Palinsesto 2009

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Palinsesto 2009
Enrico Capodaglio
Palinsesto
2009
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La cacca
Leopardi osserva con molta discrezione nello Zibaldone che l’odore
della nostra cacca a noi fa piacere mentre gli altri li disgusta.
Per questo parlarne è sconveniente: non solo perché ci associano
per sempre a qualcosa di disgustoso ma perché sono i piaceri degli
altri che ci disgustano.
Si dice che per andare di corpo c’è bisogno di intimità, come per
qualunque altro piacere.
I rumori delle scoregge ci rendono ridicoli, gli odori della nostra
cacca ci sviliscono profondamente agli occhi altrui. Un ragazzo mi
disse sdegnato e sprezzante che era passato un uomo scoreggiando e
si capiva che per lui aveva toccato il fondo dell’abiezione.
Dicono che quando sei innamorato di una donna che non ti vuole e
vuoi liberarti dalla fissazione basta pensarla mentre fa la cacca.
L’esperienza dimostra che non sempre funziona. Se una persona ti è
cara, ti immagini anche la sua cacca profumata e il suo culo pulito.
Ogni senso ha la sua secrezione: gli occhi la cispa, le orecchie il
cerume, il naso il moccolo, la bocca la saliva, la bava e il catarro.
L’uomo solo se ne libera con le dita, ci si trastulla piacevolmente ma
deve stare bene attento a non farlo sotto gli occhi degli altri. I
bambini invece si ficcano le dita nel naso e poi lo inghiottono,
leccano il cerume, giocano a schizzarsi il moccolo, parlano di
continuo, fino alla maggiore età, delle scoregge, ruttano in
continuazione e ridono, mettono tutto in bocca per saggiarlo, per
farlo tornare nel corpo dal quale è uscito. Ma già alla loro età ogni
secrezione degli altri ripugna per quanto più piacere dà a se stessi.
Allora ne ridono svergognandoli.
Le donne in genere parlano con molta disinvoltura della cacca e
sono capaci, anche nell’intimità amorosa, di illustrarti con
disinvoltura e umorismo le vicende delle loro sedute mentre noi
uomini cominciamo a innervosirci per le associazioni impoetiche e
deprimenti che ne provengono, prova del genere diverso della
nostra immaginazione e del nostro diverso modo di amare.
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8 gennaio
Lingua nuova, vita nuova
Quando vai in un nuovo Paese non lo abiti veramente se non ne
conosci la lingua. E non basta neanche parlarla, devi proprio pensare
in quella lingua, perché quello che vedi solo in apparenza è quello
che vedono gli altri, finché non lo percepisci anche sensorialmente,
fin negli odori e nei sapori, dentro quella lingua. Per questo
cambiare paese ti ringiovanisce e rigenera. Tu metti in atto un
azzeramento dei modi usurati della tua percezione e del tuo
pensiero, che finiscono per avvitarsi e ripetersi, e ricominci da zero,
rinasci. Tutto il mondo si rinfresca e si ossigena e tu ti senti come un
bambino disposto a stupirsi di nuovo di tutto, con in più la tua
sicurezza linguistica di origine. La neve infatti diventa la neige ma
resta pur sempre la neve, il marciapiedi diventa le trottoir ma resta
italiano quando serve.
Acquisti così un secondo corpo e una seconda vita, come conferma
la curiosità che si riaccende, il buonumore che ritrovi ad ogni
risveglio, la sensibilità corporale al cambiamento di umidità e di luce.
Non conoscendo poi tutte le parole della lingua che tutti parlano, tu
resti di fronte alle cose e alle situazioni che non sai nominare ancora
nel piacevole stato di un bambino che si diverte a restare sospeso tra
la cosa e il nome, a giocare con la lingua, a dialogare con umiltà e
gioia con le persone che, magari facendo i camerieri o i commessi,
ne sanno nondimeno più di te, almeno per i termini quotidiani, che
sono infiniti, e prendi a rispettarli di più, a temerli, a vederli come un
piccolo vede i grandi.
Quando, leggendo un libro in altra lingua, rispondi a chi te lo chiede
che lo stai leggendo in italiano, contro l’evidenza dei fatti. E poi ti
accorgi, stupito, che non è così, sei compiaciuto di aver letto il
francese o il tedesco con la naturalezza del lettore della propria
lingua. E ti viene la netta sensazione che esista una superlingua
universale, che non è in forma di parole, come un’intelaiatura
fittissima di pensieri-parola, indicibili e non scrivibili, che noi
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riempiamo con le parole dette e scritte nelle lingue che parliamo
abitualmente. Senza questa lingua universale, non in forma di parola,
dalla quale traduciamo nelle lingue singole, questo fenomeno non
sarebbe possibile.
Ci sono due modi di pensare: pensare in forma di parole e pensare
prima delle parole. La forma più vitale e forte è la seconda, mentre la
prima è già una conversione a fini sociali. Io riporto su queste pagine
solo i pensieri che non sono nati in forma di parole. E allora scriverli
in francese o in tedesco non li cambierebbe. Se invece io li avessi
pensati fin da subito in forma di parole, la lingua e lo stile nei quali
sono nati sarebbe indispensabile.
Da ciò si ricava che un poeta pensi già in forma di parole? Che
quindi un poeta, contrariamente alla vulgata, è molto più razionale e
cosciente di un prosatore? Sì.
Leopardi scrive che, ormai disingannato, avrebbe potuto
innamorarsi soltanto di una straniera. Infatti una straniera
metterebbe in moto l’immaginazione e le illusioni in modo molto
più vivace, ricordando a ogni parola pronunciata che non sarà mai
del tutto nostra, pur sollecitando ad ogni passo il desiderio che lo
sia.
Innamorarsi di una donna è sempre innamorarsi di una storia, fin
dalla prima infanzia di una persona. Gli innamorati sono
interessatissimi alle prime parole pronunciate dalla donna amata, alla
scuola elementare che frequentava, ai genitori e persino ai nonni.
Con una straniera ci si innamora anche di una cultura, di una
nazione che lei ingloba in un uovo armonico. Anche se la donna
non ne sa nulla si proietta su di lei, si incorpora in lei tutto ciò che di
quella nazione sappiamo, e la ragazza più semplice porta in seno la
storia di Francia.
Ogni donna ha le sue forme di governo, le sue trasgressioni, i suoi
diseredati, i suoi potenti, i suoi giacimenti diamantiferi, i suoi
sobborghi sciatti e disperati, i suoi odori inconfondibili, le sue pene
di morte, le sue grazie presidenziali.
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8 gennaio
Shoah
The show must go on? La Shoah trasformata in show, in rituale di massa
in nome della memoria. Non solo milioni di studenti europei, cosa
buona, li visitano ma le stesse agenzie turistiche, cosa meno buona,
organizzano viaggi nei Lager tra una festa della birra e una
pinacoteca. I turisti si vantano di averne visitati parecchi e li
confrontano stabilendo la graduatoria del terrore.
La memoria è diventata un valore morale assoluto, riferita in senso
eminente proprio alla Shoah. Il diritto ti spinge a dimenticare, il
dovere a ricordare.
Gli assessori di tutta Italia, nel giorno della Memoria, convocano nei
Palazzetti dello sport milioni di studenti ad ascoltare i sopravvissuti.
Forse sono proprio loro i soli che possono capire dal di dentro e
con limpidezza. Ne escono assorti, purificati, senza parlare. Non
sono spaventati né sconvolti. Nelle loro fibre scende la cenere e la
verità gigantesca della morte assurda, imposta da non uomini,
scivola nel sangue di ragazzi allegri e incantati, rallentando il battito
con lentezza solenne e pura, per cinque, dieci minuti.
Liliana Segre, sopravvissuta al Lager, descrive la sua infanzia e la sua
adolescenza. Si realizza nel suo racconto quella che Marcel Proust
definisce nella Recherche “il misto della sopravvivenza e del nulla”, la
deflagrazione del ricordo, soltanto che la perforazione del ricordo
non avviene nella felicità, non si apre nell’estasi del transtemporale
ma nell’orrore di un passato che non è mai passato, di un presente
che non muore mai. Questo fa impazzire.
È una forma allucinatoria di evidenza: si racconta nuda davanti ai
nazisti che ne esaminano il corpo, la rasano, le tagliano tutti i peli, la
tatuano. Assiste ora al cumulo dei documenti bruciati, alla morsa del
numero sul braccio che sostituisce il nome. Guarda la neve grigia
per le ceneri della ciminiera. Dorme vestita col capo sugli zoccoli. Si
trova in uno spazio vasto e sadicamente tranquillo, in mezzo a
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sconosciuti spietati. Va in fabbrica a fare bossoli di mitragliatrice con
trinciatrici di ferro e si dice: “È sera, un altro giorno è passato e
sono viva.” Soffre la fame e il freddo. Una mela, un biscotto, una
sciarpa diventano sogni impossibili.
Scrivo: “Soffre la fame e il freddo.” Ma che cosa significano per me
queste due parole, se non le ho mai provate? Non sono due malattie,
sono due forme di anti vita, due modi di non essere che ignoro.
Dovrei scrivere: “Diventa fame e freddo.” Pur continuando a non
poter capire che cosa voglia dire.
Quando Mengele ha ispezionato, nel Lager di Auschwitz, la sua
cicatrice malfatta dai medici che l’hanno operata di appendicite,
dicendo: “Se la porterà dietro per tutta la vita ogni volta che si
spoglierà”, lei ha sentito il cuore battere. Un segno di salvezza nella
selezione periodica che condannava alla camera a gas tante ragazze
per un difetto minimo. Come Justine, che si è tranciata due falangi,
nella fabbrica di proiettili per mitragliatrice il giorno prima, e proprio
per questo viene uccisa. Liliana, salva, non si volta più indietro, “in
uno scoppio di felicità”.
La volontà di vivere, quanto conta per sopravvivere? Certo, non è
bastata per la maggioranza, ma neanche per te che sei sopravvissuta.
Allora non pensavi che al passo seguente. Senza orologi, senza
tempo, senza stagioni, in uno spazio chiuso all’aperto. E quando
soffri freddo, fame, paura, quando sei uno scheletro di ragazza
gonfio e nudo sotto gli occhi dei mostri, cosa fai? Ti guardi i piedi,
risponde Liliana, e fai un altro passo, fino a sera. Diventi egoista e
pensi a salvarti, non puoi essere generoso.
L’amore è inaugurale. O nasce sempre per gratitudine di un bene
che Dio o gli altri uomini ci hanno dato. Io sperimento l’amore
dentro un sentimento di riconoscenza che mi spinge, una gioia che
si espande verso gli altri come la luce, non come un merito
personale. In questo senso è vero che Dio inaugura l’amore e tu lo
trasmetti. E, comunque sia, rispondi, se vuoi, con amore a un bene
che ti scalda. Nel Lager quindi l’amore era impossibile se non ai
santi. Liliana Segre racconta di quegli ebrei che dondolandosi
pregavano nel vagone e lodavano Dio. Gli altri vedevano il loro
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organo dell’amore rimpiccolirsi, umiliarsi, rinchiudersi come un fiore
all’approssimarsi della notte, i gambi piegarsi, i petali chiudersi.
Difesa elementare dei fiori umani quando viene la notte, smettere di
amare.
Tre ragazzi parlano tra loro, i soli su duemila, e lei si ferma, li fissa:
“Quando avrete smesso di parlare, ricomincerò”. Li umilia
profondamente, ma è la sacerdotessa di un rito sacro. Eppure è stata
una debolezza. Avrebbe dovuto ignorarli, non perché l’ascolto, tanto
più se della tragedia della Shoah, non possa essere obbligatorio. Ma
perché parlare è un buon inizio del silenzio.
Alla fine un applauso, che è il modo universale di agire della massa e
assume significati sempre diversi a seconda del contesto. Meglio
sarebbe stato alzarsi e rimanere zitti ma qualcuno avrebbe dovuto
ordinarlo, e non avrebbe avuto senso. In questo caso vuol dire
rispetto, affetto, ammirazione. Ma sempre anche sollievo,
liberazione, atto di chiusura di un flusso di emozioni dalle quali
vogliamo staccarci per sempre. Rito anch’esso attraverso cui la folla
si scioglie e respinge nel passato ciò che l’ha fatta fremere e
commuovere.
L’uomo solo sopporta giorni di silenzio, per la massa un solo
minuto è un’esperienza estenuante.
10 gennaio
Ripensando
Il nazismo è terribile per gli uomini ebrei che ha ucciso e per quelli
che ha lasciato sopravvivere, i quali sperimentano l’esperienza più
cruda del passato che non passa, di un tempo inchiodato e
conficcato nel flusso, per cui tutto ciò che è accaduto dopo non ha
potuto in nessun modo scioglierlo e fluidificarlo.
Per capire il nazismo bisogna osservare gli occhi innamorati di una
contadina bionda e paffuta che porge il neonato a Hitler, in un film
di propaganda della Riefenstahl, Il trionfo della volontà. Lo adora, è
esaltata, gli occhi scintillano e tutto il busto è intriso di una passione
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erotica e casta. Hitler prende in braccio il pargoletto con un sorriso
umoristico e affettuoso. Il popolo tedesco ha amato sessualmente il
suo tiranno. Una collettiva carica ormonale ha investito il dittatore,
come un’immensa orgia di felicità popolare che si è scatenata nello
stupro di altri popoli, suscitando una angoscia distruttiva che, finito
l’amore del popolo per se stesso, non ha desiderato altro che morte
e annullamento.
Per capire l’immenso potere impersonale della dittatura televisiva
oggi, Argo dai miliardi di occhi, il potere dell’automa infinito che ci
governa tutti, compresi i potenti della terra, i quali non aspirano ad
altro che alla verità televisiva, bisogna guardare attentamente gli
occhi delle telespettatrici. Esse non vogliono la violenza e non
vogliono neanche l’innamoramento, ma cercano la gioia primitiva
della sparizione, del delegare ad altri la propria vita, di diventare
occhi contemplativi della vita fatta, goduta e sofferta da altri. Pur
credendo di vivere beatamente la propria.
Questo movimento di annullamento, di regressione, di risacca
mondiale, di bassa marea è la reazione a una società tempestosa che
le sconvolge, le sfida, le stanca, le costringe all’azione in ogni
momento della giornata. Mentre dovrebbero essere loro le
contemplate, le ammirate, in un ovulo di noia e di armonia, e noi
maschi corrotti non vogliamo capirlo. La televisione è per le donne
un letargo, una scatola del disamore, dalla quale spetta a noi
liberarle.
I cantautori sono i poeti di oggi
I cantautori sono i poeti delle masse, cioè per quasi tutti i soli poeti.
Fabrizio De André, che pure non osava chiamarsi tale, è ricordato in
tutta l’Italia commossa, a dieci anni dalla morte: concerti,
trasmissioni, rievocazioni, filmati, special, tutto un epos di memorie e
di solidali intenerimenti, rivolti da più generazioni a un uomo per
fortuna onesto, profondo, dal talento musicale forse monocorde ma
dall’ispirazione coerente e vera, fino a delineare una sintesi dei valori
più umani, sentimentali, caldi e civili di una giovinezza moderna.
Mario Luzi, che assai lo stimava, forse il poeta italiano più completo
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del secondo Novecento, è già indebolito nella memoria comune, e
quasi mai è presente nel cuore e nella mente della gioventù. E in
ogni caso mai ci saranno letture pubbliche delle sue poesie in tutta
Italia al cadere di un anniversario della sua morte.
Semmai, giornate di studio. I poeti si studiano, i cantautori si
ascoltano.
I testi delle canzoni di De André li sanno tutti a memoria mentre a
fatica troverai cento italiani che ti sappiano dire a memoria una sola
poesia di Mario Luzi, pur avendone egli scritte più di mille, e spesso
meravigliose.
I cantautori sono personaggi. Cosa fanno, qual è la loro famiglia,
dove vivono, cosa pensano, cosa mangiano, per quale squadra
tifano, quali sono i loro amori, interessa la gran parte delle persone,
soprattutto giovani. La loro vita è presa grandemente a cuore dagli
italiani, soprattutto dalle ragazze, almeno fino ai quaranta,
quarantacinque anni. Sono oggetto di un collettivo innamoramento
contemplativo. Gli occhi delle donne brillano, e persino quelli degli
uomini. Sicuramente c’è una vibrazione sessuale, e anche
omosessuale, in questo fenomeno di sublimazione artistica. Tutti
rivivono musicalmente la loro vita, assimilando i valori trasmessi
dalla vita di un altro, fantasmatica.
Il cantautore è soprattutto un vibratore delle emozioni collettive. Né
vale dirle popolari. Tutte le emozioni lo sono.
Mentre anche i nostri più bravi scrittori e poeti (di veramente grandi
oggi o non ce ne sono o non possono essere percepiti come tali)
restano anonimi nella loro vita. Non si intesse più una mitologia
intorno a loro da parte dei giovani, come avveniva ancora in Italia
fino agli anni 60. Pasolini, Pavese, Hemingway, Bassani. Quando
l’epopea della propria vita interiore veniva proiettata su uno scrittore
che ne possedeva la chiave magica e crudele, e realizzava ciò che noi
febbrilmente soffrivamo, pur continuando a soffrire egli stesso, ma
su un piano leggendario.
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E tuttavia i cantautori non riescono a entrare veramente nella vita
delle persone, se non nei momenti ludici, collettivi, emotivi, canori.
Il poeta invece, che entra per le brecce nella coscienza, che dirompe,
che fa ballare le immagini, che insinua un altro mondo, un’altra luce
del mondo, all’inizio fa paura. E nello stesso tempo, nei momenti
più seri e cruciali, più soli, vuoi sapere qualcosa della sua vita, perché
ne va della tua.
Ripugnante è il poeta che parla sempre di sé. Siccome la parola è la
sua realtà, sarebbe come se un cantautore cantasse sempre.
La poesia, tornata all’alleanza delle origini con la musica, muove gli
animi di tutti, perché incarna il poetico corale della vita, il solo per il
quale oggi si abbia una sensibilità. Così proprio il poeta è privato del
poetico, e diventa oggetto di studio, di imitazione, di concorrenza
nel successo, un agente e rappresentante di se stesso, che si
costruisce una clientela esoterica ma che non diventa mai popolare.
Il poetico nella poesia si stranisce, si stilizza, diventa cifrato e
aristocratico, e soprattutto viene ad essere privato del tutto della sua
cassa di risonanza: la vita interiore. I lettori infatti non ne hanno più
una.
Il percorso labirintico per arrivare al bene e al bello li disgusta e
spaventa. Amano i labirinti finti e brevi di Gardaland e di
Disneyland Paris, il gioco dei sentimenti che sbocca subito in una
canzone cantata tutti assieme.
Il cantautore è il poeta della vita esteriore, estroversa, condivisa,
socializzata, del sentimento pubblico. Il luogo che per unanime
consenso spetta alla vita interiore è quindi la solitudine, una raffinata
e giusta punizione a se stessa, al proprio spirito antidemocratico e al
proprio cattivo carattere non canoro, non musicale, non socievole.
Il poetico oggi si trova nella canzone, nel cinema, nella religione, nei
sentimenti provati dal vivo, soprattutto nell’amore, e nei paesaggi
contemplati per due secondi, qualche volta nel romanzo e nel
racconto. Ovunque tranne che nella poesia.
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11 gennaio
Solitudine dei poeti
I poeti sopportano stoicamente la solitudine e il silenzio in cui sono
relegati, interrotto solo dalle recensioni dei critici e degli studiosi, da
incontri col pubblico, che va dalle dieci alle cento persone al
massimo, pensando che i loro versi avranno il tempo dalla loro
parte. Passano pochi anni dalla loro morte e vengono dimenticati:
Caproni, Bertolucci, Sereni, Luzi sono oggi pressoché cancellati per
quasi tutti, se non quando sono investiti dalla giostra accademica,
dalle rievocazioni nelle città in cui sono vissuti, da cicliche
lamentazioni sui quotidiani per l’ingiusto oblio che li ha colpiti. Ma
tutti vengono dimenticati a turno e a turno si ricorda questa
dimenticanza colpevole. Eppure di nascosto, e quasi con vergogna,
ce ne nutriamo, ci confortano e spiegano quanto il mistero sia
inespugnabile, e degno di essere vissuto, come un paesaggio
fantastico che non ci rivela nulla ma nel quale è bello persino gelare.
Oggi possiamo farne a meno quasi perfettamente, nessuno ci è
indispensabile. E quando scopriamo che non li rileggiamo più, ci
accorgiamo che oggi ciascuno, grande o piccolo, ha un solo turno di
lettura, che colui che credeva di spiegarci il mondo non è che
l’ennesimo uomo che al mondo per breve tempo si è aggiunto,
prima di miscelarsi in esso e tornare una delle infinite voci nella
crosta sonora. Non è da saggi allora sentirci fin da subito cellula
infima del mondo?
E questo capita a uomini straordinari, che hanno saputo e sanno
imprimere il loro stigma al dolore e alla speranza comune e spostare
la conoscenza della nostra ignoranza un millimetro più in là. Di
tanto in tanto li incontra uno scienziato universitario dal camice
immacolato, un animo raffinato e selvatico, un altro poeta che si
volge a essi con ammirazione e pietà, una donna febbricitante e
limpida.
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Un lettore giovane sbircia i versi in libreria. Ma come si volge ai libri
sul paranormale o sui vegetariani, con una sensazione di blando
esotismo.
La differenza tra un poeta e l’altro non sta nella profondità
dell’effetto, ma nella frequenza della comparizione. Certi sono
omaggiati per una volta sola, un minuto che vale per sempre, altri
godendo più turni, ciascuno di un minuto. La democrazia mostruosa
che viviamo dà a ciascuno lo stesso biglietto della lotteria, al
massimo lo dà più di una volta.
È vero che ci sono i festival, della poesia. Ma nota che essi
moltiplicano il numero degli autori in proporzione. Se raccolgono
anche cento persone a un incontro, ciò succede perché ci sono una
cinquantina di poeti a leggere versi.
Se compari in televisione, si parla di milioni di spettatori, una
minima parte dei quali è sufficienti a decretare il successo di un
libro. Se però in tal modo ti leggeranno decine di migliaia di
persone, tendi a scomparire come autore e a trasformarti nel libro
stesso, che una piccola parte di quelli che hanno comprato finiscono
per leggere, anche per l’illusione di diventare riconoscibili come
persone colte presso quelli che hanno visto la stessa trasmissione.
Tanto più è letto il tuo libro tanto meno tu esisti.
Il canto è nella canzone. Le poesie sembrano stonate. Esse vengono
recepite nel migliore dei casi come vibrazioni sofisticate della lingua,
che vien messa in tensione, come si dice di un arto (così ha scritto
una volta Valerio Magrelli), come un elettromassaggio che rassoda i
muscoli e allena i nervi da usare per le camminate serie della vita. La
maggior parte degli italiani neanche le capisce. Per chi si azzarda, si
rivelano sequenze lessicali dolorosamente indecifrabili, che mettono
soggezione, e presto stancano. Le poesie restano in mano a club
massonici, a confraternite esoteriche, a liturgie di sette, a
collezionisti filologici, a giovani esploratori.
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Popolarità canora
La canzone non potrà mai essere comparata, e tantomeno
equiparata, a una poesia. Se noi leggiamo il testo che, cantato, ci pare
più bello, suona quasi sempre o ridicolo o patetico o banale. E così
deve essere. Se il testo di una canzone è leggibile come una poesia
non è un buon testo. Infatti la musica e le parole devono essere
indispensabili una all’altra, come due amanti, altrimenti sole e
insoddisfatte.
Nella canzone, melodica o rock o punkrock che sia, potremmo dire
che la musica è parte del testo, o tingendo e sfumando il significato
delle parole o variandolo, oppure capovolgendolo. E che il testo è
parte della musica, indicando come interpretarla, come assecondarla
ma anche come smentirla e sviarla.
Anzi potremmo dire che la musica è testo vocale e le parole sono
testo musicale, testo melodico. La melodia deve avere in sé qualcosa
di verbale allo stato latente e tra le parole vanno scelte quelle umide
di musica.
Una canzone dura tre minuti e viene scritta quasi sempre di getto,
per uno sgorgo di vena repentino, e rifinita e arrangiata in qualche
giorno. E a volte viene cantata per decenni in tutto il mondo, nelle
occasioni più impensate, tanto che l’autore con un unico sbocco
ispirato di pochi minuti fa la sua fortuna per una vita.
Scrivi una poesia quasi perfetta ed essa resta nascosta anche per
sempre, o per secoli, e comunque viene riconosciuta da pochi intimi,
tranne forse nella letteratura italiana soltanto L’infinito, e di altri
componimenti diventa famoso un verso o un distico, il più delle
volte sradicato a sproposito. E per quella sola poesia, scritta
anch’essa magari di getto, hai studiato per anni, arando il terreno
come un bue malinconico, perché nascesse.
La letteratura non è più nei romanzi
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Come la poesia non è più nei versi così la letteratura non è più nei
romanzi. L’arte del racconto è nei serial televisivi, nei quali milioni di
persone ogni giorni si immedesimano. Come il pubblico popolare
dei giornali leggeva Dickens a puntate, oggi segue Un posto al sole o
Beautiful e si immedesima nei personaggi con lo stesso spirito
autoironico e sentimentale con il quale venivano letti un tempo gli
scrittori dalle ragazze pratiche che sapevano benissimo che la vita è
un’altra.
Ai raccontatori non resta che o imitare i serial e gli sceneggiati
televisivi, come i più fanno, o aspirare a una conoscenza aristocratica
e profonda delle cose, che sarà sempre riservata a pochi, e quindi,
non rivolgendosi più alla maggioranza, dirà poco anche della realtà,
che dalla maggioranza è fatta.
Il passo successivo, l’unico che può salvare uno scrittore di oggi, è
quello di imitare gli antichi filosofi, che erano maestri di vita, che
pensavano la loro stessa vita e vivevano il loro pensiero. Uno
scrittore sempre più oggi è costretto, per sopravvivere, a vivere la
letteratura, ad essere fino all’estremo un uomo vero. E forse avrà la
sua scuola e la sua rete amicale di venti o duecento persone. Ma non
è questo che importa. Allora che cosa?
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Camaleonti
Ci sono veri maestri nel provocare e indirizzare la volontà altrui, per
esempio con atti di crudeltà immotivata rivolta agli amici più stretti,
dopo una lunga stagione di affetto, con umiliazioni miste a
complimenti, con provocazioni atte a ferire e a suscitare le tortuose
reazioni dell’orgoglio, spesso incline all’autolesionismo, con
promesse convinte misteriosamente tradite.
Il modo manifesto col quale operano non rende meno efficace la
loro azione, che essi hanno già sperimentato con successo più volte.
Queste persone si dicono piccole e insignificanti e ottengono i
riconoscimenti che vogliono, si dichiarano leali e rigorose e scartano
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ogni patto e impegno come anguille, sembrano soffrire in modo
maledetto e rovente e appena cambiano compagnia si dimenticano
di tutto e ridono beate.
Sono i camaleonti della società italiana, gli istrioni e i paraculi,
simpatici e guizzanti, animaleschi e sottili, in grado di sventagliare
tutti i sentimenti con la più gelida (ma calda all’aspetto) indifferenza
nel giro di pochi minuti. Ti possono massacrare con il sorriso e
pilotare per mesi, mostrando di essere i tuoi fedeli servitori. Ti usano
senza mai farsi usare, ti succhiano senza sprecare per te che qualche
romantica e gratuita lode.
Se ne trovano in politica, nell’industria, nella letteratura, nelle società
sportive, dovunque il gioco dei caratteri presume abilità mimetiche e
istrioniche sofisticate. Vincono sempre perché non credono nella
vittoria e sono capaci di descrivere il loro comportamento con
perfetta precisione e una sincerità tanto più completa in quanto in
nulla intacca il loro modo di comportarsi e diminuisce il loro potere.
Ci sono uomini che nascono così, come animali che nascono tigri o
caprioli. Lo sanno è combattono la loro disperazione rilanciando la
posta.
Retroscena
Neanche gli autori di best sellers diventano personaggi: la loro vita
privata lascia del tutto indifferente il pubblico, che pur legge tutti i
loro libri. Come mai la stima che il gran pubblico ne ha si esaurisce
nella lettura? Perché sente che hanno scritto i loro libri per lui e
quindi non sono più irraggiungibili e leggendari. Mentre i veri
scrittori scrivono un libro per se stessi e quindi sono sentiti come
affascinanti nella loro misteriosa vita e verità indipendente.
Nell’infinita chiacchierelleria televisiva, vero crogiuolo dei caratteri
italici, nel vaniloquio e nel parlare a vanvera in stato di costante
eccitazione e di euforia straordinariamente vivace e idiota, sia pure,
ciò che resta di intelligente è il gioco spietato delle ambizioni, degli
interessi, delle prevaricazioni, dei colpi bassi, delle strategie di
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sopravvivenza. La lotta all’ultimo sangue mascherata con lo
sgambettamento e col sorriso di plastica.
La ballerina che vedi sventagliare le sue gambe ha dovuto inghiottire
battute scandalose per anni, pur di restare a galla, il presentatore
riccioluto che dà lezioni di vita è ancora pesto dalle umiliazioni, il
lettore del telegiornale nasconde le cicatrici di una lotta aziendale
feroce e il comico trae la sua vis dallo strazio di essersi sputtanato
cento volte con persone molto più superficiali di lui.
14 gennaio
Veleno della pigrizia
Quando dormiamo troppo ci visitano incubi e sogni sgradevoli,
come se la feccia, il deposito amaro, gli scarichi e i rifiuti psichici
affiorassero galleggiando alla coscienza. Tutti i sogni hanno allora un
tema comune: l’impotenza, l’insuccesso, l’incapacità di far fronte a
un dovere, a un obbligo, perfino a un desiderio. Qualcuno potrebbe
temere che un alieno diabolico si insinui nelle spire del nostro
profondo desiderio di pace vegetale, otto ore vissute da pianta
nutrendo le radici di fantasie cinematografiche, il mondo diventato
un sogno fluttuante, e ci costringa alla veglia e ai suoi insanabili
controsensi.
Perciò la pigrizia è la madre dei vizi, la seduzione diabolica che ci
vuol far restare nell’unico paradiso terrestre ancora possibile, un
sonno senza fine. Mentre colui che malignamente sembra attentare
al nostro sonno, scagliandoci incubi che ci inducono a svegliarci, in
questo gioco di travestimenti in cui è caduto l’uomo
contemporaneo, è invece l’angelo amaro che ci salva, che condanna
il nostro nichilismo di dormiente e ci spinge a trovare combattendo,
nelle contraddizioni del giorno, l’armonia che ci spetta.
Andando avanti con gli anni si vanno sempre più stringendo i
margini del gioco tra il sonno e la veglia, tra il riposo e il lavoro, tra
l’appagamento e l’inquietudine, così che se dormi appena meno del
solito sei disfatto e se dormi appena più sei stordito, se ti riposi
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appena un’ora di più sei svuotato e se lavori appena mezz’ora in più
sei stanco morto. La natura ti costringe a vigilare il doppio per avere
la metà del meritato riposo e sonno del giusto come della agognata
lucidità, ma non ci riesci se non a prezzo di duro sacrificio.
La libertà, che ci fa uomini, e senza la quale ci degradiamo a transito
del cibo che si fa cacca, come dice Leonardo da Vinci, a volte si
dilata e si disperde nell’aria fino a vaporizzarsi in infinite astratte
particelle di umida noluntas. La libertà diventa insensibilmente il suo
contrario, se non c’e qualcuno o qualcosa che le resiste, la limita, la
comprime, rilanciandola in un gesto più umano e concreto. Così
nella vita pubblica, dove oggi possiamo dire tutto quello che
vogliamo senza che abbia alcun effetto, come nella vita interiore
dove dobbiamo essere noi stessi, nel soffice ambiente in cui
sprofondiamo, e darci una disciplina, creare le leggi alle quali
sottomettersi. Svegliarci alle sei, lavorare otto ore, governare i nostri
impulsi, fare qualcosa di bene e utile a qualcuno, rispettare la
creatura sotto la parvenza dei folli capricci in cui ognuno di noi si
avviluppa.
E da soli non possiamo farcela, siamo intermittenti, indulgiamo alle
nostre debolezze, finché si fa chiaro che gli altri devono cooperare
con noi nel sottometterci a una legge.
L’umiltà è umiliazione
Io voglio l’umiltà, non l’umiliazione, mi dici. Ed è senz’altro giusto,
perché non va bene che un altro ci mortifichi, ma dobbiamo trovare
liberamente in noi stessi le ragioni per scegliere l’umiltà. E tuttavia
l’umiltà è quasi sempre umiliazione, e la mortificazione ci arriva
sempre da altri, come spiega il più terribile e magnifico passo di san
Francesco, rifiutato alle porte del convento con i suoi confratelli,
mentre pendevano i ghiaccioli dalle tonache.
E che ai confratelli, che gli chiedevano lumi sulla perfetta letizia,
rispose che era proprio quella.
Se ci umiliamo da soli è un trionfo sottile di superbia che si annida
nelle pieghe della nostra rinuncia. Se ci umilia un altro, un qualunque
204
passante sulla terra, addirittura un uomo meschino e ingiusto, questa
è vera letizia.
O masochismo piuttosto? Certamente, se non vivi la vera fede. La
cosa tremenda è che ogni virtù più alta confina pericolosamente col
vizio più basso, e con il dolore più sgradevole.
Dio sceglie per umiliarci gli uomini più stupidi, più calcolatori, più
merdosi e le circostanze più infamanti, svergognanti, patetiche,
grottesche, affinché ci tempriamo e ci volgiamo ai sentieri più utili e
giusti. Vedi che o le cose stanno così o sarebbe un sadico, cosa
improbabilissima, anche perché troppo buffa.
“Iddio ci vuol troppo bene per lasciarci trovare la contentezza nel
soddisfacimento delle nostre passioni” (A. Manzoni, lettera a M.
Coen del 2 giugno 1832).
Lessi l’Epistolario di Manzoni a vent’anni e lo trovai bellissimo, tanto
da commuovermi a ogni passo. Lo sfoglio ora e mi lascia freddo.
Poi diciamo che non è vero che con gli anni si perde la capacità di
sentire.
Virtù della pigrizia
La pigrizia non è soltanto un vizio ma anche una virtù pratica,
perché è la tendenza a conservare la propria natura, contro gli
stimoli che ci vengono imposti dalla società e dalle ambizioni del
nostro intelletto sociale. Si dice che si debba restare legati alla natura,
ma ancora di più si deve restare legati alla propria natura, per
sopravvivere comodamente, stando bene attenti ad ascoltare la sua
voce, proprio come il corridore ausculta il suo corpo per sfruttarne
al meglio la grazia e la potenza. Tutto ciò che facciamo contro la
nostra natura è condannato a fallire e a lasciarci delusi e umiliati.
Vera e sola libertà è seguirla. Benché povera e insufficiente.
Ciò comporta sfrondare molti impegni e false ambizioni, rinunciare
a molte amicizie fasulle, a carriere fantasmatiche, e ad esperienze che
non potranno che ferirci e annoiarci. E siccome ogni natura ha i
205
suoi limiti, ciò vuol dire accettare il posto nel mondo che ci è stato
assegnato non dal fato o dai rapporti di classe soltanto, ma
dall’orchestrazione misteriosa dei caratteri, che li mette in gioco ben
sapendo che nessuno sfugge mai al suo.
Questo non vuol affatto dire che non si possa cambiare vita o
condizione sociale, o religione, o moglie o marito, perché anzi la
nostra natura stessa ce lo può in certi casi imporre. Ma mai
cambiando carattere o inventandone uno per qualche settimana o
mese. E sempre con un fondo di pigrizia, nella quale non a caso
sono soprattutto esperti tutti coloro che galleggiano più a lungo in
politica, e cioè i più conservatori, moderati, scettici, cinici, apatici fra
tutti, nei volti dei quali leggi una noia antica e inesorabile, con la
quale convivono da sempre e che li fa trionfare nei tempi lunghi, a
patto di distillare il trionfo in dosi minime.
Le persone di natura libera e onesta saranno destinate a soccombere,
mentre quelle di natura corrotta e prepotente vinceranno. Ma così
sarà in ogni caso, per cui almeno le prime avranno vissuto senza
umiliare i loro talenti.
Mai avrei pensato qualche anno fa di giungere a questa conclusione
ripugnante ma essa nasce dall’esatta e sperimentata considerazione
delle cose.
Questo non vuol dire nemmeno che io sia pronto ad adeguarmi ad
essa perché la mia natura (benché ai più non sembri) è ribelle e fiera,
ma è cosa certa che ne subirò le conseguenze senza conseguire nulla
di utile.
15 gennaio
Sconosciuti
Ci aggiriamo tra gli altri per decenni senza che intuiscano
minimamente il nostro carattere. Ci dicono calmi e siamo nervosi, ci
dicono buoni e siamo pungenti, ci dicono diplomatici e siamo
intransigenti, ci dicono equilibrati e siamo estremisti, ci dicono
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riservati e siamo appassionati. Alla fine, non potendo diventare
come ci vedono e verificando che non dobbiamo cambiare nulla del
nostro modo di essere per diventare quello che dentro di noi
vorremmo effettivamente essere, perché tanto continueranno a
vederci nel modo esattamente contrario a quello che siamo,
disperiamo di potere sembrare agli altri quello che effettivamente
siamo, per poter cambiare e magari migliorare. E con una vana
vigliaccheria speriamo che il volto involontariamente falso che
vedono susciti in loro l’affetto immeritato che la nostra natura non
potrà mai risvegliare, non venendo affatto percepita.
Scrivere per sé e per gli altri
Ci sono scrittori molto amati dal pubblico ma che avendo scritto
libri di testa, e quindi non rispondenti al loro vero essere, nella fama
sono disperatamente soli e non provano nessuna soddisfazione nel
mandare in giro un sosia e un attore col loro nome.
Chi invece scrive secondo la sua personalità rischia di stilizzare se
stesso per diventare originale, esprimendo pareri unici e
sconvolgenti, sicché ciò che diremo e il modo in cui lo faremo verrà
subito identificato come il nostro. Questo è il modo di operare di
chi si fa sempre l’autoritratto. Esattamente il contrario è quello di
chi cerca di dire le cose come esattamente e comunemente stanno,
del tutto indipendentemente dal fatto che sia io a dirle. Ciò che
conta è il gesto di dirle.
A volte un poeta sembra orgoglioso, o presuntuoso, o vanitoso.
Invece sta difendendo fino all’estremo soltanto la verità della sua
poesia, il mondo che ha evocato e vuole sia condiviso, di cui si sente
il semplice tramite, disponendosi perfino a fare il rappresentante
commerciale e il galoppino elettorale di quelle verità, che sente sopra
di sé.
16 gennaio
La violenza della fotografia
207
Non si può più visitare una pinacoteca senza centinaia di fotografi e
cineamatori dilettanti che riprendono tutto quello che vedono (e
non guardano), incapaci di assaporare il momento presente e di
trarne un cibo spirituale. Una volta i custodi scoraggiavano questa
abitudine perversa ma ormai si sono arresi. Le gallerie del Louvre
lampeggiano di continuo di centinaia di flash, come piccoli stupri di
luce al mistero di un quadro.
È come se davanti a un bicchiere di vino o un dolce di crema invece
di bere e di mangiare uno li fotografasse. Ciò significa che non ne
trae nessun cibo per la sua vita interiore, che non c’è nessuna sete di
quel quadro di Tiziano o di Piero della Francesca, che non ce n’è un
bisogno profondo per rilanciare la vita e sopportare con animo più
leggero la banale bruttezza eccitante che titilla i cinque sensi, in
mezzo alla folla dei fotografi.
La foto e la ripresa filmata offendono la realtà vissuta in nome di
una visione futura solitaria, libera e occasionale, come se nulla di
quello che accade ora fosse decisivo, se non nella sua catalogazione
e campionatura nel desktop di un computer. Conta più il documento
del fatto, la foto del volto, la ripresa statica dell’attimo fuggente.
Il mondo non diventa immobile perché nasce la fotografia, ma la
fotografia nasce perché il mondo è diventato immobile.
Una delle sensazioni più disagevoli, sgradevoli e tali da generare
persino, specialmente in un ragazzo sgraziato che cambia di giorno
in giorno, una crisi di identità, è il vedersi ritratto in una foto. E
specialmente quando la posa, come si crede, è spontanea, cioè
immediata e naturale, in virtù di uno scatto fatto a sorpresa e
all’insaputa del ritratto.
Non c’è infatti niente di meno naturale dello scatto fotografico,
specialmente se manca una concertazione, o almeno qualche
secondo di selezione e riflessione, prima di pigiare il pulsante.
La vita è un flusso e il volto lo esprime con trascolorare di
sfumature sempre nuove, nelle quali una posa è letta alla luce della
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successiva e della seguente, sicché l’identità meramente fisica di un
volto, nella sua realtà vivente, cioè nella sua vera realtà, non solo
non è la somma delle singole pose, com’è evidente, ma non può
essere neanche una posa particolarmente significativa isolata dal
contesto, se non è un artista a fotografare, in grado di vedere, come
un pittore, l’immagine spirituale impressa nel volto.
Come questo possa accadere pigiando un pulsante non so spiegarlo,
fatto sta che i risultati attestano che è possibile infondere nel
soggetto lo sguardo di chi scatta.
Quando invece il fotografo dilettante ti inchioda a una posa irreale,
che di fatto non esiste, perché la vita reale del volto ne risulta tradita,
il risultato è brutto fino ad essere doloroso, non solo perché non sei
effettivamente così ma perché sei costretto a riconoscerti in un altro,
perfettamente sconosciuto.
Singolare però che questo perfetto sconosciuto stia in mezzo a
persone che sono come esattamente sono. Ciò dipende dal fatto che
vedendo la foto del volto di un altro la iscriviamo nella sequenza
vivente della persona che ci è familiare e così essa viene risucchiata e
sciolta nel flusso con naturalezza. Ciò che non possiamo fare per noi
stessi, che ci vediamo solo allo specchio e ci formiamo così
un’immagine idealizzante del nostro volto, visto come proiezione
attoriale di una nostra regia espressiva intima, che non corrisponde
quasi mai non solo a quello che gli altri distrattamente vedono ma
neanche a quello che sarebbe per il più attento e costante degli
osservatori.
Questa crisi di identità che si è costretti a subire dal rituale
fotografico si cerca di esorcizzarlo e scamparlo con un metodo
semplice e preciso: il sorriso. Sorriso a chi? Al fotografo? Alla
macchina fotografica? Ai posteri? A noi stessi che, temendo il
momento della condanna, ci consoleremo con una nostra immagine
almeno sorridente, almeno abbellita da una gioia fittizia?
Il sorriso è una non espressione, una espressione da fuori della
mischia, né reale né teatrale, che esprime una benevolenza a perdere,
che renderà meno acuto il giudizio di coloro che, sfogliando l’album
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elettronico un giorno e ingrandendo i particolari a piacimento,
osserverà con comoda e spietata indulgenza i nostri difetti.
Il filmino però non risolve il problema. Spesso vedersi di profilo o
di spalle accentua la sensazione di un occupante del nostro corpo, di
un alieno che ci ha inghiottiti. Chi è quell’essere strano che si muove
tra i familiari in modo pretenzioso e goffo? Dovremmo allora
arrenderci all’evidenza di questa esperienza che incrudelisce,
attestando il furto che il film fa della nostra identità familiare?
Ancora no, perché quell’essere è visto dagli altri alla luce della nostra
personalità, della conoscenza fisica che hanno di noi, dei sentimenti
e degli affetti che si irraggiano da dentro in quel volto, mentre
proprio noi, che quei sentimenti e affetti li proviamo, mentre
guardiamo il filmino li cancelliamo, come fosse un guscio vuoto, e
non facciamo la minima concessione a quel corpo che più ci
dovrebbe essere caro, collaudandolo con lo sguardo di
quell’estraneo che noi stessi siamo diventati, finché non troviamo di
meglio che dimenticare quello che abbiamo visto. E cioè cosa? Che
per gli altri, se non lottiamo ogni giorno per farci conoscere e amare,
momento per momento, non siamo che un corpo e un volto tra i
tanti, e dobbiamo sudare ogni giorno la nostra parte per sembrare
una persona.
Non è vero che la donna bella e l’uomo bello sono esonerati da
questo travaglio. Al massimo possono non soffrire per una ruga o
un dente storto, anche se la persona bella è sensibilissima al minimo
difetto e severissima con se stessa non appena lo scopre. Ma non
possono sfuggire alla sensazione di essere un altro da colei o colui
che si sentono e sono.
Vero è, che condonati dalla bellezza, più dolcemente si dimenticano
della pena, accettano il sosia fotografato, cosa che del resto fanno
con la stessa rapidità coloro che belli non sono.
I documenti dei volti delle vittime della Shoah servono a terrificare e
suscitare pietà in coloro che dovranno impedire che la violenza si
ripeta. Ma per coloro che sono stati fotografati essere colti nella
inermità assoluta è un ennesimo acuto dolore, che ostacola la
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rimozione e tortura con una sottigliezza invincibile perché a fin di
bene.
17 gennaio
La collera
“En verité, celui qui ne connait pas la colère ne sait rien. Il ne
connaît pas l’immédiat ».
Così scrive Henri Michaux in Un certain plume del 1930, libro che
avrà detto molto al Calvino di Palomar. E infatti il raptus della collera
attinge la sua violenza dal rompere le catene con passato e col futuro
prossimi e lontani. L’immediato è la forza che ogni società cerca di
impigliare, nel bene e nel male, senza riuscirvi.
Io stesso ho sperimentato in pochi giorni l’immediato almeno due
volte, e sempre per cause futili e opinabili. Di fronte a un uomo
senza volto che, sceso dal métro, mi impediva di salire per rimarcare
il suo diritto di passare per primo. E per un secondo avrei potuto
colpirlo con un pugno, non perché ostruiva a sua volta il mio
passaggio ma per la certezza offensiva con cui rimarcava la sua
ragione.
La seconda volta grazie a un amico che mi ha provocato con una
malizia improvvisa, alla quale stavo per rispondere con altrettanta
malizia. Perché l’improvviso chiama l’improvviso, e ne nascono
ferite che non rimarginano, polemiche sorde, faide e guerre di cui
nessuno ricorda più l’origine.
Singolare la benevolenza e indulgenza che si usa sempre verso chi si
scatena in preda a un raptus mentre chi risponde in modo più
calcolato viene accusato di maggiore crudezza, se non crudeltà.
Come se nell’atto istantaneo non fosse condensato un lungo
processo di pensieri freddi, che prima o poi sboccano a sorpresa in
modo incontrollato.
