Dispense Storia del pensiero sociologico A.A. 2011-2012

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Dispense Storia del pensiero sociologico A.A. 2011-2012
Marcello Strazzeri
Figurazioni letterarie
del mutamento sociale
nella prospettiva di Elias
Antologia
Dispense per l’insegnamento di
Storia del pensiero sociologico, Prof. Marcello Strazzeri,
C.d.L Sociologia, A.A. 2011-12
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Indice
I. Coinvolgimento e distacco nella fiumana del progresso .........................5
Da I Malavoglia di Giovanni Verga
Introduzione .....................................................................................................7
Dalle Novelle Rusticane di Giovanni Verga
Il Reverendo.....................................................................................................8
La Roba..........................................................................................................12
Pane Nero.......................................................................................................14
II. Persistenza e mutamento nelle relazioni di interdipendenza..............29
Da I Vicerè di Federico De Roberto
Dialogo tra Consalvo e la zia legittimista ......................................................31
Discorso di Consalvo ai suoi elettori .............................................................33
III. Figurazioni del conflitto intergenerazionale .......................................39
Da I Vecchi e i Giovani di Luigi Pirandello
Don Cosmo Lauretano ...................................................................................41
Donna Caterina Lauretano .............................................................................41
Lando Lauretano ............................................................................................43
La morte del garibaldino Mauro Mortara ......................................................45
IV. Figurazioni cronotopiche della decadenza ..........................................47
Da Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Dialogo tra il Principe di Salina e Tancredi...................................................49
Don Calogero Sedàra .....................................................................................50
Dialogo tra il Principe di Salina e Chevalley.................................................51
La fine del Principe di Salina.........................................................................56
Bendicò ..........................................................................................................57
V. La Sicilia come metafora ........................................................................59
Da Le parrocchie di Regalpetra di Leonardo Sciascia
Prefazione ......................................................................................................61
Da Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia
Sbirri e cornuti ...............................................................................................62
L’Italia va diventando Sicilia.........................................................................63
Da Gli Zii di Sicilia di Leonardo Sciascia
La morte di Stalin...........................................................................................65
Da Il Contesto di Leonardo Sciascia
Colloquio tra l’ispettore Rogas ed il presidente della Corte Suprema Riches.......... 66
Colloquio tra il giornalista Cusan ed il vicesegretario del Partito Rivoluzionario ... 67
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CAPITOLO I
Coinvolgimento e distacco nella fiumana del progresso
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Da I Malavoglia di Giovanni Verga
Introduzione
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono
nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e
quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente
felice, la vaga bramosìa dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star
meglio. Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui
alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni
che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con
maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo
disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato
cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi
sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi,
la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro don
Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del
quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato.
Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell'Onorevole
Scipioni, per arrivare all'Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte
coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel
sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell'azione umana si allarga, il congegno
della passione va complicandosi; i tipi si disegnano cdrtamente meno originali, ma più
curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l'educazione, ed anche tutto quello
che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad
individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli
artifici della parola onde dar rilievo all'idea, in un'epoca che impone come regola di buon
gusto un eguale formalismo per mascherare un'uniformità di sentimenti e d'idee. Perché la
produzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme
di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al
soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione
dell'argomento generale. Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che
segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato,
visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguandosi le
irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in
virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito
sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino negli
interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare
l'attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto
lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è
legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento
incessante; e quando si conosce dove vada quest'immensa corrente dell'attività umana,
non si domanda al certo come ci va. Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana,
guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che
si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia
disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sovravvegnenti, i vincitori d'oggi,
affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l'Onorevole Scipioni, l'Uomo
di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e
annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo
sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte
nella lotta per l'esistenza, pel benessere, per l'ambizione - dall'umile pescatore al nuovo
arricchito - alla intrusa nelle alte classi - all'uomo dall'ingegno e dalle volontà robuste, il
quale si sente la forza di dominare gli altri uomini, di prendersi da sé quella parte di
considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di
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fare la legge, lui nato fuori della legge - all'artista che crede di seguire il suo ideale
seguendo un'altra forma dell'ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di
giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un'istante fuori del campo della lotta per studiarla
senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la
rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere.
Milano, 19 gennaio 1881.
Dalle Novelle Rusticane di Giovanni Verga
Il Reverendo
Di reverendo non aveva più né la barba lunga, né lo scapolare di zoccolante, ora che si
faceva radere ogni domenica, e andava a spasso colla sua bella sottana di panno fine, e il
tabarro colle rivolte di seta sul braccio. Allorché guardava i suoi campi, e le sue vigne, e i
suoi armenti, e i suoi bifolchi, colle mani in tasca e la pipetta in bocca, se si fosse
rammentato del tempo in cui lavava le scodelle ai cappuccini, e che gli avevano messo il
saio per carità. si sarebbe fatta la croce colla mano sinistra.
Ma se non gli avessero insegnato a dir messa, e a leggere e a scrivere per carità, non
sarebbe riescito a ficcarsi nelle primarie casate del paese, né ad inchiodare nei suoi bilanci
il nome di tutti quei mezzadri che lavoravano e pregavano Dio e la buon’annata per lui, e
bestemmiavano poi come turchi al far dei conti. «Guarda ciò che sono e non da chi son
nato» dice il proverbio. Da chi era nato lui, tutti lo sapevano, ché sua madre gli scopava
tuttora la casa. Il Reverendo non aveva la boria di famiglia, no; e quando andava a fare il
tresette dalla baronessa, si faceva aspettare in anticamera dal fratello, col lanternone in
mano.
Nel far del bene cominciava dai suoi, come Dio stesso comanda; e s’era tolta in casa
una nipote, belloccia, ma senza camicia, che non avrebbe trovato uno straccio di marito; e
la manteneva lui, anzi l’aveva messa nella bella stanza coi vetri alla finestra, e il letto a
cortinaggio, e non la teneva per lavorare, o per sciuparsi le mani in alcun ufficio
grossolano. Talché parve a tutti un vero castigo di Dio, allorquando la poveraccia fu presa
dagli scrupoli, come accade alle donne che non hanno altro da fare, e passano i giorni in
chiesa a picchiarsi il petto pel peccato mortale — ma non quando c’era lo zio, ch’ei non
era di quei preti i quali amano farsi vedere in pompa magna sull’altare dall’innamorata.
Le donne, fuori di casa, gli bastava accarezzarle con due dita sulla guancia, paternamente,
o dallo sportellino del confessionario, dopo che s’erano risciacquata la coscienza, e
avevano vuotato il sacco dei peccati propri ed altrui, ché qualche cosa di utile ci si
apprendeva sempre, per dar la benedizione, uno che speculasse sugli affari di campagna.
Benedetto Dio! egli non pretendeva di essere un sant’uomo, no! I sant’uomini
morivano di fame; come il vicario il quale celebrava anche quando non gli pagavano la
messa; e andava attorno per le case de’ pezzenti con una sottana lacera che era uno
scandalo per la Religione.
Il Reverendo voleva portarsi avanti; e ci si portava, col vento in poppa; dapprincipio
un po’ a sghembo per quella benedetta tonaca che gli dava noia, tanto che per buttarla
nell’orto del convento aveva fatta causa al Tribunale della Monarchia, e i confratelli
l’avevano aiutato a vincerla per levarselo di torno, perché sin quando ci fu lui in convento
volavano le panche e le scodelle in refettorio ad ogni elezione di provinciale; il padre
Battistino, un servo di Dio robusto come un mulattiere, l’avevano mezzo accoppato, e
padre Giammaria, il guardiano, ci aveva rimesso tutta la dentatura. Il Reverendo, lui,
stava chiotto in cella, dopo di aver attizzato il fuoco, e in tal modo era arrivato ad
esser reverendo con tutti i denti, che gli servivano bene; e al padre Giammaria che era
stato lui a ficcarsi quello scorpione nella manica, ognuno diceva: — Ben gli sta! —
Ma il padre Giammaria, buon uomo, rispondeva, masticandosi le labbra colle gengive
nude:
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— Che volete? Costui non era fatto per cappuccino. È come papa Sisto, che da porcaio
arrivò ad essere quello che fu. Non avete visto ciò che prometteva da ragazzo? —
Per questo padre Giammaria era rimasto semplice guardiano dei Cappuccini, senza
camicia e senza un soldo in tasca, a confessare per l’amor di Dio, e cuocere la minestra
per i poveri.
Il Reverendo, da ragazzo, come vedeva suo fratello, quello del lanternone, rompersi la
schiena a zappare, e le sorelle che non trovavano marito neanche a regalarle, e la mamma
la quale filava al buio per risparmiar l’olio della lucerna, aveva detto: — Io voglio esser
prete! — Avevano venduto la mula e il campicello, per mandarlo a scuola, nella speranza
che se giungevano ad avere il prete in casa ci avevano meglio della chiusa e della mula.
Ma ci voleva altro per mantenerlo al seminario! Allora il ragazzo si mise a ronzare
attorno al convento perché lo pigliassero novizio; e un giorno che si aspettava il
provinciale, e c’era da fare in cucina, lo accolsero per dare una mano. Padre Giammaria,
il quale aveva il cuore buono, gli disse: — Ti piace lo stato? e tu stacci —. E fra Carmelo,
il portinaio, nelle lunghe ore d’ozio, che s’annoiava seduto sul muricciuolo del chiostro a
sbattere i sandali l’un contro l’altro, gli mise insieme un po’ di scapolare coi pezzi di saio
buttati sul fico a spauracchio delle passere. La mamma, il fratello e la sorella protestavano
che se entrava frate era finita per loro, e ci rimettevano i denari della scuola, perché non
gli avrebbero cavato più un baiocco. Ma lui che era frate nel sangue, si stringeva le spalle,
e rispondeva: — Sta a vedere che uno non può seguire la vocazione a cui Dio l’ha
chiamato! —
Il padre Giammaria l’aveva preso a ben volere perché era lesto come un gatto in
cucina, e in tutti gli uffici vili, persino nel servir la messa, quasi non avesse fatto mai altro
in vita sua, cogli occhi bassi, e le labbra cucite come un serafino. — Ora che non serviva
più la messa aveva sempre quegli occhi bassi e quelle labbra cucite, quando si trattava di
un affare scabroso coi signori, che c’era da disputarsi all’asta le terre del comune, o da
giurare il vero dinanzi al Pretore.
Di giuramenti, nel 1854, dovette farne uno grosso davvero, sull’altare, davanti alla
pisside, mentre diceva la santa messa, ché la gente lo accusava di spargere il colèra, e
voleva fargli la festa.
— Per quest’ostia consacrata che ho in mano — disse lui ai fedeli inginocchiati sulle
calcagna — sono innocente , figliuoli miei! Del resto vi prometto che il flagello cesserà
fra una settimana. Abbiate pazienza! —
Sì, avevano pazienza! per forza dovevano averla! Poiché egli era tutt’uno col giudice e
col capitan d’armi, e il re Bomba gli mandava i capponi a Pasqua e a Natale per
disobbligarsi, dicevasi; e gli aveva mandato anche il contravveleno, caso mai succedesse
una disgrazia.
Una vecchia zia che aveva dovuto tirarsi in casa, per non fare mormorare il prossimo,
e non era più buona che a mangiare il pane a tradimento, aveva sturato una bottiglia per
un’altra, e acchiappò il colèra bell’e buono; ma il nipote stesso, per non fare insospettir la
gente, non aveva potuto amministrarle il contravveleno. — Dammi il contravveleno!
dammi il contravveleno! — supplicava la vecchia, già nera come il carbone, senza aver
riguardo al medico ed al notaio ch’erano lì presenti, e si guardavano in faccia imbarazzati.
Il Reverendo, colla faccia tosta, quasi non fosse fatto suo, borbottava stringendosi nelle
spalle: — Non le date retta, che sta delirando —. Il contravveleno, se pur ce l’aveva, il re
glielo aveva mandato sotto suggello di confessione, e non poteva darlo a nessuno. Il
giudice in persona era andato a chiederglielo ginocchioni per sua moglie che moriva, e
s’era sentito rispondere dal Reverendo:
— Comandatemi della vita, amico caro; ma per cotesto negozio, proprio, non posso
servirvi —.
Questa era storia che tutti la sapevano, e siccome sapevano che a furia di intrighi e
d’abilità era arrivato ad essere l’amico intrinseco del re, del giudice e del capitan d’armi,
che aveva la polizia come l’Intendente, e i suoi rapporti arrivavano a Napoli senza passar
per le mani del Luogotenente, nessuno osava litigare con lui, e allorché gettava gli occhi
su di un podere da vendere, o su di un lotto di terre comunali che si affittavano all’asta,
gli stessi pezzi grossi del paese, se s’arrischiavano a disputarglielo, lo facevano coi
salamelecchi, e offrendogli una presa di tabacco.
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Una volta, col barone istesso, durarono una mezza giornata a tira e molla. Il barone
faceva l’amabile, e il Reverendo seduto in faccia a lui, col tabarro raccolto fra le gambe,
ad ogni offerta d’aumento gli presentava la tabacchiera d’argento, sospirando: — Che
volete farci, signor barone. Qui è caduto l’asino, e tocca a noi tirarlo su —. Finché si
pappò l’aggiudicazione, e il barone tirò su la presa, verde dalla bile.
Cotesto l’approvavano i villani, perché i cani grossi si fanno sempre la guerra fra di
loro, se capita un osso buono, e ai poveretti non resta mai nulla da rosicare. Ma ciò che li
faceva mormorare era che quel servo di Dio li smungesse peggio dell’anticristo, allorché
avevano da spartire con lui, e non si faceva scrupolo di chiappare la roba del prossimo,
perché gli arnesi della confessione li teneva in mano e se cascava in peccato mortale
poteva darsi l’assoluzione da sè. — Tutto sta ad averci il prete in casa! — sospiravano. E
i più facoltosi si levavano il pan di bocca per mandare il figliuolo al seminario.
— Quando uno si dà alla campagna, bisogna che ci si dia tutto, — diceva il
Reverendo, onde scusarsi se non usava riguardi a nessuno. E la messa stessa lui non la
celebrava altro che la domenica, quando non c’era altro da fare, che non era di quei
pretucoli che corrono dietro al tre tarì della messa. Lui non ne aveva bisogno. Tanto che
Monsignor Vescovo, nella visita pastorale, arrivando a casa sua, e trovandogli il breviario
coperto di polvere, vi scrisse su col dito «deo gratias»! Ma il Reverendo aveva altro in
testa che perdere il tempo a leggere il breviario, e se ne rideva del rimprovero di
Monsignore. Se il breviario era coperto di polvere, i suoi buoi erano lucenti, le pecore
lanute, e i seminati alti come un uomo, che i suoi mezzadri almeno se ne godevano la
vista, e potevano fabbricarvi su dei bei castelli in aria, prima di fare i conti col padrone. I
poveretti slargavano tanto di cuore. — Seminati che sono una magìa! Il Signore ci è
passato di notte! Si vede che è roba di un servo di Dio e conviene lavorare per lui che ci
ha in mano la messa e la benedizione! — In maggio, all’epoca in cui guardavano in cielo
per scongiurare ogni nuvola che passava, sapevano che il padrone diceva la messa pella
raccolta, e valeva più delle immagini dei santi, e dei pani benedetti per scacciare il
malocchio e la malannata. Anzi il Reverendo non voleva che spargessero i pani benedetti
pel seminato, perché non servono che ad attirare i passeri e gli altri uccelli nocivi. Delle
immagini sante poi ne aveva le tasche piene, giacché ne pigliava quante ne voleva in
sagrestia, di quelle buone, senza spendere un soldo, e le regalava ai suoi contadini.
Ma alla raccolta, giungeva a cavallo, insieme a suo fratello, il quale gli faceva da
campiere, collo schioppo ad armacollo, e non si muoveva più, dormiva lì, nella malaria,
per guardare ai suoi interessi, senza badare neanche a Cristo. Quei poveri diavoli, che
nella bella stagione avevano dimenticato i giorni duri dell’inverno, rimanevano a bocca
aperta sentendosi sciorinare la litania dei loro debiti. — Tanti rotoli di fave che tua
moglie è venuta a prendere al tempo della neve. — Tanti fasci di sarmenti consegnati al
tuo figliuolo. — Tanti tumoli di grano anticipati per le sementi — coi frutti — a tanto il
mese. — Fa il conto —. Un conto imbrogliato. Nell’anno della carestia, che lo zio
Carmenio ci aveva lasciato il sudore e la salute nelle chiuse del Reverendo, gli toccò di
lasciarvi anche l’asino, alla messe, per saldare il debito, e se ne andava a mani vuote,
bestemmiando delle parolacce da far tremare cielo e terra. Il Reverendo, che non era lì per
confessare, lasciava dire, e si tirava l’asino nella stalla.
Dopo che era divenuto ricco aveva scoperto nella sua famiglia, la quale non aveva mai
avuto pane da mangiare, certi diritti ad un beneficio grasso come un canonicato, e
all’epoca dell’abolizione delle manimorte aveva chiesto lo svincolo e s’era pappato il
podere definitivamente. Solo gli seccava per quei denari che si dovevano pagare per lo
svincolo, e dava del ladro di Governo il quale non rilascia gratis la roba dei beneficii a
chi tocca.
Su questa storia del Governo egli aveva dovuto inghiottir della bile assai, fin dal 1860,
quando avevano fatto la rivoluzione, e gli era toccato nascondersi in una grotta come un
topo, perché i villani, tutti quelli che avevano avuto delle quistioni con lui, volevano
fargli la pelle. In seguito era venuta la litania delle tasse, che non finiva più di pagare, e il
solo pensarci gli mutava in tossico il vino a tavola. Ora davano addosso al Santo Padre, e
volevano spogliarlo del temporale. Ma quando il Papa mandò la scomunica per tutti
coloro che acquistassero beni delle manimorte, il Reverendo sentì montarsi la mosca al
naso, e borbottò:
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— Che c’entra il Papa nella roba mia? Questo non ci ha a far nulla col temporale. — E
seguitò a dir la santa messa meglio di prima.
I villani andavano ad ascoltare la sua messa, ma pensavano senza volere alle ladrerie
del celebrante, e avevano delle distrazioni. Le loro donne, mentre gli confessavano i
peccati, non potevano fare a meno di spifferargli sul mostaccio:
— Padre, mi accuso di avere sparlato di voi che siete un servo di Dio, perché
quet’inverno siamo rimasti senza fave e senza grano a causa vostra. — A causa mia! Che
li faccio io il bel tempo o la malannata? Oppure devo possedere le terre perché voialtri ci
seminiate e facciate i vostri interessi? Non ne avete coscienza, né timore di Dio? Perché
ci venite allora a confessarvi? Questo è il diavolo che vi tenta per farvi perdere il
sacramento della penitenza. Quando vi mettete a fare tutti quei figliuoli non ci pensate
che son tante bocche che mangiano? Ve li ho fatti far io tutti quei figliuoli? Io mi son
fatto prete per non averne —.
Però assolveva, come era obbligo suo; ma nondimeno nella testa di quella gente rozza
restava qualche confusione fra il prete che alzava la mano a benedire in nome di Dio, e il
padrone che arruffava i conti, e li mandava via dal podere col sacco vuoto e la falce sotto
l’ascella.
— Non c’è che fare, non c’è che fare — borbottavano i poveretti rassegnati. — La
brocca non ci vince contro il sasso, e col Reverendo non si può litigare, ché lui sa la
legge! —
Se la sapeva! Quand’erano davanti al giudice, coll’avvocato, egli chiudeva la bocca a
tutti col dire: — La legge è così e così —. Ed era sempre come giovava a lui. Nel buon
tempo passato se ne rideva dei nemici, degli invidiosi. Avevano fatto un casa del diavolo,
erano andati dal vescovo, gli avevano gettato in faccia la nipote, massaro Carmenio e la
roba malacquistata, gli avevano fatto togliere la messa e la confessione. Ebbene? E poi?
Egli non aveva bisogno del vescovo né di nessuno. Egli aveva il fatto suo ed era rispettato
come quelli che in paese portano la battuta; egli era di casa della baronessa, e più
facevano del chiasso intorno a lui, peggio era lo scandalo. I pezzi grossi non vanno
toccati, nemmeno dal vescovo, e ci si fà di berretto, per prudenza, e per amor della pace.
Ma dopo che era trionfata la eresia, colla rivoluzione, a che gli serviva tutto ciò? I villani
che imparavano a leggere e a scrivere, e vi facevano il conto meglio di voi; i partiti che si
disputavano il municipio, e si spartivano la cuccagna senza un riguardo al mondo; il
primo pezzente che poteva ottenere il gratuito patrocinio, se aveva una quistione con voi,
e vi faceva sostener da solo le spese del giudizio! Un sacerdote non contava più né presso
il giudice , né presso il capitano d’armi; adesso non poteva nemmeno far imprigionare
con una parolina, se gli mancavano di rispetto, e non era più buono che a dir messa, e
confessare, come un servitore del pubblico. Il giudice aveva paura dei giornali,
dell’opinione pubblica, di quel che avrebbero detto Caio e Sempronio, e trinciava giudizi
come Salomone! Perfino la roba che si era acquistata col sudore della fronte gliela
invidiavano, gli avevano fatto il malocchio e la iettatura; quel po’ di grazia di Dio che
mangiava a tavola, gli dava gran travaglio, la notte, mentre suo fratello, il quale faceva
una vita dura, e mangiava pane e cipolla, digeriva meglio di uno struzzo, e sapeva che di
lì a cent’anni, morto lui, sarebbe stato il suo erede, e si sarebbe trovato ricco senza
muovere un dito. La mamma, poveretta, non era più buona a nulla, e campava per penare
e far penare gli altri, inchiodata nel letto dalla paralisi, che bisognava servir lei piuttosto;
e la nipote istessa, grassa, ben vestita, provvista di tutto, senza altro da fare che andare in
chiesa, lo tormentava, quando le saltava in capo di essere in peccato mortale, quasi ei
fosse di quegli scomunicati che avevano spodestato il Santo Padre, e gli aveva fatto levar
la messa dal vescovo.
— Non c’è più religione, né giustizia, né nulla! — brontolava il Reverendo come
diventava vecchio. — Adesso ciascuno vuol dir la sua. Chi non ha nulla vorrebbe
chiapparvi il vostro. — Levati di lì, che mi ci metto io! — Chi non ha altro da fare viene a
cercarvi le pulci in casa. I preti vorrebbero ridurli a sagrestani, dir messa e scopare la
chiesa. La volontà di Dio non vogliono farla più, ecco cos’è! —
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La roba
Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare
morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte,
e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se
domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal
caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa
campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua
canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: — Qui di chi è?
— sentiva rispondersi: — Di Mazzarò —. E passando vicino a una fattoria grande quanto
un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra
del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: — E
qui? — Di Mazzarò —. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e
vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva
più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e
il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo
sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: — Di Mazzarò —. Poi veniva un
uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a
marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il
fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di
Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado
lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria,
sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva
il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora
no, e il canto solitario perduto nella valle. — Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di
Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che
andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco.
Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si
camminasse sulla pancia. — Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non
gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si
sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì
ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo.
Infatti, colla testa come un brillanle, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima
veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento;
senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di
avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli
parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che
tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero
diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta
nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di
feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava
la vista, ed egli aveva la vista lunga — dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di
dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del
cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca
la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di
formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino
grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i
contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la
campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde
giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del
tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un
fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello
delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era
costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
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Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava
senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole
a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col
soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per
questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a
fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che
arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le
donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive,
non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e
al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove
sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i
mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella
gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le
lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle
madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi
mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: —
Curviamoci, ragazzi! — Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola
fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che
bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva
il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d’argento, ché lui
non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia
soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò
coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per
lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la
notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera,
e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule —
egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al
mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba.
Quando uno é fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol
stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di
Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone
di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che
quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano
anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui
doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. — Costui vuol essere
rubato per forza! — diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei
calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: — Chi è minchione se
ne stia a casa, — la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare —. Invece egli, dopo che
ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la
vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula,
senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli
occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e
costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e
infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte
bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro
che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto
vendere, dicendo a Mazzarò: — Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te —. Ed era
vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli
dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro.
— Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò! — diceva la gente; e
non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante
fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era
un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la
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roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva
prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e
farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per
esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a
fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a
prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che
Mazzarò se l’acchiappava — per un pezzo di pane. — E quante seccature Mazzarò
doveva sopportare! — I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che
mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per
scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non
avevano da mangiare.
— Lo vedete quel che mangio io? — rispondeva lui, — pane e cipolla! e sì che ho i
magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba —. E se gli domandavano un
pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: — Che, vi pare che l’abbia rubata? Non
sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? — E se gli domandavano
un soldo rispondeva che non l’aveva.
E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per
far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa.
Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena
metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva
arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne
venderla, né dire ch’è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla
là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad
acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla!
E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli
verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli
oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava
dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe,
per invidia, e borbottava: — Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! —
Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima,
uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le
sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: — Roba mia, vientene con me! —
Pane nero
Appena chiuse gli occhi compare Nanni, e ci era ancora il prete colla stola, scoppiò
subito la guerra tra i figliuoli, a chi toccasse pagare la spesa del mortorio, ché il reverendo
lo mandarono via coll’aspersorio sotto l’ascella.
