Leggi il primo capitolo

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Leggi il primo capitolo
David Hewson
The Killing
Traduzione di Annamaria Raffo
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Questo libro è un’opera di fantasia basata sulla serie televisiva scritta da Søren
Sveistrup e vincitrice del premio BAFTA. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi
analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
ISBN 978-88-04-62139-3
Copyright © David Hewson 2012
Based on Søren Sveistrup’s Forbrydelsen (The Killing)
– an original Danish Broadcasting Corporation TV series
co-written by Torleif Hoppe, Michael W. Horsten and Per Daumiller
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale
The Killing
I edizione febbraio 2013
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The Killing
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Non nobis solum nati sumus.
Non siamo nati soltanto per noi stessi.
Cicerone, De Officiis (Libro I, 22)
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Ringraziamenti
Trasformare una saga poliziesca televisiva in un romanzo thriller
non è stato facile, tanto più perché la vicenda si svolge in un
paese che non ho mai visitato e che si trova a molti chilometri
di distanza dall’Italia e dal suo clima caldo e accogliente, dov’è
ambientata la maggior parte delle mie opere. Non avrei mai
potuto intraprendere questo viaggio senza il profondo impegno
delle persone coinvolte in questo progetto, sia in Danimarca sia
nel Regno Unito.
Søren Sveistrup, il creatore della serie originale, è stato così
gentile da trovare il tempo – mentre girava la terza serie di The
Killing – di espormi le sue idee e poi consigliarmi altruisticamente di seguire le mie al momento di trasferire la vicenda dallo
schermo alla pagina. Susanne Bent Andersen della Engstrom,
la mia casa editrice danese, mi è stata di grande aiuto con la
sua conoscenza della città e della cultura di Copenaghen, come
pure Lars Ringhof, il premuroso agente di Søren. Sono stato
aiutato anche da un numero infinito di persone – troppe per
nominarle tutte – all’interno del quartier generale della polizia
di Copenaghen, del Rådhus e di altre istituzioni locali.
Nel Regno Unito, la mia editor Trisha Jackson e i suoi colleghi della Pan Macmillan – tutti, dal primo all’ultimo, fan di
Sarah Lund – sono stati fonte continua di consigli, opinioni e
incoraggiamento, come molti altri fan di The Killing. Tra questi
ultimi, sono particolarmente grato a Keith Blount, non solo per
i suoi suggerimenti in merito alla vicenda, ma anche per aver
creato un software di scrittura, Scrivener, che mi ha permesso
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di gestire i tre filoni dell’intreccio narrativo dall’inizio alla fine
(senza il quale non riesco a immaginare come avrei potuto intraprendere questo enorme progetto).
Ciò detto, questa reinterpretazione della storia originale – ne­
cessariamente diversa, poiché libri e televisione non sono la stessa
cosa – è mia e soltanto mia.
Tak.
David Hewson
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PERSONAGGI PRINCIPALI
Polizia di Copenaghen
Sarah Lund, vicecommissario della Omicidi
Jan Meyer, vicecommissario della Omicidi
Buchard, capo della Omicidi
Lennart Brix, vicecapo facente funzioni della Omicidi
Svendsen, detective della Omicidi
Jansen, agente della Scientifica
Bülow, funzionario dell’ufficio del procuratore
Famiglia Birk Larsen
Theis Birk Larsen, padre
Pernille Birk Larsen, madre
Nanna Birk Larsen, figlia di Theis e Pernille
Emil Birk Larsen, figlio di Theis e Pernille
Anton Birk Larsen, figlio di Theis e Pernille
Lotte Holst, sorella minore di Pernille
Politici e dipendenti del Rådhus (municipio di Copenaghen)
Troels Hartmann, leader del Partito liberale e assessore all’Istruzione
Rie Skovgaard, consigliere politico di Hartmann
Morten Weber, coordinatore della campagna elettorale di Hartmann
Poul Bremer, sindaco di Copenaghen
Kirsten Eller, leader del Partito di centro
Jens Holck, leader del Partito moderato e assessore all’Ambiente
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Mai Juhl, leader del Partito ambientalista
Knud Padde, presidente del gruppo consiliare
Henrik Bigum, membro del direttivo del gruppo liberale
Olav Christensen, impiegato dell’assessorato all’Istruzione
Gert Stokke, segretario amministrativo dell’assessorato all’Am­
biente
Liceo Frederiksholm
Oliver Schandorff, alunno, ex boy-friend di Nanna
Jeppe Hald, alunno
Lisa Rasmussen, alunna
Koch, preside
Rahman Al Kemal, insegnante, meglio noto con il nome di Rama
Henning Kofoed, insegnante
Altri
Hanne Meyer, moglie di Jan Meyer
Carsten, ex marito di Lund
Bengt Rosling, psicologo criminale, compagno di Lund
Mark, figlio di Lund
Vagn Skærbæk, vecchio amico di famiglia e dipendente di Theis
Birk Larsen
Leon Frevert, autista di taxi
Amir El’ Namen, figlio del proprietario di un ristorante indiano,
amico d’infanzia di Nanna
John Lynge, autista del comitato elettorale di Troels Hartmann
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Venerdì 31 ottobre
Nel bosco buio, dove gli alberi morti non danno riparo, Nanna
Birk Larsen corre.
Diciannove anni, senza fiato, tremante nella sottoveste striminzita e strappata, scivola nel fango che le si attacca ai piedi nudi.
Radici crudeli le ghermiscono le caviglie, rami contorti straziano le braccia pallide e nude. Cade, incespica, si risolleva
dai fetidi canali di scolo, sforzandosi di non battere i denti, di
pensare, di sperare, di nascondersi.