Per non leggere
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Si va a un incontro letterario non per essere stimolati a leggere un
libro ma per esserne esonerati. Colui che lo presenta diventa più
importante dell’autore, perché tu potrai parlare ad altri del discorso
che hai ascoltato ma a nessuno del libro dell’autore presentato, che
leggerai in solitudine.
Pur di non leggere, gli italiani sono capaci di seguire interi festival
della filosofia o della letteratura, ascoltando con diligenza discorsi
che capiscono in minima parte.
Gli italiani in genere non fanno nulla di cui non possano parlare a
qualcuno. Essi leggono sempre avendo in mente il dialogo che
prima o poi, a una cena, a un incontro, passeggiando, in treno,
potranno imbastire con qualcuno. Non pensano mai che un libro
possa aprire loro gli occhi, confortarli in un dolore spirituale che
non provano, insegnare come fronteggiare una situazione analoga a
quella descritta che non vivono, essere pungolati a una visione di
giustizia che non hanno nessuna intenzione di cambiare, essendo
convinti di sapere già tutto per esperienza e per istinto.
Gli stessi critici, professori e lettori professionisti che lamentano di
continuo il basso livello della nostra letteratura e il diventare piano e
denotativo della lingua della prosa, fino alla scomparsa dell’idea
stessa di stile, censurano o ignorano i libri che alla loro idea di
letteratura alta assomigliano, o tentano di assomigliare, essendo
convinti, e anzi desiderando, che essa appartenga al passato e che il
piacere di un lamento e di una negazione assoluta del presente vivo,
che li conforta sinistramente, sarebbe guastato dalla comparsa di
qualsivoglia eccezione.
Ignorano così a bella posta che non sono gli scrittori a vendersi
all’idea di una lineare e spiegata letteratura popolare, bensì gli editori,
esercitando un controllo doganale ferreo.
Da sempre chi vuole dominare e governare le masse si giustifica
dicendo che viene incontro a ciò che esse vogliono. Come i dittatori
così gli editori, che si scusano dicendo che fallirebbero in tre mesi se
sfidassero i loro gusti. Ma come il dittatore mediatico plasma le
212
masse in modo da renderle docili ai suoi desideri e corrompendole al
punto che non vedano nulla di meglio di lui nel mercato politico,
così gli editori rovinano la bocca delle masse con un’immissione
massiccia di cibi dozzinali, se non avariati, i più idonei a essere
venduti, e ne inquinano in modo irreversibile la sensibilità per poi
addebitare tutta ad esse la responsabilità delle scelte utili che
compiono.
La letteratura è sempre aristocratica e riservata a pochi, anche
quando quei pochi sono centinaia di migliaia o milioni, con la
differenza che mentre fino ai primi anni Ottanta, i libri migliori,
benché letti quasi sempre da pochi, erano palesemente ai vertici dei
valori, benché i più li accettassero senza sapere perché, adesso sono
nelle ultime posizioni, e al massimo considerati con spirito
archeologico. E vengono liquidati con la definizione di illeggibili,
con la quale si intende un valore complesso, ormai non più
consumabile, benché presente ed efficace simbolicamente su un
piano alto di studio e di analisi, del tutto avulso dalla fruizione reale.
Se un libro si definisce leggibile con degnazione, lo si chiama
illeggibile con ironica complicità con i lettori di bocca buona, come
quando uno stimato competente in un qualunque altro campo
ammette di non capire la matematica per aristocratica solidarietà con
coloro che non capirebbero neanche la sua disciplina superiore,
benché in qualche meandro della sua testa la stimi cosa alta.
Se un libro di valore non deve essere né leggibile né illeggibile, che
cosa deve essere?
Si fanno campagne di lettura come se leggere un libro fosse
comunque un bene, indipendentemente dal libro. Si ripete che non
c’è libro in cui non si trovi qualcosa di buono. Come non c’è uomo
che non presenti qualche ragione di valore e riconoscimento. Così
gli uomini e i libri pessimi vengono messi sempre sopra gli ottimi.
Io credo invece che sia meglio essere analfabeti che mezzo colti. E
che sia meglio non leggere affatto piuttosto che leggere i prodotti di
fattura media, buona e artigianale che vanno per la maggiore. Ma
siccome leggere è considerato democraticamente un bene, come la
213
camminata veloce, lo sport, la vita sociale, la partecipazione, il voto,
ecco che la buona letteratura va sparendo, anzi è già sparita.
E sempre più sarà così, fino alla totale indifferenza dei valori, ultimo
atto della distruzione di un’espressione di verità odiata e temuta.
Come si odia e si teme la nostra stessa salvezza, quando siamo
incapaci di vedere una luce. Nel deserto brilleranno i libri del
passato, che ormai sono scampati a un naufragio per definizione
contemporaneo, e sopranuotano, dice Leopardi, visto che è contro i
nostri stessi tempi che si scatenano quell’odio e quella paura dei
quali puniamo i migliori, perché sono inetti a migliorarci.
Quando penso che non ho nessun obbligo di leggere le opere di uno
scrittore, anche il più rinomato, mi prende un umoristico senso di
sollievo.
Mitologia democratica
È evidente che il suffragio universale, per il quale il voto di uno
qualunque ha lo stesso peso di quello di chiunque altro, è una pura
assurdità. Chi vota per il colore di una cravatta e per un sorriso di
gomma, chi vota per difendere i suoi privilegi e perseverare
nell’ingiustizia ha lo stesso peso di chi vota per intima riflessione e
con cognizione di causa, per quanto è possibile in materia così
ambigua e sporca.
In democrazia vige la concezione miracolistica del voto: nel segreto
dell’urna un raggio di ispirazione politica colpisce il cittadino più
sprovveduto e indifferente, il nucleo profondo della sua cittadinanza
mistica si risveglia ed egli sa, all’improvviso e in modo inconfutabile,
qual è la sua verità politica.
La democrazia odierna è così un sistema insanabile e sempre fuori
squadra, perché basato su un’illuminazione estatica ed irrazionale.
Ragione per cui si sono escogitate tecniche per vanificare il voto e
costringere a votare coloro che i partiti vogliono. Così una oligarchia
al potere, del tutto cinica e indifferente al bene comune, ma convinta
di esserne la sola depositaria, governa oggi con una dittatura
214
poliedrica e plurale, mentre la democrazia è solo una costosa liturgia
teatrale.
Dal che consegue che è impossibile che una società funzioni bene,
che sia realmente democratica, che i cittadini possano mai dirsi
contenti. Proprio per questa coscienza sotterranea, condivisa più o
meno da tutti, è indispensabile affidarsi al racconto magico della
propria storia, alle illusioni miracolose, alle emozioni impulsive, al
tifo politico, altrettanto cieco di quello calcistico, impedendo così,
proprio col palliativo e il balsamo versato su un male immedicabile,
di rendere più razionali le scelte e più civili i nostri comportamenti.
Dirlo apertamente tuttavia è considerato un’imperdonabile
espressione di malanimo e di sentimenti reazionari. Soltanto un
intellettuale autorevole e universalmente stimato come Norberto
Bobbio ha potuto affermare in età veneranda che la democrazia è il
male minore. Lo si è tollerato come la debolezza di un vecchio
saggio nel prologo di amarezza che prelude alla morte.
Il fatto è che la democrazia è una fede, più che un’ideologia, che ha i
suoi martiri, i suoi santi, che è costata lotte sanguinose e sacrifici
disumani, di conquista difficilissima e impervia, tanto che sono
occorsi millenni per agguantarla, e soltanto in un’area ristretta del
mondo, e quindi ogni enunciato freddo e imparziale di critica non
già della sua imperfezione ma della sua stessa natura, suona come
una ritirata vergognosa e come un’apostasia, una fuga dall’esercito
dei credenti durante un bivacco nell’accampamento tra una guerra e
l’altra.
Non soltanto dire che la democrazia è un male, benché minore,
equivarrebbe perciò a dire che la vittoria è un male, benché minore
della sconfitta, ma in politica ogni affermazione si giudica dagli
effetti, per cui ogni critica alla democrazia incoraggia e potenzia
coloro che la vogliono osteggiare e combattere oggi, giacché sempre
ci sono forze contrarie alla democrazia, disposte a usare i mezzi più
spregiudicati e violenti per abbatterla. Per questo si ripete che
occorre una vigilanza continua, e soltanto per impedire un male
molto maggiore (che è la nostra sorte abituale) ma troppo poco
romantica enunciata così.
215
Ogni sistema diverso dalla democrazia sarebbe molto peggiore,
perché quasi mai è capitato nella storia che andassero al potere i
migliori, in forme assolutistiche o oligarchiche pure. I casi si contano
sulle dita: Pericle, Cesare, la regina Tamara, Lorenzo il Magnifico,
Federico duca di Montefeltro, F. D. Roosevelt...
Spesso si mettono in luce le contraddizioni più violente della società
come se denunciarla fosse il primo passo per sanarle. Ma
l’esperienza mostra che i migliaia di casi denunciati dalla stampa più
libera non sono mai stati risolti attraverso la pubblica rivelazione e il
collettivo sdegno. E che non basta risolvere con i processi, seppure
indispensabili, i mali nazionali. Esemplare il caso di Mani pulite,
quando i giudici hanno operato in modo così energico e coraggioso,
per poi ritrovarci dopo quasi vent’anni in una corruzione più grave
della precedente. Né possiamo più cadere dalle nuvole, ma la
coscienza della corruzione non ostacola in nessun modo il suo
scatenamento, aumentando soltanto l’avvilimento e l’impotenza.
Allo stesso modo molti pensano che criticare il capitalismo voglia
dire essere nostalgici del comunismo. Come se non fosse possibile
vedere chiaramente le contraddizioni feroci del capitalismo e
nondimeno pensare che non ci sia alternativa possibile e che altri
regimi economici sarebbero anche peggio. No, se c’è un male, esso
deve essere per forza superabile, altrimenti vuol dire che non è
veramente un male.
Quindi, se le alternative non tengono o sono utopistiche, se ne
ricava che il sistema che viviamo debba per forza essere un bene.
Questo modo di ragionare ha fatto sì che ci si mettesse in braccio al
fascismo e al nazismo per evitare il comunismo e che ci si mettesse
in mano al comunismo per evitare il fascismo e il nazismo. La
minaccia di un male terribile, a volte reale a volte puramente
fantastico, ha fatto sempre sì che ci si cacciasse in un male maggiore,
realissimo e per giunta sempre minimizzato, per non dover
ammettere che la scelta è sempre in politica tra il male minore e
quello maggiore.
18 gennaio
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Destino e caso
(Alessandro di Afrodisia)
Quando le cose vanno male è colpa del destino, quando vanno bene
il merito è tutto nostro, dice Alessandro di Afrodisia polemicamente
nel suo trattato De fato. Mai pensiamo che il destino concorra al
buon esito dei nostri desideri. E si spiega bene col fatto che il
destino contiene un’idea di necessità, e la necessità un’idea di
opposizione ai nostri desideri e voleri. Se inoltre abbiamo fatto tutto
il possibile per condurre a buon fine un progetto, e non ci siamo
riusciti, e siccome non possiamo pensare che la semplice volontà di
chi lo ha ostacolato, o una diversa e maggiore cognizione delle cose,
possa contrastare vittoriosamente la nostra, perché sarebbe come
ammettere una nostra impotenza o incapacità, troviamo più
semplice e meno doloroso pensare che una forza misteriosa, per
motivi imperscrutabili, per un suo scopo segreto, lo abbia fatto
fallire.
Potremmo parlare di caso o di fortuna ma sarebbe per noi umiliante
saperci esposti come una pianta o un animale al gioco senza un
senso individuale degli avvenimenti. Affidarsi al destino allora, se in
apparenza vuol dire legarci le mani e le gambe in ossequio a una
potenza neutra e impersonale, è l’estrema difesa della nostra libertà,
rivendicata, sia pure nella sconfitta, di fronte a un’altra libera volontà
sovrumana, una specie di provvidenza nera e pacificata che ha i suoi
scopi sopra le nostre teste.
Alessandro stesso, che vuole dimostrare che destino non esiste,
ammette infatti che se diciamo che qualcosa accade per destino
intendiamo dire che accade comunque secondo uno scopo, sia pure
segreto. E uno scopo segreto solo un ente libero e razionale può
porselo.
Quando si legge un libro sagomiamo l’aspetto fisico dell’autore sullo
stile del suo pensiero, e ne immaginiamo le fattezze, lo sguardo, il
timbro della voce, fino quasi a sentirne l’odore esistenziale, a
provare la sensazione del suo personale e del suo alone corporale.
217
Ma ciò accade soltanto se l’autore è vivo, come nel caso del curatore
del De fato. Se è morto, come Alessandro di Afrodisia, ne
immaginiamo soltanto il carattere, in modo più astratto ma anche
più spirituale. Ciò accade perché la morte ci ridà l’essere più
profondo di una persona, libera dai suoi aromi esistenziali e dalle sue
sagomature fisiche, come anche dall’età. Importa molto meno che
uno lo abbia scritto a trenta o a settant’anni, se è morto, poiché
affiora che la sua anima è sempre la stessa. Questo carattere,
quest’anima, assume allora una sagoma fisica ideale.
Chi scrive col metodo della coerenza argomentativa più lineare,
passo passo, come Alessandro di Afrodisia, finisce per trattare il
lettore sempre più da idiota a mano a mano che progredisce nel
ragionamento, e aumenta la propria convinzione di essere chiaro e di
riuscire a condurre in porto la sua dimostrazione. E così spiega in
modo sempre più dettagliato ciò che è evidente, nel timore di
perdere tutto sul più bello. E la sua argomentazione perde forza per
eccesso di dimostrazioni secondarie, ramificate e scontate. Ma
soprattutto perché da la sensazione di parlare a qualcuno che non è
all’altezza di ragionare da solo, e quindi neanche di capire quello che
dice.
È segno di intelligenza avere fiducia nell’intelligenza degli altri. Del
contrario non averla. Come nella vita pratica facciamo quasi sempre
affidamento nell’intelligenza degli altri, per esempio quando
guidiamo in autostrada o camminiamo in una piazza senza urtarci o
parliamo con un passante sconosciuto, allo stesso modo quando
scriviamo non dobbiamo mai dimenticare che chi legge è intelligente
quanto noi, e che la sicurezza che ci proviene dal tenere noi la palla
non deve indurci a presumere che è un bene anche per l’altro che
noi non la lasciamo mai.
Buon filosofo e buono scrittore è invece colui che di continuo passa
la palla e la riceve dal lettore con scioltezza e senza presunzione di
poter gettarla in rete da solo.
Si dice che il buon scrittore è colui che scrive solo per sé e non per il
lettore, ma questo è vero soltanto se dentro di lui il lettore c’è, se
anzi c’è una moltitudine di uomini o, almeno, una doppia
personalità.
218
Chi dice battute argute a uno sconosciuto sembra intelligente, anche
se la battuta è modesta, proprio per questa sua coscienza disinvolta
dell’intelligenza dell’altro.
19 gennaio
Maschera
Se ti fai crescere la barba o i baffi, come in un periodo lontano della
tua vita avevi fatto, per prendere una vacanza dalla tua faccia, tu ti
ritroverai la stessa sensibilità di allora, lo stesso modo di guardare, la
stessa atmosfera intorno alla tua persona e sparsa sul mondo intorno
a te. Con qualche pelo in più sulla faccia i tuoi pensieri lentamente
diventeranno più severi e austeri, i tuoi gesti più lenti, i tuoi sguardi
più pretenziosi. E alla fine ti ritroverai a vivere, come in un sogno
transtemporale, intere sequenze vitali del tutto identiche a venti o
trent’anni prima, indosserai il tuo stesso io di allora, anzi esso si
compenetrerà in te con somma naturalezza. E quello che voleva
essere un gioco con lo specchio si trasforma in un’esperienza
inquietante di regressione e spaesamento nella rotta.
La tua vita senza barba e baffi inoltre, come vestita di un altro volto,
ti sembrerà quella di un altro, come se non fosse incisa in te così
profondamente come credevi, come fosse, per quanto lunga, una
parentesi.
Pensa tu quello che potrebbe comportare il trasferimento nella città
in cui ha vissuto un tempo, o una separazione dal letto coniugale,
con il ritorno alle dormite e uscite da scapolo, o il rifrequentare i
vecchi amici negli stessi vecchi luoghi.
Se chi amava una donna era molto magro e poi ha preso a ingrassare
negli anni, dimagrendo di nuovo, si ritroverà a pensare alla donna di
una volta e quasi se ne innamorerà di nuovo, come se il suo corpo
ritrovato spettasse di diritto a quella donna che in quel tempo ne
aveva goduto.
219
Pensa come sia indispensabile per un attore, cambiando
personaggio, tingersi o tagliarsi i capelli, truccarsi e mascherarsi,
insomma cambiare faccia. Gli attori infatti di continuo si tagliano la
barba e se la fanno ricrescere, si acconciano i capelli in modi sempre
diversi, si tagliano i baffi, si fanno il pizzo, la mosca, le basette, in
un’inquietudine identitaria che investe sempre anche il volto. Ed è
per loro riposo e piacere continuare anche nella vita di tutti i giorni a
ritoccare la loro immagine, più di fronte a se stessi che non di fronte
agli altri.
20 gennaio
La gente fuori del comune
Frequentando molte persone al di fuori degli ambienti cosiddetti
intellettuali si viene colpiti dalla loro semplicità nobile, dalla
delicatezza, dall’equilibrio profondo e dall’acume dei giudizi, che
sfrondano con naturalezza gli eccessi e le deformazioni ma senza
diventare mediocri. È un tessuto fittissimo, profondamente sano e
vitale, che tiene saldo il terreno italiano, come un’immensa foresta
umana anonima che impedisce le frane. Gli uomini e le donnealbero salvano l’Italia dagli smottamenti e dai crolli.
Andiamo a vedere coloro che hanno il potere in ogni campo, dalla
politica all’industria, dal mondo dello spettacolo fino all’editoria e
alla letteratura, cenerentola non per questo meno pretenziosa, e
vedremo proliferare soltanto eccessi, deformazioni, menzogne,
sofisticazioni, tranelli, tradimenti, imbrogli, crudeltà, violenze morali,
arroganza e spavalderia da avventurieri, da paraculi, da sornioni, da
maestri dell’invidia e della vendetta mascherata da abbracci, sorrisi,
gentilezze gratuite e promesse inattendibili.
In altre parole vedremo che regolarmente i vizi più disgustosi si
accompagnano quasi sempre ai successi e alle fortune in qualunque
campo, entrando in una giungla irrazionale nella quale la sola dea è
la fortuna, e il talento, salvo miracolo (comunque propiziato con
tenacia pluridecennale), si afferma o quando uno campa abbastanza
da diventare ottuagenario o quando si accompagna a quel corredo di
220
doti che comunemente vengono considerate vizi o peccati o reati,
benché nascoste e occultate con un’ascesi laboriosa.
Non possiamo neanche tessere le lodi dell’insuccesso, che scatena
vizi deformi e turbolenze conoscitive e produce saggi e romanzi che
nascondono malamente l’ossessione che spinge fatalmente il
respinto a non parlare di altri che di sé. Giacché l’insuccesso
maschera e allontana la realtà più del successo.
La prova del fuoco è allora di essere così forte da far sì che le virtù
cavalchino i vizi, non potendo né cancellarli né smorzarli in questi
due casi estremi, sia quando il cavallo galoppa sia quando si
impunta.
Una conseguenza del successo come dell’insuccesso è che
l’artificiale, l’intossicazione egocentrica della psiche, guadagna tanta
più fama quanto più l’essere naturale finisce nell’anonimato.
Le canzoni d’amore
Le canzoni d’amore degli anni sessanta e settanta sono molto più
belle, forti e vere, di quelle scritte oggi, perché allora ci si
innamorava in modo più forte e vero che non oggi. L’amore è
un’ossessione che non bada a denaro, potere, classe sociale, a tutto
ciò che è finto e superficiale, e punta dritto al nucleo, mentre oggi è
evidente che per i ragazzi, e per tutti, è molto più difficile
innamorarsi, perché le distrazioni, l’ironia, lo scetticismo, la natura
poliedrica dell’esperienza, la continua eccitazione e allegria di
superficie lo rendono quasi impossibile.
Si dirà che quello che si afferma è un nuovo modo d’amare, più
pratico e meno romantico, più espresso che non inabissato nella
contemplazione disperata e folle. Ma allora l’innamorata aveva tutto
l’uomo dentro e l’innamorato era del tutto pieno della donna, come
centinaia di canzoni attestano. E ora no.
La spada consuma la vagina
221
La spada consuma la vagina, cioè il fodero, scrive Leopardi nello
Zibaldone. Il pensiero infatti consuma il corpo al punto che,
fissandosi ad esempio sui piedi, potrai scaldarli o raffreddarli, fino a
farli dolere. E fissandoti su una funzione naturale, come l’orinare o il
respirare, potrai generare l’impulso coattivo, fino a infiammare un
organo. Bisogna impedire che il pensiero si fissi su qualche membro
del corpo e l’arte della salute sta proprio nel distrarlo continuamente,
nel volgerlo ad altro, e soprattutto agli altri.
Vi sono raffinati fustigatori, molto utili perché ridicolizzano con
piglio autorevole, e anch’esso non privo di presunzione, la pletora di
sofisticazioni, simulazioni, sovracostruzioni, velleità, nate dalla
presunzione, inseparabile dall’atto di scrivere, soprattutto in quelli
che, per troppa, se anche meritata fama, indulgono a un mito
personale e si lanciano trionfalmente nel mercato delle lettere senza
mai essere sfiorati da un dubbio. La presunzione contro la
presunzione diventa una virtù.
Giudicare attraverso il contesto
Vi sono studiosi, come Alfonso Berardinelli, non inclini ad
approfondire un autore dal di dentro, per chiudersi con lui nel
proprio uovo critico, o a immedesimarsi in esso con empatia, ma
danno il meglio nello snudare il contesto in cui un artista può
nascere e prosperare, illuminandolo con la sua opera, oppure
quando disistimano qualcuno, nel delineare prima un contesto per
poi vederlo come effetto meccanico, come prodotto inconsapevole
di quello, privandolo così della sua personalità, benché imponente.
La sua non è una critica dei libri, isolatamente presi, ma una critica
della realtà, della quale i libri fanno parte. Così facendo, egli dà ai
libri un attestato di valore incomparabile, perché per lui essi non
esistono in una dimensione a parte bensì agiscono, benché in misura
minore e individuale, come una forza sociale, esprimendola, in
modo più o meno conscio.
222
Saper giudicare in modo istintivo senza vergognarsi è un segno di
valore. Come di fiducia nella natura sana propria e altrui. Sempre
che si tratti, come in questo caso, di un istinto critico.
Nella lotta tra te e il mondo vedi di parteggiare per il mondo
Questa frase di Kafka non vuol dire affatto che lo scarafaggio sono
io, ed è bene che sia così. Ma che Franz si rende conto di essere una
parte minima del mondo, di essere una delle tante voci del mondo, e
non già un titano fuori del mondo che lo giudica, abbraccia e
definisce.
In ogni momento dobbiamo ripeterci di essere un’infima particola
del mondo, tanto più quando pensando e scrivendo siamo tentati dal
costruirci la nostra nicchia di dei in esilio. Più cresco e più mi sento
piccolo e, perché piccolo, perché leggero, sempre più ricco di
significato e di valore.
La saggezza solitaria non esiste
“È grande follia voler essere saggio da solo” dice La Rochefaucauld.
E si comprende perché. La nostra saggezza si nutre degli altri.
Nessuno è cibo per se stesso. Come quando si isola un uomo in una
camera anecoica per diversi giorni, finisce per cadere in allucinazioni
e dopo una settimana non sa neanche fare due più due. Così
cibandosi di se stessi ci si inaridisce e svuota. La famosa vita
interiore non è che il pullulio degli altri dentro di noi, che noi
assimiliamo e trasformiamo in sensazioni, emozioni, pensieri.
Se non incontro nessuno e se non leggo un libro o non guardo un
film io sono vuoto, sono non pensiero, non uomo.
Se ogni forma di pensiero è misantropia quando giudica la società
come un tutto. Se nell’atto di definire la società e di condannarla, ce
ne tiriamo fuori, soffrendo con malinconia vigorosa i suoi vizi e la
nostra esclusione, con lo stesso atto ci avviciniamo agli uomini che,
nella solitudine del pensiero, ci diventano sempre più cari e
indispensabili.
223
Un pensiero che ha espresso Leopardi proprio quando si è difeso
dall’accusa di misantropia, dicendo appunto che la lunga solitudine
gli ha sempre risvegliato l’amore per gli uomini, intorno ai quali ha
intessuto fantastiche e potenti illusioni, mentre proprio frequentarli
di continuo, senza volerli e poterli giudicare, è ciò che fa diventare
misantropici.
Per rendere la vita sopportabile devi frequentare una gran quantità
di persone che, con la varietà dei loro volti, corpi, caratteri,
comportamenti, timbri di voci, pose, movimenti arrivano a
sorprenderti ed eccitarti, a distrarti e affascinarti, colmano uno il
difetto dell’altro, e svagando uno dalla oppressione dell’altro, quel
tanto che basta per non piombare in quella noia da ripetizione che
arriva fino alla nausea di se stessi e quasi al turbamento e fastidio di
convivere col proprio corpo.
Senza contare che stando molto in mezzo agli altri amerai la
solitudine e stando molto da solo amerai gli altri, e li cercherai. Ma
essendo la solitudine lo scivolo naturale di chiunque pensa, dovrai
forzarti a uscirne ogni giorno, risalendo la pendenza, impresa tanto
più difficile quanto più una persona dispone liberamente del proprio
tempo.
Se vedi decine e decine di persone ogni giorno non sei più capace di
provare veri sentimenti per nessuno. E non sai più cos’è amore,
amicizia e neanche affetto, rimpianto, rimorso, gioia, paura e
speranza. Senti che qualcuno muore e dici che ti dispiace, che
qualcun altro si sposa e dici che sei contento. E lo sei davvero ma
blandamente, in un’eco o memoria di verità di un passato dolore più
forte e di una passata gioia sincera e viva.
Così l’effervescenza della vita ne intacca la sostanza e l’uomo che
offri agli altri non è tanto più di quello che gli altri offrono a te. Una
cassa armonica, un trastullo, un giocattolo vivente, un attore e
intrattenitore nello spettacolo convenuto della vita.
Si dice della paura della morte ma si teme molto più l’amore, e si è
codardi a non sperare.
224
Chi è giovane ha una lunga aspettativa di vita, il che lo inclina più
facilmente alla noia ogni volta che si trova solo e senza un’attività
eccitante, mancando il tirante temporale che ti fa apprezzare la vita
che ti resta tanto meno ne hai a disposizione.
21 gennaio
Leggere e scrivere
Il tempo che ho passato a leggere è molto maggiore di quello che ho
passato a scrivere. Leggere e scrivere sono due attività simmetriche,
come ascoltare e parlare, e in realtà sfasate sempre da un sovrappiù e
da un sovrammeno che le rende inventive. E spesso parli molto di
più ascoltando e ascolti molto di più parlando. Le due attività hanno
anche in comune che producono pensieri, emozioni e
immaginazioni, in modo che mai prendi atto di qualcosa che già
esiste ma sempre rigeneri e trasformi.
È concepibile tuttavia uno scrittore che non abbia mai scritto ma
sempre immaginato in sé le sue storie, coltivato in sé i suoi pensieri,
mentre non è concepibile un poeta che non abbia mai scritto, perché
la poesia, che passa per l’espressione più immediata e vissuta, ha più
bisogno, rispetto alla filosofia e alla narrativa, della lingua e dello
stile, sicché puoi covarla a lungo dentro di te ma sempre in forma di
parole. Benché esistano figure di suono, pieghe tonali, parabole
emozionali già segnate nell’animo di ciascuno fin dall’infanzia, che
alla fine reclamano le loro parole almeno quanto le parole fanno
curvare nella direzione da loro tracciata sentimenti e pensieri.
Esistono le poesie di getto naturalmente ma reclamano di essere
subito in pochi minuti scritte.
Io ho scritto dentro di me un intero romanzo, vivendolo e
rivivendolo, al punto che i personaggi si sono sempre più incarnati e
articolati prendendo una vita che non potrò più cambiare, però non
l’ho scritto fuori né è certo che un giorno o l’altro lo farò. Ma mai
un’intera poesia, che in me viene sempre di getto, solo in certi
225
giorni, e mesi e anni, quasi tutta già formata, benché non saprei dirla
finché non la scrivo, al punto che le piccole variazioni sono come
pròtesi, bende e cerotti applicati in un corpo vivo, con pregi e difetti
nativi e pressoché immodificabili.
Io non pubblico poesie, pur avendone scritte per più di un libro,
perché non trovo giusto affidarmi a getti alieni di una seconda
persona dentro di me quando non ho fatto la scelta di diventare
poeta, la quale sola mi autorizzerebbe.
E dimostro così di essere sciocco, perché sarebbe come dire che
non prego perché non ho fatto la scelta del monaco di clausura.
Dalle prime poesie che scrivi sono già evidenti il tuo valore e i tuoi
limiti. Avendo capito a quindici anni di non essere Rimbaud, ho
giudicato più onesto strappare tutto. Ma l’errore profondo è stato di
voler essere me stesso dentro un altro. Dopo ho scritto in diverse, e
rare, stagioni, con repentini moti ma mi è stato sempre più chiaro,
anzi altrettanto chiaro che all’inizio, che la mia poesia non dava le
semplici verità ultime e prime per questa originaria viltà o per un
diverso talento.
Solo in un secondo tempo ho capito invece che era vero il contrario
(a dimostrazione del fatto che cose evidenti possono essere false):
dando le mie poesie invece proprio le prime e ultime verità, e
semmai non quelle intermedie. Ma non avendo la mia vita la forma
consona, era indispensabile che io non ne figurassi l’autore, che io
sparissi come poeta, perché esse sono inconfutabili come un
teorema, e tuttavia non è giusto che non sia un geometra colui che le
ha scritte.
Una poesia è vera se è vero l’autore, e io lo sono finché le scrivo. Ma
subito dopo non lo sono più. Quindi mentre le scrivo ho altro per la
testa che pubblicarle e dopo che le ho scritte non me ne sento più
degno.
22 gennaio
L’intelletto critico
226
Scrittori che hanno coltivato amicizie con critici affini, con i quali
condividere i maestri e i compagni di strada, animati dalla stessa idea
radicale e sanguinale della letteratura. E quando questi scrittori
hanno pubblicato i loro libri, scritti in decenni e per i decenni, i loro
amici critici hanno scritto loro lettere generose in modo
imbarazzante, mentre si scusavano di non avere il tempo di
scriverne in pubblico, perché troppo impegnati a stroncare i libri che
entrambi non stimavano.
Chi esercita soltanto l’intelletto critico preferisce attaccare i libri che
non gli piacciono piuttosto che difendere quelli che gli piacciono, sia
perché ne trae un maggiore sentimento di potenza, tanto più se il
libro criticato è famoso, sperando di aggrapparsi al volo al successo
del nome stroncato e viaggiare sulle vie della fama con quello, senza
sminuirsi, anzi esaltandosi, nel proprio severo valore aristocratico.
Sia perché la facoltà di ammirare si spegne quando si è convinti che
ormai la letteratura è finita o in letargo. Al momento di parlare bene
di un libro che piace, ma ignoto ai più, ci si accorge che è più
gradevole e comodo non stimare nessuno piuttosto che difendere
una causa che ci isola e che neppure noi siamo più capaci di sentire
fino in fondo, essendoci guasta la bocca con troppi vini e offrendo il
mercato infiniti casi di lodatori degli stessi libri che noi
disprezziamo.
Enfasi romanzesca
Quando leggiamo un romanzo, le sensazioni che vi sono descritte
sono sempre enfatizzate. Una pioggia battente per esempio è molto
più intensa di qualunque pioggia che riusciamo a sperimentare dal
vivo. Restiamo convinti che una volta anche per noi la pioggia era
così tumultuosa e forte e ci svegliava sentimenti che oggi appena
traspaiono, e quasi in forma di reminiscenza. Il romanzo diventa una
forma di risveglio delle sensazioni morte o illanguidite, che riesce a
rendere a costo di accentuarne sempre più la portata. I tramonti
letterari hanno tinte sempre più vivide, la neve sul bavero del
cappotto suscita sensazioni deliziose che nella realtà non proviamo,
227
una luce radente su un divano letterario suscita l’immaginazione di
una felicità domestica, come di fatto non succede più.
Ma è mai successo, è legittimo domandarci, o già nell’infanzia i sensi
cominciano ad affievolirsi, a mano a mano che ci accorgiamo quanto
poco servono nelle società artificiali in cui viviamo. E in realtà non
ricordiamo le nostre potenti sensazioni di una volta, ma una nevicata
in una pagina di Proust letta da ragazzi, la neve che brillava
trent’anni fa in una passeggiata di Guerra e pace.
Ogni sensazione forte contiene il ricordo di un’altra analoga dello
stesso genere già vissuta, e risveglia quindi un’intera corrente di
esperienza che come una saetta mette in sequenza acrobatica attimi
lontani della nostra vita, elettrizzando il tempo vissuto.
Enfasi cinematografica
Il cinema fa leva sul potenziamento sensoriale. Ad esempio
moltiplicando i suoni della vita quotidiana. Il respiro, l’ansimo, il
fiatone diventano sonorissimi, il fruscio delle foglie impetuoso, la
pioggia cade giù scrosciante come solo in certi remoti pomeriggi
dell’infanzia, quando cadeva a secchie, battendo sulle finestre, o, più
probabilmente, quando l’udito era più forte e l’olfatto più sensibile
fino a cogliere l’odore dell’erba bagnata e dell’asfalto lustro stando a
casa. O forse a essere più forte era l’immaginazione dei suoni e degli
odori.
Lo stesso avviene nel cinema con i sentimenti, moltiplicati per dieci
ed enfatizzati, dandoci l’illusione di vivere più pienamente. Nel
cinema, come nella vita, la ricerca della soddisfazione si è spostata
dal piano morale a quello sensoriale, non comprendendo che i
conflitti morali e le scelte etiche coraggiose danno un’eccitazione di
tutti i sensi, un’energia fisica e una scossa corporale che nessuna
sensazione puramente fisica potrà mai dare.
23 gennaio
228
Violenza occulta
Io non ho mai visto uccidere un uomo né ho mai fatto violenza a
nessuno, con l’eccezione delle lotte rituali da ragazzini, che non
lasciavano alcuna scia d’odio e di risentimento, se non entrava in
scena uno di quei ragazzi maligni e perversi, che poi lo restano per
tutta la vita. Né mai ho subito una violenza fisica se non quando
presi un pugno alle spalle da un neofascista, colpito dal colore rosso
del mio giubbotto.
A parte qualche rissa nelle manifestazioni sciolta coi lacrimogeni
non ho mai assistito ad aggressioni crudeli, fatta eccezione per
qualche decina di migliaia di omicidi in televisione, che non sono la
stessa cosa. E lo stesso vale per la gran parte delle persone che
conosco.
E tuttavia la nostra società è molto violenta, anzi la violenza si è
addentrata nelle anime, mascherandosi con le forme di educazione
sociale e di civiltà del buongiorno e dello scusi e prego. Ma è la
stessa, né più né meno, sperimentata durante le guerre mondiali. Il
fatto che oggi restiamo in vita non ci rende integri e veramente in
salvo. Basta guardare le nostre anime per restare di sasso.
E questa violenza segreta impedisce l’affermarsi della democrazia in
Italia, che resta in gran parte un gioco per adulti. Una violenza che si
esprime nell’aridità, nell’omicidio più vile che ci sia, ogni giorno
perpetuato con cattiveria pura e irriducibile, che nel corso di una vita
compie una strage, di cui nessuno ci può imputare, e che non fa più
danno solo per la pari aridità e indifferenza degli altri.
Posso testimoniare che nei luoghi di lavoro esistono tra noi persone
che possono non stabilire un contatto umano elementare con
nessuno senza soffrirne minimamente, anzi con sostanziale
gratificazione. E lo stesso ovunque: negli ospedali, nelle banche,
nelle aziende. In queste ultime è vero che la competizione è
maggiore e quindi le cattiverie sono più espresse e dure, ma almeno
uno spettro di passioni, benché torbide, riesce a manifestarsi,
tingendo di umano gli esseri più schivi e autocratici.
229
Ma dove tu puoi chiuderti in un’aula, dominando la platea, in un
lavoro del tutto isolato e autoreferenziale, nutrendoti della polpa
giovanile e governando la situazione a porte chiuse, la tendenza
animalesca a rintanarti e cadere in letargo diventa anomala e penosa
per la creatura.
A questa guerra fredda, a questa pace fredda, bisogna rispondere
con l’iniziativa amorosa. Un amore ironico e tagliente, se necessario.
Con la provocazione, col tessuto pazienze di un’amicizia minimale,
con l’interesse per la vita privata altrui, per quanto indifferente e
faticoso ne sia l’ascolto.
Pneuma
Un amico disse, riferendosi a un ateo generoso: “Lo spirito soffia
dove vuole.” Alludendo a un suo cristianesimo involontario. Il fatto
è che il cristianesimo lo è sempre.
Vizio prospettico
Quando guardi balconi bui dalla tua stanza illuminata credi che gli
altri non ti vedano, invece loro ti vedono e tu no. Quando guardi
una finestra illuminata da una stanza buia, credi di essere visto, e
non lo sei.
Così quando gli altri sono in silenzio e tu fai molto rumore credi che
non ti sentano e di essere tu cosciente del loro silenzio, mentre sono
loro a soffrire del tuo rumore.
L’animale del mondo
Parliamo di Keplero come uno dei primi scienziati moderni e lui
credeva che i monti fossero le vesciche della terra dalla quale sgorga
la sua urina di fonte, che i vulcani fossero i suoi culi e che le cicale
fossero squame staccate della sua pelle. Che la terra sia un immenso
corpo vivente lo credevano anche Platone nel Timeo, Cicerone (De
natura deorum, II, 8), Ovidio nelle Metamorfosi (XV, 342), Seneca
230
(Naturales quaestiones, VI, 16, 1) e tanti altri fino al nostro
Rinascimento e all’apoteosi di Giordano Bruno. La teoria seducente
e istintiva riaffiora in Schelling, occhieggia in Schopenhauer, si
ripresenta con l’organicismo tedesco. Fechner trova naturale parlare
di un’anima delle piante, e allora perché non dell’intera terra?
L’anima mundi, l’anima terrae riaffiora col suo fascino antico ogni volta
ci si accorge che abbattere la foresta amazzonica intacca il clima
europeo e in mille altri casi.
Non è una teoria scientifica ma è una convinzione istintiva
poderosa. E noi oggi sappiamo fin troppo bene che la scienza non è
tutto, ma ci dà soltanto una porzione della verità. E che tanto più sei
scienziato, tanto più vuoi essere libero di ospitare nel tuo spirito il
mistero di ciò che non sai e non potrai mai sapere per via empirica e
dimostrativa. Tanto più sei scienziato, a dirla tutto, tanto più una
parte del tuo cervello folleggia in modo incontenibile, oggi come ai
tempi di Keplero.
Di questo passo puoi farti una dea della natura. E sarebbe ridicolo.
O no?
Goethe scrive che siamo panteisti di fronte alla natura, politeisti in
poesia e monoteisti nella morale.
Vi sono tuttavia ecologisti peggiori dei musulmani più dogmatici, i
quali ritengono la terra sacra e gli uomini profani. Manifestano un
disprezzo cataro per ogni nostro intervento sul pianeta e sognano di
impastarci con la materia oppure di trasformarci in spettatori
invisibili e aerei che osservano la natura attraverso strumenti
sofisticatissimi e delicatissimi, senza contaminarla. Ma Fechner
potrebbe ricordare a questi imam della natura che è grazie al nostro
respiro che le piante vivono. Noi uomini siamo indispensabili alla
sopravvivenza del pianeta.
Durante la prima guerra mondiale a Porto Maurizio hanno distrutto
un milione e mezzo di olivi, perché il legname valeva più dell’olio.
Anche le piante hanno dovuto dare il loro tributo alla patria.
231
Più ragionevole è pensare che noi uomini non possiamo andare
contro la natura, neppure volendo e che forse ogni nostra violenza e
trasgressione dell’equilibrio è già dalla natura stessa studiata per
scopi che non possiamo conoscere.
Parliamo di sete di potere, di cieca violenza, escogitiamo bombe
nucleari e all’idrogeno, asfissiamo il cielo con gli ossidi e i carburi, e
tutto questo rientra in un piano oscuro della natura per equilibri che
ci sfuggono.
Sessantacinque milioni di uomini vengono uccisi in due guerre
mondiali. E anche questo rientra in un progetto arcano della natura.
Terribile pensarlo.
Non basta pensare che la terra abbia un’anima. C’è da sperare che
sia buona, a noi benigna e favorevole. Ma potrà mai esserlo a
ciascuno di noi? Penso proprio di no.
Quello che intanto possiamo fare è ascoltare la natura dentro di noi,
il conatus originario, e avere una grande pazienza. Tutti i nostri mali,
come dice Kafka, provengono dall’impazienza.
Quando sei in ritardo, rallenta il passo
Così dice uno dei “pensieri improvvisi” di Andrej Sinjavskij, in altri
casi troppo febbricitanti per me. Quando ascoltiamo una persona
parlare lentamente, pensiamo che abbia una lunga vita davanti e un
vasto spazio attorno. Rallentando, guadagniamo tempo. Quando
siamo in autostrada e deceleriamo, impieghiamo più tempo ad
arrivare, stando all’orologio, ma molto meno nella nostra percezione
soggettiva, quella che conta in questo caso.
Mentre più acceleriamo più accelera con noi anche il tempo, e pochi
secondi diventano interminabili. La meta inoltre, accelerando, si
carica si significati fasulli mentre il viaggio diventa un mero
strumento, una vita cava e sorda senza senso se non nell’eccitazione.
La velocità dei nostri tempi fa sì che ciò che verrà diventa lo scopo e
ciò che è adesso il mezzo, mentre rallentando si inverte il rapporto
ed è scopo quello che sto vivendo nel momento presente e mezzo
ciò che dovrò fare o il luogo in cui dovrò arrivare.
232
Mistico è colui che inverte il mezzo e lo scopo.
Qualità e quantità
Volponi mi disse con un gesto largo di sgomento: “Ci sono troppi
poeti oggi in Italia.” Lui in quei giorni leggeva Plutarco. Ci sono
troppi contemporanei. Chi legge solo i contemporanei vive in una
sola dimensione, in un paese più piatto di Fatlandia.
Con mestizia dobbiamo dire che i migliori scrittori e i poeti di oggi
sono mediamente meno potenti di quelli all’apice dieci anni prima,
che erano un decimo; e questi di quelli di venti anni prima, che
erano un ventesimo. In Italia la generazione dei romanzieri nati negli
anni 30 del Novecento, raddoppiando di numero, già manifesta i
primi segni di svigorimento. Che diventano più manifesti nei nati
negli anni 40, quadruplicati di numero. Oggi il valore medio dei
narratori è artigianalmente assai buono, tanto che fai fatica a trovare
un libro indegno, ma la gran parte di loro è poco colta, poco
profonda e poco onesta con se stessi e con gli altri.
Ciò accade perché tutti concorrono a scoraggiarti dal diventare più
colto, profondo e onesto. Tutti vogliono che tu non lo diventi. Tutti
abbiamo paura che ci sia uno più bravo, perché nessuno sarà più
vero di noi. Anche se tutti di nascosto ci consideriamo dei geni in
potenza.
Ciò che vince oggi in letteratura è la capacità di trovare una nicchia
di mercato, come nella vendita dei mobili o dei frigoriferi. Questo è
normale in una economia capitalistica. Quello che non è normale è il
consenso, la volontà generale che sia così.
Il capitalismo naturale
Il capitalismo, come ogni altra forma economica, è un fenomeno
naturale, che prosegue l’opera della natura con lo stesso cinismo e
indifferenza al singolo. Da qui la sua potenza e capacità di rinascita.
233
La politica dovrebbe tamponare le ingiustizie e le violenze che
l’economia, come prosecuzione della natura dentro la civiltà,
produce sempre di nuovo, invece ce la fa sempre meno, si piega, si
inchina, diventa anch’essa natura. Presto intorno al Parlamento
cresceranno le erbe selvatiche, le radici spaccheranno le pietre, le
scimmie salteranno sugli scanni, i boa stringeranno le gambe dei
deputati in una morsa. Il soffitto scoperchiato, la pioggia battente
farà marcire i banchi. Al freddo e senza mangiare che bacche i
deputati voteranno le decisioni prese nei grattacieli di cristallo delle
multinazionali, delle grandi compagnie finanziarie, delle cupole
mafiose.
24 gennaio
La forza dell’immaginazione
La forza dell’immaginazione, Einbildungkraft dicono i tedeschi, cioè
la capacità di immaginare. Che cosa? Un’altra vita, un’altra società,
un altro mondo. Tutto il contrario di quel sogno a occhi aperti,
coatto, indotto dalla televisione e dal cinema. Un sogno collettivo
nel quale già i ragazzi si sentono rassicurati leggendo tutti insieme lo
stesso libro, Twilight, guardando lo stesso film, cantando le stesse
canzoni. E i loro padri vedendo la stessa partita, comprando la
stessa auto, sognando la stessa pensione. Non esiste neanche
l’immaginazione di una società diversa e migliore della presente,
mentre negli anni 60 e 70 di continuo la città presente era messa in
gara con la città immaginaria, la società presente con la società
immaginaria, la donna o l’uomo presenti con quelli assenti e
immaginari.
Oggi nel letargo dell’immaginazione si aggirano i fantasmi innocui
indotti da un mercato i professionisti bravissimi e spregiudicati, che
passano per i soli democratici, perché rispettano e amano il pubblico
che compra i loro prodotti e non direbbero mai che l’uomo-massa
non capisce niente, come fanno coloro che vogliono educare un
gusto, un giudizio, l’energia di immaginare. Ognuno vive soltanto la
234
sua città, la sua società, la sua donna o il suo uomo, e vi sprofonda
dentro pacifico e sorridente, turbato da allarmi incomprensibili.
Aporie italiane
Il modo migliore per fare accettare il mondo come è, è di far
sussultare con paure continue, che si rivelano falsi allarmi, per far
continuare a godere, o a sopportare, la vita com’è. La nevicata
scatena l’allarme rosso, l’epidemia un panico effimero. Gli alpinisti
muoiono con ritmo regolare, come cadono le valanghe, a conforto
di chi sprofonda in poltrona.