Perché la malattia di compare Nanni era stata lunga, di quelle che vi mangiano la
carne addosso, e la roba della casa. Ogni volta che il medico spingeva il foglio di carta sul
ginocchio, per scrivere la ricetta, compare Nanni gli guardava le mani con aria pietosa, e
biascicava: — Almeno, vossignoria, scrivetela corta, per carità! — Il medico faceva il suo
mestiere. Tutti a questo mondo fanno il loro mestiere. Massaro Nanni nel fare il proprio,
aveva acchiappato quelle febbri lì, alla Lamia, terre benedette da Dio, che producevano
seminati alti come un uomo. I vicini avevano un bel dirgli: — Compare Nanni, in quella
mezzeria della Lamia voi ci lascierete la pelle! — Quasi fossi un barone — rispondeva lui
— che può fare quello che gli pare e piace! —
I fratelli, che erano come le dita della stessa mano finché viveva il padre, ora
dovevano pensare ciascuno ai casi propri. Santo aveva moglie e figliuoli sulle braccia;
Lucia rimaneva senza dote, su di una strada; e Carmenio, se voleva mangiar del pane,
bisognava che andasse a buscarselo fuori di casa, e trovarsi un padrone. La mamma poi,
vecchia e malaticcia, non si sapeva a chi toccasse mantenerla, di tutti e tre che non
avevano niente. L’è che è una bella cosa quando si può piangere i morti, senza pensare ad
altro!
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I buoi, le pecore, la provvista del granaio, se n’erano andati col padrone. Restava la
casa nera, col letto vuoto, e le facce degli orfani scure anch’esse. Santo vi trasportò le sue
robe, colla Rossa, e disse che pigliava con sé la mamma. — Così non pagava più la
pigione della casa — dicevano gli altri. Carmenio fece il suo fagotto, e andò pastore da
curatolo Vito, che aveva un pezzetto di pascolo al Carmemi; e Lucia, per non stare
insieme alla cognata, minacciava che sarebbe andata a servizio piuttosto.
— No! — diceva Santo. — Non si dirà che mia sorella abbia a far la serva agli altri.
— Ei vorrebbe che la facessi alla Rossa! — brontolava Lucia.
La quistione grossa era per questa cognata che s’era ficcata nella parentela come un
chiodo. — Cosa posso farci, adesso che ce l’ho? — sospirava Santo stringendosi nelle
spalle. — E’ bisognava dar retta alla buona anima di mio padre, quand’era tempo! —
La buon’anima glielo aveva predicato: — Lascia star la Nena, che non ha dote, né
tetto, né terra —.
Ma la Nena gli era sempre alle costole, al Castelluccio, se zappava, se mieteva, a
raccogliergli le spighe, o a levargli colle mani i sassi di sotto ai piedi; e quando si
riposava, alla porta del casamento, colle spalle al muro, nell’ora che sui campi moriva il
sole, e taceva ogni cosa:
— Compare Santo, se Dio vuole, quest’anno non le avrete perse le vostre fatiche!
— Compare Santo, se il raccolto vi va bene, dovete prendere la chiusa grande, quella
del piano; che ci son state le pecore, e riposa da due anni.
— Compare Santo, quest’inverno, se avrò tempo, voglio farvi un par di calzeroni che
vi terranno caldo —.
Santo aveva conosciuta la Nena quando lavorava al Castelluccio, una ragazza dai
capelli rossi, ch’era figlia del camparo, e nessuno la voleva. Essa, poveretta, per questo
motivo faceva festa a ogni cane che passasse, e si levava il pan di bocca per ragalare a
compare Santo la berretta di seta nera, ogni anno a santa Agrippina, e per fargli trovare un
fiasco di vino, o un pezzo di formaggio, allorché arrivava al Castelluccio. — Pigliate
questo, per amor mio, compare Santo. È di quel che beve il padrone —. Oppure: — Ho
pensato che l’altra settimana vi mancava il companatico —.
Egli non sapeva dir di no, e intascava ogni cosa. Tutt’al più per gentilezza rispondeva:
— Così non va bene, comare Nena, levarvelo di bocca voi, per darlo a me.
— Io son più contenta se l’avete voi —.
Poi, ogni sabato sera, come Santo andava a casa, la buon’anima tornava a ripetere al
figliuolo: — Lascia star la Nena, che non ha questo; lascia star la Nena, che non ha
quest’altro.
— Io lo so che non ho nulla — diceva la Nena, seduta sul muricciuolo verso il sole
che tramontava. — Io non ho né terra, né case; e quel po’ di roba bianca ho dovuto
levarmela di bocca col pane che mi mangio. Mio padre è un povero camparo, che vive
alle spalle del padrone; e nessuno vorrà togliersi addosso il peso della moglie senza dote
—.
Ella aveva però la nuca bianca, come l’hanno le rosse; e mentre teneva il capo chino,
con tutti quei pensieri dentro, il sole le indorava dietro alle orecchie i capelli color d’oro,
e le guance che ci avevano la peluria fine come le pesche; e Santo le guardava gli occhi
celesti come il fiore del lino, e il petto che gli riempiva il busto, e faceva l’onda al par del
seminato. — Non vi angustiate, comare Nena — gli diceva. — Mariti non ve ne
mancheranno —.
Ella scrollava il capo per dir di no; e gli orecchini rossi che sembravano di corallo, gli
accarezzavano le guance. — No, no, compare Santo. Lo so che non son bella, e che non
mi vuol nessuno.
— Guardate! — disse lui a un tratto, ché gli veniva quell’idea. — Guardate come sono
i pareri!... E’ dicono che i capelli rossi sieno brutti, e invece ora che li avete voi non mi
fanno specie —.
La buon’anima di suo padre, quando aveva visto Santo incapricciato della Nena che
voleva sposarla, gli aveva detto una domenica:
— Tu la vuoi per forza, la Rossa? Di’, la vuoi per forza? —
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Santo, colle spalle al muro e le mani dietro la schiena, non osava levare il capo; ma
accennava di sì, di sì, che senza la Rossa non sapeva come fare, e la volontà di Dio era
quella.
— Ci hai a pensar tu, se ti senti di campare la moglie. Già sai che non posso darti
nulla. Una cosa sola abbiamo a dirti, io e tua madre qui presente: pensaci prima di
maritarti, che il pane è scarso, e i figliuoli vengono presto —.
La mamma, accoccolata sulla scranna, lo tirava pel giubbone, e gli diceva sottovoce
colla faccia lunga: — Cerca d’innamorarti della vedova di massaro Mariano, che è ricca,
e non avrà molte pretese, perché è accidentata.
— Sì! — brontolava Santo. — Sì, che la vedova di massaro Mariano si contenterà di
un pezzente come me!... —
Compare Nanni confermò anche lui che la vedova di massaro Mariano cercava un
marito ricco al par di lei, tuttoché fosse sciancata. E poi ci sarebbe stato l’altro guaio, di
vedersi nascere i nipoti zoppi.
— Tu ci hai a pensare — ripeteva al suo ragazzo. — Pensa che il pane è scarso, e che i
figliuoli vengono presto —.
Poi, il giorno di Santa Brigida, verso sera, Santo aveva incontrato a caso la Rossa, la
quale coglieva asparagi lungo il sentiero, e arrossì al vederlo, quasi non lo sapesse che
doveva passare di là nel tornare al paese, mentre lasciava ricadere il lembo della sottana
che teneva rimboccata alla cintura per andar carponi in mezzo ai fichidindia. Il giovane la
guardava, rosso in viso anche lui, e senza dir nulla. Infine si mise a ciarlare che aveva
terminata la settimana, e se ne andava a casa. — Non avete a dirmi nulla pel paese,
comare Nena? Comandate.
— Se andassi a vendere gli asparagi verrei con voi, e si farebbe la strada insieme —
disse la Rossa. E come egli, ingrullito, rispondeva di sì col capo, di sì: ella aggiunse, col
mento sul petto che faceva l’onda:
— Ma voi non mi vorreste, ché le donne sono impicci.
— Io vi porterei sulle braccia, comare Nena, vi porterei —.
Allora comare Nena si mise a masticare la cocca del fazzoletto rosso che aveva in
testa. E compare Santo non sapeva che dire nemmen lui; e la guardava, e si passava le
bisacce da una spalla all’altra, quasi non trovasse il verso. La nepitella e il ramerino
facevano festa, e la costa del monte, lassù fra i fichidindia, era tutta rossa del tramonto. —
Ora andatevene, — gli diceva Nena, — andatevene, che è tardi —. E poi si metteva ad
ascoltare le cinciallegre che facevano gazzara. Ma Santo non si muoveva. — Andatevene,
ché possono vederci, qui soli —.
Compare Santo, che stava per andarsene infine, tornò all’idea di prima, con un’altra
spallata per assestare le bisacce, che egli l’avrebbe portata sulle braccia, l’avrebbe portata,
se si faceva la strada insieme. E guardava comare Nena negli occhi che lo fuggivano e
cercavano gli asparagi in mezzo ai sassi, e nel viso che era infuocato come se il tramonto
vi battesse sopra.
— No, compare Santo, andatevene solo, che io sono una povera ragazza senza dote.
— Lasciamo fare alla Provvidenza, lasciamo fare... —
Ella diceva sempre di no, che non era per lui, stavolta col viso scuro ed imbronciato.
Allora compare Santo scoraggiato si assettò la bisaccia sulle spalle e si mosse per
andarsene a capo chino. La Rossa almeno voleva dargli gli asparagi che aveva colti per
lui. Facevano una bella pietanza, se accettava di mangiarli per amor suo. E gli stendeva le
due cocche del grembiale colmo. Santo le passò un braccio alla cintola, e la baciò sulla
guancia, col cuore che gli squagliava.
In quella arrivò il babbo, e la ragazza scappò via spaventata. Il camparo aveva il fucile
ad armacollo, e non sapeva che lo tenesse di far la festa a compare Santo, che gli
giuocava quel tradimento.
— No! non ne faccio di queste cose! — rispondeva Santo colle mani in croce. —
Vostra figlia voglio sposarla per davvero. Non per la paura del fucile; ma son figlio di un
uomo dabbene, e la Provvidenza ci aiuterà perché non facciamo il male —.
Così la domenica appresso s’erano fatti gli sponsali, colla sposa vestita da festa, e suo
padre il camparo cogli stivali nuovi, che ci si dondolava dentro come un’anitra domestica.
Il vino e le fave tostate misero in allegria anche compare Nanni, sebbene avesse già
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addosso la malaria; e la mamma tirò fuori dalla cassapanca un rotolo di filato che teneva
da parte per la dote di Lucia, la quale aveva già diciott’anni, e prima d’andare alla messa
ogni domenica, si strigliava per mezz’ora, specchiandosi nell’acqua del catino.
Santo, colla punta delle dieci dita ficcate nelle tasche del giubbone, gongolava,
guardando i capelli rossi della sposa, il filato, e tutta l’allegria che ci era per lui quella
domenica. Il camparo, col naso rosso, saltellava dentro gli stivaloni, e voleva baciare tutti
quanti ad uno ad uno.
— A me no! — diceva Lucia, imbronciata pel filato che le portavano via. — Questa
non è acqua per la mia bocca —. Essa restava in un cantuccio, con tanto di muso, quasi
sapesse già quel che le toccava quando avrebbe chiuso gli occhi il genitore.
Ora infatti le toccava cuocere il pane e scopar le stanze per la cognata, la quale come
Dio faceva giorno andava al podere col marito, tuttoché fosse gravida un’altra volta, ché
per riempir la casa di figliuoli era peggio di una gatta. Adesso ci volevano altro che i
regalucci di Pasqua e di santa Agrippina, e le belle paroline che si scambiavano con
compare Santo quando si vedevano al Castelluccio. Quel mariuolo del camparo aveva
fatto il suo interesse a maritare la figliuola senza dote, e doveva pensarci compare Santo a
mantenerla. Dacché aveva la Nena vedeva che gli mancava il pane per tutti e due, e
dovevano tirarlo fuori dalla terra di Licciardo, col sudore della loro fronte.
Mentre andavano a Licciardo, colle bisacce in ispalla, asciugandosi il sudore colla
manica della camicia, avevano sempre nella testa e dinanzi agli occhi il seminato, ché non
vedevano altro fra i sassi della viottola. Gli era come il pensiero di un malato che vi sta
sempre grave in cuore, quel seminato; prima giallo, ammelmato dal gran piovere; poi,
quando ricominciava a pigliar fiato, le erbacce, che Nena ci si era ridotte le due mani una
pietà per strapparle ad una ad una, bocconi, con tanto di pancia, tirando la gonnella sui
ginocchi, onde non far danno. E non sentiva il peso della gravidanza, né il dolore delle
reni, come se ad ogni filo verde che liberava dalle erbacce, facesse un figliuolo. E quando
si accoccolava infine sul ciglione, col fiato ai denti, cacciandosi colle due mani i capelli
dietro le orecchie, le sembrava di vedere le spighe alte nel giugno, curvandosi ad onda pel
venticello l’una sull’altra; e facevano i conti col marito, nel tempo che egli slacciava i
calzeroni fradici, e netteva la zappa sull’erba del ciglione. — Tanta era stata la semente;
tanto avrebbe dato se la spiga veniva a 12, o a 10, od anche a 7; il gambo non era robusto
ma il seminato era fitto. Bastava che il marzo non fosse troppo asciutto, e che piovesse
soltanto quando bisognava. Santa Agrippina benedetta doveva pensarci lei! — Il cielo era
netto, e il sole indugiava, color d’oro, sui prati verdi, dal ponente tutto in fuoco, d’onde le
lodole calavano cantando sulle zolle, come punti neri. La primavera cominciava a
spuntare dappertutto, nelle siepi di fichidindia, nelle macchie della viottola, fra i sassi, sul
tetto dei casolari, verde come la speranza; e Santo, camminando pesantemente dietro la
sua compagna, curva sotto il sacco dello strame per le bestie, e con tanto di pancia,
sentivasi il cuore gonfio di tenerezza per la poveretta, e le andava chiacchierando, colla
voce rotta dalla salita, di quel che si avrebbe fatto, se il Signore benediceva i seminati
fino all’ultimo. Ora non avevano più a discorrere dei capelli rossi, s’erano belli o brutti, e
di altre sciocchezze. E quando il maggio traditore venne a rubare tutte le fatiche e le
speranze dell’annata, colle sue nebbie, marito e moglie, seduti un’altra volta sul ciglione a
guardare il campo che ingialliva a vista d’occhio, come un malato che se ne va all’altro
mondo, non dicevano una parola sola, coi gomiti sui ginocchi, e gli occhi impietriti nella
faccia pallida.
— Questo è il castigo di Dio! — borbottava Santo. — La buon’anima di mio padre me
l’aveva detto! —
E nella casuccia del povero penetrava il malumore della stradicciuola nera e fangosa.
Marito e moglie si voltavano le spalle ingrugnati, litigavano ogni volta che
la Rossa domandava i danari per la spesa, e se il marito tornava a casa tardi, o se non
c’era legna per l’inverno, o se la moglie diventava lenta e pigra per la gravidanza: musi
lunghi, parolacce ed anche busse. Santo agguantava la Nena pei capelli rossi, e lei gli
piantava le unghie sulla faccia; accorrevano i vicini, e la Rossa strillava che quello
scomunicato voleva farla abortire, e non si curava di mandare un’anima al limbo. Poi,
quando Nena partorì, fecero la pace, e compare Santo andava portando sulle braccia la
bambina, come se avesse fatto una principessa, e correva a mostrarla ai parenti e agli
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amici, dalla contentezza. Alla moglie, sinché rimase in letto, le preparava il brodo, le
scopava la casa, le mondava il riso, e le si piantava anche ritto dinanzi, acciò non le
mancasse nulla. Poi si affacciava sulla porta colla bimba in collo, come una balia; e chi
gli domandava, nel passare, rispondeva: — Femmina! compare mio. La disgrazia mi
perseguita sin qui, e mi è nata una femmina. Mia moglie non sa far altro —.
La Rossa quando si pigliava le busse dal marito, sfogavasi colla cognata, che non
faceva nulla per aiutare in casa; e Lucia rimbeccava che senza aver marito gli erano
toccati i guai dei figliuoli altrui. La suocera, poveretta, cercava di metter pace in quei
litigi, e ripeteva:
— La colpa è mia che non son più buona a nulla. Io vi mangio il pane a tradimento —.
Ella non era più buona che a sentire tutti quei guai, e a covarseli dentro di sé: le
angustie di Santo, i piagnistei di sua moglie, il pensiero dell’altro figlio lontano, che le
stava fitto in cuore come un chiodo, il malumore di Lucia, la quale non aveva uno
straccio di vestito per la festa, e non vedeva passare un cane sotto la sua finestra. La
domenica, se la chiamavano nel crocchio delle comari che chiacchieravano all’ombra,
rispondeva, alzando le spalle:
— Cosa volete che ci venga a fare! Per far vedere il vestito di seta che non ho? —
Nel crocchio delle vicine ci veniva pure qualche volte Pino il Tomo, quello delle rane,
che non apriva bocca e stava ad ascoltare colle spalle al muro e le mani in tasca,
sputacchiando di qua e di là. Nessuno sapeva cosa ci stesse a fare; ma quando
s’affacciava all’uscio comare Lucia, Pino la guardava di soppiatto, fingendo di voltarsi
per sputacchiare. La sera poi, come gli usci erano tutti chiusi, s’arrischiava sino a cantarle
le canzonette dietro la porta, facendosi il basso da sé — huum! huum! huum! — Alle
volte i giovinastri che tornavano a casa tardi, lo conoscevano alla voce, e gli rifacevano il
verso della rana, per canzonarlo.
Lucia intanto fingeva di darsi da fare per la casa, colla testa bassa e lontana dal lume,
onde non la vedessero in faccia. Ma se la cognata brontolava: — Ora comincia la musica!
— si voltava come una vipera a rimbeccare:
— Anche la musica vi dà noia? Già in questa galera non ce ne deve essere né per gli
occhi né per le orecchie! —
La mamma che vedeva tutto, e ascoltava anch’essa, guardando la figliuola, diceva che
a lei invece quella musica gli metteva allegria dentro. Lucia fingeva di non saper nulla.
Però ogni giorno nell’ora in cui passava quello delle rane, non mancava mai di affacciarsi
all’uscio, col fuso in mano. Il Tomo appena tornava dal fiume, gira e rigira pel paese, era
sempre in volta per quelle parti, colla sua cesta di rane in mano, strillando: — Pesci—
cantanti! pesci—cantanti! — come se i poveretti di quelle straducce potessero comperare
dei pesci—cantanti!
— E’ devono essere buoni pei malati! — diceva la Lucia che si struggeva di mettersi a
contrattare col Tomo. Ma la mamma non voleva che spendessero per lei.
Il Tomo, vedendo che Lucia lo guardava di soppiatto, col mento sul seno, rallentava il
passo dinanzi all’uscio, e la domenica si faceva animo ad accostarsi un poco più, sino a
mettersi a sedere sullo scalino del ballatoio accanto, colle mani penzoloni fra le cosce; e
raccontava nel crocchio come si facesse a pescare le rane, che ci voleva una malizia del
diavolo. Egli era malizioso peggio di un asino rosso, Pino il Tomo, e aspettava che le
comari se ne andassero per dire alla gnà Lucia: — E’ ci vuol la pioggia pei seminati! —
oppure: — Le olive saranno scarse quest’anno.
— A voi cosa ve ne importa? che campate sulle rane — gli diceva Lucia.
— Sentite, sorella mia; siamo tutti come le dita della mano; e come gli embrici, che
uno dà acqua all’altro. Se non si raccoglie né grano, né olio, non entrano denari in paese,
e nessuno mi compra le mie rane. Vi capacita? —
Alla ragazza quel «sorella mia» le scendeva al cuore dolce come il miele, e ci
ripensava tutta la sera, mentre filava zitta accanto al lume; e ci mulinava, ci mulinava
sopra, come il fuso che frullava.
La mamma, sembrava che glielo leggesse nel fuso, e come da un par di settimane non
si udivano più ariette alla sera, né si vedeva passare quello che vendeva le rane, diceva
colla nuora: — Com’è tristo l’inverno! Ora non si sente più un’anima pel vicinato —.
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Adesso bisognava tener l’uscio chiuso, pel freddo, e dallo sportello non si vedeva altro
che la finestra di rimpetto, nera dalla pioggia, o qualche vicino che tornava a casa, sotto il
cappotto fradicio. Ma Pino il Tomo non si faceva più vivo, che se un povero malato aveva
bisogno di un po’ di brodo di rane, diceva la Lucia, non sapeva come fare.
— Sarà andato a buscarsi il pane in qualche altro modo — rispondeva la cognata. —
Quello è un mestiere povero, di chi non sa far altro —.
Santo, che un sabato sera aveva inteso la chiacchiera, per amor della sorella, le faceva
il predicozzo:
— A me non mi piace questa storia del Tomo. Bel partito che sarebbe per mia sorella!
Uno che campa delle rane, e sta colle gambe in molle tutto il giorno! Tu devi cercarti un
campagnuolo, ché se non ha roba, almeno è fatto della stessa pasta tua —.
Lucia stava zitta, a capo basso e colle ciglia aggrottate, e alle volte si mordeva le
labbra per non spiattellare: — Dove lo trovo il campagnuolo? — Come se stesse a lei a
trovare! Quello solo che aveva trovato, ora non si faceva più vivo, forse perché
la Rossa gli aveva fatto qualche partaccia, invidiosa e pettegola com’era. Già Santo
parlava sempre per dettato di sua moglie, la quale andava dicendo che quello delle rane
era un fannullone, e certo era arrivata all’orecchio di compare Pino.
Perciò ad ogni momento scoppiava la guerra tra le due cognate:
— Qui la padrona, non son io! — brontolava Lucia. — In questa casa padrona è quella
che ha saputo abbindolare mio fratello, e chiapparlo per marito.
— Se sapevo quel che veniva dopo, non l’abbindolavo, no, vostro fratello; ché se
prima avevo bisogno di un pane, adesso ce ne vogliono cinque.
— A voi che ve ne importa se quello delle rane ha un mestiere o no? Quando fosse
mio marito, ci avrebbe a pensar lui a mantenermi —.
La mamma, poveretta, si metteva di mezzo, colle buone; ma era donna di poche
parole, e non sapeva far altro che correre dall’una all’altra, colle mani nei capelli,
balbettando: — Per carità! per carità! — Ma le donne non le davano retta nemmeno,
piantandosi le unghie sulla faccia, dopo che la Rossa si lasciò scappare una parolaccia
«Arrabbiata!»
— Arrabbiata tu! che m’hai rubato il fratello! —
Allora sopravveniva Santo, e le picchiava tutte e due per metter pace, e la Rossa,
piangendo, brontolava:
— Io dicevo per suo bene! ché quando una si marita senza roba, poi i guai vengono
presto —.
E alla sorella che strillava e si strappava i capelli, Santo per rabbonirla tornava a dire:
— Cosa vuoi che ci faccia, ora ch’è mia moglie? Ma ti vuol bene e parla pel tuo
meglio. Lo vedi che bel guadagno ci abbiamo fatto noi due a maritarci? —
Lucia si lagnava colla mamma.
— Io voglio farci il guadagno che ci han fatto loro! Piuttosto voglio andare a servire!
Qui se si fa vedere un cristiano, ve lo scacciano via —. E pensava a quello delle rane che
non si lasciava più vedere.
Dopo si venne a conoscere che era andato a stare colla vedova di massaro Mariano;
anzi volevano maritarsi: perché è vero che non aveva un mestiere, ma era un pezzo di
giovanotto fatto senza risparmio, e bello come San Vito in carne e in ossa addirittura; e la
sciancata aveva roba da pigliarsi il marito che gli pareva e piaceva.
— Guardate qua, compare Pino — gli diceva: — questa è tutta roba bianca, questi son
tutti orecchini e collane d’oro; in questa giara ci son 12 cafisi d’olio; e quel graticcio è
pieno di fave. Se voi siete contento, potete vivere colle mani sulla pancia, e non avrete più
bisogno di stare a mezza gamba nel pantano per acchiappar le rane.
— Per me sarei contento — diceva il Tomo. Ma pensava agli occhi neri di Lucia, che
lo cercavano di sotto all’impannata della finestra, e ai fianchi della sciancata, che si
dimenavano come quelli delle rane, mentre andava di qua e di là per la casa, a fargli
vedere tutta quella roba. Però una volta che non aveva potuto buscarsi un grano da tre
giorni, e gli era toccato stare in casa della vedova, a mangiare e bere, e a veder piovere
dall’uscio, si persuase a dir di sì, per amor del pane.
19
— È stato per amor del pane, vi giuro! — diceva egli colle mani in croce, quando
tornò a cercare comare Lucia dinanzi all’uscio. — Se non fosse stato per la malannata
non sposavo la sciancata, comare Lucia!
— Andate a contarglielo alla sciancata! gli rispondeva la ragazza, verde dalla bile. —
Questo solo voglio dirvi: che qui non ci avete a metter più piede —.
E la sciancata gli diceva anche lei che non ci mettesse più piede, se no lo scacciava di
casa sua, nudo e affamato come l’aveva preso. — Non sai che, prima a Dio, mi hai
obbligo del pane che ti mangi?
A suo marito non gli mancava nulla: lui ben vestito, ben pasciuto, colle scarpe ai piedi,
senza aver altro da fare che bighellonare in piazza tutto il giorno, dall’ortolano, dal
beccaio, dal pescatore, colle mani dietro la schiena, e il ventre pieno, a vedere contrattare
la roba. — Quello è il suo mestiere, di fare il vagabondo! — diceva la Rossa. E Lucia
rimbeccava che non faceva nulla perché aveva la moglie ricca che lo campava. — Se
sposava me avrebbe lavorato per campar la moglie —. Santo, colla testa sulle mani,
rifletteva che sua madre glielo aveva consigliato, di pigliarsela lui la sciancata, e la colpa
era sua di essersi lasciato sfuggire il pan di bocca.