Un occhio luminoso la segue come un cacciatore sulle orme
di un cervo ferito. Procede lento, a zigzag, ma sempre più vicino
attraverso la landa desolata della Pinseskoven, la foresta della
Pentecoste.
Tronchi spogli e argentei si levano dal terreno brullo come
membra di cadaveri antichi, pietrificate negli ultimi spasmi di
morte.
Un’altra caduta, la peggiore. Il terreno sotto di lei scompare e
con esso le sue gambe. Annaspando con le mani, urlando per il
dolore e la disperazione, la ragazza precipita nel fossato gelido e
sporco, urta contro rocce e tronchi, brancola nella ghiaia aguzza
e tagliente, sente la testa, le mani, i gomiti, le ginocchia sfiorare
il terreno invisibile in agguato sotto di lei.
L’acqua gelida, la paura, la presenza di lui sempre più incombente...
Senza fiato, si rialza barcollando dalla fanghiglia, si arrampica sull’altra sponda, punta i piedi feriti e sanguinanti contro il
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terreno paludoso per far presa nella melma. Sull’argine trova un
albero. Alcune foglie, le ultime, reduci dell’autunno, le sfiorano
il viso. Il tronco è più grande degli altri e mentre lo abbraccia
pensa a Theis, suo padre, un gigante d’uomo, taciturno e scontroso, solido baluardo contro il mondo esterno.
Si aggrappa alla fragile corteccia argentea, la stringe come un
tempo stringeva lui, le loro due forze unite. Non c’era bisogno
d’altro, non ci sarebbe mai stato bisogno d’altro.
Dal cielo sconfinato proviene un sibilo potente. Le luci brillanti e onniveggenti di un jet che si ribella alla legge di gravità
e fugge da Kastrup, dalla Danimarca. La sua fugace presenza
l’abbaglia, l’acceca. Nella luce implacabile Nanna Birk Larsen si
sfiora il volto con le dita. Sente la ferita che scende dall’occhio
sinistro fin sulla guancia, brutta, aperta, sanguinante.
Sente l’odore di lui, la sua presenza. Su di lei, dentro di lei.
In mezzo a tutto quel dolore, alla paura, si leva una fiammata
di rabbia, cocente e improvvisa.
Sei proprio la figlia di Theis Birk Larsen.
Dicevano tutti così quando lei gliene dava motivo.
Sei Nanna Birk Larsen, la figlia di Theis e di Pernille, e sfuggirai
al mostro che ti insegue nella notte, nella foresta della Pentecoste
ai margini della città dove, a pochi ma interminabili chilometri
di distanza, si trova quel luogo caldo e sicuro chiamato casa.
Stringe il tronco come un tempo stringeva suo padre, le braccia
avvinghiate alla corteccia d’argento che si sfalda, la sottoveste
lucida macchiata di sangue e di terra, tremando in silenzio, e
cerca di convincersi che la salvezza è poco più in là, oltre il bosco
buio e gli alberi morti che non danno riparo.
Un fascio di luce bianca è puntato su di lei. Non è la cascata
luminosa che scende dal ventre di un aereo in volo su quella
landa desolata come un grande angelo meccanico, nella vana
ricerca di un’anima smarrita da salvare.
Corri, Nanna, corri grida una voce.
Corri, Nanna, corri pensa lei.
Adesso su di lei c’è il fascio di una torcia, quell’unico occhio
luminoso. È lì.
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Lunedì 3 novembre
«È sul retro» disse il poliziotto. «L’ha trovata un senzatetto.»
Sette e mezza del mattino. Ancora buio, con la pioggia che
veniva giù dritta e gelida. Il vicecommissario Sarah Lund se ne
stava a ridosso dell’edificio di mattoni vicino al porto e osservava gli uomini in uniforme intenti a delimitare la zona con il
nastro segnaletico della polizia.
L’ultima scena del crimine che avrebbe visto a Copenaghen.
Doveva per forza essere un omicidio. E di una donna, per di più.
«L’edificio è vuoto. Stiamo controllando gli appartamenti di
fronte.»
«Quanti anni aveva?» chiese Lund.
Il poliziotto, un tizio che conosceva appena, si strinse nelle
spalle e si asciugò la pioggia dal viso con la manica.
«Perché me lo chiede?»
Un incubo, avrebbe voluto rispondere lei. Un incubo da
cui si era svegliata quel mattino, alle sei e mezza, urlando, nel
letto vuoto. Quando si era alzata, Bengt – il dolce, premuroso,
placido Bengt – girava silenziosamente per l’appartamento,
intento a impacchettare le ultime cose. Mark, suo figlio, dormiva profondamente davanti alla tivù nella sua stanza e non
si era neppure mosso quando lei, senza fare rumore, aveva
guardato dentro. Quella sera tutti e tre avrebbero preso un
volo per Stoccolma. Una nuova vita in un altro paese. Una
svolta. Ponti tagliati.
Sarah Lund aveva trentotto anni ed era una persona scrupolo15
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sa, sempre concentrata sul mondo intorno a lei, mai su se stessa.
Quello era il suo ultimo giorno nella polizia di Copenaghen.
Le donne come lei non avevano incubi, terrori notturni, fugaci
visioni di un giovane volto spaventato come avrebbe potuto
essere, un tempo, il suo.
Quelle fantasie erano per gli altri.
«Non è necessario che mi risponda» disse il poliziotto, seccato
per il suo silenzio, sollevando il nastro e facendo strada verso
la porta scorrevole di metallo. «Sa una cosa? Non ho mai visto
niente di simile.»
