi di proteine e carotene. Inoltre,
hanno la proprietà di produrre un’abbondante biomassa fogliare e di mantenerla attiva
durante i periodi sfavorevoli dell’anno.
Il genere Atriplex appartiene al gruppo di piante in grado di fissare la CO2
utilizzando la via biosintetica C4. Numerose ricerche hanno dimostrato che questo tipo
di piante si caratterizzano per la loro alta produttività, resistenza a deficit idrico,
maggior efficienza nell’uso dell’energia luminosa e il fatto che richiedono sodio come
elemento essenziale nel loro metabolismo.
38
Quasi tutte le specie appartenenti al genere Atriplex sono dioiche, esistono però
arbusti monoici. In Atriplex deserticola maturano per primi i fiori maschili, la pianta
assume così un caratteristico colore giallo, solo in seguito maturano i fiori femminili
(Rosas, 1989).
All’interno del genere l’habitus varia molto, partendo de specie annuali a
portamento erbaceo, fino ad arbusti legnosi che possono raggiungere i 3 m di altezza.
Le foglie sono alterne picciolate o sessili, di consistenza papiracea. Le specie
adattate ad ambienti desertici mostrano foglie più spesse, quasi cartilaginee, ricoperte da
una folta peluria e da cristalli di sali che arrivano a formare un pseudo-tessuto che
circonda la lamina fogliare di entrambe le facce. Gli internodi sono spesso allungati,
anche se in alcuni casi sono talmente ridotti da lasciare la foglie raggruppate.
Le forme che possono assumere le foglie sono varie, per esempio triangolare di
grosse dimensioni, fino a 6 cm di lunghezza, ovoidali con apice acuto, ovoidali con
apice ottuso, ellittiche di consistenza erbacea, adattate ad ambienti di alta montagna.
L’anatomia fogliare è di tipo Kranz, cioè mostra una guaina di cellule
clorenchimatiche di grandi dimensioni che circondano i tessuti vascolari. L’anatomia
Kranz è associata al metabolismo ad alta efficienza fotosintetica, che prende il nome di
C4 (Raven et al., 1992). Nel metabolismo C4 l’anidride carbonica si lega al piruvato per
formare l’acido ossalacetico, composto a quattro atomi di carbonio, da cui il nome del
ciclo metabolico. Questo meccanismo si verifica nel mesofillo, dove questo composto
viene trasformato in acido malico, in seguito una volta raggiunte le grandi cellule che
compongono la guaina che circonda i vasi vascolari, viene decarbossilato e l’anidride
carbonica liberata entra nel ciclo di Calvin, mentre il piruvato ritorna nel mesofillo dove
inizia un nuovo ciclo (Taiz and Zeiger, 1991).
I fiori sono monoici solitari od in glomeruli, disposti all’ascella fogliare, ma
anche in spighe terminali. I fiori maschili sono sprovvisti di bratteole, con un perianzio
3-5 partito. I fiori femminili sono protetti da due bratteole separate o concresciute
almeno alla base, induriti o cartilaginei. Il perianzio è assente o raramente presente.
Il frutto è racchiuso dalle brattee, il pericarpo è membranoso e normalmente
libero dai semi. Il seme è dritto, raramente orizzontale, il perisperma è farinoso, la
radichetta è in posizione basale, laterale o apicale (Rosas, 1989).
39
3.1.1. Tecniche colturali per il genere Atriplex
I. Scelta della specie
La scelta della specie più idonea alla coltivazione è molto importante e la
decisione deve tener conto di numerosi fattori. L’andamento termo-pluviometrico, il
tipo di terreno, la disponibilità di acqua di irrigazione, la finalità produttiva. La capacità
produttiva, inoltre, varia molto da specie a specie.
Le numerose ricerche svolte nel continente australiano, dal quale molte specie
del genere Atriplex derivano, sono state prevalentemente finalizzate a contrastare il
fenomeno della salinizzazione dei suoli (Malcom, 2000). Tali esperienze, però, sono
risultate molto utili per la migliore conoscenza di queste risorse genetiche, per la messa
a punto della tecnica colturale e della migliore tecnica di gestione delle piantagioni
(Malcom et al., 1988).
Tra le specie più utilizzate in Africa settentrionale si evidenziano Atriplex
nummularia e A. halimus. Le due specie sono state oggetto di specifiche ricerche anche
negli ambienti semi-aridi dell'Europa meridionale (Papanastasis, 2000). Nel Sud della
Spagna, in particolare, sono state registrate produzioni di biomassa edibile pari a 430500 g/pianta per A. halimus, sebbene siano state anche osservate le note limitazioni del
valore nutrizionale di tale biomassa per effetto della notevole presenza di azoto non
proteico (Correal et al., 1990a). E' anche stata rilevata la migliore risposta di A. halimus
all'utilizzo rispetto a A. nummularia (Aouissat et al., 1993).
Dati di un certo interesse vengono anche da ricerche di lotta alla desertificazione
svolte in Africa Australe, dove Atriplex nummularia e A. halimus hanno fornito i
migliori risultati rispetto a numerose specie arbustive saggiate, ma anche A. undulata e
A. breweri sono risultate di un certo interesse (Van Heerden et al., 2000a; 2000b).
A. nummularia
Questa è la specie più largamente diffusa del genere Atriplex.
E’ originaria dell’Australia ed è stata suddivisa in tre sottospecie (Par-Smith,
1982):
40
- subsp. nummularia;
- subsp. omissa Par-Smith;
- subps. spathulata Par-Smith;
Tutte e tre le specie sono ottoploidi (2n = 72). La subsp. nummularia è la più
comune e si è originata nei territori del Sud Australia, New South Wales, Victoria e
Queensland. La subsp. omissa è la più rara, mentre la subsp. spathulata è abbastanza
rara in West Australia. Piantagioni di A. nummularia sono molto diffuse da circa 75
anni in Sud Africa e da circa 40 anni nell’Africa del Nord (Franclet e Le Houérou,
1971; Le Houérou, 1994).
Di seguito vengono riportati alcuni dettagli sulle caratteristiche di A.
nummularia:
- e una specie dioica ad habitus cespuglioso che può raggiungere 1,30 m di altezza;
- ha un elevato potenziale produttivo, se irrigata può arrivare a più di 30 t ss/ha per
anno, con una salinità misurabile in EC di 15-20 mS/cm (Le Houérou, 1994);
- l’efficienza d’uso dell’acqua è molto elevata, circa 15-20 kg s.s./ha per anno per mm
di pioggia (Le Houérou, 1992a; 1994);
- la drougth tolerance è abbastanza elevata: essendo possibile utilizzarla in ambienti con
una piovosità media annua inferiore ai 200 mm;
- la tolleranza alla salinità è discreta;
- sopporta la sommersione per lunghi periodi, in Nord Africa è stato osservato che può
sopravvivere a periodi di allagamento che superano i tre mesi;
- il ricaccio dopo il pascolamento è veloce e molto abbondante, anche grazie alla
caratteristica di questa specie che è in grado di produrre gemme epicormiche, (sia
dolicoblasti che brachiblasti in funzione della stagione);
- le radici sono molto profonde, fino a 10 m di profondità, tanto da poter usufruire di
acquiferi superficiali;
- il limite più consistente nell'utilizzo della specie consiste nella scarsa resistenza al
sovrapascolamento.
Dopo una totale defogliazione sono necessari circa 8-10 mesi di riposo, prima
che la pianta si riprenda. D’altro lato se non viene utilizzata per il pascolo, questa
specie, raggiunge al massimo 12-15 anni di vita. Sono necessari tagli di
ringiovanimento, a circa 20-40 cm, da effettuarsi ogni 5 anni.
41
Diverse ricerche hanno definito le potenzialità produttive di A. nummularia
considerando la variabilità del germoplasma utilizzato (Acherkouk, 2000) e le tecniche
di coltivazione a strisce (El Mzouri et al., 2000)
Atriplex halimus
E’ la specie più diffusa dopo l’A. nummularia. Tra Siria, Giordania, Egitto,
Arabia Saudita, Libia e Tunisia sono presenti più di 80.000 ha coltivati ad A. halimus.
Esistono due sottospecie, subsp. halimus e subsp. schweinfurhii. L’areale di
diffusione della subsp. halimus si estende dalle zone semi-aride fino a quelle umide, è
molto comune lungo le coste del Bacino del Mediterraneo. Si estende dal Marocco fino
alla Manica, raggiungendo il suo estremo nel Mar del Nord. E’ facilmente identificabile
grazie al suo caratteristico habitus eretto e per avere branche fruttifere molto corte (20
cm) e ricoperte di foglie. Al contrario la subsp. schweinfurhii mostra habitus
cespuglioso con rami molto intricati, le branche fruttifere sono lunghe circa 50 cm e
sono prive di foglie. La subsp. schweinfurhii è molto diffusa nelle zone aride e
desertiche, ma si trova solo lungo depressioni in cui siano presenti falde freatiche. Le
popolazione di entrambe le subspecie mostrano un’elevata variabilità in particolare per
quanto riguarda il rapporto tra foglie e parti legnose, l’appetibilità e l’habitus.
Purtroppo, però, la pressione dovuta al pascolamento sta comportando la riduzione della
variabilità esistente all’interno delle due subspecie. Fortunatamente alcuni incroci
favorevoli assicurano, per ogni nuova generazione, la sopravvivenza di individui che
mostrano elevata appetibilità.
L’Atriplex halimus subsp. schweinfurhii può tollerare una salinità prossima a
quella marina, EC 55 mS/cm (Zid, 1970). La produttività maggiore, circa 15-20 t/ha
anno, si ottiene in condizioni di concentrazione salina non superiore a 300 mMo/L
NaCl-equivalenti. Sono state studiate alcune popolazioni in grado di sopravvivere per
brevi periodi, in condizioni di salinità superiori a quelle del mare, fino a EC 60 mS/cm
(Franclet e Le Houérou 1971; Malcom e Pol, 1986; Le Houérou, 1986; 1993). In ogni
caso l’Atriplex halimus è in grado di crescere e produrre bene in condizioni di terreno
non salino.
La valenza nutrizionale e l'utilizzabilità di questa specie è stata largamente
studiata anche negli ambienti aridi del Sud Europa (Delgado e Muñoz, 2000; Muñoz et
42
al., 2000), così come in quelli della Tunisia meridionale (Khorchani et al., 2000) e del
Medio Oriente (Hamadeh et al., 2000).
Notevole importanza viene conferita a questa specie anche per quanto riguarda
la produzione di biomassa legnosa in condizioni ambientali particolarmente estreme
come quelle del Marocco meridionale (Benchaabane, 2000).
II. Tecnica di propagazione
Nonostante la possibilità di propagare agamicamente le principali specie
arbustive del genere Atriplex, la tecnica di propagazione più diffusa è quella per seme,
con gestione dei semenzali in vivaio (Fig. 8, 9 e 10). Numerose ricerche sono state
svolte per migliorare la germinabilità e gestibilità dei semi (Lailhacar e Laude, 1975;
Von Holdt, 2000). Su Atriplex canescens, ad esempio, è stato svolto uno specifico
lavoro di ibridazione per migliorare, tra l'altro proprio i caratteri legati alla germinabilità
dei semi (Soliman e Barrow, 2000)
Le distanze di piantagione sono legate alla produttività media per pianta, che in
linea di massima tende a diminuire con densità più elevate, passando da 2.500 a 10.000
piante per ettaro (Van Heerden et al., 2000b).