— Quando siamo giovani — predicava alla sorella — ci abbiamo in capo gli stessi
grilli che hai tu adesso, e cerchiamo soltanto quel che ci piace, senza pensare al poi.
Domandalo ora alla Rossa se si dovesse tornare a fare quel che abbiamo fatto!... —
La Rossa, accoccolata sulla soglia, approvava col capo, mentre i suoi marmocchi le
strillavano intorno, tirandola per le vesti e pei capelli. — Almeno il Signore Iddio non
dovrebbe mandarci la croce dei figliuoli! — piagnucolava.
Dei figliuoli quelli che poteva se li tirava dietro nel campo, ogni mattina, come una
giumenta i suoi puledri; la piccina dentro le bisacce, sulla schiena, e la più grandicella per
mano. Ma gli altri tre però era costretta lasciarli a casa, a far disperare la cognata. Quella
della bisaccia, e quella che le trotterellava dietro zoppicando, strillavano in concerto per
la viottola, al freddo dell’alba bianca, e la mamma di tanto in tanto doveva fermarsi,
grattandosi la testa e sospirando: — Oh, Signore Iddio! — e scaldava col fiato le manine
pavonazze della piccina, o tirava fuori dal sacco la lattante per darle la poppa, seguitando
a camminare. Suo marito andava innanzi, curvo sotto il carico, e si voltava appena per
darle il tempo di raggiungerlo tutta affannata, tirandosi dietro la bambina per la mano, e
col petto nudo — non era per guardare i capelli della Rossa, oppure il petto che facesse
l’onda dentro il busto, come al Castelluccio. Adesso la Rossa lo buttava fuori al sole e al
gelo, come roba la quale non serve ad altro che a dar latte, tale e quale come una
giumenta. — Una vera bestia da lavoro — quanto a ciò non poteva lagnarsi suo marito —
a zappare, a mietere e a seminare, meglio di un uomo, quando tirava su le gonnelle, colle
gambe nere sino a metà, nel seminato.
Ora ella aveva ventisette anni, e tutt’altro da fare che badare alle scarpette e alle calze
turchine. — Siamo vecchi, — diceva suo marito, — e bisogna pensare ai figliuoli —.
Almeno si aiutavano l’un l’altro come due buoi dello stesso aratro. Questo era adesso il
matrimonio.
— Pur troppo lo so anch’io! — brontolava Lucia — che ho i guai dei figli, senza aver
marito. Quando chiude gli occhi quella vecchierella, se vogliono darmi ancora un pezzo
di pane me lo danno. Ma se no, mi mettono in mezzo a una strada —.
La mamma, poveretta, non sapeva che rispondere, e stava a sentirla, seduta accanto al
letto, col fazzoletto in testa, e la faccia gialla dalla malattia. Di giorno s’affacciava
sull’uscio, al sole, e ci stava quieta e zitta sino all’ora in cui il tramonto impallidiva sui
tetti nerastri dirimpetto, e le comari chiamavano a raccolta le galline.
Soltanto, quando veniva il dottore a visitarla, e la figliuola le accostava alla faccia la
candela, domandava al medico, con un sorriso timido:
— Per carità, vossignoria... È cosa lunga? —
Santo, che aveva un cuor d’oro, rispondeva:
— Non me ne importa di spendere in medicine, finché quella povera vecchierella resta
qui, e so di trovarla nel suo cantuccio tornando a casa. Poi ha lavorato anch’essa la sua
parte, quand’era tempo; e allorché saremo vecchi, i nostri figli faranno altrettanto per noi .
E accadde pure che Carmenio al Camemi aveva acchiappato le febbri. Se il padrone
fosse stato ricco gli avrebbe comprato le medicine; ma curatolo Vito era un povero
20
diavolo che campava su di quel po’ di mandra, e il ragazzo lo teneva proprio per carità,
ché quelle quattro pecore avrebbe potuto guardarsele lui, se non fosse stata la paura della
malaria. Poi voleva fare anche l’opera buona di dar pane all’orfanello di compare Nanni,
per ingraziarsi la Provvidenza che doveva aiutarlo, doveva, se c’era giustizia in cielo. Che
poteva farci se possedeva soltanto quel pezzetto di pascolo al Camemi, dove la malaria
quagliava come la neve, e Carmenio aveva presa la terzana? Un dì che il ragazzo si
sentiva le ossa rotte dalla febbre, e si lasciò vincere dal sonno a ridosso di un pietrone che
stampava l’ombra nera sulla viottola polverosa, mentre i mosconi ronzavano nell’afa di
maggio, le pecore irruppero nei seminati del vicino — un povero maggese grande quanto
un fazzoletto da naso, che l’arsura s’era mezzo mangiato. Nonostante zio Cheli,
rincantucciato sotto un tettuccio di frasche, lo guardava come la pupilla degli occhi suoi,
quel seminato che gli costava tanti sudori, ed era la speranza dell’annata. Al vedere le
pecore che scorazzavano. — Ah! che non ne mangiano pane, quei cristiani? — E
Carmenio si svegliò alle busse ed ai calci dello zio Cheli, il quale si mise a correre come
un pazzo dietro le pecore sbandate, piangendo ed urlando. Ci volevano proprio quelle
legnate per Carmenio, colle ossa che gli aveva già rotte la terzana! Ma gli pagava forse il
danno al vicino cogli strilli e cogli ahimè? — Un’annata persa, ed i miei figli senza pane
quest’inverno! Ecco il danno che hai fatto, assassino! Se ti levassi la pelle non
basterebbe! —
Zio Cheli si cercò i testimoni per citarli dinanzi al giudice colle pecore di curatolo
Vito. Questi, al giungergli della citazione, fu come un colpo d’accidente per lui e sua
moglie. — Ah! quel birbante di Carmenio ci ha rovinati del tutto! Andate a far del bene,
che ve lo rendono in tal maniera! Potevo forse stare nella malaria a guardare le pecore?
Ora lo zio Cheli finisce di farci impoverire a spese! — Il poveretto corse al Camemi
nell’ora di mezzogiorno, che non ci vedeva dagli occhi dalla disperazione, per tutte le
disgrazie che gli piovevano addosso, e ad ogni pedata e ad ogni sorgozzone che assestava
a Carmenio, balbettava ansante: — Tu ci hai ridotti sulla paglia! Tu ci hai rovinato,
brigante! — Non vedete come son ridotto? — cercava di rispondere Carmenio parando le
busse. — Che colpa ci ho se non potevo stare in piedi dalla febbre? Mi colse a
tradimento, là, sotto il pietrone! — Ma tant’è dovette far fagotto su due piedi, dir addio al
credito di due onze che ci aveva con curatolo Vito, e lasciar la mandra. Che curatolo Vito
si contentava di pigliar lui le febbri un’altra volta, tante erano le sue disgrazie.
A casa Carmenio non disse niente, tornando nudo e crudo, col fagotto in spalla infilato
al bastone. Solo La mamma si rammaricava di vederlo così pallido e sparuto, e non
sapeva che pensare. Lo seppe più tardi da don Venerando, che stava di casa lì vicino, e
aveva pure della terra al Camemi, al limite del maggese dello zio Cheli.
— Non dire il motivo per cui lo zio Vito ti ha mandato via! — suggeriva la mamma al
ragazzo — se no, nessuno ti piglia per garzone —. E Santo aggiungeva pure:
— Non dir nulla che hai la terzana, se no nessuno ti vuole, sapendo che sei malato —.
Però don Venerando lo prese per la sua mandra di Santa Margherita, dove il curatolo
lo rubava a man salva; e gli faceva più danno delle pecore nel seminato. — Ti darò io le
medicine; così non avrai il pretesto di metterti a dormire, e di lasciarmi scorazzare le
pecore dove vogliono —. Don Venerando aveva preso a benvolere tutta la famiglia per
amor della Lucia, che la vedeva dal terrazzino quando pigliava il fresco al dopopranzo. —
Se volete darmi anche la ragazza gli dò sei tarì al mese —. E diceva pure che Carmenio
avrebbe potuto andarsene colla madre a Santa Margherita, perché la vecchia perdeva
terreno di giorno in giorno, e almeno alla mandra non le sarebbero mancate le ova, il latte
e il brodo di carne di pecora, quando ne moriva qualcuna. La Rossa si spogliò del meglio
e del buono per metterle insieme un fagottino di roba bianca. Ora veniva il tempo della
semina, loro non potevano andare e venire tutti i giorni da Licciardo, e la scarsezza d’ogni
cosa arrivava coll’inverno. Lucia stavolta diceva davvero che voleva andarsene a servire
in casa di don Venerando.
Misero la vecchierella sul somaro, Santo da un lato e Carmenio dall’altro, colla roba in
groppa; e la mamma, mentre si lasciava fare, diceva alla figliuola, guardandola cogli
occhi grevi sulla faccia scialba:
— Chissà se ci vedremo? chissà se ci vedremo? Hanno detto che tornerò in aprile. Tu
statti col timor di Dio, in casa del padrone. Là almeno non ti mancherà nulla —.
21
Lucia singhiozzava nel grembiale; ed anche la Rossa</I>, poveretta. In quel momento
avevano fatto la pace, e si tenevano abbracciate, piangendo insieme. — La Rossa ha il
cuore buono — diceva suo marito. — Il guaio è che non siamo ricchi, per volerci sempre
bene. Le galline quando non hanno nulla da beccare nella stia, si beccano fra di loro —.
Lucia adesso era ben accollata, in casa di don Venerando, e diceva che voleva lasciarla
soltanto dopo ch’era morta, come si suole, per dimostrare la gratitudine al padrone.
Aveva pane e minestra quanta ne voleva, un bicchiere di vino al giorno, e il suo piatto di
carne la domenica e le feste. Intanto la mesata le restava in tasca tale e quale, e la sera
aveva tempo anche di filarsi la roba bianca della dote per suo conto. Il partito ce l’aveva
già sotto gli occhi nella stessa casa: Brasi, lo sguattero che faceva la cucina, e aiutava
anche nelle cose di campagna quando bisognava. Il padrone s’era arricchito allo stesso
modo, stando al servizio del barone, ed ora aveva il don, e poderi e bestiami a bizzeffe. A
Lucia, perché veniva da una famiglia benestante caduta in bassa fortuna, e si sapeva che
era onesta, le avevano assegnate le faccende meno dure, lavare i piatti, scendere in
cantina, e governare il pollaio; con un sottoscala per dormirvi che pareva uno stanzino, e
il letto, il cassettone e ogni cosa; talché Lucia voleva lasciarli soltanto dopo che era
morta. In quel mentre faceva l’occhietto a Brasi, e gli confidava che fra due o tre anni ci
avrebbe avuto un gruzzoletto, e poteva «andare al mondo», se il Signore la chiamava.
Brasi da quell’orecchio non ci sentiva. Ma gli piaceva la Lucia, coi suoi occhi di
carbone, e la grazia di Dio che ci aveva addosso. A lei pure le piaceva Brasi, piccolo,
ricciuto, col muso fino e malizioso di can volpino. Mentre lavavano i piatti o mettevano
legna sotto il calderotto, egli inventava ogni monelleria per farla ridere, come se le
facesse il solletico. Le spruzzava l’acqua sulla nuca e le ficcava delle foglie d’indivia fra
le trecce. Lucia strillava sottovoce, perché non udissero i padroni; si rincantucciava
nell’angolo del forno, rossa in viso al pari della bragia, e gli gettava in faccia gli
strofinacci ed i sarmenti, mentre l’acqua gli sgocciolava nella schiena come una delizia.
— E colla carne si fa le polpette — fate la vostra, ché la mia l’ho fatta.
— Io no! — rispondeva Lucia. — A me non mi piacciono questi scherzi —.
Brasi fingeva di restare mortificato. Raccattava la foglia d’indivia che gli aveva
buttato in faccia, e se la ficcava in petto, dentro la camicia, brontolando:
— Questa è roba mia. Io non vi tocco. È roba mia e ha da star qui. Se volete mettervi
della roba mia allo stesso posto, a voi! — E faceva atto di strapparsi una manciata di
capelli per offrirglieli, cacciando fuori tanto di lingua.
Ella lo picchiava con certi pugni sodi da contadina che lo facevano aggobbire, e gli
davano dei cattivi sogni la notte, diceva lui. Lo pigliava pei capelli, come un cagnuolo, e
sentiva un certo piacere a ficcare le dita in quella lana morbida e ricciuta.
— Sfogatevi! sfogatevi! Io non sono permaloso come voi, e mi lascierei pestare come
la salsiccia dalle vostre mani —.
Una volta don Venerando li sorprese in quei giuochetti e fece una casa del diavolo.
Tresche non ne voleva in casa sua; se no li scacciava fuori a pedate tutt’e due. Piuttosto
quando trovava la ragazza sola in cucina, le pigliava il ganascino, e voleva accarezzarla
con due dita.
— No! no! — replicava Lucia. — A me questi scherzi non mi piacciono. Se no piglio
la mia roba e me ne vado.
— Di lui ti piacciono, di lui! E di me che sono il padrone, no? Cosa vuol dire questa
storia? Non sai che posso regalarti degli anelli e dei pendenti di oro, e farti la dote, se ne
ho voglia? —
Davvero poteva fargliela, confermava Brasi, che il padrone aveva danari quanti ne
voleva, e sua moglie portava il manto di seta come una signora, adesso che era magra e
vecchia peggio di una mummia; per questo suo marito scendeva in cucina a dir le
barzellette colle ragazze. Poi ci veniva per guardarsi i suoi interessi, quanta legna ardeva
e quanta carne mettevano al fuoco.
Era ricco, sì, ma sapeva quel che ci vuole a far la roba, e litigava tutto il giorno con
sua moglie, la quale aveva dei fumi in testa, ora che faceva la signora, e si lagnava del
fumo dei sarmenti e del cattivo odore delle cipolle.
— La dote voglio farmela io colle mie mani — rimbeccava Lucia. — La figlia di mia
madre vuol restare una ragazza onorata, se un cristiano la cerca in moglie.
22
— E tu restaci! — rispondeva il padrone. — Vedrai che bella dote! e quanti verranno
a cercartela la tua onestà! —
Se i maccheroni erano troppo cotti, se Lucia portava in tavola due ova al tegame che
sentivano l’arsiccio, don Venerando la strapazzava per bene, al cospetto della moglie,
tutto un altro uomo, col ventre avanti e la voce alta. — Che credevano di far l’intruglio
pel maiale? Con due persone di servizio che se lo mangiavano vivo! Un’altra volta le
buttava la grazia di Dio sulla faccia! — La signora, benedetta, non voleva quegli
schiamazzi, per via dei vicini, e rimandava la serva strillando in falsetto:
— Vattene in cucina; levati di qua, sciamannona! paneperso! —
Lucia andava a piangere nel cantuccio del forno, ma Brasi la consolava, con quella sua
faccia da mariuolo:
— Cosa ve ne importa? Lasciateli cantare! Se si desse retta ai padroni, poveri noi! Le
ova sentivano l’arsiccio? Peggio per loro! Non potevo spaccar legna nel cortile, e rivoltar
le ova nel tempo istesso. Mi fanno far da cuoco e da garzone, e vogliono essere serviti
come il re! Che non si rammentavano più quando lui mangiava pane e cipolla sotto un
olivo, e lei gli coglieva le spighe nel campo? —.
Allora serva e cuoco si confidavano la loro «mala sorte» che nascevano di «gente
rispettata» e i loro parenti erano stati più ricchi del padrone, già da tempo. Il padre di
Brasi era carradore, nientemeno! e la colpa era del figliuolo che non aveva voluto
attendere al mestiere, e si era incapricciato a vagabondare per le fiere, dietro il carretto del
merciaiuolo: con lui aveva imparato a cucinare e a governar le bestie.
Lucia ricominciava la litania dei suoi guai: — il babbo, il bestiame, la Rossa, le
malannate: — tutt’e due gli stessi, lei e Brasi, in quella cucina; parevano fatti l’uno per
l’altra.
— La storia di vostro fratello colla Rossa? — rispodeva Brasi. — Grazie tante! —
Però non voleva darle quell’affronto lì sul mostaccio. Non gliene importava nulla che ella
fosse una contadina. Non ricusava per superbia. Erano poveri tutti e due e sarebbe stato
meglio buttarsi nella cisterna con un sasso al collo.
Lucia mandò giù tutto quell’amaro senza dir motto, e se voleva piangere andava a
nascondersi nel sottoscala, o nel cantuccio del forno, quando non c’era Brasi.
Ormai a quel cristiano gli voleva bene, collo stare insieme davanti al fuoco tutto il
giorno. I rabbuffi, le sgridate del padrone, li pigliava per sé, e lasciava a lui il miglior
piatto, il bicchier di vino più colmo, andava in corte a spaccar la legna per lui, e aveva
imparato a rivoltare le ova e a scodellare i maccheroni in punto. Brasi, come la vedeva
fare la croce, colla scodella sulle ginocchia, prima d’accingersi a mangiare, le diceva:
— Che non avete visto mai grazia di Dio? —
Egli si lamentava sempre e di ogni cosa: che era una galera, e che aveva soltanto tre
ore alla sera da andare a spasso o all’osteria; e se Lucia qualche volta arrivava a dirgli, col
capo basso, e facendosi rossa:
— Perché ci andate all’osteria? Lasciatela stare l’osteria, che non fa per voi.
— Si vede che siete una contadina! — rispondeva lui. — Voi altri credete che
all’osteria ci sia il diavolo. Io son nato da maestri di bottega, mia cara. Non son mica un
villano!
— Lo dico per vostro bene. Vi spendete i soldi, e poi c’è sempre il caso d’attaccar lite
con qualcheduno —.
Brasi si sentì molle a quelle parole e a quegli occhi che evitavano di guardarlo. E si
godeva il solluchero:
— O a voi cosa ve ne importa?
— Nulla me ne importa. Lo dico per voi.
— O voi non vi seccate a star qui in casa tutto il giorno?
— No, ringrazio Iddio del come sto, e vorrei che i miei parenti fossero come me, che
non mi manca nulla —.
Ella stava spillando il vino, accoccolata colla mezzina fra le gambe, e Brasi era sceso
con lei in cantina a farle lume. Come la cantina era grande e scura al pari di una chiesa, e
non si udiva una mosca in quel sotterraneo, soli tutti e due, Brasi e Lucia, egli le mise un
braccio al collo e la baciò su quella bocca rossa al pari del corallo.
23
La poveretta l’aspettava sgomenta, mentre stava china tenendo gli occhi sulla brocca,
e tacevano entrambi, e udiva il fiato grosso di lui, e il gorgogliare del vino. Ma pure mise
un grido soffocato, cacciandosi indietro tutta tremante, così che un po’ di spuma rossa si
versò per terra.
— O che è stato? — esclamò Brasi. — Come se v’avessi dato uno schiaffo! Dunque
non è vero che mi volete bene?
Ella non osava guardarlo in faccia, e si struggeva dalla voglia. Badava al vino versato,
imbarazzata, balbettando:
— O povera me! o povera me! che ho fatto? Il vino del padrone!...
— Eh! lasciate correre; ché ne ha tanto il padrone. Date retta a me piuttosto. Che non
mi volete bene? Ditelo, sì o no! —
Ella stavolta si lascia prendere la mano, senza rispondere, e quando Brasi le chiese che
gli restituisse il bacio, ella glielo diede, rossa di una cosa che non era vergogna soltanto.
— Che non ne avete avuti mai? — domandava Brasi ridendo. — O bella! siete tutta
tremante come se avessi detto di ammazzarvi.
— Sì, vi voglio bene anch’io — rispose lei; — e mi struggevo di dirvelo. Se tremo
ancora non ci badate. È stata per la paura del vino.
— O guarda! anche voi? E da quando! Perché non me lo avete detto?
— Da quando s’è parlato che eravamo fatti l’uno per l’altro.
— Ah! — disse Brasi, grattandosi il capo. — Andiamo di sopra, che può venire il
padrone —.
Lucia era tutta contenta dopo quel bacio, e le sembrava che Brasi le avesse suggellato
sulla bocca la promessa di sposarla. Ma lui non ne parlava neppure, e se la ragazza gli
toccava quel tasto, rispondeva:
— Che premura hai? Poi è inutile mettersi il giogo sul collo, quando possiamo stare
insieme come se fossimo maritati.
— No, non è lo stesso. Ora voi state per conto vostro ed io per conto mio; ma quando
ci sposeremo, saremo una cosa sola.
— Una bella cosa saremo! Poi non siamo fatti della stessa pasta. Pazienza, se tu avessi
un po’ di dote!
— Ah! che cuore nero avete voi! No! Voi non mi avete voluto bene mai!
— Sì, che ve n’ho voluto. E son qui tutto per voi; ma senza parlar di quella cosa.
— No! Non ne mangio di quel pane! lasciatemi stare, e non mi guardate più! —
Ora lo sapeva com’erano fatti gli uomini. Tutti bugiardi e traditori. Non voleva
sentirne più parlare. Voleva buttarsi nella cisterna piuttosto a capo in giù; voleva
farsi Figlia di Maria; voleva prendere il suo buon nome e gettarlo dalla finestra! A che le
serviva, senza dote? Voleva rompersi il collo con quel vecchiaccio del padrone, e
procurarsi la dote colla sua vergogna. Ormai!... Ormai!... Don Venerando l’era sempre
attorno, ora colle buone, ora colle cattive, per guardarsi i suoi interessi, se mettevano
troppa legna al fuoco, quanto olio consumavano per la frittura, mandava via Brasi a
comprargli un soldo di tabacco, e cercava di pigliare Lucia pel ganascino, correndole
dietro per la cucina, in punta di piedi perché sua moglie non udisse, rimproverando la
ragazza che gli mancava di rispetto, col farlo correre a quel modo! — No! no! — ella
pareva una gatta inferocita. — Piuttosto pigliava la sua roba, e se ne andava via! — E che
mangi? E dove lo trovi un marito senza dote? Guarda questi orecchini! Poi ti regalerei 20
onze per la tua dote. Brasi per 20 onze si fa cavare tutti e due gli occhi! —
Ah! quel cuore nero di Brasi! La lasciava nelle manacce del padrone, che la
brancicavano tremanti! La lasciava col pensiero della mamma che poco poteva campare,
della casa saccheggiata e piena di guai, di Pino il Tomo che l’aveva piantata per andare a
mangiare il pane della vedova! La lasciava colla tentazione degli orecchini e delle 20
onze nella testa!
E un giorno entrò in cucina colla faccia tutta stravolta, e i pendenti d’oro che gli
sbattevano sulle guance. Brasi sgranava gli occhi, e le diceva:
— Come siete bella così, comare Lucia!
— Ah! vi piaccio così? Va bene, va bene! —
Brasi ora che vedeva gli orecchini e tutto il resto, si sbracciava a mostrarsi
servizievole e premuroso quasi ella fosse diventata un’altra padrona. Le lasciava il piatto
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più colmo, e il posto migliore accanto al fuoco. Con lei si sfogava a cuore aperto, ché
erano poverelli tutti e due, e faceva bene all’anima confidare i guai a una persona che si
vuol bene. Se appena appena fosse arrivato a possedere 20 onze, egli metteva su una
piccola bettola e prendeva moglie. Lui in cucina, e lei al banco. Così non si stava più al
comando altrui. Il padrone se voleva far loro del bene, lo poteva fare senza scomodarsi,
giacché 20 onze per lui erano come una presa di tabacco. E Brasi non sarebbe stato
schizzinoso, no! Una mano lava l’altra a questo mondo. E non era sua colpa se cercava di
guadagnarsi il pane come poteva. Povertà non è peccato.
Ma Lucia si faceva rossa, o pallida, o le si gonfiavano gli occhi di pianto, e si
nascondeva il volto nel grembiale. Dopo qualche tempo non si lasciò più vedere
nemmeno fuori di casa, né a messa, né a confessare, né a Pasqua, né a Natale.
In cucina si cacciava nell’angolo più scuro, col viso basso, infagottata nella veste
nuova che le aveva regalato il padrone, larga di cintura.
Brasi la consolava con buone parole. Le metteva un braccio al collo, le palpava la
stoffa fine del vestito, e gliela lodava. Quegli orecchini d’oro parevano fatti per lei. Uno
che è ben vestito e ha denari in tasca non ha motivo di vergognarsi e di tenere gli occhi
bassi; massime poi quando gli occhi son belli come quelli di comare Lucia. La poveretta
si faceva animo a fissarglieli in viso, ancora sbigottita, e balbettava:
— Davvero, mastro Brasi? Mi volete ancora bene?
— Sì, sì, ve ne vorrei! — rispondeva Brasi colla mano sulla coscienza. — Ma che
colpa ci ho se non son ricco per sposarvi? Se aveste 20 onze di dote vi sposerei ad occhi
chiusi —.
Don Venerando adesso aveva preso a ben volere anche lui, e gli regalava i vestiti
smessi e gli stivali rotti. Allorché scendeva in cantina gli dava un bel gotto di vino,
dicendogli:
— Tè! bevi alla mia salute —.
E il pancione gli ballava dal tanto ridere, al vedere le smorfie che faceva Brasi, e al
sentirlo barbugliare alla Lucia, pallido come un morto:
— Il padrone è un galantuomo, comare Lucia! lasciate ciarlare i vicini, tutta gente
invidiosa, che muore di fame, e vorrebbero essere al vostro posto —.
Santo, il fratello, udì la cosa in piazza qualche mese dopo. E corse dalla moglie
trafelato. Poveri erano sempre stati, ma onorati. La Rossa allibì anch’essa, e corse dalla
cognata tutta sottosopra, che non poteva spiccicar parola. Ma quando tornò a casa da suo
marito, era tutt’altra, serena e colle rose in volto.
