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«L’ultimo minuto supera i limiti del romanzo: ha il fascino ulteriore di incorporare coraggiosamente i fatti più recenti della nostra storia.» Folha de S. Paulo «Diversamente da João, il seminarista è un narratore colto, nello stile di Serenus Zeitblom del Doktor Faustus o di Nick Carraway de Il grande Gatsby, ma non è offuscato come il primo né esitante quanto il secondo.» Site Sul 21 hanno scritto formelunghe 41 Marcelo Backes, L’ultimo minuto Titolo originale: O último minuto Obra publicada com o apoio do Ministério da Cultura do Brasil / Fundação Biblioteca Nacional Opera pubblicata con il sostegno del Ministero della Cultura del Brasile / Fondazione Biblioteca Nazionale Copyright © Marcelo Backes Copyright © Del Vecchio Editore, 2014 Published by special arrangement with The Ella Sher Literary working in conjunction with Villas–Boas & Moss Literary Agency & Consultancy, LLC Editing: Paola Del Zoppo Redazione: Vittoria Rosati Tarulli Design. Illustrazioni. Logo: Maurizio Ceccato | IFIX www.delvecchioeditore.it www.twitter.com/DelVecchioEd www.senzazuccheroblog.it ISBN: 9788861101036 ISBN: 9788861101197 (ebook) «Quello che mi affascina quando scrivo, quando leggo e quando traduco è la stessa cosa. Quello che mi spinge all’arte, che ritengo importante, è poter dire agli altri quello che è importante mentre lo elaboro per me stesso.» — MARCELO BACKES TRADUZIONE VIRGINIA CAPORALI ROBERTO FRANCAVILLA A Luis Carlos, perché sono arrivato tardi, e ho vissuto poco, il Saroldi degli altri, che ci ha lasciati tutti… Yo sé que muchos dirán Que peco de atrevimiento Si lago mi pensamento Pal rumbo que ja elegí, pero siempre hei sido ainsi; galopiador contra el viento Atahualpa Yupanqui 1 Che l’hai fatto secchi i gattini? Sentiamo e sentire fa male. Conosciamo a malapena l’estraneo che racconta, che parla, che narra in un’arringa senza fine, giurando che è così che tutto è cominciato. Insomma, il padre tornava dai campi, la famiglia già seduta a tavola, fumo dalle pentole, ché vassoi non ce n’erano. E lui, l’estraneo, colui che racconta e giura, è obbligato ad alzarsi, andare alla rimessa, prendere i cuccioletti, occhi chiusi, del mondo ancora niente se non una precaria manciata di deduzioni alla cieca, in sei dentro a un sacco, portarli alla piantagione, miagolii bassissimi, lamenti minuscoli di chi non sa cosa sta succedendo e soffre soltanto perché la madre tutta tette all’improvviso è così lontana, e sbatterli contro il palo del recinto prima di gettarli fra gli sterpi, ormai muti, in silenzio per sempre. E poi tornare a casa, a tavola. Per un pranzo freddo. Quello che c’era. E l’estraneo; in questa vita si trova sempre ciò che non si sta cercando, quello che non sappiamo di cercare; quel João di tutti quanti, João, il Rosso, in realtà Iánic, a quanto diceva, ancora a chiedere come si fa a non diventare un duro, nel bene e nel male, educato così alla sofferenza. Alcuni sopravvivono, altri no, dice subito, e continua. E i gattini non erano che un elemento, forse il più forte, nello strambo universo da cui proveniva. 11 Io guardo, continuo a guardare, i pantaloni larghi, lisi, a quadretti più chiari, che terminano su un paio di sandali, e sopra una maglietta rossa, modello retrò, che sapevo appartenere allo Sport Club Internacional. Alzo lo sguardo e sulla zucca vedo un berretto a coprire un volto che all’inizio non riuscivo a descrivere bene, ma c’era una bocca, più sotto, una bocca dalle labbra dure, che a forma di “o” succhiava da una cannuccia di bambù, infilata nel bicchiere di plastica pieno di una strana erba verde. Vuoi un chimarrão? Me lo aveva chiesto solo una volta, durante il nostro primo incontro, che in verità non era stato il primo, dopo un grugnito in gola, raschiata che assecondava il rantolo della cuia improvvisata. Dissi di no, e lui reagì al mio rifiuto tirandosi su i calzoni per la cintola