Le porse un paio di guanti azzurri e rimase a guardare mentre
lei li indossava, poi spinse con la spalla la porta arrugginita che
si aprì con un gemito da gatto torturato.
«Torno tra un minuto» disse lui.
Lei non aspettò. Avanzò come faceva sempre, da sola, guardando da una parte e poi dall’altra, gli occhi vivaci ben aperti,
sempre vigili.
Per qualche motivo, appena lei fu dentro l’uomo richiuse la
porta scorrevole così in fretta che questa volta lo stridore del
gatto fu di un’ottava più alto. Poi venne zittito dal tonfo della
pesante porta di ferro che chiudeva fuori il grigio del mattino.
Davanti a lei c’erano un corridoio centrale e una cella come
quelle usate per la carne, con ganci a intervalli regolari lungo
le travi. Una serie di lampadine nude appese al soffitto.
Il pavimento di cemento scintillava per l’umidità. Qualcosa
si muoveva nella semioscurità, in fondo, oscillando lentamente
come un gigantesco pendolo.
Si sentì lo scatto di un interruttore e poi il locale piombò
nell’oscurità, come la camera da letto quella mattina quando
un sogno atroce e indesiderato l’aveva svegliata di soprassalto.
«Luce!» gridò Lund.
La sua voce echeggiò nel ventre vuoto e oscuro dell’edificio.
«Luce, per favore.»
Silenzio. Era una poliziotta esperta, ricordava sempre tutto
quello che doveva portare con sé, tranne la pistola che tendeva
sempre a dimenticare.
Però aveva la torcia, al sicuro nella tasca destra. La prese e la
impugnò come facevano i poliziotti: mano destra alzata, polso
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piegato all’indietro, fascio di luce puntato in avanti a frugare
in posti dove gli altri non guardavano.
La torcia e Lund cominciarono a cercare. Coperte, indumenti
sporchi, due lattine di Coca-Cola accartocciate, una confezione
vuota di preservativi.
Tre passi e poi si fermò. Vicino alla parete di destra, visibile nel
punto in cui incontrava il pavimento, c’era una pozza di liquido
rosso e viscoso, due scie orizzontali sul cemento scrostato, come
quelle lasciate da un corpo insanguinato trascinato sul pavimento.
Lund si infilò una mano in tasca, tirò fuori un pacchetto di
Nicotinell, i chewing-gum alla nicotina, e se ne mise uno in bocca.
Non era solo Copenaghen che si lasciava alle spalle. Anche le
sigarette figuravano sull’elenco delle cose da eliminare.
Si chinò e immerse un dito nella pozza, poi lo avvicinò al
naso e lo annusò.
Altri tre passi e trovò un’ascia da boscaiolo, con il manico
lucido e pulito come se fosse uscita dal negozio il giorno prima.
Mise due dita nella chiazza di liquido rosso intorno alla lama,
ne saggiò la consistenza, l’annusò e rifletté.
Non riusciva proprio a farsi piacere il gusto dei Nicotinell.
Proseguì.
La cosa davanti a lei diventava più visibile. Ondeggiava da
una parte all’altra. Un telone industriale così macchiato di rosso
da sembrare uno di quei drappi in cui si avvolgono gli animali
macellati.
Quello che c’era sotto aveva una forma familiare, umana.
Lund cambiò la posizione della torcia, tenendola vicina alla
vita, col fascio puntato all’insù per guardare meglio il tessuto,
alla ricerca di un punto in cui afferrarlo.
Il telone venne via con un unico, rapido movimento e ciò
che stava sotto continuò lentamente a ondeggiare nella luce
della torcia. Il volto impietrito colpito dalla luce era quello di
un uomo, la bocca spalancata in una O senza fine. Capelli neri,
incarnato roseo, un mostruoso pene di plastica eretto e ammiccante. Sulla testa un elmo azzurro da vichingo sormontato da
corna d’argento, da cui scendevano trecce dorate.
Lund piegò la testa di lato e sorrise a loro beneficio.
Legato al petto del giocattolo erotico c’era un cartello: “Grazie,
capo, per sette fantastici anni. I ragazzi”.
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Risate dall’oscurità.
I ragazzi.
Un bello scherzo. Anche se avrebbero potuto procurarsi del
sangue vero.
Il Politigården era un labirinto grigio che sorgeva su un terreno bonificato vicino al canale. Freddo e squadrato all’esterno,
all’interno il quartier generale della polizia si apriva su un cortile
rotondo, delimitato da un porticato retto da colonne classiche.
Dentro, scalinate a spirale conducevano a corridoi curvi rivestiti
di marmo nero venato che giravano intorno al cerchio perfetto
come vene calcificate. Le ci erano voluti tre mesi per orizzontarsi
in quel dedalo scuro. Persino adesso, certe volte, era costretta a
fermarsi a pensare per capire dove si trovasse.
La Omicidi era al secondo piano, nord-est. Lund era nell’ufficio di Buchard, con l’elmo da vichingo in testa, e ascoltava le
loro battute, apriva i regali, sorrideva in silenzio sotto le corna
di cartone e le trecce dorate.
Poi li ringraziò, andò nel suo ufficio e cominciò a raccogliere
le sue cose. Non c’era tempo per fare baldoria. Sorrise alla foto
di Mark che teneva incorniciata sulla scrivania. Scattata tre anni
fa, quando aveva nove anni, molto prima che tornasse a casa
con quell’assurdo orecchino. Subito prima del divorzio. Poi era
arrivato Bengt a tentarla con una nuova vita in Svezia, oltre le
acque gelide e grigie dell’Øresund.