III. Irrigazione
Il genere Atriplex è in grado di crescere e riprodursi in condizioni di piovosità
comprese tra 100 e 400 mm di pioggia all’anno, producendo 1.000-3.000 kg ss/ha anno
(Sankary, 1986).
Molti lavori mettono in evidenza come l’Atriplex sia una specie con elevata
efficienza di utilizzo dell'acqua. Infatti, per Atriplex nummularia, A. halimus, A.
canescens, sono stati ottenuti valori di produzione pari a 10-20 kg s.s./ha per mm/anno
di pioggia (Forti, 1971; Correal et al., 1990b). Nonostante l’elevata efficienza nell'uso
dell'acqua (Silva e Lailhacar, 2000a; 2000b; 2000c), si è osservato che quando
piantagioni di Atriplex si trovano in zone in cui la piovosità media annua si attesta
intorno a 200-300 mm, è opportuno intervenire con irrigazioni che apportino alla coltura
non meno di 200-250 mm di acqua/anno (Le Houérou, 1992a).
43
Figura 8. Abbondante produzione di semi in pianta di Atriplex nummularia.
44
Figura 9. Particolare di semenzali di Atriplex nummularia.
45
Figura 10. Piantine di Atriplex nummularia in fitocella pronte per il trapianto.
46
In Australia Occidentale, coltivazioni di Atriplex ssp. che ricevevano
un’irrigazione pari a circa 500 mm/anno sono arrivate a produrre più di 5 t di ss/anno
(Malcom e Pol, 1986).
Una prova sperimentale condotta in Arabia Saudita su sei specie di Atriplex,
irrigate tramite un center-pivot, che forniva circa 420 mm/anno, ha messo in evidenza
come le sei specie di Atriplex, nel primo anno abbiano mediamente prodotto 3.290
kg/ha, raggiungendo i 6.579 kg/ha al quarto anno d’impianto. L’efficienza d’uso
dell’acqua, misurata come quantità di biomassa prodotta dalla parte aerea della pianta,
nel primo anno, è stata di 7,8 kg s.s./ha per millimetro di acqua di irrigazione
somministrata, mentre al quarto anno di impianto i valori registrati sono stati di 15,7 kg
s.s./ha (Mirreh et al., 2000).
Sono stati osservati valori di efficienza d’uso dell’acqua pari a 5-10 kg ss/ha per
mm per anno, per alcune specie di Atriplex, quali A. nummularia, A. halimus subsp.
halimus, schweinfurthii e A. canescens subsp. liners, che ricevevano un’irrigazione di
100-400 mm acqua/anno, con produzioni di circa 2.000-4.000 kg ss/ha anno. Questi
arbusti foraggeri hanno una così elevata efficienza d’uso dell’acqua che sono in grado di
produrre, per unità di acqua utilizzata, una quantità di sostanza secca doppia rispetto a
grano ed orzo e 4-5 volte tanto rispetto a coltivazioni di medica (Le Houérou, 1992a).
IV. Valore nutrizionale e utilizzazione zootecnica
Il genere Atriplex si sviluppa e cresce preferibilmente nelle zone aride e semi
aride del Pianeta. Piantagioni su larga scala sono ormai presenti nel Nord Africa ed in
Iran, mentre coltivazioni di dimensioni più modeste sono in via di sviluppo in Israele,
Giordania, Siria, Sud Africa, Messico, Australia e Stati Uniti. La specie più
comunemente usata nel Nord Africa è l’Atriplex nummularia, mentre in Iran trova
maggiore diffusione la A. canescens, poiché resiste maggiormente al freddo.
Unitamente alle precedenti sono state introdotte specie come A. halimus, A. lentiformis,
A. glauca e A. leucoclada, grazie al loro potenziale uso foraggero.
Questi arbusti foraggeri sono stati introdotti sia con l’obiettivo di colmare il deficit
alimentare degli animali allevati che per migliorare il contenuto proteico della dieta,
oltre che per il loro elevato adattamento ai suoli salini e l’elevata efficienza d’uso
dell’acqua (WUE) principalmente legata al metabolismo di tipo C4. L’incremento della
47
produzione foraggera nelle aree ad elevata intensità di carico, rappresenta la principale
strategia per la riduzione del rischio erosivo legato alle condizioni di degrado dovute al
sovrapascolamento.
Studi specifici hanno dimostrato la grande capacità delle specie del genere
Atriplex di assorbire azoto dal substrato e in parte di usufruire della benefica azione di
organismi azotofissatori (Ismaili et al., 2000)
In Tabella 7 sono riportati i valori dei principali parametri relativi alla
composizione del foraggio (foglie) di alcune specie di Atriplex al sesto anno di età.
Fra le diverse specie riportate, la A. canescens è caratterizzata dai più bassi valori
di proteina digeribile e azoto totale digeribile e di conseguenza, anche i valori di energia
digeribile ed energia metabolizzabile per kg di ss risultano penalizzati, mentre i valori
nutrizionali relativi a A. lentiformis e A. nummularia sono risultati più favorevoli
(Mirreh et al., 2000).
Il fieno di medica e le foglie di Atriplex mostrano i valori più alti, il foraggio di
Acacia è intermedio e la paglia di grano mostra i valori più bassi. Inoltre, il fieno di
medica ed il foraggio di Atriplex sembrano essere la fonte di azoto più efficace per
microrganismi del rumine (Silva e Pereira, 1976).
Le numerose ricerche condotte hanno evidenziato l’elevato valore nutrizionale del
foraggio di A. nummularia (Tab. 8), caratterizzato soprattutto da un contenuto proteico
paragonabile a quello del fieno di erba medica (Chiriyaa e Boulanouar, 2000). A causa
del suo limitato contenuto energetico, come riportato da alcuni Autori che hanno
evidenziato una progressiva riduzione di peso di animali alimentati esclusivamente con
Atriplex, il foraggio di Atriplex nummularia trova un ideale impiego nella integrazione
proteica di diete basate sull’uso di paglie e foraggi grossolani.
Svariati lavori riportano che in Atriplex spp. La porzione di N digeribile è pari al
65%, ma solo il 55% di questa viene trattenuta ed utilizzata (Yaron et al., 1985;
Benjamin et al., 1986). Le Houérou (1991) sostiene che almeno il 45% della frazione di
N digeribile eliminato, sia azoto non proteico. Circa il 50% di questo è rappresentato da
glicinbetaine, che possono essere degradate dalla micro-flora del rumine solo quando è
disponibile energia sufficiente allo sviluppo dei microrganismi e quando gli animali
sono abituati alla dieta ricca di sali.
48
Tabella 7. Composizione del foraggio (foglie) di alcune specie di Atriplex al sesto anno
di età. (Adattata da Mirreh et al., 2000).
Proteina
grezza
(% s.s.)
Proteina
digeribile
(% s.s.)
Azoto
digeribile
(% N)
Energia digeribile
(Mcal kg-1)
Energia
metabolizzabile
(Mcal kg -1)
A. lentiformis
23,4
17,1
53,4
2,35
1,92
A. canescens
11,1
6,3
47,1
2,07
1,70
A. halimus
20,5
14,5
49,7
2,19
1,79
A. leucoclada
16,7
11,1
49,9
2,20
1,80
A. nummularia
18,2
12,5
52,9
2,33
1,91
Specie
Tabella 8. Composizione chimica e digeribilità in vitro di A. nummularia ed alcuni altri
foraggi. (Adattata da Chiriyaa e Boulanouar, 2000).
Paglia di
frumento
Fieno di
medica
Atriplex
nummularia
Acacia
cyanophylla
Proteina grezza (g/kg)
52
136
137
109
Ceneri (g/kg)
85
106
308
129
Fibra da detergente neutro (g/kg)
703
466
348
342
Fibra da detergente acido (g/kg)
421
307
152
209
Lignina da detergente acido (g/kg)
69
92
80
132
Perdita di s.s. in vitro (g/kg)
447
586
622
488
-
0.13
0.07
11.20
Azoto totale (% s.s.)
0,83
2,18
2,19
1,74
Azoto insolubile in detergente acido (% N)
9,99
3,52
7,30
11,54
Tannini
49
Studi realizzati su piccoli ruminati, allevati esclusivamente con foraggio di
Atriplex spp., hanno evidenziato un bilancio negativo dell’azoto. La principale
spiegazione fornita per giustificare questo fenomeno consiste nella mancanza di
carboidrati disponibili nella dieta e nella rapida idrolisi della proteina grezza nel rumine,
questi due eventi causano un accumulo di ammoniaca che non è più utilizzabile dagli
animali (Hassan et al., 1979; Kandil e El Shaer, 1988). Se la dieta non è composta
esclusivamente da Atriplex, ma integrata con foraggi più energetici ricchi in carboidrati,
la quantità di azoto trattenuto ed utilizzabile aumenta significativamente.
Diverse ricerche hanno mostrato, ad esempio, il positivo effetto dell'integrazione
con paglia dell'alimentazione a base di Atriplex nummularia (Correal e Sotomayor,
2000) e di A. halimus (Sotomayor e Correal, 2000).
L’elevato contenuto in sali presente nelle parti eduli delle piante, foglie e giovani
germogli, costringono gli animali che se ne nutrono, ad abbeverarsi spesso ed i
quantitativi di acqua ingeriti possono arrivare anche agli 11 l/capo/giorno (Le Houérou,
1991; Mirreh, 2000). Questo fenomeno è maggiormente evidente nel caso in cui tra i
componenti della dieta sia presente A. halimus. La grande quantità di acqua consumata è
dovuta alla necessità di eliminare, tramite le urine, l’elevata percentuale di sali
accumulata. Si stima che per ogni grammo di NaCl ingerito, siano necessari 70-74 ml di
acqua (Wilson et al., 1969; Hassan et al., 1979).
Il significato di appetibilità non è stato ancora ben definito. Il Sottocomitato del
Range Research Methods ha definito l’appetibilità come “la qualità che determina la
preferenza di una particolare specie foraggera, da parte di animali messi in condizione
di scegliere tra numerose alternative” (Marten, 1970).
Generalmente vengono usate due metodologie principali per determinare
l’appetibilità di un foraggio: I) tramite libero pascolamento, associato a continue
osservazioni visive della quantità di foraggio presente prima e dopo il passaggio degli
animali e la determinazione della quantità di fieno asportata o tramite la misurazione del
peso degli animali o tramite l’introduzione di una cannula esofagea; II) stabulazione
fissa in stalla e valutazione della quantità di foraggio ingerito tramite misurazione del
tempo d’ingestione o la misurazione diretta del foraggio consumato.
50
Generalmente i risultati ottenuti con la prima metodologia non coincidono con
quelli ricavati attraverso la seconda, infatti i fattori che influenzano la scelta degli
animali sono molto diversi nei due casi.