Milioni di italiani non arrivano alla fine del mese, e non hanno
bisogno della televisione per saperlo. La notizia serve a coloro che ci
arrivano, si confortano e non chiedono nulla di più.
Sulle strade incidenti quotidiani, contro i quali non si fa nulla, perché
nei tempi di crisi e di paura, i sopravvissuti si stringano ai loro cari.
In ogni città assassinii sempre misteriosi, che vengono analizzati,
seguiti e coccolati per mesi e mesi perché chi ancora non ha ucciso o
non è stato ucciso mediti sulla sua fortuna I quotidiani incidenti sul
lavoro ci riportano ai tempi pioneristici e crudeli del capitalismo, che
in realtà non sono mai passati. Si tranquillizza il mostro che non
rischia, non uccide, non fa lavori pericolosi.
Gli ospedali, le scuole, le aziende, le amministrazioni che funzionano
non vengono mai nominate perché i più non sopportano qualcosa
che vada bene. Non potrebbero più lamentarsi, deplorare, sdegnarsi,
accettare quello che ogni giorno va male. I mediocri vogliono che le
cose vadano male.
Di scienziati, artisti, scrittori, architetti, pittori, poeti non si parla
mai, se non di quegli attori, rappresentanti di se stessi, Cagliostri,
paraninfi, e imbonitori che sanno eccitare un pubblico televisivo
con dichiarazioni drastiche e brillanti. Gli italiani odiano chi eccelle
o chi fa serenamente bene il suo lavoro.
Le profonde verità delle vita vanno dette per scherzo, con aneddoti
gustosi e preferibilmente da comici, uomini di spettacolo, cantautori
235
profetici. Molto pregiati i calciatori quando sono in momento
meditativo e pronti a darci semplici moniti per il popolo contrito e
solidale. Le parole degli arbitri sono molto meno gradite di quelle
degli allenatori, epici Ahab ritratti nel loro sguardo sprezzante a
comando della baleniera, o quando pronunciano poche ruvide
parole che toccano i cuori pazzi della ciurma.
Intanto nell’ombra, a luci spente, nei laboratori, negli atelier, nelle
palestre, nelle fabbriche, nella camera solitaria, milioni di anonimi
banditi dalla piccola scatola colorata lavorano perché la mongolfiera
dell’Italia non vada a picco. Non sanno neanche loro perché lo
fanno, sono fatti così e non hanno neanche voglia che se ne parli.
Sanno che devono restare nascosti perché l’odio sociale, il rancore
dell’uomo massa è peggio dello tsunami.
L’animale strano
L’uomo: un animale nato per fare qualcosa che non sa fare.
Epistolario
Scorrendo le lettere che ho ricevuto noto che le stesse persone
scrivono, col passare degli anni, con caratteri sempre più piccoli.
Raggiungono una misura giusta nella mezza età e, soprattutto se
diventano vecchi gloriosi, usano una grafia minutissima, quasi
microscopica. Per scomparire o per rendere il loro tesoro sempre
più inaccessibile, nel gesto di offrirne qualche moneta a un altro? O
per un crescente senso di insicurezza, di parsimonia, di insufficienza
dei detti?
Alcuni scrivono in modo indecifrabile, quasi a preda a raptus, nella
foga di bruciare in pochi secondi un messaggio. Oppure buttano giù
segni inesistenti nell’alfabeto italiano come se fossero clandestini in
regime totalitario. Ciò che conta è lo stigma della loro firma. Si crea
così una piccola leggenda e, mentre l’uomo vorrebbe sparire, il
personaggio cresce.
236
Quando sei al buio tu scrivi con caratteri più grandi.
Ci sono quelli che prendono in mano la lettera che hai scritto loro e
rispondono punto per punto educatamente, dicendo quello che
chiunque potrebbe già sapere, concludendo con un saluto cordiale e
misurato. Ti hanno risposto per buona educazione. E io li apprezzo.
E ci sono quelli che ti mandano sette o otto pagine di riflessioni
articolate, di fronte alle quali diventi un pubblico lettore. E in fondo
queste sono le vere lettere.
Per il resto si procede con gli email, ora ridotti a mail. Nessuno
potrà mai raccoglierle in un volume, magari un giorno potrà metterle
on line. E vagheranno anch’esse, come milioni di Ufo in orbita
intorno alla terra, nella navigazione aerea e cosmica delle nostre
parole dilapidate. Anzi, lapidate, nell’atmosfera.
Paradossi oggettivi
Avremmo bisogno di un nemico, possibilmente di un grande
nemico, per migliorare e crescere.
La fama non spetta ai migliori, il successo cade sempre nelle mani
sbagliate. Ma se questo lamento nasconde un desiderio di fama
frustrato, una speranza di successo mortificata, l’autore diventa
ridicolo e patetico. Tu potrai ascoltare soltanto la critica di chi la
fama e il successo rifiuta. Ma allora potrà essere soltanto il libro di
un morto.
Volevano fare di Cristo un Re, scrive Kierkegaard, e lui scelse di
essere crocifisso. Non fu crocifisso contro la sua volontà mentre
avrebbe voluto diventare re. Se tu, uomo piccolo che hai preso
Cristo a modello non scegli, ma ti farai trascinare dal bene, non sarai
nessuno.
Se tu pensi che un tuo libro possa giovare agli altri, mettiti alla
prova. Pagane tu la stampa. Se ci tieni più a qualche migliaia di euro
in tasca, vuol dire che credi che giovi soprattutto a te.
237
Diffusa invece è la mentalità opposta: un vero scrittore non paga i
suoi libri. In realtà quasi tutti lo fanno ma, d’accordo con l’editore,
non lo direbbero mai. Altri, pochissimi, vengono pagati, e allora
diventa una professione. E, se sei cosciente dei tuoi mezzi e dei tuoi
scopi, ti vergogni che altri trovino tanto bravo un così piccolo
scrittore. Per questo Kierkegaard voleva pagarsi i libri che
pubblicava e giudicava disonorevole che ci pensasse l’editore.
Tanto più è letto il tuo libro tanto meno tu esisti.
Se vendi un milione di libri, non per questo sei un piccolo scrittore.
Non sei neanche però un grande. Piccolo o grande lo eri già prima e
lo resti anche dopo. Se vendi molto vuol dire soltanto che hai
soddisfatto i bisogni dell’animale massa per due o tre ore. Ma quello
stesso animale, tornando uomo, ti possiede interamente. E sei nelle
sue mani comunque.
Diventando stupido mentre legge, torna intelligente quando smette.
Così idiota da diventare un genio. Così genio da diventare un idiota.
Scrivere è prendere al volo i pensieri mentre stanno per annegare. O
sono loro che salvano te?
Il diritto che Dio ci ami
Quanta disperazione, solitudine, paura per avere il diritto di pensare
che un essere onnipotente e perfetto ci possa amare. E quanta fatica
per ottenere che nel momento decisivo ci dia la mano, ci scorti dove
nessuno sa se esiste qualcosa.
Salvarsi soltanto se se ne è degni, questo nessuno vuole accettarlo.
Dio ci dovrebbe salvare perché è buono, perché esistiamo, perché
soffriamo, perché siamo fragili e insicuri. Sicuro che basti? Non è
più bello, umano e giusto tentare di meritare la mano che ci
potrebbe venire dall’alto?
238
Ma noi oggi ci sentiamo troppo indegni, ci vergogniamo di noi stessi
e allora facciamo la voce grossa, imprechiamo, ridiamo,
rivendichiamo mentre dovremmo agire nel bene e scegliere.
La persona che ho mai trovato più affine a me, benché la cosa non
mi faccia troppo piacere, è Kierkegaard. Quando leggo i suoi
pensieri, essi sgorgano dalle mie vene. E non mi fa piacere perché
non mi fa piacere essere io, essere responsabile, dover scegliere io.
Perché ci hai creato così: un essere fortunato e sfigato, disperato e
soddisfatto, geniale e idiota, amante del piacere e del dolore, forte e
tremante, spregiudicato e vile. Perché ci hai creato così? Per
divertirti a vederci vivere? Non credo proprio, perché siamo tutti
così, e Dio certo si accorge come nell’infinita diversità noi siamo nel
profondo tutti uguali e sempre gli stessi.
Che sei il sommo artista, lo vediamo. Che sei il sommo scienziato è
evidente. Ma c’è un bel contrasto col male che viviamo. Valeva la
pena fare miliardi di galassie perché un operaio di trent’anni con un
bambino piccolo precipitasse da un’impalcatura? È terribile questo
contrasto e il fatto stesso di averlo pensato fa male.
Per il bene di Dio e nostro, devo scegliere. Se infatti non ci fosse un
altro mondo Tu non saresti buono. Quindi deve esserci. Non si può
bruciare tutto qui, nella lotteria universale. Non posso essere neutro,
non posso essere agnostico, per questa esatta ragione. Io devo
credere, altrimenti sono complice. Eppure sono così piccolo, così
ambiguo, così furbo. È sicuro che io possa scegliere?
È Dio che sceglie dentro la tua scelta. Non puoi farcela da solo, se
sei onesto. Uno viene chiamato, questo è evidente.
Sorridendo paterno un amico mi dice: Io sono ateo e non riesco
neanche a concepire questa problematica, piuttosto malsana
secondo me.”
Confesso che coloro che si dichiarano atei io non li stimo molto
intelligenti, però riconosco che hanno fegato e sono ben costruiti.
Inoltre sono migliori di me in quanto la possibilità oscena di un dio
cattivo non passa loro neanche per la testa.
239
E tuttavia come fanno ad accettare un mondo assurdo e ingiusto?
Questo il mio amico me lo spiega alzando le spalle e dicendo:
“Tanto”.
È un fatto che esistano però atei geniali, come Philip Roth. Bisogna
rassegnarsi al fatto che esistano forme concorrenti e contrastanti di
intelligenza o che, quando abbiamo la sensazione che qualcuno non
sia intelligente, se è vero che il simile conosce il simile, essa è
prodotta da un deficit dell’intelligenza nostra.
L’ateismo è una condizione naturale, come essere maschio o
femmina, alto o basso. Che senso ha dichiararlo? Come se uno
dicesse: “Ho due gambe e due braccia.” Il problema è cosa farne.
Altri lo spiegano uccidendosi. Per me è evidente che saranno tra i
primi a salvarsi.
E tuttavia può uccidersi solo chi non è amato da nessuno, perché
altrimenti il suicidio è sempre anche un omicidio.
Esiste chi non è amato da nessuno?
L’ateismo oggi dominante è quello pratico. Non già il sostenere con
qualsivoglia argomento che Dio non esiste ma credere e comportarsi
in base alla convinzione tenace che questo sia l’unico mondo,
stringendo la radice di una pianta che sembra il mondo e invece è la
nostra vita; non soltanto, che conti solo l’ora presente, il trionfo
attuale.
Ma attenti, ogni istante in cui vivo trionfo sulla morte. Ma è trionfo
illusorio, non solo perché perderò la guerra sicuramente, così
ragionando, ma perché anche il dolore, l’angoscia, la solitudine
trionferanno così in questo preciso istante.
Della nostra cattiveria più profonda non ci accorgiamo mai.
Non puoi scrivere se non sei cattivo, e non sai di esserlo. Ma dentro
una più profonda bontà, altrimenti non è il tuo mestiere.
240
La mia fede è morale e kantiana: Dio deve esistere ed essere giusto e
buono. È un postulato pratico. Una fede morale tuttavia è forse un
antidoto all’amore?
La sentinella che guarda il nemico fuori e dentro.
La sposa rifiutata per sempre. Il capolavoro rifiutato per sempre. La
creatura rifiutata per sempre.
Kierkegaard non filosofava soltanto sulla scelta, sceglieva pure. Non
si è fatto prete, non ha sposato Regine. Queste sue scelte tuttavia
sono negative. Ha scelto la fede: questo è in positivo. L’ha scelta
come scrittore e uomo solo: questo è impressionante, perché uno
deve scegliere esattamente in quello che è.
Ha dato del tu a Dio: sarebbe sfrontato se non fosse ridicolo. La
sproporzione lo fa scoppiare. Può farlo soltanto chi ama. È talmente
stravolto d’amore che non s’accorge della spavalderia.
Con i miei studenti ragioniamo spesso, attraverso lo studio dei
filosofi, di questi problemi, con somma naturalezza, e a nessuno di
noi pare strano. Perché allora quando lo faccio da solo mi vergogno,
mi sento losco e arrivo a temere misteriose rappresaglie. La colpa
non è nel pensarle e nel dirle ma nel farlo da solo. C’è una persona
cara di là e tu invece di correrle incontro ti trastulli con pensieri
solitari.
Il pensiero, come l’amore, si dovrebbe fare in due.
L’uomo solo non è mai degno di pronunciare il nome di Dio, a
meno che non preghi o non ami. L’uomo solo è un altro, proprio
perché è universale. Il pensiero si impossessa di lui. E il pensiero è
una strada tra le più importanti, ma da percorrere sempre insieme
alle altre, altrimenti ti percorre essa.
Camminare su due strade opposte nello stesso tempo: questa è la
differenza dell’anima rispetto al corpo.
25 gennaio
241
Intermezzo
Si svegliò nel solito paese mostruoso, già deluso da amici e
sconosciuti, che continuamente tradivano e mentivano, raccolse le
sue ossa e le mise sotto la doccia. Era chiaro che tutto sarebbe stato
per sempre lo stesso, che gli stessi amici avrebbero tradito nello
stesso modo e gli stessi sconosciuti avrebbero mentito nello stesso
modo. Come lui. Che dopo la sua morte sarebbe stato come prima,
che durante la sua vita sarebbe stato come dopo.
La pioggia che cadeva da settimane avrebbe continuato a cadere per
millenni e un altro scrittore con un diverso nome, ma sempre lui
stesso, avrebbe ricominciato l’apprendistato del dolore, cambiando
soltanto il paesaggio.
Mancava sempre meno al momento in cui sarebbe dovuto andare a
lavorare, venti minuti, quindici, dieci. Si asciugò i capelli senza
pettinarsi. Mise il portafoglio nella tasca della giacca. Sotto casa
scambiò un saluto col commerciante di abbigliamento sportivo, un
tempo calciatore del Bologna. Erano due uomini molto gentili e
sorridenti. Avrebbero sorriso per tutto il giorno, facendosi la fama di
persone calme.
Quando girò la chiave nel cruscotto l’evidenza del dolore nel mondo
assunse un’aria agonistica e prese l’odore di radica del cruscotto.
Mise un cd di Paul e guardò i moti finalistici degli abitanti della
piazza. Per qualche secondo uscì dal tempo. Quando vi fece rientro
lasciò che la testa andasse in letargo.
Gli succedeva così, si lasciava infeltrire dal torpore, diventava arido
perché il minimo gesto di generosità e di gratitudine verso qualcuno
lo feriva. Avrebbe vissuto la mattina col pilota automatico.
Il negoziante gli faceva provare una felpa in sconto pensando le
stesse cose, ma con le braccia e la schiena, che gli doleva, come a
molti calciatori con l’età. La pioggia era eguale. A sera questa
eguaglianza si rivelò dolce e piena di stupore.
242
Mondanità letteraria
Anche scrivere un saggio su uno scrittore o un poeta è un gesto di
generosità e gratitudine, prima di tutto verso colui sul quale si scrive.
È un gesto che dura mesi ed esige o una soddisfazione recente, che
fai rilucere su un altro, o un forte dolore dal quale stai guarendo.
Questa condizione alcuni la chiamano ispirazione. Ed a ragione,
perché sei così libero da te in quel periodo da poter ospitare un
altro.
Non pensare è il primo requisito richiesto a un narratore di oggi. E
possibilmente aver fatto lo scaricatore di porto a San Francisco o il
camionista per un’agenzia di Liverpool. Se donna, va bene la
giornalista ma, mi raccomando, freelance.
Se lo scrittore ha studiato per gran parte della sua vita è per quasi
tutti una sicura minaccia di noia e deve stare bene attento a non
farlo sapere a nessuno, pena l’embargo nazionale.
Si legge nei risguardi dei romanzi: vive tra Parigi e Nizza, tra Torino
e New York, tra Londra e Firenze. Uno scrittore che si rispetti vive
sempre tra due città.
L’immaginazione è la prima cosa che si corrompe. Quella degli
italiani è devastata, per questo non riescono a leggere buoni libri e
soprattutto a vivere una buona vita. L’ultima salvezza sta nel
pensare. Ma ci si arriva quando tutto è perduto.
Egocentrismo
Ogni italiano, e forse ogni occidentale, è avvitato oggi nel più
sfrenato egocentrismo, del tutto indipendentemente dal valore della
persona, dalla gravità dei suoi problemi, dagli ostacoli delle sue
giornate.
Se un uomo ne uccide un altro pretende pietà per sé, per quanto la
sua vita se ne è fatta complicata. Se un grossista imbroglia un
commerciante non si preoccupa del danno che ha inferto ma della
propria miseria che non è riuscito in nessun modo a risanare con
243
tutte le sue truffe. Le quali se avessero avuto successo l’avreste visto
tutto pimpante, spavaldo e del tutto privo di rimorsi. Se una donna
tradisce un uomo si compatisce per la propria vita dilapidata e gli
rinfaccia l’agitazione nella quale il tradimento l’ha messa.
La morale, anche la più stupida, ha da sempre esercitato un freno
salutare all’egocentrismo, come il pudore, anche il più ridicolo, ha
spinto a interrogarsi sulle proprie mancanze, aprendo gli occhi sul
male che facciamo ad altri senza più neanche accorgerci.
Ma la morale e il pudore suonano come anticaglie insufficienti per
calmare un’infiammazione impossibile ormai da lenire.
Così il dolore e l’angoscia che si provano nel fare il male vengono
addebitate ad entità misteriose e a volte alle stesse vittime. Giacché
se abbiamo fatto del male a qualcuno, se l’abbiamo ucciso, tradito,
imbrogliato, vuol dire che abbiamo visto in lui una minaccia, una
deficienza, una colpevole debolezza che poi non è giusto ricada su di
noi, che abbiamo agito col nostro infallibile istinto, per tentare di
risolvere il problema.
L’istinto è la forza misteriosa e infallibile nella quale gli italiani
credono ciecamente, fermo restando che un genio misterioso li ha
favoriti tutti, tanto riccamente dotandoli. Così in tutti gli sceneggiati
televisivi è un dogma che si debba agire in ogni situazione per
istinto. E se qualche personaggio prova a riflettere su qualcosa,
subito tutti gli si avventano contro spiegandogli che sbaglia e deve
abbandonarsi al suo mirabolante intuito, alla sua intuizione geniale,
al genio amico che madre natura ha fornito a lui e a tutti per
destreggiarsi negli imbrogli che il vizio del pensiero continua
ostinatamente a provocare.
Questa fiducia nel proprio genio è una delle cause che rende
qualsiasi decisione politica arbitraria e dannosa e qualunque tentativo
di organizzazione sensata della vita pubblica una mera chimera. Di
istinto in istinto, una famiglia animale in cui ciascuno forma
l’esemplare unico di un genere, l’infinita varietà della natura si
dispiega, trasformando la società in una giungla e la famiglia in una
voliera.
244
Kierkegaard dice giustamente nei Diari (X, 1853-54) che la morale
dell’ascesi di Schopenhauer è una forma geniale di autodifesa. Ma
essa esclude dall’orizzonte tutti quegli uomini per i quali lui stesso
diceva si debba provare compassione. E compassione, o simpatia, la
puoi provare soltanto provandone le stesse passioni. Ma se nell’acesi
non le provi più bruci ogni compassione per il genere umano.
Se una morale è geniale, conclude Kierkegaard, come lo è quella di
Schopenhauer, allora è amorale.
Il consiglio
Spesso qualcuno ti chiede un consiglio, mostrando una sincera
considerazione del tuo parere. Ma il più delle volte desidera soltanto
un conforto a una decisione già presa. Prova infatti a dire qualcosa
in contrasto con quello che l’amico ha deciso e lo vedrai non
soltanto fare l’esatto contrario ma provare verso di te l’irritazione e
la delusione per il fatto che non hai saputo capirlo.
Infine tu gli diventerai nemico in ogni caso perché, andandogli bene
le cose nel modo da lui scelto, figurerai come colui che osteggiava di
nascosto il suo vantaggio. Andandogli male, non penserà che tu
avresti voluto salvarlo dal danno ma ti assocerà agli effetti sgradevoli
della scelta come se fosse colpa tua.
Se infine asseconderai quello che ti sembra il suo desiderio, come da
qualche segno potrai tentare di capire, passerai per uno che in fondo
non si interessa della sua sorte e che non si investe dal di dentro
delle sue preoccupazioni.
L’amico del negoziante
Quando diventi amico di qualcuno che ha un negozio che vende
qualcosa che compri abitualmente, per esempio cibi o vestiti, tutti i
vostri rapporti si svolgeranno nel negozio e, benché tu non te
accorga, saranno regolati dall’entità degli acquisti che compi. Un
periodo di pure conversazioni, ma senza acquisti, verrà letto come
245
una deplorevole freddezza e una fase di spese vigorose come un
gesto di fraterna amicizia.
Questo effetto si produce, ben più gravemente, ogni volta che
un’amicizia è sbilanciata, il che occorre abitualmente, con uno che
chiede sempre e con l’altro che dà sempre, finché il non dare una
volta dopo aver dato novantanove suona imperdonabile, e il dare
una volta dopo aver chiesto novantanove, sembrerà un gesto che
vale per cento, benché compiuto una sola. E a fatica verrai
accontentato.
Smetti di dare e vedrai sparire colui che chiedeva. Smetti di chiedere
e vedrai sparire colui che dava.
Questo dipende, oltre che dall’interesse, dal bisogno di ruoli fissi e
ricorrenti che ricerchiamo nelle nostre relazioni, dal che si induce
che è bene definire sempre e fin dall’inizio il ruolo in cui vuoi
sperare di essere considerato, perché dopo non ti riuscirà più di
cambiarlo.
Quando chiedi un favore a qualcuno, tu lo costringi non solo a
rivelarsi ma anche a dare il meglio di sé, a concentrarsi per radunare
le sue qualità migliori quando lo decidi tu, e a tuo favore.
Ecco che colui o colei che ti deve favorire viene stretto
istintivamente nella morsa di un tuo giudizio severo e disincantato,
sia per proteggerti dal rifiuto, sia e soprattutto perché soltanto
quando gli chiedi qualcosa ti comparirà davanti nudo e crudo.
Mentre la nudità di chi chiede è sempre vestita dal bisogno e
dall’umiltà, anche forzata.
Il modo migliore per verificare se sei amico di qualcuno è se lo
cerchi anche quando non ti serve a niente. Se parli con lui
oziosamente.
Segna i gesti di amicizia che hai ricevuto perché tendiamo sempre a
ricordare i nostri crediti.
246
Non è vero che gli altri non fanno nulla per noi. Non fanno quello
che esattamente vogliamo nel momento preciso in cui lo vogliamo.
Chi chiede sempre qualcosa agli altri ha sempre una profonda scusa
da far valere: o l’età avanzata o l’infanzia infelice, o i rovesci
economici o uno stato di malinconia che specialmente dagli scrittori
e poeti, essendo il combustibile naturale della loro attività, quando
non è sovrastante e genuino, è sempre usato per ottenere favori,
consensi, o almeno un semplice ascolto.
Per questo rispetto le persone limpide che non simulano una
depressione che scompare appena ottenuto lo scopo e fingono
semmai un’allegria che non provano e una scioltezza che non
posseggono, soltanto per non sembrare di ricattare gli altri con le
loro pene.
Quando proprio non ce la fai più, quando proprio sei disperato, è
allora che perdi il tuo pudore e ti offri inerme e nudo con la
bandiera bianca, affinché il cuore indurito di chi pensi ti possa
aiutare si sciolga allo spettacolo della tua sconfitta. E dopo è tuo
dovere continuare ad essere dolente, affinché non si pensi che sia
stato tutto un teatro, e continuare a essere sconfitto, per non parere
di voler vincere di nascosto.
Così dei dolori veri provati da una persona, solo una minima parte
è sincera, la gran parte servendo a non farsi invidiare, odiare, colpire
dagli altri oppure a impietosirli, muoverli verso di noi, ottenere dei
favori, farci perdonare un torto, millantare una grandezza d’animo di
fronte al dolore del mondo di cui possediamo solo un’ombra.
28 gennaio
Maratona morale
Nella media alternanza di aridità e chiusura in se stessi e contro tutti,
e di apertura e generosa domanda e pazienza verso il prossimo,
qualcuno si distingue per una maggiore costanza nel compiere azioni
che si rivolgano ad altri. Magari con una vaga malinconia e
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rassegnazione dell’amor proprio, nutriti tuttavia da un sincero moto
del cuore o da un persistente senso del dovere.
E questo viene dagli altri riconosciuto, con stima e con un filo di
tristezza, sia verso di loro, che figurano leggermente patetici, perché
il loro impegno riesce a spostare appena di un milligrammo la
bilancia morale verso la fiducia nella capacità di bene dei nostri
simili, sia perché nulla cambia della propria sorte quando è un altro
ad essere beneficiato. E neanche quando lo sei tu stesso.
Per raggiungere un rispetto completo e duraturo bisogna resistere
per anni, per decenni, e stare molto attenti verso il crepuscolo della
propria vita perché basterà un solo gesto difforme, un solo periodo
critico, sia pure di dolore e di indifferenza riflessa, per pregiudicare
l’immagine di sé con tanta fatica, granello su granello, e con tante
rinunce, edificata.
I più infatti aspettano al varco l’uomo presunto retto e si placano
soltanto quando lo vedono cadere, benché ne restino intristiti e
delusi, o se non cade mai.
Pulsione vegetale
C’è nel genere umano una profonda pulsione vegetale: verso il
vuoto, il sonno, il silenzio, l’annullamento, l’inerzia, la inazione,
l’inattività fisica e mentale, che genera un impasto sociale torpido,
una sabbiatura invisibile che rallenta il passo, che frena i moti
dell’animo, che paralizza i gesti, come fossimo animali nello zoo, che
non saprebbero più guadagnarsi da vivere in libertà ma non si
trovano bene nelle gabbie.
Il più potente glorifica sempre il presente
Un governo contribuisce a distruggere ogni speranza nell’avvenire,
glorificando il presente e deridendo con la sua ottusità brillante ogni
immaginazione di un’altra società e di un altro mondo.
Il governo che esalta il presente si rivela quello di un carnefice delle
anime, di un gasatore della vita spirituale, che ha trovato una falange
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di seguaci in uomini e donne allegramente morti, che scambiano
l’eccitazione e l’euforia con la felicità, e l’ottimismo dell’interesse che
difendono con quello della volontà.
Già malmessa, l’Italia ne ha ricevuto il colpo definitivo nelle sue
antiche radici e la quercia sta morendo mentre viene prontamente
sostituita da una copia in plastica illuminata dal vuoto dentro.
La malizia
Gli uomini amano in una certa misura sentirsi strapazzare, accusare
della loro malizia e debolezza, perché vi trovano le ragioni, visto
come è fatto il mondo, di avervi qualche speranza di forza, nel
primo caso, e di umana comprensione nel secondo.
Ma a condizione che siano mali ritrovati in tutti. Se anche
giudicheranno l’autore un pessimista, un misantropo o un
piantagrane, saranno sottilmente gratificati perché sarà rispettata la
più rassicurante delle idee sbagliate: che siamo tutti uguali.
Vi sono quegli esperti segugi, abilissimi nel rinvenire il germe della
malizia in ogni azione e pensiero umano e che, ragionando a freddo,
sulle nostre parole, anche buone e favorevoli, finiscono per trovare
prima o poi il filamento di male nascosto. Ma sbagliano se credono
che la malizia sia la molla segreta e vergognosa di tutti i
comportamenti umani, mentre invece l’arte della conoscenza degli
uomini consiste proprio nell’identificare il dosaggio del bene e del
male. Impresa prosaica e meno eclatante di chi dichiara che siamo
tutte belve addomesticate e meno esaltante di chi esprime una
fiducia incondizionata nella natura buona.
Così chi vede tutto malizioso sarà anche il più maligno e il più inetto
a giudicare i comportamenti mentre la persona clemente sarà anche
la più imparziale e giusta nel valutare la natura umana, avendo fatto
la paziente fatica di considerare che, sì, è vero, quella punta ironica
c’era, quel guizzo di invidia non mancava, quel pizzico di gioia del
nostro male era scappato al controllo, ma non svelava nessuna
marea di ostilità, nessun abisso di odio, nessuna infezione profonda.
249
Anzi la corrente principale ed espressa era tutta di bene, benché
trascinasse, come sempre, le nostre impurità.
Tanto più teniamo segrete certe spinte e ci idealizziamo, tanto più
troveremo persone inclini a giudicarci ipocriti e a vederci tutti al
nero. Arrendersi al misto, rassegnarsi al tessuto di bene e di male,
sapere imperfetti noi stessi come gli altri, è la prima condizione per
riconoscere il bene che ci fanno e che noi facciamo.
Ha ragione Leopardi nel dire che la gran parte delle azioni malvagie
e indegne non sono compiute con animo malvagio. Ma con
l’indifferenza, il torpore del cuore, la storditezza della mente. E che
la persona che ci ferisce e ci danneggia il più delle volte neanche se
ne accorge, o minimizza le conseguenze del suo gesto, sia per
ignavia, sia perché subito distratta da un’altra circostanza in cui si
comporterà con la stessa beata leggerezza che nella prima.
O si potrebbe dire che qualcuno diventa stupido al solo scopo di
poter colpire con cattiveria senza pagarne tutte le conseguenze’
Fumo e alcool
Se in un film, specialmente americano, un personaggio fuma è molto
facile che sia il cattivo, o comunque uno additato al disprezzo degli
spettatori. Ma se beve risulta essere un uomo forte, misterioso e
affascinante. Più o meno come figuravano fumando nei film di
qualche decennio fa i vari Bogart, Cooper, Gable, Grant. Tutti
fumavano e questo era un segno di una vita interiore complicata e
superiore. Così molte malattie tumorali vengono sventate mentre le
epatiti e i disturbi coronarici salgono alle stelle. Infatti quando si
attua una censura morale ed educativa in un campo bisogna sempre
lasciar scatenare un qualche altro vizio. Di qui discende anche la
tolleranza americana verso la obesità che pure è un lento suicidio
(quando non è metabolica), ma è rappresentata comicamente oppure
difesa come un diritto democratico.
La censura è connaturata a qualunque società. È facile dire che si
tratti del controllo esercitato dal potere per ribadire il morso della
250
sua autorità. E spesso è verissimo. Ma nelle società cosiddette
democratiche la censura è voluta dalla maggioranza della
popolazione che cerca compenso nelle sue frustrazioni dalle
privazioni inflitte a categorie di volta in volta scelte con qualche
legittimazione fondata o fittizia.
29 gennaio
Solitudine letteraria
La ricerca letteraria, come quella mistica, si svolge in solitudine. E
anche colui che ha fama, è visibile, riconosciuto, ammirato, deve
sempre tornare alla dura e amara sferza della sua anonima libertà di
pensiero se vuol dire qualcosa che sia un cibo naturale per gli altri.
Ma come la suora di clausura è sempre protesa verso gli altri nella
sua vita romita, altrimenti verrebbe meno la dialettica dell’amore, e
diventerebbe solo un’egocentrica viziata, così lo scrittore solitario
deve sempre popolare la sua mente e il suo stesso corpo con la vita
degli altri, altrimenti sarebbe un’anima secca che si compatisce senza
meritare né dare vera pietà.
In questa dialettica estrema non solo si deve chinare il capo più di
una volta ma non si può mai dimenticare che tu sei fatto con i tuoi
simili, e stai solo affilando le frecce perché un altro le scocchi.
Il fatto che non ci sia altra strada posso dire di averlo sperimentato
sulla mia pelle, essendo pieno dei lividi e degli ematomi per aver
voluto cozzare contro i muri invisibili che giustamente recludono
colui che ritenta i passaggi che per millenni hanno respinto gli
uomini e che per millenni li respingeranno. Così che tutto ciò che
non raggiungiamo, tutto ciò che non conquistiamo, e il prezzo di
dolore che ne deriva, è solo un sacrificio umano a un bene che ci
oltrepassa ma che ci attraversa in ogni goccia di sangue.
In questo cammino non dimenticare di sorridere, e senza ironia. La
malinconia d’amore che ne nasce verrà compresa, se non ti ci
specchi.
251
Essendo per molti la soluzione del senso della vita impossibile, ecco
che viene spregiato tutto ciò che è difficile, doloroso, faticoso, nella
società, come nella vita privata, nella letteratura come nella morale.
Se invece fosse sentito come possibile, proprio tutto ciò sarebbe
pregiato al grado massimo. Da ciò si comprende il profondo
ateismo e il profondo impossibilismo della società occidentale.
Gli uomini sono, gli uomini fanno…
Quando scrivi: Gli uomini sono, gli uomini fanno... credi forse di
non essere un uomo? Credi forse che pensando e scrivendo tu sia un
osservatore alieno del genere umano? Sottile ricompensa di orgoglio
con la quale attingi una serenità che non ti spetta. Non sai quale più
profondo bene avresti dicendo: Noi uomini siamo, noi uomini
facciamo...
Ma perché dovrei anch’io riconoscere in me ciò che combatto, ciò
che mi sdegna e mi ripugna? Non c’è la sublime ipocrisia di chi non
vuole cambiare nulla, non vuole combattere in questo riconoscere
ogni male in sé?
Certo che c’è. In questo modo tu ti riconcili comodamente, vuoi
smorzare il colpo che arriva su di te dai malvagi, ti prepari il terreno
per quando sarai tu a infliggerlo. Se anche non lo farai mai, resterai
in un limbo, nella sospensione in cui è più facile affidare la vittoria ai
peggiori, che nel frattempo agiscono, e con straordinaria rapidità.
È da questo che nasce la straordinaria viltà del presunto cristiano
che compatisce l’assassino e non la vittima.
E allora? Allora la conoscenza, il pensiero, la scrittura vedi che non
bastano. Ci vogliono gli atti. Non puoi non compiere atti umani e
sociali e considerare soltanto lo scrivere e il pensare la tua azione.
Devi saltare dalla sedia, e subito! Gli altri ti insegneranno come fare.
30 gennaio
La scuola fuori della scuola
252
Si sa che gli italiani hanno difficoltà con la scuola, non dico a
riconoscere che, volenti o nolenti, è al centro della società, ma anche
ad ammetterne la funzione salutare, di rassodamento e disciplina
sportiva dei caratteri nazionali votati alla dispersione e all’impulso,
all’exploit ciarlatanesco e alla parlantina tanto più sciolta quanto
meno si sa di cosa si parla. I professori, quando non sono
romantiche macchiette, vengono visti con prudente stima o aperta
ostilità, e tollerati lo stretto necessario, finché ci se ne libera
allegramente.
E tuttavia è sorprendente come non vi sia trasmissione televisiva
nella quale non figuri un qualche docente mascherato. Nei quiz a
premi disinvolti intrattenitori, che fanno finta spudoratamente di
conoscere le risposte delle domande che pongono, godono nel
bacchettare paternamente gli ignoranti e nel premiare i meritevoli
con gongolanti sorrisi e fior di denaro, che sostituisce la pagella.
Attempati studenti di ogni ceto sociale, dall’analfabeta al
plurilaureato, si concentrano spasmodicamente e profondamente
riflettono, tentando di cavare da buchi ragni che non hanno mai
visto. E quando non giungono a nulla, malinconicamente
ammettono: Non ricordo.
Infatti tutti sappiamo tutto dalla nascita, come voleva Platone, e se
non sappiamo rispondere a qualcosa non è perché non ne abbiamo
mai saputo nulla, non avendolo mai studiato, ma perché il processo
della reminiscenza non si è attivato, naturalmente a causa
dell’emozione. Che è sempre tanta e soffoca la nostra sterminata
cultura naturale e inconscia, che da casa facilmente si potrebbe
esprimere.
Non basta: in televisione ci sono continue gare di danza, di canto e
persino di portamento e buone maniere, sempre con regolare giuria
provvista di palette, formata da professori del nulla e del tutto,
fierissimi di assegnare i loro voti, con sicurezza assoluta nella propria
competenza, disposti a difendere con le unghie e i denti la loro
decisione, basata su sensazioni naturalmente infallibili, perché
ispirate direttamente dalla più generosa delle muse, quella televisiva.
253
Sono scherzosi e conversevoli, se nessuno li contesta. Ma provate a
contraddirli e diventano furie scatenate.
Il pubblico, ormai ridotto a battitore di mani professionista, ride
tutto contento. Semplicità meravigliosa degli italiani.
Quando assisti a uno spettacolo, batti le mani anche tu con la
massima naturalezza. Quando da casa vedi in televisione battere le
mani ti sembrano tutti burattini sempliciotti.
Queste trasmissioni nelle quali gli italiani si fanno esaminare
pubblicamente, di fronte a milioni di connazionali, saranno il segno
del merito che si fa strada in una società dove la piattezza è stata
finora l’unica bandiera condivisa da tutti? Dobbiamo salutare con
ammirazione il sacrificio di dirigenti e portantini, di ingegneri e
commercianti che manifestano apertamente la propria intermittente
ignoranza con luminosi sorrisi e qualche deliziosa lacrima di
commozione? Lo si fa a maggior gloria del sapere e in segno di
sottomissione al fascino delle enciclopedie?
Può darsi, ma a condizione che questo merito si esprima in campi
sostanzialmente innocui per tutti, o abilmente mescolando l’alto e il
basso, le rivelazioni sulle moglie dei calciatori con l’inventore della
prima filatrice meccanica. E venga sottoposto a giudici dal manifesto
animo bonario, o così furbo da sembrarlo, in modo che pubblico e
professori di quiz enciclopedici, studenti di ballo e di canto e docenti
cantanti e ballerini in proprio, siano alla fine tutti sullo stesso piano,
del più cameratesco e indifferente divertimento. Tanto, si sa, tutti
sappiamo tutto, e se non figura è perché non vogliamo sentirci né da
più né da meno degli altri. Ma esattamente altrettanto geniali come
ogni altro italiano.
La casa poetica
Se si fa il poeta vivere a Milano non è lo stesso che vivere a
Fossombrone. La città in cui si vive infatti acquista un plus valore
straordinario, perché tutto quello che vi succede diventa
automaticamente il sotto testo, il mondo segreto alluso dal verso più
254
elementare. Se uno scrive “Si aprono le edicole a Milano”
ammetterete che non è lo stesso che “Si chiudono i forni a
Tolentino”. I sogni di milioni di italiani, di svegliarsi in una chiara
mattina milanese e andando a fare un lavoro di prestigio,
concedendosi un giornale in una poetica edicola lombarda ne
vengono elettrizzati con minimo dispendio ed effetti sorprendenti.
Provate a scrivere “Si aprono le edicole a Camerino”. Alla fine la
cosa è quasi patetica, e immaginiamo il deprimente elogio della vita
provinciale.
Così molti poeti si trasferiscono a Milano o a Roma solo perché i
critici possano rovesciare sulle esili trame dei loro versi storie
millenarie e metamorfosi antropologiche delle quali i poeti stessi
non avrebbero il minimo sospetto se non le scoprissero nero su
bianco sulle pagine dei loro interpreti.
Dal che si ricava un consiglio: scrivete pure i versi come volete ma
badate di costruirvi una biografia nel posto giusto, e possibilmente
quando ci capita qualcosa di importante.
Ti chiedono: come ti trovi a Pesaro? Città in cui vivo da vent’anni.
Ed è come chiedermi: Come ti trovi al mondo? È impossibile dire
come stai in una città perché essa condensa tutte le tue esperienze, le
sintetizza in un nome nel quale tutto quello che hai vissuto si
concentra vertiginosamente. E tu come farai a dire quello che spetta
a te e quello che spetta alla città, quello che avresti vissuto identico
altrove e quello che avresti potuto vivere solo lì. O ti trasformi in un
reporter della tua vita, un osservatore disincantato, e disincarnato, o
finirai per dire di te molto di più di quello che vuoi e che sai,
soltanto descrivendo il posto nel quale vivi.
“Io non abito in una città, abito nella mia anima.”
A. Jodorowski
31 gennaio
L’edera privata della luce
255
Un mio amico amante delle piante mi ha mostrato un esperimento
fatto con un’edera, privandola della luce. Ha messo sopra alle foglie
una tavola di legno, sulla quale ha praticato dei fori. In breve tempo
l’edera ha infilato i suoi giovani steli nei fori e ha trovato la luce per
continuare a crescere. Non dovremmo farlo noi?
Se tu segui la tua natura incontrerai ostacoli infiniti e tuttavia essi
potranno soltanto farti accrescere la spinta a seguirla, anche se non
ne avrai fortuna e guadagno. Sempre che tu abbia una natura.
Un aforisma di Kafka
Kafka scrive negli aforismi di Zürkau, la cittadina della Boemia
dove era andato a curarsi per la tubercolosi che “il male è il cielo
stellato del bene”. Lungi da essere un’espressione atea o una folgore
demonica, un disvangelo, come è stato scritto, questo pensiero è un
invito a comprendere il male come completamento notturno
dell’armonia dei contrari, in senso eracliteo. Il male è indispensabile
al bene e, come tale, ha un suo fascino necessario da contemplare, e
soprattutto una potenza da considerare e vivere. Intendendo per
male la malattia, non la cattiveria. Che si combatte nell’azione e
basta.
Non combattere la malattia: questo è stato un segreto mistico di
Kafka? Il sollievo che ne ha provato, il modo docile e con dolore
quasi festoso con cui ha reagito, mi fa riflettere di continuo. Lo
capisco ma non lo intuisco, come capita con i santi. Ma lui si è
mosso sempre a pochi decisivi millimetri dalla santità, oltre una
religione codificata, illuminato dalla disperazione priva di
sentimentalismo. Questa disciplina lo ha fortificato.
1 febbraio
Dormiveglia
Quando scendi nel dormiveglia nel primo pomeriggio è una
sensazione deliziosa, specialmente quando le giornate si allungano, e
256
scivoli sulla linea, oscillante come un’elitra, tra il sonno e la veglia,
mentre senti intorno a te le auto che scorrono, le voci di casa, una
televisione felpata. Allora la luce diventa un nutrimento che risveglia
scene simili vissute da ragazzo o da giovane uomo, in un simile stato
di sopore. La dolcezza e la calma che ti prende, nella memoria
involontaria, più che una discesa verso il sonno, è un’ascesa verso un
risveglio. Un rinascere svanendo, un rigenerarsi sfumando. La stessa
meraviglia della vita ti richiama alla veglia mentre la nuca si fa calda e
grave e tu sorgi perdendo i sensi nella tiepida vita pomeridiana. Tu
svanendo rinasci.
Il gusto di dormire come gusto di simulare la morte essendo vivo,
nel sollievo di una vita finalmente irresponsabile.
Lo stesso non può accadere la sera o la notte perché il tuo svanire è
congenere a quello della natura e non si genera l’indispensabile
contrasto eracliteo.
Mia figlia, quando era piccola, vicina a notte, diceva sempre che
aveva fame, e invece aveva sonno. Si addormentava di colpo dopo
aver gridato “Ho fame! Ho fame!” Perché il sonno è un cibo
nutriente, specialmente se incede molto lentamente e nella coscienza
ondeggiante. E la fame di sonno è la più dolce ma la più terribile se
non puoi appagarla.
3 febbraio
Dio è adesso
Attenzione: Dio è adesso, e meno nel futuro, ancora meno nel
passato. Infatti Dio dobbiamo comprenderlo non al di fuori del
tempo, che per noi è impossibile, né stirando all’infinito il tempo, né
saltando in un tutt’altro del tutto eterogeneo, ma capovolgendo il
tempo. Esso viene dal futuro verso di noi, come un bolide, come
una saetta di luce. E non significa niente tutta la miscredenza di cui
siamo impastati, non significano niente tutte le parole già dette e
pensate, e le interpretazioni sempre controvertibili, la tradizione
sempre ossificata. Il tempo di Dio viaggia al contrario, e se non
257
comprendi questo non cominci neanche ad aprire gli occhi. E
irrompe in noi, non ci oltrepassa, ci colpisce ora dal futuro come
una saetta, come una fucilata!
Così almeno credo che debba accadere agli illuminati.
Un rumore lontano di auto che va dal futuro al passato. Questo il
nucleo fisico della mia intuizione. Così gli antichi, come racconta
Maurizio Bettini, dopo aver sussurrato alle orecchie del busto di
Hermes, si tappavano le orecchie nella piazza del mercato, e quando
d’un colpo aprivano le mani, le prime parole che sentivano avevano
un valore profetico. Il caso, l’involontario, diventa il veicolo di una
rivelazione.
Nel Vangelo di Tommaso Cristo è chiamato “la forma umana della
luce divina.”
L’antropologia storica del cristianesimo, lo studio di Gesù nel suo
contesto, è ricco di spunti interessanti ma il nucleo rovente è che
Gesù elettrizza una catena di ispirazioni divine che ti fanno parlare
da illuminato. La fede non è una teoria, né un’opinione, la fede non
è neanche una fede. Essa è l’ispirazione che hai ora, che vivi dal di
dentro ora o mai più.
Come fai a non credere in Uno che ha fatto tanto per te, al punto di
farsi uccidere. Glielo devi, è una questione di giustizia.
Possiamo dire quello che vogliamo ma io non l’ho fatto, tu non l’hai
fatto.
Non potremmo continuare a vivere se Dio non venisse dal futuro.
Finché vivi non puoi dirti né ateo né agnostico né credente se, come
me, non sei un illuminato. Possiamo soltanto vigilare che la luce
arrivi dal futuro.
Ma essa ti prenderà di sorpresa e tu non la vedrai perché ci sarai
dentro.
Non serve ragionare sul pro e il contro della fede. Il fatto è che vi
sono tra noi gli illuminati e che questi cambiano la loro vita ora in
nome di questa fede. Anzi la loro vita è la loro fede. E cosa vuoi che
258
importi a loro che altri ragionino sulla sua necessità o sulla sua
logica, se la vivono?
Ogni uomo dà il suo contributo affinché Dio esista. Dicono che lo
abbiamo inventato noi, per scoraggiarci dal continuare nella falsa
impresa. È vero, l’abbiamo inventato. Ma ciò non conta nulla
rispetto al momento presente in cui viviamo la nostra invenzione.
Se lo inventiamo, se facciamo del bene, collaboriamo alla sua
esistenza.
L’assurdo male presente nel mondo non è giustificabile con una
teodicea né è comprensibile razionalmente né si può temperare,
umanizzare, ammorbidire. L’assurdo negativo è talmente
sproporzionato, grandioso, vertiginoso che non puoi affrontarlo se
non con l’assurdo positivo, cioè, pensando che Dio si è incarnato in
un uomo ed è stato crocifisso per salvarci, che i nostri corpi
risorgeranno e se faremo il bene vivremo nel bene. Ogni altra
visione meno assurda sarebbe stata troppo debole.
