padre Alberto Rovelli Mali

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padre Alberto Rovelli Mali
Una presenza che diventa testimonianza e annuncio
MALI
MISSIONARIO TRA LE DUNE
HA FATTO PER QUASI TRENT’ANNI LA SPOLA TRA
MOZAMBICO E MALI PRIMA DI APPRODARE A QUELLO
CHE È DA SEMPRE IL SUO SOGNO MISSIONARIO: VIVERE
ALLE SOGLIE DEL DESERTO, LÀ DOVE LA CHIESA È
DAVVERO IL ‘PICCOLO GREGGE’. IN MEZZO AD UNA
POPOLAZIONE QUASI INTERAMENTE MUSULMANA, P.
ALBERTO ROVELLI SA CHE ANNUNCIARE IL VANGELO
SIGNIFICA SOPRATTUTTO VIVERLO. SULLO STILE DI
GESÙ.
“O l’Africa o niente!”. Così aveva risposto, con la
caparbietà un po’ ingenua di cui a volte sono
capaci i bambini, alla domanda della sua
maestra: “Perché non vai nel seminario di Bergamo?”. La maestra, -una grande maestra, una
donna di fede-, sottolinea con affettuosa ammirazione, aveva saputo infatti che il piccolo Alberto,
terminate le elementari, stava per entrare nell’Istituto dei Padri Bianchi, missionari che operano
esclusivamente nel continente africano.
Sono passati tanti anni da allora e la lunga ‘carriera’ africana di padre Alberto Rovelli testimonia
che quella scelta lontana non fu il capriccio di un bambino, ma la risposta generosa a una
chiamata di Dio. E infatti è stata ed è l’Africa la terra del suo impegno missionario, il luogo in cui
realizzare un proposito preciso, un desiderio maturato fin dagli anni del seminario: vivere la
missione come incontro, “da persona a persona”. Magari alle soglie del deserto, se si fosse
avverato, con l’aiuto del Signore, un sogno chiamato Gao.
COL DESERTO NEL CUORE
Gao è una città di circa 70 mila abitanti, alle porte del Sahara, a nord est del Mali: una distesa di
dune color ocra che non ricordano affatto le belle montagne innevate che circondano Cusio, il
paese in alta Val Brembana, in cui padre Alberto è nato.
Eppure lui sognava Gao e il suo deserto. Ci ha impiegato un bel po’ a realizzare quell’antico sogno,
perché il Signore l’ha chiamato a vivere per molti anni altre significative esperienze in terra
africana.
Ma ora padre Alberto è diventato un ‘missionario tra le dune’. Come desiderava.
Trentadue anni di vita missionaria sulle spalle: quasi venti in Africa, in tappe diverse, a partire dal
lontano ’68; tredici trascorsi in Italia, a servizio del suo Istituto, dapprima come animatore
missionario, poi come provinciale, “un peccato di gioventù”, ironizza sorridendo.
“Ho fatto la spola tra Mozambico e Mali, tra la savana del sud e il grande deserto del nord Mali, tra
il Mozambico dei tempi della colonia al nuovo Mozambico che cercava con fatica di ricostruirsi,
dopo gli anni tremendi della guerra e della dittatura, per diventare la terra di un popolo finalmente
libero”.
Conosce dunque molte facce dell’Africa, ha vissuto e condiviso molti dei problemi che accomunano
i popoli di quel tormentato continente: miseria, guerriglia, malattie, emarginazione. Ha toccato,
però, con mano che “è il Signore che costruisce la sua Chiesa e lavora nel cuore della gente, anche
se noi non siamo sempre presenti”.
E’ accaduto, infatti, e continua ad accadere che la Chiesa in alcuni paesi dell’Africa, venga
perseguitata, che i missionari vengano allontanati o siano costretti dalle circostanze ad andarsene.
Se ne vanno i missionari, ma il Signore rimane e la Chiesa vive.
LA MISSIONE DEI PICCOLI NUMERI
E’ viva anche a Gao e dintorni, in un contesto quasi esclusivamente musulmano, la Chiesa di Dio.
Anche se è una Chiesa dei piccoli numeri. I cattolici in Mali sono solo il 2%, ma nella zona in cui
vive padre Alberto la percentuale quasi si azzera e i cristiani si perdono…tra le dune del deserto.
E quando chiedo a padre Alberto com’è il suo attuale impegno missionario, la sua risposta, seria,
seria, senz’ombra di ironia, non può non sorprendermi: “A Gao vive una grossa comunità di 250
cristiani; a Tombouctu, che dista 400 km da Gao, sono un’ottantina. Più a sud, in una cittadina di
5-6 mila abitanti vivono due famiglie cristiane. E’ questa la mia comunità”.
Ma che cosa significa essere missionari in una realtà così particolare?
“Faccio mie le parole scritte anni fa da Mons. Teissier, arcivescovo di Algeri: “In Algeria la Chiesa
vive come serva dell’uomo”. C’è un dato fondamentale da scoprire nella missione: o noi ci
incontriamo davvero come uomini, oppure non so che messaggio possiamo portare a questa
gente. Il Signore ha fatto così: ha preso la nostra umanità, la nostra carne, per rivelarci l’amore del
Padre.
Oltre alle attività pastorali con i cristiani della città, quando vado nelle piccole comunità
disseminate nel deserto, riunisco la gente, visito le famiglie e anche i non cristiani spesso si
avvicinano.
La nostra presenza di missionari è gradita, ma purtroppo per alcuni è ancora sinonimo di aiuti
materiali che noi continuiamo ad offrire, ma in modo indiretto, soprattutto in occasione di
emergenze. Aiuti che a volte vengono pretesi, senza giri di parole.
Un giorno, ad esempio, mi sono avvicinato ad un gruppo di anziani e mi sono sentito chiedere:
“Padre, quand’è che arriva la prossima distribuzione di viveri?”. “Sono finiti quei tempi!”, ho
risposto. “ Come? Ma se siete qui per questo, voi! Per dare aiuti”.
Una affermazione categorica che ci deve far riflettere su uno stile di presenza a cui forse sono stati
abituati. Eppure non mi aspettavo che l’esperienza tra la gente del deserto fosse così bella. E’ bella
perché mi permette di avvicinarmi a queste persone senza barriere, senza chiedere se sono
cristiani o no, quando entro nelle loro case o nei campi dei nomadi, o quando visito l’ospedale.
E’ questo il senso della mia missione. Non è facile, ma basterebbe riflettere sul brano evangelico
della Samaritana. Guardiamo al modo di fare di Gesù, a come ha saputo superare le barriere
etniche e sociali. E’ lui che chiede da bere, a una donna, per giunta! Si mette in una situazione di
bisogno, di dipendenza, di povertà. L’Incarnazione è il più grande mistero, il massimo della
povertà: un Dio che si fa uomo. E’ quella, però, la strada attraverso cui egli entra nel cuore di
quella donna e la porta a porsi la questione fondamentale della verità.
Se riuscissimo anche noi, come uomini credenti, come discepoli di Cristo, forti della nostra fede, a
vivere la presenza del Signore e poi avvicinarci come lui ha fatto, con rispetto, agli uomini e alle
donne che incontriamo, saremmo capaci di far nascere in loro quelle domande a cui nessuno alla
fine può sottrarsi”.
Da MISSIONDUEMILA, inserto mensile del settimanale diocesano “La Nostra Domenica”, 10 dicembre 2000