In molti lavori svolti, in cui gli animali venivano alimentati con foraggio di
Atriplex spp., è stata osservata una diminuzione del peso corporeo. La causa di questo
fenomeno è da attribuire al fatto che gli animali hanno necessità di un periodo piuttosto
lungo prima di riuscire ad adattarsi al nuovo alimento. Chiaramente va tenuto in
considerazione che l’appetibilità varia in funzione del tipo di animale e della razza.
In generale si è visto che il foraggio di Atriplex nummularia ha un’appetibilità
maggiore rispetto ad A. halimus. Anche se nel 1970, presso la Stazione di Ricerca di
Bou R’bia INRAT di Sarson in Tunisia è stato testato un clone di A. halimus (INRF
70100) estremamente appetibile (El Hamrouni e Sarson, 1975).
51
Tabella 9. Valori di ingestione da parte di pecore di tre diverse tipologie di foraggi di
Atriplex. (Adattata da Abou El Nasr et al., 1996).
Fresco
Fieno
Insilato
Numero di animali
4
4
4
Peso iniziale (kg)
39,3
40,2
38,6
Peso finale (kg)
39,6
35,3
42,7
Cambiamento peso (g/giorno)
6,66
-109
91,1
g ss/kg peso0.75
64,3
53,7
70,4
g proteina grezza/kg peso0.75
8,17
4,89
8,31
g fibra digeribile/kg peso0.75
38,2
34,3
42,3
Ingestione
Tabella 10. Aumento periodico del peso vivo e media giornaliera dell’incremento di
peso in agnelle alimentate con paglia di grano in combinazione con foraggi con elevato
contenuto di azoto. (Adattata da Chiriyaa e Boulanouar, 2000).
Periodo
Razione
Paglia di
frumento
Paglia +
Fieno di
medica
Paglia +
Atriplex
Paglia +
Crusca di
grano
Incremento periodico di peso (kg)
0-7 settimane
-4.65
-1.81
-1.75
-3.23
7-14 settimane
-0.65
0.27
2.00
-1.82
0-14 settimane
-0.59
-1.54
0.25
-5.04
Incremento medio giornaliero (g)
0-7 settimane
-135.7
-51.8
-50.0
-92.3
7-14 settimane
-18.5
7.7
57.1
-51.8
0-14 settimane
-75.6
-22.8
3.5
-72.0
-15.9
-4.6
0.8
-15.6
Variazione totale
(%)
52
3.2. Genere Opuntia
I. Origine e diffusione
Il genere Opuntia è originario delle zone tropicali del continente Nordamericano,
in particolare del Messico, in cui furono ritrovati semi fossili risalenti al settimo
millennio a.C. e indicanti l’utilizzo alimentare della specie in epoca preistorica (Barbera
e Inglese, 1993). In epoca precolombiana, questa specie ed altre Cactaceae rivestivano
notevole importanza per la sopravvivenza delle popolazioni che si trovavano nelle
regioni comprese tra il Sud degli Stati Uniti d’America e il Messico (Pimienta Barrios,
1990).
L’introduzione dell’Opuntia ficus-indica in Europa risale alla prima metà del
XVI secolo e fu opera, come per molte altre specie vegetali ed animali, dei colonizzatori
spagnoli (Prescott, 1843). In seguito la Cactacea si è diffusa in tutti i Continenti, in cui
fossero presenti zone a clima caldo arido, e attualmente è presente in forme spontanee o
coltivate più o meno importanti in numerosi Paesi. In Australia e Sud Africa, ad
esempio, è generalmente considerata pianta infestante in virtù della facilità con cui si
propaga e dei danni che arreca al bestiame ovino, mentre in Brasile, Tunisia e Italia la
specie trova utilizzi agricoli importanti.
In ambiente mediterraneo il Fico d’India è da diversi secoli parte integrante del
paesaggio delle regioni costiere ed insulari, a testimonianza della facilità con cui si è
adattato alle nostre condizioni climatiche.
II. Tassonomia e caratteristiche botaniche dell’Opuntia ficus-indica
A partire dalle prime classificazioni morfologiche elaborate dalle popolazioni
indigene del Messico, basate essenzialmente sull’attribuzione di denominazioni
differenziate ma con radice etimologica comune a diversi tipi di Opuntiae (Pimienta
Barrios, 1990), numerosi Autori hanno elaborato classificazioni del Genere Opuntia. La
classificazione ritenuta più valida fino al momento attuale è senz’altro quella riportata
da Britton e Rose (1963). In essa il genere Opuntia è inquadrato nella famiglia delle
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Cactaceae, ordine Caryophyllales, sottoclasse Caryophyllidae. Alle Cactaceae
appartengono specie succulente caulinari suddivise nelle tribù delle Pereskieae,
Opuntieae e Cereae.
Nella tribù delle Opuntieae è compreso il genere Opuntia, suddiviso a sua volta
in quattro sottogeneri: Platyopuntia, Cylindropuntia, Tephrocactus e Brasiliopuntia. Il
sottogenere Platyopuntia comprende da 150 a 300 specie descritte, tra cui la serie delle
Ficus-indicae che comprende l’Opuntia ficus-indica Mill.
L’Opuntia ficus indica è, tra le cactacee, quella con la maggior importanza
agronomica, sia per i frutti eduli che per i cladodi che possono essere utilizzati come
foraggio o come verdura (Scheinvar, 1995).
La domesticazione di O. ficus-indica ha avuto inizio circa 8.000 anni fa (Bravo,
1991; Pimienta-Barrios e Muñoz-Urias, 1995). Ne esiste una forma spinosa ed una
inerme. Dalla forma silvestre o spinosa (Opuntia megacantha Salm-Dick) è derivata la
forma priva di spine (O. ficus-indica f. ficus-indica). Molti altri nomi specifici, quali
Strepthacanthae e Ficus-indicae (Britton e Rose, 1919), corrispondono a semplici
variazioni morfologiche di O. megacantha. Numerosi Autori considerano O.
megacantha come sinonimo di O. ficus-indica, sempre considerata come la forma
inerme (Benson, 1982; Gibson e Nobel, 1986). La dimostrazione più evidente che O.
ficus-indica è una forma di O. megacantha, è data dal fatto che, sporadicamente ed in
particolar modo in condizioni di stress, alcuni rami della forma inerme possono
incominciare a sviluppare una certa spinosità (Griffith, 1914; Le Houérou, 1996).
Inoltre piante ottenute da seme di specie prive di spine, possono generare forme spinose,
caratterizzate da elevata variabilità.
Nella famiglia delle Cactaceae, il numero cromosomico di base è x = 11, mentre
il numero di cromosomi somatici è prevalentemente pari a 22. Per quanto riguarda O.
ficus-indica, numerose fonti indicano che, tanto la forma spinosa quanto quella inerme
hanno 2n=88, cioè sono entrambe ottoploidi. Altri Autori, invece, considerano questa
specie una diploide, 2n=22 (Spencer, 1955; Weedin e Powell, 1978) anche se
probabilmente si tratta di errori di identificazione.
Il Fico d’India è una specie perenne legnosa, con piante di altezza variabile da 1
a 5 m. Dal punto di vista morfologico la caratteristica principale è il fatto che i rami
sono trasformati in organi appiattiti di forma ellittica o ovoidale, carnosi e di colore
54
verde, detti cladodi. Le foglie sono rudimentali, di forma conica e hanno carattere
effimero, mentre sulla superficie dei cladodi sono presenti areole differenziatesi
all’ascella delle foglie e accompagnate da spine di dimensioni variabili.
I fiori sono ermafroditi con corolla di colore giallo o arancio e il frutto è una
bacca di colore bianco, giallo o rosso a maturazione, normalmente provvisto di molti
semi. L’apparato radicale è generalmente superficiale e facilita così l’assorbimento di
acque meteoriche di scarsa consistenza, ma nel contempo è robusto e capace di
colonizzare efficacemente ambienti difficili. La capacità di colonizzazione di ambienti
di scarsa fertilità pedologica è incrementata dalla possibilità di ospitare nell’apparato
radicale microrganismi azotofissatori simbionti.
III. Ruolo economico ed ecologico delle Opuntiae
L’importanza del Fico d’India è legata alle numerose utilizzazioni economiche
che la specie può avere sia in coltura estensiva che allo stato spontaneo (Barbera,
1987b; Barbera et al., 1988; Pimienta Barrios, 1994). La pianta ha ridotte esigenze
colturali, necessita infatti di lavorazioni poco profonde e scarsa potatura, non richiede
elevati apporti idrici e trattamenti antiparassitari e, pertanto, presenta bassi costi
energetici per la coltivazione in impianti specializzati (Baldini et al., 1982; Barbera,
1991a; 1995).
Senza dubbio il principale utilizzo è il consumo allo stato fresco dei frutti che
trovano un buon mercato in diverse parti del mondo. Non a caso si sta cercando di
migliorare le qualità organolettiche dei frutti, eliminare i fastidiosi glochidi, diminuire il
numero di semi e perfezionare le tecniche di frigoconservazione.
Dalla polpa del frutto è possibile ottenere numerosi sottoprodotti.
Dai semi del frutto é possibile ottenere un olio commestibile che presenta un
elevato grado di insaturazione, con alta percentuale di acido linoleico e bassa di acido
linolenico. Per queste e per altre caratteristiche chimiche e fisiche l’olio rientra nella
stessa categoria degli oli di semi di soia, mais, girasole (Sepùlveda e Sàenz, 1988).
Le popolazioni indigene del Messico per il loro sostentamento ricorrevano non
soltanto ai frutti, ma anche ai giovani cladodi di 10-15 cm di lunghezza come legume;
55
ed attualmente questi vengono comunemente usati nella cucina messicana in numerose
preparazioni (Hoffmann, 1995).
La coltura desta interesse anche in campo zootecnico. E’ noto infatti l’utilizzo
del Fico d’India come alimento per gli ovini, caprini, bovini e suini (Monjauze e Le
Houérou, 1965). Esistono numerose esperienze condotte in vari Paesi come Messico
(Ponce, 1995), Brasile, Cile e Sud Africa sull'´utilizzo della specie come foraggera in
zone aride e semi-aride. I cladodi sono infatti molto ricchi di acqua, tanto che in certi
periodi dell’anno contribuiscono a soddisfare il fabbisogno idrico degli animali (Crosta
e Vecchio, 1979). Bisogna però precisare che la razione alimentare composta da soli
cladodi di Opuntia è squilibrata, di basso tenore nutritivo, soprattutto in termini proteici,
anche se è ricca di carboidrati digeribili, lipidi e vitamine (Santana, 1992). Per questo
motivo le pale tagliate a pezzi vengono integrate con altri alimenti: fieno e concentrato
o il pascolo naturale (Monjauze e Le Houérou, 1965).
La specie viene utilizzata come frangivento e per la recinzione degli
appezzamenti, come si può riscontrare anche in Sardegna dove, ormai, è parte
costitutiva e caratteristica del paesaggio naturale.