Ciò che conta è nondimeno non già che i corpi risorgeranno ma che
stai risorgendo ora pensandolo.
Perché tanti bambini sono stati torturati e uccisi nei Lager? La
risposta è: Aiuta ora un bambino che soffre. Se non lo fai ogni tuo
lamento, ogni tua rivolta, ogni tua recriminazione, ogni tuo
compianto del male sarà subdolo e interessato o vano. Subdolo,
perché nell’intimo ti domandi come mai tu possa sperare che Dio,
non avendo aiutato i bambini nei Lager, possa aiutare te. Interessato
per lo stesso motivo. E vano perché quando ti interroghi
filosoficamente sul male non hai nessuna voglia di fare del bene a
nessuno ma soltanto di gustare la voluttà del dolore degli altri.
Per questo a Giobbe viene detto che accusa Dio per crearsi un alibi
delle sue colpe.
Fare il bene vuol dire essere più veloci del male già fatto? No, ciò è
impossibile. Vuol dire essere più veloci del male che si sta facendo
ora. Il male infatti è come una fiumana continua, da combattere ora
259
per ora. Non c’è tempo per il rimorso perché il male ti sta
sommergendo adesso.
È possibile che Cristo a un certo punto abbia sentito che Dio
parlava attraverso di lui e con stupore si accorgesse della sua
capacità di fare miracoli? E da allora sempre più si sia sentito il figlio
prediletto di Dio? Perché effettivamente lo aveva scelto.
6 febbraio
Verifica dello scrittore
È vero che uno scrittore non è un santo e che spesso un mostro di
qualità letterarie si rivela un uomo di valore intermittente, o una vera
e propria canaglia, e perfino un mediocre. Ma quando conosciamo
uno scrittore e verifichiamo in lui comportamenti ambigui, gesti
volubili e capricciosi, parole inattendibili, sfoghi contraddittori, non
riusciamo a prendere sul serio neanche quello che scrive e ci
troviamo ovunque astuzie di bassa lega, meandri stilistici falsati e
trovate a freddo per ingannare il pubblico e avvalorarsi come anima
ricca e sensibile a tutti i costi, caricando le situazioni con la stessa
spudoratezza con la quale trucca i casi della vita.
È vero tuttavia che uno può dare il meglio di sé quando scrive anche
dal punto di vista morale, e dopo ha un crollo di energie tale che lo
infiacchisce anche moralmente.
Via Lattea
Nella Via Lattea, una striscia di miliardi di stelle, vive in un pianeta
strapiccolissimo, visibile soltanto ai microscopi degli dei, un popolo
coi corpi pensanti. Metti che siamo i soli. Che questa unicità non
abbia nessun significato e non sia stata voluta mai da nessuno. Non
è lo stesso incredibile? Protetta da un’atmosfera che è come una
membrana uterina, questo feto di miliardi di viventi ruota e viaggia a
migliaia di chilometri all’ora, e nessuno lo sa mentre intorno miliardi
di stelle, ciascuna un sole, tempesta il vuoto siderale con sputi di
260
fuoco dentro cui la nostra terra avvamperebbe, senza che nessuno se
ne accorga, come una minuscola favilla nell’incendio di una foresta.
Non è inverosimile?
Metti invece che esistano miliardi di pianeti abitati, come il nostro,
diversi dal nostro, ciascuno all’oscuro per sempre di tutti gli altri, e
che noi uomini non solo moriremo per sempre ma non sapremo
nulla per sempre, non soltanto del senso di essere vissuti un breve
tratto, ma neanche del modo, e non potremo mai non soltanto
sapere chi ha costruito la casa che da sempre abitiamo, l’unica che
conosciamo, ma neanche conoscere la casa stessa e le ragioni prime
che la tengono in piedi.
E tutta questa verità è evidente mentre ora un bambino keniota (e
tra non molto, italiano) si arrampica su una discarica per trovare una
banana per sopravvivere e un barbone di Milano si sveglia tra
cartoni umidi. Nell’ospedale di Pesaro una donna giovane ha appena
saputo che dovrà subire un’operazione da cui potrà non salvarsi.
Intanto un televisore è acceso e mostra gente del tutto ignara e
indifferente a questa evidenza, presa dall’acquisto di un paio di
pantaloni o ferma al casello di un’autostrada. Gente che per tutta la
vita sarà tuffata nella vita quotidiana, a cucinare un piatto di pasta o
a dirigere un’azienda, ad accomodare un lavandino o a fare una
lezione di lingua inglese. Tutto ciò, se non fosse reale, non sarebbe
impossibile?
Pensa allora a miliardi di galassie come la nostra e diversa dalla
nostra, con miliardi di stelle e con miliardi di miliardi di pianeti
abitati. Pensa poi alla nostra piccola cara e vecchia terra, così tenera
di memorie familiari, col suo odore di stalla, di rose e di letame, di
grembi d’agnello e di sangue, di carburi e ossidi. Infine ripensa a
quegli spazi di uno sfarzo che fa girare la testa, che non potresti
percorrere che per pochi mesi in una navicella mentre ci vorrebbero
miliardi di anni luce solo per esplorarne una piccola parte. E ora
pensa a Dio. Che è Dio di tutti questi miliardi di miliardi di galassie
con miliardi di miliardi di stelle. E ora pensa a Cristo, nato in una
stalla, in questo strapiccolissimo pianeta che gira, in un paese
sperduto tra i deserti. E dimmi se non senti che questo è il massimo
dell’audacia geniale che il Figlio dell’Uomo possa concepire.
261
E ora pensa se un’audacia del genere sarebbe stata possibile senza
chinarsi agli umili, alle prostitute, ai poveri, ai malati, ai bambini,
addirittura ai neonati.
L’evidenza stessa della verità, non di ciò che è dietro le cose, ma di
ciò che è le cose stesse, fa scoppiare il nostro piccolo cervello.
Assistiamo allo scoppio e continuiamo a vivere.
Domande in Cristo
Perché Cristo non ha scritto? Qualcuno si è posto questa domanda
che mi arrovella? Per lui la Scrittura era già completa nella lettera e
bisognava solo realizzarla, portarla a compimento dal vivo e nei
fatti? È perché si rivolgeva agli umili e agli analfabeti? Ma gli apostoli
sapevano leggere e scrivere. Perché il Regno di Dio era prossimo e
non ci sarebbero state nuove generazioni a cui rivolgersi? No,
perché il Regno di Dio è ora, è sempre ora! Perché la verità unisce
dal vivo due persone e non esiste da sola?
Perché Cristo non ha scritto? Perché scrivere vuol dire aver paura,
non avere fede, non amare abbastanza, conservare e accumulare i
beni materiali, illudersi di salvare la propria mente, proteggersi dalla
vita nuda e arrischiata in una partita simulata, sfuggire alla luce e
all’aria, rintanarsi, accasarsi. Scrivere è una forma di ateismo?
Penso che sia indispensabile che non abbia scritto, c’è una ragione
profonda, intoccabile e non aggirabile. Qual è?
Una voce mi dice: è la preghiera. La preghiera precede la parola. E
io mi trovo sbalzato con le spalle al muro, pur restando immobile
sulla sedia, perché non so pregare.
Prima della preghiera nell’orto degli Ulivi, Cristo non ha mai parlato
del proprio dolore. Le prove che ha superato sono state il digiuno, la
sete, la solitudine nel deserto. Quando dice “Dio mio, perché mi hai
abbandonato?” è lo stesso verso di un salmo, e ciò significa che la
volontà di Dio si compie. Nell’abisso della disperazione c’è l’abisso
262
della speranza e dell’abbandono nella volontà del Padre, annegando
nella infinitade, come scrive leopardianamente Bianco da Siena.
E tuttavia la religiosità popolare si è incentrata sulla Passione, durata
un solo giorno, sulla quale Matteo è molto scarno, e si è incentrata
sul dolore di Cristo, inserendo anche le tre cadute non riportate dai
Vangeli, e rallentando all’infinito il calvario come stampo di tutti i
nostri dolori futuri. È naturale che sia così, visto che il dolore è ciò
che così tanto ci assomiglia a lui e ci fa sentire della stessa pasta
umana.
Ma il cristianesimo dolente confina sempre paurosamente con la
malinconia degli ipocriti, che spesso Cristo accusa con durezza.
L’esibizione del dolore, se guardi bene, ha sempre uno scopo molto
meno nobile di quello che speri, soffrendo, che abbia. Tu ti adagi
come su un letto immobile e ti contempli mentre esso è pochissima
cosa per gli altri, se non addirittura un difetto.
L’autocreazione è impossibile
Di una cosa siamo certi: che l’autocreazione è impossibile. Come
potrebbe infatti ciò che non esiste crearsi dal nulla, se non c’è. Un
nulla assoluto ed eterno è a suo modo rassicurante, come un
profondo letargo. Confessiamo che per la nostra ragione, desiderosa
di coerenza, un nulla così sarebbe il massimo. Non avremmo nulla
da chiedere e buonanotte. Ma un nulla del genere non è mai esistito
e mai esisterà, visto che il mondo c’è e ci sarà stato.
Restano soltanto due possibilità: o una materia eterna o un Dio
creatore. Un nucleo di energia concentratissimo scoppia una
quindicina di miliardi di anni fa e genera lo spazio insieme a tutte le
belle cose che vediamo. Prima non c’era il tempo e quindi è vano
chiedersi cosa ci fosse prima. Sì, ma da dove è nato questo nucleo?
La scienza non risponde e qualcuno vorrebbe che non ci ponessimo
nemmeno la domanda, neanche in termini puramente fisici. Mi
sembra troppo.
263
La materia è tenuta insieme non solo dalla sua struttura atomica ma
anche dalla sua sostanza logica. Una sostanza che non è astratta,
visto che il mondo c’è, e sta in piedi.
Per quanto mirabolanti le possibilità che si aprono, non si potrà mai
andare contro i principi fondamentali della logica. Da solo infatti il
nucleo di energia non può essersi creato, perché l’autocreazione è
impossibile, e allora, se non vogliamo pensare a un Dio creatore,
dobbiamo per forza ammettere che, se prima non c’erano né il
tempo né lo spazio, generatisi col Big Bang, e non c’era neanche il
prima, tuttavia il nucleo di energia deve essere per forza derivato da
qualcos’altro. Ora, il divenire può essere soltanto nel tempo, un
divenire fuori del tempo è una mostruosità. E, per quanto piccolo, il
nucleo primordiale, che è differenziato, deve avere un interno
spazio, sia pure inteso in senso energetico.
Dovremo distinguere allora due tipi diversi di spazio e di tempo,
uno interno e l’altro esterno? Uno esclusivo del nucleo, l’altro
esclusivo dell’universo, dal Big Bang in poi.
Molto probabilmente tra cinquant’anni il problema sarà ozioso
perché si scoprirà che non quello è stato l’inizio del nostro universo
ma che ce n’e stato prima un altro e un altro ancora. Ma intanto il
mistero resta, e non è per niente piacevole, benché eccitante, giacché
all’origine di tutto, allo stato delle cose, c’è una contraddizione logica
reale.
Si potrebbe dire che la logica incontrovertibile con la quale diciamo
impossibile il nulla assoluto o l’autocreazione, sia la nostra logica, e
che la logica sia la rete di cristallo in cui si regge l’universo ma che
un colpo divino possa mandarla in mille pezzi con tale precisione e
delicatezza da lasciare intatto l’universo, facendolo continuare a stare
in piedi mentre Dio gli tesse intorno un’altra logica, come un malato
al quale sostituiscono il cuore mentre continua a vivere.
Un astronomo tuttavia potrà studiare il cielo tutta la vita,
riempiendola nel modo più ricco. Ciò che possiamo sapere è allora
commisurato alle conoscenze che siamo in grado di mangiare giorno
per giorno. Tante verità come tanti cibi, quelli che ci bastano per
arrivare al giorno dopo, dentro un paradigma dietetico coerente.
264
Una materia eterna, che è esistita da sempre e per sempre dà la
sensazione di uno che arrivi al traguardo prima di essere partito.
Anche un Dio che esiste da sempre e per sempre, sempre perfetto e
identico, dà la sensazione che tutto sia sparato al massimo
eternamente in modo troppo glorioso e strepitoso per i nostri
piccoli cervelli, abituati a nascite e crescite lentissime e a un decadere
altrettanto lento.
Il perfetto che esiste da sempre, il massimo del massimo del
massimo già bello e fatto da sempre!
Posso forse concepire Dio, ma non il sempre.
E la vita cosciente, come è nata? Che sia possibile che essa nasca
dalla materia, è evidente, perché noi pensiamo e di materia siamo
fatti. Ma può la vita inventarsi da sola, se non è già vita? O la materia
è essa stessa vita in ogni sua particola da sempre o è dura pensare
che la molecola inerte, sorda e cieca, si metta un bel giorno in
viaggio fino a produrre Michelangelo Buonarroti.
Perché? La sua produzione di un minus habens, di uno stordito
suonerebbe più verosimile? Proprio no.
Forse il tempo è un anello che noi crediamo di percorrere in avanti,
condizionati dalla nostra parabola corporale. Invece il tempo va al
contrario e il Big Bang è la fine del mondo. Noi stanno rinculando,
credendo di progredire, verso tempi sempre più arcaici e arretrati,
giacché la tecnologia è l’antefatto della vita. Stiamo allontanandoci
sempre più dalla fine del mondo, che è già accaduta, stiamo
riavvolgendo il nastro verso l’origine. La creazione e la fine del
mondo sarebbero la stessa cosa da due punti di vista diversi.
L’intuizione cristiana è che spiritualmente andiamo verso l’inizio.
Non sarà anche un’intuizione cosmologica?
I nostri cervelli sono veramente troppo piccoli anche per goderci la
sensazione di sublime che deriva dalla sproporzione tra l’infinita
materia e il nostro corpicino, con la rivalsa però che siamo noi e
soltanto noi che pensiamo il tutto. Kant viveva ancora in un mondo
chiuso, benché copernicano.
265
9 febbraio
Dopo la Shoah
Dicono molti che dopo la Shoah non si possa più dire che Dio è
buono. “Non mi dire buono,” dice Cristo, “soltanto Dio è buono”.
E non potendo dire che è buono si debba dire che non esiste.
Ripiegare col dire che è assente equivale a dire che non è buono. La
cosiddetta teologia negativa nasce da una superba vibrazione del
dolore che non vuole andare incontro alle sue responsabilità.
L’ateismo è la scusa suprema del disamore. Dicano allora che è
cattivo, e buonanotte.
Te lo immagini un padre che non ti cerca mai per decenni e quando
chiedi a tua madre perché è così cattivo, lei ti risponde: “Non è
cattivo, è assente.”
Brutto dichiararsi atei come un altro si dichiara orfano, anche se non
sa se il padre è veramente morto.
Degno di rispetto invece professarsi atei nel modo in cui lo fa Primo
Levi, cioè per esperienza diretta e sperimentale, nel non dolore, nella
non vita.
Ciò che hanno fatto i nazisti è conseguenza, e non causa, della
morte di Dio nei loro cuori. Concludere invece che Dio non c’è
perché loro hanno sterminato sei milioni di uomini ebrei, vuol dire
dare ai nazisti il potere di uccidere Dio, il che mi sembra un atto di
servilismo nascosto.
Il problema teologico è il seguente: concordiamo che Dio debba
lasciarci liberi ma ci domandiamo “Fino a che punto?”. Deve esserci
una soglia in cui Dio interviene nella storia per dire “Adesso basta!”?
Nell’Antico Testamento succedeva così, ed era molto ragionevole.
Se guardiamo bene era un Dio molto umano, molto preso dalle
nostre vicende, che non ammetteva tutto, e interveniva di continuo.
In apparenza più amabile e moderno il Dio che ci dà libertà
266
completa, finché non ci accorgiamo di cosa voglia dire lasciare senza
museruola la belva umana.
O la vita o il male
Ci sono situazioni in cui devi essere pronto a morire nel corpo per
vivere nell’anima. Dobbiamo sperare di non trovarci mai in una
distretta in cui non c’è scelta. Quando cioè il male consiste
nell’anteporre la nostra vita al bene. Come dire, speriamo di non
trovarci mai in guerra, un regime in cui puoi sopravvivere soltanto
facendo il male.
Quando conosci chi ha compiuto un atto terribile, per esempio un
omicidio, ti stupisci di trovarlo nella sua più stordita quotidianità,
con le stesse fisime, gesti confidenziali, bonaria banalità degli
innocenti. Come orsi che hanno sventrato un alce e giocano con i
cuccioli.
Gli assassini continuano a considerarsi innocenti per il semplice
fatto di esistere. Quando si accorgono di essere restati gli stessi di
prima del loro omicidio, esso assomiglia sempre più a una fatalità
naturale.
Il giudice Antonino Caponnetto raccontò in un suo scritto il
pentimento di un mafioso, che aveva ucciso decine di persone,
compresi bambini sciolti nell’acido, il quale cominciò a battere la
testa contro il muro davanti al giudice Falcone. E si sarebbe
ammazzato se non l’avessero fermato. Ma si tratta di casi
straordinari. I più chiamano rimorso la loro sofferenza per essere
chiusi tra quattro muri. Il rimorso, è vero, lo provano ma nei
confronti di se stessi.
La morbosità con la quale un popolo inquinato segue la cronaca
nera è giunta oggi al diapason. Mostruose forze nella coscienza
tifano per gli assassini, come coloro che hanno portato all’estremo
l’iniziativa umana e ne contemplano le conseguenze con apatia
feroce, nascosti dietro lo schermo del televisore
267
La mancanza di pudore colpisce oggi davanti alla ragazza in coma da
diciassette anni, che hanno smesso di tenere in vita. Tutti hanno
qualcosa da dire in pubblico. Non capiscono che già esprimendo un
qualunque parere dimostrano di essere infetti. Figuriamoci esaltando
in Parlamento il loro amore per la vita sacra con gesti e urla bestiali e
barbari.
Perché il male affascina? Perché il bene è noioso? Dovrebbe essere il
contrario, quando la gente è sana.
La vittima ci sembra colpita da una maledizione fatale. Per questo
non ci interessiamo a lei, non ne ricostruiamo la vita, le amicizia, le
passioni? Fare questo ci sembra morboso mentre non si sente tale la
curiosità sfrenata su ogni gesto e pensiero dell’assassino, che invece
non solo non dovrebbe suscitare alcun interesse, almeno finché non
comincia a scontare la sua pena, ma dovrebbe suscitare egli nelle
anime sane un sentimento di pudore, di fronte a qualcuno che vive
al di là di una linea di fuoco, e, qualunque cosa dica o faccia, non
potrà mai tornare indietro.
10 febbraio
Selva morale
Una delle abilità più sfrenate è quella di far passare le virtù degli altri
per vizi e i vizi propri per virtù. Troverai infatti che se qualcuno non
mantiene una promessa nei tuoi confronti, ti sarà impossibile
farglielo notare, sia perché chi fa rimarcare a un altro una mancanza
verrà associato a una sensazione sgradevole, che appannerà il senso
di giustizia di colui che l’ha commessa, sia perché diventerai subito
responsabile nei suoi confronti di un vizio simmetrico e opposto
rispetto a quello di cui accusi l’altro. In questo caso passerai per
malfidato e sarà proprio questa tua mancanza offensiva di fiducia a
essere considerata la causa dell’inadempimento della promessa.
È questa la ragione sostanziale della moltitudine di leggi che c’è in
Italia, giacché nell’impossibilità di una presa di coscienza dei propri
difetti e delle proprie inadempienze, gli altri sono costretti a ricorrere
268
alla magistratura, che ha stabilito una rete di regole minuziose, per
tener conto degli innumerevoli cavilli ai quali la persona che ha torto
è sempre disposta ad appigliarsi pur di convincersi di aver ragione.
A tal punto nessuno si fida di un qualunque giudice in qualunque
campo che se un recensore letterario sarà il titolare di una rubrica di
stroncature dovrà continuare a stroncare per sempre, perché tutti
l’attenderanno al primo varco di lode che si sentirà di tributare a
qualcuno.
E si noterà che nove volte su dieci, forse per un bisogno di
autopunizione o per una febbre dell’originalità a tutti i costi, andrà a
esaltare un mediocre, che ne riceverà un danno, perché tutte le sue
debolezze saranno moltiplicate per cento dal confronto con coloro
che sono stati stroncati, in questo o in quello superiori a lui.
Se dieci persone ti chiedono di parlare o di scrivere di loro e a nove
dirai di no, ti farai nove nemici e nessun amico. Perché la persona
alla quale esprimerai la tua stima riterrà il tuo gesto dovuto al suo
valore e non al tuo favore.
L’Italia vicina alla natura
Che l’Italia sia lo stato europeo più vicino alla natura si vede anche
da questi due fattori. Come la natura si nutre di letame per rendere
fertile la terra, trasforma l’anidride carbonica in ossigeno, ricicla i
nostri corpi se non li sottraiamo nei cimiteri al suo perpetuo
processo di distruzione e generazione, così la società italiana si nutre
di mafia e camorra, di corruzione politica, imbroglio, slealtà e
menzogna, come di ogni altro male, per consentire alla società dei
potenti, dei ricchi, degli animali vincenti e dei loro parassiti, servi e
dipendenti, di prosperare e rigogliare.
Il secondo fattore è il talento gastronomico nazionale, che vale non
soltanto in cucina ma nel rimpasto che ogni giorno avviene
nell’immenso calderone in cui tragedia e commedia, sangue e latte,
sperma e feci vengono miscelati con il tuorlo e l’albume, con la
farina di grano e quantità industriali di zucchero e di sale,
preparando una pozione magica con la quale veniamo nutriti e
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drogati, temprando uno stomaco nazionale che oramai è di ferro, e
può trangugiare e digerire migliaia di omicidi, incidenti, drammi
estremi tra battute di comici, abbuffate di truffe, pubblicità e scherzi
pesanti e banali. Il tutto senza fare una piega.
La natura però volge il cibo e il letame all’armonia e alla bellezza, e
lenta trasforma tutto per un piano, che forse non ha un fine, ma
almeno sapientemente costruisce una società animale mondiale,
destinata a sopravvivere. Mentre nell’Italia di oggi, almeno in quella
pubblica e potente, non c’è traccia né di armonia né di bellezza.
Quello che Vico ha scritto, che possiamo conoscere la storia perché
l’abbiamo fatta noi mentre non possiamo conoscere la natura per la
ragione opposta, ha una sua profonda veridicità. A noi piacerebbe
trovare il nostro mondo umano infinito e misterioso, pieno di un
mare inconscio di motivazioni sconosciute e ramificato
vertiginosamente ma alla fine, se siamo onesti, possiamo sempre
arrivare a una sintesi delle cause dei comportamenti umani nella
storia e nella società. Mentre la natura ci fa conoscere quasi alla
perfezione la sua pelle e soltanto per una porzione minuscola,
benché basti per colmare la sete di conoscenza di cento vite.
Buona morte e vita cattiva
In occasione della morte di Eluana, una ragazza in coma da
diciassette anni, che hanno smesso di nutrire e dissetare, è scoppiata
una rissa nel parlamento italiano, nella quale dalla destra gridavano
assassini alla sinistra e dalla sinistra ipocriti alla destra. Sono scesi alle
mani, coi volti deformi, urlando insulti e scatenando tutto il loro
amore per la sacralità della vita con versi bestiali e gesti barbari.
Un brivido gelato è sceso lungo la schiena di noi che abbiamo
votato uomini che, gettando la loro maschera pacata di intervistati,
sono comparsi nella loro matta bestialità. In tanti si sono sdegnati
per la sarabanda ma sono le stesse persone che inconsciamente li
stimano per la brutale irruenza delle loro emozioni e che torneranno
anche per questo a votarli.
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L’Italia terrorizzata dalla morte, perché morta dentro: il caso di
Eluana. Gli italiani necrofori che fanno gli spacconi e dicono di
staccare la spina, oppure fingono di trepidare per una ragazza che
non hanno mai visto e conosciuto, quando i genitori hanno contato
milioni di minuti nel dolore. I difensori della vita sacra, della biologia
pagana e i pezzi di ghiaccio che parlano di libertà della morte come
diritto legale. Lo stato guardone e padrone delle creature e i solitari
anarchici, che vogliono essere padroni della morte più che della vita.
Gli atei credenti, che vorrebbero prolungare questa vita ancora di un
altro minuto, anche senza coscienza, anche senza volontà, perché
non credono nel regno di Dio.
Un padre che beve il calice fino alla feccia, con dignità e fermezza.
Una madre riservata, un tempo anche lei in fiore. E una ragazza sola,
nel suo mondo labirintico da diciassette anni, che non emette suono
quando tagli lo stelo. Esperienze che non puoi legiferare. Uno dei
casi in cui, se resti in silenzio, il pensiero assomiglia a una preghiera.
12 febbraio
I geni tra noi
Tra me e Dante c’è un abisso, tra me e Dio ci sono centomila abissi,
tra Dante e Dio sempre centomila abissi.
Nel dire che Dio, il genio dei geni, ci ama, c’è un vertiginoso
controsenso. I geni tra gli uomini fanno molta fatica ad amare gli
altri.
C’è un modo per svilire i geni presenti tra noi, sottolineando la
distanza abissale che ci rende tutti minimi di fronte a Dio. C’è un
modo opposto di idolatrare alcuni individui disgustosi tra noi,
sostituendoli a Dio e creandosi degli idoli che prima o poi si rivelano
ridicoli. Pio XI accusò Mussolini di essere diventato un idolo così
tracotante da sostituirsi a Dio, e gli ha ricordato come sempre gli
idoli sono finiti nella storia. Mussolini ha risposto con una campagna
anticlericale furiosa, ammonendolo che, se avesse voluto, avrebbe
trasformato gli italiani in una massa di anticlericali. E io ci credo.
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Un amico scrittore mi ha detto che se gli offrissero la scelta tra il
premio Nobel e che suo figlio non si ammalasse, sceglierebbe la
salute del figlio. Che è un buon ragionare. Ma la sorte è obliqua: non
glielo danno e il figlio si ammala. Glielo danno e il figlio sta
benissimo.
Napoleone
Non ho mai capito l’ode Il Cinque Maggio di Manzoni, con la sua
visione di Napoleone voluto da Dio per incidere la storia con la sua
impronta gigantesca, anche se è di gran lunga la sua poesia più
profonda. Anzi, l’ho capito troppo.
Per fortuna non è venuto fuori un poeta cattolico a scrivere che Dio
ha lasciato più larga orma di sé in Mussolini. Ma se si fosse pentito
in punto di morte e convertito?
Napoleone ha cannoneggiato la folla a Parigi, ha sterminato la
popolazione di Lugo, compresi i bambini, ha incendiato,
saccheggiato, sterminato, ogni volta che gli è sembrato necessario o
semplicemente utile, ha fatto fucilare quattromila turchi perché lo
infastidiva doverli nutrire. Preferiva condannare a morte cento
innocenti che far scampare alla forca un colpevole. Ed era adorato
da tutti coloro che non ne erano terrorizzati, e anzi anche da quelli,
perché una forte paura si trasforma facilmente in una forte
ammirazione, se ve ne sono le ragioni.
E nel catechismo francese, dopo il Concordato con Pio VII, cosa
leggiamo? Che Dio ha impresso in lui la sua immagine e che chi si
ribella a lui si ribella a Dio. E vescovi e arcivescovi francesi cosa
insegnavano? Che lo Spirito Santo si era provvisoriamente incarnato
in lui.
Napoleone ha subito un attentato il 3 nevoso del 1800 ed è sfuggito
a un secondo, ordito dall’Inghilterra. Anche Hitler e Mussolini sono
sfuggiti a numerosi attentati. Questi dittatori, benché l’ultimo molto
meno crudele degli altri, hanno goduto di una incolumità che se uno
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credesse a piani segreti dello spirito del mondo, a piedi o a cavallo,
insomma alla Lust der Vernunft, all’astuzia della Ragione di cui parla
Hegel, farebbe pensare a una speciale protezione ultraterrena.
Demoniaco è il crederci, e appunto demoniaci erano vescovi e
cardinali. Il diavolo è sempre in chi primo lo inventa.
Napoleone che sterminò crudelmente prigionieri inermi in Egitto,
protesse l’Islam nel modo più risoluto e categorico. Bush invece ha
scatenato una guerra santa contro l’Islam nel XXI secolo.
Se davvero gli stavano a cuore gli interessi economici degli Stati
Uniti avrebbe dovuto invece, more napoleonico, occupare l’Iraq in
nome di quelli e al contempo farsi paladino del diritto dell’Islam
all’assoluto rispetto della sua religione, contro il processo laico e
modernizzante imposto da Sadam Hussein per i propri interessi.
Ma la retorica della democrazia glielo impediva, col risultato che
facendo guerre in nome dei valori propri e cosiddetti occidentali, si
offendono mortalmente quelli degli altri e si coagula un’opposizione
che prima era sparsa e litigiosa al suo interno. Senza mai scacciare il
sospetto che in realtà si fa guerra soltanto per questioni di potere e
di interessi economici esclusivi, che pure con la democrazia fanno a
pugni, ma almeno sarebbero stati comprensibili a tutti, non
suscitando lo stesso odio mortale.
Niente è peggiore che far violenza, sterminare, massacrare in nome
di nobili ideali e di valori democratici condivisi. Si accetta molto di
più il bruto strapotere di chi vuole soltanto il dominio, che non
l’ipocrita e crudele sottigliezza di chi ti vuole anche catechizzare,
convertire, educare, far diventare democratico a modo suo e con le
sue armi.
Leopardi parla di Napoleone soltanto in quattro luoghi dello
Zibaldone, approvando il modo in cui sconfisse il brigantaggio,
popolando le terre infestate, mentre Pio VII, davvero pio, fece
distruggere Sonnino.
Egli scrive che è il migliore comandante ma pensa che due secoli
dopo il suo nome sarebbe stato oscurato da quello di Achille. Il che
273
non è accaduto, ma di certo Achille non è stato messo in ombra e ci
muove e commuove molto più di lui, con tutta la sua scienza
militare e sterminatoria.
Si è sempre preso in giro il padre Monaldo che, come racconta nella
sua Autobiografia, quando Napoleone passò a Recanati, si chiuse nel
circolo dei nobili e gli volse le spalle. Non aveva capito il corso
trionfante della storia, da reazionario incartapecorito, o aveva capito
il corso delirante della violenza, da cattolico sensibile e sobrio?
Che Verlaine fosse un uomo con il quale era difficile fare un
discorso serio lo temevamo in molti ma, nel leggere Les mémoires
d’un veuf, la sua prosa diventa un’acrobazia musicale tra umori
femminei (femminei in un uomo) e governabili solo per via artistica,
che lo portano a scrivere un pezzo sconcertante, L’autre un peu,
dedicato a Napoleone come homme privé, che si conclude con un
invito a provare pietà per lui, anche lui veuf, vedovo, come l’autore.
Che vedovo non era affatto perché anzi nello stesso anno di uscita
del suo libro, il 1886, sua moglie Mathilde, viva e vegeta, offesa in
tanti modi, si risposava. Quelle delicatesse…
Tanto è forte il bisogno di provare pietà per il più potente da
intenerirsi per la sua vita privata, la sua solitudine, addirittura la sua
sincera fede cattolica, attestata dal Memoriale di Sant’Elena, che
credeva di sua mano.
La Vie de Napoléon di Stendhal, scritta a Milano nel 1817-18 è un
gran bel libro. Un succedersi di intuizioni che si sciolgono con tale
naturalezza e mancanza di prosopopea e con un tale ardimentoso
realismo, se non cinismo, in una prosa in cui la lingua è sorella
gemella del pensiero, al punto che non puoi distinguere l’uno
dall’altra. E veramente non vorresti dirne niente: godere quasi come
pensa e scrive, sapendo di non poterlo imparare.
E capire la storia da lui, e cioè che essa fluttua inafferrabile come un
perenne campo di battaglia, finché un Napoleone non la impugna e
la fa convergere in sé. Trovato il sole, tutti i pianeti possono
orbitargli intorno o cozzargli contro. Non possono più esistere altri
274
sistemi solari, mondi paralleli. La storia si semplifica, consentendo
una trama romanzesca, che in Stendhal è semmai una vela sempre
leggera, gonfia o svolazzante, tesa verso un’impresa alla quale tutti
concorrono, finché dura.
Stendhal è più libero di me, perché considera la storia come teatro
tragico e amorale, benché egli sia ferreamente morale e fortemente
gaio e amante della vita, nel quale anche il popolo è un personaggio,
come lo sono le centinaia di migliaia di morti.
Essere cristiano sarebbe allora come essere sentimentale, se si pensa
alle vittime, se ci si immedesima nei morti, se si guarda la storia con i
loro occhi vitrei e per niente artistici? Vorrebbe dire essere infantili,
ingenui, moralisti, non voler capire la natura umana e la storia?
Stendhal disprezzava l’aristocrazia reazionaria, le monarchie assolute
ereditarie e il cattolicesimo ipocrita dei potenti. Confrontando
Napoleone ad essi, egli lo trova un genio moderno e progressivo. E
aveva pienamente ragione. Ma un genio che uccide e fa uccidere, che
fonda la sua gloria e potenza sulla guerra, come lo chiami?
Pensando alle stragi napoleoniche dobbiamo sempre pensare alle
stragi dell’assolutismo, alleato delle gerarchie religiose. Assolutismo
che, quando Stendhal scrive, si richiude come una tomba
sull’Europa, anche grazie a Napoleone.
Eppure io non riesco ad ammirare un comandante di eserciti, sia
pure uno dei due o tre più geniali della storia. La cosa non mi esalta,
non mi scalda. Anzi, mi farebbe sentire servo.
Se fossi vissuto ai tempi di Napoleone e avessi contato qualcosa mi
avrebbe fatto uccidere, né più né meno come la chiesa medioevale.
Nessuno ha mai parlato veramente di Cristo a Napoleone. Nessuno
ha avuto il coraggio, ha osato?
Napoleone è stato il più potente, un mortale come me, benché io
non abbia alcun potere. Non ha alcuna influenza il fatto che lui sia
morto e io sia vivo. Lui, nella condizione del più potente e io del
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meno, abbiamo da rendere conto, nel contesto, a Uno che è fuori
del contesto, il che vuol dire che in qualunque contesto devi essere
giudicato in base a leggi valide in tutti i contesti.
Erano tutti monarchi assoluti, violenti, cinici e ottusi. Rispetto a loro
Napoleone è per Stendhal il genio moderno, come è vero.
Stendhal, nel suo La vie de Napoléon, scrive invece un libro al solito
meraviglioso, giudicandolo. Come fa sempre lui, dentro il contesto.
Stendhal il genio del contesto.
13 febbraio
Tutti artisti per Freud
Freud ci ha illuso di avere un inconscio poderoso, un mondo
sconfinato, un oceano pieno di flora e di fauna misteriosa dentro di
noi. In questo modo ha offerto ai più sensibili una compensazione
libidica senza pari. Ha detto a chi più soffre: Voi non lo sapete ma
siete tutti artisti geniali come me.
Efficacia del senso
Quando facciamo qualcosa che ha senso e che ci piace viene
spontaneo pensare che una potenza benigna soffia sulla nostra vela
e, calmi e fiduciosi, le diciamo: Decidi tu se posso portare l’impresa
a termine.
Quando facciamo qualcosa che non ha senso e non ci piace, allora
temiamo di morire e che la nostra opera sia spezzata, perché in
realtà non era mai nata.
Quando stiamo male e non quando stiamo bene abbiamo paura di
morire. Se non arriviamo nel mare ghiacciato dell’indifferenza.
14 febbraio
Braci
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Sto su una zattera in mezzo al mare e cammino sul lungomare di
Pesaro con mia moglie. Il mio consueto sdoppiamento. Soffro e
sono sereno. Hai mai provato questa condizione? Stai con tutto te
stesso dentro le cose e ti guardi con fermezza dall’esterno, come se
la tua vita fosse un’altra. Ma quale? L’importante è che con gli anni
questo io secondo non si slabbri, perché è lui che ti impedisce di
franare.
Non avrei mai capito fino a qualche anno fa qualcuno che mi
dicesse che per una saturazione di esperienza la fine della tua vita
potesse non essere drammatica. Vedersi dall’esterno, vedersi come
postumi, vedere il mondo senza di te e non tremare, semmai con
una ferma desolazione, quasi con sollievo. Gentilezza della morte,
chiama Leopardi, che ha bruciato le tappe, questa condizione. Nel
Vangelo di Matteo e in quello di Luca c’è la sorprendente
espressione “gustare la morte”.
Ciò che ti tiene stretto al timone è il pensiero dei tuoi figli, di tua
moglie, dei tuoi familiari, delle persone care, l’amore dei quali vale
molto più della tua vita. Ciò che ti fa resistere è invece che hai letto i
greci e i latini da ragazzo.
Avrei voluto avere il coraggio di Walter Bonatti, di Ambrogio Fogar,
di Rudolf Messner. Il genio impersonale di Enrico Fermi e quello
personale di Albert Einstein. Restando esattamente me stesso.
Avrei voluto essere San Francesco. Di Kafka avrei voluto essere
amico.
I personaggi di Kafka vivono tutti con la loro anima morta al fianco.
Nei racconti di Kafka, Franz si trova sempre dentro la scena, in
carne ed ossa, invisibile, e tutti si comportano come se lo vedessero.
Cavalli e scarafaggi
Gulliver compie il suo quattro viaggio nel paese degli Houyhnhnm e
scopre che si tratta di una società di cavalli pieni di sussiego verso gli
umani, considerati animali inferiori. Forse che il potere sociale della
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specie basta a decidere qual è il più razionale e civile tra gli animali?
Allevati dagli animali della foresta, come pare che a qualcuno sia
accaduto, avremmo la convinzione che gli esseri civili sono loro e
noi degli animali selvatici da educare?
Gregor Samsa si sveglia una mattina, nella sua camera da a letto, a
casa sua, e si accorge d’essere diventato uno scarafaggio. Nella
Metamorfosi di Kafka la società degli umani osserva lo scarafaggio con
compatimento, come i cavalli guardavano Gulliver. Il quale lascia la
sua casa tranquilla per quattro viaggi in mondi fantastici che
rendono relativo il suo, mentre Gregor si sveglia scarafaggio nella
sua camera. E non avrà più un luogo in cui tornare, neanche il suo
corpo. Ha perso tutto per sempre, mentre Gulliver, benché turbato
per la prima volta, tornerà in quella casa inglese in cui si troverà
spaesato. Per Gregor invece non si tratta più soltanto di scoprire la
prospettiva di uno sguardo straniero, ma di cacciarsi in una
condizione irreversibile. E non è un’avventura sconcertante quella
che si conclude con la morte.
In bilico
Dio, o chi per lui, mi ha reso così intelligente da capire chi non sono
e così stupido da non capire chi sono. Dio, o chi per lui, mi ha reso
così stupido da non capire chi non sono e così intelligente da capire
chi sono: uno stupido.
Dio ha lasciato la sua immensa opera con l’ultima pagina bianca e ci
chiede di completarla. Così scoprirà chi siamo.
“Dio non ti fa soffrire mai oltre quello che puoi sopportare”.
E mai meno? Non regala niente?
“Ha una soglia del dolore molto alta,” mi ha detto la dentista,
curandomi un dente senza anestesia. “È un bene, no?” ho chiesto.
Lei è rimasta perplessa.
Così lungo l’inamore, così breve l’amore, del cristiano.
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Voluttà dell’impossibile, amore immaturo, unico amore?
15 febbraio
I miei pensieri sono in sogno. Se non li scrivo o li fisso finché sono
vivi, in pochissimi minuti, muoiono. Sembrano morire. In realtà
conservano la facoltà di rinascere. Ma chissà se e quando.
Etimologie sapienziali
Oggi c’è un investimento ermeneutico straordinario nei confronti
della filosofia e della poesia, soprattutto tedesca, complicato da una
spremitura delle parole, nel sentimento filologicamente mistico di
poterne estrarre succhi etimologici rivelatori. Ma come un ragazzo
non è più un bambino così una parola adulta non assorbe in sé tutti i
significati del suo sviluppo storico nei secoli o nei millenni, e molto
se ne perde del tutto e seccamente.
Questa arrampicatura a ritroso lungo i rami di una parola, in tenaci
analisi linguistiche, caricano il verso o il concetto di una pregnanza
polimorfa che ne accresce in modo esorbitante il senso e ne
moltiplica la ricchezza, il più delle volte involontaria, come se il
poeta come una spugna si intridesse di tutta la storia delle parole che
usa, senza volerlo né saperlo.
Ci sono interpreti così raffinati e acuti che le loro indagini sono
spesso più interessanti dei versi esaminati e costituiscono una nuova
fronda fastosa e pregna di valore che inombra e addirittura surclassa
il ramo del testo che viene studiato.
Questo esercizio avviene anche in filosofia, soprattutto con
Heidegger, che non è stato il primo ma il più tenace a incoraggiarlo,
lavorando lui stesso con geniale follia concettuale sul potere
evocativo sprigionato dal termine più semplice e pretendendo che
nella parola viaggiasse, come in ovulo fecondato e surgelato, una
verità altrimenti inattingibile e comunque essa stessa produttiva di
concetti.
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Vi sono pensatori che ti richiamano all’etimologia di una parola
come se in essa fosse contenuta la sua verità prima e perenne.
Criticano per esempio che “religione” sia da intendersi come legame
tra gli uomini perché la etimologia di religio porta in altra direzione o
dicono che “persona” all’origine significava maschera teatrale,
personaggio, e quindi ne concludono che non può designare ciò che
di intimo e proprio vive in noi.
Ma le parole nascono, vagiscono e crescono, finché maturano e
decadano e in ogni stagione della loro vita cambiano volto secondo
l’uso che ne facciamo, non hanno una natura originaria conferita
dall’onomaturgo e poi più o meno nascosta e deformata da
dissotterrare e rilucidare.
Le etimologie sapienziali servono a scrivere pagine suggestive e a far
perdere la cognizione delle cose. Esse partono dalla idea che esista
una storia della lingua dotata di una sua intelligenza autonoma dagli
uomini stessi, intelligenza che svela e nasconde, rivela e tiene in
letargo un significato per secoli finché lo dischiude per conto suo.
Se aletheia deriva da lanthano, ciò non significa che la verità sia nella
sua essenza dis-velamento, dis-occultamento, e quindi riposi nel
gesto soggettivo di chi scopre qualcosa. E neanche significa, questo
è il bello, che alle sue origini venisse intesa così. Il significante
etimologico delle parole invece non può arrivare neanche nel tempo
in cui la parola è stata coniata al suo senso pubblico, custodendo
nell’etimo un significato congeniale, consimile e parallelo fin dalla
nascita.
Persona come maschera, ad esempio, può voler dire che ogni
personaggio ha una sua maschera, non intesa come guscio
impersonale ma, al contrario, perché ha quella personalità, quella
identità, quel carattere. E aletheia vuol dire verità nel senso che è alla
luce, nell’evidenza, di per sé, giacché il falso puoi nasconderlo ma la
verità mai, proprio perché appartenente, nel suo fulgore evidente, al
mondo, noi compresi.
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L’ipocrisia
L’ipocrisia non consiste soltanto nel simulare un affetto che non si
prova, nell’assecondare coloro che ostacoleremo in ogni modo, nel
compiacere coloro che colpiremo di nascosto, nel mostrarsi
benevoli verso coloro che siamo pronti a deridere, non appena
volteranno le spalle, ma anche e soprattutto nel pretendere che gli
uomini che così trattiamo, non soltanto non se ne abbiano a male
ma ci siano addirittura riconoscenti per le professioni false e le
parole menzognere che ascoltano da noi e che dovrebbero anche
fingere di considerare veritiere, pena la nostra accusa di malizia.
L’intermittenza cronica e la volubilità perenne dei comportamenti e
delle azioni fanno sì che per un periodo dimostriamo il più vivo
interesse per la stessa persona che ci diventa del tutto indifferente
nel tempo successivo, verso la quale, passati anni, o soltanto mesi,
torniamo a provare attrattiva e desiderio di corrispondere. L’oggetto
di tanto variegato trattamento, volubile come noi, ma senza
accorgersene, come noi non ci accorgiamo, presi da altri incontri, di
esserlo altrettanto, giudicherà falso il nostro rinnovato interesse e
troverà la nostra amabilità e partecipazione alle sue cose come
un’ipocrisia, avendo avuto a saggiare la nostra indifferenza. Mentre
tutti veri sono stati sia l’interesse sia l’indifferenza.
Chi frequenta molti uomini finisce però per stabilire come norma
naturale questa continua sauna alla quale sottopone i suoi
conoscenti, e persino gli amici, immergendoli ora in vasche d’acqua
calda ora in vasche gelate e, seguendo il ritmo della volubilità
universale, giudica ingenuo o permaloso chi non sia disposto ad
accettare il procedimento. E questi parrà a tutti degno di solitudine e
di misconoscenza, e meritevole di restare in permanenza, non
sopportando gli sbalzi di temperatura, in acqua fredda.
Aggiungi che arrivando a un grado di sorte giudicato gratificante, a
un traguardo stabile di considerazione, a un conveniente tasso di
fama e di rispetto, il beniamino presunto degli dei sfoggerà verso
tutti una clemenza benigna, un distacco sereno, una padronanza
della fortuna, ormai al sicuro nel proprio carniere, che lo indurrà ad
essere amabile con tutti, a lodare e riconoscere valori anche minimi,
281
a contemplare con sufficienza tacita, sparsa su tutte le cose umane,
gli insuccessi altrui, rinunciando a selezionare e a distinguere, come
deve fare chi si sente ancora a mezzo la scala, e si comporterà in
modo da risultare a tutti il tipo del perfetto ipocrita, non
accorgendosene egli.
Vero è che, vivendo a lungo, se non gli amici, i conoscenti si
moltiplicano mentre si diradano, proprio per la varietà dei candidati,
i turni che a ciascuno di noi spettano nella considerazione degli altri.
Embrioni di amicizie, rampolli di confidenza, getti di intimità
crescono veementi per essere dimenticati nel giro di una settimana,
sbocciano per essere congelati in breve spazio.
E a nulla vale esagerare in professioni di stima e di affetto, che non
proviamo intere, ma che sono veraci almeno in senso potenziale,
come intuizioni di una possibile amicizia, come prefigurazioni di una
solidarietà più profonda.
