La grande bellezza. Infelice ricerca

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Cinema. La ricerca di Sorrentino/Gambardella ci mostra un nuovo
circo umano, sempre più mediatico ed esibizionista rispetto a quello
di Fellini. Ciascuno appare concentrato nell’atto di scovare
(o di mostrare) la propria “grande” bellezza: a predominare
sono l’enfasi, l’eccesso, la volgarità, lo stordimento, il gioco delle
apparenze, che occultano un infantilismo e una difficoltà a conciliare
l’immagine esterna con una dimensione interiore, profonda e reale.
La grande bellezza.
Infelice ricerca
di Elena Mosconi
«C
ercavo la grande bellezza, ma non l’ho trovata». La confessione di Jep Gambardella, a
pochi minuti dalla conclusione del film,
getta una luce definitiva – per quanto debole e opaca – sulla ricerca, umana e professionale, compiuta dal protagonista. Dunque è
la grande bellezza ciò di cui questo dandy, un tempo scrittore e
ora giornalista a tempo perso, va in cerca nelle lunghe camminate notturne, nei salotti, nelle terrazze e nelle feste di una autoreferenziale “buona società” romana, negli squarci su giardini e
monumenti storici, negli orizzonti celesti interrotti da uno skyline
familiare e fascinatorio. E la grande bellezza –
siamo autorizzati a pensare – è anche il contenuto del romanzo che Gambardella cerca inva- Elena Mosconi
no di scrivere da più di quarant’anni, seguito è ricercatrice presso l’Università Cattolica
ideale del suo precedente, fortunatissimo e, di Milano, dove insegna Storia e critica del
sembra, universalmente conosciuto, libro cinema. È autrice di L’impressione del film.
Contributi per una storia del cinema italiano
L’apparato umano.
1895-1945 (Vita e Pensiero, Milano 2006);
Sgombriamo subito il campo da un equivoco: di recente ha curato Nero su bianco.
l’impresa del gioco delle corrispondenze, dei Le politiche per il cinema negli ottant’anni
riferimenti a fatti e personaggi precisi, appare della «Rivista del cinematografo»
riduttiva e di corto raggio: troppo banale la (Eds, Roma 2008); Moltiplicare l’istante.
caricatura di donne intellettuali “di partito” o Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia
di anziane suore in odore di santità; troppo e cinema (Il Castoro, Milano 2007
marcato il registro grottesco con cui è presen- con E. Dagrada e S. Paoli).
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tato ciascuno degli attori di questo triste teatrino umano per avvalorare qualsiasi tentativo di accostamento anche solo a una pallida idea di bellezza. Come spesso accade nei film di Sorrentino,
nessuno dei personaggi è tale da suscitare una vera compassione,
o una possibilità di piena identificazione da parte dello spettatore. Tanto meno il protagonista che, a dispetto degli impeccabili
abiti di sartoria, della capacità di comportarsi nelle situazioni ufficiali, della recitazione ironica, divertita e sopra le righe, dei moti
di arguzia, della continua volontà di sdrammatizzare, appare sempre troppo fastidioso, saccente e al tempo stesso fragile e banale
per rimandare anche solo distrattamente all’idea di una bellezza
che sia davvero grande.
Potremmo allora pensare che la grande bellezza sia la città di
Roma, presente nel film anche attraverso lo specchio della sua
memoria cinematografica. Effettivamente il tono solenne della
regia, sostenuto da maestosi movimenti di macchina, dalla qualità della fotografia di Luca Bigazzi, predispone lo spettatore alla
ricerca di un punto di vista superiore, elevato. Sorrentino dà spazio a una monumentalità insolita, che si esprime nella scelta di
punti di vista irreali, di accostamenti stranianti. Si pensi all’immagine di San Pietro colta attraverso il buco della serratura del
Priorato dei Cavalieri di Malta, sull’Aventino; oppure alla botola
circolare attraverso la quale il protagonista comunica con una
bambina all’interno del Tempio di San Pietro in Montorio – il
tempietto di Bramante sul Gianicolo – che ne reduplica la perfetta circolarità; ma anche alla terrazza dell’appartamento di
Gambardella, ideale quanto improbabile prolungamento del
Colosseo; alle fontane (quella dell’Acqua Paola, o la felliniana
fontana di Trevi), lavacri inefficaci di una società malata. La bellezza di Roma, se mai è esistita, sembra appannaggio di un passato remoto; così dice la fredda nobiltà dei numerosi marmi che
risaltano nelle riprese notturne, oppure negli ampi spazi vuoti
delle inquadrature che li contengono, o ancora nelle loro auree
cornici museali (dai musei capitolini a Palazzo Altemps, dal
Museo Nazionale etrusco di Villa Giulia a Palazzo Braschi).