in un gesto quasi osceno, mentre io mi rannicchiavo sullo sgabello che sembrava oscillare sul parco equilibrio dei suoi quattro piedi irregolari. Meglio se fossero stati tre. Se dico cuia, fra l’altro, è perché l’ho imparato da lui, e se non ho specificato che i pantaloni erano alla zuava è perché lui non me lo ha detto, pensando che lo sapessi. Io non lo sapevo, ma l’ho scoperto subito, perché di solito mi informo su ciò che non conosco e faccio ricerche su quello che mi sfugge. Il mio ruolo era stare lì, e io lì stavo. Ero venuto per consolare, o per qualcosa di più, però mi limitavo ad ascoltare, e c’è n’è voluto perché non avessi più l’impressione che accettasse la mia presenza solo perché non voleva parlare ai muri, perché dall’altra parte dei suoi piedi ben piantati a terra aveva bisogno di un orecchio più 12 che meramente immaginario, senza considerare quanto ci tenesse a precisare di non essere pazzo, per quante cavolate scrivessero o raccontassero in giro su di lui. E l’estraneo finì per sciogliersi completamente al mio cospetto e, nella misura in cui è possibile raccontare qualcosa, dove il racconto abbia effettivamente a che vedere con quello che è successo, lui mi raccontò tutto, almeno questa era la mia impressione. E fin dal principio non mi sembrò di quelli che si nascondono dietro a un dito, come lui stesso aveva detto una volta, come continuava a dire. Dava un nome ai buoi, slegava i cani dell’anima. Cani? Non so perché, e mi sembrava alquanto strano, ma dopo essersi lamentato per la certezza che in futuro avrebbe perso la sua cella individuale, una delle cose che mi chiedeva sempre con timore era se non avessero approvato la pena di morte. Pena di morte? Io di quella legge non sapevo nulla e gli rispondevo di no, e quando provavo ad andare avanti per riferirgli di rigide clausole e cose del genere, che io, figlio di giuristi, conoscevo benissimo, lui tagliava corto e spiegava che il vociare dell’opinione pubblica era così forte che a qualcuno avrebbe potuto benissimo venire l’idea di indire un referendum, e allora tutto sarebbe stato perduto. Religioni come la mia, secondo lui, spegnevano soltanto la sete dei più deboli, erano troppo astratte, e il mondo era ogni giorno più brutale, il popolino aveva imparato a bere sangue con i giochi virtuali, e adesso voleva strappare davvero il cuore agli altri, affondare le mani nella carne, spezzare le ossa. 13 Senti chi parla, pensavo io. Del resto, lui si lamentava raramente, diceva perfino che l’ambiente gli andava a genio. Che il telefono non squillava, il campanello non suonava, che nessuno lo disturbava. A parte me! Ma anche a questo intendeva abituarsi a poco a poco, a patto che io mettessi da parte le mie battute di spirito e i tentativi di conversione. Soprattutto di notte, il silenzio era assoluto, e a lui piaceva. La cacofonia del quotidiano era finita, e lui poteva sentire che anche il silenzio è un rumore. Il mondo là fuori lo lasciava in pace, solo l’anima dentro di lui continuava a fargli qualche guerra, proprio così, qualche guerra, diceva. Il materasso era duro come piaceva a lui, aveva due cuscini, uno triangolare, che gli avevo portato io, appoggiarsi gli dava refrigerio, non ne ho bisogno, diceva, seguitava a dire, ma lo usava, e passava la giornata a leggere, quando non discorreva con me durante i nostri incontri settimanali. Non si faceva illusioni. Sapeva che lo avrebbero condannato e avrebbe perso il beneficio della solitudine concessogli dall’ormai accogliente cella individuale. Voleva soltanto essere capito, prima che accadesse. E non accettava che qualcuno, con una sentenza, potesse stabilire la durata della sua vita. Di nuovo la pena di morte. Voleva continuare a pensare che l’esistenza non finisse mai, come facciamo tutti finché siamo vivi, così diceva. Dopo tanto patire in libertà, credeva di essersi adattato alle circostanze eventualmente perpetue della sua