Ma, non seguendo gli atti e i fatti, non curando insieme un campo
comune, ecco che giudichiamo e veniamo giudicati incostanti,
ipocriti, opportunisti, mentre le troppe relazioni, tutte promettenti
per un verso o per l’altro, ci impediscono di coltivarne ciascuna
come merita, finendo per diventare gli eclettici dell’amicizia, i
velleitari dell’affetto, i millantatori della stima che pretendiamo di
dare a troppi e di ricevere da troppi.
Gli uomini insistono a restare se stessi
Una delle scoperte più stupefacenti sulla natura umana e che si può
compiere soltanto dopo aver vissuto parecchi decenni, se non si ha
la sintesi preveggente e fulminante di Leopardi, è che gli uomini
insistono a restare se stessi, non soltanto nelle loro passioni,
interessi, monomanie intellettuali, ma anche nei tic, nei capricci,
nelle finzioni, nei minimi gesti e comportamenti. Un principio di
arteriosclerosi si innesta fin dalla gioventù nella natura di un uomo,
se non ha il dono e la condanna di un esercizio spietato di
autocritica, che soffre in prima persona e senza frutto. Così troverai
che lo stesso studioso, anche se pieno di talento e di lucidità,
pubblica dopo trent’anni un libro sostanzialmente identico al
precedente. E che lo stesso amico, incontrandoti dopo trent’anni,
282
farà lo stesso commento sul governo, pur essendo di parte opposta
a quella di un tempo, e la stessa battuta sul tuo carattere presunto
che ti aveva fatto trent’anni prima.
Politeismo italico
Gli italiani credono tuttora negli dei dell’Olimpo: il dio del calcio, il
dio della canzone, il dio del cinema, la dea della fortuna, il dio del
potere, il dio del successo, il dio della bellezza, il dio del denaro, il
dio dei vestiti, il dio dei motori, il dio dei telefoni, il dio delle
televisioni, il dio della vacanza, il dio del corpo, il dio del
divertimento. Solo che non ne sanno i nomi o li cambiano di
continuo. Tra gli altri c’ anche il dio della religione.
Che però non è Dio.
L’intuizione
Quando ti interroghi sull’origine del mondo, l’immaginazione è
anche più potente del pensiero e anzi ne costituisce la condizione.
Prova infatti a immaginare il nucleo sfolgorante di energia che gli ha
dato inizio. Puoi pensare che lo spazio e il tempo, come dicono i
fisici, siano nati con esso? Proprio no. Allora i fisici ti dicono che
devi scavalcare la tua intuizione e la tua immaginazione e prendere
atto che invece è proprio così.
Ma la tua intuizione non è una qualità soggettiva, bensì è la realtà
stessa dentro di noi, che si conosce per mezzo di essa. Quindi non
puoi né devi scavalcarla. Essa ti porterà a chiedere: Da dove
proviene questa energia? Se i fisici ti dicono: Non ha senso pensarci
perché prima non c’era niente, dovrai ribattere che non si è potuta
creare da sola e quindi doveva esistere da sempre. Ma il sempre è un
concetto astratto, che non nasce dall’intuizione, la quale ti dice
invece che quel nucleo doveva essere diverso e che un prima doveva
esserci per forza come anche uno spazio, che precedesse quel
nucleo. Dire che spazio e tempo sono intuizioni soggettive e forme
organizzative è funzionale al bisogno di darci una sintesi ragionata
283
del mondo. E quindi è bene pensarlo se si vuole che vi sia scienza.
Ma essi potrebbero essere cornici oggettive della realtà.
Più importante della scienza è la realtà compresa
dall’immaginazione. La quale ci dice che qualcosa che esiste per
sempre e da sempre non soltanto non è spiegabile e comprensibile
ma non può nemmeno esistere. Non perché ci costringe a un
regresso all’infinito e a una derisoria rinuncia, come nel gioco del
perché. Tante impotenze infatti sperimentiamo, e tante assurdità.
Ma perché il sempre non è fondato nella realtà stessa, giacché
abolisce la causa, che è una necessità fisica (nella realtà, se anche
nella scienza può essere una convenzione). Quindi per forza deve
esserci stato un salto da un altro universo fisico con altre leggi ignote
o da una dimensione non fisica, di cui non sappiamo nulla ma della
quale sappiamo che è altra ma giammai totalmente altra, giacché
deve essere in ogni caso in grado di spiegare, di comprendere, di
sussumere in sé (come le teorie di Einstein abbracciano quelle di
Newton) la realtà di questo universo, che non può essere abolita da
una verità metafisica altra, bensì comunque ricompresa come
sottospecie o sottocaso in essa.
L’eterno non può più esistere, visto che ormai c’è il tempo. Il
carattere effimero del mondo ha un effetto retroattivo. Bisognava
pensarci prima.
Esperimento per strada
L’universo è così ampio che ci si domanda se un Dio da solo possa
governarlo tutto. Non è più verosimile che vi siano degli dei locali,
legati alla terra e altri miliardi di dei legati ad altri miliardi di terre?
Magari un dio supremo che li guidi e organizzi tutti. Per noi piccoli
uomini è già moltissimo un dio locale , un viceré terrestre, delegato
del Dio supremo. Mentre immagino galassie che fondono ed
esplodono a miliardi di anni luce, una badante rumena guida la
carrozzella con un’anziana donna, con i sacchi della spessa appesa al
manubrio della sedia. E forse non hanno mai pensato in tutta la loro
vita a questa vertigine, che pure è la evidenza realissima dentro cui
viviamo, anche se non la vediamo. Stanno andando a messa e io
284
sono più simile a loro che a ogni altro essere che possa trovarsi in
una qualunque galassia, qualunque cosa abbiamo nella testa. La
differenza tra noi si assottiglia fino quasi a sparire e io provo sollievo
nell’incontrarle e parlare con una di loro di qualunque cosa sarebbe
per me un conforto mille volte maggiore che continuare a pensare
all’universo.
Attacco discorso
Così attacco discorso, con la donna giovane che non pensa che io la
voglia abbordare, ma mi tratta con prudenza materna.
“Fa bene un po’ di sole. Anche se fa freddo.”
“In Moldovia meno venti,” dice con orgoglio.
La vecchia non parla e sta stranamente intenta, col profilo aguzzo e
bianco, sotto la coperta di lana.
“Si è fissata,” fa la donna.
“Con che cosa?”
“Con l’origine dell’universo. È tutto il giorno che ci pensa. Era una
scienziata al Cern.”
La vecchia, senza neanche voltarsi, si mette a parlare, con una voce
asciutta e acuta:
“Ho poco tempo per risolvere il problema. Sembra insolubile
perché è stato posto male.”
“Era candidata al Nobel ma siccome è una donna...”
“La soluzione forse sta proprio in quello che è impossibile. Il nucleo
d’energia è Dio e si è creato da solo. Oppure in realtà il Big Bang è
la fine e noi lo crediamo l’inizio.”
La badante rumena mi fa cenno che ormai non ci sta più con la
testa.
La vecchia non accenna a guardarmi, e la giovane badante continua
a spingerla, così ci troviamo vicino alla chiesa di Madonna di Loreto.
“I problemi in realtà sono due,” continua la vecchia, “uno è l’inizio e
l’altro è il sempre. Un inizio infatti non può esserci, è un assurdo. E
neanche un sempre può esserci, è un altro assurdo. Niente può
esistere da sempre e niente può cominciare dal nulla. È un vero
rompicapo e io ho pochi mesi di vita.”
285
Mi accorsi di essere ormai di fianco alla chiesa e mentre la badante la
spingeva lungo lo scivolo per i disabili, per niente stupita che io li
avessi accompagnati fino a lì, la vecchia disse:
“E che c’entro io, povera vecchia? Questa mi porta a messa e io non
voglio. Ma non si sa mai.” Solo allora mi guardò.
La badante, visto che non me ne andavo, ed era finalmente al sicuro,
mi guardò e disse:
“So che lei ha una moglie e dei figli. Perché viene dietro alle donne
sole? Non sembra cattivo.”
Solo allora mi scossi, le salutai e continuai a camminare, ripensando
a quell’incontro che continua a sembrarmi un sogno.
I giallisti
(Per Edgar Wallace)
Nei giallisti, specialmente quelli più artigianali, è singolare la
disposizione a descrivere il paesaggio, per la quale è difficile trovarne
uno, anche tra i meno noti, che non lo sappia fare. Jonathan Latimer
scrive: “Sotto la luna il giardino sembrava una pellicola in negativo,
tutta neri e grigi e bianchi, senza alcuno spessore: come se dei
piccoli disegni di carta fossero stati incollati su una lavagna”. E la
coppia francese Boileau-Narcejac, esperta di pioggia, scrive: “La
pioggia stendeva davanti alla finestra una livida grata. Il castagno
pareva fumare.” E ancora: “Una pioggia fredda che sapeva di bassa
marea”. E infine: “Era una pioggerella errante, che sapeva
dell’interno verdastro di una nube”
Proverbiali gli incipit di Mike Spillane, con paesaggi urbani dentro
cui piombi in poche righe scintillanti.
Ciò dipende dal fatto che, essendo l’enigma tutto riverso nella trama
del poliziesco, il paesaggio viene liberato da compiti evocativi,
analogici e metaforici, che tanto lo gravano e lo spengono nella
prosa volutamente letteraria, e riluce a sorpresa nella sua nuda
evidenza, proprio come quando ci dà le sensazioni più forti dal vivo.
Vale a dire nei casi in cui qualche problema assillante ci preme e un
qualsiasi sguardo gettato su di esso è tagliente e lucido come una
lama.
286
Gli scrittori di polizieschi non indugiano mai sulla natura, perché
essa è secondaria e non si lega mai alla trama. Ma proprio per questo
essa acquista una forza nitida.
Lo stesso fenomeno si produce quando uno scrittore di polizieschi
fa un affondo psicologico, svelando un tratto della natura umana, in
virtù della sua acutezza nell’osservazione, a condizione che sia raro.
E proprio perché non ce l’aspettiamo, in quanto ogni indizio, anche
psicologico, deve convergere a uno scopo, e cioè a caricare o a
sollevare il sospetto da un personaggio, tanto più è forte l’effetto
quando la forza di verità oltrepassa la situazione.
Un esempio decisivo lo troviamo in Edgar Wallace, il più
dickensiano degli scrittori di libri noir, capace di allocare ogni storia
in un ambiente diverso, ora una nave in crociera, ora i docks
tenebrosi del Tamigi, ora il mondo claustrofobico dei fumatori
d’oppio, e ogni volta costruendo una trama con un palese piacere
architettonico e atmosferico.
Ora, questo maestro del genere, a un passo dall’essere uno
straordinario scrittore toto genere, che si fa prediligere anche per come
sa tratteggiare personaggi femminili deliziosi per fermezza e grazia,
influenzando palesemente tutto il cinema di Hitchcock, a un certo
punto, in The Square Emerald, parla di una madre che ballava in un
locale mentre suo figlio stava morendo in clinica poche strade più in
là.
Le madri che hanno cancellato i figli dalla memoria, che non hanno
mai voluto sapere niente, che non provano per loro nessun
sentimento sono numerose in ogni società ma non ne ho quasi mai
sentito nessuno scrivere o parlare al di fuori di lui.
E non importa che alla fine si scopra che quella donna non era la
madre naturale. Lo stigma dell’osservazione resta.
E sentite quest’altra affermazione: “Le scuole private e pubbliche
sono piene di giovani, maschi e femmine, che conoscono le
discipline più oscure, ma non hanno mai conosciuto le arti
elementari.” Poco vero?
287
Vi sono tantissimi casi di semianalfabeti con un talento spropositato
in qualche campo, del tutto ignoranti in quasi tutti i campi dello
scibile, e in uno solo eccellenti. Io stesso potrei fare più di un nome
ma anche in questo caso lo schema adombra la realtà.
Terzo esempio, tratto anch’esso dallo stesso libro di Wallace: “Si
paga più cara la debolezza di carattere che non la cattiveria.”
Sulle donne, che conosce meglio di molti per averle lungamente
studiate e amate, dice in un racconto che esse sanno separare la
realtà dal suo involucro. E infatti la loro capacità naturale è proprio
questa, tanto più quando al guscio danno un’importanza marcata e
costante ma, mentre ti danno un tuffo al cuore sorridendo
smaglianti, esse sanno l’effetto, lo mettono in gioco e lo disistimano,
come l’uomo che se ne fa ammaliare.
Il problema cosmogonico come un poliziesco in cui noi siamo il
detective, l’assassino e la vittima.
17 febbraio
“Perché mi dici buono?”
“Perché mi dici buono? Io non sono buono. Buono è solo Dio.”
Così Gesù risponde, con la sua caratteristica prontezza di battuta e
completa mancanza di opportunismo e di gentilezza formale. Essere
buoni vuol dire indulgere e compiacere. Gesù non è buono, anzi è
asciutto, duro, senza mezze misure. Quando un discepolo, pronto a
seguirlo, gli chiede solo di aspettare che seppellisca il padre, gli
risponde: “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”. Osa dire
che dovremo odiare il padre, la madre, la sorella.
Se tu leggi i Vangeli e dimentichi la immensa elaborazione
sentimentale fatta in due millenni sulla sua figura, ti accorgi che in
Cristo spira l’aria tagliente dell’amore vero e divino, che risulta
impietoso. Difficile permanere a lungo in questa coscienza, eppure
soltanto così è salutare.
288
Verità nell’assurdo
Quando una tesi risulta palesemente assurda e contraria alla logica, è
probabile che proprio lì si annidi una verità. Non qualunque
assurdità, ad esempio che l’universo stia tutto nell’utero di una
femmina immensa, gode di questa forza scandalosa, ma soltanto
l’assurdo che capovolge grazie alla scelta del punto esatto della leva
la più logica delle teorie.
Immaginiamo un nulla nero, cieco e totale e senza Dio, ad esempio.
Noi sappiamo che è impossibile che ci sia mai stato, giacché il primo
essere avrebbe dovuto crearsi da solo non essendo, il che è
contraddittorio. Eppure questo nulla impossibile la nostra
immaginazione è pronta a giurare che sia un tempo esistito e che da
esso Dio, Dio che se può l’impossibile, deve poter compiere
l’impossibile supremo, si sia creato da solo, senza essere mai esistito
prima, da quel nulla, con un guizzo di amore che ha generato anche
se stesso.
Insensato non dico pensare, ma proprio immaginare, che l’universo
si autodistrugga, si annichilisca, giacché l’amore ha il potere
dell’impossibile e il disamore non può nulla che sia fuori delle leggi
della materia.
Miracoli
È possibile che Gesù, scoprendo il suo potere di fare miracoli la
prima volta, abbia compreso di essere l’eletto e che ogni miracolo
che lui compiva rafforzasse la sua fede nel Padre. Se non avesse
compiuto miracoli chi gli avrebbe dato il coraggio di credersi
l’eletto?
Pare strano che compisse tanti miracoli. Tutto frutto di suggestione?
E come mai Pilato, i romani, i giudei, non ne hanno tramandato
notizia? E come mai chi ha assistito continuava a non credere?
Eppure senza miracoli non c’è Cristo. C’è solo il migliore degli
uomini.
289
Non c’è santo senza miracolo. Un prete mi ha raccontato della
fondatrice del suo ordine, che saliva le scale senza toccare i piedi,
che ha tagliato una porchetta all’infinito per sfamare duemila
persone ed era dotata del potere della bilocazione, tant’è che una
volta apparve a Mussolini, il quale se la fece sotto per la paura. È
singolare che i miracoli dei santi, o candidati alla santità, ricalchino
sempre quelli di Gesù.
Ha aggiunto che i membri del suo ordine non ne hanno mai diffuso
la notizia per evitare che intorno a lei nascesse un culto come quello
rivolto a padre Pio.
Perché i miracoli non compiuti da Cristo mi sembrano comici?
Io non ho mai assistito a un miracolo nell’ordine fisico, quindi non
posso dire né di crederci né di non crederci, giacché lo può dire solo
colui che ha assistito. Ma è possibile, assistendo, non crederci?
È impossibile che io abbia assistito a un miracolo e non me ne sia
accorto?
Avvengono milioni di miracoli, anche a noi stessi, senza che noi ne
sappiamo nulla, la gran parte nell’ordine spirituale ma, essendo
questo tessuto con il corpo, anche in quello fisico. Questo mi
sembra più verosimile, nell’esatto ordine della fede. Cristo non
voleva che si propagandassero i suoi miracoli e ha detto che la destra
non deve sapere ciò che fa la sinistra. E volete che si faccia
propaganda da solo? Ma perché certi miracoli affiorano
pubblicamente? E perché a certi è negato fruirne? C’è nel miracolo
pubblico una violenza verso coloro che non ne hanno goduto, pur
avendo fede.
Vedi il racconto di una mia amica che facendo la risonanza in
ospedale ha pregato tutto il tempo e poi le hanno scoperto un
tumore. Io penso con dolore alla sua solitudine disperata e
immeritata. Allora non è vero che sei hai fede otterrai l’impossibile.
Per questo non amo i miracoli pubblici, perché nascondono i
miracoli segreti, veri, che nessuno conosce e che Dio da sempre
290
compie di nascosto. E, concedendolo a uno, li negano a milioni di
persone.
Le masse non odiano e non amano
Le masse in realtà non sono capaci né di odiare né di amare. Si
eccitano e distruggono, si eccitano e adorano. Ma non odiano né
amano, come immensi animali. Per questo è così facile pilotarle, se ti
limiti a eccitarle, e perderle se le vuoi portare a un’azione costruttiva,
o anche distruttiva. Se amassero o odiassero veramente non
riusciresti a spostarle di un millimetro.
Per questo i raduni mondiali della gioventù intorno al papa non
hanno niente a che fare con Cristo. Per questo persino le folle che,
come ci narrano i Vangeli, seguivano Cristo in persona, si sono
disperse tutte nel momento del giudizio di Pilato.
Il campionato nazionale
Il campionato nazionale italiano con la squadra dei giudici, dei
governanti, dei parlamentari, del centro destra, del centro sinistra,
dei bancari, dei finanzieri, dei tifosi di calcio, dei giornalisti, degli
stilisti, dei cantanti, degli attori, dei comici, dei sudisti, dei nordisti,
dei medici, dei professori, degli impiegati, degli operai. Le squadre
più ricche e potenti lo vincono sempre e le altre fanno l’altalena tra
la A e la B. Si va avanti all’infinito.
La super verità
A qualunque religione si appartenga o qualunque credo si neghi, c’è
sempre il problema della verità, della super verità. Problema che
possiamo ignorare ma c’è. Non sappiamo né sapremo mai qual è la
verità ma sappiamo che una verità deve esserci, benché le forze
superne ci devono stimare ben poco per tenercene all’oscuro. O
amarci troppo.
291
24 febbraio
L’allegria ci rende unici
Ciascuno ha delle fonti di allegria segrete e del tutto personali, che si
rivelano a sorpresa, in una battuta, un gesto, un controsenso che fa
ridere. L’inventiva dell’allegria è almeno pari a quella del dolore ma,
mentre soffriamo tutti allo stesso modo, benché per ragioni del tutto
diverse, gli scoppi d’allegria hanno modi talmente personali e
nascono per sequenze di emozioni così proprie, da stampare il
ritratto di una persona in modo unico, meglio delle impronte digitali.
Un ringiovanimento frenetico, fittizio, truccato e un improvviso
invecchiamento, come una saetta.
Italiani
Nella società corre un lamento continuo contro gli stranieri che
intaccano le nostre culture e invadono la casa nazionale. Ma in realtà
le nostre culture erano già degradate e rese insulse da una catastrofe
tutta nazionale e gli stranieri non possono che ridare vitalità a un
popolo che ha perso la sua personalità, guadagnando pochissimo sul
piano economico e dimenticando che l’importante non è la meta ma
il viaggio.
In ogni cultura che si rispetti infatti quello che conta non è la
quantità ma il timbro umano, non è il numerico ma il modo e la
grazia artistica con cui si vive la stessa crisi economica.
Gli italiani si sono sempre distinti per l’invenzione di una natura
propria, restia alle tappe meccaniche del progresso. Hanno vissuto
in passato meno comodamente di altri popoli occidentali ma con più
candore affettivo e più ironia e scioltezza. Se ogni popolo ha un suo
genio, c’era in questo un’intelligenza collettiva che rendeva le nostre
terre più abitabili di quelle più efficienti, sicure e moderne.
Così R. Barthes, nei suoi Scritti, parlando di Stendhal, dice che per lui
l’Italia era “il luogo della vita vera” e aggiunge: “Si deve intendere
292
con ciò che quanto non è italiano ha un certo carattere di
inesistenza. L’Italia è il reale allo stato puro, dunque intensivo,
maggiore.”
“Luogo della vita vera” può voler dire che la cultura cresce in modo
collettivo rigogliosa dentro la natura umana. Ciò genera l’effetto
allucinatorio, forse, ma potente, di una realtà illuminata a pieno
giorno.
Con il terrorismo è cominciata invece la subordinazione del presente
a un fine assoluto, assurdo e meccanico. La palla dell’assolutismo è
stata presa poi dal trionfo dell’economia numerica, che ha
trasformato gli italiani in cialtroni scontenti, in avventurieri infelici e
corrotti.
La poesia della geniale stupidità italiana, che ha affascinato mezzo
mondo, si è andata spegnendo e ora The Economist compiange la
nazione triste e arida, ossessionata dai conti della spesa che non
tornano. È brutale ma vero che i conti non sono mai tornati per
milioni di italiani, ma adesso abbiamo perso il genio della povertà,
l’allegria dei naufragi.
Memoria degli italiani innamorati
I film e le canzoni fino agli anni 60 ci dicono dell’importanza
centrale che gli italiani davano al sesso, ma soprattutto il desiderio di
innamorarsi, di sfiorare la donna dei desideri, le giornate inoperose a
fantasticare uno sguardo ricambiato. Le donne gareggiavano in
questo con noi uomini, facendoci sentire più uomini e noi le
facevamo sentire più donne, benché fossero di continuo assillate e
molestate dai corteggiamenti imbarazzanti.
Il comico schizzava dalle figure patetiche che l’eccesso emotivo in
amore causava nelle persone più composte.
Ora si dice di continuo che i maschi non reggono il nuovo ruolo
assunto dalle donne, che consiste nello spoetizzare la vita per una
rivalsa in prosa nell’azione sociale. I maschi tendono così a
293
poetizzare sempre più il potere, il successo, il denaro, cose prosaiche
e artefatte per eccellenza, al massimo eccitanti, come può eccitarsi
un guardone che poi non riesce a concludere l’atto, con le
conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
Le donne invece si sarebbero aspettate da parte nostra l’invenzione
di un comportamento poetico maschile, che sarebbe stato possibile
soltanto con qualche impresa da compiere nella società, al quale
dedicare tutto, con una morale ferrea, con una passione convinta, e
ingenua, sia pure, in qualche impegno radicale, in una fede politica o
pedagogica o imprenditoriale. Di uomini così le donne si potrebbero
innamorare, ma sono troppo rari oggi in Italia.
Da ciò il gran numero di donne di valore che non si sposano. Quasi
sempre sono quelle che hanno un ideale alto degli uomini, che
hanno un equilibrio, che non conoscono trucchi e sotterfugi.
Le donne di Svevo
Quando un ragazzo incontra per strada due ragazze, guarda la più
bella e appariscente e l’altra, che è sempre la migliore, anche
fisicamente, se ne accorge, soffre e si tempra in silenzio. Di qui
nasce l’educazione sentimentale femminile.
La coscienza di Zeno insegna a scegliere la meno appariscente e
comunque non quella che più istintivamente ci attrae, non solo per
pragmatismo ma soprattutto per una superiore coscienza delle
donne e una singolare attenzione ad esse, pregio primo della
Coscienza, che dà equilibrio ritmico e charme continuo al romanzo.
Nel suo romanzo si prova il sollievo straordinario di vedere
finalmente distinti gli uomini e le donne, e soprattutto comprese
queste nella loro musica, fermezza e grazia concrete e vere.
Me ne sono accorto soltanto adesso, pur avendolo letto tante volte,
a conferma che gli influssi più profondi, perché è proprio Svevo che
mi ha insegnato che è più bello, scrivendo, aprire gli occhi sulle
donne che non sugli uomini, sono quelli che più profondamente e
inconsciamente covano in noi.
294
Fidanzate e sposate
La donna fidanzata è vista dagli uomini come pur sempre libera e sul
mercato, e hai meno scrupolo di rompere il patto altrui o
minacciarlo. Anche i più libertini onorano il matrimonio, se non
altro per la gran paura che ne hanno, non già in sé ma come
baluardo sociale e giuridico.
Chi ama una fidanzata altrui può irrompere mosso da amore senza
alcun ritegno, senza curarsi dei turbamenti della donna o solo sulla
carta e, in un angolo secondario di colpa, della slealtà verso l’uomo.
In fondo il fidanzamento è reversibile e l’amore lo spazza via come
una forza naturale, senza porsi il tema morale (proprietà, rispetto,
onestà), ma al massimo quello sentimentale.
Se ami invece una donna o un uomo sposati il tuo amore combatte
contro l’irreversibile e lo vuole revertere, rovesciare, con tutt’altra
attitudine, anche tragica. L’amante illegale sente infatti molto più del
legale la potenza della legge.
Paranoie politiche
I nostri politici hanno la specialità di fissarsi su un tema di dibattito e
di concentrarsi retoricamente su quello, dando il peggio in
esternazioni emotive e dispute polemiche su ragioni di principio.
Abbiamo visto trascinare in Parlamento e sulle prime pagine dei
quotidiani una ragazza in coma da affidare all’amore dei cari e alla
preghiera. Di colpo si passerà ora a lotte infernali pro e contro il
nucleare, che dureranno mesi e mesi con strascichi infiniti. Subito
dopo la costruzione del ponte di Messina occuperà di nuovo le due
tifoserie, fino a diventare una materia metafisica. Parlamentari,
giornalisti e altri cittadini, altrettanto comuni (perché siamo tutti
comuni), si eserciteranno in orazioni e in conflitti retorici, pronti a
spolpare l’osso retorico che di volta in volta verrà gettato tra gli
scanni.
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Nel frattempo la politica reale si farà fuori del Parlamento e a
nessuno verrà in mente che questi temi grandiosi siano dati ad esso
in pasto, a decisioni già prese, solo per tenerlo occupato, visto che
gli stessi deputati e senatori, non potendo avere la più pallida idea
delle azioni economiche concrete da fare per temperare la crisi,
giacché nessuno le conosce, preferiscono di gran lunga fronteggiarsi
su questioni morali supreme e vacue, su ideologie e valori alti e di
principio, che non sentono e neanche vivono.
L’arte nel governo sta in gran parte nel fare le cose ottime come le
pessime in segreto. Le ottime, perché altrimenti saranno osteggiate
da tutti, per mille ragioni, le più delle quali basse. Le pessime
ugualmente, soltanto sostenute dalle persone più oneste, e per
ragioni alte. Ma questo nelle democrazie è impossibile. Dovrai
quindi sempre stornare l’attenzione con grandiosi temi di interesse
pubblico fittizio sia per portare a compimento un’intuizione positiva
sia per distruggere a tuo vantaggio il bene altrui.
Militanti e reduci del ’68
Il 1968 è un anno, che riassume in realtà un periodo di almeno sei,
sette anni, per come in Italia i movimenti che altrove, come in
Francia, si risolvono in pochi mesi, da noi durano una vita, nutriti
con flebo giornalistiche e televisive finché non si estinguono
naturalmente. In fondo l’idea che uno debba essere curato
all’infinito, per seguire la natura, è la stessa dei giornalisti per i quali
devono riparlare delle stesse cose fino allo sfinimento finché la
natura, cioè la nausea dei lettori e degli spettatori, non li costringa a
cambiare tema.
Per certi fedeli invecchiati di sinistra, la storia è finita con il ’68 e
dopo si è caduti in un presente permanente, un precipizio di banalità
e cinismo in cui le cose accadono senza lasciare traccia. Un’isola
temporale, in cui si è svolta la loro vera vita, che ricordano da reduci
con tenerezza mista a rancore, mitizzando ogni sguardo e ogni
gesto, rifiutando ogni passaggio tecnologico, indossando le stesse
giacche e sciarpe dell’epoca della gioventù, rileggendo gli stessi libri
ingialliti.
296
Il fenomeno si sta accentuando oggi che i sessantottini si avvicinano
a diventare sessantottenni e, mentre la generazione precedente
riscopriva nel cassetto un foulard di seta e una pipa, un biglietto del
night o una fiche di Montecarlo, loro ci ritrovano il volantino di una
manifestazione, il sacco a pelo di un’occupazione, la cartina per gli
spinelli, un pamphlet di Cohn-Bendit, la foto sbiadita di una
compagna russa con cui sono andati a letto grazie a Lenin.
27 febbraio
Omaggio a De Chirico
Giorgio De Chirico, uno dei pochi uomini liberi e pittori pensanti
che abbia avuto l’Italia, parla della “Stimmung del sentimento
d’autunno in Nietzsche, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più
lunghe che d’estate, poiché il sole comincia ad essere più basso”, che
per lui è la tonalità di tutto il suo pensiero. Naturalmente è vero,
anzi è questo l’unico modo in cui Nietzsche possa concepire e
sentire la felicità e la conoscenza. Felicità che anch’io ho provato,
secondo me tipica dei trent’anni, e che non potrò mai più
dimenticare. Si tratta della maturità dell’anno, un senso di pienezza e
di sazietà come se la tua stagione fosse una donna incinta. E insieme
il senso sereno di declinare, di decadere, giacché la donna incinta in
fondo sta veramente bene solo quando è incinta e, se desidera che il
figlio nasca, desidera altrettanto che duri il periodo della sua matura
attesa di felicità.
La primavera è verde, l’autunno di tutti i colori, dice Madame de
Sevigné. L’autunno è soprattutto tutte le stagioni, tutti i tempi in
uno. L’autunno è l’avvenire.
Gli occhi della materia
Col metodo dell’immaginazione pensante risulta evidente che la
materia deve da sempre aver avuto occhi, naturalmente di genere
speciale, ben prima del primo animale vivente. Come avrebbe
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potuto organizzarsi senza cozzare a casaccio, distribuendosi nello
spazio o, se si preferisce, espandendo con sé lo spazio, ma
comunque in modo da non disturbare l’altra materia ed energia, e
soprattutto da consentirsi lo sviluppo che poi ha avuto?
Dire che è accaduto per caso non significa nulla. Equivale infatti a
dire che non c’è stato un Dio, una mente sovrastante che abbia
pilotato il processo verso un fine. Ma deve comunque esserci stata
una Mente Prima concentrata nel cervello del primo nucleo di
energia tredici o quattordici miliardi di anni fa, e poi disseminata
ovunque nelle cose. E questa Mente deve aver avuto un suo occhio
per vederci chiaro e non far casino, in qualunque modo conformato.
Il metodo dell’immaginazione pensante è empirico, perché consiste
nel pensare intensamente fino a vederlo, ma sempre come eidos,
come forma intellettuale, un passaggio della storia dell’universo, alla
luce di ciò che sappiamo dalla scienza ma, se necessario, anche oltre
e in contrasto. Arrivati ad esempio al famoso nucleo di energia,
come ho detto altrove, non possiamo certo accettare i tabù dei
dogmi attuali degli scienziati, per cui tutto è cominciato da lì, e zitti
tutti. Prima non c’era un prima, e il dove e il quando, lo
spaziotempo, se l’è fatto da solo la bollente e densissima energia
neonata, scoppiando come un pallone colpito da una pistola.
Per farsi lo spazio da sola l’energia infatti doveva poterlo distendere
da qualche parte, su uno sfondo che già c’era, il vuoto cioè, tanto più
che non puoi dire che lo spazio sia il vuoto. E per poter distendere il
suo tempo, che non è uno sfondo metafisico, ma una forza attiva in
costante legame con lo spazio, tanto che senza di quello non
potrebbe esistere, avrebbe avuto bisogno di un tempo anch’esso
vuoto, di una conca del tempo, di un palcoscenico di tempo già
esistente.
Infatti un’esplosione presuppone un ambiente già formato, che deve
precedere sempre di una frazione infinitesima ma decisiva, di un
tempo di Planck, la espansione della materia su di essa. L’energia ha
un suo spaziotempo interno, ma che non può che espandersi in uno
spaziotempo esterno, oggettivo preesistente, anche se in apparenza
inerte.
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Come fai correndo a creare lo spazio della corsa? La spinta che ti dai
per procedere devi esercitarla su qualcosa che già esiste. Creare lo
spazio e il tempo con l’energia in modo del tutto autarchico è
altrettanto impossibile che l’autocreazione.
Ma attenti: ciò che è assolutamente impossibile logicamente, è
proprio ciò che può nascondere meglio di tutto il resto una verità
sconosciuta.
Io non amo una cosa perché impossibile, anzi la odio. Ma fiuto
nell’impossibile più alto un terribile trabocchetto di verità.
C’è un teatro vuoto, che ha un suo tempo e un suo spazio. Entra
una band che suona il jazz e fa esplodere il tempo e lo spazio. Di
chi? Del teatro o della band? Lo spaziotempo è della band che suona
e, benché si sovrapponga, allo spaziotempo del teatro, dando
l’illusione che sia il teatro a esplodere, in realtà lo spaziotempo del
teatro resta identico e inerte, benché non si percepisca per la durata
del concerto.
Immanuel Kant ha naturalmente ragione nel pensare che tempo e
spazio siano forme conoscitive a priori, dalle quali è impossibile
uscire. E tuttavia ciò non preclude che siano anche forme oggettive
a priori, benché non lo possiamo dimostrare.
Gli italiani sono tutti dei
A seconda dei casi Dio si vede come un giudice esatto e come un
padre buono. Quando un delinquente della peggiore specie si pente
in punta di morte i suoi familiari invocano il Padre buono, convinti
che, se è infinito amore, dovrà perdonarlo. Quando i familiari delle
vittime del delinquente della peggiore specie chiedono a Dio
giustizia, intendono invece che gli dia una punizione cruda ed
esemplare e si appellano al Giudice esatto.
Gli italiani sono tutti degli dei in miniatura e a seconda del loro
interesse e di come riescono a sistemare le cose nel modo più
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gradevole e gratificante, pregano Dio di venire incontro ai loro
desideri.
Il desiderio come diritto universale e innato. Il delirio di
onnipotenza virtuale.
I calciatori pregano dio che faccia loro segnare un goal, i ragazzi al
mare si fanno il segno della croce prima di una nuotata, prima di un
concorso pubblico, di una notte d’amore. Pregano Dio che il
compito di matematica vada bene, che la holding in cui hanno
investito il santo denaro abbia successo. Il killer prega Dio che lo
ispiri al momento giusto, per non sbagliare il colpo, e il boss della
cupola mafiosa non prende una decisione senza prima aver letto
qualche pagina della Bibbia. L’uomo che tradisce la moglie prega
Dio che non lo scopra e l’amante prega Dio che lo faccia, sempre
con gran passione, dolore ed emozione, per convincere Dio, o
almeno se stessi, della nobiltà dei propri sentimenti. La madre prega
Dio che la raccomandazione per la figlia abbia successo e la figlia
prega Dio che convinca la madre a farsi i fatti suoi. Le madri italiane
notoriamente pregano Dio o perché le figlie trovino l’uomo giusto o
perché buttino a mare quello sbagliato. I padri, nei pomeriggi
domenicali, ascoltando lo schiamazzo della partita, che è godimento
viscerale per chi ama il calcio e strazio di malinconia per chi non lo
ama, prega Dio che la sua squadra vinca e che vinca pure lui qualche
piccolo milione di euro.
Prima di farsi esplodere con le cartucce di plastico addosso il
kamikaze prega Dio che sia così veloce da non sentire nulla, e sia
quel che sia.
Esperimento sul campo
“Noi uomini stiriamo il mantello di Dio come un elastico di gomma
ma bisogna ammettere che Dio non faccia molto perché la
situazione sia chiara. C’è senz’altro in questo una strategia
provvidenziale, o almeno geniale, ma perché rendere felici esseri che
hanno costruito il potere, la ricchezza, il successo sulla violenza,
l’umiliazione, il soffocamento di centinaia di migliaia di persone. E
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perché colpire chi è già colpito, infierire su chi è già a terra,
martoriare chi già è nato nella parte più dura del mondo?” disse il
marito.
“Se lo preghiamo per le cose più assurde forse non dipende un po’
anche da Lui, che non mostra un piano educativo chiaro? Non può
sempre trincerarsi dietro imperscrutabili ragioni superiori. Qualche
volta bisogna pure che la giustizia cominci da qui. O no? Attenzione
che se perdiamo la stima, se il tutto diventa inattendibile in modo
umiliante e leggermente sadico, per dirla tutta, l’incenso potrebbe
diminuire,” disse la moglie
“Non credo gli importi molto. Tanto ha tutto il potere da sempre.
Non ci sono elezioni,” rispose il marito.
“Cos’è? Il fascismo?” disse lei.
“Noi non abbiano nessun potere. Ci conviene tenerlo buono,” disse
il marito.
“Forse hai ragione,” disse la moglie, “è per questo che non posso
più mentire. Io ho un amante. E niente al mondo detesto come
mentire. Io voglio dirti la verità, come piace a Dio.”
“Anch’io voglio dirti la verità: lo sapevo già. Ti ho fatto seguire e nel
cassetto puoi trovare le foto del tuo sesso selvaggio.” E le dette uno
schiaffo che le gonfiò la faccia. “Ho pregato a lungo perché tu fossi
illuminata. E una voce mi ha detto che dovevi essere tu a dirmelo.
Per questo ho aspettato.”
La moglie non si arrese e gli dette un pugno sul naso e, mentre lo
vide sanguinare, unì le mani in preghiera dicendo: “Signore, aiutami
in questo momento terribile della mia vita e proteggimi da questo
violento.”
Il marito, perché entrambi erano cattolici praticanti, con contratto a
progetto, si mise anche lui a pregare Dio che gli dicesse cosa fare. E,
sicuro del suo perdono, prese a picchiarla con tutte e due le mani
mentre lei rispondeva come poteva col posacenere di cristallo.
Fu l’amante, nascosto dietro la tenda, a intervenire, puntando una
pistola contro l’uomo e, dopo essersi fatto il segno della croce,
perché non aveva mai ucciso, sparò un colpo. Che andò a vuoto.
I due uomini e la donna rimasero attoniti. Lui era ferito sulla fronte
e perdeva sangue che colava sui peli neri del petto. Lei aveva la
faccia come un melone e un livido sul fianco. Erano nudi di fronte
all’amante col giaccone, che aveva fatto cadere la pistola e aspettava
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inerme le manette. La donna chiuse la porta a chiave senza
preoccuparsi del seno che ballava e delle cosce nude fino ai fianchi.
Il marito ostentava il suo sangue con orgoglio imbronciato.
L’amante si inginocchiò con la testa tra le mani e scoppiò a piangere.
Era poco più di un ragazzo, carabiniere da sei mesi ed era
dispiaciuto, più della carriera stroncata, del male che stava per fare.
La donna tumefatta lo riscosse insieme al marito, che aveva tra i peli
del sesso ancora qualche grumo di sperma. Riuscirono a farlo sedere
sul letto, a prendergli la pistola di mano e cercarono di fargli capire
che non era successo niente. Lui batteva i denti e tremava.
Il marito allora gli dette uno schiaffone che lo riportò tra i vivi.
La moglie, sempre nuda, gli prese la faccia tra le mani, senza nessuna
tenerezza, e gli disse:
“Non è successo niente. Hai capito? Adesso tu riprendi la pistola
d’ordinanza e ti siedi in salotto a guardare la televisione a tutto
volume, hai capito bene. Cerca un film d’azione con la prima
sparatoria e piazzati lì con un bicchiere di cognac.”
Con la vestaglia bene stretta in vita la donna provvide a sistemarlo e
aggiunse, dandogli un bacio in fronte: “Aspettaci qui.”
Poi si mise a cercare il proiettile, senza trovarlo, e a risistemare il
letto, mentre il marito in bagno si lavava il sangue sotto la doccia.
Già si sentiva bussare alla porta e premere le voci concitate di molte
persone. Lei guardò dallo spioncino e vide che erano in quattro.
“Che succede?” dicevano. “C’è bisogno d’aiuto?”
Lei pregò intensamente, raccolse le forze e disse:
“Scusate, la televisione è troppo alta. La abbasso subito.”
“Abbiamo sentito uno sparo. Sta bene?”
“Benissimo, c’è qua anche mio marito che si sta facendo la doccia.
Io ho preso la rosolia, alla mia età, e preferisco non aprire.”
I vicini non ci credettero per niente ma cosa potevano fare?
Uno di loro disse: “Possiamo vedere suo marito?”
Ma la moglie rispose: “Grazie di tutto ma adesso state esagerando.
Ho detto che abbasso subito.”
E mentre così diceva la televisione tacque. Il silenzio tornò nel
condominio e, scuotendo la testa, i vicini se ne tornarono in camera,
decisi ad approfondire il giorno dopo.
Il marito si era lavato, curato la ferita alla meglio e rivestito di tutto
punto. Il carabiniere stava sul divano sempre con la testa tra le mani.
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La donna non era andata a rivestirsi ma stava bene attenta che non
sbucasse il seno o il pelo dalla vestaglia. Del resto guardava il
ragazzo in modo molto duro e gli disse:
“Non ti farai più vedere. E non parlerai mai a nessuno di quello che
è successo. Se no ti ammazziamo.”
Il ragazzo era distrutto, neanche pensava che non sapeva come
uscire. Riaccesero la televisione e si misero a seguire una partita di
coppa per distrarre l’attenzione dei vicini e aspettare che si
addormentassero. Solo dopo un’ora i due uomini uscirono sul
pianerottolo e il ragazzo si accorse che c’era una telecamera puntata
su di loro, montata sopra la porta del vicino. Ebbe la tentazione di
fracassarla. Ma il marito, facendo finta di niente, si mise a
ringraziarlo per come era venuto di notte a visitare la moglie, anche
se lo aveva tirato fuori da una festa. E senza aspettare una reazione
lo cacciò nell’ascensore e lo ringrazio sorridendo, e facendogli
persino un inchino.
Quando tornò nell’appartamento c’era uno strano silenzio. La
moglie venne fuori dalla camera da letto con il proiettile in mano,
che gli mostrò senza badare più a tenere stretta la veste. “Questa è la
nostra garanzia,” disse.
E vide che la fronte del marito aveva ripreso a sanguinare. Lui pensò
a come sarebbe stato disgustoso fingere con tutti, inventandosi una
caduta per la ferita che gli aveva fatto lei, e riprese a odiare la moglie,
che decise che non avrebbe lasciato subito. Ma solo dopo averle
fatto scontare tutto.
Lei ne era sicura e studiava il modo di lasciare la casa prima che
diventasse un inferno. E mentre sedettero di fianco sul divano a
pensare la strategia per i giorni successivi, lei disse a capo chino
“Prego il Signore che mi perdoni e sono pronta a soffrire tutto
quello che c’è da soffrire. Ma per favore non mi lasciare.”
Lui la guardò senza riuscire ad odiarla, perché le era del tutto
indifferente come moglie, benché non ancora come femmina, e
disse con disprezzo:
“Intanto siamo vivi. Cosa vuoi che sia un po’ di sesso?”
Lei era perfettamente d’accordo ma non poteva dirlo. Tra l’altro
dopo il sesso col carabiniere aveva rivalutato parecchio il marito. E
avrebbe fatto volentieri una certa cosa, peccato che non fosse il
caso.
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Il marito decise di andare al Pronto soccorso verso le tre del mattino
a farsi curare e per strada ringraziò Dio che gli aveva salvato la vita.
Lei rimase a letto a occhi aperti, rivide la scena, e anche lei ringraziò
Dio, che l’aveva perdonata, visto che era ancora viva. Il carabiniere
era troppo giovane per questi ringraziamenti e non ci voleva credere
che tutto si fosse risolto tra loro, quando si vedeva già in galera per
qualche anno. Si coprivano a vicenda e dovevano solo stare attenti
che la coscienza non si ribellasse e uno di loro non dicesse di colpo
la verità.
2 marzo
Paradossi dell’arte contemporanea
Marcel Duchamp nel 1917 ha comprato un orinatoio e lo ha esposto
alla Società degli artisti indipendenti di New York, oggi al centro
Pompidou di Parigi, e un uomo qualche anno fa ci ha pisciato
dentro, per poi venire condannato a pagare una somma enorme che
non possedeva. Nel suo trittico Phaedrus l’artista americano
Twombly ha esposto una tela bianca, quotata due milioni di dollari.
Una donna l’ha baciata, imprimendovi il suo rossetto, ed è stata
condannata a pagare 4.500 euro.
Perché, però? Loro magari hanno capito lo spirito degli artisti più
degli altri. Soltanto che le opere non sono più loro, ma di proprietà
dei musei.
Le tele di Cy Twombly consistono in genere in apparenti
scarabocchi graziosi e spruzzi di colore, disposti sulle tele
musicalmente, quasi sempre piacevoli a guardarsi, perché dotati di
una ritmica e di una percezione assai raffinata dello spazio. Il titolo
può essere Apollo e l’artista o, più pudicamente, Senza titolo, ed è fuori
di dubbio che lui si diverta molto e che forse, pur soffrendo per il
rischio della sua avventura, è un uomo felice, nel senso che ha un
buon demone. La sua non è affatto una ricerca gratuita e incolta, se
è vero che Mallarmé è una delle sue fonti ispiratrici.
E tuttavia, se guardiamo le cose in panoramica, è irresistibile la
sensazione che, leggendo le sue opere come segni di un’epoca, tra
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trecento anni verremo considerati preda di un’epidemia
internazionale di bambineria. Bambineria ludica, bambineria
raffinata, bambineria aristocratica e quasi geniale.
È una lezione liberatoria, sia perché sdrammatizza il peso del denaro
sia perché sdrammatizza il valore dell’arte. Ed è anche una lezione
democratica, perché riabilita il genio dei bambini, che tutti lodiamo
senza capirlo a fondo. Giacché tendere con tutte le forze artistiche e
intellettive a diventare bambini, visto che non si torna mai indietro,
da adulti, è impresa titanica. E tuttavia è anche una lezione
angosciante, ed è ipocrita non volerlo ammettere.
Non soltanto perché la tecnica è ridicolizzata, mentre essa è bene
che resti il baluardo minimo in tempi di confusione, ma anche
perché ci scopriamo ancora una volta preda del doppio terrorismo,
del mercato e dei critici d’arte, che giudicano uomo del passato
chiunque osi svalutare opere di questo genere. Il gioco, la
provocazione, l’irrisione, il gesto libertario sono quotati alle stelle nel
mercato internazionale e si avvalgono della stessa potenza che
vorrebbero ridicolizzare, e che è la principale causa della completa
separazione tra l’arte contemporanea e i cittadini del globo nei nostri
tempi.