In passato gli antichi colonizzatori spagnoli furono attratti dalla presenza su
questa pianta di una cocciniglia (Dactilopius coccus) da cui si poteva estrarre, previo
trattamento di essiccamento e macinazione del corpo dell’insetto, una polvere che può
essere usata come colorante per i tessuti, come soluzione acquosa colorante
dall’industria alimentare e farmaceutica, come lacca per la produzione di colori per
artisti e da cui si può estrarre, infine, il 10% circa di acido carminico utilizzato come
indicatore e reattivo in istologia e batteriologia (Barbera, 1991b).
I giovani cladodi consumati nelle diverse preparazioni tradizionali o in formulati
da erboristeria, per l’elevato contenuto di fibra e mucillagini, hanno un’azione
ipoglicemica, dovuta all’adsorbimento del glucosio degli alimenti e al conseguente
risparmio di insulina; nonché un’azione ipocolesteremica, per adsorbimento dei sali
biliari che stimola la secrezione biliare e l’ulteriore utilizzo del colesterolo presente nel
sangue (Mulas, 1992). Si pensa poi che gli organi vegetativi abbiano funzione
antipiretica, antinfiammatoria, analgesica e antispasmodica, mentre i fiori essiccati
vengono usati per la preparazione di tisane diuretiche (Barbera, 1991b; Mulas, 1992).
56
E’ già stato messo in evidenza come le specie del genere Opuntia presentano
caratteristiche morfologiche, fisiologiche e biochimiche tali da consentire di vegetare in
ambienti difficili, caratterizzati da scarsa piovosità e bassa fertilità del suolo (Martinez e
Villa, 1995).
Dal punto di vista pedologico il Fico d’India si adatta a terreni sabbiosi o di
medio impasto, poveri di sostanza organica e superficiali (Barbera et al., 1993). Le
capacità di adattamento della specie sono tali da riuscire a colonizzare i suoli sterili
delle pendici dell’Etna, determinando la formazione di un terriccio adatto alla
coltivazione di colture più redditizie (Bonifacio, 1961; Barbera et al., 1993). Questo è
avvenuto anche in zone subtropicali ed in seguito ha portato alla positiva evoluzione dei
suoli per la trasformazione delle radici e dei cladodi in sostanza organica e la
conseguente maggiore disponibilità di elementi nutritivi, aumento dei microrganismi,
miglioramento della struttura e del bilancio idrico (Monjauze e Le Houèrou, 1965). In
parte le Opuntiae esercitano anche un’azione di ombreggiamento del terreno e
conseguentemente si ha un abbassamento della temperatura, diminuzione dell’intensità
luminosa e della velocità di decomposizione della sostanza organica nonché della
traspirazione e dell’evaporazione. Nei terreni fortemente sabbiosi la pianta per la
diffusione e superficialità dell’apparato radicale ostacola il trasporto della sabbia,
contiene cioè l’erosione eolica (Crosta e Vecchio, 1979).
E’ stata studiata, infine, la capacità del Fico d’India di vivere in simbiosi con
batteri fissatori di azoto che rende la specie ancora più interessante dal punto di vista
ecologico (Llovera et al., 1995).
IV. Aspetti biologici legati alla propagazione della specie e tecnica di propagazione
L’Opuntia ficus-indica si propaga per via agamica o per seme. La
moltiplicazione agamica viene effettuata per talea. Nella pratica colturale la talea di
Fico d’India è formata da un cladodio di due anni con due o tre cladodi di un anno
inseriti su esso (Barbera, 1991a). Questa tecnica di propagazione presenta diversi
vantaggi: è semplice, rapida ed economica, consente di ottenere piante uniformi ed
identiche alla pianta madre e questo risulta particolarmente utile quando si vogliono
mantenere caratteri favorevoli (Pimienta Barrios, 1990).
57
Nelle condizioni naturali in cui il Fico d’India è spontaneo la propagazione
avviene facilmente in seguito alla caduta dei cladodi o di parte di questi per abscissione
naturale o per l’intervento degli animali.
Se si ha carenza di materiale vegetativo che si deve propagare si può ricorrere
alla micropropagazione utilizzando le gemme ascellari come espianti che verranno
trattati con una soluzione di benziladenina. Questo consente partendo da un solo
cladodio di ottenere fino a 25.000 piante (Escobar et al., 1986).
La propagazione si può fare anche utilizzando ricacci radicali o i fiori maturi. In
questi ultimi infatti le areole del ricettacolo, che è un tallo modificato, hanno la capacità
di differenziare radici e germogli vegetativi (Pimienta Barrios, 1990).
L’innesto è poco praticato ed ha più che altro scopi ornamentali per ottenere
forme curiose o decorative (Portolano, 1970).
La propagazione per seme dell’ Opuntia ficus-indica è meno diffusa rispetto ad
altre specie arboree. Il seme è rivestito da una testa ricoperta da uno strato molto duro
che costituisce il falso arillo dovuto al fatto che il funicolo avvolge l’ovulo e lignifica
quando la maturazione del seme è terminata. Intorno all’ilo è riconoscibile il cordone
del funicolo, il rafe da cui si origina lo strofiolo, un tessuto costituito da cellule non
lignificate (Gallo e Quagliotti, 1989). Non presenta endosperma, i cotiledoni sono
fogliacei e carnosi, mentre l’ipocotile non è succulento.
La germinazione avviene scalarmente, da un minimo di 4-5 giorni fino ad anche
4-5 mesi, ed è influenzata dalla temperatura e dalla luce. In particolare Gallo e
Quagliotti (1989) hanno riscontrato l’importanza della presenza della luce e della
temperatura che si ritiene ottimale intorno a 25-30 °C.
La propagazione per seme presenta diversi svantaggi: la germinazione è lenta in
quanto si ha prima l’attraversamento di una fase di latenza; le plantule non sono
uniformi dal punto di vista genetico e fenotipico; e attraversano una fase giovanile
molto lunga (Escobar et al., 1986; Pimienta Barrios, 1990). La latenza che è stata
osservata durante la fase di germinazione pare che sia dovuta alla copertura funicolare
che rallenta l’imbibizione. L’aumento della rapidità di germinazione e della percentuale
di semi germinati può essere ottenuto con la scarificazione, che può essere meccanica o
chimica. La prima agisce sulla copertura funicolare ed ha dato risultati positivi, mentre
58
la scarificazione chimica con una soluzione di HCl al 20% per 24 ore si rivelò
pregiudizievole per la germinazione (Beltran e Rogelio, 1981).
Un fenomeno riscontrabile nella propagazione per seme è la poliembronia, con
formazione di più embrioni. Uno di questi è in genere di origine sessuale e deriva dalla
fecondazione del sacco embrionale, gli altri che sono detti apomittici, derivano da
cellule dello stesso sacco embrionale o dai tessuti della nucella (Pimienta Barrios,
1990).
Ulteriori approfondimenti sulla tecnica di propagazione agamica sono stati
condotti da Mulas et al. (1992a), con il tentativo di utilizzare giovani germogli, e con
diversi esperimenti che, nelle condizioni ambientali della Sardegna Centro-Occidentale,
hanno messo a confronto il comportamento di talee messe a dimora in tre periodi
dell’anno: autunno, inverno e primavera (Mulas et al., 1992b). L’esperimento di durata
biennale, ha verificato le condizioni ottimali per la radicazione prendendo in esame
diversi parametri come il n° di talee morte, la variazione in peso delle talee, il peso delle
radici per talea, il n° di germogli e frutti per pianta. Sono stati rilevati anche i dati
meteorologici relativi al periodo della prova. Tutti i parametri presi in esame sono
influenzati dall’epoca d’impianto, in particolare le talee messe a dimora in autunno
presentano una percentuale di fallanze più bassa, un maggiore n° e peso di radici per
talea mentre i valori più bassi sono stati riscontrati quando l’impianto viene fatto in
inverno. Il n° di germogli per talea è maggiore nell’impianto primaverile mentre il
maggiore n° di frutti si è avuto con l’impianto invernale. E’ stata rilevata, inoltre,
l’importanza delle condizioni meteorologiche, in particolare della piovosità che ha
un’influenza positiva sull’idratazione delle talee. Questo determina un maggiore n° di
radici per talea in seguito all’impianto autunnale.
Considerando le temperature e la piovosità dei vari periodi dell’anno, l’autunno
viene indicato come stagione più favorevole per l’impianto, per lo meno nelle
condizioni mediterranee.
E’ già stato sperimentato che le talee possono essere preparate partendo da
porzioni di cladodio e questo determina un risparmio di materiale di propagazione. Si
possono infatti mettere a dimora talee di diversa dimensione e con diverso n° di areole
presenti sulla superficie del cladodio. In particolare Barbera et al. (1993) hanno messo a
confronto in due diverse epoche d’impianto, autunno e primavera, diversi tipi di talea
59
che presentavano da 1 a 3 areole e dimensioni variabili che arrivano fino ad 1/4 di
cladodio.
In tale esperimento, è stata rilevata la percentuale di attecchimento, l’epoca di
emissione di radici, le dimensioni di ciascun cladodio emesso e il n° di cladodi prodotti.
Se si vogliono ridurre i tempi di permanenza in vivaio, quindi, sembra necessario
utilizzare talee di 1/4 di cladodio impiantate in primavera. Le talee molto piccole,
invece, che presentano anch’esse una elevata percentuale di attecchimento consentono
di massimizzare la produttività del metodo, in termini di numero di piante, anche se per
ottenere barbatelle pronte occorrono tempi più lunghi.
Una revisione ampia delle possibilità di propagazione per seme e per talea del
Fico d'India è stata proposta da Mondragòn e Pimienta-Barrios (1995), mentre anche la
tecnica di propagazione per coltura di tessuti è largamente disponibile (Villalobos,
1995).
60
3.2.1. Ecofisiologia del genere Opuntia
I. Adattamenti strutturali agli ambienti aridi
L’Opuntia è una dicotiledone perenne, munita di cladodi, che rappresentano fusti
modificati. La pianta è priva di foglie, in quanto queste hanno natura effimera e cadono
precocemente. I cladodi sono ricoperti da una spessa epidermide ricoperta di cere,
strutturate in modo tale da limitare le perdite d’acqua per traspirazione. Gli stomi sono
inseriti in profondità ed in condizioni di temperature elevate e forte insolazione,
possono rimanere chiusi per gran parte del giorno.
Il Fico d’india è caratterizzata da un apparato radicale superficiale e carnoso, in cui
le radici si espandono orizzontalmente. In ambienti fortemente aridi dall’apparato
radicale principale si sviluppano delle radici secondarie carnose in grado di raggiungere
gli strati di suolo più profondi, nei quali è possibile trovare maggiore umidità (Nefzaoui
e Ben Salem, 2002). Nonostante ciò, in tutti i tipi di suolo, la voluminosa massa di
radici assorbenti si ritrova negli strati più superficiali ad una profondità massima di 30
cm e con un raggio di sviluppo orizzontale che può raggiungere gli 8 m (Sudzuki Hills,
1995). L’apparato radicale delle Cactaceae differisce da quello delle altre piante per le
sue caratteristiche xeromorfe, che le rendono capaci di sopravvivere in ambienti
fortemente siccitosi. Infatti, il sottile capillizio radicale, può essere ricoperto da un
sottile film impermeabile o essere velocemente eliminato per evitare la perdita di acqua.
