LA FINE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE

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LA FINE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE
LA FINE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE
Il 6 settembre 1860 l’ultimo Re del Regno delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, lasciò Napoli e si ritirò nella fortezza di
Gaeta1 non per seguire i falsi consigli del ministro Liborio Romano, che voleva allontanare il re da Napoli per favorire la venuta di
Garibaldi, ma per risparmiare la città dai bombardamenti e dalle
violenze della guerra. Lasciò nel Palazzo reale la ricca collezione di
stoviglie2 d’oro e d’argento sotto la sorveglianza di alcuni ufficiali,
che, venendo meno all’adempimento del proprio dovere, la consegnarono a Garibaldi. Il buon Re Francesco non ritirò dalle banche
neppure i suoi depositi personali, circa undici milioni di ducati, e
ordinò che nessuno dei quadri e dei mobili appartenenti alla Corona fosse tolto dal loro posto.
Narra il cappellano3 Giuseppe Buttà: «L’inverno aveva portato a Gaeta acqua, neve, grandine e
fame. I viveri erano pochi, lo stato di Gaeta a dicembre era spaventevole, non si vedevano che
rovine, muli e cavalli morti, uomini moribondi e cadaveri orrendamente mutilati, ossia senza
braccia o senza gambe. Gli animali stessi facevano pietà, erano ridotti a scheletri, prossimi a
morire di fame. Quelle bestie, non trovando da mangiare, rosicchiavano le cortecce degli alberi, le porte, i rastrelli e si mangiavano l’un l’altro le code e le criniere». Anche Napoleone III
con belle parole e fraterni consigli aveva tradito e abbandonato Francesco II nelle mani del
nemico.
Il 19 gennaio 1861 la flotta francese, che fino a quel momento aveva garantito la libera circolazione delle merci nel porto di Gaeta e aveva permesso a Francesco II di ricevere rifornimenti d’armi e di viveri, abbandonò il porto per ordine dell’imperatore dei francesi e lasciò al
suo triste destino il Re di Napoli, che fu bombardato dai Piemontesi anche dal mare.
Mentre il generale piemontese Cialdini, fumando un sigaro comodamente seduto a Castellone4
aspettava la resa5 dei Napoletani, i suoi quaranta cannoni rigati, ben lontani e protetti, sparavano ripetutamente sulla fortezza di Gaeta da una distanza di 3 - 4 - 5 chilometri. Durante tutto il bombardamento della cittadella di Gaeta, gli assalitori spararono 56.727
colpi di cannone. Su consiglio dello stesso Imperatore dei Francesi, Cialdini tenne sotto costante fuoco la fortezza; centocinquantatré cannoni su centosessantasei spararono simultaneamente di giorno e di notte alla luce delle lampade.
L'otto gennaio 1861, in solo dieci ore, il generale Cialdini lanciò 8.940 proiettili sulla Fortezza,
quasi tutti da scoppio. I borbonici ne spararono 3.000, le perdite subite furono circa trenta tra
morti e feriti. Il ventidue dello stesso mese, in dodici ore, ne lanciò circa 18.00, mentre dal mare l'Ammiraglio Persano ne lanciò altri 4.000 dal mare. Di notte il fuoco degli assalitori fu più
sostenuto e distruggente e le perdite subite furono 125 uomini tra morti e feriti.
Non fu un assedio ma un bombardamento barbarico. Ammirevole fu la condotta degli artiglieri
che non si lasciarono intimidire dal fuoco nemico e che esaltati dalle grida, spesse ripetute, di
“Viva il Re”, trascuravano perfino di ripararsi dietro i parapetti. Questo giorno fu certo uno dei
più gloriosi della guarnigione borbonica che volle dare, a chi già la credeva scoraggiata e intimorita, una risposta di coraggio e di devozione al Re.
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E’ una città in provincia di Latina, nel Lazio meridionale a circa 80 Km da Napoli. Apparteneva al Regno delle Due Sicilie.
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L’insieme dei pezzi di vasellame che si usano a tavola o in cucina.
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Sacerdote militare addetto ai servizi religiosi nell’esercito.
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Antico Comune, oggi è un rione di Formia alle porte di Gaeta, situato in collina a 350 m. sul livello del mare.