— Se tu vedessi! Un cassone alto così di roba bianca! anelli, pendenti e collane d’oro
fine. Poi vi son anche 20 onze di danaro per la dote. Una vera provvidenza di Dio!
— Non monta! — Tornava a dire di tanto in tanto il fratello, il quale non sapeva
capacitarsene. — Almeno avesse aspettato che chiudeva gli occhi nostra madre!... —
Questo poi accadde l’anno della neve, che crollarono buon numero di tetti, e nel
territorio ci fu una gran mortalità di bestiame, Dio liberi!
Alla Lamia e per la montagna di Santa Margherita, come vedevano scendere quella
sera smorta, carica di nuvoloni di malaugurio, che i buoi si voltavano indietro sospettosi,
e muggivano, la gente si affacciava dinanzi ai casolari, a guardar lontano verso il mare,
colla mano sugli occhi, senza dir nulla. La campana del Monastero Vecchio, in cima al
paese, suonava per scongiurare la malanotte, e sul poggio del Castello c’era un gran
brulichìo di comari, nere sull’orizzonte pallido, a vedere in cielo la coda del drago, una
striscia color di pece, che puzzava di zolfo, dicevano, e voleva essere una brutta notte. Le
donne gli facevano gli scongiuri colle dita, al drago, gli mostravano l’abitino della
Madonna sul petto nudo, e gli sputavano in faccia, tirando giù la croce sull’ombelico, e
pregavano Dio e le anime del purgatorio, e Santa Lucia, che era la sua vigilia, di
proteggere i campi, e le bestie, e i loro uomini anch’essi, chi ce li avea fuori del paese.
Carmenio al principio dell’inverno era andato colla mandra a Santa Margherita. La
mamma quella sera non istava bene, e si affannava pel lettuccio, cogli occhi spalancati, e
non voleva star più quieta come prima, e voleva questo, e voleva quell’altro, e voleva
alzarsi, e voleva che la voltassero dall’altra parte. Carmenio un po’ era corso di qua e di
là, a darle retta, e cercare di fare qualche cosa. Poi si era piantato dinanzi al letto,
sbigottito, colle mani nei capelli.
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Il casolare era dall’altra parte del torrente, in fondo alla valle, fra due grossi pietroni
che gli si arrampicavano sul tetto. Di faccia, la costa, ritta in piedi, cominciava a
scomparire nel buio che saliva dal vallone, brulla e nera di sassi, fra i quali si perdeva la
striscia biancastra del viottolo. Al calar del sole erano venuti i vicini della mandra dei
fichidindia, a vedere se occorreva nulla per l’inferma, che non si moveva più nel suo
lettuccio, colla faccia in aria e la fuliggine al naso.
— Cattivo segno! — aveva detto curatolo Decu. — Se non avessi lassù le pecore, con
questo tempo che si prepara, non ti lascierei solo stanotte. Chiamami, se mai! —
Carmenio rispondeva di sì, col capo appoggiato allo stipite; ma vedendolo allontanare
passo passo, che si perdeva nella notte, aveva una gran voglia di corrergli dietro, di
mettersi a gridare, di strapparsi i capelli — non sapeva che cosa.
— Se mai — gli gridò curatolo Decu da lontano — corri fino alla mandra dei
fichidindia, lassù, che c’è gente —.
La mandra si vedeva tuttora sulla roccia, verso il cielo, per quel po’ di crepuscolo che
si raccoglieva in cima ai monti, e straforava le macchie dei fichidindia. Lontan lontano,
alla Lamia e verso la pianura, si udiva l’uggiolare dei cani auuuh!... auuuh!... auuuh!...
che arrivava appena sin là, e metteva freddo nelle ossa. Le pecore allora si spingevano a
scorazzare in frotta pel chiuso, prese da un terrore pazzo, quasi sentissero il lupo nelle
vicinanze, e a quello squillare brusco di campanacci sembrava che le tenebre si
accendessero di tanti occhi infuocati, tutto in giro. Poi le pecore si arrestavano immobili,
strette fra di loro, col muso a terra, e il cane finiva d’abbaiare in un uggiolato lungo e
lamentevole, seduto sulla coda.
— Se sapevo! — pensava Carmenio — era meglio dire a curatolo Decu di non
lasciarmi solo —.
Di fuori, nelle tenebre, di tanto in tanto si udivano i campanacci della mandra che
trasalivano. Dallo spiraglio si vedeva il quadro dell’uscio nero come la bocca di un forno;
null’altro. E la costa dirimpetto, e la valle profonda, e la pianura della Lamia, tutto si
sprofondava in quel nero senza fondo, che pareva si vedesse soltanto il rumore del
torrente, laggiù, a montare verso il casolare, gonfio e minaccioso.
Se sapeva, anche questa! prima che annottasse correva al paese a chiamare il fratello; e
certo a quell’ora sarebbe qui con lui, ed anche Lucia e la cognata.
Allora la mamma cominciò a parlare, ma non si capiva quello che dicesse, e
brancolava pel letto colle mani scarne.
— Mamma! mamma! cosa volete? — domandava Carmenio — ditelo a me che son
qui con voi! —
Ma la mamma non rispondeva. Dimenava il capo anzi, come volesse dir no! no! non
voleva. Il ragazzo le mise la candela sotto il naso, e scoppiò a piangere dalla paura.
— O mamma! mamma mia! — piagnucolava Carmenio —. O che sono solo e non
posso darvi aiuto! —
Aprì l’uscio per chiamare quelli della mandra dei fichidindia. Ma nessuno l’udiva.
Dappertutto era un chiarore denso; sulla costa, nel vallone, laggiù al piano — come un
silenzio fatto di bambagia. Ad un tratto arrivò soffocato il suono di una campana che
veniva da lontano, ’nton! ’nton! ’nton! e pareva quagliasse nella neve.
— Oh, Madonna santissima! — singhiozzava Carmenio —. Che sarà mai quella
campana? O della mandra dei fichidindia, aiuto! O santi cristiani, aiuto! Aiuto, santi
cristiani! — si mise a gridare.
Infine lassù, in cima al monte dei fichidindia, si udì una voce lontana, come la
campana di Francofonte.
— Ooooh... cos’èeee? cos’èeee?...
— Aiuto, santi cristiani! aiuto, qui da curatolo Decuuu!...
— Ooooh... rincorrile le pecoreee!... rincorrileeee!...
— No! no! non son le pecore... non sono! —
In quella passò una civetta, e si mise a stridere sul casolare.
— Ecco! — mormorò Carmenio facendosi la croce. — Ora la civetta ha sentito
l’odore dei morti! Ora la mamma sta per morire! —
A star solo nel casolare colla mamma, la quale non parlava più, gli veniva voglia di
piangere. — Mamma, che avete? Mamma, rispondetemi? Mamma avete freddo? — Ella
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non fiatava, colla faccia scura. Accese il fuoco, fra i due sassi del focolare, e si mise a
vedere come ardevano le frasche, che facevano una fiammata, e poi soffiavano come se ci
dicessero su delle parole.
Quando erano nelle mandre di Resecone, quello di Francofonte, a veglia, aveva
narrato certe storie di streghe che montano a cavallo delle scope, e fanno degli scongiuri
sulla fiamma del focolare. Carmenio si rammentava tuttora la gente della fattoria, raccolta
ad ascoltare con tanto d’occhi, dinanzi al lumicino appeso al pilastro del gran palmento
buio, che a nessuno gli bastava l’animo di andarsene a dormire nel suo cantuccio, quella
sera.
Giusto ci aveva l’abitino della Madonna sotto la camicia, e la fettuccia di santa
Agrippina legata al polso, che s’era fatta nera dal tempo. Nella stessa tasca ci aveva il suo
zufolo di canna, che gli rammentava le sere d’estate — Juh! juh! — quando si lasciano
entrare le pecore nelle stoppie gialle come l’oro, dappertutto, e i grilli scoppiettano
nell’ora di mezzogiorno, e le lodole calano trillando a rannicchiarsi dietro le zolle col
tramonto, e si sveglia l’odore della nepitella e del ramerino. — Juh! juh! Bambino Gesù!
— A Natale, quando era andato al paese, suonavano così per la novena, davanti
all’altarino illuminato e colle frasche d’arancio, e in ogni casa, davanti all’uscio, i ragazzi
giocavano alla fossetta, col bel sole di dicembre sulla schiena. Poi s’erano avviati per la
messa di mezzanotte, in folla coi vicini, urtandosi e ridendo per le strade buie. Ah! perché
adesso ci aveva quella spina in cuore? e la mamma che non diceva più nulla!! ancora per
mezzanotte ci voleva un gran pezzo. Fra i sassi delle pareti senza intonaco pareva che ci
fossero tanti occhi ad ogni buco, che guardavano dentro, nel focolare, gelati e neri.
Sul suo stramazzo, in un angolo, era buttato un giubbone, lungo disteso, che pareva le
maniche si gonfiassero; e il diavolo del San Michele Arcangelo, nella immagine
appiccicata a capo del lettuccio, digrignava i denti bianchi, colle mani nei capelli, fra i
zig—zag rossi dell’inferno.
L’indomani, pallidi come tanti morti, arrivarono Santo, la Rossa coi bambini dietro, e
Lucia che in quell’angustia non pensava a nascondere il suo stato. Attorno al lettuccio
della morta si strappavano i capelli, e si davano dei pugni in testa, senza pensare ad altro.
Poi come Santo si accorse della sorella con tanto di pancia, ch’era una vergogna, si mise a
dire in mezzo al piagnisteo:
— Almeno avesse lasciato chiudere gli occhi a quella vecchierella, almeno!...
E Lucia dal canto suo:
— L’avessi saputo, l’avessi! Non le facevo mancare il medico e lo speziale, ora che ho
20 onze.
— Ella è in paradiso e prega Dio per noi peccatori; — conchiude la Rossa. — Sa che
la dote ce l’avete, ed è tranquilla, poveretta. Mastro Brasi ora vi sposerà di certo —.
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CAPITOLO II
Persistenza e mutamento nelle relazioni di interdipendenza
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Da I Viceré di Federico De Roberto
Dialogo tra Consalvo e la zia Ferdinanda
«Non sai che Ferdinanda sta male?» gli disse la duchessa.
«Che ha?»
«Un’infreddatura. Ma alla sua età tutto può esser grave... Perché non vai a trovarla?»
Egli ascoltò il consiglio. Anche da quella parte poteva venirgli qualcosa, un mezzo
milioncino. Se fosse stato più accorto, avrebbe preso con le buone la vecchia, senza
rinunziare, beninteso, a nessuna delle proprie ambizioni. L’ostinazione, la durezza di cui
aveva dato prova anche con lei erano sciocche, degne d’un Uzeda stravagante, non
dell’onorevole di Francalanza, dell’uomo nuovo che egli voleva essere. E arrivando in
casa della vecchia, in quella casa dov’era venuto tante volte bambino, a veder gli stemmi,
a udire le storie dei Viceré, ad abbeverarsi d’albagia aristocratica, un muto sorriso gli
spuntò sulle labbra. Se gli elettori avessero saputo?
«Come sta la zia?» chiese alla cameriera, una faccia nuova.
«Così così...» rispose la donna, guardando curiosamente quel signore sconosciuto.
«Ditele che il principe suo nipote vorrebbe vederla.»
La vecchia era capace di non riceverlo; egli aspettava la risposta con una certa ansietà.
Donna Ferdinanda, udendo che c’era di là Consalvo, rispose alla cameriera, con voce
arrochita dal raffreddore: «Lascialo entrare». Ella aveva saputo gli ultimi vituperi
commessi dal nipote, la parlata in pubblico come un cavadenti, i princìpi di casta
sconfessati, l’inno alla libertà e alla democrazia, il palazzo Francalanza invaso dalla folla
dei mascalzoni, Baldassarre ammesso alla tavola del principe che prima aveva servito:
Lucrezia le aveva narrato ogni cosa, per vendicarsi, per rovinare Consalvo, per portargli
via l’eredità. E donna Ferdinanda aveva sentito rimescolarsi il vecchio sangue degli
Uzeda, dallo sdegno, dall’ira; ma adesso era ammalata, l’egoismo della vecchiaia e
dell’infermità temperava i suoi bollori. E Consalvo veniva a trovarla: dunque s’umiliava,
le dava questa soddisfazione negatale per tanto tempo. Poi, nonostante le apostasie e i
vituperi, egli era tuttavia il principe di Francalanza... il capo della casa, il suo protetto
d’una volta... «Lascialo entrare...»
Egli le andò incontro premurosamente, si chinò sul lettuccio di ferro, quello di
tant’anni addietro, e domandò:
«Zia, come sta?».
Ella fece solo un gesto ambiguo col capo.
«Ha febbre? Mi lasci sentire il polso... No, soltanto un po’ di calore. Che cosa ha
preso? Ha chiamato un dottore?»
«I dottori sono altrettanti asini» gli rispose brevemente, voltandosi con la faccia contro
il muro.
«Vostra Eccellenza ha ragione... sanno ben poco... ma qualcosa più di noi sanno
pure... Perché non curarsi in principio?»
La vecchia rispose con uno scoppio di tosse cavernosa che finì con uno scaracchio
giallastro.
«Ha la tosse e non prende nulla! Le porterò io certe pastiglie che sono davvero
miracolose. Mi promette di prenderle?»
Donna Ferdinanda fece il solito cenno col capo.
«Io non sapevo nulla, altrimenti sarei venuto prima. M’hanno detto che Vostra
Eccellenza stava poco bene a momenti, in casa Radalì... Sa che mia sorella è andata oggi
a vedere la Serva di Dio, quella di cui si narrano tante cose? È andata col Vicario, lei
solamente ha avuto il permesso. Pare che sia un favore insigne... Vostra Eccellenza crede
a tutto ciò che si narra?»
Non ebbe risposta. Pur continuò a parlare, comprendendo che alla vecchia doveva far
piacere udir chiacchiere e notizie, vedersi qualcuno vicino.
«Io, col rispetto dovuto, non ne credo niente. È forse peccato? Lo stesso San
Tommaso volle vedere e toccare, prima di credere... ed era santo!... Ma francamente,
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certe storie!... Teresa adesso è infatuata... Basta, ciascuno ha da vedersela con la propria
coscienza... E la zia Lucrezia che l’ha con me? Che cosa voleva che io facessi?... Mi va
sparlando per ogni dove, quasi fossi l’ultimo degli uomini...»
La vecchia non fiatava, gli voltava le spalle.
«Tutto pel grande amore del marito improvvisamente divampatole in petto!... Prima
dichiarava ridicoli gli atteggiamenti di Giulente – non lo chiamava zio sapendo di farle
piacere –, adesso sono tutti infami coloro che non l’hanno sostenuto!»
Un nuovo scoppio di tosse fece soffiare la vecchia come un mantice. Quando
calmossi, ella disse con voce affannata, ma con accento di amaro disprezzo:
«Tempi obbrobriosi!... Razza degenere!»
La botta era diretta anche a lui. Consalvo tacque un poco, a capo chino, ma con un
sorriso di beffa sulle labbra, poiché la vecchia non poteva vederlo. Poi, fiocamente, con
tono d’umiltà, riprese:
«Forse Vostra Eccellenza l’ha anche con me... Se ho fatto qualcosa che le è
dispiaciuta, gliene chiedo perdono... Ma la mia coscienza non mi rimprovera nulla...
Vostra Eccellenza non può dolersi che uno del suo nome sia di nuovo tra i primi del
paese... Forse le duole il mezzo col quale questo risultato s’è raggiunto... Creda che duole
a me prima che a lei... Ma noi non scegliamo il tempo nel quale veniamo al mondo; lo
troviamo com’è, e com’è dobbiamo accettarlo. Del resto, se è vero che oggi non si sta
molto bene, forse che prima si stava d’incanto?»
Non una sillaba di risposta.
«Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l’età nostra, né io le dirò che tutto vada per il
meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo perché è passato...
L’importante è non lasciarsi sopraffare... Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo
zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse: “Vedi? Quando c’erano i
Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento”.
Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d’accordo con la felice memoria; ma egli
disse allora una cosa che m’è parsa e mi pare molto giusta... Un tempo la potenza della
nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo... La differenza è più di nome che di
fatto... Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani
erano stinchi di santo. E un uomo solo che tiene nelle proprie mani le redini del mondo e
si considera investito d’un potere divino e d’ogni suo capriccio fa legge è più difficile da
guadagnare e da serbar propizio che non il gregge umano, numeroso ma per natura
servile... E poi, e poi il mutamento è più apparente che reale. Anche i Viceré d’un tempo
dovevano propiziarsi la folla; se no, erano ambasciatori che andavano a reclamare a
Madrid, che ne ottenevano dalla Corte il richiamo...o anche la testa!... Le avranno forse
detto che un’elezione adesso costa quattrini; ma si rammenti quel che dice il Mugnòs del
Viceré Lopez Ximenes, che dovette offrire trentamila scudi al Re Ferdinando per restare
al proprio posto... e ci rimise i quattrini! In verità, aveva ragione Salomone quando diceva
che non c’è niente di nuovo sotto il sole! Tutti si lagnano della corruzione presente e
negano fiducia al sistema elettorale, perché i voti si comprano. Ma sa Vostra Eccellenza
che cosa narra Svetonio, celebre scrittore dell’antichità? Narra che Augusto, nei giorni dei
comizi, distribuiva mille sesterzi a testa alle tribù di cui faceva parte, perché non
prendessero nulla dai candidati!...»
Egli diceva queste cose anche per se stesso, per affermarsi nella giustezza delle
proprie vedute; ma, poiché la vecchia non si muoveva, pensò che forse s’era assopita e
che egli parlava al muro. S’alzò, quindi, per vedere: donna Ferdinanda aveva gli occhi
spalancati. Egli continuò, passeggiando per la camera:
«La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre
gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora
quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il
primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un
democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà
non è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è il libro più
cercato alla biblioteca dell’Università, dove io mi reco qualche volta per i miei studi?
L’Araldo sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria. Dal tanto maneggiarlo, ne hanno
sciupato tre volte la legatura! E consideri un poco: prima, ad esser nobile, uno godeva
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grandi prerogative, privilegi, immunità, esenzioni di molta importanza. Adesso, se tutto
ciò è finito, se la nobiltà è una cosa puramente ideale e nondimeno tutti la cercano, non
vuol forse dire che il suo valore e il suo prestigio sono cresciuti?... In politica, Vostra
Eccellenza ha serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo,
considerandoli come i sovrani legittimi... Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto
che sono stati sul trono per più di cento anni... Di qui a ottant’anni Vostra Eccellenza
riconoscerebbe dunque come legittimi anche i Savoia... Certo, la monarchia assoluta
tutelava meglio gl’interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente
irresistibile l’ha travolta... Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? Il nostro
dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!...».
Il discorso di Consalvo ai suoi elettori
Consalvo avanzavasi, pallidissimo, ringraziando appena con un cenno del capo,
assordato, abbacinato, sgomentato dallo spettacolo. Dietro di lui, nuovi torrenti si
riversavano nelle terrazze, nei portici, nell'arena, vincendo la resistenza dei primi
occupanti; ma tuttavia migliaia di mani applaudivano, sventolavano fazzoletti e cappelli;
le signore, in piedi sulle seggiole, salutavano coi ventagli e gli ombrellini, formavano
gruppi pittoreschi sul fondo scuro della gran folla mascolina; e la ovazione si prolungava,
le grida salivano ad acuti stridenti alle riprese della marcia, i battimani scrosciavano come
una violenta grandinata sulle tegole. Qua e là piccoli gruppi di avversari o d'indifferenti
restavano silenziosi, ma dall'alto sembrava che tutta quella moltitudine avesse una sola
bocca per urlare, due sole braccia per applaudire. «Uno... due... due e mezzo... tre
minuti...» alcuni contavano, con gli orologi in mano, e si vedeva gente con le lacrime agli
occhi, dalla commozione; molti perdevano la voce: stanchi di sventolare i fazzoletti, se li
legavano ai colli rossi e sudati. «Basta... basta...» diceva Consalvo, a bassa voce, con un
senso di vera paura dinanzi a quel mare urlante e Baldassarre, da lontano, non potendo
attraversare il muro vivente che lo serrava tutt'intorno, faceva segni disperati alla musica;
e finalmente i sonatori compresero, la musica finì, gli applausi e le grida si spensero; ma,
ad un tratto, mentre il presidente del comitato si faceva alla balaustrata presentando il
candidato, squillarono le note dell'inno garibaldino, un nuovo fremito corse per la folla, il
delirio ricominciò... Ora Consalvo, vinta la paura del primo istante, ringraziava più
francamente a destra e a manca, e sorrideva, sicuro di sé, gonfio il cuore di fiducia
superba. La musica cessò nuovamente, la folla si chetò, le bandiere appoggiate alle
colonne del portico formarono una nuova decorazione: l'ufficio di presidenza, i
giornalisti, gli stenografi presero posto alle loro tavole e i segretari tirarono fuori dalle
cartelle i loro fogli. Uno di essi sorse in piedi, e in mezzo a un silenzio solenne cominciò
con voce stridula la litania delle adesioni. Ma la gente stancavasi, le parole si perdevano
in un sordo mormorìo. In un gruppo di studenti motteggiatori discutevasi animatamente
se il candidato avrebbe cominciato con l'aristocratico Signori o il repubblicano Cittadini.
Uno affermò: «Scommettiamo che dirà Signori cittadini?» Ma gli entusiasti lanciavano
sguardi severi agli scettici, intimavano il silenzio. Finalmente la litania finì. Consalvo,
con una mano sul velluto della balaustrata, voltato di fianco, aspettava. Ad un cenno del
presidente, si volse alla folla: «Concittadini!... Se la benevolenza dei miei amici vi ha
indotto a credere che io possegga le doti dell'oratore, e vi ha qui adunati con la promessa
che udrete un vero e proprio discorso, io sono dolente di dovervi disingannare...» La voce
nitida, ferma, sicura, giungeva da per tutto, debole ma chiara anche negli angoli più
remoti. «Io vi dichiaro, concittadini, che non posso, che non so parlare; tale è il tumulto di
impressioni, di sentimenti, d'affetti che sconvolge in questo momento l'animo mio. (Gli
stenografi notarono: Benissimo!) Io sento che fino ai miei giorni più tardi non si potrà più
cancellare il ricordo di questo momento indescrivibile, di questa immensa corrente di
simpatia che mi circonda, che m'incoraggia, che mi riscalda, che infiamma il mio cuore,
che ritorna a voi altrettanto viva e gagliarda e sincera quale viene dai vostri cuori a me.
(Applausi prolungati.) Ma questa restituzione è troppo poca cosa e non vale a sdebitarmi:
tutta la mia vita dedicata al vostro servigio sarà bastevole appena. (Applausi.)
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Concittadini!... Voi chiedete un programma a chi sollecita l'onore dei vostri suffragi; il
mio programma, in mancanza d'altri meriti, avrà quello della brevità; esso compendiasi in
tre sole parole: libertà, progresso, democrazia... (Battimani fragorosi ed entusiastici.) Un
superstizioso contento occupa l'animo mio, nell'udir voi, liberi cittadini, coronare
d'applausi non me, ma queste sacre parole, qui, tra questi vecchi muri che furono un
tempo cittadella dell'ignavia, del privilegio, dell'oscurantismo teologico... (Scoppio
unanime di approvazioni clamorose), qui, tra queste mura, già covo dell'ignoranza, oggi
vivido faro da cui radia la luce del vittorioso pensiero! (Nuovo scoppio di frenetici
battimani, la voce dell'oratore è soffocata per alcuni minuti.) Concittadini, la mia fede in
questi grandi ideali umani non è nuova, non data da questi giorni, in cui tutti la sfoggiano,
come i galanti vantano le grazie della donna desiderata... (Ilarità), protestando di non
volerne i favori... (Nuova ilarità) ma di star paghi a sospirarla da lungi... (Risa generali.)
La mia fede data dall'alba della mia vita, quando i pregiudizi di casta che io conobbi, ma
che non mi duole di aver conosciuti, perché ora sono meglio in grado di combatterli...
(Benissimo!) mi vollero chiuso qui, tra questi muri. Permettetemi ch'io vi narri un
aneddoto di quei giorni lontani. Erano i tempi in cui Garibaldi il Liberatore correva
trionfalmente da un capo all'altro del feudo borbonico per farne una libera provincia della
libera patria italiana... (Bravo, bene!) Io ero allora fanciullo, e alla mia mente inesperta ed
ignara il nome di Garibaldi sonava come quello di un guerriero formidabile che altre leggi
non conoscesse fuorché le dure, le violente leggi di guerra. Un giorno corse una voce:
Garibaldi era alle porte della nostra città; i Padri Benedettini si disponevano ad ospitarlo...
non potendo subissarlo coi suoi diavoli rossi... (Si ride.) Ed io quasi temetti di guardare in
viso quel fulmine di guerra, come se col solo sguardo dovesse incenerirmi. Ed un giorno i
miei compagni m'additarono l'Eroe dei due mondi. Allora io vidi quel biondo arcangelo
della libertà intento... sapete voi a qual opera? A coltivare le rose del nostro giardino! Da
quel giorno la rivelazione di quel cuore vasto e generoso, dove la forza leonina
s'accoppiava alla gentilezza soave... (Scroscio di applausi), di quell'uomo che,
conquistato un Regno, doveva, come Cincinnato, ridursi a coltivare il sacro scoglio, dove
oggi aleggia il magnanimo spirito di Lui, che fu a ragione chiamato "il Cavaliere
dell'umanità"...» Gli stenografi smisero di scrivere, tale uragano d'applausi e di grida si
scatenò. Urlavano: «Viva Francalanza!... Viva Garibaldi!... Viva il nostro deputato!...» e
le parole del principe si perdevano nel clamore universale, vedevasi solamente la bocca
che s'apriva e chiudeva come masticando, il braccio che gestiva rotondamente per finire
l'aneddoto: la confusione tra Menotti Garibaldi e il padre, la sostituzione di se stesso al
morto cugino... «Silenzio!... Parla ancora!... Viva Garibaldi!... Viva il principino!...»