Esistono tre principali meccanismi che consentono alle Cactaceae di tollerare la
siccità (Sudzuki Hills, 1995):
- riducendo la superficie radicale e diminuendo la permeabilità all’acqua;
- assorbendo rapidamente la poca acqua caduta in seguito alle piogge effimere, grazie
alla capacità di produrre in breve tempo radici, che scompaiono una volta che il suolo si
secca;
- rendendo maggiormente negativo il potenziale idrico. In questo caso possiamo parlare
di meccanismi di drought-resistance.
Le Cactaceae, una volta assorbita l’acqua attraverso le radici, la legano
immediatamente ad un composto idrofilo mucillaginoso che rende le perdite per
61
traspirazione molto lente. Questo composto idrofilo si trova immagazzinato nelle cellule
del mesofillo carnoso dei cladodi (De Kock, 1983).
La parete delle cellule dell’epidermide è impregnata da uno spesso strato di
sostanze cerose. Questo strato di cutina svolge diverse funzioni, infatti le cere che la
compongono hanno sia la funzione di ostacolare la traspirazione che riflettere parte
della radiazione solare. Inoltre le sostanze che compongono la cuticola non possono
essere scomposte dai microrganismi che non possono penetrare all’interno del tessuto
del derma (Gibson e Nobel, 1986). I cladodi possono arrivare a perdere più del 60% del
proprio contenuto di acqua prima che le cellule collassino (De Kock, 1983). Anche se
non si conosce ancora la precisa funzione del mucigel che costituisce il parenchima
cellulare, è noto che esso contribuisce alla resistenza alla traspirazione e quindi alla
tesaurizzazione dell’acqua (Gibson e Nobel, 1986).
Sia le spine che i tricomi svolgono diverse compiti, infatti, si pensa che le spine
difendano la pianta dalle aggressioni degli animali ed aiutano la riduzione della perdita
di acqua (Levitt, 1980). In ogni modo la principale funzione è quella di agevolare la
condensazione dell’acqua in prossimità della superficie fogliare (Buxbaum, 1950).
Inoltre le spine contribuiscono all’abbassamento della temperatura giornaliera dei
tessuti vegetali e la loro presenza diminuisce l’intercettazione della luce da parte dei
cladodi (Nobel e Hartsock, 1983).
Si può infine affermare che l’Opuntia presenta eccezionali caratteristiche tali da
renderla in grado di immagazzinare, negli organi succulenti, elevate quantità di acqua.
Brevi precipitazioni di pochi mm di pioggia possono essere efficientemente utilizzati da
questa pianta. Ciò è reso possibile dall’apparato radicale superficiale, ma molto esteso
che è in grado di assorbire acqua dal suolo quando i livelli di umidità sono talmente
bassi da precludere la vita alla maggior parte delle specie coltivate.
II. Meccanismi di arido resistenza
Dal punto di vista ecologico l’Opuntia ficus-indica, pur essendo presente anche
in climi temperati, è tipicamente una specie delle zone aride e desertiche e presenta,
pertanto, una serie di adattamenti morfologici e fisiologici alle caratteristiche
dell’ambiente di origine.
62
In assenza di foglie permanenti, infatti, il processo fotosintetico si realizza nei
cladodi verdi (Benson, 1963; Pimienta Barrios, 1990). Questi contengono anche un
parenchima acquifero che può immagazzinare e conservare efficacemente l’acqua.
L’efficienza nel contenimento della perdita idrica per traspirazione cuticolare è
incrementata dalla presenza di uno spesso rivestimento ceroso epicuticolare ed
intracuticolare. Anche la morfologia stomatica contribuisce al contenimento delle
perdite per traspirazione, così come l’intero processo fotosintetico. Questo infatti può
avvenire secondo il ciclo CAM che, come è noto, consente l’apertura notturna degli
stomi per gli scambi gassosi, riducendo di conseguenza le perdite per traspirazione
Le piante CAM (Crassulacean Acid Metabolism) hanno un metabolismo atto al
risparmio di acqua durante la siccità, pur mantenendo una assimilazione fotosintetica
netta positiva. Grazie alla alta concentrazione tissutale di CO2 la fotorespirazione e la
fotoinibizione sono trascurabili, favorendo un metabolismo lento, ma privo di sprechi.
Le principali caratteristiche del metabolismo tipo CAM sono: 1) stomi chiusi di
giorno ed aperti la notte; 2) carbossilazione notturna, a partire dalla demolizione
dell’amido con produzione di acido malico, accumulato nel vacuolo, che determina
l’innalzamento del pH di notte; 3) decarbossilazione del malato e fissazione della CO2,
da parte della Rubisco, durante il giorno (stomi chiusi), con sintesi di amido ed altri
glucani.
Il processo fotosintetico CAM è caratterizzato da una rigorosa scansione
temporale. Di notte, la CO2, assorbita attraverso gli stomi aperti, viene organicata ad
acido malico. Le grandi quantità di acido malico prodotto fanno aumentare l’acidità
delle cellule che raggiunge il massimo poco prima dell’alba. Nelle prime ore del
mattino gli stomi tendono a chiudersi, l’acido malico viene estratto dal vacuolo e
decarbossilato ad opera dell’enzima malico-NAD dipendente. La CO2 così liberata, non
potendo uscire dalla pianta, forma un pool molto concentrato che sopprime ogni
fotorespirazione. Entra in un normale ciclo C3 che porta alla sintesi di amido.
Le specie appartenenti al genere Opuntia fanno parte delle piante denominate
CAM obbligate, in quanto, anche se sottoposte ad interventi irrigui, il loro metabolismo
fotosintetico non cambia (Osmond, 1978).
Nel caso in cui il deficit idrico sia estremamente severo, il metabolismo CAM
subisce delle particolari modificazioni. Infatti, poiché gli stomi rimangono chiusi sia
63
durante il giorno che di notte, impedendo l’assimilazione notturna di CO2, viene
utilizzata l’anidride carbonica prodotta dalla respirazione, in modo che, nonostante
tutto, una quantità modesta di fotosintesi può essere svolta durante il giorno (Ting,
1983). Anche in cladodi di due settimane e nelle gemme fiorali si è osservata l’apertura
degli stomi durante le ore diurne, ma in questo caso la fotosintesi segue il normale ciclo
di Calvin (Acevedo et al., 1983).
I giovani cladodi, poiché hanno un metabolismo fotosintetico di tipo C3,
mantengono gli stomi aperti durante le ore diurne e richiamano l’acqua ad essi
necessaria dai cladodi sottostanti, costituendo una fonte notevole di perdita d’acqua per
l’intera pianta (Nobel et al., 1994; Wang et al., 1997). Per questo motivo, durante
periodi molto siccitosi, la pianta interrompe la formazione di nuovi cladodi, mettendo a
punto un importante meccanismo per eludere lo stress, in grado di prevenire elevate
perdite di acqua.
La simbiosi con micorrize contribuisce all’ottimizzazione della ricerca di acqua
da parte dell’apparato radicale ed alla sua conservazione nei tessuti di riserva (Pimenta
Barrios et al., 2002). Nonostante i lavori esistenti su questo argomento siano scarsi,
sembrerebbe appurato che la simbiosi con funghi micorrizogeni migliori le performance
delle piante ospiti, garantendo una maggiore capacità nell’assorbimento dell’acqua, la
cui scarsezza è la principale causa di limitazione della produttività (Allen, 1991; Titus e
Del Moral, 1998).
Inoltre, un ridotto apparato radicale, dovuto all’elevato stress idrico, garantisce
alla pianta un risparmio di energie. Per la pianta risulta, probabilmente, meno costoso
instaurare una simbiosi con micorrize, che supportare un imponente apparato radicale.
Il metabolismo CAM è più efficiente in condizioni climatiche caratterizzate da
giorni caldi e notti fredde. Per questo motivo lo sviluppo delle piantagioni di Fico
d’India è più efficiente in ambienti con queste caratteristiche (Nobel e Hartsock, 1984).
Oltre ad avere una straordinaria resistenza al deficit idrico, le specie del genere
Opuntia, mostrano una elevata tolleranza alle temperature estreme. Al contrario della
maggior parte degli organismi vegetali, che hanno temperature fogliari prossime a
quelle dell’ambiente che le circonda, gli organi fotosintetici delle Opunzie possono
raggiungere temperature fino a 15 °C superiori a quella ambientale (Gates et al., 1968).
Sanwal e Krishnan (1961) dimostrarono che in Nopalea dejecta gli enzimi fosfatasi ed
64
aldolasi raggiungevano la loro massima velocità a 60 °C. Quindi anche alle alte
temperature desertiche, i sistemi enzimatici di queste specie sono in grado di operare
normalmente.
Generalmente le piante CAM mostrano un livello ottimale per l’assimilazione
della CO2, quando le temperature notturne sono intorno ai 10-15 °C.
Nobel e Hartsock (1984) realizzarono alcune prove per valutare l’effetto di
diverse combinazioni di temperature sul tasso netto di assimilazione della CO2 in
Opuntia. I risultati migliori si ottennero con la combinazione di 25 °C durante il giorno
e 15 °C di notte. Riducendo le temperature a 10 °C di giorno e 0 °C di notte, si
registravano tassi di assimilazione inferiori del 67%. Incrementando la temperatura del
giorno e della notte (35 °C e 25 °C) la riduzione nell’assimilazione della CO2 era del
35%, fino a risultare nulla con temperature pari a 45 °C di giorno e 35 °C di notte.
La riduzione della fotosintesi con temperature elevate sia di giorno che di notte,
è attribuibile alla chiusura degli stomi durante la notte (temperature molto alte) ed
all’incremento della respirazione. Pare, infatti, che una elevata frazione della CO2 si
leghi agli acidi organici prodotti durante la respirazione stessa.
Il successo ecologico ed agronomico delle Cactaceae, come le Opuntiae,
dipende dalle loro diverse capacità adattative, quali l’abilità a conservare l’acqua nel
parenchima acquifero dei cladodi e ad assimilare l’anidride carbonica durante le ore
notturne (Nobel, 1988; 1995). Le Opuntiae sono in grado di tollerare prolungati periodi
di deficit idrico, garantendo l’attività fotosintetica tramite il mantenimento del turgore
nel tessuto fotosinteticamente attivo (Nilsen et al., 1990; Nobel, 1995). Infatti, grazie
alla capacità fotosintetica dei cladodi, O. ficus-indica è in grado di organicare il
Carbonio fino a tre mesi dopo che la capacità idrica del suolo è scesa al disotto del 5%,
per cui le piante sono in grado di immagazzinare energie che le supporteranno nella loro
crescita, fino a quando nuove risorse idriche siano nuovamente disponibili.
65
3.2.2. Tecniche colturali per il genere Opuntia
I. Scelta della specie e della cultivar
La scelta della varietà assume una certa importanza nel caso in cui l’impianto sia
destinato alla produzione di frutti per il consumo diretto. In questa circostanza è di
massima importanza conoscere l’andamento del mercato e valutare quale tipologia di
frutto viene prediletta dai consumatori ed è quindi più facile da commercializzare.