Il diritto di giocare con costosi e complicati giocattoli, giacché una
mostra dell’arte degli ultimi decenni non è che un immenso bazar
pieno di giocattoli ingegnosi, in cui anche a me piace aggirarmi con
una catarsi ludica, si è assicurato però tutta la solennità dell’arte degli
antichi maestri. E i miliardari di tutto il mondo si divertono a
spendere somme favolose per una tela bianca o un aereo fatto con le
canne, per il teschio di diamanti di Damien Hirst (75 milioni di
dollari) o per una mucca sezionata e conservata in formalina, in
teche di cristallo. Sempre che prometta di rendere un giorno dieci
volte l’investimento.
Fatti salvi i conti in banca e il divertimento impareggiabile di
rilanciare la posta contro un mondo banale, sordomuto e cieco, con
sorprese sempre più eclatanti per un pubblico ormai inerte e
sottomesso, alcuni artisti di questo genere vorrebbero anche dirci
qualcosa di indispensabile sui nostri tempi e passare per profeti,
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rivelandoci ciò che in realtà tutti sappiamo, che la nostra è una
civiltà necrofila di guardoni e di cinici disincantati che non si
stupiscono più di niente. Lo choc non colpisce che per qualche
secondo la gente già fin troppo eccitata, che fa un sorriso di finto
scandalo e di compatimento e passa oltre, ammirando la furberia
dell’autore e scherzando piacevolmente per le scale.
Dici di essere un artista, dimostraci che sai disegnare e poi fai quello
che vuoi, come Picasso. Dici di essere un musicista, dimostraci che
conosci l’armonia e la storia della musica e poi rifai tutto a modo
tuo, come ha fatto Schönberg. Dici di essere un poeta, dimostra che
sai cos’è la metrica e la storia della poesia. E poi fai quello che vuoi,
come ha fatto Zanzotto. Siamo stufi di geni che non sanno la
grammatica e la sintassi, l’anatomia del corpo umano e non hanno
mai ascoltato il Clavicembalo ben temperato o Modern Times di Bob
Dylan. Siamo stanchi di gente che non apre mai un libro e ne
pubblica uno all’anno. All’inizio poteva andarci bene ma adesso siete
troppi, e avete preso tutta la piazza. E siete brutti.
Dentro il pulviscolo democratico in cui ogni granello di polvere
brilla e scompare persiste una cerchia di uomini semplici e
aristocratici, ormai disperati di poter diffondere i valori presso le
masse, ma che non hanno rinunciato a riconoscerli e difenderli. Una
cerchia più chiusa che nel Rinascimento, chiusa dentro dall’esterno,
di solitari che quasi nessuno conosce, e che tessono la tela della
scienza, della filosofia, della letteratura, facendo sì che le masse non
cadranno nel vuoto quando d’un colpo si risveglieranno dall’incubo
variopinto. Faccio un nome per tutti: Giacometti.
Sulla zattera della crisi
Siamo sulla zattera della crisi, una zattera di migliaia di chilometri
quadrati. Nessuno riuscirà a portarci in salvo da una crisi economica
mondiale, nemmeno i governanti e gli economisti. Scegliamo allora
personaggi di valore, almeno, condannati come siamo a restare in
alto mare, sentiremo discorsi brillanti di gente seria, che ci
conforteranno nella deriva invincibile della sorte. Invece siano
costretti a subire gente che non solo non può fare nulla, ma non
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capisce neanche nulla, e che e che in più non sa l’italiano, non sa
ragionare, ci riempie la testa di false promesse, pretende di farci
credere vicini al porto, e ha persino una voce stridula e fastidiosa.
L’analisi giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. Siamo
vittime di un eccesso di analisi e manca del tutto lo sguardo
panoramico. Chi lo possiede viene indicato come una Cassandra o
come un perdigiorno.
Cose sensate
Le donne posseggono un punto di rovesciamento dell’amore in
odio, nel quale ritirano in modo irreversibile la femminilità.
Io ho i figli migliori che si possano immaginare. Per qualità
intrinseche e per come li amo. L’amore vede il valore, quando c’è.
Nietzsche irride gli storicisti i quali pensano che “il senso della vita
venga alla luce nel corso del suo processo”. Pensa che sia ridicolo
pensare che i prossimi dieci anni siano migliori di quelli che abbiamo
vissuto. E che, comprendendo questo, cercheremo di vivere a pieno
il presente. Ma ciò accade lo stesso se non abbiamo mai fatto nulla
di buono?
Perché non possiamo abbandonarci al mistero come ci si abbandona
alla fede? Pensare che sia un bene che ci sia, e accettare con
naturalezza, senza smaniare e senza cercare verità impossibili, il fatto
che c’è.
È pessimo scienziato colui che, avendo fissato i limiti della
conoscenza, vuole abolire il fatto incontrovertibile e sperimentale
che il mistero c’è, qualunque cosa lui pensi.
Il mistero, dico, non il segreto, che infatti Vladimir Jankélévitch
distingue molto bene. Il segreto infatti, per esempio la combinazione
di una cassaforte, qualcuno lo conosce. Il mistero invece non lo
conosce nessuno ma gli effetti del mistero sono sotto gli occhi di
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tutti. Il mistero consiste nel vedere il fiume e sapere che deve esserci
una sorgente, che però è impossibile per sempre trovare.
Una donna giovane cammina storta sotto il mio balcone con i sacchi
della spesa, spingendo una carrozzina con due gemelli. Non pensa
che siamo su un pianeta perso tra miliardi di galassie. Ha altro per la
testa, ed è bene così. Ma è legata a quelle galassie, come tutti noi,
ben più strettamente di quanto riusciamo soltanto a immaginare.
Ha diritto di non pensarci perché ha una famiglia da tenere in piedi,
ma l’astrofisico no. Ha voluto lui mettere mano all’universo e allora
deve farlo fino in fondo. Anche lui però ha una famiglia. Se
collegasse questo fatto alle sue osservazioni diventerebbe un
filosofo.
4 marzo
Esiste il sadico invisibile?
Se ragionando escludiamo tutto ciò che è impossibile, perdiamo
gran parte delle possibilità di capire. Il possibile infatti è stato
definito a posteriori, e di fatto esso è sempre un compossibile. Ma
non sappiamo, nel primo lancio di dadi, quali sono state le cause
prime che hanno reso impossibili miliardi di effetti. Non sappiamo
quindi cosa era impossibile prima che la maglia dei possibili si
formasse.
Appostato dietro le tue spalle, con un mira infallibile, un essere ti
colpisce dove sa il tuo punto debole e lascia che l’effetto spunti mesi
o anni dopo, sicché tu non sai nemmeno perché muori. Esiste
qualcuno così?
L’immaginazione di un essere del genere è segno di gran
presunzione e di tendenza monomaniacale. Per fortuna non siamo
così importanti da minacciare esseri superiori per i quali
diventerebbe per loro necessario eliminarci.
Avendo noi stessi un nemico dentro, vedere che un altro essere, uno
come noi, che non abbiamo mai colpito, e anzi beneficato, a questo
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nemico si allea, ci dà il preciso sentimento che chi vuole il nostro
male, non immaginando niente delle nostre pene, non concependo
come siano sempre sproporzionate al risultato raggiunto, sia anche
un po’ coglione. Il male che ciascuno soffre infatti, se anche non
offeso da nessuno, è già troppo per noi. Ed è proprio questo
eccesso, questo sovraccarico, anche piccolo, che giunge da un altro a
farci soffrire sempre più di quanto meriterebbe.
Se esistono potenze sadiche, il loro attacco dovrà essere casuale,
perché non è concepibile che diano tanta importanza a un uomo da
voler colpire proprio lui. Tuttavia la cosa migliore non è nascondersi
bensì vivere coraggiosamente. Tali potenze, se anche esistono, sono
incenerite da un comportamento disinvolto e smemorato.
Dio, ti prego, se non sei buono, non essere malvagio! Pregandoti
possiamo rabbonirti, possiamo dolcificarti e umanizzarti? Non
essere neanche neutro però, se no sarebbe come se fossi malvagio,
visto che la partita è truccata e noi siamo destinati comunque a
perderla. Sii soltanto buono allora. Amaci ancora di più. Dici che
non è possibile perché il tuo amore è già perfetto? Non sembra,
però. Se sei Dio, se sei veramente Dio, amaci di più. Amaci fino
all’impossibile. Ci ami già da morire? Non basta, amaci da vivere.
Un dio malvagio sarebbe banale. E di Dio puoi dire tutto tranne
questo.
5 marzo
La sindrome del casellante
Il casellante era molto educato il primo giorno di lavoro e salutava
sempre tutti ma già a sera aveva conosciuto la natura umana nelle
sue forme più sconcertanti. Due su tre non rispondevano ai suoi
saluti perché li ritenevano compresi nel prezzo del biglietto. Ma lui
resistette in nome di quel terzo che rispondeva. Il secondo giorno
l’irritazione per chi non lo ricambiava si fece sempre più forte e il
piacere di essere corrisposto da una minoranza sempre meno
consolante. In fondo rispondevano alla sua gentilezza senza mai
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prendere l’iniziativa. Il terzo giorno smise di salutare per primo,
limitandosi a rispondere ai più gentili, circa uno sui dieci, che gli
rivolgevano un buongiorno. Ma a che serviva che loro si salutassero
se tutti gli altri non lo facevano? Non sarebbero riusciti a cambiare
mai niente, anche perché gli altri non assistevano allo scambio
cortese.
Cominciò così a non salutare nessuno, neanche quando erano gli
automobilisti i primi a farlo, e a provarci persino un certo gusto. Si
sentiva più forte, più importante, persino più autorevole.
Anche l’automobilista il primo giorno salutava per primo, il secondo
solo per corrispondere e il terzo non salutava più. E la colpa era
tutta di quei nove casellanti su dieci che non salutavano e neanche
rispondevano più al saluto. Il fatto è che in Italia erano tutti
maleducati ormai ed era ora di far capire a questa massa di cafoni
che la gentilezza non è segno di debolezza. Ogni tanto qualche
casellante e qualche automobilista continua a salutare, ma così in
astratto, simbolicamente, e senza neanche guardare in faccia
l’interlocutore.
La catena dei comportamenti disonesti è così diffusa che è
impossibile risalire a ritroso identificando l’origine e il primo anello.
Chi ruba è stato derubato, chi non paga il lavoro non è stato pagato,
chi mente ha subito la menzogna, chi è sleale ha subito la slealtà, chi
usa violenza l’ha sofferta, chi si fa raccomandare è stato escluso da
un raccomandato, chi mette le corna alle moglie è già stato
cornificato, chi tradisce è stato prima tradito. Non si può srotolare la
catena e rimettere le cose a posto né si può, comportandosi bene,
sperare di migliorare un altro o di ricevere un trattamento migliore
perché, non conoscendo i rari onesti, tutti li tratteranno come nel
novantanove per cento dei casi, pensando che pure loro siano della
stessa pasta. E quando si accorgeranno che non è così avranno già
fatto il male.
Quando si comincia a inasprire il rapporto con qualcuno è quasi
sempre anche perché si comincia a inasprire il rapporto con tutti.
Facile quindi che quando ci si è sfogati e ancora tremano i nervi per
la tensione contro qualcuno, la stessa tensione ciecamente possa
riversarsi sul primo che ci capita, che nulla sa del nostro terremoto
psichico, i difetti e le mancanze del quale, che abbiamo sempre
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sopportato, di colpo si manifestano insopportabili, e noi lo trattiamo
come se lui o lei sappia della nostra insofferenza infiammata. A tal
punto il nostro modo di trattare uno dipende dal nostro modo di
trattare tutti, cioè dal nostro stato e attitudine e modo di sentire di
quel momento le cose della vita.
Non si può insegnare
Scopriamo la natura umana sempre più con gli anni ma quello che
sappiamo non possiamo insegnarlo a nessuno, o perché non
saremmo creduti, o perché dovremmo disingannare troppo
precocemente giovani pieni di fiducia. Insegnando loro d’altro canto
a fare solo ciò che è giusto, potremmo depistarli dalla
sopravvivenza, essendo la strada della giustizia diventata rischiosa e
solitaria. Infine non serve a niente neanche a noi sapere come la
natura sia, perché non possiamo cambiarla.
Ecco che descriverla per iscritto è diventata l’unica efficace
espressione di libertà, perché almeno mostreremo di non esserne
inconsapevoli e di non aver rinunciato ad esporre in piena luce ciò
che ogni giorno in mille modi viene dissimulato.
Riposiamo con lo zaino dietro un muretto prima di riprendere la
battaglia, e lasciamo una traccia del fatto che se non siamo stati
abbastanza forti da combattere la menzogna efficacemente, lo siamo
stati abbastanza da descriverla con spirito di verità.
Il mediatore
Chiunque si tuffa in un lavoro comune, in un progetto che
coinvolge più uomini, in un’impresa che richiede la mediazione tra
caratteri diversi, arriva regolarmente ad un punto cruciale in cui un
impeto di distruzione si impossessa di tutti coloro che dovrebbero
cooperare. Per un bisogno irresistibile, in modo conscio o inconscio,
ciascuno mette in atto i capricci, le provocazioni, le trappole, i doppi
giochi che hanno come unico scopo di far fallire il progetto e di
mandare a monte l’impresa, pur di sfogare su uno degli uomini in
311
gioco la propria insoddisfazione o il proprio odio latente o
manifesto, o di rivendicare la propria autonomia. Allora o c’è
qualcuno che ritesse la rete con pazienza infinita, a dispetto delle
prove contrarie e dell’evidente malanimo reciproco o tutto va a
monte.
Il mediatore procede ormai per inerzia, essendo fallito comunque il
piano originario, cioè quello di stringere un patto d’amicizia e di
costruire una microsocietà attraverso il progetto, e persegue la nuda
risoluzione della cosa.
Una volta conseguita, essa non è più importante per nessuno,
ciascuno ritrova la sua indifferenza o il suo astio e azzarda nuove
alleanze altrettanto labili, ma che all’esterno sembrano solide e
armoniche. Come se un qualunque progetto non potesse realizzarsi
che a dispetto dell’amicizia e attentando alle sue fonti.
Idea romantica dell’amicizia
Ciò dipende anche dal fatto che gli italiani conservano un’idea
romantica dell’amicizia, al punto che il fatto stesso di perseguire uno
scopo comune, in cui ciascuno si avvantaggia, fosse un modo per
sminuirla e infangarla. Per questo a gesti di stoicismo e di rinuncia
fanno riscontro slealtà clamorose e l’ago dell’amicizia impazzito non
trova più la rotta, se appena si tratta di collaborare. E la ritrova solo
in una passeggiata disinteressata, in una gita di piacere, in una cena
conviviale.
La prova più ardua dell’amicizia è riconoscere che essa non può
emendare la comune natura umana, cioè l’inclinazione all’invidia, il
piacere del dolore altrui, come ogni altro vizio, che non viene sanato
ma, al massimo, di volta in volta disinfettato e cicatrizzato, da un
legame di solidarietà profondo e costante.
Che l’amico non diventi migliore più di tanto per opera nostra e che
noi non riusciamo a oltrepassare noi stessi, grazie all’amicizia, è
un’esperienza forse anche più bruciante di quella analoga fatta
312
nell’amore, giacché nell’amicizia il disinteresse è più accessibile, e
quasi costitutivo.
Aggiungi il fatto che gli amici si snudano a vicenda, confessandosi in
modo esclusivo pensieri, desideri, sentimenti, ciò che non fanno con
altri, di modo che tu conoscerai anche il peggio dell’animo
dell’amico e tu lo metterai a parte di quegli sfoghi che ti permetti
perché sei sicuro della sua discrezione, ma che intanto quegli saprà,
non potendo più considerarti così puro e integro come ciascuno
cerca di sembrare con gli altri.
A quel punto, non puoi che sperare nella clemenza, tanto più che tu
non vedi i tuoi difetti, e quindi immagini alla cieca che l’amico li
abbia visti, non sapendo bene quali siano. Ma sei sicuro che così sia
successo perché tu vedi con evidenza i suoi.
Amici alle prime armi e negli anni giovani possono permettersi di
rinfacciarsi i difetti, per uno scopo terapeutico ed educativo, benché
non serva a nulla se non a sdrammatizzarli. Ma amici di lunga data
ed esperti della vita, non potendo illudersi di poter cambiare o far
cambiare, finiscono per sopportarli in silenzio, ciò che non fa
diminuire la stima, soltanto perché altrimenti non stimeremmo
nessuno e non saremmo stimati da nessuno.
Anche la stima comporta così fede e amore verso un altro, perché la
pura, esatta, valutazione di una persona, inclinerà a vederne i difetti,
sempre più vistosi dei pregi, com’è naturale, dovendo agire noi su
questi, se vogliamo migliorare l’amico, e non sui pregi, che sono fatti
da sé e non ci comportano interventi, mentre la fede e l’amore in un
altro essere, bilanciando il freddo giustizio, ci rendono anche la
pienezza più giusta dell’altrui persona.
Da ciò consegue che non giudicare un amico è il miglior modo per
giudicarlo in modo onesto e completo.
7 marzo
Miracoli e doni soprannaturali
313
Parlando con un amico, sul Ponte dei Cocci di Urbania, mentre il
Metauro scorreva lento e malioso, mi ha raccontato di un sacerdote,
suo amico, al quale appariva il sacro cuore di Gesù. Gli dava un
indirizzo in una città e lo invitava ad andarvi, per dire una parola di
pace a una coppia che stava per separarsi o nella quale una donna
stava per abortire. Il prete partiva, suonava al campanello
all’indirizzo indicato dal sacro cuore e riferiva il messaggio alle
persone stupefatte che un estraneo conoscesse i fatti loro.
Di queste cose non accadono nei paesi protestanti, dove non
credono nei santi e dubitano dei miracoli non fatti da Cristo. Come
mai? Perché i cattolici si suggestionano da soli, visto che ci credono.
O perché accadono solo a quelli che ci credono?
Se io non ho assistito a un miracolo devo credere al testimone che
ha assistito o a colui che se ne è giovato. Ma come posso aver fede
in un uomo qualunque? Come posso aver fede nella fede di un
altro? O posso?
Un prete, parroco di una chiesa nel quartiere della Magliana, mi ha
raccontato che un capo zingaro gli ha chiesto di aprire la chiesa e ha
fatto entrare una ventina di uomini e donne che, uno alla volta,
hanno giurato davanti al tabernacolo la fedeltà a lui. Gli zingari sono
capaci di essere musulmani e inginocchiarsi di fronte a una foto di
padre Pio. Nel loro sincretismo ci sono più porte di accesso
all’invisibile e non vanno molto per il sottile.
Il problema dell’invisibile e del suo rapporto con il visibile va molto
al di là del miracolo eclatante e investe una fitta e misteriosa rete,
percepita solo dalle persone più semplici e meno colte o
riguadagnata solo con sforzi teologici intellettuali. Questo mondo di
influssi benigni e maligni è frutto soltanto dell’immaginazione
umana, che proietta i propri fantasmi nella scena reale o è una
dimensione, destinata a restare nel crepuscolo, inattingibile alla
scienza, ma verso la quale non si può chiudere la mente in modo
categorico?
314
La credenza cristiana che Dio veda e ascolti tutto ci fa capire che
essere osservati in ogni nostro gesto e spiati in ogni nostro pensiero
non è necessariamente un’esperienza inquietante e negativa. Essa è
invece per molti una necessità morale ed esistenziale, che li fa sentire
protetti, li frena negli eccessi e nelle violenze, li fa confidare in un
tribunale d’amore sempre aperto, giorno e notte.
La crudeltà
Bisogna arrivare in là con gli anni per scoprire gli uomini e
sperimentare la ferocia e la doppiezza di cui siamo capaci senza
versare una goccia di sangue e senza smettere un sorriso benevolo in
ogni parola falsa che pronunciamo. Questa profonda violenza
immorale sfugge ai codici e alle carceri e guasta per sempre una o
più vite senza che il colpevole manifesti mai il più piccolo segno di
rimorso e pensi mai di riparare i danni irreversibili che ha inferto.
Una madre mi racconta che il marito, quando il loro bambino aveva
sei mesi, abbandonò la casa e sparì senza dare più notizie. Dopo tre
mesi arrivò una videocassetta in regalo al bambino. Sono passati
quindici anni e quest’uomo si fa vivo una volta l’anno col figlio, per
il quale versa duecento euro al mese, e non ha più motivato la sua
fuga in nessun modo, né ha mai cercato di parlare con la madre, né
ha mai manifestato il minimo pentimento, considerandosi un uomo
libero.
Rovinando due vite, e specialmente quella innocente del figlio, ha
continuato a difendere la sua libertà minacciata, incapace di
immedesimarsi in un’altra creatura, neanche se la più vicina a lui.
Questa incapacità di mettersi dal punto di vista di un altro, di
immedesimarsi nella condizione di un altro, è mille volte più diffusa
di quanto non traspaia nei romanzi, nei quali ogni personaggio alla
fine si mette in rapporto con tutti gli altri nel bene o nel male, pena
l’uscita dalla storia. Ed è la crudeltà quotidiana.
Per questa ragione i romanzi, anche più crudi, educano sempre alla
relazione e al riconoscimento del punto di vista altrui, anche se si
tratta di un assassino o di una canaglia, e svolgono un effetto sociale
315
molto forte in chi li legge, anche se non si parla di altro che di
indifferenza, di violenza e di cattiveria.
Nella realtà invece gli uomini, molto più delle donne, che pure
sanno essere in questo crudeli, tagliano i rapporti per sempre, anche
con coloro con cui hanno convissuto per decenni, persino con i
propri figli, con una facilità e una brutalità che rende la vita molto
più violenta e spietata di quanto non appaia dalle più compiaciute e
morbose cronache nere dei giornali e dai romanzi più cinici.
Difesa della libertà
Io sono stato quasi un artista nella difesa della mia libertà, e questo
ha avuto un prezzo molto alto che non sono riuscito a pagare fino
in fondo, per cui sono sempre indebitato. Ma questo mi ha salvato
dalla cattiveria che gli uomini avrebbero esercitato su di me, se mi
fossi attentato a dipendere da qualcuno che nel fatto che io
desideravo qualcosa poteva trovare la ragione per godere di
negarmela. E insieme finora mi ha salvato dalla mia cattiveria
inferta agli altri, che è peggiore, anche da un punto di vista
egocentrico.
Quando un amore finisce
Quando una storia d’amore finisce la persona amata non solo non è
più amata ma non è neanche più una persona. E d’improvviso
scopre che a nulla valgono mesi o anni o decenni di convivenza e
che per l’altro, diventato per lei un mostro senza accorgersene, tu
non respiri più, non senti più, sei diventato una statua la cui
esistenza le è indifferente proprio come se non ti avesse mai
conosciuto. Almeno tre gli esempi tra i miei amici.
Ciò getta una luce retroattiva sull’amore? Non potendo tollerare
questa domanda, preferiamo pensare che questo comportamento
faccia parte della natura generativa dell’amore, che crea una persona
la quale, alla fine dell’amore, muore con l’amore stesso.
316
Non puoi amare senza voler toccare: un polso, il mento, un piede.
Toccare il polso a una donna che ami ti fa cento volte più effetto
che far sesso con quella che non ami.
Ora e sempre
Ogni giorno è il primo, perché è l’ultimo.
Leggere un pensiero è diverso da scrivere un pensiero, a meno che
non lo ripensi e rivivi dall’interno.
Quello che abbiamo pensato una volta, anche dieci o vent’anni
prima, se aveva un senso, prima o poi riaffiorerà identico,
all’occasione scatenante. E avrà lo stesso senso.
I significati cambiano, è il senso che resta.
10 marzo
Pensieri fatti in Grecia
Leggo i Diari di Kafka nella nave che da Ancona ci porta a
Igomenitza. Per capire Kafka devi entrare in lui ma non per capire
lui, ma il mondo lui compreso.
Le studentesse ridono giocando a Tabou. Se entri in gioco erompe la
tua natura in pubblico in modo irreversibile, come credi, ma invece
si cicatrizza. Ogni esperienza collettiva richiede di non tornare più
indietro. Soltanto dopo ti accorgi che in fondo era solo una prova.
Perché puoi sempre tornare a colui che sei, se gli altri ti hanno
sdoganato. Altrimenti ti sequestrano nei tuoi gesti e si basano su
quelli.
Il mare è di fuoco bianco, un ghiaccio bruciato dal sole. La
vibrazione continua sotto la pianta dei piedi e, se ti stendi, sul dorso.
317
Le mani tremano e battono di continuo. Come un secondo cuore
meccanico. Il mare vive tempi ondulanti, tu convivi per un po’ il suo
tempo e ritorni al tuo battente, ed è questo che ti dà uno sfasamento
della percezione.
Esiste un rumore di fondo della natura, la madre di tutti i rumori, il
rumore termico, che si potrebbe sfruttare per produrre energia,
come alcuni scienziati stanno pensando di fare. Ci sono rumori che
disturbano e basta, e altri che vanno studiati e adoperati a fin di
bene.
La natura non è vuoto di civiltà ma la civiltà stessa incorporata
nell’anima vegetale di un luogo.
L’orizzonte è tagliato. Il mare è disponibile e aperto al nostro
passaggio. Non soffre mal di uomini.
Quando non sei libero e non disponi di te, l’anima ti resta impigliata
in una rete da cui cerchi di districarti. Un’esperienza salutare.
Se navighi nel mare, il mare ti cresce dentro e, se dura vent’anni, ti
crescono vent’anni. Ma la fortuna del tempo è che è sempre il primo
giorno, e sei nell’avventura come fossi un neonato ma con tutte le
capacità fisiche e morali di un adulto.
Vi sono in Grecia luoghi (le Meteore, l’Olimpo, Delfi) che ispirano
poeticamente e religiosamente. La loro forza ispirativa non deriva
soltanto dalla storia di cui sono intrisi ma da una loro potenza e
verità primigenia. Il poetico, il profetico, l’erotico, il religioso vi sono
legati da prima che esistessero gli uomini. Merito degli uomini è di
aver saputo ascoltare.
La potenza del Mediterraneo nessun capitalismo potrà piegarla. La
nuova economia rinascerà da qui.
Incontro una donna seguace di Apollo che tutti gli anni a marzo
viene a Delfi a pregare il dio. Non è la sola, fa parte di un
movimento sincretico, che cerca i varchi del divino tra la Grecia e
l’oriente. Letta dall’occidente, è la solita quieta follia che serpeggia
318
nelle menti deboli e generose. Tuttavia è evidente che gli dei non
sono morti, se cammini dentro questa conca mistica a cielo aperto
tra monti verdi e dentro un cielo sereno e perturbante. Non è per
niente strano che questo luogo isolato e maestoso fosse detto
l’omphalos, l’ombelico, del mondo. È l’esatta sensazione che provi
oggi standoci dentro.
Parlano di esalazioni chimiche, di gas allucinogeni che cominciano a
sboccare fuori a marzo, da una frattura sotto il santuario, proprio
sotto il tripode davanti al quale la Pizia profetava. Era il metano che
la stordiva. Ingenui. La sacerdotessa aveva cinquant’anni e parlava in
prima persona, bocca di Apollo, con il quale la notte giaceva.
Ma poi era il sacerdote, il maschio, a comunicare ai fedeli le frasi
oscure che con voce roca lei aveva emesso. Il potere politico della
profezia lo gestiva lui.
Come il prete maschio cristiano confessa le suore visionarie e
profetiche, e decide se e come trasmetterne il messaggio, se
permettere a santa Teresa d’Avila o santa Chiara di trasmettere al
popolo la voce di Dio, secondo la volontà del potere maschile della
chiesa.
12 marzo
La lingua della donna mistica
(santa Chiara)
Il luogo comune psicoanalitico è che il linguaggio e la passione
amorosa della donna mistica sia una sublimazione erotica. Mi
domando invece se sia così naturale porre come sostanza della vita
amorosa l’eros, adducendo a ragione che esso è indispensabile alla
propagazione della specie. Può esserlo, però in completa
indipendenza dall’amore. Perché non pensare allora che anche
l’amore mistico sia in completa indipendenza dall’eros? Sia non già
esso trasformazione di energie erotiche in energie spirituali, ma
semmai qualcosa di più originario dell’eros, di non derivato, almeno
nelle donne illuminate, come santa Chiara.
319
Chiara, in una lettera a Agnese, figlia del re di Boemia Ottocaro I,
che rifiutò i pretendenti, tra i quali Federico II, e si ritirò in
convento, scrive: “Quia cum amaveritis, casta estis, cum tetigeritis
mundior efficemini, cum acceperitis virgo estis.”
Ciò che mi colpisce in questa frase non è il ricorso al linguaggio
erotico ma il suo capovolgimento: è proprio amando che diventerai
casta, è proprio toccando che diventerai più pura, è proprio
accogliendo, venendo posseduta, che diventerai vergine.
L’amore spirituale verso Dio, superpotente, è il contrario dell’atto
erotico, non una sua sublimazione. Un atto erotico infatti non si
sublima, è quello che è, punto.
In un’altra lettera ad Agnese Chiara parla di Dio che “in ethereo
thalamo (…) sedet stellato solio gloriosus”. Il talamo di Dio!
E parla dell’amplesso della virgo pauper con il Christus pauper: tu non
concepisci, donna, di abbracciare fortemente, fisicamente, Cristo,
senza che ti passi per la mente uno scandaloso o imbarazzante
risvolto erotico? Allora non sei un’illuminata.
Chiara, che è un’illuminata, dice che c’è un tesoro nascosto “in agro
mundi et cordium humanorum”: visto che lo dice lei ci crediamo.
Di Maria, Chiara scrive: “parvulo claustro sacri uteri contulit et
gremio puellari gestavit”. Il piccolo chiostro dell’utero di Maria, il
suo grembo di puella: il genio mistico è sempre genio poetico.
Nella Visione dello specchio Chiara si vede succhiare il latte dalla
“mammilla” di san Francesco, latte aureo e lucido nel quale si
specchia. Maschile e femminile nell’amore mistico e spirituale si
scambiano le parti, non si annullano.
Chiara era una disobbediente, considerata una ribelle da chi non
sopportò la sua inesorabile fermezza, capace di fare lo sciopero della
fame. Nella fede c’è sempre la disobbedienza.
320
Topi di biblioteca, topi di chiesa, anche in voi c’è un tesoro
nascosto, ma come bene, come profondamente.
Chiara aveva quattordici anni quando incontrò Francesco, di ventisei
anni, e per cinque anni colloquiò con lui, finché fu lui, contro ogni
regola, a tagliarle i capelli. Noi non possiamo capire.
“Vestitus cum nudo certare non posset”. Un uomo vestito non può
combattere con uno nudo, perché perderebbe, in quanto offre la
presa per essere scaraventato a terra mentre il nudo no.
Spogliamoci per essere più forti.
Velocità spirituali
La gioia è dolore accelerato. Almeno ci si può provare. Resistere alla
velocità della gioia.
La poesia non è prosa eccitata, come la profezia non è un sapere
entusiasmato, ma quando un uomo reprime e soffre a lungo ogni
suo sentimento per una disciplina dolorosa che la vita gli impone, e
per un dovere di conoscenza onesta, che però lo fa penare e lo
umilia, e proprio non ne può più, e potrebbe morire, spegnersi
dentro, ecco allora che può sboccare la poesia, come vampa di vita
da disperati, come estremo guizzo per sopravvivere.
Casomai è la buona prosa ad essere poesia rallentata.
Il massimo rallentamento è l’amore, fino alla completa immobilità. Il
sogno dell’amante è contemplare per sempre la persona amata. Dico
persona, perché uomo o donna, essa è sempre persona quando è
amata.
Chi guarda gli amanti da fuori invece li vede muoversi
incessantemente.
La poesia può sembrare rallentamento, simile all’amore, in certi casi,
come ne L’infinito, ma non lo è mai. Essa va sempre ad altissime
321
velocità, soltanto che ti dà punti di riferimento così lontani e vasti da
farti sembrare che si sta muovendo piano.
Essa invece è sempre transoceanica, e se ti senti sempre sullo stesso
punto, è perché ha già fatto il giro del mondo.
Noi non riusciamo a reggere la velocità, il ritmo, della verità.
Oppure non andiamo a tempo. Perché abbiamo un corpo? O perché
non abbiamo orecchio?
Il viaggio è parabola dalla nascita alla morte. Lo choc però non è
nella nascita ma nel ritorno. Non è naturale tornare indietro, come
non è normale perdere anni vivendo.
Delfi
Lasciamo Delfi e ci troviamo dopo un’ora in una coda interminata
di automobili che tornano dopo il week-end ad Atene. Dalla conca
mistica con l’ombelico materno della Terra all’ingolfamento, al caos,
alla sciatteria della periferia ateniese. Ci sono voluti 2500 anni per
partire da Delfi ed arrivare ad Atene, da un paesaggio splendido e
civile a una sporca autostrada con migliaia di scatole metalliche
colorate nelle quali non respiriamo. Chiamalo progresso.
Non sarebbe stato meglio il contrario? Nel 500 a.C. questo traffico
deprimente e infernale e oggi l’arrivo a Delfi, l’abbraccio
dell’ombelico del mondo, la parola ispirata, la comunità esilarata e in
preda ai fumi di Apollo.
Immaginiamo che a un greco dei tempi di Platone venisse mostrato
il film del rientro ad Atene 2500 anni dopo e qualcuno gli dicesse:
“Ecco come andrete a finire! Contenti?” Lasciano stare tutte le
ideologie sul progresso e il regresso. Esaminiamo soltanto questo
tratto: Delfi-Atene. Pensate che ci potrà mai credere? E come
descriverà ai suoi contemporanei la sorte futura della sua civiltà così
arretrata nella tecnologia, così scomoda e priva di complessità? Il
cuore gli verrà meno.
Immaginiamo ora che a un greco del 5028 venisse mostrato il
filmato del nostro rientro, che stiamo girando in corriera per questo
322
scopo, attoniti dalla bruttezza della scena che ci ferisce. A cosa
penserà? A un sacrificio barbaro per qualche dea meccanica, a
un’espiazione per colpe orrende, a un esodo di massa da una
catastrofe inimmaginabile? O si dirà soltanto: Poveri sfigati? Prima
di entrare nel bunker sotto il deserto in cui vivrà.
Stare con i ragazzi: rientrare alla sorgente.
Tempi paralleli, nastri di vita simultanei: vivere la stessa situazione
da prospettive anagrafiche lontane. L’ironia le fa entrare in gioco,
tremando ai bordi. È un ottovolante che ti eccita con un misto di
paura e piacere.
Non è ancora un racconto, è un resoconto. Beh? Un racconto
scientifico.
Ci sono tanti sentimenti tra un uomo e una donna, che si declinano
comunque al maschile e al femminile, senza poter essere, o voler
essere, amore. Desideri il bene dell’altro con la serenità di chi ha
scalato le cime e ha le dita dei piedi tagliati dal gelo. Non ti stupisci
della tua fortuna e coltivi il giardino con le unghie.
Tutto è perfettamente naturale. Ma non è naturale che lo sia.
“È naturale ciò che succede sempre, o quasi sempre” (Aristotele, De
partibus animalium, 633, B 27). Oggi è naturale ciò che succede di
rado, quasi mai.
Essendoci meno natura, essa è diventata un valore e, come tutti i
valori umani, deve essere continuamente distrutta per essere
continuamente rigenerata.
Invecchio biologicamente e spiritualmente ringiovanisco. Ha ragione
sant’Agostino. Però il contrasto brucia.
Ci sono amicizie forti come amori.
13 marzo
323
Luoghi mistici
Quello che ti dà il viaggio nella comunità non può dartelo ciò che
leggi nella cabina.
Il mondo si schiude come un fiore di magnolia macchiato e col suo
profumo esige che lo visitiamo per diffonderne il polline. Le api oggi
sono mondiali e il polline è globale: evoluzione della tecnica o della
natura?
Mentre a Berlino si sperimenta l’incontro dell’Ovest capitalistico e
dell’Est consumista, si celebra con decenza la vittoria della
democrazia sul totalitarismo, grazie alla comune umanità tedesca,
l’esperienza della Grecia è l’incontro, dopo uno scontro ormai
remoto di cui non rimane più traccia, degli dei dell’Olimpo e del Dio
unico solo del cristianesimo ortodosso.
Gli dei non sono scomparsi e abitano il loro soffio direttamente
dalla terra e dal paesaggio mistico e ispirato. Delfi resta l’omphalos
non perché sai che 2500 anni fa lo era. Ma lo era e lo è perché
ispirato negli dei. Come una volta innamorati di una persona lo si
resta sempre, in letargo finché il cuore non si risveglia, così una volta
vissuti nei cuori, gli dei non spariranno mai più del tutto.
Li sentivo respirare con naturalezza lungo la costa sotto l’Olimpo, a
Delfi, a Micene, persino ad Epidauro, dove il teatro è soprattutto
religioso, anche se già in forma razionale, in virtù dell’applicazione
matematica dei tre fuochi acustici di Policleto il giovane. Un caso
lampante di matematica votata alla religione, giacché essa non fa che
potenziare, con una gran coscienza dell’intelligenza ordinatrice degli
uomini, l’apertura della conca mistica. Non è più esattamente lo
stesso però: Epidauro è già la fase rinascimentale della religione
greca.
Quando un popolo ha investito i suoi dolori, le sue speranze, è
vissuto, morto e risorto dentro un mondo mitico, chiamato da
presenze che nemmeno si è inventato, esse potranno ancora
assisterti, se te lo meriti, e resteranno ad abitare nei luoghi in cui per
324
la prima volta sono state ascoltate, riconosciute e riverite. Ecco
perché chi fa un viaggio in altre terre non può continuare ad
adorarle mentalmente ma deve costruire un tempio, erigere un
altare, segnare il nuovo paesaggio con la loro presenza.
Le civiltà rispondono alle chiamate dei loro dei molto più di quanto
non li inventino. Pensa a quanto Gerusalemme resti la piana mistica
dentro cui la fede è nata. Ed è nata lì perché il suo luogo di civiltà
solo lì poteva ascoltarla. Ecco perché una fede ha non soltanto una
data di nascita ma anche un luogo, da cui nessuno potrà mai
sradicarla. E non c’è cristiano che non senta che viene chiamato lì,
non per commemorare ma per stare più vicino alla fonte.
La fede in Gesù non sarebbe mai potuta nascere a Roma ma lì è
stata trapiantata, col risultato che è stata asservita al potere
istituzionale. E questa macchia imperiale, di essere romana, resta
impressa nella chiesa ancora oggi.
La terra è già ispirata dal divino, già ubriaca di dei, prima che i primi
uomini si siano messi a credere in una religione. La terra aveva già
una fede, era profetica. Oppure era prosaica, giuridica, pratica.
Quando l’occidente sta contando tutte le sue ricchezze e vuole farle
fruttare, in questo tempo di crisi economica disastrosa, persino l’oro
della povertà nelle sue mani rapaci diventa la preda da spolpare.
Allora il viaggio, con pochi mezzi, se possibile, e pochi vestiti, non è
né fuga né soltanto esplorazione ma libertà di riscoprire le difese
mistiche e potenti della terra.
La terra datrice di frutti è da sempre civiltà, da molto prima che
l’uomo comparisse sulla terra, e molto più ampia di quella umana,
che essa stessa ha ispirato e prodotto, abbracciandola e facendola
sgorgare da sé. Tutto è dentro la natura.
Paure
325
La paura di soffrire è molto peggio del dolore, non solo perché è
paura di non riuscire ad affrontarlo ma perché dà per scontato che è
contro di esso la battaglia da fare.
Tra le vite umane c’è una sfasatura temporale e anagrafica, per cui
una donna si ritrova matura nel momento sbagliato, quando
incontra magari un ragazzo che, in un’altra vita possibile, ormai
impossibile, potrebbe diventare il suo amante, il suo compagno di
viaggio. Si sta dentro lo stesso film soltanto per un momento perché
si tratta in realtà di due film diversi che combaciano brevemente per
poi continuare a sviluppare la loro pellicola Allora vedi con evidenza
che hai una vita sola mentre avresti le energie per almeno una decina
e conosci segreti che sarebbero preziosi inseriti nel film che non sta
a te vivere.
Eppure c’è un lampo di agnizione, di riconoscimento, nel senso che
al volo la donna riesce a passare da un film all’altro l’anello d’oro che
il ragazzo seppellirà, dimenticandoselo dopo pochi giorni, e in un
momento imprevisto si accorgerà che pagliuzze d’oro sono sparse
nel mattino e ricorderà d’improvviso perché.
Il sadismo intrinseco alla vita, la sua asincronia, è la condizione per
sognare la felicità.
Dialogo sul sesso a tradimento
“Le cose stanno così,” disse, “una donna può sopportare che il suo
uomo faccia sesso con un’altra donna ma non il desiderio mentale.”
“Sì,” rispose lui, “ma se un uomo si ferma per tempo e rinuncia, pur
desiderando, non compie un atto d’amore?”
“Per quale delle due donne?” disse lei.
“Per entrambe,” ammise l’uomo.
“E appunto questo è il tradimento,” disse la donna.
Dialogo sulla rinuncia a tradire
326
L’uomo non disse che quando poi compì quest’atto di rinuncia, si
trovò solo davanti alla morte. La sua.
“Bene,” aggiunse la donna, che aveva capito dal suo sguardo, “la
donna allora viene tradita perché rivela all’uomo la morte.”
“Sì,” disse l’uomo, “prima gli rivela la vita, e poi gli rivela la morte,
così l’uomo tenta di scappare.”
“E cosa gli rivela l’altra?” aggiunse lei, ben sapendo la risposta.
“Con l’altra mi sento immortale,” disse lui.
La donna nascose il suo disprezzo, ricordando la ragione per la
quale gli uomini restano infantili, e si convinse ancora di più che il
desiderio mentale è molto peggio. Almeno col sesso finisce tutto lì.
Non sapeva che per l’uomo il sesso è talmente diverso che nella
donna da preferire di essere immortale per un minuto secondo, e il
restante tempo sognarlo. Non sapeva che l’uomo fa sesso coi sogni.
Erano in fondo due religioni che continuavano a combattersi: la
donna credeva nel dio della terra, cristiana o no che fosse, e l’uomo
negli dei del cielo.
Postilla
Ogni donna e ogni uomo essendo unici, a rigore il tradimento non è
possibile, perché colei che ami, la ami nella sua forma unica,
inconfondibile con quella di un’altra qualunque donna. E in più ogni
amore è completamente diverso dall’altro perché è l’amore che
inventa e genera la donna, o l’uomo amanti. Si possono così amare
due donne o due uomini senza nessuna difficoltà, anzi è una
condizione che, se accade, è a tal punto naturale che non ti senti in
colpa e non ti vergogni, non perché sei uno spudorato ma perché i
due amori non si assomigliano minimamente, non hanno nulla in
comune, non interferiscono in nessun punto nel piano spirituale
mentre in quello affettivo, sociale, pratico si fanno guerra mortale e
senza scampo.
Stando così le cose, il conflitto nasce dal fatto che tu generi un
secondo amore, come fosse una moglie o un marito illegittimi fuori
del matrimonio o del patto di coppia. Essendo così complicato e
327
quasi sovrumano che due esseri convivano a lungo insieme, il
minimo che si può chiedere e di non andare ad aggravare le
complicazioni sempre presenti e delicate con un altro amore, visto
che ci si sopporta già con gran fatica, pur nella convivenza più
armonica, nata dall’amore e in esso proseguente e si è entrambi di
continuo tentati da evasioni e compensi esterni alle pene e ai fastidi
inevitabili in ogni unione di lunga durata.
La freccia
Dio gli ha detto: tu sei la mia freccia. Naturale che tu debba soffrire
molto, religiosamente, profeticamente, eroticamente, poeticamente.
Non sei tu che la scagli ma essa ti attraversa per diventare parola di
vita per gli altri.
20 marzo
Smacco del desiderio
Se confrontiamo situazioni diverse nelle quali è in gioco il desiderio,
ci accorgiamo che agisce sempre nella natura umana una specie di
smacco, di disviamento, di trappola, di deviazione, per cui ciò che
desideriamo è reso impossibile il più delle volte non dai fatti e dalle
circostanze ma dallo stesso desiderio. Così quando crediamo
profondamente nel bene che ci verrà da qualcuno o da una certa
situazione, tutto concorrerà perché non riusciamo a realizzarlo.
Mentre appena siamo disincantati, il bene un tempo sperato, e oggi
indifferente, ci viene incontro con le sue gambette disadorne e ci si
offre spoglio di fascino e banale, al punto che subito pensiamo ad
altro.
Donne vincenti e castratrici
È presto per studiare come nell’animo femminile, dopo quel salto
della siepe che molte donne hanno compiuto, i tratti del carattere
antico e naturale continuino ad agire nella nuova sagoma
328
indipendente, pragmatica e dinamica, che molte di loro stanno
assumendo, con la stessa energia e diligenza con le quali si votavano
un tempo a un uomo totale o a un mestiere anonimo.
La passione per la forma, la serenità di un compito, svolto
indipendentemente dagli scopi e soltanto per il ginnico benessere
che trasmette, si rinviene in molte direttrici di scuole, di poste, di
industrie, di uffici. Esse non hanno più padri, patrocinanti,
protettori, santi in paradiso, padroni, ma non vogliono diventare a
loro volta le matrone, le dispensatrici di cariche, le badesse, le
baronesse. Soltanto agire, come frecce e caricatori ben oliati, nei loro
tailleur tesi, nelle loro plastiche facciali, nei loro sorrisi calmi e
vincenti.
È la forma armata, aggressiva della verginità, giacché le donne non
conquistano il potere per portare a letto i dipendenti ma per castrare
i sogni melmosi degli uomini.
L’impotenza degli uomini, che tante volte oggi si riscontra, si lega al
desiderio di verginità armata delle donne, trapiantato nella società
civile e fine a se stesso.
Rapporti di potere omosessuali
Nel rapporto di potere personale maschile, invece, per esempio
nell’università o nell’esercito o nella chiesa, noi troviamo quasi
sempre una componente omosessuale, che è secreta dalla stessa
dipendenza totale di un uomo verso il suo superiore, che viene
adulato, blandito, corteggiato. Ricordo compagni di università che
aspettavano ansiosamente alla stazione l’arrivo del loro professore,
quello cioè che avrebbe procurato loro il posto, e un colonnello
dell’esercito che passeggiava nervosamente sul piazzale della
caserma, profumato di lavanda, aspettando il generale con
l’emozione e l’insicurezza di un appuntamento amoroso.