Tra passato e presente
Di questa impossibile convivenza tra passato e presente è simbolo l’accostamento iniziale tra una donna che, mentre fuma, legge
un giornale sportivo e la statua del patriota Giuseppe Avezzana,
valoroso combattente nei moti del 1821 e al Volturno, poi parlamentare italiano. Colti prima di schiena e quindi frontalmente
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in modo da apparire (ma senza esserlo realmente) seduti accanto
su di una medesima panchina, il severo eroe del passato e la
donna dei giorni nostri, banalmente interessata alle sorti del calciatore Totti, si dispongono “alla pari” a fronteggiare il sentimento del tempo, suscitando il senso di un contrasto già all’interno dell’inquadratura.
Sorrentino – nel suo vagare libero e turbinoso di pensieri – non
concede requie all’esperienza estetica ma la contraddice, la commenta, la devia o la circoscrive continuamente, nell’ottica di provocare attivamente la riflessione in chi guarda. Allo stesso modo
il colpo di cannone sferrato all’inizio del film contiene tutta l’ambiguità dei simboli presenti all’interno della pellicola: non solo
marca l’ingresso nel mondo finzionale, nella grana di una materia espressiva “altra” rispetto alla realtà, ma richiama l’intera storia dello spettacolo (quello delle fiere, dei circhi con i loro numeri magici e illusori, quello del cinema più epico e spettacolare);
inoltre rinvia alla promessa di qualcosa di eccezionale e straordinario, evocando la meraviglia che dovrebbe accompagnarsi –
secondo l’indicazione del titolo – alla grande bellezza del film.
Ma questa meraviglia, continuamente ricercata, risuona sul
vuoto, destinata com’è a non essere mai trovata. «O Roma o
morte», è la prima traccia scritta che appare subito dopo lo sparo,
primo ancoraggio referenziale per uno spettatore affascinato dalle
belle immagini di Sorrentino ma ancora spaesato per il loro dinamismo, per la mobilità senza pace della macchina da presa. A
distanza di nemmeno due minuti, l’accasciarsi di un turista
orientale a terra dopo aver scattato fotografie della città eterna
suggerisce come la morte (metaforica) sia l’inevitabile destino
che attende un’epoca incapace di far rivivere l’antico splendore
della città.
Condannata a un’inevitabile rimozione, la grande bellezza continua tuttavia ad essere ricercata da Jep Gambardella nel suo stanco ma incessante incedere: un camminare senza meta che assomiglia ai trenini delle feste, «i più belli del mondo... perché non
vanno da nessuna parte», osserva il protagonista. Come già quasi
cent’anni fa Robert Walser, lo scrittore che aveva fatto della propria passeggiata – e degli incontri casuali che questa determinava – un’occasione narrativa, Servillo è il nuovo dandy del terzo
millennio; è l’erede del flâneur di baudeleriana memoria proiettato in un nuovo orizzonte estetico non più moderno – come
quello di Walter Benjamin –, ma definitivamente post (o iper)
moderno.
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La ricerca della bellezza
Le tracce di questo mutato panorama socio-culturale si rivelano
nei modi e nei luoghi della ricerca della bellezza stessa.
Gambardella prova a coglierla innanzitutto nella gente: un’umanità assortita, infelice, straniata e prodigiosa come quella di un
nuovo circo, sempre più mediatico ed esibizionista rispetto a
quello di Fellini, dove trovano posto professionisti di successo,
direttrici di giornali popolari, intellettuali, artisti, falliti.
Ciascuno appare concentrato nell’atto di scovare (o di mostrare)
la propria “grande” bellezza: a predominare sono l’enfasi, l’eccesso, la volgarità, lo stordimento, il gioco delle apparenze, che
occultano un infantilismo e una difficoltà a conciliare l’immagine esterna con una dimensione interiore, profonda e reale.
Di fronte a questo evidente disagio, sottolineato dal ritmo martellante della technodance che ripete ossessivamente ritornelli
banali durante le feste, la ricerca della bellezza per Gambardella
si sposta nel proprio passato, nel recupero della memoria del
tempo incontaminato della giovinezza e del possibile, dove tutto
avrebbe potuto essere, accadere. In uno spazio aperto sull’infinito (la spiaggia e il mare), dagli esiti inconoscibili: lo spazio
tutto privato e immaginario della nostalgia («Su un’isola, ad
agosto, in vacanza. Io avevo diciott'anni, lei venti. Era notte. Al
porticciolo. Sotto un faro. Io provai a baciarla, ma lei si girò dall'altra parte. […] Io non mi muovevo: non avrei potuto muovermi. Poi lei fece un passo indietro e mi disse... Lei fece un
passo indietro e disse...»).
Il ricordo di tale amore (im)possibile determina poi l’incapacità
di riviverne altri con la stessa intensità e purezza, risuscitando
l’antico sentimento nella vita presente: è per questo che la giovane prostituta Ramona (Sabrina Ferilli), dopo aver instaurato con
il protagonista un rapporto di amicizia e complicità, esce di
scena, letteralmente muore, scomparendo dalla sua vita con la
stessa casualità con cui vi era entrata.
Che sia dunque l’arte il luogo dell’epifania della grande bellezza?