Mark da piccolo, sempre imbronciato, allora come adesso.
Anche questo sarebbe cambiato in Svezia. Insieme a tutto il resto.
Lund spinse in una scatola di cartone tutto quello che si trovava sulla scrivania, la scorta trimestrale di Nicotinell, le penne,
il temperamatite a forma di bus londinese, poi posò la foto di
Mark sopra a tutto.
La porta si aprì ed entrò un uomo.
Lei guardò, valutò, come faceva sempre. Una sigaretta all’angolo della bocca, capelli corti, un volto severo. Occhi grandi,
grandi orecchie. Abiti economici e un po’ troppo giovanili per
uno che poteva essere suo coetaneo. Reggeva una scatola simile alla sua. Lund vide una cartina di Copenaghen, un piccolo
canestro da basket da appendere alla parete, un’automobilina
della polizia, un paio di cuffie.
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«Sto cercando l’ufficio di Lund» disse, fissando l’elmo da vichingo posato sul nuovo paio di sci che le avevano appena regalato.
«Sono io.»
«Jan Meyer. Quella è la vostra uniforme?»
«Vado in Svezia.»
Lund prese le sue cose e i due si esibirono in un piccolo balletto con le scatole mentre lei cercava di guadagnare l’uscita.
«Per l’amor del cielo... Perché?» chiese Meyer.
Lei posò la scatola e si tirò indietro i lunghi, indomiti capelli
castani, cercando di pensare se ci fosse qualcos’altro di importante da prendere.
Lui tirò fuori il piccolo canestro e guardò la parete.
«Mia sorella ha fatto una cosa così» disse Meyer.
«Così come?»
«Qui non gliene andava dritta una, così si è trasferita a Bornholm insieme a un tizio.» Meyer posò il canestro sopra gli schedari. «Una brava persona. Non ha funzionato.»
Lund, infastidita dai capelli, prese un elastico dalla tasca e li
legò in una coda di cavallo.
«Perché no?»
«Troppo isolato. Impazzivano a sentire le mucche scoreggiare
tutto il giorno.» Meyer tirò fuori un boccale da birra in peltro e
se lo rigirò tra le mani. «Tu invece dove vai?»
«Sigtuna.»
Meyer si bloccò e la fissò in silenzio.
«Anche quello è un posto molto isolato» aggiunse Lund.
Lui diede un lungo tiro alla sigaretta e prese un piccolo pallone
dalla scatola, poi posò la macchinina della polizia sulla scrivania e cominciò a muoverla avanti e indietro. Quando le ruote
giravano, si accendeva la luce azzurra e si sentiva il lamento di
una piccola sirena.
Stava ancora giocando quando entrò Buchard con un foglio
in mano.
«Vi siete conosciuti» disse il capo. Non era una domanda.
L’immagine del vecchio zio bonario, seduto accanto a lei a
colazione, era sparita.
«Abbiamo avuto il piacere...» iniziò Lund.
«È appena arrivato questo.» Buchard le porse il rapporto.
«Ma se sei troppo impegnata a sgomberare...»
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«Ho tempo» disse Lund. «Ho tutto il giorno...»
«Bene» fece Buchard. «Perché non porti Meyer con te?»
L’uomo con la scatola spense la sigaretta e si strinse nelle
spalle.
«Sta sistemando le sue cose» disse Lund.
Meyer mollò la macchinina, prese il pallone e lo fece rimbalzare su una mano.
Sorrise. Sembrava diverso, più umano, meno spigoloso.
«Mai troppo impegnato, se c’è da lavorare.»
«Un buon inizio» disse Buchard. C’era una certa ostilità
nella sua voce. «Mi farebbe piacere, Meyer, e dovrebbe essere
lo stesso per te.»
Con il finestrino abbassato, Lund osservava il Kalvebod Fælled
dal sedile del passeggero. Tredici chilometri a sud della città,
vicino all’acqua. Era una giornata asciutta dopo due giorni di
pioggia. Probabilmente non sarebbe rimasta così a lungo. Terreno piatto e paludoso, erba gialla e canali si estendevano fino
all’orizzonte, con un bosco scuro e spoglio sulla destra. Un vago
odore di mare, e più vicino puzza di vegetazione bagnata e in
decomposizione. Umidità nell’aria prossima allo zero. Si stava
alzando un vento forte e freddo.
«Non puoi portare la pistola? Non puoi effettuare arresti?
Almeno le multe per divieto di sosta le puoi fare?»
Un tizio che portava a spasso il cane di mattina presto aveva
trovato degli indumenti femminili in un’area brulla vicino a un
boschetto di betulle bianche noto come Pinseskoven, la foresta
della Pentecoste.
«Devi essere svedese per arrestare le persone. È una...» Lund
si pentì di aver risposto alle sue domande. «Funziona così.»
Meyer si infilò in bocca una manciata di patatine, poi appallottolò il sacchetto e lo gettò a terra. Guidava come un adolescente,
troppo veloce e preoccupandosi poco degli altri.
«E tuo figlio cosa ne pensa?»
Lei scese senza curarsi che lui la seguisse.
Vicino al punto del ritrovamento c’erano un detective in borghese e un uomo in uniforme che vagava tra le collinette d’erba
tirando calci alle zolle. Tutto quello che avevano era un top di
cotone a fiori, di quelli che portano le ragazzine, e la tessera di
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un negozio di videonoleggio. Entrambi in sacchetti di plastica
per le prove. Il top era macchiato di sangue.
Lund ruotò su se stessa di trecentosessanta gradi, gli occhi
grandi e luminosi alla ricerca di qualcosa, come sempre.