Ciò dipende dal fatto che, mettendosi nelle mani di un altro e sotto i
suoi piedi, si compie un rituale di sottomissione che svirilisce del
tutto l’uomo, lo rende eunuco finché la carica conquistata non gli
329
consentirà di esercitare la sua violenza sessuale simbolica su un altro
sfortunato pretendente.
La salute sociale e democratica di una repubblica dipende
strettamente dalla sua salute erotica, cioè dalla limpida vitalità dei
moti del corpo, del cuore e della mente. Soltanto allora sopravvive
un popolo.
Confessionale
Uno studente mi mostra i documenti che attestano tutte le coperture
esercitate dalla chiesa per proteggere i pedofili dalla giustizia civile.
Con la scusa del segreto confessionale, essi impediscono che coloro
che si macchiano di una violenza imperdonabile vengano punti
come meritano.
Vedendo i reati come peccati si toglie a Cesare ciò che è di Cesare e
soprattutto si toglie a Dio ciò che è di Dio. Chi sei tu infatti per
decidere chi deve essere privilegiato di fronte alla legge comune?
Il segreto del confessionale, questa invenzione della chiesa cattolica,
dà al prete un potere straordinario sulle anime ma anche sui corpi
civili dei fedeli. I politici, i furfanti della finanza e delle banche, i
potenti della terra, che lo sanno benissimo, si guardano bene dal
confessare loro altro da desideri sessuali adulterini o vaghe
menzogne ed egoismi generici.
Coraggio da Cristo
Io leggo i Vangeli di continuo e me ne viene un gran coraggio, di
fronte al quale criticare i mali della chiesa è così naturale che non si
risveglia neanche un’ombra del senso di colpa infantile.
Perché Cristo dà coraggio? Tutta la sua vita, i suoi atti e le sue parole
sono all’insegna dell’audacia.
Disciplina dello scopo
330
Uno scopo dal quale ci ripromettiamo un piacere e una
gratificazione nasce dal lavoro paziente e ingrato, da migliaia di ore
nelle quali soffriamo in solitudine e senza nessun appagamento, anzi
odiando quello che facciamo. Mettendo in atto cioè, in modo
sistematico e disciplinato, gli stati contrari rispetto a quello che
desideriamo. Oltre al fatto che non è detto che, così facendo,
conseguiremo quello che ci attendiamo, il conseguimento dello
scopo ci soddisfa in modo breve e peregrino, cosicché alla fine le
ore più belle sono state esattamente quelle in cui più abbiamo
penato nell’anonimato. Mentre il piacere finale si capovolge nel
vuoto, il dolore passato rinasce al ricordo come piacere, in un
inganno incrociato da cui non riusciamo a liberarci.
Entriamo così nell’abbraccio del pensiero di Schopenhauer, che
tuttavia era Schopenhauer, cioè colui che ha stampato il suo nome
nei secoli a venire e ha compiuto un’opera grandiosa di filtraggio e
strecciamento della vita, che ha riversato in modo organico nel suo
condensato filosofico. Ma un normale passeggero della terra, il quale
sperimenta la stessa fatica, lo stesso disinganno senza che nessuno lo
sappia non dovrebbe a maggior ragione lamentarsene?
Per una strana meccanica delle cose, no, non dovrà. Egli sarà
addirittura più felice. Infatti la sua dignità sarà maggiore perché non
peserà su di lui il sospetto di aver caricato le tinte e montato il
palcoscenico per dare il suo nome alla verità. Soldato nudo della
vita, dalla vita stessa sarà ricompensato con i suoi doni più segreti.
Rivelazione sociale
Sebbene si resti convinti che solo nella solitudine e nella
meditazione si scopra il proprio animo, le nostre qualità e i nostri
vizi vengono fuori davvero soltanto quando siamo dentro fino al
collo nel commercio sociale, in un lavoro, in uno sport, in un gioco.
Quando conviviamo a lungo, per mesi, per anni, con persone dalle
quali non ci possiamo disimpegnare. Solo così viene fuori, a nostro
dispetto, la nostra natura. Ciò che noi siamo, senza volerlo e senza
331
poterlo cambiare. Non il nostro io voluto, ma il nostro io avuto in
sorte.
27 marzo
Rinuncia
Qual è la differenza tra una suora e una donna sposata? La suora ha
rinunciato a tutti gli uomini, la donna sposata a tutti tranne uno.
Non so quale prova sia più dura.
Racconto del Volto che trascolora
Un giorno viaggiava in autostrada di notte, sorpassando una lunga
serie di autotreni. Il cielo era stellato, benché sempre opaco per
l’inquinamento industriale, e lui di colpo si sentì pronunciare la frase:
“Dio mi odia.”
Una sensazione netta, disgustosa, che aveva i crismi dell’autenticità
come un incubo che ci stacca del tutto dalla veglia reale. Lo
spavento che lo prese ad ascoltare questa frase durò come un lungo
momento di panico, quando sei sprofondato in una seconda visione,
che sai assurda, e che tuttavia ti prende per il collo e ti costringe con
prepotenza a dirti: Tu sei vera.
Piano piano si riprese, anche perché si disse che non era possibile,
aveva pur sempre una certa stima di sé ed era poco incline ai sensi di
colpa da quando aveva quarant’anni. Prima ne aveva nutriti a
sufficienza e, avendo verificato che non solo questa costante umiltà
è apprezzata dagli altri uomini con scetticismo ma lascia anche in
apparenza del tutto indifferenti le forze superne, ne concluse che
doveva essere una forma superstite di ipocrisia, di cui non si
accorgeva fino in fondo.
Soltanto al casello di Rimini si riprese del tutto, pur non perdendo
mai la lucidità per guidare. Mai aveva dimenticato di avere cinque
332
figli e una moglie amatissimi e che, comunque la pensassero in cielo,
ere legato a loro in modo indissolubile.
Guidava lungo l’Adriatica quando gli furono chiare le seguenti cose:
1) Dio ha sempre taciuto e tacerà per sempre, anche quando ne
avrebbe avuto estremo bisogno. Casomai interverrà quando e come
lo deciderà lui, se esiste.
2) Non c’è alcuna ragione che un Essere superiore odi un singolo
mortale.
3) Più desideri qualcosa e più ti viene negato. In questo Dio si
comporta come la natura.
Contento di queste riflessioni tornò a casa, del tutto rasserenato,
maledicendo le autostrade italiane, strade di guerra troppo
pericolose per un uomo solo.
Già sotto casa, e pregustando le gioie della famiglia, gli venne da
dire: Dio mi ama.
Il gran Volto invisibile trascolorava in base alle situazioni che viveva,
del tutto autosufficiente rispetto a lui e, nello stesso tempo, del tutto
dipendente da lui.
Magia verbale
Amicizia, amore, ammirazione: c’è qualche ragione per cui queste tre
parole siano legate dall’avere le stesse due prime lettere?
Non bisogna eccedere in bontà
Non bisogna essere troppo buoni, troppo onesti, troppo corretti,
troppo ineccepibili, non soltanto perché l’eccesso, persino del bene,
perturba le relazioni umane, creando negli altri sensi di colpa e
invidie violente, ma anche perché, così procedendo, benché in
perfetta sincerità, e anzi proprio per questo, si esaspera la
sproporzione tra la virtù e il compenso, tra il merito e la
retribuzione, e si finisce per nutrire una visione delusa e amara delle
cose, nella quale ci sentiamo sempre creditori.
Anche per questo, se fai il bene, non devi aspettarti niente.
333
Non c’è il vuoto tra il bene e il male. Per questo Cristo Dice: O con
me o contro di me. Perché se non sei con Lui diventi violento
contro qualcuno.
È meglio attenersi a un grado medio di generosità e di rinuncia del
bene proprio, perché così si ristabilisce una giustizia approssimativa
e aggiustata alla meglio, sia pure, ma meno dissonante con la natura
umana, e in fondo possiamo dirci che se non abbiamo conseguito
qualcosa e perché non ne siamo degni.
Se invece forzi la natura, ecco dal bene scoppiano violenze
ingovernabili.
Sorrido sempre per scusarmi di quello di male che sono sul punto di
pensare degli altri.
29 marzo
La costruzione della mente nel volto
Mentre guardo persone e cose me le immagino di continuo. E alla
fine la mia immaginazione definisce il cuore di una persona più che
se mi attenessi ai suoi fatti e ai suoi detti.
Guardo le foto di un viaggio in cui mi trovo in mezzo a una
compagnia di studenti. Non mi riconosco. Non mi sono mai
riconosciuto nelle foto fin da quando ero bambino. Col tempo ha
maturato la capacità di fingere di riconoscermi e di nascondere il
mio imbarazzo, che un tempo era addirittura panico, la scoperta
dell’evidente mancanza di corrispondenza tra il volto e l’anima. Non
è questione di bellezza e di bruttezza. È che la situazione descritta
dall’esterno, e persino fotografata o filmata, non corrisponde mai a
quella vissuta dall’interno. Molti sono capaci di andare dal fuori al
dentro, ma molti altri sono come me, vanno dal dentro al fuori e
pretendono che la realtà si lasci plasmare dai nostri sentimenti e
dalla nostra prospettiva interiore.
334
Quando ti specchi da ragazzo ti trovi sempre brutto perché pretendi
di vedere allo specchio la tua anima.
Shakespeare scrive nel Macbeth, I: “There’s no art to find the mind’s
construction in the face”. Non c’è modo di scoprire la costruzione
della mente nel volto. Esso nasconde quanto esprime non solo agli
occhi degli altri ma anche davanti a noi stessi che guardiamo il volto
irradiato dal sentimento che proviamo, dalla costruzione della mente
che conosciamo, mentre molto più difficile, per non dire
impossibile, è per l’altro passare dal volto a ciò che significa.
Accettare il proprio volto vuol dire accettare di essere visti, e di
essere reali nella misura in cui gli altri ci perpecipiscono, e nei modi
con i quali ci guardano e ci conoscono. È un atteggiamento sano ma
che rinuncia a tener viva la tensione tra la vera onesta natura e la sua
espressione.
Non parlo di apparenze, perché ciò che sembriamo agli altri è reale,
realissimo, mentre ciò che non appare è, sì, vero ma sempre aspira a
candidarsi alla realtà con un moto che tende all’infinito e di cui
dobbiamo accettare le povere e provvisorie tappe di foto in foto, di
percezione in percezione.
Da ragazzi ci si senti guardati da tutti. Perdendo il pudore, da
persone mature, si guardano tutti in faccia e non ci si cura di come
gli altri ci vedono, sapendo con quale spirito noi guardiamo gli altri.
Guardo le foto che mi ritraggono e vedo centinaia di facce diverse,
nessuna delle quali sono io. Vedere che le persone più care invece
mi riconoscono facilmente in ognuna mi conforta e mi preoccupa
allo stesso tempo. Se penso che un giorno saremo ricordati
attraverso delle foto vorrei buttarle via tutte. Tuttavia quelle
immagini sono nostre senza che lo vogliamo e lo sappiamo, come la
voce, lo sguardo, il sogno. E quindi più intimamente parlano di noi.
Di un noi che ci è ignoto.
Ma ciò che davvero preoccupa è che lo stesso avviene per la nostra
anima. Tutti conservano un’immagine della nostra anima, scattata in
335
un incontro fuggevole o in una lunga dimestichezza, e anche quella
immagine non corrisponde affatto alla nostra?
Giovanni Giudici scrive, nell’Agenda del 1960, che il nostro errore
di superbia è di volere il mondo a nostra immagine e somiglianza.
Questo è un pensiero da cui non puoi né vuoi più liberarti, pieno di
conseguenze gravi e necessarie, anche in vista dell’azione.
L’altra faccia di questo errore è quello di pretendere di conoscere
quale è la nostra immagine di anima, mentre noi stessi non lo
sappiamo, e forse proprio chi ci ama è in grado di salvarci perché sa
chi siamo più di noi. Ne consegue che la superbia è pretendere di
sapere chi siamo, e il desiderio di volere il mondo a nostra immagine
è già una superbia seconda e di riflesso.
Benjamin scrive che soltanto chi ci ama in modo impossibile ci
conosce veramente.
Ma allora non può salvarci, anche se è solo questo che lo interessa.
30 marzo
Non ci sarà mai risposta. Ma tu sei in grado di tenere in tensione lo
stesso la domanda?
1 aprile
Arriva un giorno l’età in cui essere giovani diventa un merito.
6 aprile
La legge e l’amore
Se Dio è la Legge, Cristo ha cercato di ammorbidire il Padre con
l’amore, senza oltrepassare la Legge. Se Dio si sente amato fino
all’ultimo, allora forse imparerà ad amare, prendendo ad esempio il
336
Figlio. E che c’entra allora lo Spirito Santo? Chiunque ama sa che tra
lui (o lei) e la persona amata esiste sempre un terzo, presente in
entrambi, l’amore stesso.
Guarda il padre che ha avuto in sorte un uomo e ne ricaverai l’idea
che ha di Dio. Questo luogo comune della vulgata psicoanalitica è
del tutto infondato. Basta vedere il mio caso: ho avuto un padre
stupendo, che ho sempre ammirato e che non ha mai esercitato
alcuna violenza fisica o morale su di me, pur avendo una personalità
forte ed esuberante, capacissima, volendo, di dominarmi negli anni
cruciali. Mi ha sempre rispettato con una delicatezza persino
esagerata, e quasi con riverenza, costruendo la mia personalità sopra
un amore di fondo solido e puro. E io non ho mai visto Dio in
questo modo, semmai come una figura autoritaria,
veterotestamentaria e comunque poco amabile (in senso mondano).
Siamo tutti due. L’importante è armonizzare le due personalità che
ci troviamo. E farle convergere verso il terzo, che in realtà è il
primo: l’anima. Per questo l’intuizione del mito del Fedro è
folgorante. L’auriga guida un carro con due cavalli alati, uno nero e
uno bianco. Entrambi hanno ragioni profonde di galoppare, l’uno
verso il basso e l’altro verso l’alto. Non rappresentano il male e il
bene, ma due forze dell’anima indispensabili alla vita. Chi è allora
l’auriga? Sono io che devo giostrare tra l’anima bassa (concupiscibile
e irascibile) e l’anima alta (razionale)? Ma allora io non sarei l’anima
stessa, mentre proprio Platone per primo ci ha identificati nel Fedone,
pur oscillando in questo mistero evidente, perché nello stesso
dialogo ha detto che noi dobbiamo scollare, schiodare, spiccicare
l’anima dal corpo. E quindi io non sarei più la mia anima, ma il suo
liberatore. L’auriga, e soltanto lui, è allora l’anima stessa? No, perché
c’è l’anima anche nel cavallo nero, oltreché nel cavallo bianco.
Allora non siamo due, siamo tre. Per questo è così difficile la corsa:
siamo chi guida e chi è guidato.
L’antipatico e severo T.S. Eliot conosce i misteri orfici quanto gli
adolescenti. Il suo verso su aprile, “il più crudele dei mesi”, benché
ripetuto ben oltre il lecito, non si logora e non disgusta, ogni volta
che torna primavera, e mescola memoria e desiderio, esattamente
come dice lui. E vorrei avere vent’anni e mi fa spavento non godere
337
la giovinezza che non ho più e che quando avevo soffrivo come una
malattia, mentre tutto si impollina e noi uomini non riusciamo a
essere mai più pienamente né l’ape né il fiore.
6 aprile
Microgravità
Si sperimentano dei vuoti dentro cui veniamo risucchiati
all’improvviso, senza dolore e in un stato superficiale e tranquillo,
addirittura spensierato, mentre in realtà il gorgo del non senso, il
mulinello del vuoto già ci sta prendendo per le gambe. Siamo seduti
in punta a una sedia e precipitiamo, senza opporci e senza neanche
stare male, mentre un panico troppo leggero per metterci davvero
in crisi ci corre per la schiena come una promessa di morte finta.
Finta come è la nostra vita. Allora vorremmo un’unione spirituale
profonda con qualcuno, un libro importante su cui passare il
pomeriggio con stoicismo convinto, un’invenzione qualsiasi che
abbia un senso. Ma il fatto stesso che ci rendiamo conto che sarebbe
appunto un’invenzione nostra ci paralizza.
Pian piano ci abituiamo alla microgravità e impariamo a muoverci,
con un lento e innaturale dolore, anch’esso leggero quanto basta per
non reagire come si dovrebbe, e cerchiamo di pensare a una strategia
di salvezza, benché nessuno attenti alla nostra vita come tante, né
piacevole né angosciante. Ci torna in mente la vanità nostra e degli
amici, e non troviamo di meglio che sentire sporca l’anima nostra,
ambigua la nostra natura, piuttosto che lamentarci come sempre
sull’indifferenza altrui. E pian piano ci rianimiamo al pensiero che
non subito, ma tra non molto, potremo cercare al telefono un amico
vero. Così, pensare a un altro diventa un aiuto concreto per noi. E
non è la mano nostra a salvarci, ma la mano che diamo a colui che
non si protende verso di noi, perché non sa cosa stiamo vivendo, a
salvarci entrambi, o almeno a darci la sensazione di un possibile
tema della salvezza.
Meline Haushofer
338
Ho cominciato a leggere La parete di Meline Haushofer e ho pensato
che in certi anni (’50, ’60) per certe donne, e in certi ambiti
mitteleuropei era diventato obbligatorio uno stile disadorno, spoglio
e denotativo, sia per la vita al grado zero al quale l’animo di molte di
loro, dopo il nazismo, si era ridotto sia nella convinzione che una
donna scrittrice potesse affermarsi soltanto essendo più
coerentemente inesorabile di qualunque scrittore maschio.
Lo scrittore maschio raccontava le sue terribili angosce, il gorgo del
suo nichilismo, la tremenda assenza di Dio e, con lui o senza lui, di
ogni speranza e possibile gioia e riscatto? Bene, lo scrittore femmina
avrebbe attinto alla capacità delle donne di tenere ferma la posizione
all’infinito, senza mai cedere, e di raccontare una vita assolutamente
priva di senso senza alcun coinvolgimento emotivo e passionale.
La donna arida, algida, senza più sangue, la donna elementare che si
sveglia, si lava, cammina, cucina, pulisce i piatti, guarda il gatto,
sistema la concimaia, taglia la legna, guarda, senza che questo abbia
senso. E senza che anche il dolore, la malattia, la disperazione, la
noia, il non senso abbiano un senso. La Hausofer ha creato così
l’anti donna, prima o poi oggetto di culto esoterico presso quei
lettori disposti ad ammirare ogni estremismo, anche il più prosaico.
Alla fine il libro si carica di un fascino anch’esso normale e insensato
e tutto finisce come è cominciato, con la stessa crudele e anestetica
determinazione, mentre la sua vita vera di certo è stata ben diversa.
Una scrittura del cilicio laico, della mortificazione senza fede,
dell’ascesi senza speranza. Una religione di se stessa, egocentrica e
neutra, nella cella solitaria, divisa dal mondo da una parete invisibile
e invalicabile.
Per me è questa anche l’anti letteratura.
Regressione
Troppi uomini, per quanto bravi e competenti nella loro
professione, quando diventano lettori regrediscono all’infanzia.
339
Bevono tutto a bocca aperta e si lasciano ingannare nei modi più
squallidi. Perché? La questione va al di là della letteratura: sotto sotto
amano essere imbrogliati e presi in giro, su un piano simbolico e
senza danno economico, e con il libro credono di poterlo fare senza
conseguenze.
Essi pensano: Guarda quanto si dà da fare questo burattino per
farmi passare due ore senza pensieri. Sono anch’io un re col suo
giullare.
Rimbaud in Bonnefoy
Yves Bonnefoy ha pubblicato un libro su Rimbaud, nel quale
raccoglie gli scritti di cinquant’anni. La sua non è un’esplorazione
articolata delle passioni dell’anima, benché possa sembrarlo, perché
le passioni hanno un carattere universale, benché nella diversa
intensità e nei più vari intrecci. Invece la sua ricerca di senso investe
l’essere individuale, la natura unica dello scrittore indagato e
rivissuto, il suo volto essenziale nella sua finitudine, ciò che ha di
veramente proprio.
Questo vuol dire forse andare oltre la gloriosa tradizione
francese dei cosiddetti moralisti, e semmai verso l’incontro con il Je
che io non sono. Non già attratto dalla ipostasi dell’Altro, seduzione
di tanta filosofia illuminante ma legata, contro i propri programmi, al
genere e alla specie, da Buber a Lévinas, bensì ascoltando un
essere del tutto concreto: Rimbaud e nessun altro, Verlaine e nessun
altro.
Attraverso la conoscenza individuale dell’immaginazione poetica
persino l’impossibile Madame Rimbaud acquista un’importanza
creaturale che in tanti le hanno negato. Con questa alienazione
amorosa il suo libro dice tutto anche di Bonnefoy.
L’amour est à réinventer, scrive Rimbaud, con la sua consueta audacia.
Ma l’amore può essere conforme solo alla nostra natura. La nostra
natura allora è da reinventare.
340
Rimbaud chiama Cristo “le voleur des énergies”, eppure alla audacia
di chi assomiglia la sua più che a quella di chiunque altro?
In Bonnefoy la poesia prende il posto della religione, ma al modo
del vero credente, mai di una chiesa al potere.
Inseguire le evocazioni d’armonia “c’est manquer la raison la plus
haute du poème, qui est de changer la vie, concrètement, et non
d’imaginer l’irréalisable.”
Lo scopo della poesia è sempre stato per Rimbaud quello di
cambiare vita e la sorgente della sua ispirazione più nativa è stata la
carità, come si vede dal suo tentativo fallito di cambiare la vita del
debole e ambiguo Verlaine, che è stato per altro lui a voler sedurre.
Il fallimento di questi due scopi ha generato la sua indifferenza verso
la sua propria opera e la scelta di una vita concreta, nel commercio,
nel viaggio, lontano dai balconi d’Europa. Tutte le critiche rivolte al
cristianesimo si rivolgono alla sua mancanza d’amore e tutta la sua
passione per la lumière Nature si affidano alla sua spontanea carica
amorosa.
Così scrive Bonnefoy e io sono d’accordo. Per tutta la poesia vera è
così.
Rimbaud, scrive Bonnefoy, ha spesso provocato Dio, incontrando
sempre il suo silenzio.
Sei stato ben duro, con lui. Va bene, lo hai fatto diventare Rimbaud,
ma lui non lo sapeva.
Verlaine fa dire a Rimbaud, in Crimen amoris: “Je serai celui-là qui
créera Dieu.”
15 aprile
Il canonico Harold Bloom
Harold Bloom, amato dalle masse colte per le sue classifiche
letterarie mondiali, delle quali è stato costretto a pentirsi, dice in
un’intervista di preferire gli scrittori che “espandono la nostra
341
coscienza senza deformarla”, come Omero, Dante, Cervantes,
Shakespeare, fino a Proust e Oscar Wilde. L’espressione è potente
nella sua semplicità.
Ci sono scrittori che rimandano alle passioni, alle idee e ai fatti che
chiunque può condividere, e che può apprezzare anche meglio oltre
l’orizzonte dei loro tempi e della loro cultura, e scrittori che
stilizzano la vita, imprimono su di essa un marchio fortemente
personale, le impediscono di espandersi a modo suo, perché sempre
costretta dentro la loro personalità prepotente. Joyce ad esempio
torna alla freschezza della vita com’è, ma facendo un’ampia
circonferenza e sottoponendola a un ciclo di lavanderia così
sofisticato che essa riconquista una freschezza di secondo grado,
sdoppiata e quasi maniacale, eppure viva.
Kafka imprime il suo sigillo su ogni fatto e detto della realtà che
sperimenta ed è molto difficile che qualcuno possa dire: “È
esattamente quello che è capitato anche a me.” E tuttavia Kafka ti
cambia e in certi casi diventa addirittura indispensabile a vivere.
Peccato che Bloom, che considera Leopardi “grandissimo” non
conosca lo Zibaldone, in corso di traduzione in inglese, perché vi
troverebbe l’esempio perfetto in prosa filosofica delle sue
predilezioni. Crede di fargli un gran complimento paragonandolo a
Keats, a Shelley, a Woordswoth, perché non lo conosce abbastanza.
Una classifica di valore è una delle offerte più allettanti al bisogno di
entusiasmarsi degli esseri umani, perché ne viene legittimato e
rassicurato matematicamente. Non intendo parlare della funzione
commerciale delle classifiche dei libri più venduti, che sortiscono
appunto l’effetto di farli vendere ancora di più, ma della
gratificazione intima che dà la possibilità di stabilire una gerarchia di
grandezze, dalla stima all’ammirazione, fino a toccare il culmine
dell’adorazione beata.
Nello stesso ridicolo difetto sono caduto anch’io poco fa.
Il malcostume di definire grandi o massimi tutti i poeti italiani
contemporanei che abbiano raggiunto una dignità artistica
difendibile esprime l’ingenuo desiderio dello studioso di un
342
abbandono a un fervore ingenuo e liberatorio, dopo la continua
autocensura filologica e prudenza acrobatica alle quali si dispone per
timore di critiche e attacchi.
Si può dire che un poeta è più o altrettanto o meno grande di un
altro? Sì, ma soltanto quando uno dei due vale poco o nulla e lo si
confronta solo per lasciarlo soccombere in modo palese nella sfida.
Ma diventa impossibile quando tutti e due valgono e ciascuno
persegue una rotta veritiera e profonda.
Attaccamento alle cose
In questi giorni ho dovuto liberare con mia sorella l’appartamento di
Recanati dei nonni, che mia madre è stata costretta a mettere in
vendita, nella malinconia generale, ed è stato fatale riconoscere il
mio peccaminoso attaccamento alle cose: libri, quadri, foto, lettere,
persino mozziconi di sharpnel, veli ricamati da messa, casi clinici di
mio nonno medico, tessere fasciste e della croce rossa, cartoline di
persone scomparse.
Ancora una volta sono stato messo alla prova: liberarmi di tutto o
conservare e trasmettere ai figli, ai futuri, ai posteri? Disseminare
radio dell’inizio del Novecento e almanacchi, riviste francesi per
farsi un vestito da sola e centrini di pizzo nelle bancarelle, bussare
alla porta di istituzioni che non sanno dove mettere i libri e cercare
archivi della memoria dove nascondere in faldoni i documenti di una
vita?
Ho deciso alla fine che io posso liberarmi delle mie robe ma non di
quelle di un altro, che per giunta non esiste più su questa terra. E
così ho chiuso tutto in scatoloni che ho messo in garage perché,
come mi ha detto Eugenio De Signoribus una volta, non possiamo
“decretare la scomparsa definitiva di una persona sulla terra”. Tanto
più che i miei nonni, medico lui e insegnante di storia dell’arte lei,
che molti scritti familiari e privati ci ha lasciato, non hanno mai
pubblicato. È il dovere dei vivi perpetuare la vita dei morti, perché,
non potendo noi sapere con assoluta certezza se Dio esiste, essi
scomparirebbero per sempre.
343
Dio è assolutamente certo che noi esistiamo, il che è un fatto
incontrovertibile, noi invece non sappiamo se esiste lui. Ma come
potrebbe essere Dio se fosse addirittura meno certo di noi? Se non
esistesse, non potrebbe comunque essere Dio a non esistere. Vedi
com’è profonda la fede razionale di Anselmo: dicendo Dio tu dici
per forza che esiste. Allora non dire mai Dio se ci riesci. Vedi che
non te lo puoi levare dalla mente. Perché?
Il problema di liberarmi dalla roba mia tuttavia sussiste. Semplificare
la vita, ridurla al minimo per essere libero. Lasciare scritto che
quando non ci sarò più potranno, se vorranno, liberarsi di tutto ciò
che mi riguarda per restare solo con me, perché io considero tutto
come un fascio di feticci che mi nascondono.
Ma gli uomini devono toccare, guardare, odorare. Perché all’Aquila,
dopo il terremoto, qualche giovane donna ha raccolto in una tenda
tutte le reliquie, le statue amputate, i quadri sventrati, i turiboli
ammaccati, i paramenti sacri? Vogliamo dire forse che sono tutti
idolatri e feticisti, che avrebbero dovuto rivolgersi al Dio invisibile e
approfittare della distruzione di tutti i loro beni, anche di quelli
chiesastici, per confidare finalmente solo in Lui?
Come è lontano dal sentire comune chi pretendesse questo.
Noi trasmettiamo agli altri gli infiniti oggetti della nostra tenera
idolatria e perpetuiamo sulla terra che balla il culto che il genere
umano nutre per i suoi sogni e le sue illusioni. Perché si tratta dei
sogni e delle illusioni dei nostri avi, di chi è vissuto un tempo sulla
terra e noi dobbiamo loro il rispetto che un giorno una foto, un
documento, uno scialle, un anello, come un talismano, risveglierà in
una persona che scoprirà di amarci ancora.
Con il terremoto dell’Aquila migliaia di persone si sono trovate
all’improvviso senza niente. Ripartire da zero è difficile a vent’anni
come a settanta. Eppure quei volti fermi e onesti, quelle donne
dignitose, di una sensualità severa, quegli uomini pacati con una
asciutta forza misteriosa nelle vene, ci dicono che esiste ancora
un’Italia antica e vera, che il dolore collettivo è un materiale ben più
duro del cemento, armato o, come spesso si è rivelato, disarmato. E
344
che non basta neanche un terremoto a incrinare l’anima resistente di
persone che posseggono la forza elementare dell’umano, la quale
invece rivela in questi casi la sua potenza amara e ferrea.
In questo gli abruzzesi sembrano provenire dal nucleo stesso della
terra e stanno rigenerando gli italiani di Bolzano o di Palermo con la
loro semplice resistenza operosa.
La crudele verità che il dolore, tanto più è forte, tanto più avvicina a
quel Cristo che il piacere e la vittoria rendono un amico nobile,
ammirato e lontano.
Cremazione
Una persona cara ripete che vorrà essere cremata. In questo
desiderio nasce un conflitto tra la libertà della sua scelta e la
sensibilità dei sopravvissuti. Come puoi sopportare che la persona
amata più di te stesso entri in un vaso di cenere? Il contrasto è
mostruoso e rischia di far cadere in una depressione disumana chi
resta in vita. In questo il pragmatismo degli americani ci dice quanto
siano diversi da noi.
Credo, contro le apparenze, che per chi ha fede il dilemma sia meno
drammatico, eppure essendo così povera la mia fede, trovo che la
sepoltura assecondi più pietosamente la natura, affidi tutto a Dio il
compito di provvedere e disporre, in alleanza con la natura, e ci
esoneri da una volontà di accelerazione e risoluzione del processo
che può scatenare i sospetti più torbidi contro noi stessi, oltre a
costringerci a una presa d’atto lancinante.
Confesso in questo modo che io non sono rassegnato a morire. Non
mi dispiace solo per me, e soprattutto per le persone care alle quali
posso dare ancora molto, anzi sempre di più con gli anni, mi
dispiace anche per il mondo. Povero mondo, come farà senza
l’allegria che in tutti i modi cerco di trasmettergli, senza i doni
disinteressati che cerco di dargli, senza le mie invenzioni continue
che lo abbelliscono, senza il mio dolore che, salendo al diapason, si
trasforma in una gioia selvatica di esistere, di guardare, di amare?
345
Ciascuno di noi è dio, e non lo saprà mai.
Slalom femminile
Non c’è donna talmente depressa che non sia disposta ad andare
dalla parrucchiera. Per fortuna. L’umorismo delle donne si esprime
molto più con i comportamenti che non con le battute di spirito. Il
loro modo di sdrammatizzare i massimi problemi comprando un
chilo di mele o dimenticando il mondo davanti a uno sceneggiato
televisivo o a una partita di burraco è una delle facoltà più
ammirevoli del loro sesso.
In ogni conversazione si può sperimentare il loro caratteristico
procedere a slalom. Non c’è argomento dal quale non divaghino con
osservazioni sulla tua pettinatura o sul foruncolo che hai sul collo,
mentre una spia del loro cervello tiene costantemente fisso il tema
del dialogo, solo che non ritengono opportuno svilupparlo in ogni
passaggio. Quando qualcosa non aggrada loro non rispondono o
fingono di non averlo ascoltato, costringendoti a ripeterlo due o tre
volte. Cerchi di metterle all’angolo per arrivare a una conclusione e
loro ti guardano sconsolate e ti chiedono: “Sei nervoso?” Ed
effettivamente lo sei, però magari lo saresti meno avendo l’illusione
di concludere almeno un ragionamento.
Allora ti rispondono che loro sanno benissimo che cosa tu volessi
dire ed è per questo che hanno fatto un salto da un’altra parte.
La natura procede così, reggendo i fili di tante situazioni
contemporaneamente, e alla finché ti accorgi che se il mondo sta in
piedi e proprio in virtù di questa perenne divagazione. Questo genio
della natura noi uomini lo possediamo in più piccola parte e forse
l’immane elaborazione di opere filosofiche e letterarie serve a
compensare questo nostro difetto di base.
Le donne sono imbattibili nel trovare i punti deboli di un uomo per,
nel caso, stuzzicarlo, pungolarlo, provocarlo, costringerlo a
smuoversi dai rari momenti di pace, insidiare le sue sicurezze,
contraddire le sue vanità, ridicolizzare le sue più serie prese di
346
posizione, disorientarlo con bruschi e scherzosi passaggi dal vero al
finto.
E in questo modo concorrono alla grande opera della natura che è
quella di contraddire stimolando, di contrastare di continuo ogni
desiderio di ozio, di quiete, di spensieratezza, di agiatezza del sentire
e del semplice esistere, che finirebbe per essere contraria alla sua
opera e in casi estremi mortale.
Amore passionale e matrimoniale
Ti amo da morire: l’amore passionale. Ti amo da vivere: l’amore
matrimoniale.
Eppure l’amore matrimoniale, basato sulla durata e sull’inarcarsi
combaciante dell’amore con la parabola della vita, inclina per sua
natura alla morte, e a essa si arrende come fenomeno naturale che
chiude il cerchio. Mentre l’amore passione, che sente la morte non
già alla fine della circonferenza, per quanto breve, ma ora, subito, in
atto, col suo stilo acuminato, non ama che la vita e per troppa vita
sente così la morte.
Quando un uomo sposato si innamora di un’altra donna le dice
sempre che il suo matrimonio è in crisi, anche se non è vero, benché
quasi sempre in questi casi lo sia. Eppure un matrimonio può essere
in piena salute e uno innamorarsi di un’altra (che poi non è un’altra,
è se stessa) restando in amore con la propria moglie, se si tratta di
legame di lunga data.
Non puoi innamorarti di due donne, che è mostruoso, ma puoi
innamorarti di una mentre continui a voler bene da anni o da
decenni a un’altra.
Se però fosse la donna a rivelarti questo suo doppio amore tu
penseresti che è finita, perché il matrimonio si regge sul patto di
lealtà, cioè sull’accordo pubblico di non innamorarsi mai di un’altra
persona, cosa che è palesemente assurda e tale da riuscire soltanto
per i pur numerosi individui privi di immaginazione amorosa, i quali
347
non trovano alcuna fatica a farlo, il problema risolvendosi per loro
nel non fare sesso con un altro, cosa alla quale si rassegnano o
provvedono di nascosto.
Sbocchi
Dio, siamo stanchi di amare. Amaci tu adesso!
Le parole sono le cicatrici del silenzio
Come ti senti? I momenti migliori della giornata sono quando
dormo. Allora è segno che cominci a star bene.
Quando la persona amata scopre una sua debolezza apertamente
davanti ai tuoi occhi è segno che ti ama.
Essere morti è molto più comodo che essere vivi. Ma io detesto le
comodità.
16 aprile
Ambienti letterari
È stupefacente ma del tutto normale che negli ambienti letterari si
riproducano gli stessi vizi e difetti della società italiana in ogni suo
comparto, come in ogni altra delle mille e mille tribù incomunicabili
che convivono in questo stato cosmopolita dalle mille nazioni,
intendendo anche soltanto gli stessi italiani. Ma come negli ambienti
religiosi, i vizi correnti e comuni sono sfigurati da un supplemento
di male, non solo per il contrasto col bene predicato, ma per una
deformazione dell’animo conseguente alle pretese troppo alte sulla
natura umana che si esercitano.
Così negli ambienti letterari i vizi correnti si fanno più grevi e
disgustosi perché scrivere, immaginare, pensare, poetare piegano
controvento la natura spontanea per riguadagnare una luce più
chiara o più alta. Ma i più restano in trappola a mezza strada e
348
schizzano su se stessi e sugli altri il veleno dell’invidia, della superbia,
della menzogna, della slealtà, dell’acidità, della malinconia morbosa,
della depressione, della rabbia, della furia impotente. Materiali grezzi
che non hanno fatto in tempo, o non sono riusciti per mancanza di
talento e carità divina, a lavorare e a raffinare fino in fondo, sicché
diventano peggiori degli altri, tanto più in quanto non ne hanno
nessuna coscienza, e anzi si sentono vittime.
Non stuzzicare forze oscure
Se anche non credi in un Dio, scatenare risentimenti e rancori
contro fantasmi di nemici superni o inferi nell’aria può essere
comunque pericoloso. Chissà quali forze andiamo a risvegliare che
non si sarebbero mai accorte di noi? Come in una giungla non è
prudente parlare a voce troppo alta e mettersi troppo in mostra,
così, pur nell’epoca più scientifica e pragmatica della storia, non
possiamo essere del tutto sicuri che forze irrazionali non aleggino
intorno a noi. Se mostrerai il sorriso agli altri e reggerai con pazienza
benevola il tuo fascio di spine ogni giorno assegnato, probabilmente
non te ne verrà nulla di buono, ma non rischierai di scatenare contro
di te le potenze sulle quali non abbiamo nessuna cognizione e delle
quali sarebbe persino ridicolo parlare in pubblico.
Proporzione del bene fatto e avuto
Mi domando se il bene che ci viene dalla vita non corrisponda
esattamente al bene che abbiamo fatto. Chi può dire infatti se una
malattia non ci cada addosso vent’anni dopo che abbiamo negato
un’elemosina a uno zingaro. O che un infortunio professionale non
consegua al tradimento di una ragazza che frequentavamo
all’università. Chissà che un riconoscimento non derivi dalle parole
buone che abbiamo detto a una vecchia quando eravamo bambini o
l’amore di una donna non ci derivi all’assistenza fatta a una
sconosciuta malata.
Quando il conto del male e del bene risulta passivo ecco la
bronchite, ecco il licenziamento, ecco la condanna di un cuore arido
349
che guarda la parete con più interesse del televisore, dove ridono gli
spettri di quello che un tempo si chiamava il popolo italiano.
Se uno dicesse: “Enrico crede in quello che ha appena scritto” non
mi capirebbe. Non vi sono prove né per negarlo né per affermarlo.
E io non credo a qualunque cosa indimostrata che mi suggestiona.
Io sto solo ponendo domande e facendo ipotesi che non posso
escludere, a condizione che abbiano un senso.
La teoria secondo cui male e bene ci cadono addosso con
indifferenza completa ai nostri meriti e ai nostri vizi è del tutto
diversa dalla prima, perché a volte è smentita e a volte è confermata.
Per esempio un bambino muore in un terremoto, e quindi la teoria
sarebbe smentita. Oppure, al contrario, vince un concorso il più
bravo, ed è confermata.
Mentre la prima teoria non è smentibile né confermabile in nessun
modo. È del tutto indecidibile, perché cause ed effetti sono troppo
remoti e intrecciati con migliaia di altri e noi non sappiamo tutto il
bene e tutto il male che abbiamo fatto.
Se mi credo privo di colpe il mondo è stato immensamente ingiusto
con me. Ma se appena considero una mia colpa, esso è stato fin
troppo magnanimo.
Non potremo mai apprezzare i beni che abbiamo avuto perché
siamo convinti che ci spettino e siano comunque inferiori ai nostri
meriti, mentre un già piccolo bene negato ci mortifica.
Evidentemente pensiamo di avere un’origine divina e che,
rispettando la nostra natura regale, ci spetterebbe tutto.
Il dono di ridere di noi stessi
Mai ci offende la maestà perfetta di Dio come quando ci mettiamo
una maglia al rovescio o quando ci macchiamo la camicia in una
cena pubblica, quando ci tagliamo distrattamente con un coltello
sbucciando una mela o quando un coperchio ci cade sul naso. Dio
non ha mai avuto questi problemi, non è mai dovuto passare dalla
Metafisica di Aristotele al pronto soccorso con un naso sanguinante.
350
In questi casi manchiamo di umorismo. E infatti i grandi comici, da
Chaplin a Stanlio e Olio, da Buster Keaton a Jacques Tati, hanno
sempre riso proprio di queste goffaggini, ridicole miserie e
buffonesche disarticolazioni, sentendoci dentro una grandezza
liberatoria e semidivina.
Aristotele dice che Dio non ci conosce né ci ama perché è perfetto,
e quindi può conoscere soltanto se stesso e dedicare tutto il suo non
tempo soltanto a se stesso. Per amare bisogna sentire una mancanza
bruciante, una deficienza profonda del proprio essere. Il filosofo
aggiunge che l’uomo che più assomiglia a Dio si realizza nel
filosofare, perché è il pensiero disinteressato ciò che più ci
perfeziona e ci assimila ad Esso. Ma pensare, anche se la molla
scatta per amore della perfezione divina, sempre meno è amare Dio,
e tanto meno gli uomini, perché tanto più siamo perfetti e simili a
Dio tanto meno amiamo. Dio stesso infatti non ama se stesso, si
pensa solamente.
Il fatto che un essere imperfetto per due o tre ore consecutive pensi
filosoficamente deriva dal suo amore intellettuale ma lo scopo
ultimo del suo pensare è cessare di amare, cioè di essere imperfetto.
Aristotele pensa per non amare. Potrà diventare lui semmai oggetto
di amore? Di chi? Dei suoi discepoli? Ma chi non ama non desidera
neanche essere amato. Aristotele è uno degli uomini più ammirati di
tutti i tempi, ma di certo non il più amato.
Platone ha rilanciato l’amore in ogni possibile modo, senza essere
meno lucido e geniale, mentre Aristotele ha cercato tutta la vita di
renderlo inutile per sfuggire al morso della sua theia mania.
E chi sei tu per criticare Aristotele? Il bambino dice che il re è nudo.
Non dice mica che non è un re.
18 aprile
Grafomania nazionale
351
Ci sono troppe righe stampate per poter leggere tra le righe e si
scrivono troppi versi per leggere tra i versi. Interi magazzini di
decine di migliaia di libri mandati al macero, cimiteri di carta più
vasti delle città, le parole diventate una razza barbara e autonoma
che uccide la civiltà dei pensieri, delle immagini, delle emozioni.
Il pudore come paura non di denudare i propri segreti ma di
diventare l’oggetto dello sguardo altrui.
Quando si comincia a leggere un buon libro capita come quando si
incontra una buona persona. Si sopravvaluta, lo si immagina, lo si
sogna. Meno si approfondisce e più si loda. Quando lo si legge per
intero pian piano se ne vedono i difetti, si diventa più esigenti, nella
misura in cui, spendendo il nostro tempo, pretendiamo un
compenso di valore sempre più alto al nostro sacrificio. Perché
leggere qualunque libro è comunque un sacrificio.
Gran parte della critica giornalistica oggi è elogiativa proprio perché
nessuno legge i libri fino in fondo, ma li tasta, li assaggia, li pilucca,
quindi la facoltà di immaginare è molto più spigliata e incline al bello
e, avendo dato così poco del proprio tempo, resta un vago rimorso
che si placa lodando l’autore, sia perché non possa controbattere
(cosa peraltro rara e giudicata inopportuna), conoscendo il proprio
libro molto meglio del critico, sia perché oggi l’inclinazione a lodare
rende molto popolari, perché vuol dire che si è privi di invidia,
soddisfatti di sé e democratici. Cose tutte e tre false.
Aggiungi che, avendo letto e conosciuto poco un libro, cosa che non
ti costringere ad attenerti a quello reale, tu hai campo più libero per
crearti un libro fantastico, e cioè per far emergere i pensieri e i
sentimenti che ti ha ispirato, e puoi esporli così con disinvoltura e
brillantezza, la tua sembrando una critica tanto più originale quanto
più coglie un’angolatura mai sperimentata, cosa molto più difficile se
avessi letto il libro fino in fondo.
Quando studi un autore che ami per scrivere intorno a lui, o dentro
di lui, un saggio, tu passi mesi e mesi con le sue opere, e quei libri
che ti sembravano eccelsi si costellano di lamenti, proteste e
stroncature ai margini che, col passare del tempo e l’aggravarsi della
352
convivenza, finiscono per coprire quasi ogni pagina. Eppure i suoi
libri continuano a piacerti molto. Cosa che non direbbe mai chi si
limitasse a sfogliarne le stesse pagine, tempestate di critiche spietate,
dopo di te.
Il risultato è che il saggio, di giusto apprezzamento e non privo di
critiche, è finalmente equo e rispondente ai valori effettivi dell’opera,
ma in te matura un odio per l’autore, pur sempre tanto stimato, e
forse ancora di più dopo lo studio, che ti porta a non aprirne più
nessun libro e a non sentirne pronunciare il nome senza un moto di
paura.
A tal punto il fatto che esista un altro io pari o superiore a te nel
mondo ti è insopportabile? Non credo si tratti solo di questo.
Percorrere per intero quasi ogni scrittore contemporaneo, benché
degnissimo, genera una delusione che si converte in ostilità e
rancore perché la vita non ne risulta affatto cambiata, e anzi la
sproporzione tra la bellezza del mondo immaginato e l’asprezza di
quello reale si fa maggiore e più insopportabile. Ricade sullo
scrittore la rabbia per il mondo che non è cambiato.
Coloro che sopravvivono a questa prova del fuoco e sui quali puoi
riscrivere dopo anni e decenni sono gli autori che non scrivono
affinché tutti li ammirino, ma che danno qualcosa di decisivo di sé al
mondo, che resta nutriente e indispensabile. Così Bonnefoy ha
potuto scrivere di Rimbaud nel corso di cinquant’anni. E io potrò
sempre scrivere ancora di Leopardi.
Giovanni Giudici scrive, nella sua agenda del 1960, che Carlo Bo al
solito non indaga le cause dei mali ma riflette sconsolato sugli effetti.
Oggi sono ancora numerosi i devoti di questo realismo degli effetti,
ma per piegarli con forza ai propri valori, senza badare alle cause che
ispirano i comportamenti buoni. Una forma di ipocrisia sublime, la
più antica arte del cattolicesimo al potere, degna di rispetto ma non
di stima.
Antipatie a pelle
353
Ci sono persone che ci sono antipatiche istintivamente, a pelle. Il
fenomeno da bambini è travolgente e si placa molto lentamente
negli anni. Resta indeciso se vi siano delle ragioni inconsce o delle
semplici allergie fisiche a un modo di muoversi, di ridere, di girare la
testa.