Se però lo scopo dell’impianto è l’uso foraggero, la produzione dei frutti passa
in secondo piano e così pure la scelta della varietà. Normalmente, essendo l’Opuntia
diffusa ormai da secoli, nelle zone aride e semi-aride, si coltivano i biotipi già
acclimatati e che quindi si sviluppano bene in questi ambienti. In generale, è comunque
opportuno scegliere le varietà inermi, in modo da risparmiare l’operazione di
eliminazione delle spine prima del consumo da parte del bestiame, qualora le condizioni
di gestione consentano di regolarne l'utilizzo (Fig. 11).
Esistono però dei fattori importanti che è opportuno considerare nel momento
della scelta della varietà:
- produttività elevata e buona qualità;
- adattabilità al clima ed al suolo;
- elevata rusticità;
- resistenza all’attacco di parassiti ed insetti.
II. Impianto
Gli impianti possono essere fatti secondo la natura e la pendenza del terreno, se
consideriamo come scopo principale quello di difesa contro il degradamento e
l’erosione del suolo, i metodi più utilizzati vengono di seguito descritti:
- senza ordine prestabilito, ponendo le talee nei luoghi meno soggetti al dilavamento e
prevalentemente nelle depressioni dove l'acqua piovana si raccoglie trasportando detriti;
l’impianto, in questo caso, deve essere eseguito a buchette;
66
Figura 11. Varietà di Opuntia ficus-indica spinosa (sopra) e inerme (sotto).
67
- a filari o a fasce, lungo le curve di livello più o meno ravvicinati secondo la pendenza;
le talee saranno disposte in trincee di 30 cm di profondità; i filari o le fasce di due o tre
filari saranno distanziati mediamente da 6 a 8 metri.
Il Fico d’india si riproduce anche per seme, ma si preferisce ricorrere alle talee,
in quanto l’accrescimento delle piante è molto più veloce. Nel caso dei filari, le pale
devono essere orientate in senso trasversale rispetto alla direttrice di scavo, in modo da
consentire ai rami di svilupparsi liberamente verso l’esterno. In genere l’attecchimento è
molto alto, compreso tra l’80 ed il 95%, in particolare se si utilizzano due cladodi per
postarella. Le fallanze sono in genere dovute a marcescenza e ad attacchi parassitari.
Prima dell’impianto i cladodi si tagliano di netto al punto di inserzione,
prelevandoli da piante adulte, dopo averle esposte all'aria per qualche settimana, in
modo che la ferita cicatrizzi, si interrano a metà o a tre quarti ed un po’ obliquamente
per offrire meno resistenza al vento.
Le talee da usarsi per l’impianto devono avere due o tre anni di vita e conviene
impiegare rami di tre o più cladodi. L’epoca di impianto migliore deve essere lontana
dalla stagione piovosa, in modo da evitare rischi di marcescenza delle pale. Nei primi
anni occorrerà difendere gli impianti dal pascolo, per evitare la distruzione delle giovani
piante, in quanto queste sono molto appetite dal bestiame (Inglese, 1995).
Qualora la finalità dell’impianto sia l’utilizzazione foraggera, è consigliabile
intensificare la densità di piantagione. Infatti, un’elevata competitività tra le piante
riduce l’attività riproduttiva, prolungando la fase giovanile e la generazione dei nuovi
cladodi, principale obiettivo nella produzione di foraggio. Il concetto di fondo su cui si
basa l’alta densità di impianto consiste nel massimizzare la produzione di biomassa e
lasciare a ciascuna pianta un minimo quantitativo di terra da sfruttare.
Il limite più importante del sistema ad alta densità è l’ombreggiamento che si
viene a creare tra le piante durante i diversi stadi di crescita. Infatti la scarsa
illuminazione rende i cladodi più sottili e l’architettura della pianta meno adatta a
catturare la radiazione solare fotosinteticamente attiva.
In Messico il tipico impianto ideato per la produzione di foraggio è costituito da
filari compatti alti non più di 1,50 m, con una densità di circa 40.000 piante/ha (80 x 40
cm). In Brasile viene utilizzato un metodo simile al precedente, la densità per ettaro è
sempre di 40.000 piante, ma il sesto è di 100 x 25 cm, impianto più intensivo del più
68
diffuso metodo in cui si utilizzano 2 m tra le file e 1 m sulla fila. A due anni
dall’impianto, nel primo caso si ottengono produzioni di 246 ton/ha, nel secondo, con
densità inferiore, la produzione si aggira intorno alle 100 ton/ha. Visti i risultati
sembrerebbe che anche in Brasile sia più efficiente il sesto più intensivo.
III. Concimazione
L’Opuntia in generale presenta una produttività abbastanza bassa, spesso a causa
delle condizioni ambientali fortemente limitanti in cui normalmente si sviluppa. Il Fico
d’India spontaneo lo si ritrova comunemente su suoli poveri, con un basso contenuto di
sostanza organica, e in regioni con una stagione vegetativa molto breve, fattori che non
permettono a questa specie di esprimere a pieno le proprie potenzialità.
Diverse prove sulla fertilizzazione, condotte in varie parti del Mondo, mostrano
che la concimazione determina un notevole incremento della produzione sia di frutti che
di cladodi. Applicazioni elevate di azoto, fino a 160 kg/ha, portano all’aumento del
numero dei nuovi cladodi in O. engelmannii.
In accordo con Gonzales (1989) la concimazione porta, oltre ad un incremento
della produzione, anche ad un aumento della percentuale di proteine. Infatti prove di
concimazione azotata condotte su O. lindheimeri mostrano che livelli crescenti di azoto,
da 67, 124 e 135 kg N/ha, determinano un incremento del livello proteico di 3,1, 4,2 e
4,4 punti percentuali rispettivamente.
IV. Valore nutrizionale ed utilizzazione zootecnica
L’utilizzo dell’Opuntia spp. come foraggio mostra molteplici vantaggi, in
quanto è largamente diffusa, si sviluppa velocemente, è una coltivazione economica,
discretamente appetibile ed inoltre può sopportare lunghi periodi di siccità (Shoop et al.,
1977). Tali caratteristiche la rendono un foraggio importante nell’integrazione
dell’alimentazione animale, in special modo durante la stagione secca o quando gli altri
alimenti sono scarsamente disponibili. Sia i cladodi che i frutti possono essere utilizzati
come foraggio, sia allo stato fresco che conservati sotto forma di insilati (Castra et al.,
1977).
69
Contrariamente a quanto si possa pensare, l’uso del Fico d’India come pianta
foraggera non è recente. Le prime documentazioni su tale uso, indicano gli Stati Uniti
come zona di massimo utilizzo e risalgono a prima della Guerra Civile (1861-1865)
(Griffith, 1905). Successivamente i cladodi vennero intensamente trasportati dal Texas a
diverse altre Regioni, quali Brownsville, Indianola, San Antonio ed Eagle Pass.
Le popolazioni di Opuntia, siano esse coltivate o spontanee, hanno acquistato, in
diverse parti del mondo, sempre maggior importanza come piante foraggere. Vengono
coltivate in Africa, Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Palestina, Italia,
Messico, Perù, Spagna e Stati Uniti (Curtis, 1979; Le Houèrou, 1979; Brutsh, 1984;
Russel e Felker, 1987; Clovis de Andrade, 1990; Barbera et al., 1992; Flores Valdez e
Aguirre Rivera, 1992; Felker, 1995).
Già da tempo sono presenti vaste aree coltivate ad Opuntia in Algeria, Marocco,
Messico e specialmente in Brasile e Tunisia, dove viene utilizzato come foraggio di
riserva, durante periodi di prolungata siccità. In molte aree caratterizzate da clima arido
o semi-arido (Tunisia, Messico, Sud del Texas e Sud Africa), gli allevatori fanno largo
uso di Opuntia come foraggio di emergenza, facendo pascolare sia popolazioni coltivate
che spontanee, in modo da contrastare i frequenti periodi siccitosi, che potrebbero avere
conseguenze disastrose (Le Houèrou, 1992b; Nefzaoui et al., 2000a) e da limitare la
pressione sulla vegetazione naturale.
L’Opuntia è un alimento animale incompleto e non ben bilanciato, ma d’altra
parte è una preziosa fonte di energia e acqua. I cladodi hanno un basso contenuto in
proteine grezze, fibre, fosforo e sodio (Le Houérou, 1992b; Nefzaoui, 2000), ma se
associato ad altri foraggi, in grado di compensare queste carenze, si possono ottenere
diete ben bilanciate.
Il contenuto di acqua sul peso fresco si attesta mediamente intorno al 90% (Tab.
11). Il contenuto in ceneri è intorno al 20% del peso secco.
Le proteine grezze assumono spesso valori inferiori al 5%, ma in alcuni casi
possono raggiungere valori del 10% sul peso secco. Il contenuto di fibre è sempre
basso, intorno al 10% del peso secco. L'estratto non azotato, che comprende sia gli
zuccheri monometrici che polimerici, si aggira intorno al 20% del peso secco. Il basso
contenuto in fosforo (0.03%) e sodio (0.01%) richiede che i cladodi vengano integrati
con altri alimenti, ricchi di questi elementi, prima di essere somministrati al bestiame.
70
Come si evince dalla Tabella 11 il contenuto di proteine nei cladodi è molto
basso, ma tende ad aumentare in seguito a concimazione con fertilizzanti azotati. Infatti
si è visto che concimazioni a base di azoto e fosforo possono incrementare il contenuto
in proteina grezza di cladodi di Opuntia dal 4,5 al 10% del peso secco (Gonzales, 1989).
Gregory e Felker (1992) trovarono alcuni cloni di Opuntia provenienti dal Brasile, il cui
contenuto in proteine grezze, superava l’11% sul peso secco. La possibilità di
individuare, tramite selezione ed ibridazione, cultivar con un maggiore contenuto di
proteine, potrebbe agevolare quelle Regioni nelle quali l’uso di fertilizzanti risulta
eccessivamente dispendioso. L’insufficienza in proteina può essere risolta tramite
appropriate aggiunte od integrazioni con altri foraggi (Ben Salem et al., 2002).
Gli animali possono arrivare ad ingerire grandi quantità di cladodi. Come nel
caso dei bovini di razza Jersey, alimentati con foraggio di Opuntia integrato con 1
kg/giorno di concentrati, possono arrivare a consumare 51 kg/giorno di cladodi allo
stato fresco (Woodward et al., 1951). Anche in altri casi bovini allevati esclusivamente
con cladodi possono arrivare ad ingerire 60 kg/d di tale alimento (Metral, 1965).
Viana (1965) riporta ingestioni di 77 kg/giorno per allevamenti bovini, mentre
Monjauze e Le Houérou (1965) riportano livelli di ingestione che vanno da 2,5 a 9
kg/giorno di cladodi, nel caso di pecore.
Ricerche condotte da Flores Valdez e Aguirre Rivera (1992) evidenziano come
l’ingestione da parte del bestiame risulta maggiore quando viene loro somministrato
foraggio di Opuntia ficus-indica (11 kg/giorno) piuttosto che di O. robusta (6,5
kg/giorno). In ogni caso l’ingestione di Opuntia è direttamente connessa alla quantità
d’acqua contenuta nei cladodi, cioè maggiore è il contenuto in acqua maggiore è la sua
appetibilità.