Tratto di tasca il fazzoletto, egli lo sventolò gridando: «Viva Garibaldi! Viva l'Eroe dei
due mondi!...» Poi, aspettando il silenzio, si terse la fronte imperlata di sudore.
«Concittadini,» riprese quando fu ristabilita la calma, «io sono giovane d'anni, e la vita
potrà apprendermi molte cose e dimostrarmi la fallacia di molte altre, e darmi
quell'esperienza, quel senno maturo che ancora forse non ho; ma quali che sieno le
vicende e le prove che l'avvenire mi serba, una cosa posso affermare fin da questo
momento, sicuro che per volger d'anni o per mutar di fortuna non potrà venir meno: la
mia fede nella democrazia!... (Salva d'applausi entusiastici.) Questa fede mi è cara com'è
cara al capitano la bandiera conquistata nella battaglia... (Scoppio di battimani.)
All'alpigiano che passa tutti i suoi giorni tra le cime dei monti, il grandioso spettacolo
nulla dice, o ben poco; all'alpinista che è partito dalla pianura, che ha conquistato a grado
a grado l'ardua vetta sublime, il cuore s'allarga di gioia, si gonfia di giusta superbia nel
contemplare il meritato orizzonte. (Ovazione generale e prolungata.) Cittadini! Io non
voglio turbare la solennità di questa adunanza portando dinanzi a voi le piccole gare in
cui si affannano le anime piccole; ma voi sapete che un'accusa mi fu lanciata; voi sapete
che mi dissero... aristocratico...» Gli stenografi non seppero se notare impressione o
silenzio o movimenti diversi; ma già l'oratore incalzava: «Quest'accusa è fondata sui miei
natali. Io non sono responsabile della mia nascita... (No! no!) né voi della vostra, né
alcuno della propria, visto e considerato che quando veniamo al mondo non ci chiedono il
nostro parere... (Ilarità fragorosa.) Io sono responsabile della mia vita; e la mia vita è
stata tutta spesa in un'opera di redenzione: redenzione dai pregiudizi sociali e politici,
redenzione morale e intellettuale; e nulla è valso ad arrestar quest'opera; né le facili
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seduzioni, né le derisioni ironiche, né i sospetti ingiuriosi; né, più gravi al mio cuore, le
opposizioni incontrate nello stesso focolare domestico... (Bene! Bravo! Applausi.) Voi
vedete che io non posso più rinunziare a questa fede; essa mi è tanto più cara e preziosa,
quanto più mi costa... (Scoppio di battimani fragorosi e prolungati. Grida di: Viva
Francalanza... Viva la democrazia!... Viva la libertà... L'oratore è costretto a tacere per
qualche minuto.)» Il piacere, l'ammirazione erano in ogni animo: negli amici che
vedevano assicurato il trionfo, negli avversari che riconoscevano la sua abilità, nella
stessa gente minuta che non comprendeva, ma esclamava: «Ma che avvocato! Non ci
sono avvocati capaci di parlare così», e le signore, animatissime, godevano come allo
spettacolo, scambiando osservazioni sull'arte e sulla persona del principe quasi fosse un
primo attore recitante la sua parte. «Ma voi, concittadini,» riprese egli, «giudicherete
forse che se questa fede compendia tutto un programma, è mestieri che un legislatore si
tracci una precisa linea di condotta in tutte le particolari quistioni riflettenti l'orientamento
politico, l'ordinamento delle amministrazioni pubbliche, il regime economico e via
dicendo. Permettetemi dunque di dirvi le mie idee in proposito. Disciolte le antiche parti
parlamentari, non ancora si delineano le nuove. Io auguro pertanto la formazione, e
seguirò le sorti di quel partito che ci darà la libertà con l'ordine all'interno e la pace col
rispetto all'estero (Benissimo, applausi), di quel partito che realizzerà tutte le riforme
legittime conservando tutte le tradizioni (Bravo! bene!), di quel partito che restringerà le
spese folli e largheggerà nelle produttive (Vivissimi applausi), di quel partito che non
presumerà colmare le casse dello Stato vuotando le tasche dei singoli cittadini (Ilarità
generale, applausi), di quel partito che proteggerà la Chiesa in quanto potere spirituale, e
la infrenerà in quanto elemento di civili discordie (Approvazioni), di quel partito,
insomma, che assicurerà nel modo più equo, per la via più diritta, nel tempo più breve, la
prosperità, la grandezza, la forza della gran patria comune (Applausi generali.)»
Veramente gli applausi non furono generali a questo passo, e anzi qualche colpo di tosse
partito da un angolo fece voltare molte teste. «Voi mi direte,» proseguiva però l'oratore,
«che questo programma è troppo vasto ed eclettico; perché, secondo un proverbio, è
impossibile avere ad un tempo la botte piena e la moglie ubriaca (Ilarità). La botte piena,
senza poterne spillare l'inebbriante liquore, rappresenterebbe una ricchezza inutile, e tanto
varrebbe che contenesse acqua o un altro fluido qualunque; ma quanto ad avere anche la
moglie ubriaca, sarebbe in verità troppa grazia: me ne appello a tutti i mariti. (Scoppio
d'ilarità clamorosa, battimani vivi e replicati.) Bisogna attingere dalla botte quel tanto di
vino che basti a saziar la sete, a letificare lo spirito. Dicono i francesi: Si jeunesse savait!
Si vieillesse pouvait! Questo che è impossibile nella vita di un sol uomo, non solo è
possibile, ma necessario nella vita collettiva dei popoli. Il legislatore deve possedere le
audacie della gioventù accoppiate al senno della vecchiaia; la legge deve tener conto di
tutti gli interessi, di tutte le credenze, di tutte le aspirazioni per fonderle e armonizzarle:
essa è necessariamente regolata sull'esperienza del passato, ma non deve né può tarpar
l'ali all'avvenire! (Ovazione.) Pertanto, invidiabili e invidiate sono le nostre istituzioni,
che mediante un prudente equilibrio tra i due rami del Parlamento e il potere esecutivo
permettono che ci s'avvicini alla suprema conciliazione. Ma, come tutte le cose umane,
queste istituzioni non sono perfette, bensì perfettibili e a tal opera di continuo
miglioramento io dedicherò tutte le mie forze, scevro come sono e di paure e di feticismi.
Lo Statuto può e deve essere migliorato. Questa necessità è intesa da tutti: dal popolo che
reclama intera la sua sovranità, al Re che riconosce la sua dal popolo. (Approvazioni.) Per
nostra fortuna, popolo e Re sono oggi in Italia tutt'uno (Applausi) e la monarchia
democratica di Casa Savoia spiega e legittima i sentimenti democraticamente monarchici
degli italiani (Benissimo!) Fin quando sederanno sul trono principi leali e Re
galantuomini, il dissidio sarà impossibile, la nostra fortuna sicura! (Scroscio di applausi
prolungati, grida di: Viva il Re!... Viva l'Italia!... La voce dell'oratore è coperta dai
battimani.) Ma poiché l'aspetto della sovranità popolare e il benessere delle classi
laboriose debbono essere scopo precipuo dei legislatori, sarà impossibile raggiungerlo se
non verranno a sedere alla Camera i più legittimi, i più diretti rappresentanti del popolo.
Lasciatemi quindi augurare che molti candidati operai riescano eletti. Molti combattono
le candidature operaie, forti d'un motto inglese che suona: the right man in the right
place. Ma essi dimenticano che questa citazione è una spada a due tagli, e che
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allorquando il Parlamento dovesse occuparsi di quistioni operaie, the right men in the
right places sarebbero appunto i cittadini operai (Bene! bravo!) Una volta un parrucchiere
s'impancò a critico, e il celebre Voltaire, seccato da tanta presunzione, gli disse: "Mastro
Andrea, fate piuttosto parrucche." (Ilarità.) Ma se si fosse trattato di dover fare parrucche,
e Voltaire avesse voluto dire la sua, mastro Andrea avrebbe potuto rispondere al celebre
poeta: "Signor Voltaire, fate tragedie piuttosto." (Ilarità fragorosa, applausi prolungati.)
Concittadini, la quistione sociale, bisogna riconoscerlo francamente, preme in questo
momento più che tutte le altre. È essa nuova? No, certo. Facciamone un poco la storia...»
«Ci siamo! Adesso stiamo freschi!...» mormorarono qua e là gli avversari, gli studenti;
ma voci crucciate ingiunsero: «Silenzio!» mentre l'oratore, prese le mosse da Adamo ed
Eva e da Caino ed Abele, galoppava per la Babilonia, l'Egitto, la Grecia e Roma, saltava a
piè pari il Medioevo, piombava nell'Ottantanove, si arrestava al principe di Bismarck ed
al socialismo della cattedra. L'attenzione del pubblico cominciava a diminuire; tuttavia
molti si sforzavano di seguirlo in quella corsa pazza. «Lo Stato dovrà dunque essere
l'incarnazione della divina Provvidenza? (Ilarità.)» No, dove lo Stato non può arrivare,
deve supplire l'iniziativa individuale: quindi Trade-unions, probiviri, cooperative, libertà
di sciopero. Era così sciolta la quistione sociale? «No, ci vuol altro!» […]
Subito dopo passò alla quistione delle finanze. «Quivi sospiri, pianti ed alti guai...»
(Ilarità.) Ma i guai non erano senza riparo. «Non facciamo per carità di patria confronti
con gli Stati Uniti d'America...» Prima di tutto occorreva riformare il sistema tributario.
«Paul Leroy Beaulieu dice... Secondo l'opinione dell'illustre Smith...» Citazioni e cifre si
accavallavano. Pochi lo seguivano ormai in quelle elucubrazioni, altra gente andava via,
le signore sbadigliavano francamente. «Passiamo adesso ai trattati di commercio...
Consideriamo l'ufficio dei comizi agrari...» Ad ogni annunzio di nuovo argomento,
piccoli gruppi di spettatori seccati se ne andavano: «Bellissimo discorso, ma dura
troppo...» Gli uscenti costringevano la folla a tirarsi da canto, i fedeli ingiungevano:
«Silenzio!» e Baldassarre non si dava pace, vedendo l'ineducazione del pubblico.
«Amministrazione della giustizia... Giustizia nell'amministrazione. Discentrare
accentrando, accentrare discentrando...» Quanto alla marina mercantile, il sistema dei
premi non era scevro d'inconvenienti. Poi, «riforma postale e telegrafica, legislazione dei
telefoni; non bisogna neppure dimenticare l'idra della burocrazia...» Adesso si vedevano
larghi vuoti nell'arena e nei portici, specialmente nelle terrazze dove il sole arrostiva i
crani. «Ma questo non è un programma elettorale, è un discorso da ministro!...»
sogghignavano alcuni; l'uditorio era schiacciato dal peso di quell'erudizione, di quelle
nomenclature monotone; la luce troppo chiara, il silenzio del monastero ipnotizzava la
gente; il presidente del comizio abbassava lentamente la testa, vinto dal sonno; ma, ad
uno scoppio di voce del candidato, la rialzava rapidamente, guardando attonito attorno; i
musicanti sbadigliavano, morendo di fame. Baldassarre dava di tanto in tanto il segnale di
applausi, incorava i fedeli anch'essi accasciati e vinti; si disperava vedendo passare
inosservate le bellissime cose dette dall'oratore. Questi parlava da un'ora e mezza, era
tutto in sudore, la sua voce s'arrochiva, il braccio destro infranto dal continuo gestire si
rifiutava oramai al suo ufficio. Egli continuava tuttavia, deciso ad andare sino in fondo,
nonostante la stanchezza propria e del pubblico, perché si dicesse che aveva parlato due
ore difilato. A un tratto alcune seggiole rovesciate dalla gente che scappava fecero un
gran fracasso. Tutti si voltarono, temendo un incidente spiacevole, una rissa; l'oratore fu
costretto a tacere un momento. Riprendendo a parlare, la voce gli uscì rauca e fioca dalla
strozza; non ne poteva più, ma era alla perorazione. «Queste ed altre riforme io
vagheggio; non credo tuttavia di dover abusare della vostra pazienza.» Sospiri di sollievo
uscirono dai petti oppressi. «Concittadini! Se voi mi manderete alla Camera, io dedicherò
tutto me stesso all'attuazione di questo programma. (Bene! Bravo!) Io non presumo di
essere infallibile, perché non sono né profeta né figlio di profeta (Si ride): accoglierò
pertanto con lieto animo, anzi sollecito fin da ora i miei concittadini a suggerirmi quelle
idee, quelle proposte, quelle iniziative che credono giuste e feconde (Benissimo). Il nostro
motto sia: Fiat lux! (Applausi). Luce di scienza, di civiltà, di progresso costante (Scoppio
di applausi). Il pensiero della patria stia in cima ai nostri cuori (Approvazioni). La patria
nostra è quest'Italia che il pensiero di Dante divinò, e che i nostri padri ci diedero a costo
di sangue (Vivissimi applausi). La nostra patria è anche quest'isola benedetta dal sole,
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dov'ebbe culla il dolce stil novo e donde partirono le più gloriose iniziative (Nuovi
applausi). La nostra patria è finalmente questa cara e bella città dove noi tutti formiamo
come una sola famiglia (Acclamazioni). Dicesi che i deputati rappresentino la nazione e
non i singoli collegi. Ma in che consistono gl'interessi nazionali se non nella somma degli
interessi locali? (Benissimo, applausi.) Io, quindi, se volgerò la mente allo studio dei
grandi problemi della politica generale, credo di potervi promettere che avrò a cuore
come i miei propri gli affari più specialmente riguardanti la Sicilia, questo collegio, la
mia città natale e tutti i singoli miei concittadini (Grande acclamazione). Grato a tutti voi
dell'indulgenza con la quale m'avete ascoltato, io finisco invitandovi a sciogliere un
triplice evviva. Viva l'Italia (Scroscio d'applausi grida di: Viva l'Italia.) Viva il Re!
(Generali e fragorosi battimani.) Viva la libertà! (Tutto il pubblico in piedi applaude e
acclama. Si sventolano i fazzoletti, si grida: Viva Francalanza! Viva il nostro deputato! Il
presidente abbraccia l'oratore. Commozione generale, entusiasmo indescrivibile.)»
Consalvo non ne poteva più, sfiancato, rotto, esausto da una fatica da istrione: parlava da
due ore, da due ore faceva ridere il pubblico come un brillante, lo commoveva come un
attor tragico, si sgolava come un ciarlatano per vendere la sua pomata. E mentre la
marcia, intonata per ordine di Baldassarre, spronava l'entusiasmo del pubblico, nel gruppo
degli studenti canzonatori domandavano: «Adesso che ha parlato, mi sapete ripetere che
ha detto?»
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CAPITOLO III
Figurazioni del conflitto intergenerazionale
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Da I Vecchi e i Giovani di Luigi Pirandello
Don Cosmo Lauretano
Flaminio Salvo ritornò tardi, la sera, d’umor gajo, come ogni qual volta prendeva una
grave decisione.
A cena, si scusò con don Cosmo della sfuriata della mattina; disse che n’aveva fino
alla gola, delle innumerevoli seccature che gli erano diluviate da quelle zolfare
d’Aragona, e che aveva deciso di chiuderle.
– Così sciopereranno un po’ per piacer mio, i signori solfaraj, e avranno piú tempo
d’assistere alle prediche dei loro sacerdoti umanitarii. Mangino prediche! Bello, il
vangelo umanitario, don Cosmo, letto su una pagina sola! Se voltassero pagina. Ma se ne
guardano bene! Hanno ragione; ma la loro ragione è qua!
E si toccò il ventre.
– Andate a far loro intendere che la politica doganale seguìta dal Governo italiano è
stata tutta una cuccagna per l’industria e gl’industriali dell’alta Italia e una rovina
spaventosa per il Mezzogiorno e per la nostra povera isola; che da anni e anni l’aumento
delle tasse e di tutti i pesi è continuo e continuo il ribasso dei prodotti; che col prezzo a
cui è disceso lo zolfo non solo è assolutamente impossibile trattarli meglio, ma è
addirittura una follìa seguitar l’industria... Io non avevo chiuso le zolfare per loro, per dar
loro almeno un tozzo di pane. Scioperano? Tante grazie! Vuol dire che possono fare a
meno di lavorare. Tutti a spasso! Allegria!
– La vita! – sospirò don Cosmo, con gli angoli della bocca contratti in giù. – A
pensarci bene... Lo zolfo, sicuro... le industrie.. questa tovaglia qua, damascata, questo
bicchiere arrotato... il lume di bronzo... tutte queste minchionerie sulla tavola... e per la
casa... e per le strade... piroscafi sul mare, ferrovie, palloni per aria... Siamo pazzi, parola
d’onore!... Sì, servono, servono per riempire in qualche modo questa minchioneria
massima che chiamiamo vita, per darle una certa apparenza, una certa consistenza... Mah!
Vi giuro che non so, in certi momenti, se sono più pazzo io che non ci capisco nulla o
quelli che credono sul serio di capirci qualche cosa e parlano e si muovono, come se
avessero veramente un qualche scopo davanti a loro, il quale poi, raggiunto, non dovesse
a loro stessi apparir vano. Io comincerei, signor mio, dal rompere questo bicchiere. Poi
butterei giù la casa... Ricominciando daccapo, chi sa!... Voi dite che quei disgraziati la
ragione l’hanno qua? Beati loro, signor mio! E guaj se si saziano... Dove l’avete più voi,
la ragione? Dove l’ho piú io?
Donna Caterina Lauretano
Da due giorni - dacché Roberto era arrivato a Girgenti - usciva dalla bocca amara di
donna Caterina Auriti questo fiotto veemente di crudeli ricordi, d’acerbe rampogne, di
fiere accuse. Guardando il figlio, a traverso le pàlpebre rilassate, con quell’occhio quasi
spento, si votava il cuore di tutte le amarezze accumulate in tanti anni, di tutto il dolore,
di cui l’anima sua s’era nutrita e attossicata.
– Che speri? che vuoi? – gli domandava. – Che sei venuto a far qui?
E Roberto Auriti, investito dalla furia della madre, taceva aggrondato, a capo chino,
con gli occhi chiusi.
Aveva ormai quarantatré anni: già calvo, ma vigoroso, col volto fortemente inquadrato
dalle folte sopracciglia nere, quasi giunte, e dalla corta barba pur nera, se ne stava avvilito
e addogliato, come un fanciullo debole al cospetto di quella madre che, pur così debellata
dai dolori e dagli anni, serbava tanta energia e così fieri spiriti. Si sentiva veramente
sconfitto. L’animo, troppo teso negli sforzi della prima gioventù, gli era venuto meno a
poco a poco, di fronte alla nuova, laida guerra, guerra di lucro, guerra per la conquista
indegna dei posti. E ne aveva chiesto uno anche lui, non per sé, per il fratello Giulio, e lo
aveva ottenuto al Ministero del tesoro. Egli s’era affidato agli scarsi, incerti proventi della
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professione d’avvocato: proventi che tuttavia, tal volta, non gli lasciavano al tutto
tranquilla la coscienza, non già perché non li credesse meritato compenso al proprio
lavoro, allo zelo; ma perché la maggior parte delle liti gli venivano per il tramite dei
deputati siciliani suoi amici, di Corrado Selmi specialmente, e per parecchie aveva il
dubbio che le avesse vinte, non tanto per la sua bravura, quanto per l’indebita e non
gratuita ingerenza di quelli. Ma egli, morto il cognato Michele Del Re, aveva la madre e
la sorella vedova e il nipote da mantenere a Girgenti; oltre che a Roma, da parecchi anni,
non era più solo. Certo la madre non ignorava la convivenza di lui a Roma con una
donna, di cui per antichi pregiudizii e per la puritana rigidezza dei costumi non poteva
avere alcuna stima; non glien’aveva mai fatto parola; ma egli sentiva l’aspra condanna nel
cuore materno, un’altra amarezza - secondo lui ingiusta - che la madre non gli mostrava
per non avvilirlo, per non ferirlo vieppiù. Ma forse donna Caterina, in quei momenti, non
ci pensava nemmeno, tutt’intesa com’era a mettere innanzi al figlio, con foga inesausta,
insieme coi ricordi luttuosi della famiglia, le condizioni tristissime del paese. E durante
quest’esposizione, la sorpresero il canonico Pompeo Agrò e il Mattina.
Dalla cordialità vivace, con cui Roberto Auriti lo accolse, l’Agrò comprese subito
ch’egli ignorava ancora la pubblicazione di quel turpe articolo. Presentò il Mattina,
ossequiò la signora.
Donna Caterina aspettò che i primi convenevoli fossero scambiati e che i due amici
esprimessero la gioja di rivedersi dopo tanti anni; e riprese, rivolta all’Agrò:
– Per carità, Monsignore, glielo faccia intendere anche lei, che è amico sincero. Qua
siamo tra noi. Anche questo signore, se l’ha condotto lei, sarà un amico. Io voglio
persuadere mio figlio a non accettare questa lotta.
– Mamma... – pregò Roberto, con un sorriso afflitto.
– Sì, sì, – incalzò la madre. – Lo dicano loro. Che ha fatto Roberto, e perché, in nome
di che cosa viene oggi a chiedere il suffragio del suo paese? Forse in nome di tutto ciò
che fece da giovinetto, in nome del padre morto, dei sacrifizii e degli ideali santi per cui
quei sacrifizii furono fatti e quello strazio sofferto? Farà ridere!
– Oh, no, perché, donna Caterina? – si provò a interrompere il canonico Agrò,
portandosi una mano al petto, quasi ferito. – Non dica così.
– Ridere! ridere! – incalzò quella con più foga. – Lo sa bene anche lei come quegli
ideali si sono tradotti in realtà per il popolo siciliano! Che n’ha avuto? com’è stato
trattato? Oppresso, vessato, abbandonato e vilipeso! Gli ideali del Quarantotto e del
Sessanta? Ma tutti i vecchi, qua, gridano: Meglio prima! Meglio prima! E lo grido
anch’io, sa? io, Caterina Laurentano, vedova di Stefano Auriti.
– Mamma! mamma! – supplicò Roberto, con le mani agli orecchi.
E subito la madre:
– Sì, figlio: perché prima almeno avevamo una speranza, quella che ci sostenne in
mezzo a tutti i triboli che tu sai e non sai, là, a Torino... Nessuno vuol più saperne, ora,
credi. Troppo cari si son pagati, quegli ideali; e ora basta! Ritòrnatene a Roma! Non
voglio, non posso ammettere che tu sia venuto qua in nome del Governo che ci regge. Tu
non hai rubato, figlio, non hai prestato man forte a tutte le ingiustizie e le turpitudini che
qua si perpetrano protette dai prefetti e dai deputati, non hai favorito la prepotenza delle
consorterie locali che appestano l’aria delle nostre città come la malaria le nostre
campagne! E allora perché? che titoli hai per essere eletto? chi ti sostiene? chi ti vuole?
Entrò, in questo punto, Guido Verònica, rassettato e ricomposto. Era salito all’albergo
dopo la rissa per cambiarsi d’abito, e vi aveva lasciato detto che se qualcuno fosse venuto
a cercar di lui, egli sarebbe ritornato alle ore tre del pomeriggio. Subito l’Agrò e il
Mattina gli fecero cenno con gli occhi, che Roberto non sapeva nulla. Donna Caterina
Auriti s’era levata in piedi, per incitare il figlio a rifiutare l’ajuto del Governo, che del
resto non avrebbe avuto alcun valore nell’imminente lotta, e ad accettar questa, invece, in
nome dell’isola oppressa. Non avrebbe vinto, certamente; ma la sconfitta almeno non
sarebbe stata disonorevole e sarebbe servita di mònito al Governo.
– Perché voi lo vedrete, – concluse. – Faccio una facile profezia: non passerà un anno,
assisteremo a scene di sangue.
Guido Verònica parò le mani grassocce.
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– Per carità, signora mia, per carità, non dica codeste cose, che sono orribili in bocca a
lei! Le lasci dire ai sobillatori che, senza volerlo, fanno il giuoco dei clericali! Scusi,
Canonico; ma è proprio così! Quattro mascalzoni ambiziosi che seminano la discordia per
assaltare i Consigli comunali e provinciali e anche il Parlamento; altri quattro ignobili
nemici della patria che sognano la separazione della Sicilia sotto il protettorato inglese,
uso Malta! E c’è poi la Francia, la nostra cara sorella latina, che soffia nel fuoco e manda
denari per trar partito domani di qualche sommossa brigantesca, ispirata dalla mafia!
– Ah sì? – proruppe donna Caterina, che s’era tenuta a stento. – Lei si conforta così?
Sono tutte calunnie, le solite, quelle che ripetono i ministri, facendo eco ai prefetti e ai
tirannelli locali capi-elettori; per mascherare trenta e più anni di malgoverno! Qua c’è la
fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale dei
cosiddetti cappelli, le tasse comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha
neanche da comperarsi il pane! si stia zitto! si stia zitto!
Lando Lauretano
Calmo e freddo in apparenza, Lando Laurentano covava in segreto un dispetto amaro e
cocente del tempo in cui gli era toccato in sorte di vivere; dispetto che non si sfogava mai
in invettive o in rampogne, conoscendo che, quand’anche avessero trovato eco negli altri,
come ne trovavano difatti quelle dei tanti malcontenti in buona o in mala fede, non
avrebbero approdato a nulla.
Era, quel suo dispetto, come il fermento d’un mosto inforzato, in una botte che già
sapeva di secco.