«Chi frequenta questo posto?» chiese all’uomo in uniforme.
«Di giorno i bambini dell’asilo per gite naturalistiche. Di notte
le prostitute della città.»
«Bel posto per fare una marchetta» osservò Meyer. «Dov’è
finito il romanticismo?»
Lund continuava a girare lentamente su se stessa.
«Quando è stata lasciata qui questa roba?»
«Ieri o l’altro ieri. Non venerdì. C’era una scolaresca in gita.
L’avrebbero vista.»
«Nessuna segnalazione? Nessun rapporto dagli ospedali?»
«Niente.»
«Nessuna idea di chi possa essere?»
Lui le mostrò il sacchetto di plastica con il top.
«Taglia 40» disse il detective. «Non sappiamo altro.»
Sembrava un capo da poco, i fiori così sgargianti da risultare
esagerati. Un’esagerazione da adolescente: infantile e sexy al
tempo stesso.
Lund prese il secondo sacchetto ed esaminò la tessera del
videonoleggio.
C’era un nome: Theis Birk Larsen.
«L’abbiamo trovata vicino al sentiero» aggiunse il poliziotto.
«Il top invece era qui. Magari hanno litigato e lui l’ha gettata
giù dall’auto. E poi...»
«E poi» disse Meyer «lei ha recuperato scarpe, giacca, borsa
e la confezione di preservativi e se n’è tornata a casa a guardare
la tivù.»
Lund si rese conto che non riusciva a staccare lo sguardo dal
bosco.
«Vuole che vada a parlare con questo Birk Larsen?» chiese il
poliziotto in uniforme.
«Sì» rispose lei, e lanciò un’occhiata all’orologio.
Otto ore e avrebbe chiuso. Con Copenaghen e la vita precedente.
Meyer si avvicinò e lei si ritrovò avvolta dal fumo della sua
sigaretta.
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«Possiamo andare a parlargli noi, Lund. Mollare una puttana
quaggiù. Picchiarla. Il mio cliente ideale.»
«Be’, non è il nostro campo.»
La sigaretta finì nel fosso più vicino.
«Lo so. È solo che...» Prese un pacchetto di chewing-gum
dalla tasca. Sembrava che quell’uomo vivesse di patatine, dolci
e sigarette. «Voglio solo scambiare due parole con lui.»
«A proposito di che? Non c’è nessun caso. La prostituta non
ha sporto denuncia.»
Meyer si sporse in avanti e le si rivolse come un maestro
potrebbe fare con un’alunna.
«Io sono bravo a parlare.»
Aveva grandi orecchie a sventola, quasi caricaturali, e la barba
di un giorno. Sarebbe stato perfetto sotto copertura, rifletté Lund.
Forse lo era stato. Le tornò in mente il modo in cui Buchard si
era rivolto a lui. Delinquente. Poliziotto. Meyer avrebbe potuto
essere entrambe le cose.
«Ho detto...»
«Dovresti vedermi, Lund. Davvero. Prima che tu parta. Il
mio regalo agli svedesi.»
Prese la tessera dalle mani di lei. Lesse il nome.
«Theis Birk Larsen.»
Sarah Lund fece un altro giro su se stessa, osservando l’erba
gialla, i fossi, il bosco.
«Guido io» disse.
Pernille appoggiata al suo petto, che rideva come una bambina.
Mezzi svestiti sul pavimento della cucina a metà di una
mattinata lavorativa. Era stata un’idea di Theis, come la gran
parte delle volte.
«Vestiti» gli ordinò e si staccò da lui alzandosi in piedi. «Va’
a lavorare, bestia.»
Lui le rivolse il suo sorriso da giovane teppista, poi si rinfilò
la salopette rossa. Quarantaquattro anni, capelli rossi con un po’
di grigio, lunghe basette che gli arrivavano al mento squadrato,
la faccia pronta a passare in un istante da appassionata a gelida,
per tornare subito dopo impassibile.
Pernille aveva un anno meno di lui, una donna attiva, anco22
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ra in forma dopo tre figli, abbastanza da eccitarlo oggi come
vent’anni prima, quando si erano conosciuti.
Lo osservò infilarsi la pesante divisa, poi si guardò attorno
nel piccolo appartamento.
Era incinta di Nanna quando si erano trasferiti a Vesterbro.
Era già incinta quando si erano sposati. L’avevano cresciuta lì,
in quella stanza luminosa, allegra, con le piante in vaso alla finestra e le fotografie alle pareti, piena delle cianfrusaglie di una
famiglia. Da neonata urlante a bellissima adolescente, seguita,
dopo un intervallo troppo lungo, da Emil e Anton, che adesso
avevano sette e sei anni.
L’abitazione si trovava sopra il magazzino della ditta di
trasporti Birk Larsen. I locali al piano terra erano più ordinati
delle stanze sacrificate in cui vivevano ammassati in cinque, in
mezzo a un’accozzaglia di ricordi, disegni, giocattoli e disordine
ovunque.
Pernille osservò le piante aromatiche sulla finestra, la luce
verde che filtrava dalle foglie.
Piene di vita.
«Presto Nanna avrà bisogno di un appartamento» disse, sistemandosi i lunghi capelli castani. «Potremmo versare un anticipo,
no?»
Lui scoppiò in una risata.
«Dalle tempo. Lascia che finisca la scuola, prima.»
«Theis...»
Lei tornò tra le sue braccia forti e lo guardò negli occhi. Alcune
persone avevano paura di Theis Birk Larsen. Lei no.
«Forse non sarà necessario» disse lui.