precarietà, nonostante lo spaventasse perdere la sopracitata cella individuale. Ma non sarebbe riuscito a convivere con l’idea di una data di morte prefis- 14 sata. Sapere che il termine della sua vita poteva essere deciso dall’esterno significava già la fine. Eppure, diceva che non si sarebbe neanche difeso, che aveva soltanto bisogno di raccontare, semplicemente raccontare ciò che era accaduto. E siccome mi ero intromesso nel suo quotidiano senza che lui facesse una piega, adesso dovevo ascoltarlo. In tribunale non avrebbe detto niente, tanto era tutto deciso. Voleva raccontare per ricordarsi come era finito lì, scoprire il punto in cui avrebbe potuto tornare indietro, forse, anche se in linea di principio non aveva mai contemplato l’idea di pentirsi di ciò che aveva fatto. Adesso era un po’ diverso. In fin dei conti, diceva, quello che voleva era capire. Capire, lui, le cose. E capirsi lui stesso, capire se stesso, se mai fosse stato possibile, cosa di cui dubitava fin dall’inizio. Inoltre non credeva che io potessi aiutarlo, nemmeno per sogno, puoi farci una croce sopra, anche se ero andato da lui e mi trovavo lì proprio per quello. Ma lui avrebbe raccontato, tentar non nuoce, tentare per l’ultima volta. E nella sua litania monomaniaca diceva che un tempo era stato libero come un lupo, che aveva cacciato senza un tetto sulla testa nelle praterie della vita, ma oggi era come la pantera del poeta, un giaguaro ingabbiato, e subito con l’indice dava tre colpetti pieni di importanza a un libro che teneva in grembo. Mi chiese se lo conoscevo, gli dissi di no, e lui sentenziò, dandosi arie da quel professore peculiare che era: è come se ci fossero mille sbarre, intorno a me, e oltre le mille sbarre nessun mondo. Poi scoprii di chi stava parlando, non ci misi molto con tutte le enciclopedie virtuali che abbiamo oggi a portata di mano, e ancora 15 una volta mi sorprese scoprire in quali piazze singolari quel João si era allenato. E lui concluse dicendo che se a volte camminava avanti e indietro vicino alla barriera di metallo, non era perché gli sarebbe piaciuto andarsene o perché sentiva la mancanza del prato sconfinato dei suoi verdi campi. Sì, sapeva benissimo che non sarebbe più uscito, ci aveva anche provato e gli era andata male, e che si sarebbe sentito più perduto là fuori che dietro le sbarre, il mondo era cambiato troppo. Ma a volte lo spasmo di un ricordo disumano si impadroniva delle sue membra, e allora balzava giù dal letto e camminava avanti e indietro finché le onde del passato liquido che gli percorrevano i muscoli non si erano placate, e il mare del suo corpo non tornava alla bonaccia. Era questo che diceva, e che in fondo lì dentro si sentiva libero, e in più aveva imparato che l’immensità infinita che vegliava là fuori poteva essere la peggiore delle prigionie. Dove si trovava adesso era molto più facile pianificare le cose, allargare il suo piccolo mondo, continuare una vita ormai mezzo perduta senza grandi rivoluzioni. Aveva perfino rifiutato l’avvocato procuratogli dal figlio, aggiungendo che non avrebbe accettato pentimenti tardivi da parte dell’erede, senza contare che non avrebbe avuto altri soldi con cui pagare le parcelle dei legali. E non aveva passato, né avrebbe passato, il minimo pallone al difensore d’ufficio che gli avevano fornito. Sapevano tutti cos’era accaduto e quel che lui poteva eventualmente dire, quello che magari avrebbe detto il suo avvocatucolo, non poteva cambiare proprio niente. A volte bisognava commettere degli errori, pensava, a volte quella era l’unica possibilità, a 16 volte semplicemente non si riusciva a fare le cose come dio comanda. Ma quel che è vero è vero, e adesso voleva affrontare la verità a viso aperto. Doveva solo dire quello che aveva da dire e ripeteva che se io avessi accettato di ascoltarlo non mi avrebbe mandato via. Ascoltare, capito! E mi avvertiva anche che l’ordine gli era sempre piaciuto. E che