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Attendeva che i borbonici si arrendessero.
Vincenzo Giannone, Umanesimo del Regno delle Due Sicilie, parte II, p. 73 e ss.
Il re Francesco e la regina Sofia erano spesso con i soldati sugli spalti6 della fortezza, decis
i a resistere fino alla fine senza arrendersi, ma il tradimento serpeggiava anche all’interno della
fortezza. «Pochi ma fin troppi si affannavano a far giungere al nemico attraverso oscuri canali notizie
su ogni movimento della truppa, sullo stato delle batterie, sulla posizione delle polveriere, dei cunicoli e
delle cortine».7
Il 5 febbraio, verso le 4 del pomeriggio, un proiettile di un cannone rigato8 forò un muro
di pietra e sfondò la porta di un magazzino, dove si trovavano più di 7ooo kg di polveri da sparo, 40.000 proiettili da fucile e altri proiettili per la batteria9 Sant’Antonio, e mezza montagna
saltò in aria. Molti soldati furono scaraventati10 in mare e moltissimi morirono nell’esplosione.
Morirono circa 250 persone tra soldati, ufficiali e famiglie. Narra il cappellano Buttà, che fu
presente allo scoppio: «Da quel mucchio di rovine, anzi sepolcri, uscivano pianti, lamenti, grida angosciose e disperate. Sotto quelle casematte rovinate si trovavano più di quattrocento soldati sepolti, la
maggior parte ancora vivi, e sotto le case cadute più di cento innocenti e innocui cittadini, donne e fanciulli. Io vidi una giovane madre, la quale era uscita di casa prima che fosse scoppiata la polveriera;11 aveva lasciati due fanciulletti, e al ritorno non trovò più la casa e neppure sapeva più riconoscere il luogo
dove si trovasse. Essa ruggiva come un’orsa ferita; frugava in quelle macerie, spiegando una forza erculea, una volontà inalterabile per trovare i suoi figli: quella vista ci commosse e la aiutammo nelle sue ricerche. Si trovarono i due fanciulli in un angolo d’una cameretta; e sebbene il tetto fosse rovesciato, aveva però lasciato libero il luogo ove si erano rifugiati quei due angioletti. La madre quando vide i figli salvi si lanciò su di essi con ansia estrema; li toccava, li frugava, rideva e piangeva, imprecava e benediceva!».
Il generale Cialdini alla vista dell’esplosione, per meglio sfruttare
l’occasione, diresse il fuoco su quel punto mentre i soccorritori cercavano tra le macerie i feriti e continuò a bombardare per ore il luogo del disastro anche durante tutta la notte.
Fu il colpo finale, che indusse il re Francesco a chiedere la resa per non
sacrificare inutilmente i fedeli soldati disposti a morire per lui. L'11 febbraio 1861, dopo 102 giorni di bombardamenti, l’ultimo Re del Regno
delle Due Sicilie si arrese all’esercito invasore dei Piemontesi, che numeroso e bene armato lo aveva bombardato nella fortezza di Gaeta per
circa quattro mesi.
Nonostante il re Francesco avesse già dichiarato la volontà di cessare ogni resistenza,
Cialdini rifiutò di sospendere i bombardamenti e durante i colloqui per concordare le condizioni della resa coprì la fortezza con altre bombe e granate per tre giorni consecutivi, poiché
non desiderava per niente sospendere le ostilità «Visto che il cannone non guasta mai gli affari»,
come dichiarò al generale borbonico, che gli chiese di sospendere il bombardamento. Cavour,
al quale Cialdini aveva telegrafato: «I signori sono astuti, ma io non amo perdere tempo», approvò il
suo comportamento ed elogiò la sua opera. Mentre tutte le condizioni erano state concordate e
scritte nella casina settecentesca del Principe di Caposele,12 e mancavano sole le firme, Cial
dini, un barbaro civilizzato, la mattina del 13 febbraio 1861 riprese a bombardare la cittadella.
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Terrazza difensiva fortificata, dove erano posizionati i soldati con i cannoni.
Tratto di cinta muraria compreso tra due torri o bastioni successivi.
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Un cannone che permetteva di colpire il bersaglio da una distanza superiore a quella dei cannoni con la canna liscia
all’interno.