La vigna era stata vendemmiata. Tutti i pampini ormai erano ingialliti;
s’accartocciavano aridi; cadevano; i tralci nudi si storcevano nella nebbia autunnale,
come chi si stiri in un lungo e sordo spasimo di noja; nella grigia distesa dei campi, tra la
caligine umida, non rimaneva più altro che un accennar muto e lieve e lento di pàlmiti
vagabondi.
Aveva dato il suo frutto, il tempo. E lui era venuto a vendemmia già fatta. Il mosto
generoso e grosso, raccolto in Sicilia con gioja impetuosa, mescolato con l’asciutto e
brusco del Piemonte, poi col frizzante e aspretto di Toscana, ora col passante, raccolto
tardi e quasi di furto nella vigna del Signore, mal governato in tre tini e nelle botti, mal
conciato ora con tiglio or con allume, s’era irrimediabilmente inacidito.
Età sterile, per forza, la sua, come tutte quelle che succedono a un tempo di
straordinario rigoglio. Bisognava assistere, tristi e inerti, allo spettacolo di tutti coloro che
avevan dato mano all’opera e volevano ora esser soli a darle assetto; alcuni tuttavia
sovreccitati e quasi farneticanti, altri già lassi e crogiolantisi con senile sorriso di
sufficienza nella soddisfazione d’un’ardua fatica comunque terminata, di cui non
volevano vedere i difetti, né che altri li vedesse.
Ah, in verità, sorte miserabile quella dell’eroe che non muore, dell’eroe che
sopravvive a se stesso! Già l’eroe, veramente, muore sempre, col momento: sopravvive
l’uomo e resta male. Guaj se non scoppia l’anima con veemenza, investita da quel vento
propulsore che la gonfia, la sforza e le fa assumere a un tratto una terribile maschera di
grandezza! Dopo quello sforzo, caduto il vento, l’anima violentata non sa, non può più
ricomporsi nelle sue naturali proporzioni non trova più il suo equilibrio: qua ancora
abbottata e intumidita, là floscia, ammaccata, casca da tutte le parti e, come un pallone in
cui si sia consumato lo stoppaccio, incespica e si straccia in tutti gli sterpi della via dianzi
sorvolata.
Lando Laurentano non sfogava il dispetto, perché, non avendo potuto prima per l’età,
non potendo più ora per l’inerzia dei tempi far nulla, sdegnava come troppo facile dir che
gli altri avevano fatto male. Fare... ecco, poter fare, senza punte parole! Avevano fatto gli
altri. Ora era il tempo delle parole. Ne facevano tante gli altri inutilmente, ch’egli poteva
bene risparmiar le sue. Vedeva che coloro, a cui era stato dato di fare, s’erano dibattuti a
lungo tra due concezioni, una vacua e l’altra servile: quella di un’Italia classica e quella di
un’Italia romantica: una fantasima in toga e un manichino da vestire con la livrea e il
beneplacito altrui: un’Italia retorica, fatta di ricordi di scuola, quella stessa forse
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vagheggiata dal Petrarca e suggerita a Cola di Rienzo, repubblicana; e un’Italia forestiera,
o inforestierata tutta nell’anima e negli ordini. Purtroppo, le necessità storiche dovevano
effettuar questa. E, in fondo, non si era fatto altro che sostituire una retorica a un’altra;
alla scolastica imitazione degli antichi, la spropositata imitazione degli stranieri. Imitare,
sempre. «Oh Italiani, – aveva gridato dalle Murate di Firenze il Guerrazzi, – scimmie e
non uomini!».
Soffocati dalle così dette ragioni di Stato gl’impeti più generosi, la nazione era stata
messa su per accomodamenti e compromissioni, per incidenze e coincidenze. Un solo
fuoco, una sola fiamma avrebbe dovuto correre da un capo all’altro d’Italia per fondere e
saldare le varie membra di essa in un sol corpo vivo. La fusione era mancata per colpa di
coloro che avevano stimato pericolosa la fiamma e più adatto il freddo lume dei loro
intelletti accorti e calcolatori. Ma, se la fiamma s’era lasciata soffocare, non era pur segno
che non aveva in sé quella forza e quel calore che avrebbe dovuto avere? Che nembo di
fuoco allegro e violento dalla Sicilia su su fino a Napoli! Ancora da laggiù, più tardi, la
fiamma s’era spiccata per arrivare fino a Roma... Dovunque era stata costretta ad
arrestarsi, ad Aspromonte o su le balze del Trentino, era rimasto un vuoto sordo, una
smembratura.
Non poteva l’Italia farsi in altro modo? Segno che non erano ancora ben maturi gli
eventi, o che eran mancati in alcuni l’energia e l’ardire per secondarli. Troppi calcoli e
riflessioni ombrose e tentennamenti e scrupoli e ritegni e soggezioni avevano mortificato
la creazione della patria.
Che fare, adesso? Per chi vuole, sì, è sempre tempo di far bene. Ma un bene modesto,
umile, paziente, Lando Laurentano sentiva che non era per lui. Gli avevano offerto, nelle
ultime elezioni generali, la candidatura in uno dei collegi di Palermo: né preghiere, né
pressioni, né richiami alla disciplina del partito erano valsi a farlo recedere dal rifiuto.
Lui, a Montecitorio, in quel momento? Meglio affogarsi in una fogna!
Fin da giovinetto s’era nutrito di forti e severi studii, non tanto per bisogno di coltura o
per passione, quanto per poter pensare e giudicare a suo modo, e serbare così,
conversando con gli altri, l’indipendenza del proprio spirito. Aveva qua, nel villino
solitario di via Sommacampagna, una ricca biblioteca, ove soleva passare parecchie ore
del giorno. Ma, leggendo, era tratto irresistibilmente a tradurre in azione, in realtà viva
quanto leggeva; e, se aveva per le mani un libro di storia, provava un sentimento
indefinibile di pena angustiosa nel veder ridotta lì in parole quella che un giorno era stata
vita, ridotto in dieci o venti righe di stampa, tutte allo stesso modo interlineate con ordine
preciso, quello ch’era stato movimento scomposto, rimescolìo, tumulto. Buttava via il
libro, con uno scatto di sdegno, e si metteva a passeggiare per la sala. Che strana
impressione gli facevano allora tutti quei libri nella prigione degli alti e ampii scaffali che
coprivano da un capo all’altro le quattro pareti! Dalle due finestre basse, che davano sul
giardino, entrava il passerajo fitto, assiduo, assordante degl’innumerevoli uccelletti che
ogni giorno si davan convegno sul pino là, palpitante più d’ali che di foglie. Paragonava
quel fremito continuo, instancabile, quell’ebro tumulto di voci vive, con le parole
racchiuse in quei libri muti, e gliene cresceva lo sdegno. Composizioni artificiose, vita
fissata, rappresa in forme immutabili, costruzioni logiche, architetture mentali, induzioni,
deduzioni – via! via! via!
Muoversi, vivere, non pensare!
Che angoscia, che smanie talvolta, se s’affondava nel pensiero che anch’egli,
inevitabilmente, coi concetti e le opinioni che cercava di formarsi su uomini e cose, con le
finzioni che si creava, con gli affetti, coi desiderii che gli sorgevano, fermava, fissava in
sé e tutt’intorno a sé in forme determinate il flusso continuo della vita! Ma se già egli
stesso, con quel suo corpo, era una forma determinata, una forma che si moveva, che
poteva seguire fino a un certo punto questo flusso della Vita, fino a tanto che, man mano
irrigidendosi sempre più, il movimento già a poco a poco rallentato non sarebbe cessato
del tutto! Ebbene, certi giorni, arrivava a sentire per il suo stesso corpo, così alto e smilzo,
per il suo volto bruno pallido, dalla fronte troppo ampia, dalla barba nera, quadra, dal
naso imperioso in contrasto con gli occhi da arabo sonnolento e voluttuoso, una strana
antipatia. Se li guardava nello specchio come se fossero d’un estraneo. Dentro quel suo
stesso corpo, intanto, in ciò che egli chiamava anima, il flusso continuava indistinto, sotto
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gli argini, oltre i limiti ch’egli imponeva per comporsi una coscienza, per costruirsi una
personalità. Ma potevano anche tutte quelle forme fittizie, investite dal flusso in un
momento di tempesta, crollare, e anche quella parte del flusso che non scorreva ignota
sotto gli argini e oltre i limiti ma che si scopriva a lui distinta, e ch’egli aveva con cura
incanalato nei suoi affetti, nei doveri che si era imposti, nelle abitudini che si era
tracciate, poteva in un momento di piena straripare e sconvolger tutto.
Ecco: a uno di questi momenti di piena egli anelava! si era perciò immerso tutto nello
studio delle nuove questioni sociali, nella critica di coloro che, armati di poderosi
argomenti, tendevano ad abbattere dalle fondamenta una costituzione di cose comoda per
alcuni, iniqua per la maggioranza degli uomini, e a destare nello stesso tempo in questa
maggioranza una volontà e un sentimento che facessero impeto a scalzare, a distruggere,
a disperdere tutte quelle forme imposte da secoli, in cui la vita s’era ponderosamente
irrigidita. Sarebbero sorti nelle maggioranze quella volontà e quel sentimento così forti da
promuover subito il crollo? Mancava in esse ancora la coscienza e l’educazione
necessarie. Renderle coscienti, educarle, prepararle: ecco un ideale! Ma a quando
l’attuazione? Opera lenta, lunga e paziente anche questa, purtroppo.
La morte del garibaldino Mauro Mortara
Senza curarsi del fango della strada, dove i suoi stivaloni ferrati affondavano e
spiaccicavano; con gli occhi aggrottati sotto le ciglia e quasi chiusi; tutto il viso contratto
dallo sdegno; un agro bruciore al petto e la mente occupata da una tenebra più cupa di
quella che gli era intorno, Mauro Mortara era, intanto, più d’un miglio lontano da
Valsanìa. Andava nella notte ancora agitata dagli ultimi fremiti della tempesta, investito
di tratto in tratto da raffiche gelate che gli spruzzavano in faccia la pioggia stillante dagli
alberi, di qua e di là dalle muricce, lungo lo stradone. Andava curvo, a testa bassa, il
fucile appeso a una spalla, le due pistole ai fianchi, un pugnale col fodero in cuojo alla
cintola, lo zàino alle spalle, il berretto villoso in capo e le medaglie al petto. Saliva verso
Girgenti; ma voleva andare più lontano; lasciare a un certo punto lo stradone e mettersi
per la linea ferroviaria; attraversare una breve galleria, sboccare in Val Sollano, e di lì, nei
pressi della stazione, avviarsi per un altro stradone al paese di Favara, ove, in un
poderetto di là dall’abitato, viveva un suo nipote contadino, figlio d’una sorella morta da
tanti anni, il quale più volte gli aveva offerto tetto e cure nel caso che, infermo, avesse
voluto ritirarsi da Valsanìa. Andava lì, da quel suo nipote; ma non ci voleva pensare. La
testa, il cuore gli erano rimasti come pestati, schiacciati e macerati dallo stropiccìo dei
passi di quei giovani, che per supremo oltraggio s’erano introdotti a profanare
il camerone del Generale, mentr’egli nella sua stanza, sotto, s’apparecchiava a partire.
Non voleva più pensare né sentir nulla; nulla immaginare dei giorni che gli restavano.
Tuttavia, il cuore calpestato, a poco a poco, sotto l’assillo del pensiero che, forse, quel
suo nipote contadino gli aveva offerto ricetto perché s’aspettava da lui chi sa quali tesori,
cominciò a rimuoverglisi dentro, a riallargarglisi in émpiti d’orgoglio. Soltanto da
giovane e dalle mani del Generale, fino alla partenza per l’esilio a Malta, egli aveva avuto
un salario. Ritornato a Valsanìa, dopo le vicende fortunose della sua vita errabonda, per
mare, in Turchia, nell’Asia Minore, in Africa, e dopo la campagna del Sessanta, aveva
prestato sempre la sua opera, colà, disinteressatamente. E ora, ecco, a settantotto anni, se
ne partiva povero, senza neppure un soldo in tasca, con la sola ricchezza di quelle sue
medaglie al petto. Ma appunto perché questa sola ricchezza aveva cavato dall’opera di
tutta la sua vita, – Sciocco, – poteva dire a quel suo nipote, – tu sei padrone di tre palmi di
terra; e se te ne scosti d’un passo, non sei più nel tuo; io, invece, sono qua, sempre nel
mio ovunque posi il piede, per tutta la Sicilia! Perché io la corsi da un capo all’altro per
liberarla dal padrone che la teneva schiava!
Preso così l’aire, la sua esaltazione crebbe di punto in punto, fomentata per un verso
dal cordoglio d’essersi strappato per sempre da Valsanìa, e per l’altro dal bisogno di
riempire con la rievocazione di tutti i ricordi che potevano dargli conforto il vuoto che si
vedeva davanti.
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Rideva e parlava forte e gestiva, senza badare alla via: rideva al binario della linea
ferroviaria, ai pali del telegrafo, frutti della Rivoluzione, e si picchiava forte il petto e
diceva:
– Che me n’importa? Io... io... la Sicilia... oh Marasantissima... vi dico la Sicilia... Se
non era per la Sicilia... Se la Sicilia non voleva... La Sicilia si mosse e disse all’Italia:
eccomi qua! vengo a te! Muoviti tu dal Piemonte col tuo Re, io vengo di qua con
Garibaldi, e tutti e due ci uniremo a Roma! Oh Marasantissima, lo so: Aspromonte,
ragione di Stato, lo so! Ma la Sicilia voleva far prima, di qua... sempre la Sicilia... E ora
quattro canaglie hanno voluto disonorarla... Ma la Sicilia è qua, qua, qua con me... la
Sicilia, che non si lascia disonorare, è qua con me!
Si trovò tutt’a un tratto davanti alla breve galleria che sbocca in Val Sollano, e stupì
d’esservi giunto cosí presto, senza saper come; prima d’entrarvi, guardò in cielo per
conoscere dalle stelle che ora fosse. Potevano essere le tre del mattino. Forse all’alba
sarebbe alla Favara. Attraversata la galleria e giunto nei pressi della stazione di Girgenti,
al punto in cui s’imbocca lo stradone che conduce a quel grosso borgo tra le zolfare,
dovette però fermarsi davanti alla sfilata di due compagnie di soldati che, muti, ansanti, a
passo accelerato, si recavano di notte colà. Dal cantoniere di guardia ebbe notizia che,
nonostante la proclamazione dello stato d’assedio, alla Favara tutti i socii
del Fascio disciolto, nelle prime ore della sera, s’erano dati convegno nella piazza e
avevano assaltato e incendiato il municipio, il casino dei nobili, i casotti del dazio, e che
gl’incendii e la sommossa duravano ancora e già c’erano parecchi morti e molti feriti.
– Ah sì? Ah sì? – fremette Mauro. – Ancora?
E si svincolò dalle braccia di quel cantoniere che voleva trattenerlo, vedendolo così
armato, per salvarlo dal rischio a cui si esponeva d’esser catturato da quei soldati.
– Io, dai soldati d’Italia?
E corse per unirsi a loro.
Una gioja impetuosa, frenetica, gli ristorò le forze che già cominciavano a mancargli;
ridiede l’antico vigore alle sue vecchie gambe garibaldine; l’esaltazione diventò delirio;
sentì veramente in quel punto d’esser la Sicilia, la vecchia Sicilia che s’univa ai soldati
d’Italia per la difesa comune, contro i nuovi nemici.
Divorò la via, tenendosi a pochi passi da quelle due compagnie che a un certo punto,
per l’avviso di alcuni messi incontrati lungo lo stradone, s’eran lanciate di corsa.
Quando, alla prima luce dell’alba, tutto inzaccherato da capo a piedi, trafelato, ebbro
della corsa, stordito dalla stanchezza, si cacciò coi soldati nel paese, non ebbe tempo di
veder nulla, di pensare a nulla: travolto, tra una fitta sassajola, in uno scompiglio
furibondo, ebbe come un guazzabuglio di impressioni così rapide e violente da non poter
nulla avvertire, altro che lo strappo spaventoso d’una fuga compatta che si precipitava
urlante; un rimbombo tremendo; uno stramazzo e...
La piazza, come schiantata e in fuga anch’essa dietro gli urli del popolo che la
disertava, appena il fumo dei fucili si diradò nel livido smortume dell’alba, parve agli
occhi dei soldati come trattenuta dal peso di cinque corpi inerti, sparsi qua e là.
Un bisogno strano, invincibile, obbligò il capitano a dare subito ai suoi soldati un
comando qualunque, pur che fosse. Quei cinque corpi rimasti là, traboccati sconciamente,
in una orrenda immobilità, su la motriglia della piazza striata dall’impeto della fuga,
erano alla vista d’una gravezza insopportabile. E un furiere e un caporale, al comando del
capitano, si mossero sbigottiti per la piazza e si accostarono al primo di quei cinque
cadaveri.
Il furiere si chinò e vide ch’esso, caduto con la faccia a terra, era armato come un
brigante. Gli tolse il fucile dalla spalla e, levando il braccio, lo mostrò al capitano; poi
diede quel fucile al caporale, e si chinò di nuovo sul cadavere per prendergli dalla cintola
prima una e poi l’altra pistola, che mostrò ugualmente al capitano. Allora questi,
incuriosito, sebbene avesse ancora un forte tremito a una gamba e temesse che i soldati se
ne potessero accorgere, si appressò anche lui a quel cadavere, e ordinò che lo rimovessero
un poco per vederlo in faccia. Rimosso, quel cadavere mostrò sul petto insanguinato
quattro medaglie.
I tre, allora, rimasero a guardarsi negli occhi, stupiti e sgomenti.
Chi avevano ucciso?
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CAPITOLO IV
Figurazioni cronotopiche della decadenza
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Da Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Dialogo tra il Principe di Salina e Tancredi
La mattina dopo il sole illuminò un Principe rinfrancato. Aveva preso il caffè ed in
veste da camera rossa fiorata di nero si faceva la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò
posava il testone pesante sulla sua pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello
specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro, distinto con
un'espressione di timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi. "Tancredi, cosa hai
combinato la notte scorsa?" "Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente:
sono stato con gli amici. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state
a divertirsi a Palermo." Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle
difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale
carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse
esser lecito. Si voltò e con l'asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in
tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. "E chi erano queste conoscenze, si può
sapere?" "Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi
mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un
Reverendissimo! I ruderi libertini!" Era davvero troppo insolente, credeva di poter
permettersi tutto. Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli
occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. Il Principe si sentì offeso:
questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l'animo di
rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. "Ma perché sei vestito così? Cosa c'è? Un
ballo in maschera di mattina?" Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse
una inaspettata espressione virile. "Parto, zione, parto fra mezz'ora. Sono venuto a
salutarti." Il povero Salina si senti stringere il cuore. "Un duello?" "Un grande duello, zio.
Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a
nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio
restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi." Il Principe
ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei
boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. "Sei pazzo,
figlio mio! Andare a mettersi con quella gente!, Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un
Falconeri dev'essere con noi, per il Re." Gli occhi ripresero a sorridere. "Per il Re, certo,
ma per quale Re?" Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano
impenetrabile e caro. "Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se
vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?"
Abbracciò lo zio un po' commosso. "Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore." La
retorica degli amici aveva stinto un po' anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale
vi era un accento che smentiva l'enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo
il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a
sorvegliare la digestione di "Guiscardo!" Questo era il figlio suo vero. Don Fabrizio si
alzò in fretta, si strappò l'asciugamani dal collo, frugò in un cassetto. "Tancredi, Tancredi,
aspetta," corse dietro al nipote, gli mise in tasca un rotolino di "onze" d'oro, gli premette
la spalla. Quello rideva: "Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto; e tanti
abbracci alla zia." E si precipitò giù per le scale.
Venne richiamato Bendicò che inseguiva l'amico riempiendo la villa di urla gioiose, la
rasatura fu completata, il viso lavato. Il cameriere venne a vestire e calzare il Principe. "Il
tricolore! Bravo, il tricolore! Si riempiono la bocca con questa parola, i bricconi. E che
cosa significa questo segnacolo geometrico, questa scimmiottatura dei francesi, cosi
brutta in confronto alla nostra bandiera candida con l'oro gigliato dello stemma? E che
cosa può far loro sperare quest'accozzaglia di colori stridenti?" Era il momento di
avvolgere attorno al collo il monumentale cravattone di raso nero. Operazione difficile
durante la quale i pensieri politici era bene venissero sospesi. Un giro, due giri, tre giri.
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Le grosse dita delicate componevano le pieghe, spianavano gli sbuffi, appuntavano sulla
seta la testina di Medusa con gli occhi di rubino. "Un gilet pulito. Non vedi che questo è
macchiato?" Il cameriere si sollevò sulla punta dei piedi per infilargli la redingote di
panno marrone; gli porse il fazzoletto con le tre gocce di bergamotto. Le chiavi,
l’orologio con catena, il portamonete se li mise in tasca da sé. Si guardò allo specchio:
non c'era da dire era ancora un bell’uomo. "'Rudere libertino!' Scherza pesante quella
canaglia! Vorrei vederlo alla mia età, quattro ossa incatenate come è lui”.
Don Calogero Sedàra
Novembre 1860
Dai più frequenti contatti derivati dall'accordo nuziale cominciò a nascere in Don
Fabrizio una curiosa ammirazione per i meriti di Sedàra. La consuetudine fini con
l'abituarlo alle guance mal rasate, all'accento plebeo, agli abiti bislacchi ed al persistente
olezzo di sudore, ed egli fu libero di avvedersi della rara intelligenza dell'uomo; molti
problemi che apparivano insolubili al Principe venivano risolti in quattro e quattro otto da
don Calogero; liberato come questi era dalle cento pastoie che l'onestà, la decenza e
magari la buona educazione impongono alle azioni di molti altri uomini, egli procedeva
nella foresta della vita con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando
tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei
sopraffatti. Allevato, invece, in valletto amene percorse dagli zeffiri cortesi dei "Per
piacere" "ti sarei grato" "mi faresti un favore" "sei stato molto gentile," il Principe adesso,
quando chiacchierava con don Calogero si trovava allo scoperto su una landa spazzata da
venti asciutti e, pur continuando a preferire in cuor suo gli anfratti dei monti, non poteva
non ammirare la toga di queste correnti d'aria che dai lecci e dai cedri di Donnafugata
traeva arpeggi mai uditi prima.
Pian piano, quasi senza avvedersene, Don Fabrizio esponeva a don Calogero i propri
affari che erano numerosi, complessi e da lui stesso mal conosciuti; questo non già per
difetto di penetrazione ma per una sorta di sprezzante indifferenza al riguardo di questo
genere di cose, reputate infime, e causata in fondo dalla indolenza e dalla sempre
sperimentata facilità con la quale era uscito dai mali passi mediante la vendita di qualche
ventina fra le migliaia dei propri ettari.
Gli atti che don Calogero consigliava dopo aver ascoltato dal Principe e riordinato da
sé il racconto, erano quanto mai opportuni e di effetto immediato, ma il risultato finale dei
consigli concepiti con crudele efficienza ed applicati dal bonario Don Fabrizio con
timorata mollezza, fu che con l'andar degli anni casa Salina si acquistò fama di esosità
verso i propri dipendenti, fama in realtà quanto mai immeritata ma che distrusse il
prestigio di essa a Donnafugata ed a Querceta, senza che peraltro il franare del patrimonio
venisse in alcun modo arginato.
Non sarebbe equo tacere che una frequentazione più assidua del Principe aveva avuto
un certo effetto anche su Sedàra. Sino a quel momento egli aveva incontrato degli
aristocratici soltanto in riunioni di affari (cioè di compravendite) o in seguito ad
eccezionalissimi e lunghissimamente meditati inviti a feste, due sorta di eventualità
durante le quali questi singolari esemplari sociali non mostrano il proprio aspetto
migliore. In occasione di questi incontri egli si era formato la convinzione che
l'aristocrazia consistesse unicamente di uomini-pecore, che esistevano soltanto per
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abbandonare la lana dei loro beni alle sue forbici tosatrici ed il nome, illuminato da un
inspiegabile prestigio, a sua figlia.
Ma già con la sua conoscenza del Tancredi dell'epoca postgaribaldina si era trovato di
fronte ad un campione inatteso di giovane nobile, arido quanto lui, capace di barattare
assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con avvenenze e sostanze altrui, pur sapendo
rivestire queste azioni "sedaresche" di una grazia e di un fascino che egli sentiva di non
possedere, che subiva senza rendersene conto e senza in alcun modo poter discernerne le
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origini. Quando, poi, ebbe imparato a conoscere meglio Don Fabrizio ritrovò sì in lui la
mollezza e l'incapacità a difendersi che erano le caratteristiche del suo pre-formato
nobile-pecora, ma in più una forza di attrazione differente in tono ma uguale in intensità a
quella del giovane Falconeri; inoltre ancora una certa energia tendente verso l'astrazione,
una disposizione a cercare la forma di vita in ciò che da lui stesso uscisse e non in ciò che
poteva strappare agli altri; da questa energia astrattiva egli rimase fortemente colpito
benché gli si presentasse grezza e non riducibile in parole come qui si è tentato di fare; si
avvide però che buona parte di questo fascino scaturiva dalle buone maniere e si rese
conto di quanto un uomo beneducato sia piacevole, perché in fondo non è altro che
qualcheduno che elimina le manifestazioni sempre sgradevoli di tanta parte della
condizione umana e che esercita una specie di profittevole altruismo (formula nella quale
l'efficacia dell'aggettivo gli fece tollerare l'inutilità del sostantivo). Lentamente don
Calogero capiva che un pasto in comune non deve di necessità essere un uragano di
rumori masticatori e di macchie d'unto; che una conversazione può benissimo non
rassomigliare a una lite fra cani; che dar la precedenza a una donna è segno di forza e
non, come aveva creduto, di debolezza; che da un interlocutore si può ottenere di più se
gli si dice "non mi sono spiegato bene" anziché "non hai capito un corno," e che
adoperando simili accorgimenti, cibi, donne, argomenti e interlocutori vengono a
guadagnarci a tutto profitto anche di chi li ha trattati bene.