Il suo volto ruvido si increspò in un sorriso malizioso.
«Perché?»
«È un segreto.»
«Dimmelo!» esclamò Pernille e gli diede un pugno sul petto.
«Non sarebbe più un segreto.»
Theis scese le scale che portavano al magazzino. Lei lo seguì.
Furgoni, uomini, pallet, merci imballate con la pellicola termoretraibile, inventari, orari.
Le assi del pavimento scricchiolavano sempre. Forse lei aveva
gridato. Loro avevano sentito. Lo capì dalle facce sorridenti.
Vagn Skærbæk, il più vecchio amico di Theis, che lo aveva
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conosciuto ancora prima di lei, fece il gesto di togliersi un immaginario cappello.
«Dimmelo!» ripeté lei, afferrando il vecchio giaccone di pelle
nera dal gancio.
Birk Larsen indossò il giaccone, tirò fuori il berretto di lana
nero e se lo mise. Rosso all’interno, nero fuori. Pareva che vivesse con quella divisa addosso. Lo faceva sembrare un truce
maschio di foca dal petto rosso, felice del suo territorio e pronto
a scacciare con la forza gli intrusi.
Un’occhiata al portablocco, una crocetta accanto a una destinazione, poi chiamò Skærbæk accanto al furgone più vicino.
Rosso anche quello e, come le divise, col nome Birk Larsen
scritto sopra. Come il triciclo rosso con il cassone che Skærbæk
si ostinava a tenere in ordine diciotto anni dopo che lo avevano
acquistato per portare Nanna in giro per la città.
Birk Larsen. Patriarca di una modesta ma felice dinastia. Re
della piccola casa di Vesterbro.
Batté le mani gigantesche, impartì qualche ordine, poi se ne
andò.
Pernille Birk Larsen rimase lì, in piedi, finché gli uomini non
tornarono al lavoro. Aveva una dichiarazione dei redditi da
finire. Pagamenti da fare, e quella non era mai una bella cosa.
E incassi da nascondere. Nessuno dava tutto ciò che doveva al
governo, se poteva farne a meno.
Non abbiamo bisogno di altri segreti, Theis, pensò.
Sotto la statua dorata di Absalon, sotto la torre campanaria e il
profilo merlato del tetto, sullo sfondo della fortezza di mattoni
rossi del Rådhus, il municipio di Copenaghen, campeggiavano
tre manifesti.
Kirsten Eller, Troels Hartmann, Poul Bremer. Sorridenti come
solo i politici sanno essere.
Eller, la donna, labbra sottili tese in un sorriso che era più un
sogghigno. Il Partito di centro, eternamente impantanato in una
terra di nessuno, nella speranza di aggrapparsi all’una o all’altra
parte per raccogliere le briciole cadute dalla tavola del padrone.
Sotto di lei Poul Bremer sorrideva alla città che già era sua.
Sindaco di Copenaghen da dodici anni, politico pasciuto e benestante, vicino ai parlamentari che tenevano i cordoni della
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borsa, sempre in sintonia con le opinioni volubili della truppa,
sempre a suo agio con il network di sponsor e sostenitori che
seguivano ogni sua parola. Giacca nera, camicia bianca, cravatta
di seta grigio perla, occhiali seri con la montatura nera, a sessantacinque anni Bremer aveva l’aspetto benevolo di uno zio
amato da tutti, prodigo di doni e favori, il parente autorevole,
custode di tutti i segreti e di tutto il sapere.
E poi Troels Hartmann.
Quello giovane. Quello bello. Il politico che le donne guardavano e segretamente ammiravano.
Indossava i colori dei liberali. Abito blu, camicia azzurra con
il colletto sbottonato. Hartmann, quarantadue anni, aria da ragazzo con i suoi bei lineamenti nordici, anche se all’obiettivo non
era sfuggita un’ombra di dolore nei suoi occhi blu cobalto. Un
uomo per bene, diceva la foto. Una nuova generazione decisa a
scacciare quella vecchia, a portare idee fresche, la promessa di
un cambiamento. In parte già al potere poiché, grazie al sistema elettorale, gestiva con energia e lungimiranza l’assessorato
all’Istruzione. Già sindaco, in un certo senso, anche se solo di
scuole e collegi.
Tre politici pronti a darsi battaglia per conquistare la corona
di Copenaghen, la capitale, una metropoli in continua crescita
dove viveva e lavorava, litigava e si azzuffava più di un quinto
dei cinque milioni e mezzo di danesi. Giovani e vecchi, danesi
di nascita e immigrati recenti, talvolta non del tutto benvenuti.
Onesti e diligenti, indolenti e corrotti. Una città come tante.
Eller, l’outsider, la cui unica chance era quella di stringere il
miglior accordo possibile. Hartmann, giovane e idealista. Un
ingenuo, avrebbero detto i suoi avversari, a illudersi di poter
spodestare Poul Bremer, il grande vecchio della politica, dal trono
che considerava suo.
Nella gelida giornata di novembre i loro volti sorridevano
all’obiettivo, per la stampa, per la gente lungo la strada. Dietro
le finestre sporche di smog del castello di mattoni rossi chiamato Rådhus, nei lunghi corridoi, nelle stanze piccole come celle
dove i politici si ritrovavano a parlottare e complottare, la vita
era diversa.
Dietro i sorrisi immobili e artificiali era in atto una guerra.
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Legno lucido. Finestre alte e strette con vetri colorati. Divani
e poltrone di pelle. Stucchi dorati, mosaici, dipinti. Odore di
mogano lucidato.