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Quattro cannoni allineati.
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Lanciati.
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Un locale o un edificio che ospita le polveri da sparo.
12
Tullio Marco Cicerone, famoso avvocato e oratore romano, nato nel 106 a.C. ad Arpino, nei pressi dell'attuale Frosinone, fu ucciso nel 43 d. C. a Formia (dopo la morte di Giulio Cesare - 44 d. C.), sulla spiaggia della sua villa localizzata
nel giardino della casina settecentesca del Principe di Caposele, che fu acquistata da Ferdinando II e lasciata in eredità
al figlio Francesco II. Durante l’assedio di Gaeta divenne il quartiere generale di Cialdini. Dopo l’Unità, la villa fu venduta da V. Emanuele alla famiglia Rubino.
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Vincenzo Giannone, Umanesimo del Regno delle Due Sicilie, parte II, p. 73 e ss.
Alle ore 15,00 del pomeriggio, quando la resa era stata già firmata, un proiettile colpì il deposito delle polveri da sparo della batteria Transilvania e mandò in aria muraglie, tutti i cannoni
che componevano la batteria e quanti si trovavano sul posto. Morirono circa quaranta uomini.
Appena la polveriera scoppiò, i nuovi barbari civilizzatori del Sud diressero tutti i tiri dei loro
cannoni sul luogo delle rovine per impedire qualunque soccorso agli infermi sepolti sotto le rovine e un grido di gioia si elevò dai vicini colli di Gaeta: erano gli ultimi conquistatori del Regno delle Due Sicilie, che gioivano di quello sterminio e pretendevano di liberare i meridionali
dalla tirannia del Re di Napoli per assoggettarli a quella dei Savoia.
Il 14 febbraio 1861 i sopravvissuti al bombardamento, gli ultimi difensori della libertà
del Regno delle Due Sicilie e del popolo meridionale, che uscirono dalla fortezza furono 920 ufficiali e impiegati, 10.600 soldati e un piccolo numero di cavalli e muli sopravvissuti alla fame e
alle rovine. Il Re e la Regina furono ospitati su una nave francese, che li condusse a Roma.
I traditori furono ricompensati con cariche e onori, i soldati napoletani, che si rifiutarono
di servire Vittorio Emanuele II e non vollero indossare la nuova divisa, furono rinchiusi nelle
prigioni del Nord, in particolare nella fortezza di Fenestrelle a 1.145 metri d’altezza, al confine
con la Francia. I prigionieri di guerra, circa 57.962, furono prima rinchiusi nei campi di concentramento di Genova, Alessandria, San Maurizio, Milano, Bergamo, e dopo essere stati “rieducati”, furono obbligati ad arruolarsi, senza possibilità di scelta, nell’esercito italiano.
Una parte del popolo meridionale, la più sprezzante del pericolo e dei rischi, non si arrese all’invasore e si nascose sui monti. Ex soldati, giovani contadini, delusi garibaldini e affezionati borbonici si raggrupparono in bande partigiane13 per combattere l’esercito piemontese. La
guerra partigiana durò più di dieci anni e creò molti problemi ai Piemontesi, che per nascondere agli occhi delle Nazioni d’Europa la resistenza del popolo delle Due Sicilie all’invasione, li
chiamavano briganti.14 Dopo due anni di resistenza, nel 1862 gli invasori non contenti di combattere con la forza delle armi, gli incendi e le fucilazioni, la reazione del popolo napoletano
all’occupazione del nemico per riacquistare la sua autonomia e la monarchia legittima, non
contenti di aver messo in prigione migliaia di cittadini e contadini, stabilirono di sottomettere
“i meridionali” col terrore, bruciando case e paesi interi, fucilando chiunque si opponesse alla
loro volontà.
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Gruppi di uomini che combattevano contro il nemico per difendere la propria terra, il proprio Paese.
Il nome brigante attribuito un tempo ai delinquenti comuni, fu dato ai partigiani del Regno delle Due Sicilie per nascondere all’Europa la vera natura della resistenza patriottica meridionale.
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Vincenzo Giannone, Umanesimo del Regno delle Due Sicilie, parte II, p. 73 e ss.