lo rispettava non solo in quello che diceva, ma anche, e soprattutto, in quello che faceva. Sì, perché lui era ancora uno di quelli che fanno quello che dicono, e non diceva una cosa per poi farne un’altra a seconda di chi aveva davanti. Stando così le cose e sapendo che anche il cane di una storia, soprattutto se vera, doveva per forza avere un muso e una coda, e in più un corpo nel mezzo, aveva detto già il secondo giorno, poiché il primo giorno non mi aveva neppure lasciato entrare, che avrebbe raccontato come stavano le cose dall’inizio, perché è così che si faceva ed era sacrosanto. E aveva aggiunto anche di avere un’eccellente memoria, di ricordarsi quasi tutto, che da sempre i paranoici contavano come piselli ogni singola minuzia, una a una, dividendole per grandezza e colore, e che quello di cui non si ricordava glielo avevano raccontato gli altri e con il tempo aveva finito per trasformarsi in suo ricordo personale. Da parte mia, sapevo che la frontiera fra ciò che si è vissuto, ciò che si è immaginato e ciò che ci hanno detto è imprecisa, che non era necessario essere presenti per sapere tutto, che a volte la forma più autentica di convertirsi in testimone era rivivere l’accaduto senza neppure averlo sperimentato, cosicché tutto ciò che l’estraneo in quel 17 momento aveva ancora da dirmi, tutto ciò che mi avrebbe detto poi, era già verità, la più pura delle verità, ed era verità soltanto perché lui me l’avrebbe detta, e anzi me la stava già dicendo, alla maniera in cui la diceva. E fu allora che venne fuori con la storia dei gattini… 18 LA SCATOLA NERA DEI TRADUTTORI La scrittura di Backes, colloquiale e volutamente imperfetta, ricorda il cofano aperto di una macchina: invita il traduttore a metterci le mani e sporcarsi fino al gomito. Ci siamo quindi trovati a raccogliere la sfida di una lingua instabile, persino sconnessa. Ricca, soprattutto, di commistioni: il parlato del protagonista, gaúcho figlio di immigrati russi e tedeschi che fa carriera come allenatore di calcio, è infatti intriso di influenze molteplici. Quelle del territorio da cui proviene, il Rio Grande do Sul, con i suoi a parte climatici, le erbe medicamentose e la vegetazione straripante, quasi offensiva di ciò che è umano; degli arcaismi di una stralunata tradizione nordeuropea la quale, dislocata, lotta con le unghie e con i denti per conservarsi il più possibile inalterata; dei tecnicismi calcistici, che poi si prestano a fare da metafora per ogni circostanza esistenziale; della megalopoli, infine, con i suoi codici, linguistici e ancor più comportamentali, da imparare in fretta e furia per non fare la figura del bifolco. In una galassia così vivace ed estrema, abbiamo ritenuto che poco si dovesse spiegare, preferendo il disorientamento, che è poi la cifra del romanzo e il suo significato più profondo, alla didascalia. D’altronde va detto che Backes, nel testo originale, non ne prevedeva nessuna. Il glossario include perciò soltanto quelle parole o concetti che ci è parso obbligatorio chiarire. 261 Quanto al resto, piccole frasi e nomi di prelibatezze o appellativi in russo e tedesco, riferimenti colti della tradizione letteraria russa o personaggi del calcio internazionale, dà corpo a una materia immaginifica e sentimentale che non vuole essere spiegata e che anzi, volendola spiegare, leverebbe gusto a chi legge. Il termine gaúcho, infine, con il quale si designa popolarmente chi proviene dallo Stato del Rio Grande do Sul e che è solo parente del più noto – almeno qui da noi – gaucho della pampa argentina, resta invariato. Virginia Caporali e Roberto Francavilla 262 INDICE L’ULTIMO MINUTO pag. 11 RINGRAZIAMENTI pag. 252 NOTE pag. 253 GLOSSARIO pag. 255 LA SCATOLA NERA DEI TRADUTTORI pag. 261 in uscita «Perché scrivo? Non era qualcosa di previsto. Non doveva accadere. Non si vivono tutte le vite che si potrebbero vivere. Non c’è nulla che si possa vivere a ritroso. È la mia