Sarebbe ardito affermare che don Calogero approfittasse subito di quanto aveva
appreso; egli seppe da allora in poi radersi un po' meglio e spaventarsi meno della
quantità di sapone adoperato nel bucato, e null'altro; ma fu da quel momento che si iniziò,
per lui ed i suoi, quel costante raffinarsi di una classe che nel corso di tre generazioni
trasforma efficienti cafoni in gentiluomini indifesi.
Dialogo tra il Principe di Salina e Chevalley
Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley che lo aspettava nello
studio. Era questo una piccola stanza con ai muri sotto vetro alcune pernici imbalsamate,
di quelle grigie a zampetto rosse stimate rare, trofei di caccie passate; una parete era
nobilitata da una libreria alta e stretta colma di annate di riviste matematiche; al di sopra
della grande poltrona destinata ai visitatori, una costellazione di miniature di famiglia: il
padre di Don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e sensuale di labbra quanto
un Saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di S.Gennaro;
la principessa Carolina, già da vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura
a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la principessa di Falconeri
seduta su una panca in un giardino, con alla destra i la macchia amaranto di un piccolo
parasole poggiato aperto per terra ed alla sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni
che le reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se la era cacciata in tasca di
nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi più sotto,
Paolo, il primogenito, in attillati calzoni da cavalcare, in atto di salire su un cavallo
focoso dal collo arcuato e dagli occhi sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati,
ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al sommo della
costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più grande: Don
Fabrizio stesso, poco più che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa
sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo
nell'uniforme azzurra e argentea delle Guardie del Corpo del Re sorrideva compiaciuto
col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo.
Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: "Dopo la
felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è
intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno di alcuni
illustri siciliani; le autorità provinciali son state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all'esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e,
come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per
antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l'attitudine
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dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti." Il discorsetto era stato
preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che
adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non
dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo.
Immobile la zampacela dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di S. Pietro in
alabastro che stava sul tavolo.
Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa,
Chevalley non si lasciò smontare: "Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori
hanno creduto dover informare lei stesso, e farle chiedere se questa proposta sarebbe di
Suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale le autorità sperano molto è stato
l'oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso l'onore e il piacere di
conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto pittoresca."
Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l'acqua dalle foglie
delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso
tempo orgogliosi ed abituati a esserlo. "Adesso questo qui s immagina di venire a farmi
un grande onore" pensava "a me, che sono quel che sono, fra l'altro anche Pari del Regno
di Sicilia, il che dev'essere press'a poco come essere senatore. È vero che i doni bisogna
valutarli in relazione a chi 'li offre: un contadino che mi da il suo pezzo di pecorino mi fa
un regalo più grande di Giulio Làscari quando m'invita a pranzo. Il guaio è che il
pecorino mi da la nausea; e così non resta che la gratitudine che non si vede e il naso
arricciato dal disgusto che si vede fin troppo." Le idee sue in fatto di Senato erano del
resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato
Romano, al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un Gallo
maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che
soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo; lo infastidiva anche il
riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da Padre Pirrone: "Senatore! boni viri,
senatus autem mala bestia" Adesso vi era anche il Senato dell'Impero di Parigi, ma non
era che una assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato un
Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici,
e di quali amministratori! Robetta per un Salina. Volle sincerarsi: "Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po' che cosa è veramente essere senatori. La stampa della passata
monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e
un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi.
Cosa è? un semplice appellativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere
funzioni legislative, deliberative?"
Il Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s'inalberò: "Ma,
Principe, il Senato è la Camera Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del
nostro paese, prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o
respingono quelle leggi che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del
paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare,
impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la
Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa sua bellissima terra che si
affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti
giusti desideri da esaudire."
Chevalley avrebbe forse continuato a lungo su questo tono, se Bendicò non avesse da
dietro la porta chiesto alla “saggezza del Sovrano" di essere ammesso; Don Fabrizio fece
l'atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di
lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo,
persuaso di aver da fare con un buon uomo si accovacciò sotto la finestra e dormi.
"Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice
titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in
questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la
propria adesione, evitare l'impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci
guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per
ora esistono."
"Ma allora, principe, perché non accettare?" "Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi
spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti
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che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i
capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri
berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto
'adesione' non 'partecipazione.' In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha
posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si
possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a
compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per
conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da
solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il
peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di 'fare'. Siamo
vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle
il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate,
nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il 'la'; noi siamo dei bianchi
quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemila cinquecento
anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo
stanchi e svuotati lo stesso."
Adesso Chevalley era turbato. "Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la
Sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato."
"L'intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima
parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle
meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria
trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla,
che s'impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che
agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo
orinale sotto il letto."
Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l'indomani la
crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. "Il sonno, caro
Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà
svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi
che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni
siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è
desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di
immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di
scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare
gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che
sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed
intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte,
incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione
attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio,
ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto
perché è morto."
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura
l'ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e
denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che
fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: "Ma non le sembra di esagerare un po',
principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne
uno, che mi son sembrati tutt'altro che dei dormiglioni."
Il Principe si seccò: "Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semidesti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso
vaneggiare: lo fanno tutti. D'altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani,
avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l'ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze
che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl'incongrui stupri hanno formato
l'animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza
dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un
paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza
ha l'inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di
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misura, quindi pericolosi; questo clima che c'infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi;
li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei
volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra
quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora,
ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno
di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe essere
sufficiente per tre; e poi l'acqua che non c'è o che bisogna trasportare da tanto lontano che
ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre
tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio li
dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del
paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi
monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi
e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in
armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono
espressi soltanto con opere d'arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori
d'imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane
così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.
L'inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna
sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato
adesso per ascoltarlo.
"Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi:
bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent'anni è già tardi; la
crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri,
scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. Ma mi
scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è
venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure d'Israele. Ritorniamo al nostro
vero argomento. Sono , molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato
e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso
accettare. Sono una rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col
regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli
dell'affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i
nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a
meno di accorgersi, sono privo d'illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un
legislatore inesperto cui manca la facoltà d'ingannare sé stesso, questo requisito
essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci
in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a
quest'ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la
mente aperta al 'come' più che al 'perché' e che siano abili a mascherare, a contemperare
volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche." Tacque,
lasciò in pace San Pietro. Continuò: "Posso dare a Lei un consiglio da trasmettere ai suoi
superiori?"
"Va da sé, principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio
ancora sperare che invece di un consiglio vorrà darci un assenso."
"C'è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedàra; egli ha
più meriti di me per sedervi; il casato, mi è stato detto, è antico o finirà con esserlo; più
che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne
ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi del Maggio scorso più che
ineccepibile è stata utilissima; illusioni non credo che ne abbia più di me, ma è
abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. È l'individuo che fa per voi. Ma
dovete far presto, perché ho inteso dire che vuoi porre la propria candidatura alla camera
dei deputati." Di Sedàra si era molto parlato in Prefettura, le attività di lui quale sindaco e
quale privato erano note; Chevalley sussultò: era un onest'uomo e la propria stima delle
camere legislative era pari alla purità delle proprie intenzioni; per questo credette
opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perché, infatti, dieci anni più
tardi, l'ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio. Benché onesto, però, Chevalley
non era stupido; mancava si di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di
intelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità, e poi non aveva la
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impenetrabilità meridionale agli affanni altrui. Comprese l'amarezza e lo sconforto di Don
Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione, di nera indifferenza del
quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l'opulenza, la
signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola, il suo
Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto del
principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti
vittime i cui elenchi giungevano così spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo,
compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo.
Volle fare un ultimo sforzo; si alzò e l'emozione conferiva Pathos alla sua voce:
"Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per
tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali
giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si
cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà
libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedàra; e tutto sarà di nuovo come
prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha
detto.Collabori."
Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano:
"Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; Lei ha ragione in
tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: 'i Siciliani vorranno migliorare.' Le
racconterò un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a
Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi
che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so
come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza
dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa,
di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e
del quale, dalle loro navi non si erano fatti una idea chiara. Vennero a casa, li
accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni
rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però
che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di
accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall'altra, come ho tentato di fare a
lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei
volontari italiani. 'They are coming to teach us good manners' risposi 'but won't succeed,
because we are gods.' 'Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare,
perché noi siamo dèi.' Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così
rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la
semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro
miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per
indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di
turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti
essi credono di avere un passato imperiale che da loro diritto a funerali sontuosi. Crede
davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della
storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti
scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la
stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionali riformatori di Carlo III; e chi
sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni;
perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata
e invidiata, se è perfetta, in una parola?
"Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un
ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose,
qui ed altrove, è del feudalismo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalismo c'è stato
dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o
gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto
sono diversi. La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che
barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è
cecità. Per ora, per molto tempo, non c'è niente da fare. Compiango; ma, in via politica,
non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono
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fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei
avuto a male.
“È tardi, Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per
qualche ora la parte di uomo civile.”
La fine del Principe di Salina
Don Fabrizio si guardò nello specchio dell'armadio: riconobbe più il proprio vestito
che sé stesso: altissimo, allampanato, con le guancie infossate, la barba lunga di tre
giorni; sembrava uno di quegli inglesi maniaci che deambulano nelle vignette dei libri di
Verne che per Natale regalava a Fabrizietto, un Gattopardo in pessima forma. Perché mai
Dio voleva che nessuno morisse con la propria faccia? Perché a tutti succede così: si
muore con una maschera sul volto; anche i giovani; anche quel soldato col viso
imbrattato; anche Paolo quando lo avevano rialzato dal marciapiede con la faccia
contratta e spiegazzata mentre la gente rincorreva nella polvere il cavallo che lo aveva
sbattuto giù. E se in lui, vecchio, il fragore della vita in fuga era tanto potente, quale mai
doveva essere stato il tumulto di quei serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un
attimo da quei poveri corpi giovani? Avrebbe voluto contravvenire per quanto potesse a
quest'assurda regola del camuffamento forzato; sentiva però che non poteva, che sollevare
il rasoio sarebbe stato come, un tempo, sollevare il proprio scrittoio. "Bisogna far
chiamare un barbiere" disse a Francesco Paolo. Ma subito pensò: "No. È una regola del
gioco, esosa ma formale. Mi raderanno dopo." E disse forte: "Lascia stare; ci penseremo
poi." L'idea di questo estremo abbandono del cadavere con il barbiere accovacciato sopra
non lo turbò.
Il cameriere entrò con una bacinella di acqua tiepida e una spugna, gli tolse la giacca e
la camicia, gli lavò la faccia e le mani, come si lava un bimbo, come si lava un morto. La
fuliggine di un giorno e mezzo di ferrovia rese funerea anche l'acqua. Nella stanza bassa
si soffocava: il caldo faceva lievitare gli odori, esaltava il tanfo delle peluches mal
spolverate; le ombre delle diecine di scarafaggi che vi erano stati calpestati apparivano
nel loro odore medicamentoso; fuori dal tavolino di notte i ricordi tenaci delle orine
vecchie e diverse incupivano la camera. Fece aprire le persiane: l'albergo era in ombra ma
la luce riflessa dal mare metallico era accecante; meglio questo però che quel fetore di
prigione; disse di portare una poltrona sul balcone; appoggiato al braccio di qualcheduno
si trascinò fuori e dopo quel paio di metri sedette con la sensazione di ristoro che provava
un tempo riposandosi dopo sei ore di caccia in montagna. "Di' a tutti di lasciarmi in pace;
mi sento meglio; voglio dormire." Aveva sonno davvero; ma trovò che cedere adesso al
sopore era altrettanto assurdo quanto mangiare una fetta di torta subito prima di un
desiderato banchetto. Sorrise. "Sono sempre stato un goloso saggio." E se ne stava li
immerso nel grande silenzio esteriore, nello spaventevole rombo interno.
Poté volgere la testa a sinistra: a fianco di Monte Pellegrino si vedeva la spaccatura
nella cerchia dei monti, e più lontano i due colli ai piedi dei quali era la sua casa;
irragiungibile com'era questa gli sembrava lontanissima; ripensò al proprio osservatorio,
ai cannocchiali destinati ormai a decenni di polvere; al povero Padre Pirrone che era
polvere anche lui; ai quadri dei feudi, alle bertucce del parato, al grande letto di rame nel
quale era morta la sua Stelluccia; a tutte queste cose che adesso gli sembravano umili
anche se preziose, a questi intrecci di metallo, a queste trame di fili, a queste tele ricoperte
di terre e di succhi d'erba che erano tenute in vita da lui, che fra poco sarebbero piombate,
incolpevoli, in un limbo fatto di abbandono e di oblio; il cuore gli si strinse, dimenticò la
propria agonia pensando all'imminente fine di queste povere cose care. La fila inerte delle
case dietro di lui, la diga dei monti, le distese flagellate dal sole, gli impedivano financo
di pensare chiaramente a Donnafugata; gli sembrava una casa apparsa in sogno; non più
sua, gli sembrava: di suo non aveva adesso che questo corpo sfinito, queste lastre di
lavagna sotto i piedi, questo precipizio di acque tenebrose verso l'abisso. Era solo, un
naufrago alla deriva su una zattera, in preda a correnti indomabili.
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C'erano i figli, certo. I figli. Il solo che gli rassomigliasse, Giovanni, non era più qui.
Ogni paio di anni inviava saluti da Londra; non aveva più nulla da fare con il carbone e
commerciava in brillanti; dopo che Stella era morta era giunta all'indirizzo di lei una
letterina e poco dopo un pacchettino con un braccialetto. Quello si. Anche lui aveva
"corteggiato la morte," anzi con l'abbandono di tutto aveva organizzato per sé quel tanto
di morte che è possibile metter su continuando a vivere. Ma gli altri... C'erano anche i
nipoti: Fabrizietto, il più giovane dei Salina, così bello, così vivace, tanto caro.
Tanto odioso. Con la sua doppia dose di sangue Màlvica, con gl'istinti goderecci, con
le sue tendenze verso un'eleganza borghese. Era inutile sforzarsi a credere il contrario,
l'ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo.
Perché il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era
l'ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie;
Fabrizietto avrebbe avuto dei ricordi banali, eguali a quelli dei suoi compagni di ginnasio,
ricordi di merende economiche, di scherzucci malvagetti agli insegnanti, di cavalli
acquistati avendo l'occhio al loro prezzo più che ai loro pregi; ed il senso del nome si
sarebbe mutato in vuota pompa sempre amareggiata dall'assillo che altri potessero
pompeggiare più di lui. Si sarebbe svolta la caccia al matrimonio ricco quando questa
sarebbe divenuta una routine consueta e non più un'avventura audace e predatoria come
era stato quello di Tancredi. Gli arazzi di Donnafugata, i mandorleti di Ragattisi, magari,
chissà, la fontana di Anfitrite avrebbero avuto la sorte grottesca di esser metamorfizzati in
terrine di foie-gras presto digerite, in donnine da Ba-ta-clan più labili del loro belletto, da
quelle delicate e sfumate cose che erano. E di lui sarebbe rimasto soltanto il ricordo di un
vecchio e collerico nonno che era schiattato in un pomeriggio di Luglio proprio a tempo
per impedire al ragazzo di andare a fare i bagni a Livorno. Lui stesso aveva detto che i
Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L'ultimo era lui. Quel
Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto.
Bendicò
Concetta si ritirò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione: le
sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli impulsi
che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il ritratto del padre non era che
alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di legno. Dopo un po' le
portarono una lettera. La busta era listata a nero con una grossa corona in rilievo:
"Carissima Concetta, ho saputo della visita di Sua Eminenza e sono lieta che alcune
reliquie si siano potute salvare. Spero di ottenere che Monsignor Vicario venga a
celebrare la prima messa nella cappella riconsacrata. Il senatore Tassoni parte domani e si
raccomanda al tuo bon souvenir. Io verrò presto a vederti e intanto ti abbraccio con
affetto insieme a Carolina e Caterina. Tua Angelica." Continuò a non sentir niente: il
vuoto interiore era completo; soltanto dal mucchietto di pelliccia esalava una nebbia di
malessere. Questa era la pena di oggi: financo il povero Bendicò insinuava ricordi amari.
Suonò il campanello. "Annetta" disse "questo cane è diventato veramente troppo tarlato e
polveroso. Portatelo via, buttatelo."
Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l'umile
rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel
che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l'immondezzaio
visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un
istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell'aria un quadrupede dai lunghi baffi e
l'anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di
polvere livida.
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CAPITOLO V
La Sicilia come metafora
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Da Le parrocchie di Regalpetra di Leonardo Sciascia
Dalla Prefazione
[…] Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver
dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla
ragione. La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice basta un colpo di penna – come dicesse – un colpo di spada e crede che un colpo vibratile
ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso. Paolo
Luigi Couner, vignaiuolo della Turenna e membro della Legion d’onore, sapeva dare
colpi di penna che erano come colpi di spada; mi piacerebbe avere il polso di Paolo Luigi
per dare qualche buon colpo di penna: una “petizione alle due Camere” per i salinari di
Regalpetra per i braccianti per i vecchi senza pensione per i bambini che vanno a servizio.
Certo, un po’ di fede nelle cose scritte ce ho anch’io come la povera gente di Regalpetra:
e questa è la sola giustificazione che avanzo per queste pagine.
Regalpetra, si capisce, non esiste: “ogni riferimento a fatti accadute a persone
esistenti è puramente casuale” Esistono in Sicilia tanti paesi che a Regalpetra somigliano;
ma Regalpetra non esiste. Esistono a Racalmuto, un paese che nella mia immaginazione
confina con Regalpetra, i salinari; in tutta la Sicilia a sono braccianti che campano 365
giorni, un lungo anno di pioggia e di sole, con 60.000 lire; ci sono bambini che vanno a
servizio, vecchi che muoiono di fame, persone che lasciano come unico segno del loro
passaggio sulla terra – diceva Brancati – un’affossatura nella poltrona di un circolo. La
Sicilia è ancora una terra amara. Si fanno strade e case, anche Regalpetra conosce
l’asfalto e le nuove case, ma in fondo la situazione dell’uomo non si può dire molto
diversa da quella che era nel l’anno in cui Filippo II firmava un privilegio che dava titolo
di conti ai del Carretto e Regalpetra elevava a contea.
Giorni addietro un mio parente mi diceva – ho saputo che hai scritto delle castronerie
sui ragazzi che vanno a servizio, davvero castronerie sono, io sto cercando per terra e per
mare un ragazzo per i servizi di casa, manco a pagarlo a peso d’oro lo trovi. Dico – bene,
è segno che si sta meglio. Bestemmiando mi investe – bene un c...; io non posso trovare
un ragazzo e tu mi dici bene, capisci che senza un ragazzo non posso andare in
campagna.; e poi non credere che sia impossibile trovarlo perché ora si sta meglio; meglio
un c... si sta; è che non vogliono venire a servizio per orgoglio, si contentano morire di
fame. Involontariamente dico ancora – bene. Per fortuna non sente, continua – sai che mi
disse una mamma che voleva allogare il figlio da me., mi disse che era delicato e almeno
un uovo al giorno avrei dovuto dargli; così sono fatti oggi i poveri, e tu scrivi...Questo c’è
di nuovo: l’orgoglio; e l’orgoglio maschera la miseria, le ragazze figlie di braccianti e di
salinari passeggiano la domenica vestite da non sfigurare accanto alle figlie dei
galantuomini, e galantuomini commentano – guardate come vestono, il pane di bocca si
levano per vestire così -; e io penso – bene, questo è forse un principio, comunque si
cominci l’importante è cominciare. Ma è un greve cominciare, è come se la meridiana
della Matrice segnasse un’ora del 13 luglio 1789, domani passerà sulla meridiana l’ombra
della Rivoluzione francese, poi Napoleone il Risorgimento la rivoluzione russa la
Resistenza, chissà quando la meridiana segnerà l’ora di oggi, quella che è per tanti altri
uomini nel mondo l’ora giusta.
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Da Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia
Sbirri e cornuti
- C'è movimento - disse il vecchio - C'è un movimento che non mi piace: gli sbirri
tessono qualcosa.
- Tessono vento - disse il giovane.
- Non metterti in testa che gli sbirri siano tutti stupidi: ce ne sono che, ad uno come te,
possono togliere le scarpe dai piedi; e tu cammini scalzo senza accorgertene... Nel '35,
ricordo, c'era qui un brigadiere che aveva il fiuto di un bracco, e anche la faccia aveva
da cane. Succedeva un fatto: e quello si metteva sulle peste, ti prendeva come si prende
una lepre appena smammata. Che fiuto aveva, figlio di...: era nato sbirro così come si
nasce preti o cornuti. Non credere che uno è cornuto perché le corna gliele mettono in
testa le donne, o si fa prete perché ad un certo punto gli viene la vocazione: ci si nasce. Ed
uno non si fa sbirro perché ad un certo punto ha bisogno di buscare qualcosa, o perché
legge un bando d'arruolamento: si fa sbirro perché sbirro era nato. Dico per quelli che
sono sbirri sul serio: ce n'è, poveretti, che sono paste d'angelo; e questi io non li chiamo
sbirri. Un galantuomo come quel maresciallo che c'era qui durante la guerra, come si
chiamava?, quello che stava bene con gli americani: e quello sbirro lo vuoi chiamare?
Favori ne faceva: e noi gliene abbiamo fatti, casse di pasta e damigiane d'olio. Un
galantuomo. Non era nato sbirro, ecco: ma stupido non era... Noi chiamiamo sbirri tutti
quelli che sul cappello portano la fiamma col V. E...
- Lo portavano, il V. E.
-Lo portavano: io mi scordo sempre che il re non C'è più... Ma tra loro ci sono gli
stupidi, ci sono i galantuomini e ci sono gli sbirri veri, gli sbirri nati. E così è coi preti:
vuoi chiamare prete padre Frazzo? Il bene che si può dire di lui e che è un buon padre di
famiglia. Ma padre Spina: ecco uno che è nato prete.
- E i cornuti?
-Vengo coi cornuti, ora. Uno scopre le tresche che gli fanno in case, fa un macello:
non è cornuto nato. Ma se fa finta di niente, o con le coma si dà pace: e allora è nato
cornuto...Ora ti dico com'è lo sbirro nato. Arriva in un paese: tu cominci ad avvicinarti a
lui, a fargli delle gentilezze, ad arruffianarti; magari, se ha moglie, porti tua moglie a
fargli visita, le mogli diventano amiche, diventate amici, la gente vi vede assieme e pensa
che facciate un canestro d'amicizia. E tu ti illudi che lui ti veda come una persona gentile,
di buoni sentimenti, a prove d'amicizia; e invece, per lui, tu sei sempre quello che risulta
dalle carte che tiene in ufficio. E se hai avuto una contravvenzione, per lui sei in ogni
momento, anche mentre bevete il caffè in salotto, uno che ha avuto una contravvenzione.
E se cadi a fare qualcosa che è vietata, una piccola cosa, anche se siete tu e lui soli e
nemmeno il padreterno vi vede, ti fa la contravvenzione come niente. Figurati poi se cadi
in qualcosa di più grosso. Nel '27, mi ricordo, c'era qui un maresciallo che in casa mia
faceva, come si suol dire, casa e bottega: la moglie e i figli non c'era giorno che non
venissero da noi, e c'era tanta amicizia che il figlio più piccolo, un bambino di tre anni,
chiamava mia moglie zia. Un giorno me lo vedo spuntare in casa con un mandato di
arresto. Era il suo dovere, lo so: erano tempi brutti, c'era Mori... Ma come mi ha trattato:
mai visti, mai conosciuti... E come ha trattato mia moglie, quando è andata in caserma per
sapere qualcosa: un cane arrabbiato... Cu si mitti cu li sbirri, giusto dice il proverbio, ci
appizza lu vinu e li sicarri: e con quel maresciallo io ci ho rimesso davvero vino e sigari,
che a scialo beveva il mio vino e fumava i miei sigari.
- Nel '27 - disse il giovane - c'era il fascismo, la cosa era diversa: Mussolini faceva i
deputati e i capi di paese, tutto quello che gli veniva in testa faceva. Ora i deputati e i
sindaci li fa il popolo...
- Il popolo - sogghigno il vecchio - il popolo... Il popolo cornuto era e cornuto resta: la
differenza e che il fascismo appendeva una bandiera solo alle corna del popolo e la
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democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie
corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere
cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso
all'altra...
- Io non mi sento cornuto - disse il giovane.
- E nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se
ballassimo... - e il vecchio si alzò ad accennare dei saltelli di danza, e voleva figurare
l'equilibrio e il ritmo del camminare sulle corna, da una punta all'altra.
Il giovane rise: sentirlo discorrere era un piacere. La fredda astuta violenza per cui in
gioventù era stato famoso, il calcolato azzardo, la prontezza di mente e di mano, tutte
le qualità insomma che lo avevano portato al rispetto e alla paura di cui era circondato, a
volte parevano ritirarsi da lui come il mare dalla rive, lasciando alla sabbia degli anni
vuoti gusci di saggezza. «Diventa filosofo, a volte», pensava il giovane: ritenendo la
filosofia una specie di giuoco di specchi in cui la lunga memoria e il breve futuro si
rimandassero crepuscolare luce di pensieri e distorte incerte immagini della realtà. Ma a
momenti ecco che veniva fuori l'uomo duro e spietato che era stato: e curioso era che
quando ritrovava il suo più duro e giusto giudizio sulle cose del mondo, le parole corna e
cornuti grandinassero nei suoi discorsi, in significati e sfumature diverse, ma sempre ad
esprimere disprezzo.