L’uso di cladodi nell’alimentazione delle pecore ha effetti lassativi, causati dal
passaggio troppo rapido nel tratto intestinale.
71
Tabella 11. Composizione chimica media di cladodi di Opuntia utilizzati come
foraggio. (Adattata da Nefzaoui e Ben Salem, 2002).
Specie
Acqua
Ceneri
(% pf)
O. engelmannii
85
O. ficus-indica
89
Proteina
Fibra
Estrattivi
cruda
grezza
inazotati
(% del peso secco)
2,9
17
4,8
Ca Mg
8,3 1,6
10,9
P
K
Na
0,04 3,0
65
O. ficus-indica
California
90
10,4
Chile
89
8,9
O. ficus-indica
87
27
38
64
6,3 1,4 0,033 1,2 0,033
3,9 1,3 0,012 2,0 0,003
8,6
72
58
8,7
0,04 1,1 0,05
Questi effetti sono maggiormente evidenti quando la quantità di cladodi presenti
nella dieta rappresenta più del 60% del totale, ma possono essere ridotti, arricchendo la
razione alimentare, con paglia e fieno, che apportano elevati quantitativi di fibre.
Pecore allevate con paglia possono arrivare ad ingerire più di 600 g (peso secco)
di cladodi senza manifestare alcun problema di digestione (Nefzaoui et al., 1993). Si è
visto che miscelando la crusca di cereali, alimento povero, con melassa, l’appetibilità
del mangime aumenta (Preston e Leng, 1987). E' probabile che lo stesso effetto si
ottenga con i cladodi, poiché il loro elevato contenuto in carboidrati svolge la stessa
funzione della melassa. Il contenuto energetico dei cladodi varia da 3500 a 4000 kcal/kg
sul peso secco e solo metà di questa energia, fornita principalmente dai carboidrati,
viene utilizzata dagli animali (De Kock, 1983; Ben Thlija, 1987). Nel Nord Africa,
regione caratterizzata da clima arido o semi-arido, generalmente i residui dei cereali ed
il pascolo naturale, non sono sufficienti a soddisfare le esigenze alimentari dei piccoli
ruminanti allevati per la produzione di carne. Supplementare l’alimentazione con i
cladodi può essere una valida alternativa, economicamente sostenibile. Infatti quando la
dieta delle pecore viene arricchita con cladodi il peso corporeo può aumentare fino a
145 g/giorno (Tien et al., 1993). Nel caso di allevamenti di capre alimentate con fieno
di medica e Fico d’India, la produzione di latte può aumentare di 436 g/giorno (Azocar
et al., 1991). Quando i cladodi vengono associati ad altri foraggi ricchi di proteine,
possono sostituire validamente la granella di cereali (Ben Salem et al., 1998) o l’insilato
di mais (Metral, 1965), senza in alcun modo incidere negativamente sull’incremento di
peso giornaliero sia degli ovini adulti che degli agnelli.
Nel caso in cui pecore vengano alimentate con diete contenenti sempre maggiori
quantità di Opuntia, si è osservato che la loro appetibilità aumenta ed inoltre aumenta
anche la quantità ingerita del foraggio ad essi associato (Tab. 12).
I cladodi del Fico d’India sono facilmente digeribili. Si è osservato che la loro
digeribilità, nel caso di allevamento ovino, è simile a quella dei foraggi più
comunemente utilizzati. Il rapido passaggio dei cladodi attraverso il tratto intestinale
lascia la possibilità agli animali di ingerire ulteriore alimento e non impedisce in alcun
modo che vengano utilizzati i restanti componenti della razione alimentare. Questo fatto
è di fondamentale importanza nelle zone aride in cui il bestiame viene principalmente
73
allevato con paglia o stoppie di cereali, alimenti poveri e di scarsa qualità, che da soli
non garantiscono un adeguato incremento del peso corporeo giornaliero.
In ogni caso, la combinazione di O. ficus-indica con paglie di cereali,
rappresenta una valida alternativa per garantire l’allevamento di piccoli ruminanti nelle
zone caratterizzate da climi aridi o semi-aridi (Ben Salem et al., 1996). Al contrario,
l’aggiunta alla razione alimentare di cladodi, può migliorare il valore nutritivo e
stimolare l’ingestione di alimenti poco appetibili come la crusca di cereali (Tab. 12 e
13).
V. Gestione della risorsa
Esistono vari metodi di utilizzazione dell’Opuntia come foraggio alternativo. In
generale il pascolamento diretto è il più semplice ed economico, ma non è il metodo più
efficiente e sicuro, infatti, si può incorrere nel rischio di sovrapascolamento. Nel caso di
coltivazione di Opuntia è opportuno tagliare i cladodi in piccoli pezzi od in sottili
strisce e somministrarli direttamente al bestiame in mangiatoia o in un luogo distante
dalla coltivazione, in modo da limitare il pascolo diretto (Fig. 12). I cladodi possono
inoltre essere tagliati in piccoli porzioni e miscelati con paglia o fieno di medica di
bassa qualità ed insilati. Normalmente alla miscela vengono aggiunti anche i frutti di
Fico d’India, ma nel caso non siano presenti, vengono sostituiti da melassa.
Il Fico d’India, quando utilizzato come foraggio, può garantire la sopravvivenza
degli animali per lungo periodo, quando questi vengono allevati nelle zone
caratterizzate da climi aridi o semi-aridi.
74
Figura 12. Modalità di utilizzo dell'Opuntia ficus-indica.
75
Tabella 12. Effetti dell'integrazione alimentare con Fico d'India inerme (Opuntia ficusindica f. inermis) sull'ingestione, digeribilità totale della dieta a base di paglia e
consumo di acqua da parte di pecore. (Adattata da Ben Salem et al., 1996).
Quantità di Fico d'India inerme (g ss/giorno)
0
150
300
450
Ingestione di ss (g/giorno)
c
bc
c
ab
Paglia
550
574
523
643
e
c
1093b
Fico d'India + paglia
724d
550
823
716
a
1278
Ingestione di ss (g/kg
P0,75giorno)
Paglia
Fico d'India + paglia
43,6
e
43,6
54,7
a
97,6
Digeribilità totale della
razione
Sostanza secca
Sostanza organica
Proteina grezza
Fibra grezza
Fibra da detergente neutro
Fibra da detergente acido
0,433
b
0,453
c
0,495
0,525
0,504
0,524
b
bc
42,2
d
53,3
b
ab
0,466
ab
0,504
bc
0,550
0,508
0,495
0473
c
600
a
b
37,7
c
59,6
a
44,8
76,3b
a
0,491
a
0,543
bc
0,537
0,534
0,483
0,473
a
0,514
a
0,577
ab
0,585
0,523
0,523
0,522
a
0,534
a
0,587
a
0,643
0,468
0,506
0,484
Ingestione di sostanza organica e proteina grezza (% rispetto al fabbisogno di
mantenimento)
Sostanza organica
158
193
93
123
digeribile
Proteina grezza digeribile
52
52
64
93
212
Acqua consumata
(l/giorno)
0,00
a,b,c,d,e
a
2,42
b
1,49
c
0,14
c
0,11
Le medie nella stessa riga con diverse lettere differiscono statisticamente (P<0,05).
76
111
c
Tabella 13. Integrazione di paglia con Fico d'India inerme. (Adattata da Nefzaoui et al.,
1993).
Livello di
paglia
300
600
g/giorno
g/giorno
US*
Ingestione ss
(g)
Opuntia
445
Paglia
254
Digeribilità delle razioni (%)
Sostanza
67,9
organica
Proteina grezza
41,1
Fibra grezza
37,5
Azoto
assimilato
-02
ATS*
UTS*
US*
ATS*
UTS*
447
242
425
249
432
494
462
466
439
486
64,0
63,3
66,5
69,8
72,6
48,0
30,5
43,3
29,2
45,9
46,5
61,0
49,2
77,1
52,7
-0,2
-0,6
0,8
2,8
3,9
*
US: paglia non trattata; ATS: paglia trattata con ammoniaca; UTS: paglia trattata con urea.
77
Come già accennato i cladodi sono poveri di proteine per cui, per colmare questa
lacuna, vengono somministrati con fieno di medica o paglie di cereali. Spesso la razione
viene completata con piccole quantità di farina di ossa, sale e calce, che apportano
fosforo e sodio (De Kock, 1983).
Una volta raccolti i cladodi possono essere seccati e conservati in modo da
venire utilizzati nei periodi di maggior siccità, quando il pascolo naturale è assente.
Il modo migliore per ottenere un insilato di qualità, consiste nel tagliare i cladodi
in piccoli pezzi unirli a paglia di avena ed una piccola quantità (in rapporto 84 a 16 con
i cladodi) di fieno di medica e melassa (2%).
La tecnica più economica e facile di utilizzare il Fico d’India, consiste nel
pascolamento diretto. Non bisogna dimenticare, però, che questo metodo può
comportare rischi di sovrapascolamento.
In particolar modo, le giovani piante, sono particolarmente suscettibili al
pascolamento e possono essere distrutte dall'utilizzo degli animali. Anche le piante
adulte possono subire gravi danni se pascolate eccessivamente, i ricacci risultano via via
minori, con conseguente diminuzione della produzione totale. Il metodo più razionale di
utilizzo di una piantagione di Opuntia, consiste nel dividerla in piccoli appezzamenti
recintati, ognuno di questi viene utilizzato intensamente per pochi mesi all’anno e poi
lasciato a riposo per circa tre anni. Il pascolo diretto comporta un continuo ed attento
controllo, sia perché gli scarti possono rappresentare il 50% della produzione totale,
spesso i cladodi vengono consumati parzialmente e poi abbandonati, sia perché la
piantagione stessa può essere distrutta da un eccessivo utilizzo (Monjauze e Le
Houérou, 1965; De Kock, 1980). In ogni caso questo tipo di gestione è il più economico
ed, inoltre, mostra il vantaggio che, gli animali al pascolo, possono alimentarsi dell’erba
che cresce lungo l’interfila degli arbusti coltivati.
Una tipologia di gestione opposta alla precedente è rappresentata dall’evitare
totalmente il pascolo diretto ed effettuare il taglio dei cladodi e distribuirli agli animali
in apposite mangiatoie. In questo caso la perdita di prodotto è praticamente inesistente
ed il rischio di sovra-utilizzazione estremamente ridotto a meno che non si raccolgano
prematuramente i cladodi prodotti delle piante ancora troppo giovani. La distribuzione
in mangiatoia comporta un lavoro intensivo, ma spesso, per alcune zone del Nord
78
Africa, rappresenta l’unico modo di gestione della coltivazione a causa della scarsa
abitudine degli allevatori a regolamentare il pascolo (Nefzaoui e Ben Salem, 2002).
Per facilitare le operazioni di somministrazione del foraggio di Opuntia è
consigliabile utilizzare impianti di O. ficus-indica var. inermis, cioè la varietà priva di
spine. Infatti nel caso si utilizzi la varietà spinosa è d’obbligo asportare preventivamente
le spine, il metodo normalmente più utilizzato consiste nell'abbruciatura dei cladodi
utilizzando bruciatori a propano (Shoop et al., 1977).