seconda vita. Tutti sorridono, quando lo sentono, come se si trattasse di una metafora.» — HILDE DOMIN nella stessa collana 1. Nato di sabato di Ray Banks 2. Confessioni di una giocatrice d’azzardo di Rayda Jacobs 3. L’ebbrezza degli dei di Laurent Martin 4. Un’indagine senza importanza di Robert Hültner 5. Sweet Sixteen di Birgit Vanderbeke 6. Sale e miele di Candy Miller 7. Senza via d’uscita di Val McDermid 8. Saloon di Aude Walker 9. Il trucco della morte di Astrid Paprotta 10. Fiamma abbagliante di Barry Levy 11. Alle spalle di Birgit Vanderbeke 12. Colazione con Mick Jagger di Nathalie Kuperman 13. La dea madrina di Robert Hültner 14. L’assassino di Banconi di Moussa Konaté 15. Quindici giorni di novembre di José Luis Correa 16. La bambina che imparò a non parlare di Yasmine Ghata 17. Morte in aprile di José Luis Correa 18. Il sole è una donna di Félix de Belloy 19. L’imperatore della Cina di Tilman Rammstedt 20. L’onore dei Kéita di Moussa Konaté 21. La straordinaria carriera della signora Choi di Birgit Vanderbeke 22. Le sorelle Brelan di François Vallejo 23. Apostoloff di Sibylle Lewitscharoff 24. L’ispettore Kajetan e gli impostori di Robert Hültner 25. L’impronta della volpe di Moussa Konaté 26. A portata di mano di Tilman Rammstedt 27. Si può fare di Birgit Vanderbeke 28. La traccia della sirena di José Luis Correa 29. La tempesta di neve di Robert Hültner 30. Blumenberg di Sibylle Lewitscharoff 31. Concerto per mio padre di Yasmine Ghata 32. Cosa vuoi fare da grande di Ivan Baio, Angelo Orlando Meloni 33. Exchange Place, Belfast di Ciaran Carson 34. Quasi mai di Daniel Sada 35. Il silenzio di Max Frisch 36. I passanti di Laurent Mauvignier 37. Gli innocenti di Burhan Sönmez 38. Verità imperfette di Aa. Vv 39. Johanna di Felicitas Hoppe 40. Esilio di Çiler İlhan Istruzioni per l’uso: L’ULTIMO MINUTO L’ultimo minuto è una preparazione cremosa di colore giallo pallido con sfumature bianche. È un’emulsione stabile di grassi e proteine animali aromatizzata con aceti o succhi di frutta. Con l’aggiunta di vari ingredienti può acquisire nomi lievemente differenti. PREPARAZIONE: Una volta scelti gli ingredienti giusti, questi vanno versati in una ciotola. Attenzione! Anche l’ordine in cui si versano è importante ai fini della riuscita della crema. È infatti fondamentale che vengano versati dapprima gli ingredienti più fluidi e solo per ultimi quelli che risultino più impenetrabili. Una volta versati tutti gli ingredienti si può procedere alla lavorazione. Attenzione! La riuscita della salsa è subordinata a un’attenta cura nella preparazione, che richiede, in particolare, una continua lavorazione con momenti di relativa lentezza da alternare con regolarità a momenti di accelerazione. Il movimento del polso avviene in genere su un asse parallelo alla posizione del fondo della scodella e possibilmente regolare in senso orizzontale (una sorta di avanti–indietro). Nella fase finale della lavorazione il movimento va accelerato nella fase di allontanamento dal corpo (avanti), ma controllato nella fase di ritorno (indietro). Attenzione! Tenere sempre d’occhio le pareti della scodella. Gli ingredienti più fluidi tendono infatti a scorrere e posizionarsi sui lati. Affinché la crema risulti omogenea, dunque, vanno continuamente riportati verso il centro della scodella e riamalgamati. Bisogna fare molta attenzione anche nel rimescolamento: purtroppo non c’è altro modo per definire la correttezza dei movimenti se non usando la vista. Un cuoco o una cuoca esperti sapranno riconoscere esattamente il colore e la giusta consistenza della preparazione. Particolare cura va inoltre prestata nella fase finale della lavorazione. Una veloce accelerazione in tutte le direzioni, per un tempo minimo e massimo di un minuto, permette alla crema di stabilizzarsi definitivamente. Finito di stampare nel Maggio 2014 presso la tipografia Printì di Saulino Ivana Manocalzati (Avellino)