I manifesti di Hartmann erano sparsi ovunque, appoggiati alle
pareti, pronti a essere affissi per la città. Sulla scrivania, in una
cornice di legno, un ritratto della moglie nel letto d’ospedale,
tranquilla, bella e coraggiosa, un mese prima di morire. Accanto
a quella, una foto di John F. Kennedy con Jackie alla Casa Bianca.
Sullo sfondo un complesso suonava e li osservava con ammirazione. Lei, con un bellissimo abito da sera di seta, sorrideva.
Kennedy sussurrava qualcosa all’orecchio della moglie.
La Casa Bianca, prima di Dallas.
Nel suo ufficio privato Troels Hartmann lanciò un’occhiata
alle foto, poi all’agenda.
Lunedì mattina. Lo aspettavano tre delle settimane più lunghe
della sua vita politica. La prima di una serie infinita di riunioni.
I suoi due più stretti collaboratori sedevano all’altro lato
della scrivania, i computer portatili aperti, intenti a esaminare
il programma della giornata. Morten Weber, coordinatore della
campagna elettorale, amico di Troels fin dai tempi dell’università. Impegnato, silenzioso, solitario, sensibile. Quarantaquattro
anni, capelli ricci e ribelli nonostante la calvizie incipiente, occhi
sempre in movimento dietro gli occhiali con la montatura di
metallo dorato. Ignaro e incurante del proprio aspetto. Da una
settimana indossava sempre la stessa giacca stazzonata che mal
si intonava ai pantaloni. Al massimo della felicità quando poteva fare le pulci ai documenti del comitato e stringere accordi
in stanze piene di fumo.
Ogni tanto si allontanava dal tavolo con la poltroncina girevole, si metteva in un angolino tranquillo, prendeva siringa e insulina, tirava fuori la camicia dai pantaloni e si faceva
un’iniezione nell’addome flaccido e bianco. Poi se ne tornava alla
discussione, infilandosi la camicia nei pantaloni senza perdere
una sola battuta.
Rie Skovgaard, il consigliere politico, fingeva di non vedere.
La mente di Hartmann si allontanò dall’elenco degli impegni.
Per un istante si ritrovò distaccato dal mondo della politica.
Trentadue anni, volto spigoloso e vivace, più attraente che bella.
Combattiva, pungente, sempre elegante. Quel giorno indossava
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un tailleur verde, attillato. Costoso. I capelli sembravano presi
dalla foto che Hartmann teneva sulla scrivania – Jackie intorno
al 1963 – lunghi e girati verso il collo esile, apparentemente
naturali anche se non c’era mai una ciocca fuori posto.
Il taglio da funerale presidenziale, lo chiamava Weber, ma a
sua insaputa. Rie Skovgaard non era così quando era arrivata.
Morten Weber era figlio di un insegnante di Aarhus. Skovgaard veniva da una famiglia più altolocata. Suo padre era un
deputato influente. Prima di passare con i liberali faceva l’account nell’ufficio di Copenaghen di un’agenzia pubblicitaria
newyorkese. Adesso promuoveva Hartmann, la sua immagine,
le sue idee, più o meno come prima si occupava di assicurazioni
sulla vita o di catene di supermercati.
Una squadra improbabile, talvolta problematica. Rie era invidiosa di Weber? Del fatto che lui avesse vent’anni di servizio
più di lei, avesse fatto carriera fino ad arrivare nella segreteria
del Partito liberale, che fosse l’uomo dietro le quinte, mentre il
sorriso seducente e i modi accattivanti di Hartmann catturavano
consenso e voti?
Rie Skovgaard era una nuova arrivata che aveva fiutato l’occasione ma era poco interessata all’ideologia.
«Il dibattito all’ora di pranzo. Abbiamo bisogno di manifesti
alla scuola» disse con tono calmo e professionale. «Ci servono...»
«Già fatto» rispose Weber puntando il dito verso il computer.
Era una giornata uggiosa. L’ufficio si trovava di fronte al Palace Hotel. Di notte l’insegna blu al neon proiettava una strana
luce nella stanza.
«Ho mandato una macchina come prima cosa.»
Lei incrociò le braccia snelle.
«Tu pensi proprio a tutto, Morten.»
«Per forza.»
«Cosa vorresti dire?»
«Bremer.» Weber pronunciò il nome come se fosse un epiteto.
«Non è un caso se è diventato padrone di questa città.»
Hartmann si concentrò di nuovo sulla conversazione.
«Non lo sarà più per molto.»
«Hai visto le ultime proiezioni?» chiese Skovgaard.
«Mi sembrano buone» rispose Hartmann con un cenno del
capo. «Migliori di quanto sperassimo.»
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Morten Weber scosse la testa.
«Le ha viste anche Bremer. Non se ne starà lì tranquillo a
farsi scivolare il regno tra le dita. Il dibattito all’ora di pranzo,
Troels, è in una scuola. Giochiamo in casa. Ci saranno i media.»
«Parla di istruzione» si intromise Skovgaard. «Abbiamo
chiesto fondi extra per installare altri computer. Per migliorare
l’accesso alla rete. Bremer ha bloccato lo stanziamento. L’assenteismo è salito del venti per cento. Possiamo rinfacciarglielo...»
«Lo ha bloccato lui personalmente?» chiese Hartmann. «Lo
sai per certo?»
Un sorrisetto compiaciuto.
«Sono riuscita a mettere le mani su alcuni promemoria confidenziali.»
Come una scolaretta monella, Skovgaard accennò con le mani
delicate ai documenti che aveva davanti.
«È scritto qui, nero su bianco. Posso far trapelare l’informazione, se devo. Ho trovato un sacco di cose che possiamo usare
contro di lui.»