In Texas ed in Messico di solito si abbruciano le piante ancora in piedi, mentre
in Nord Africa, si scottano i cladodi già distaccati dalla pianta ed in seguito si tagliano
in pezzi, manualmente o con l’ausilio di macchinari appositi.
Come accennato in precedenza i cladodi possono essere efficacemente utilizzati
come supplemento in diete costituite principalmente da alimenti poveri, quali la crusca
dei cereali. Inoltre, l’aggiunta del Fico d’India a razioni alimentari composte
principalmente da paglia, stimola notevolmente l’aumento di ingestione di quest’ultima
(Nefzaoui et al., 1993; Ben Salem et al.,1996). I cladodi rappresentano oltretutto un
valido supplemento a paglie arricchite con ammoniaca o urea, poiché apportano una
buona quantità di carboidrati solubili che facilitano l’utilizzazione, da parte del rumine,
delle fonti di azoto non proteiche (Nefzaoui et al., 1993). Per ovini di razza Barbarine,
si è osservato, che l’ingestione volontaria di cladodi di Opuntia (ad libitum) si attestava
su valori piuttosto alti (450 g s.s/giorno) se somministrati contemporaneamente a 480
g/giorno di paglia trattata con ammoniaca (Nefzaoui et al., 1993). Il trattamento con
urea od ammoniaca a cui viene sottoposta la paglia si rende necessario per supplire al
deficit di azoto. In alternava alla paglia così trattata si può aggiungere alla dieta, oltre ai
cladodi, fieno di Atriplex nummularia (circa 300 g s.s./giorno). L’Atriplex rappresenta
una valida fonte di proteine ed inoltre l’azoto apportato facilita la digestione, da parte
delle pecore, della sostanza organica (Nefzaoui et al., 1996). Agnelli di 4 mesi, allevati
con cladodi di Opuntia, in sostituzione della più costosa granella di cereali, ingeriscono
circa il 10-15% di sostanza organica in più e l’incremento in peso giornaliero può essere
superiore del 15% rispetto al normale (Tab. 14).
79
Tabella 14. Effetto dell'integrazione con alimenti ricchi di azoto di razioni a base di Fico
d'India somministrate a pecore di un anno. (Adattata da Nefzaoui et al., 2000b).
Razione
R1
R2
R3
R4
Ingestione (g ss/giorno):
Opuntia
Atriplex halimus
Atriplex nummularia
Farina di soya
Orzo
Fieno
Urea
Ingestione totale
241
0
0
0
308,8
149,0
8
706,8
252
224,2
0
0
243,6
142,9
0
862,7
241
0
225,8
0
243,6
147,5
0
857,9
228
0
0
57,6
243,6
150,6
0
679,8
55
58
74
70
Incremento medio
giornaliero (g/giorno)
Tabella 15. Valore nutrizionale di razioni a base di cladodi di Fico d'India (Opuntia
ficus-indica) e acacia (Acacia cyanophylla) per le pecore. (Adattata da Nefazoui et al.,
1996).
Razione
Ingestione, g ss/giorno
Opuntia
Acacia
Digeribilità razione (%)
Sostanza organica
Proteina grezza
Fibra grezza
Azoto assimilato
(g/giorno)
Valore nutrizionale*
Energia
Azoto
R00
R21
R22
R23
0
241
167
373
246
211
267
177
67,7
45,8
62,8
2,77
76,5
49,4
80,5
2,73
147
75
151
67
73,9
34,8
77,4
0,46
131
35
74,6
16,9
79,9
-1,07
116
10
*Il valore nutrizionale è espresso come percentuale del fabbisogno di mantenimento della pecora in
energia (ingestione di sostanza organica digeribile) e azoto (ingestione di proteina grezza digeribile).
80
Capre alimentate con pascolo naturale supplementato da un miscuglio di cladodi
in pezzi (100 g ss/giorno) ed Atriplex nummularia (100 g ss/giorno), hanno mostrato un
incremento notevole del peso corporeo giornaliero (da 25 a 60 g/giorno).
Spesso anche l’Acacia cyanophylla Lindl. (sin. Acacia saligna), specie arbustiva
comunemente diffusa in ambienti a clima arido, viene utilizzata come foraggio in
associazione all’Opuntia, infatti, l’acacia è ricca in proteine grezze (circa il 13% sulla
s.s.). Prove condotte su pecore di razza Barbarine alle quali venivano somministrate
quattro tipologie di diete differenti (Tab. 15) hanno messo in evidenza che l’ingestione
di acacia era bassa (250 g ss/giorno). Questo fenomeno è probabilmente dovuto
all’elevato contenuto in tannini dell’acacia (4-7% ss) (Ben Salem et al., 1998).
Poiché il contenuto di tannini limita l’ingestione di acacia, è necessario
aggiungere fonti supplementari di azoto. La dieta può essere dunque arricchita con
paglia trattata con urea od ammoniaca, oppure, come più spesso accade, con Atriplex
nummularia. Diete a base di acacia, supplementate con Atriplex nummularia e cladodi
di Opuntia, in sostituzione alla più costosa granella di cereali, hanno dato ottimi risultati
(Ben Salem et al., 2002).
E’ evidente come specie foraggere non convenzionali, possono rappresentare un
vantaggio economico per quei Paesi caratterizzati da clima arido o semi-arido.
VI. L’uso dell’Opuntia come fonte di acqua per gli animali
La mancanza di acqua può determinare una diminuzione nell’ingestione della
razione alimentare da parte degli animali e quindi causare una diminuzione
nell’incremento del peso corporeo. Purtroppo, fornire al bestiame il giusto quantitativo
di acqua, nei periodi di maggior secchezza, rappresenta un enorme problema nelle zone
aride. Gli animali consumano molte energie nel raggiungere i punti di abbeveraggio ed
inoltre, la degradazione del terreno, intorno a questi punti, si sta rivelando una questione
molto seria. L’alimentazione del bestiame con Opuntia può supplire in parte la
mancanza di acqua, infatti come già visto, il contenuto in acqua dei cladodi si aggira
intorno all’85% del peso fresco. Nel caso di agnelli allevati con abbondanti quantitativi
di Opuntia, il bisogno di acqua risulta praticamente nullo (Cottier, 1934; Woodward et
al., 1951). Pecore allevate per lunghi periodi (da 400 a 500 giorni) con abbondante
81
quantitativo di cladodi, smettono di bere. Nel caso di ovini alimentati con acacia e orzo,
necessitano di 1,2 l di acqua al giorno, ma nel caso in cui alla dieta vengano aggiunti
cladodi, la richiesta di acqua diminuisce a soli 0,6 l al giorno.
82
CONCLUSIONI
L'incremento della popolazione mondiale e più in particolare la pressione
demografica crescente sulle aree a rischio di desertificazione, impone la ricerca di
soluzioni al problema dell'avanzata del deserto, così come alla necessità di consentire
una valenza economica, anche limitata, ai vasti territori limitrofi rispetto alle aree
ecologicamente già compromesse. L'utilizzo di specie arboree o arbustive capaci di
svilupparsi in condizioni di aridità estrema e di marginalità assoluta dei suoli, che nello
stesso tempo abbiamo anche una possibilità di utilizzo foraggero, può rappresentare una
soluzione significativa a questo ordine di problemi.
Le specie del genere Opuntia, in particolare O. ficus-indica, e del genere
Atriplex, con A. nummularia, A. halimus e A. canescens in evidenza sulle altre,
sembrano possedere le caratteristiche per risultare un'arma efficace contro la
desertificazione, pur mantenendo un livello produttivo minimo di alimenti per il
bestiame e talvolta consentendo redditi superiori ai sistemi foraggeri tradizionali (Le
Houérou, 2000).
L'impiego di tali specie ha quindi una valenza strategica che deve essere
accompagnata da tecnologia adeguata, ma anche da formazione degli utenti e
partecipazione degli stessi ai meccanismi di gestione delle piantagioni. La loro valenza
ecologica e agronomica, infatti, non può prescindere dal rispetto di alcune regole che ne
salvaguardino: la corretta piantagione, con sforzi tecnico-economici che spesso
superano le capacità operative delle comunità locali; la sopravvivenza, perché si tratta di
sistemi labili e validi solo a certe condizioni; la corretta gestione, che spesso deve essere
acquisita dagli utenti come elemento estraneo alla propria cultura; la rinnovazione o
evoluzione verso forme di copertura vegetale ecologicamente sostenibili e in equilibrio
con le potenzialità del sistema.
Sicuramente questo approccio in "agroforestazione" alla gestione di territori
marginali è più tollerabile da parte delle comunità locali rispetto agli interventi classici
83
di forestazione, dove il risultato tecnico spesso non può prescindere dall'esclusione
dell'utilizzo zootecnico delle aree interessate.
L'utilizzo di specie arbustive, inoltre, rappresenta un sicuro vantaggio rispetto ad
altri sistemi agro-zootecnici marginali, come il sistema basato sulla coltura dell'orzo in
monosuccessione, che ha di fatto aggravato i problemi di degrado, erosione e
salinizzazione di molte terre a forte rischio di desertificazione.
Gli
arbusti,
infatti,
assicurano
una
copertura
permanente
del
suolo
massimizzando gli effetti antierosivi, hanno apparato radicale ben sviluppato in grado di
utilizzare riserve idriche profonde o piogge effimere e meglio contribuiscono ad
incrementare la fertilità media del suolo occupato.
Le specie dei generi Opuntia e Atriplex, inoltre, possono integrarsi utilmente tra
loro essendo le prime ricche di acqua e fibra, mentre le seconde sono soprattutto ricche
di proteine. Lo stato di idratazione dei cladodi di Opuntia risulterebbe utile per
compensare la maggior richiesta d'acqua del bestiame derivante dall'elevato contenuto
di sale delle foglie di Atriplex, mentre entrambi i tipi di alimento possono combinarsi
bene con gli alimenti poveri mediamente disponibili nelle regioni aride, come la paglia
dei cereali (Chiriyaa e Boulanouar, 2000).
Il corretto utilizzo di queste specie, tuttavia, non è limitato alla possibilità di
combinarle tra loro nella formulazione di una alimentazione bilanciata per il bestiame,
ma comporta anche una gestione corretta della turnazione del pascolo diretto (Atriplex)
o dei prelievi controllati di biomassa (Opuntia) e, nel caso delle specie di Atriplex,
anche l'indispensabile dosaggio di interventi di potatura destinati al rinnovo della
vegetazione (Fig. 13).
Tutto ciò implica l'accompagnamento degli interventi tecnici per l'impianto delle
specie arbustive, di per sé impegnativi e costosi, con azioni di tipo informativo e
formativo degli utenti finali (Fig. 14).
Ulteriori
ricerche,
peraltro,
sembrano
necessarie
per
sperimentare
la
collocazione degli impianti di arbusti foraggeri in un percorso evolutivo tendente ad
equilibri naturalistici più stabili, con maggiore sviluppo di biodiversità e possibilità di
gestione sostenibile.
84
Figura 13. Produzione legnosa di un arbusto di Atriplex nummularia di 6 anni.
85
Figura 14. Coltivazione a strisce dell'Atriplex nummularia con cereali.
86
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