Servillo assiste a due eventi artistici che presentano alcuni tratti
comuni: oltre ad essere agiti da donne (una giovane e una bambina prodigio), tradizionalmente escluse dal novero delle auctoritates dell’arte classica, sono performance, ossia momenti di produzione artistica dal vivo che si oppongono alla musealizzazione
della città di Roma. Ma nemmeno la violenta e autodistruttiva
corsa dell’artista Talia Concept (Anita Kravos) nuda contro
l’Acquedotto Claudio, oppure la sua intervista sulle vibrazioni
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intime, o ancora la furia cromatica con cui una bambina prodigio getta barattoli di vernice sulla tela, piangendo, sembrano
riscattare il valore dell’arte in nome di una vera emozione estetica che non sia uno shock prevedibile, oppure la messa in scena
dell’arte stessa. La bellezza dell’arte lascia altrettanto perplessi se
si riduce al narcisismo di un artista (questa volta uomo) che espone una foto per ogni giorno della sua vita.
Da ultimo si può provare a estetizzare persino la vita con le sue cerimonie, i suoi rituali: feste e conversazioni private; cene, matrimoni
e funerali. È l’amara scelta del vedersi vivere dal di fuori, a un tempo
attori e spettatori dell’eterna commedia umana. Dunque non solo
la grande bellezza è assente, confinata nel fuoricampo, ma anche la
sua ricerca sembra condurre a un sicuro fallimento. Questa, in
fondo, appare l’amara consapevolezza del “sopravvissuto”, il disincantato ex scrittore sessantacinquenne, bloccato nel tentativo di
lasciare ai posteri le sue profonde riflessioni.
Oppure è il titolo del film ad essere fuorviante.
L’assenza della grande bellezza, la perdita di categorie estetiche
totalizzanti, ha come contropartita la vorace necessità di “piccole bellezze”, di ricerche di breve raggio capaci di stupire chi le
compie, di accenderne i sensi e la mente tenendolo vivo, attento,
sollecito. Piccole bellezze – se si prova a guardare al di là del grottesco, dell’eccesso – le offrono tutti i personaggi del film, a partire da quelli più vulnerabili: Ramona e Romano (Carlo
Verdone), novelli Romolo e Remo che nel nome stesso dichiarano il proprio legame sofferto con la madre Roma; madri che cercano disperatamente le figlie; suore che giocano, nei loro abiti
fuori tempo, con lo stesso piacere infantile dei bambini. Piccole
bellezze sono le armonie di un arcano sapore religioso di Lele
Marchitelli, The Beatitudes del Kronos Quartet o il Dies Irae di
Zbigniew Preisner che nella parte finale del film insinuano un
cambiamento di rotta.
In questa chiave si può comprendere il significato dei due volumi, l’uno già scritto e l’altro da fare, che l’autore chiama in causa.
L’opera passata, L’apparato umano, così celebre da essere conosciuto persino dall’anziana e quasi santa suora che, a dispetto
delle sue ripugnanti grinze, va in cerca di una bellezza tutta interiore servendo i poveri e salendo in ginocchio i gradini della scala
santa in segno di purificazione, è il romanzo (ossia l’opera d’arte) in cui si rispecchia la vita, il significato profondo dell’essere,
dei suoi dubbi e dei suoi problemi. L’apparato umano – scritto
quarant’anni prima – è l’opera della modernità, quella stessa che
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avrebbe potuto concepire Fellini con La dolce vita o Otto e mezzo:
la vera opera universale, in quanto ricerca ed espressione piena
dell’umano.
Al contrario, concepire oggi, all’epoca del Grande fratello, un’opera come La grande bellezza è segno di una hybris, di un’ambizione smisurata e ipertrofica: per questo è un libro impossibile da
portare a termine, poiché dopo la completa separazione tra
forma e contenuto, dopo la scomparsa degli universali, non vi è
nulla che possa essere veramente grande.
Nel suo nuovo libro – che sembra finalmente pronto a scrivere al
termine del film – Jep Gambardella non parlerà della “bellezza
grande”, o nemmeno del sublime o qualcosa che vi assomigli. È
probabile invece che racconti – come egli stesso ammette – «il
silenzio e il sentimento. L'emozione e la paura» ma, soprattutto,
«gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza».
Come spiega infatti Sorrentino in un’intervista contenuta nel
pressbook del film, «una delle impagabili meraviglie che offre il
racconto cinematografico è quella di provare a frequentare un
sentimento e a trovare forme di bellezza dappertutto, anche nei
luoghi scarnificati dai più elementari principi estetici e morali.
È un’impresa che può rivelarsi spiazzante e faticosa, ma anche
profondamente libera».
Forse è proprio questo l’aspetto più affascinante di La grande bellezza, il motivo ultimo che ha spinto l’Italia a candidarlo al premio Oscar nonostante i pareri discordanti riscossi: una visionarietà che – nonostante tutto – non smette di credere alla forza
rivelativa dell’immagine.
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