«Potremmo evitare queste stronzate, per favore?» chiese
Weber stizzito. «La gente si aspetta qualcosa di meglio da noi.»
«La gente si aspetta che perdiamo, Morten» ribatté pronta
Skovgaard. «Io sto cercando di cambiare la situazione.»
«Rie...»
«Ci arriveremo» li interruppe Hartmann. «E lo faremo come
si deve. Ho visto Kirsten Eller a colazione. Credo che vogliano
fare un accordo.»
I due si zittirono, poi Skovgaard chiese: «Sono interessati a
un’alleanza?».
«Con Kirsten Eller?» borbottò Weber. «Cristo. È come fare un
patto col diavolo.»
Troels Hartmann si appoggiò allo schienale della poltrona,
chiuse gli occhi e si sentì più felice di quanto non gli accadesse
da giorni.
«I tempi sono cambiati, Morten. Poul Bremer sta cominciando
a perdere consensi. Se Kirsten ci garantisce il suo non trascurabile appoggio...»
«Abbiamo una coalizione che detiene la maggioranza» concluse Skovgaard in tono vivace.
«Dobbiamo pensarci bene» disse Weber.
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Gli squillò il cellulare. Andò alla finestra per rispondere.
Troels Hartmann scorse i documenti che lei gli aveva preparato, un briefing per il dibattito.
Skovgaard spostò la sedia accanto alla sua in modo da poterlo
leggere insieme.
«Non hai bisogno del mio aiuto, giusto? Queste sono idee tue.
Noi te le stiamo solo ricordando.»
«Ne ho bisogno, eccome. Ho perso l’orologio! Un bell’orologio. Un...»
Skovgaard gli diede un colpetto con il gomito. Il Rolex era
nella sua mano, prudentemente tenuto sotto la scrivania in
modo che nessun altro potesse vederlo.
Lei aprì le dita e glielo mise nel palmo.
«L’ho trovato sotto il mio letto. Non riesco proprio a capire
come ci sia finito. E tu?»
Hartmann si fece scivolare il Rolex al polso.
Weber tornò alla scrivania con il telefono in mano e l’espressione preoccupata.
«È la segretaria del sindaco. Bremer vuole vederti.»
«A che proposito?»
«Non lo so. Vuole vederti subito.»
«Tra quindici minuti» disse Hartmann, guardando l’ora. «Non
sono ai suoi ordini.»
Weber pareva perplesso.
«Mi avevi detto di aver perso l’orologio.»
«Quindici minuti» ripeté Hartmann.
I corridoi si diramavano in ogni direzione, lunghi e scintillanti,
i soffitti affrescati con scene di battaglie e cerimonie, grandiose
sagome in armatura che guardavano in giù, verso le figure piccole come insetti.
«Non hai un’aria felice» osservò Hartmann mentre andavano
verso gli uffici del sindaco.
«Felice? Sono il coordinatore della tua campagna elettorale.
Siamo a tre settimane dalle elezioni e tu stringi alleanze senza
neppure dirmelo. Che cosa vuoi? Che mi metta a ballare per la
contentezza?»
«Credi che Bremer lo sappia? Di Kirsten Eller?»
«Poul Bremer sa anche quello che dici nel sonno. E poi, se
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tu fossi Kirsten Eller e volessi fare un accordo, lo proporresti a
una parte sola?»
Hartmann si fermò davanti alla porta della sala del consiglio.
«Lascia fare a me, Morten. Lo scoprirò.»
Poul Bremer era in piedi sul podio, accanto alla poltrona
antica e maestosa che aveva occupato negli ultimi dodici anni.
Parlava al cellulare in tono gioviale.
Hartmann si avvicinò e prese il libro posato sul tavolo vicino
al microfono. Una biografia di Cicerone. E ascoltò, come era in­
teso che facesse.
«Sì, sì. Fammi parlare.» Quella risata profonda e generosa,
la benedizione di Bremer ai suoi favoriti. «Andrai al governo.
Ministro. Me lo sento, e io non sbaglio mai.» Un’occhiata al
visitatore. «Scusa... devo andare.»
Bremer si sedette sulla poltrona del vice. Non quella del
sindaco.
«Hai letto quel libro, Troels?»
«No. Spiacente.»
«Prendilo. Un dono istruttivo. Ci rammenta che l’unica cosa
che impariamo dalla storia è... che non impariamo nulla.» Aveva il tono e i modi di un insegnante amabile, affinati nel corso
degli anni. «Cicerone era un uomo eccellente. Sarebbe andato
lontano, se avesse atteso il momento opportuno.»
«Sembra un mattone.»
«Vieni, siediti qui.» Bremer indicò la poltrona accanto alla
sua. Quella del sindaco. Il trono. «Provala. Non appartiene a
nessuno. Neppure a me, checché tu ne pensi.»
Hartmann stette al gioco. Si lasciò cadere sul legno duro e
lucido. Sentì l’odore di mogano, l’odore del potere. Osservò la
sala con le sedie vuote dei consiglieri sistemate a semicerchio,
con davanti gli schermi piatti e i pulsanti per votare.
«È solo una poltrona, Troels» disse Bremer, sorridendo.
Aveva l’abitudine di parlare e muoversi come un uomo più
giovane. Faceva parte dell’immagine.
«Roma amava Cicerone, apprezzava le sue idee. Le idee producono bei discorsi. Non molto di più. Cesare era un dittatore,
ma era una canaglia che i Romani conoscevano e amavano.
Cicerone era impaziente. Invadente. Un parvenu. Sai cosa gli
è successo?»
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