- Il popolo, la democrazia - disse il vecchio rassettandosi a sedere, un po' ansante per
la dimostrazione che aveva dato del suo saper camminare sulle corna della gente – sono
belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parole in culo
all'altra e tutte le parole nel culo dell'umanità, con rispetto parlando... Dico con rispetto
parlando per l'umanità... Un bosco di corna, l'umanità, più fitto del bosco della Ficuzza
quand'era bosco davvero. E sai chi se la spassa a passeggiare sulle corna? Primo; tienilo
bene a mente: i preti; secondo: i politici, e tanto più dicono di essere col popolo, di volere
il bene del popolo, tanto più gli calcano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me e come
te... È vero che c'è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati, tanto per me
quanto per i preti e per i politici: ma anche se mi squarcia dentro, un corno e sempre un
corno; e chi lo porta in testa è un cornuto... La soddisfazione, sangue di Dio, la
soddisfazione: mi va male, muoio, ma siete dei cornuti... E a proposito: quel cornuto di
Parrinieddu mi fa venire sospetti, in questo movimento di sbirri la sua zampa ci
dev'essere per forza... Ieri, incontrandomi, la sua faccia ha cambiato di colore: ha finto di
non vedermi ed è subito svicolato... Io dico: ti ho lasciato fare la spia perché, lo so, devi
tirare a campare; ma devi farlo con giudizio, non è che devi gettarti contro la santa chiesa
– e santa chiesa voleva dire di se stesso intoccabile, e del sacro nodo di amicizie che
rappresentava e custodiva.
E continuando a rivolgersi a Parrinieddu, come lo avesse di fronte, con gelida
solennità disse - ... e se ti getti contro la santa chiesa io, caro mio, che ti posso fare?:
niente, ti dico solo che sei morto nel cuore degli amici.
L’Italia va diventando Sicilia
- Mi senti? - disse Brescianelli. - O forse ti sto seccando?
- No no - protestò Bellodi - ho tanto piacere a rivederti. Anzi: dov'è che vai?... - e senza
attendere risposta prese sottobraccio l'amico e disse - Ti accompagno.
E appoggiandosi al braccio dell'amico, un gesto che aveva quasi dimenticato, senti
davvero bisogno di compagnia, bisogno di parlare, di svagare in cose lontane la sue
collera.
Ma Brescianelli domandò della Sicilia: com'era, come ci si stava; e dei delitti.
Bellodi disse che la Sicilia era incredibile.
- Eh sì, dici bene: incredibile... Ho conosciuto anch'io dei siciliani: straordinari... E ora
hanno la loro autonomia, il loro governo... Il governo della lupara, dico io... Incredibile: è
la parola che ci vuole.
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Incredibile è anche l'Italia: e bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile
l'Italia.
- Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui
giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della
palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di
cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del
caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l'ago di mercurio di un termometro,
questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed e già, oltre
Roma... - si fermò improvvisamente e disse, ad una giovane donna che veniva loro
incontro ridente
- Sei incredibile anche tu: bellissima...
- Come, anch'io? E l'altra chi e?
- La Sicilia... Donna anche lei: misteriosa, implacabile, vendicativa; e bellissima... Come
te. Il capitano Bellodi, che ti presento, stava raccontandomi della Sicilia... E questa è
Livia - disse rivolto a Bellodi - Livia Giannelli, che tu forse ricordi bambina: ed ora è
donna, e di me non vuol saperne.
- Lei viene dalla Sicilia? - domandò Livia
- Sì - disse Brescianelli - viene dalla Sicilia: sta laggiù a fare, come dicono loro, lo sbirro
fetente - e pronunciò l'espressione rifacendo la voce cavernosa e l'accento catanese di
Angelo Musco.
- Adoro la Sicilia - disse Livia, e si mise tra loro prendendoli a braccetto.
«Questa è Parma - pensò Bellodi con improvvisa felicità - questa è una ragazza di Parma:
sei a casa tua, al diavolo la Sicilia»; ma Livia voleva sentire le cose incredibili della
incredibile Sicilia.
- Io sono stata a Taormina, una volta; e a Siracusa per le rappresentazioni classiche: ma
mi dicono che per conoscere la Sicilia bisogna andare verso l'interno... Lei in quale città
risiede?
Bellodi disse il nome del paese; né Livia né Brescianelli lo avevano mai sentito.
- E com'è? - domandò la ragazza.
- Un vecchio paese con casa murate in gesso, con strade ripide e gradinate: e in cima a
ogni strada, a ogni gradinata, c'è una brutta chiesa...
- E gli uomini: sono molto gelosi gli uomini?
- In un certo modo - disse Bellodi.
- E la mafia: cos'è questa mafia di cui parlano sempre i giornali?
- Già: cos'è la mafia? - incalzò Brescianelli.
- È molto complicato da spiegare - disse Bellodi - è... incredibile, ecco.
Cominciava a scendere un nevischio pungente, il cielo bianco prometteva nevicata lunga.
Livia propose che l'accompagnassero a casa: sarebbero venute delle amiche, avrebbero
ascoltato formidabili pezzi di vecchio jazz, dischi miracolosamente reperiti; e ci sarebbe
stato buon whisky di Scozia e cognac Carlos primero.
- E da mangiare? – chiese Brescianelli. Livia promise che ci sarebbe stato anche da
mangiare. Trovarono la sorella di Livia e due altre ragazze distese su un tappeto davanti
al fuoco: i bicchieri a lato e il funerale al Vieux Colombier, New Orleans, che batteva
ossessivo dal giradischi. Anche loro adoravano la Sicilia. Abbrividirono deliziosamente
dei coltelli che, secondo loro, la gelosia faceva lampeggiare. Compiansero le donne
siciliane e un po' le invidiarono. Il rosso del sangue divento il rosso di Guttuso. Il gallo di
Picasso, che faceva da copertina al Bell'Antonio di Brancati, dissero delizioso emblema
della Sicilia. Di nuovo abbrividirono pensando alla mafia; e chiesero spiegazioni, racconti
delle terribili cose che, certamente, il capitano aveva visto.
Bellodi raccontò la storia del medico di un carcere siciliano che si era messo in testa,
giustamente, di togliere ai detenuti mafiosi il privilegio di risiedere in infermeria: c'erano
nel carcere molti malati, ed alcuni addirittura tubercolotici, che stavano nelle celle e nelle
camerate comuni; mentre i caporioni, sanissimi, occupavano l'infermeria per godere di un
trattamento migliore. Il medico ordinò che tornassero ai reparti comuni, e che i malati
venissero in infermeria. Né gli agenti né il direttore diedero seguito alla disposizione del
medico. Il medico scrisse al ministero. E così, una notte fu chiamato dal carcere, gli
dissero che un detenuto aveva urgente bisogno del medico. Il medico andò. Ad un certo
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punto si trovò, dentro il carcere, solo in mezzo ai detenuti: i caporioni lo picchiarono,
accuratamente, con giudizio. Le guardie non si accorsero di niente. Il medico denunciò
l'aggressione al procuratore della Repubblica, al ministero. I caporioni, non tutti, furono
trasferiti ad altro carcere. Il medico fu dal ministero esonerato dal suo compito: visto che
il suo zelo aveva dato luogo ad incidenti. Poiché militava in un partito di sinistra, si
rivolse ai compagni di partito per averne appoggio: gli risposero che era meglio lasciar
correre. Non riuscendo ad ottenere soddisfazione dell'offesa ricevuta, si rivolse allora a un
capomafia: che gli desse la soddisfazione, almeno, di far picchiare, nel carcere dove era
stato trasferito, uno di coloro che lo avevano picchiato. Ebbe poi assicurazione che il
colpevole era stato picchiato a dovere.
Le ragazze trovarono delizioso l'episodio. Brescianelli lo trovò terribile. Le ragazze
prepararono dei tramezzini. Mangiarono, bevvero whisky e cognac, ascoltarono jazz,
parlarono ancora della Sicilia, e poi dell'amore, e poi del sesso.
Bellodi si sentiva come un convalescente: sensibilissimo, tenero, affamato. «Al diavolo la
Sicilia, al diavolo tutto».
Rincasò verso mezzanotte, attraversando tutta la città a piedi. Parma era incantata di neve,
silenziosa, deserta. «In Sicilia le nevicate sono rare» pensò: e che forse il carattere delle
civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che neve o sole prevalessero. Sì sentiva un
po' confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci
sarebbe tornato.
- Mi ci romperò la testa - disse a voce alta.
Da Gli Zii di Sicilia di Leonardo Sciascia
La morte di Stalin
Il 18 aprile del 1948, nel sonno dell'alba, Calogero Schirò vide Stalin. Era un sogno
dentro un sogno, Calogero stava sognando un gran mucchio di schede elettorali, ne aveva
firmate un migliaio la sera prima poiché il partito lo aveva designato scrutinatore, vedeva
tutte quelle schede e a un certo punto sulle schede una mano pesante che usciva dalla
manica di una giubba militare di quelle all'antica. Nel sogno pensò “ora sto sognando,
questo è Stalin” e alzò gli occhi a guardare Stalin in faccia. Aveva una faccia scura.
Calogero pensò “è incazzato, c'è qualcosa che va per traverso” e subito fece un esame di
coscienza per sé e per la sezione di Regalpetra, trovò piccole macule, il vice che in
municipio aveva fregato un po' di zucchero Unrra e non era stato espulso, il segretario lei
minatori che prendeva soldi per il disbrigo di certe pratiche: cominciò a sentirsi inquieto.
Stalin parlò con un marcato accento napoletano disse "Calì, in queste elezioni abbiamo da
perdere, non c'è niente da fare, i preti hanno la prima mano". Calogero pensava “sogno è”
ma forse Stalin gli lesse in faccia delusione e tristezza, fece un mezzo sorriso dicendo "e
che credi che non la spunteremo? Oggi perderemo, la gente non è ancora matura, ma
vedrai se non ci arriveremo. Gli mise una mano sulla spalla, lo scuoteva, così scuotendolo
sua moglie gli diceva "Calì, le sei sono, c'è Carmelo che ti chiama". Calogero si svegliò, e
per il sogno che aveva fatto si sentiva un polipo nero aggroppato dentro. Mentre si vestiva
disse alla moglie di far salire Carmelo; il compagno venne su allegro, vestito come per un
matrimonio, salutò gridando "oggi ce la vediamo con questi preti cornuti" ma Calogero si
chinò ad allacciarsi le scarpe e non rispose. La moglie portò il caffé, tra un sorso e l'altro
Carmelo diceva "voglio vedere la faccia che farà l'arciprete, intimorisce la gente dicendo
che noi abbiamo già pronta la corda per impiccare, gliela farò davvero vedere la corda" e
Calogero senza guardarlo in faccia disse "che vuoi fare vedere?, ce ne vogliono anni per
levarceli dai..."Sorpreso, Carmelo disse "ma come, se ieri facevi scommessa..." "Ieri era
ieri" disse Calogero "poi viene la notte e tu ci ragioni meglio sopra; i preti hanno la prima
mano, ancora non siamo maturi."
[…]
C'era una sala circolare che risuonava di musica vittoriosa, la musica se la sentiva nelle
viscere, gli pareva distare dentro la cassa di un violino immenso; e c'era il freddo delle
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chiese deserte, una luce sotterranea e lontana. Stalin era nella bara di vetro, Calogero gli
vedeva le maniche parevano di legno, secche e dure. Accostò la faccia al vetro per vedere
meglio quel filo nero che correva intorno ai polsi di Stalin, si rialzò pensando “ecco come
sono le donne, mia moglie senza che me ne accorgessi gli ha messo la corona del rosario”
perché non lo sapeva con chiarezza, ma aveva il senso che Stalin gli fosse morto in casa.
Poi sul vetro della bara vide una grande mano che si posava, era la mano di Stalin, era
vivo e diceva "meglio di così non potevano ammazzarmi; due volte..." ma la voce era
diventata un mormorio perché Calogero, camminando di traverso come un granchio,
fuggiva verso la porta; contro la porta urtò il gomito e per il dolore si trovò sveglio,
ansante e sudato. Gli venne un pensiero nitido “Lo hanno ammazzato, domani mi
dimetto” ma di nuovo affondò nel sonno. Si svegliò brutto, la testa gli doleva, il sogno
che aveva fatto appena traluceva, voleva afferrarlo per ricordarsene e non ce la faceva.
Affondò la testa nella bacinella d'acqua fredda e si sentì meglio, prese un veramon e due
tazze di caffé. Il discorso del compagno deputato gli si sgomitolò nella memoria. Così
stavano le cose. Stalin è morto, ma il comunismo è vivo. E Stalin, fino alla guerra
vittoriosa, era stato un grande uomo.
Da Il Contesto di Leonardo Sciascia
Colloquio tra l’ispettore Rogas ed il presidente della Corte Suprema Riches
Al secondo piano, una delle quattro porte si aprì mentre Rogas usciva dall'ascensore. Un
cameriere in giacca di rigatino, certo un agente di polizia (o un ex agente, per l'età che
dimostrava), silenziosamente lo introdusse in uno studio spazioso e ordinato. In fondo, in
una poltrona d'angolo, dietro un'azzurrina nebbia di fumo, stava il presidente. Disse:
"Venga" e quando Rogas gli fu vicino, indicando una poltrona: "Si accomodi".
Rogas salutò, sedette. Il presidente lo sogguardò, al disopra delle lenti, pungente e
astioso. Due volte tirò dal sigaro, sbuffando il fumo verso una striscia di sole che lo
dispiegava come un velo. Poi lentamente, con disprezzo, invulnerabile e immortale di
fronte al piccolo, vulnerabile e mortale filisteo, disse: "Lei, dunque, crede che mi
ammazzeranno".
"Credo che tenteranno. "
"I gruppuscoli o quel tale che, secondo lei, è stato vittima di un errore? Di un errore
giudiziario, come si suol dire. " E pronunziò errore giudiziario facendo stridere, come di
lama sulla pietra dell'arrotino, con scintille di sdegno, le sillabe.
"Quel tale: Cres. "
"Cres, ecco... Aveva tentato di far fuori la moglie: un piano piuttosto ingenuo, direi; ma di
quelli che facilmente riescono... Che condanna ha avuto?"
"Cinque anni in prima istanza: confermati da lei in appello. ”
“Non da me" disse il presidente, mettendo le mani aperte davanti al petto e muovendole
verso Rogas come a respingere uno sgradevole impatto.
"Mi scusi: volevo dire dalla corte presieduta da lei. "
"Ecco: dalla corte presieduta da me. " Con soddisfazione condiscendente, da docente che
ha finalmente avuto accettabile risposta dall'alunno di mente dura. "E dunque?"
"È stato un errore. Un errore giudiziario, come si suol dire. "
“Cioè?"
"Era innocente. "
"Ma davvero!"
"Credo di sì. ”
“Era innocente o crede che fosse innocente?”
“Credo che fosse innocente. Non posso esserne certo. ”
“Ah, non può esserne certo!" Sorridendo beffardo, dall'alto delle sue certezze. "Ho
soltanto la convinzione, non assoluta e anzi con un margine di dubbio, che sia stato
condannato ingiustamente.”
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“Non assoluta, un margine di dubbio... È divertente." E passando dal beffardo al tragico,
come colto da una improvvisa trafittura a mezzo il petto: "Ma si è mai posto, lei, il
problema del giudicare?". E per un momento si arrovesciò nella poltrona, quasi di tal
problema stesse agonizzando.
"Sempre" disse Rogas.
"E l'ha risolto?”
“Appunto: non l'ha risolto...Io sì, ovviamente. Ma non una volta per tutte, non
definitivamente. Qui e ora, con lei, parlando del prossimo caso alla cui decisione dovrò
presiedere, posso anche dire: non l'ho risolto. Ma badi: parlo del prossimo caso. Non del
caso che appena mi è passato o del caso di dieci o venti o trent'anni fa. Per tutti i casi
passati il problema l'ho risolto, sempre: e l'ho risolto nel fatto stesso di giudicarli, nell'atto
di giudicarli…
[…]
Mi spingerò a un paradosso, che può anch'essere una previsione: la sola forma possibile
di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella
guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell'umanità. E l'umanità
risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di
più: non c'è mai stato. Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo. Perseguire
il colpevole, i colpevoli, è impossibile; praticamente impossibile, tecnicamente. Non è
più il cercare l'ago nel pagliaio, ma il cercare nel pagliaio il filo di paglia. Tra le
sciocchezze correnti, si diceva una volta che è impossibile ricordare la faccia di un cinese,
perché si somigliano tutti. Si è poi visto che almeno tre facce di cinesi restano
indimenticabili, e non si somigliano. Ma milioni di uomini, centinaia di milioni, ormai si
somigliano: e non dico fisicamente. Meglio: non soltanto fisicamente. Non ci sono più
individui, non ci sono responsabilità individuali. Il suo mestiere, mio caro amico, è
diventato ridicolo.
Presuppone l'esistenza dell'individuo, e l'individuo non c'è.
Presuppone l'esistenza di dio, il dio che acceca gli uni e illuminagli altri, il dio che si
nasconde: e talmente a lungo è rimasto nascosto che possiamo presumerlo morto.
Presuppone la pace, e c'è la guerra... Questo è il punto: la guerra... C'è la guerra: e il
disonore e il delitto debbono essere restituiti ai corpi della moltitudine, come nelle guerre
militari ai reggimenti, alle divisioni, alle armate. Puniti nel numero. Giudicati dalla
sorte.”
“Il numero non può mai essere indefinito" disse Rogas.
"Come? Che dice?"
Colloquio tra il giornalista Cusan ed il vicesegretario del Partito
Rivoluzionario
Mercoledì pomeriggio, alle quattro, chiamò un taxi e si fece portare alla sede centrale
del Partito Rivoluzionario. Arrivò, naturalmente, con grande anticipo sull'ora fissata per
l'incontro: e passeggiò per quella strada con eroica lentezza e provocatoria, aspettando il
colpo. Che non venne.
Alle cinque meno tre minuti entrò nel portone; attraversò l'atrio, salì la grande
scalinata barocca. E ancora indulgeva a considerazioni sul barocco quando il vice
segretario gli si fece incontro a riceverlo, nel grande e severo studio che era stato di Amar
e a cui Amar ora soltanto si affacciava da un ritratto giovanile, dipinto da uno dei più
prestigiosi artisti che militassero nel Partito.
"Non riusciamo ancora a crederci" disse il vicesegretario indicando il ritratto. La
classica frase che dolenti e condolenti pronunciano nelle visite di lutto. Ma ci credeva.
"Eh sì: incredibile" disse Cusan.
Silenzio. Poi il vice segretario disse: "L'aspettava... No, non dico ora, a questo
incontro stabilito per il tramite del nostro comune amico L'aspettavo, diciamo, fin dalla
sera di domenica… Conoscendola sua serietà, la sua lealtà, la sua amicizia nei riguardi
del nostro Partito… Amar l'ammirava molto, sa? . . . Non ho avuto dubbio, insomma,
che lei, presto o tardi, sarebbe venuto qui a spiegarci, a chiarirci ".
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“Ma…”
"Abbiamo saputo che lei si è incontrato con quel Rogas il giorno prima che andasse da
Amar: sabato."
"Sì, mi sono incontrato con Rogas.” E allarmato si chiese: perché quel Rogas?
"Lo sappiamo, sia ben chiaro, non direttamente: da informazioni che ci sono state
passate da altri… E a questi altri, noi abbiamo detto che ci fidavamo completamente di lei
della sua serietà e discrezione… E della sua intelligenza, naturalmente.”
L’intelligenza di Cusan era però, m , in quel momento come un motore ingolfato.
Disse: Sono venuto per riferire tutto quello che Rogas mi ha detto in quell'incontro"
"Le dispiace se faccio una registrazione di quello che lei sta per dirmi? Per sua
sicurezza, perché quegli altri sappiano esattamente la parte che lei ha avuto nella cosa."
Sorrise. "Così la lasceranno tranquilla. " E ancora domandò: Le dispiace?".
A Cusan dispiaceva. E non capiva. Disse: “Non mi dispiace"…
Il vice segretario premette, sulla scrivania, un tasto. Disse: "Ecco"
Cusan cominciò a parlare. L’insonnia e il travaglio degli ultimi giorni gli davano
lucidità di memoria: e fece una ripetizione di quello che aveva scritto nel memoriale
nascosto in mezzo al Don Chisciotte.
Quando ebbe finito, il vice segretario tamburellò nervosamente sulla scrivania,
fissandolo d’uno sguardo indecifrabile. Poi assunse un aria di tetra solennità e disse:
"Signor Cusan. . ". Una lunga pausa. "Che cosa penserebbe, signor Cusan, se le dicessi
che Amar è stato ucciso dal suo amico Rogas?”
Come se gli si aprisse un trabocchetto. E sprofondando disse: "Impossibile".
Il vice segretario aprì un cassetto della scrivania, tirò fuori dei fogli, li porse a Cusan
che meccanicamente li prese.
"Legga" disse il vice segretario. Ma poiché Cusan invece di leggerli restava a fissarlo,
spiegò: "Sono fotocopie della perizia balistica, della necroscopia, dei rapporti degli
agenti; e della dichiarazione dell'agente che ha ucciso Rogas".
"Rogas, dunque, veramente è stato ucciso da un agente: come sospettavo."
"Sì, ma perché Rogas aveva ucciso Amar."
"Non posso crederci."
"Mi ascolti, signor Cusan..." Ché Cusan era come sperso nella dolorosa confusione della
mente. "Mi ascolti: sabato mattina Rogas andò alla Camera dei Rappresentanti, riuscì ad
avvicinare Amar, gli parlò di un complotto che aveva scoperto. Non so esattamente quello
che si dissero. Amar mi disse semplicemente di uno della polizia che era venuto a fargli
delle rivelazioni su un complotto, e che dovevano rivedersi l'indomani alla Galleria
Nazionale.
Qui finiscono le nostre informazioni dirette. Ed entra in campo il Centro Informazioni
Speciali: il quale già da tempo, per sospetti che purtroppo non si sono rivelati infondati,
sorvegliava Rogas..."
"Ma appunto perché Rogas aveva messo l'occhio sul complotto."
"Può darsi: ma il fatto è che Rogas ha ucciso Amar, e non uno di quelli del complotto."
"Ma perché? .. Voglio dire: ma perché voi credete che Rogas abbia ucciso Amar?"
"Perché nei documenti che io le ho dato da leggere c'è una logica, una verità... Amar è
stato ucciso dalla pistola che Rogas aveva in mano quando a sua volta è stato ucciso:
periti degni di fede, e alcuni del nostro Partito, l'hanno accertato al di là di ogni dubbio...
Lei penserà, e l'abbiamo pensato anche noi: è stato ucciso prima Rogas, e poi c'è stata la
messinscena... Ma è accertato che c'era un solo agente del Centro Informazioni Speciali
alla Galleria Nazionale, e costui avrebbe dovuto: uccidere Rogas; levargli la pistola;
uccidere Amar. E Amar: cosa avrebbe fatto Amar nel tempo che l’agente toglieva la
pistola a Rogas caduto? Avrebbe aspettato il suo turno? .. Lei sa: era un uomo dai riflessi
pronti, aveva fatto la guerriglia, praticava nuoto e tennis. Avrebbe reagito, no? E in
questo caso, perché
l'agente portasse il piano a buon fine, bisognava: uccidere Rogas; colpire Amar fino a
stordirlo; prendere la pistola a Rogas; sparare ad Amar. Ma sul corpo di Amar non è stata
riscontrata traccia di contusione, di abrasione. E allora? .. Allora dovremmo ammettere
che Rogas era complice dell'agente: uccise Amar non aspettandosi di essere a sua volta
ucciso."
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"Impossibile" disse Cusan.
"Lo pensiamo anche noi. Ma non per omaggio alla memoria di Rogas."
"Io lo conoscevo bene" disse Cusan.
"Non abbastanza, signor Cusan, non abbastanza."
"Ma perché avrebbe ucciso Amar?"
"Non lo sappiamo. Ma l'ha ucciso."
"Ma che cosa può aver detto Amar da provocare in Rogas..."
"Signor Cusan." Con tono di accorato rimprovero.
''Volevo dire: da provocare in Rogas un raptus o qualcosa di simile."
"Vede: il suo amico certo non Ci amava...
"Sì certo: ma aveva il culto dell'opposizione; e in quanto opposizione, il Partito
Rivoluzionario... Lo rispettava, insomma... E quando parlò con me, al consiglio di parlare
con Amar, consiglio che certamente si aspettava da me, disse che non c'era altra
strada."
"Già," disse il vice segretario, ironico, "non c'era altra strada: parlare ad Amar per bocca
di una pistola.”
“Incredibi1e. Da impazzire" disse Cusan.
“Legga i rapporti" disse il vice segretario
Cusan li lesse.
"Ma perché uccidere Rogas?" domandò. "Perché non sentirlo, non processarlo?"
“La ragion di Stato, signor Cusan: c'è ancora, come ai tempi di Richelieu. E in questo
caso è coincisa, diciamo, con la ragion di Partito... L'agente ha preso la più saggia
decisione che potesse prendere: uccidere anche Rogas”.
“Ma la ragion di Partito... Voi... La menzogna, la verità: insomma..." Cusan quasi
balbettava.
“Siamo realisti, signor Cusan. Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una
rivoluzione." E aggiunse: “Non in questo momento"
"Capisco" disse Cusan. "Non in questo momento."
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