Con gli anni le antipatie si spiritualizzano e consistono sempre più
nel riconoscere in un uomo o in una donna un membro della
comune umanità. Mentre da ragazzini sentiamo il bisogno
irresistibile di dimostrare l’antipatia, da adulti è ragionevole limitarci
a non frequentare le persone oggetto dei nostri ingiusti sentimenti
ma, essendovi costretti, difficilmente potremo trattenerci dal
provocarli, dallo sbeffeggiarli, dall’esibire la nostra ostilità e ironia,
spesso con loro sommo stupore. Il fenomeno molto di rado infatti è
simmetrico.
Il Libro di Ezechiele
Leggendo il Libro di Ezechiele, come spesso capita con l’Antico
Testamento si rimane annebbiati, e quasi inebetiti e scandalizzati, dal
modo in cui gli autori si rappresentano Dio. Ezechiele che, come
molti profeti, parla addirittura come fosse il portavoce di Dio,
citandone alla lettera le parole, lo mostra adirato e vendicativo, in
preda a un furore distruttivo. Questa immagine di Dio è ben più
nemica del vero Dio di qualunque immaginazione del politeismo.
Non si può non prendere il toro per le corna una volta per tutte. Vi
sono stati decine e decine di profeti convinti di parlare per bocca di
Dio. Un cristiano o un ebreo dovrebbe quindi non solo credere in
Dio ma credere anche in ciascuno di essi, oltre a credere che tutti gli
autori della Bibbia siano da Dio stesso ispirati.
La pretesa non solo è inaccettabile ma è prepotente e superba
rispetto al vero Dio, che nessun uomo semplice e amoroso
pretenderebbe di far parlare in sé come un ventriloquo.
Senza contare che non sarebbe più un cristianesimo ma un
panprofetismo, visto che tanta gente mette tra virgolette le parole di
354
Dio da lui stesso escogitate, senza contare centinaia di santi, migliaia
di beati e servi di Dio che hanno osato fare lo stesso.
Con questo non voglio togliere valore al profetismo o alla santità,
perché anzi credo che esistano persone illuminate e mi spingo
persino a pensare che esistano veicoli privilegiati della parola divina.
E tuttavia non ogni loro parola è ispirata. La visione profetica, theia
mania anche secondo Platone, ha infatti il carattere di una portentosa
lucidità, alternata a una ricaduta nel proprio essere secondo e
mortale, con un’intermittenza rapida di squarci, subito intorbidati da
pesanti ricadute nella propria cultura e nella mentalità dominante. La
profezia va colta soltanto in quei brevissimi passaggi di rivelazione e
non presa per buona con tutto il carico ideologico e storico di cui è
gravata.
Il profeta Ezechiele è un poeta di valore. Basti pensare a questo
incipit: “Tutte le mani cadranno / e tutte le ginocchia si
scioglieranno come acqua”, oppure al verso “Getteranno l’argento
per le strade”, eppure la sua vena poetica e profetica è intossicata da
una violenza selvaggia, tanto più torbida in quanto è comunque un
uomo che pretende di parlare per bocca di Dio. In questo modo
compie un’operazione scandalosa in quanto insinua il male nel bene,
il demonico nel divino.
Egli manca del tutto di pedagogia mentre Dio dovrebbe essere
prima di tutto un educatore nell’amore.
È segno di estrema violenza infierire sul più debole ed è certo che
noi uomini siamo piccoli, inermi, vulnerabili. Ề giusto che Dio sia
giusto e infligga castighi come impartisce premi ma scatenarsi contro
di noi sarebbe indegno per lui. Inoltre non può essere un uomo a
immedesimarsi in Lui, giudice e vendicatore, perché altrimenti si
trasforma in un mostro. Leggendo queste pagine di aggressività
sboccata e disumana viene da pensare che abbia ragione Aasmann
quando scrive che la violenza è intrinseca al monoteismo. E che
molti cattolici chiamano amore lo sforzo sovrumano che fanno per
contenerla dentro di loro e per nasconderla agli altri.
La luce di Cristo si irraggia non solo verso il futuro ma anche verso
il passato ebraico, educando e raddolcendo, senza perdere in nulla la
355
severità della legge, la violenza inaudita che aveva alle spalle, non
meno losca pensando, come lo stesso Aasman spiega in modo
convincente, di una violenza soprattutto verbale e letteraria, di una
rielaborazione che aveva ben poco a che fare con i fatti reali, che si
sono svolti in modo del tutto difforme, visto che gli ebrei sono stati
già allora quasi sempre vittime e che nella Bibbia vengono glorificate
vittorie inesistenti nella storia e tutte plananti su di un piano
simbolico e spirituale.
Non credi che Dio inspiri le donne e gli uomini? Sì, ma non credo
che siano profeti tutti quelli che si dicono profeti e non credo che
non lo siano quelli che neanche sanno di esserlo. Anzi, mi fido
molto di più dei profeti che non lo sanno.
19 aprile
Vivrai se il mondo sparisse
Se uno qualunque di noi si sentisse dire: Tu puoi continuare a vivere
a una sola condizione, che il resto del mondo sparisse nel nulla, in
quanti si sacrificherebbero? Pur sapendo che da soli non potranno
mai sopravvivere per più di qualche ora? Ciascuno di noi non solo si
sente indispensabile all’esistenza del mondo ma arriva a credersi il
mondo stesso, senza pensare che il mondo è tutto intero nella
coscienza di qualunque altro essere vivente, secondo il grado di
esperienza, di intelligenza e di sensibilità. Il colpo di genio di far sì
che ogni uomo sia il mondo, possieda gratis l’universo nella sua
mente indica una natura profondamente democratica della divinità.
L’astuzia della natura consiste nel far sentire ciascuno il dittatore del
mondo mentre conta meno che niente.
Il mondo è aperto, come voragine ma anche come panorama.
Questa reggia sconfinata è stata donata a ciascun uomo, che
potrebbe percorrerla in lungo e in argo, anche a piedi, ma che poi
magari vive in una baracca e non ha mai messo il naso fuori del suo
villaggio.
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Il poeta, non importa se di talento attuale o potenziale, anzi molto di
più tanto meno talento ha, vive in modo esasperato questo diritto
naturale di tutti gli uomini e condivide con Nerone il delirio di
lasciare nel lutto il mondo senza lui: Qualis artifex pereo. Solo se è un
genio, o un uomo ipersensibile si rende conto che i suoi libri di versi
si aggiungono ad altri milioni di libri, raccolti in biblioteche che sono
istituzioni tra altre milioni di istituzioni e che non si troverà neanche
un essere umano che farebbe una vita radicalmente diversa avendolo
conosciuto.
20 aprile
Benjamin alle prese con Adorno
Benjamin è stato parecchio maltrattato da Adorno, come si legge nel
carteggio che si sono scambiati, nel mentre ne veniva sostenuto,
riconosciuto e ammirato. E ha sopportato con pazienza le tante
critiche severe che quell’intelletto iperlucido, aristocratico e devoto
della dialettica negativa, al punto da scatenare il suo genio solo
all’interno di essa, ha mosso a quasi tutto ciò che Benjamin gli ha
fatto leggere, spesso costretto a motivarlo, a ritoccarlo, a espungerlo,
o a rinunciare a uno sviluppo promettente, o anche a vedersi un suo
saggio rifiutato.
Questo continuo parlare dell’Istituto, vegliato da Horkheimer e
vigilato da Adorno, come del resto era giusto che fosse, ha reso
possibile un’esperienza intellettuale fuori del comune, ma al prezzo
di attentare alla salute e alla libertà di un uomo dotato di emozioni,
immaginazione, sentire mistico, organi percettivi ben desti, curiosità
da ragazzo, genio ingovernabile, benché disciplinatissimo, come
Walter Benjamin.
Aperta è la questione se così facendo gli abbiano fatto del bene.
Perché trovare resistenza è spesso un bene, anche se non puoi
resistere a un più profondo, e per questo anche ingenuo, sapere.
Per Adorno contava molto che un saggio fosse progressivo o
reazionario e la distinzione era acrobatica e complessa, al punto che
357
si ha la sensazione che a volte bastasse un grammo in più da una
parte o dall’altra per capovolgerne il giudizio. Che un perpetuo
allarme corresse per la schiena di fronte all’imprevedibile condanna
o assoluzione. Che misteriose colpe insondabili si celassero nelle
pieghe del discorso, tutto teso alla difesa cosciente del proletariato, o
che un attacco alla classe in lotta per la liberazione suonasse il più
rivoluzionario.
Questo è proprio di chi arriva sempre dopo l’arte e la giudica, pur
avendo una natura da artista filosofico, tutto però riversato nel
dialettico e nel concettuale. Il che produce lo spirito che sempre
nega, una forma di demonismo.
L’arte è già conoscenza, è già azione, benché legata a pochi. E non è
cercando di diventare a tutti costi progressivi che ci si accosta di un
passo al proletariato e alla sua causa. L’arte ha una sua realtà.
Ora, che il pensiero sia fatto di immagini dialettiche, come avviene
nei saggi di Benjamin, che possano viaggiare da sole senza alcuna
teoria, Adorno non lo poteva ammettere, al massimo concedendo
forse che sia fatto di figure, come nella Fenomenologia dello spirito. Ma
che un’attitudine verso la vita: il flâneur, la prostituta, lo spettatore
cinematografico potesse essere una forma immanente del pensiero,
indipendentemente dal contenuto, questo era per lui
incomprensibile e insopportabile.
La dialettica del servo-padrone di Hegel porta all’emancipazione
degli schiavi e alla rivoluzione borghese basata sul lavoro. O almeno
alle teorie di Marx. Ma il flâneur, la prostituta, lo spettatore
cinematografico dove portano? Questa è la domanda di Adorno. Da
nessuna parte. E allora sono figure reazionarie. Sì, ma siamo noi
oggi. Non siamo tutti flâneur nella rete del Web (un mare pieno di
scie senza le navi), non siamo tutte prostitute, non siamo tutti
spettatori?
Che gli stessi proletari sarebbero diventati flâneur, spettatori di film,
lettori di polizieschi e prostitute del consumo era la verità cifrata del
dialogo, nel quale aveva ragione Benjamin.
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Il mito del proletariato è il tabù di quel carteggio dove si discute pro
o contro il mito, si definisce un senso del mito, senza mai mettere in
discussione il più potente di tutti i miti intellettuali: il proletariato.
Un mito che ha agito nella storia, anche se non abbastanza, perché è
servito a sorreggere e far progredire una classe massacrata,
rendendola ora solamente sfruttata e alienata, alienata anche dalla
sua figura di classe. Il che è un passo avanti e un passo indietro
nello stesso tempo. Ma un passo nella realtà.
La dialettica, positiva o negativa, è una teoria del tutto, del legame di
tutto con tutto, mentre proprio dell’epoca è invece quello che
Benjamin chiama “l’allentamento solidale”, forse con implicito
invito rivolto ad Adorno di allentare le sue tese relazioni di tutto con
tutto, compreso lo stesso Benjamin, di pensare in modo più
allentato, cioè più recettivo, sciolto, curioso, da ascoltatore, da
flâneur, da spettatore.
La dialettica dell’illuminismo è un libro che è stato eccitante nella mia
gioventù. Ma ora mi domando se l’illuminismo sia dialettico o possa
rientrare in una dialettica. Penso invece che esso abbia come proprio
carattere portante di non esserlo, di volgersi alla vita concreta e
pratica della società per intervenire su di essa volta per volta, caso
per caso, formando una mentalità razionale e benigna idonea per
questa impresa.
Il fatto che esso sia governato da una ragione strumentale non
autorizza affatto a scorporarla dalla sua azione concreta e benigna,
che ne è parte costitutiva, facendola diventare una potenza astratta,
che si può volgere anche alla distruzione e allo sterminio.
Dialettico è semmai il romanticismo, che molto di più si presta a
quei rovesciamenti e superamenti conservativi, puntando a un
assoluto globale che, finché perseguito dal singolo, ha un senso, ma
quando diventa l’orgasmo di una massa diventa pericoloso e letale.
La gran parte dei nostri comportamenti e delle nostre attitudini non
sono né reazionarie né progressiste, ed è proprio per ciò che vanno
comprese, con un giudizio interno e attuale.
359
Arte auratica e riproducibile
Non vale domandarsi se un’arte riproducibile, che ha perso l’aura,
sia o no da sostenere. Vale capire il fatto che l’ha persa e che un’arte
auratica noi la leggiamo come opera grandiosa del passato. E vale
capire che tale arte tecnica, la fotografia o il cinema, sono il modo in
cui ciascun individuo percepisce la realtà, si voglia o no.
E se ciascuno vale, se ciascuno vive oggi, che la percepisca così non
è un male, non è un errore.
Preferisco La ricerca del tempo perduto al miglior film ma La ricerca la
commemoro in solitudine, il film lo guardo oggi. Non accettare
questo, sì, vuol dire essere mitologici, perché ci nutriamo soltanto
della grande arte, nel mentre ne mettiamo in luce le contraddizioni
ideologiche.
Adorno, nel carteggio, oppone che bisogna essere dialettici con l’arte
auratica ma allora lo si dovrebbe essere anche con l’arte
riproducibile e tecnica, senza credere che essa sia destinata a valere
di più. Ma la seconda vige oggi, vale perché vive, pensa Benjamin, e
mio dovere è sempre capire l’oggi.
Lanciare il passato dell’arte auratica contro il presente dell’arte
riproducibile vuol dire rinunciare ai segni della vita, ridurli a
decadenza di massa, a fine del mondo nella massa.
Benjamin resta un ragazzo pieno di voglia mistica di comprendere il
presente, costi quel che costi. Adorno è un erede dei tempi grandi,
come György Lukács, un resistente e un lottatore che vuol dare un
futuro al passato, attraverso la fiducia in una rivoluzione proletaria,
dalla quale era lontanissimo per cultura, tradizione, aristocrazia
intellettuale.
Entrambi, Adorno e Lukács, saltano il presente, vedono solo il
passato e il futuro. Il che è moltissimo e dato a pochissimi, però
360
manca quel quasi nulla, che però è un fuoco che brucia, il nucleo di
tutto.
Proletariato e massa
La dialettica è per Adorno l’arma progressista con la quale contare
ancora qualcosa nel presente, da intellettuale che condivide l’idea di
Lenin in Stato e rivoluzione, secondo la quale sono gli intellettuali che
devono guidare il proletariato, sicché molte delle critiche a Benjamin
discendono proprio dal fatto che lui non accetterebbe in modo
abbastanza attrezzato questo compito.
Facile è per noi rimarcare l’ingenuità di questa fiducia in un uomo di
tanto smaliziato, sferzante e possente intelletto, quando il
proletariato non solo ha fallito ma si è disintegrato come classe,
benché non come complesso di lavoratori, sempre sfruttati.
Più difficile ammirare la dedizione di allora, sia pure tutta mentale,
all’emancipazione della classe più debole e oppressa, che però da
Adorno veniva disprezzata come massa, mentre è evidente che una
classe non possa che far massa, se vuole contare.
Il nucleo del problema sta nel rispetto creaturale verso ciascun
individuo, diventi egli proletario o borghese, nel rispetto verso
ciascuno, il che solo può essere teologicamente fondato. Perché se
noi non pensiamo che ciascuno possa accedere al nucleo di verità e
giustizia della vita, come potremo mai pensare che una classe
magicamente generi una compagine di giusti e di veridici lottatori
per il bene comune?
Se crediamo che una massa di insipienti, drogati dalle arti di massa e
dal mercato, possa distruggere ogni suo singolo componente, non
dovrebbe forse ciascuno, in quanto individuo proletario, generare
una massa buona, cioè una classe che lotta per il bene?
Che questa seconda possibilità, cioè che l’individuo agisca sulla
massa, ci suoni da sempre remota, anzi fantastica, avrebbe dovuto
rendere da sempre anche irrealizzabile la prima, che cioè una classe
361
magicamente trasformi gli individui che la compongono,
orientandoli al bene, tanto più sotto la guida di intellettuali.
Bisogna pensare che in ogni massa resista sempre qualcosa
dell’individuo, un suo nucleo di verità. Se non si pensa questo crolla
tutto.
Se allora, teologia e marxismo devono cooperare, come voleva
Benjamin, ciò può accadere soltanto, in modo mistico e filosoficoletterario, attraverso scritti che riconoscano i flâneur, le prostitute, gli
spettatori del cinema, i lettori di romanzi polizieschi, i passeggiatori
nei passages parigini, che rendano giustizia a ciascuno.
Minima moralia
Minima moralia è un gran libro, perché in esso l’intelletto iperlucido
giudica il mondo soccombendo, esso stesso offeso dal mondo. E
così in nessun’altra opera Adorno è stato vicino a quel proletario che
mai l’ha letto e che non lo leggerà mai, ma che gli è simile in questo
libro, perché ciò che c’è di più umano nell’aristocratico Adorno
brucia come ciò che c’è di più umano nel proletario.
Il movimento del ’68 non ha trovato in Adorno o in Horkheimer
figure di riferimento, perché la loro vita era un mondo totalmente
altro rispetto a quello degli studenti.
Nel Senso unico di Walter Benjamin
Imbattersi lungo la strada nel Senso unico (Einbahnstrasse) di Benjamin
è una delle fortune più grandi che possano capitare. Non vi è nulla
di bizzarro in questo libro, come dice invece un suo curatore. Al
contrario, la fortuna consiste nell’incontrare per caso in mezzo alla
folla un amico naturale in carne ed ossa, una personalità che ama
come un ragazzo e inventa audacemente la forma della sua opera,
senza tradire l’innocente spirito di rivolta e di conoscenza del più
scalzo e precario camminatore di questo mondo.
362
Leggendolo, ti spazzi la polvere dalla pelle e confidi di riconoscere
anche te stesso come uno capace ancora di amare, di poetare e di
conoscere con curiosità tutto il circo del mondo, con la massima
serietà e senza nessuna solennità.
Mi spiego con qualche passo: “Lei poteva appunto uscire dal
portone, girare l’angolo e stare sul tram: ma dei due dovevo essere
io, a ogni costo, il primo a vedere l’altro. Perché se lei mi avesse
sfiorato con la miccia del suo sguardo, io sarei volato in aria come
un deposito di munizioni.”
E ancora: “Un quartiere quanto mai caotico, un intrico di strade da
me evitato per anni, mi apparve di colpo dotato di un suo ordine
quando un giorno vi si trasferì una persona amata. Fu come se alla
sua finestra avessero installato un riflettore e questo fendesse la zona
con fasci di luce.”
Il talento di titolista di Benjamin non è da meno dell’originalità del
suo modo di pensare dal vivo, basti dire che il primo passo si intitola
Armi e munizioni e il secondo Pronto soccorso. Il titolo non è né una
sintesi né una spiegazione del brano ma taglia la strada al testo come
un passante che ci ricorda che stiamo camminando in mezzo agli
altri.
La frase che più mi ha colpito in Senso unico è la seguente: “A una
cosa non si potrà più porre rimedio: non essere scappati di casa. Da
quarantotto ore trascorse abbandonati a se stessi a quell’età (a 15
anni) prende forma, come in una soluzione salina, il cristallo della
fortuna di tutta la vita”. Neanch’io sono stato capace di farlo, tanto
più me ne pento in quanto amavo la mia famiglia. Leopardi l’ha
fatto, Rimbaud l’ha fatto, e non per caso.
“Non c’è nulla di più misero di una verità espressa così come la si è
pensata”, scrive Benjamin e fa l’esempio di uno che pretenda di
fotografare un’odalisca immobile e sorridente, la quale invece
indossa il primo straccio che le capita a tiro e fugge nuda tra la
gente. E, còlta in questa fuga, sarebbe davvero lei, amabile benché
trafelata e sconvolta.
363
Questo pensiero di Benjamin segnala il suo valore insieme al suo
glorioso difetto. Non tutti infatti pensano allo stesso modo e c’è chi
con gli anni riesce a pensare in modo libero e semplice, e a quel
punto non si vede perché truccare il pensiero stilisticamente o
renderlo eccitante con una foto a effetto. Forse non è diventato mai
abbastanza vecchio per apprezzare la verità che sta ferma e si fa
guardare nuda e senza desiderio?
Vero è che esprimere un pensiero non solo è tradurlo ma farlo
sbocciare, processo che deve avere un suo impeto naturale
anch’esso. “Il dire infatti non è solo la manifestazione, ma la
realizzazione del pensiero”. E Benjamin stesso aggiunge in un altro
passo che “il buon scrittore non dice mai più di quanto abbia
pensato.”
E tuttavia nei suoi scritti a volte si nota un pensiero naturale e poi il
lavoro secondo di espressione, con analogie ardite, immagini
succose, trovate diabolicamente sottili, sarcasmi dolorosi, tenerezze
di secondo letto, come se un’intelligenza prima fosse cavalcata da
un’intelligenza seconda.
Egli non ha scritto poesie memorabili, ma il segreto rapporto tra le
sue due intelligenze è poetico. Lo vediamo in questo passo, nel quale
i pregi straordinari e gli eccessi connaturati al suo genio sono
evidenti:
“L’appagamento sessuale sgrava l’uomo del suo mistero, che non sta
nel sesso ma nel suo appagamento, nel quale solo forse il suo
mistero non viene sciolto, ma reciso. È paragonabile al vincolo che
unisce l’uomo alla vita. La donna lo recide, all’uomo si libera la vita
della morte perché la sua vita ha perduto il mistero. In tal modo egli
rinasce e, come l’amata lo affranca dall’incantesimo della madre,
così, più letteralmente, la donna lo stacca dalla madre terra, è la
levatrice cui spetta recidere il cordone ombelicale che il mistero della
natura ha intrecciato.”
Cosa ci trovo in tutto ciò di poetico? La densità e la pregnanza delle
idee vibranti tutte insieme, con variazioni musicali e timbriche. Il
carattere illogico, dal punto di vista della sintassi logica, dei
364
collegamenti, soprattutto pensando a quello “è paragonabile”,
mentre si tratta in realtà letteralmente, e non per via di paragone,
della rescissione del vincolo, visto che l’uomo insemina la donna e fa
un figlio che si sostituirà a lui nel cuore di lei, rinascendo il padre in
lui, ma perdendo, come sapeva Platone, la sua sognante immortalità.
L’uomo infatti si libera della madre diventando padre.
Sono poetiche le analogie sfrenate (la madre, la madre terra, la
natura), per non dire del suo carattere manifesto di pensiero di getto,
di pensiero ispirato. E non importa se si trovano varianti, versioni
diverse e segni di lavoro insonne su poche righe.
Infine il fermare il pensiero sul più bello, perché non è l’orgasmo a
essere decisivo ma la esitazione procreativa, processo tipico della
buona poesia, che scarta un jolly.
Scrive ancora Benjamin: “Una metà dell’arte del narrare consiste
infatti nel mantenere libera da spiegazioni una storia mentre la si
racconta.”
Lui si è dedicato all’altra metà, al narrare che, proprio perché
spiegato di continuo, ma mai in modo definitivo, diventa
affascinante.
Fingendo di essere un detective letterario a caccia di spie rivelative,
citerò quest’altro passo: “Una frase che, concepita in forma metrica,
venga in seguito scompaginata nel ritmo in un solo punto, crea il
miglior periodo in prosa che si possa pensare.”
Ề quello che Benjamin fa nella prosa sorprendente di Pensiero e cura,
dove prende le mosse dal potere magico di una madre che fa
addormentare il suo bambino malato, raccontandogli una storia con
movimenti espressivi delle mani. Con follia ispirata, cioè con la sua
tipica disarticolata sintassi logica:
1) dice che si sa che il racconto fatto al malato dal medico è l’inizio
della guarigione;
365
2) si domanda se il racconto non crei il clima giusto e le condizioni
favorevoli più della guarigione stessa (manch einer Heilung).
Si domanda insomma se non vi sia qualcosa di più importante che
guarire;
3) si chiede se tutte le malattie non possano essere inguaribili, pur
facendosi trascinare dal fiume del racconto fino alla foce;
4) riflette sul fatto che il dolore è una diga al flusso del racconto;
5) aggiunge che tale flusso si interrompe da sé quando la pendenza è
così forte da trascinare nel mare del felice oblio tutto ciò che
incontra nel suo passaggio;
6) conclude che “la mano che carezza disegna un letto a questo
fiume.”
Il testo è perfettamente chiaro poeticamente e del tutto disarticolato
logicamente, e ciascuno di noi può vedere tutta la ragna di
interpretazioni che possono tessersi a ogni passaggio mentre, anche
non capendolo fino in fondo, esso è perspicuo come la più ispirata
delle poesie.
Il fatto che scriva in prosa potenzia addirittura l’effetto, perché sei
disposto a una lettura eccentrica e difforme da quella che ti viene
richiesta.
Se volessi spegnerne il senso potrei tradurre Heilung con cura e dire:
Nulla di strano. Un racconto lenisce il male piccolo ma non cura una
malattia inguaribile. Io però voglio accenderlo.
Soltanto a un essere ispirato verrebbe in mente di dire che il fiume
del racconto apre a un bene superiore, non tanto quando il dolore lo
spezza ma quando la sua pendenza è così forte che precipiti, dentro
l’alveo delle carezze, nel mare del felice oblio. Nel sonno. Oppure
nella morte?
Benjamin ha mantenuto tutta la vita l’aria da liceale ammirato dai
compagni e inafferrabile per i professori.
366
Ci sono uomini in grado di avere una bellezza fisica derivante tutta
da quella spirituale. Così Benjamin, uomo non bello che si intuisce
fascinoso per le donne, grazie a quei suoi modi puramente mentali e
spirituali da ragazzo ribelle, allarmato e irriverente, un tipo con
addosso l’aria della strada e delle passioni improvvise.
Ci sono uomini nei quali i capelli fanno parte integrante del volto.
Zeus che si lima le unghie
L’intenerimento che prende gli scrittori tedeschi più liberi e
spregiudicati quando parlano di Goethe, compreso lo stesso
Benjamin, anche per le sue poesie minori o minime, è così
sorprendente da far pensare a una omosessualità latente riservata
solo al genio. Se Goethe scrive delle cose leziose loro ci trovano
sofisticate finezze, se butta giù di getto un madrigale in un momento
d’ozio per loro è Zeus che si lima le unghie. Questo infantilismo è
simpatico ma fa sorridere chi non è tedesco.
Da quando ho capito che anche gli uomini più geniali o coraggiosi o
forti hanno di continuo infantilismi ridicoli o patetici ho preso a
stimarli di più e a prenderli più sul serio.
Io sono capacissimo di ammirare ma incapacissimo di ammirare un
uomo o una donna in modo assoluto. Penso anzi che la cosa sia
fortemente sospetta e poco lusinghiera per chi ne è l’oggetto.
Persino ciò che chiamiamo Dio, queste tre lettere di marmo, di
avorio, di osso, che dovremo imparare a dimenticare (proprio come
dice Andrea Zanzotto) se vogliamo vivere nel divino, possono
diventare un bluff. Figurati il genio umano. Ma dalla corazza teatrale
dell’uomo d’ingegno, per quanto ciarlatano debba essere, traspira
comunque il genio autentico della natura, che ha baciato in bocca
quell’uomo o quella donna. Se il vero uomo che indossa l’armatura
di scena è così sciolto da abbandonarsi ad essa.
21 aprile
367
In Cristo
Cristo, stanco di un padre che martirizza i poveri e adula i ricchi, che
nega e dà colpi di grazia, e che neanche si diverte, perché si sente
troppo superiore, a veder soffrire gli uomini, tanto più perché
soffrire è l’effetto del loro nullo valore, Cristo, stanco di questo
padre, si ribella e vivendo e morendo, con la sua vita, col suo
esempio, la parola e la morte, a dispetto anche degli uomini servi del
padre, capovolge tutti i valori paterni, squarcia l’immorale grandiosa
bellezza del creato e, contestando l’opera paterna, dice che sono i
poveri che vanno aiutati e i ricchi mortificati, che sono i deboli che
vanno amati e i potenti non odiati ma ammoniti, rimpiccoliti, tenuti
sotto scorta e avviliti.
Così facendo, anche se non ha nessun potere, essendo figlio,
povero, inerme, insegna agli uomini ma nello stesso tempo anche al
padre che è nei cieli ciò che d’ora in poi anche lui dovrà pensare e
quale rapporto più puro dovrà avere con gli uomini. Parla agli
uomini, perché Dio intenda. E Dio è costretto dall’amore del figlio a
intendere, per l’autorità straordinaria di questo piccolo, indifeso
ebreo, un vero artista dell’amore che ha inventato la dolcezza, il
perdono, la severità buona, la forza della debolezza, la bellezza del
dolore sensato, l’audacia del gesto e della replica, col suo genio
rivoluzionario. Ma Cristo è un uomo e Dio è eterno.
Cristo l’educatore di Dio?
E col tempo la sua eternità, la sua totale indifferenza al dolore,
potrebbe avere la meglio. E allora noi uomini dovremo invocarlo,
pregarlo, chiamarlo di continuo perché non si dimentichi di noi,
perché una timida brace resti accesa nel vuoto siderale. Ma con
orgoglio diverso, grazie a Cristo. Un uomo infatti ha inventato
l’amore. E qualunque dio esista nei miliardi di miliardi di miliardi di
galassie e di millenni non potrà mai scoprire niente di meglio. Non
gli resta che far sua l’invenzione, rubare l’amore agli uomini e
restituirlo al suo trono. Quindi davvero Cristo ci ha salvato.
368
22 aprile
Uomo: “Signore, non facciamoci più la guerra. Ognuno per la sua
strada, d’accordo?”
Dio: “Ma se sei tu che mi stai sempre appiccicato!”
Si vive troppo. È impossibile mantenere una coerenza di vita e di
pensiero in così tanto tempo. I veri coerenti hanno vissuto sempre
poco.
23 aprile
Fino a prova contraria
Quando si convive con altre persone o ci si frequenta spesso, ogni
giudizio è sempre espresso fino a prova contraria. E basta che
qualcuno che ci è sempre stato ostile o indifferente manifesti
all’improvviso un segno di benevolenza nei nostri confronti perché
anche noi cambiamo radicalmente atteggiamento verso di lui, e non
solo cambiamo parere su colui che giudicavamo in modo tanto
negativo, ma comunichiamo anche agli altri la nostra nuova
prospettiva come se lo avessimo pensato da sempre.
E così chi cercava di temperare la nostra severità, giustificando e
motivando le azioni di chi era caduto in disgrazia presso di noi, si
troverà a non potergli più neanche trovare quei piccoli difetti, un
tempo da noi ingigantiti, che ora non siamo più disposti non solo a
condannare ma neanche ad ammettere.
24 aprile
Partita di dilettanti
Una compagnia di amici ogni settimana si riunisce per giocare a
pallavolo. Si va dai dilettanti, più o meno goffi, agli ex giocatori
dotati di memoria tecnica, con lo scopo di esercitare il corpo e di
369
divertirsi. L’agonismo è indispensabile per raggiungere i due scopi
ma a condizione di continue smentite, di ironie, risate e scherzi, volti
a ridimensionare l’accanimento, tanto più pressante quanto meno si
sa giocare.
La partita diventa un esercizio di convivenza sociale, nel clima
fluttuante delle pulsioni di vittoria, temperate dal bisogno di non
mortificare nessuno, di permettersi un guizzo di gioco anarchico per
poi concentrarsi a dovere per fare la propria parte nella squadra.
Tutto ciò è per me molto istruttivo, tanto più che non bisogna
dimenticare che di gioco si tratta, e che c’è la volontà salda e
comune di farlo restare tale. Ma il punto è che l’intera società
nazionale è basata sul gioco, e non c’è quindi una differenza reale
con le altre attività. L’intera società potrebbe nutrirsi dello stesso
spirito degli sportivi dilettanti, che danno il meglio con leggerezza e
dedizione. Posto che nessuno oggi, nelle partite globali dell’umanità,
sa giocare.
Ognuno si concentra nella sua orbita d’azione e fa il suo dovere in
ogni caso, vada come vada, pensando di giovare alla squadra più di
quanto la squadra non giovi a me. Ciascuno così pensando, la
squadra gioverà sempre anche a te.
26 aprile
In questo progresso scorsoio
Diffidente verso i libri formati da un’intervista e timoroso del
discorso apocalittico verso cui inclinano i vegliardi gloriosi, ho
aperto con prudenza In questo progresso scorsoio di Andrea Zanzotto.
Invece ho trovato un discorso profondamente chiaro e semplice, la
messa in atto con naturalezza di una conoscenza poetica della realtà,
in modo che sei spinto a ripetere nella mente e a voce sommessa le
sue espressioni, tutte pertinenti e dentro una misura aurea di
giudizio, come fossero versi veridici in prosa. Mentre ragioni su quel
distillato di sapienza sobria che riesce a versarti su ogni tema che
tocca la sua bocca, dalla teologia alla psicoanalisi, dalla poesia alla
370
storia d’Italia, ti senti liberato e sollevato, anche da quell’inquieta
ricerca nel mondo fisico della lingua, quasi un mondo artificiale
germogliante in parallelo alla natura, in cui ti immettono i suoi versi.
28 aprile
Vizi e pregi nativi
Da sempre in Italia si associa una città a un vizio o a una virtù
dominante, fino al pregiudizio più usurato, come quello che vuole i
genovesi avari, i milanesi affaristi, i veneziani gran signori, i
padovani gran dottori, i fiorentini spocchiosi, i napoletani
inaffidabili, i romani di volta in volta bonari, sciatti, fannulloni,
scettici, ironici, i palermitani omertosi, i torinesi cortesi e freddi, i
marchigiani furbi.
C’è un fondamento in queste nomee plurisecolari, che puoi criticare
ma dalle quali non puoi prescindere, perché a ogni giudizio
rinnovato che tenti su questi cittadini ti rinfacciano sempre l’antico
luogo comune, per richiamarti alle tavole dei giudizi perenni.
Quello che mi interessa, vere o non vere che siano, è che quando tu
ti trovi a nascere o a vivere in una di queste regioni e città, erediti il
vizio o la virtù come un peccato originale o un merito innato e,
anche se non fai niente in quello stesso senso, anzi ti muovi nel
contrario per indole e per scelta, ti troverai sempre ad annaspare in
quel vizio o a navigare in quella virtù, diventati non più frutto della
tua responsabilità, ma portato genetico della storia della tua città o
regione.
Vivendo a lungo, o sempre, in un luogo, finirai per riconoscere che
il luogo comune era vero, che non si trattava affatto di un
pregiudizio, e che tu stesso, con gli anni e con l’accettazione della
tua natura, devi riconoscere di avere sempre avuto il vizio, soltanto
che nascosto, e, molto più di rado, la virtù che veniva da sempre
attribuita ai tuoi concittadini.
371
Se resisti invece ad essere diverso con ostinazione, nel bene o nel
male non importa, questo vorrà dire che non sei un vero genovese o
un vero napoletano. E dovrai cavartela da solo. Ma allora chi sei?
Amori incrociati
Un uomo e una donna si amano ma i loro amori incrociati non
riescono a compenetrarsi. Ognuno sogna l’altro, lo idealizza, ne
immagina le giornate, lo fila come un fantasma più reale delle
persone che incontra e con cui lavora. Ciascuno ama l’altro come
feticcio, idolo dell’immaginazione ma in tempi e modi diversi, senza
una musica concorde, e così senza nessun conforto. Amori che non
si amalgamano, oggi diffusi soprattutto tra i giovani, che spesso si
lasciano dopo pochi mesi di matrimonio non perché non si amino a
vicenda, ma perché non hanno mai imparato ad accordare gli
strumenti, a sintonizzare i loro sentimenti almeno quando è il
momento del ritornello e del canto a due voci.
Dipendenza nel bene
Chi viene lungamente ignorato e ferito con l’indifferenza quando
soffre, appena sta bene assapora la sua indipendenza e gode il
semplice non aver bisogno di nessuno come un piacere
supplementare della sua guarigione.
Se invece è stato assistito e aiutato godrà meno della guarigione,
perché non è più merito solo suo, ma serberà il desiderio di rendersi
utile o di giovare a chi lo ha sostenuto. Così, stando male, è meglio
vincere l’orgoglio e affidarsi agli altri, perché ciò svilupperà la
dipendenza reciproca nel bene.
La stiva
Per l’uomo in pensione il mondo diventa tutto contemporaneo e un
evento accaduto decenni prima viene rianimato come successo il
giorno prima.
372
L’ho sperimentato quando mi è arrivata la lettera di un amico, che
mi spiega dopo venticinque anni perché una recensione che avevo
fatto a un suo libro gli era piaciuta.
Prima non aveva mai sentito l’esigenza di dirmelo, sentendosi in
posizione di maggiore potere e, ora che la pensione l’ha fatto
scendere nella stiva, vorrebbe riannodare i legami che aveva
ignorato. Ma soprattutto la ragione è che egli, tornato un essere
naturale, con la sincerità morale propria di chi non ha una trama da
tessere, tutto gli torna contemporaneo, nel bilancio del giusto e
dell’ingiusto.
Questa è la conferma che viviamo sempre in realtà nella stiva, che ci
sembra molto più reale e nostra dei piani alti del transatlantico o, in
questo caso, di una semplice cuccetta accademica, anche se
aboliamo la realtà più profonda per tutto il tempo che possiamo.
1 maggio
Mia natura comune
Sperimento nella mia natura un’oscillazione tra la ragione più lucida
e indifferente a me stesso e la più sfrenata sentimentosità (non
sentimentalità), la più scaramantica e indisciplinata emotività, tanto
che più volte mi è occorso di perdere la testa e assistere al mio
sconvolgimento realissimo con un freddo spirito da disincantato
reporter. Come anche di sviluppare una ricerca concettuale,
soprattutto di carattere filosofico, serrata e imparziale, tra il continuo
vocio delle mie sensazioni che nei momenti critici finivano per
rendere impossibile la continuazione del lavoro.
Dico questo non solo senza nessun compiacimento, perché alla fine
ciò mi rende sacrificato quando penso e indifeso quando sento, con
la sola superficiale soddisfazione di avere una personalità non
banale, ma nemmeno con una intenzione autobiografica, perché
invece penso che siamo tutti così, soltanto che alcuni sono
esageratamente sviluppati nell’uno e nell’altro campo, cosicché non
c’è mai un ragionamento che li possa appagare e una qualunque
teoria in storia dell’arte o in poetica o in biologia o in qualunque
373
campo che plachi per sempre, almeno in una piccola porzione, il
loro intelletto.
E non c’è nessun sentimento che li possa soddisfare, sempre
aspirando, non appena lasciano briglia sciolta al flusso emotivo, a
qualcosa di irraggiungibile e impossibile, non per vocazione al
martirio dei desideri, ma perché la scarica investita è troppo cieca,
pretenziosa e irragionata, e quasi si merita il suo insuccesso.
Neanche è detto che chi vive questo doppio eccesso sia superiore
agli altri, insinuando chissà quale genialità sotto il mantello del
penitente, perché persone siffatte sono invece palesemente “di razza
inferiore”, come dice persino Rimbaud, e in qualche modo segnati
alla nascita, al punto che l’unico conforto e rimedio consiste nel
dedicarsi al bene di qualche altro. E l’inferno della vita degli uomini
cosiffatti sono appunto i periodi nei quali non si ama.
Credevo di averlo già capito e invece devo ricapirlo ogni volta: o
segui Cristo o segui il suo nemico. Che non ci sono vie di mezzo ti è
confermato mille volte dall’esperienza, eppure non faccio che
cercare la terza via, nonostante le infinite e cocenti delusioni, la via
dell’io, la mia via. Pur sapendo che è questo il modo migliore per
non trovarla.
Ritorno alla natura
(Piero di Cosimo)
Da tantissimi segni, sebbene non tutti confortanti e molti
contrastanti, mi accorgo che si sta avviando anche tra le persone
colte un ritorno alla natura. Non è vero che tutto è interpretazione,
che tutto è storico e culturale. Non è vero che tutto è ideologico e
relativo. Del resto gli artisti più vibranti e profetanti lo sanno da
sempre. Basti pensare a Piero di Cosimo, come ci viene presentato
da Panofsky, nei suoi Studi di iconologia:
“Per lui la civiltà significava un regno di bellezza e di felicità, finché
l’uomo restasse in stretto contatto con la natura; ma un incubo di
oppressione, bruttezza e miseria non appena l’uomo se ne fosse
estraniato.”
374
Lasciamo stare le invenzioni pittoresche di Vasari, che raccontava
che Piero non si facesse ripulire la bottega né potare gli alberi in
giardino né cogliere i frutti, perché detestava interferire con la
natura, in una vita “da uomo piuttosto bestiale che umano”. Il suo
sentimento della natura non è da uomo selvatico ma da filosofo
poetico, combinando un “atavismo emotivo” col “più alto grado di
raffinatezza estetica ed intellettuale” (Panofsky).
Mi è venuto in mente questo esempio perché in Piero di Cosimo i
due estremi, di una lucidità estrema del progetto pittorico e di una
emotività scomposta e riottosa, ha generato opere così originali e
intense che ancora oggi non si lasciano placare in un’analisi o
comprendere da un intelletto paterno.
Che tutto sia storico è un’affermazione politica che è stata
indispensabile quando i potenti volevano paralizzare la società e
congelare i ceti e le classi, facendo un uso sporco e interessato della
natura universale. Karl Marx è stato colui che più potentemente ha
denunciato quel processo secondo il quale si attribuisce a una
natura universale ciò che invece dipende dagli interessi della classe
dominante.
Ma questo essendo stato acclarato, benché in nessun modo
intaccato, resta da dire che una natura c’è, a ciascuno di noi propria,
e che le società si organizzano in base a caratteri naturali almeno
quanto in base a leggi, a esclusioni e a privilegi, politici ed
economici.
E tuttavia Marx stesso parla del lavoro come di una condizione
naturale eterna, di una necessità propria di ogni forma sociale (Il
Capitale, I, 1), e il suo concetto di alienazione dell’operaio in fabbrica
sarebbe incomprensibile se una natura non esistesse. E non si tratta
di una natura animale, che l’operaio soddisfa, quando e come può,
nel poco tempo libero, ma di una natura umana specifica, che
appunto dovrebbe realizzarsi nelle ore di lavoro, in modo conforme
al nostro carattere progettuale e inventivo, che ci distingue dalle api,
che producono i loro alveari meravigliosamente per un’intelligenza
collettiva e predisposta al di là della loro iniziativa individuale,
almeno per quanto ne sappiamo finora.
375
Qualcuno ha detto che Marx sarebbe stato un grande romanziere,
caratteristica del quale è però quella di riuscire a combinare
l’individuale, il capriccioso, l’irregolare, il bizzarro con il tipico, il
generale, l’universale, come in Balzac, proprio come fa la natura, che
ti fa vedere tutti diversi, pur essendo noi tutti uguali. Mentre Marx
era fortemente portato a pensare che tutti gli uomini e le donne
fossero sostanzialmente e anche individualmente uguali, al punto di
immaginare una società che andasse bene per tutti.
Il bisogno religioso per lui sarebbe scomparso ma dal suo amato
Balzac non ha voluto accettare che mai e poi mai sarebbero
scomparse le ostinate bizzarrie, incoerenze, contraddizioni,
superstizioni, credulonerie, ostinazioni folli di ciascuno di noi, e in
qualunque società.
Gombrich e Panofsky
Nella prospettiva lineare fiorentina, o “artificiale”, come la chiama
Panofsky, soltanto la distanza dall’osservatore e non l’angolo visivo
determina la sagoma dell’oggetto rappresentato. L’arte inventa la
realtà più verosimile con una magia ottica alla quale non si pensa
mai. Le magie efficaci sono quelle impercettibili.
Gombrich dice in un’intervista che non ha mai condiviso la
tendenza di Panofsky a interpretare le opere secondo un modello
filosofico unitario o in base a un contesto culturale e storico stretto.
Michelangelo ad esempio sarebbe stato un neoplatonico esemplare,
che nei suoi Prigioni ha espresso il carcere del corpo dal quale
l’anima, come nel Fedone o nelle Enneadi, aspira a liberarsi. Una full
immersion di Buonarroti nel neoplatonismo sembra molto
improbabile allo studioso viennese, che resta convinto che gli artisti
si formino soprattutto sulle spalle di altri artisti.
Il suo contro esempio è disarmante e getta acqua sulle fiamme
dell’iconologia: Leonardo ha dipinto Sant’Anna perché gli era stata
commissionata, dopo il ritiro di Filippino Lippi, punto e basta. Tutto
il discorso di Freud sulla doppia madre ne risulta sgonfiato fino a
376
sfiorare placidamente il ridicolo. E tuttavia, accettata la
commissione, in Leonardo non può che essere scattato il suo modo
di vedere la doppia maternità. Oppure anche si può dire che l’abbia
accettata perché lo sollecitava inconsciamente il tema. I fatti sono
determinanti ma soltanto di altri fatti.
L’interpretazione freudiana delle opere di Michelangelo in realtà è la
traduzione libera in un’altra lingua inventata da Freud, come un
esperanto.
Sono due metodi opposti, quello di Panofsky, carico dell’energia
dello spirito del tempo, quello di Gombrich, ispirato al metodo per
conoscenza ed errore, che punta a falsificare e mai a dimostrare,
mediato dal suo amico Karl Popper. Anzi Gombrich afferma di
avere per metodo quello di non averlo, valutando caso per caso e
affondando il naso negli archivi col semplice buon senso.
Si tratta di due modelli anche politici, il primo aristocratico,
fiammeggiante e proprio di una società chiusa. Il secondo liberale
(se anche non meno aristocratico), raffreddante, e proprio di una
società aperta. Il primo aspira a trasformare la critica stessa in opera
letteraria, dove la ricchezza dei documenti concorre come materia
grezza alla fiammata dell’intuizione, il secondo spezzetta di continuo
ogni sistema e modello, cammina a piedi sbriciolando ogni visione
panoramica, con una curiosità becchettante e spigliata, indifferente a
lasciare il segno in modo evidente e memorabile.
Mi domando se il modo di procedere scientifico, nell’un caso come
nell’altro, c’entri veramente qualcosa. Noi non sapremo mai infatti
perché Botticelli ha dipinto La Primavera con quella disposizione di
personaggi o chi Piero della Francesca abbia rappresentato nella
Flagellazione. Ma se potessimo intervistarli il problema sarebbe
risolto. In altre parole ci troviamo di fronte a una detection puramente
congetturale, che al massimo definisce una soglia di probabilità e che
alla fine, lungi dal poter diventare scientifica, si risolve in un
esercizio di intelligenza e di erudizione.
Questa messa in moto di informazioni, cognizioni, legami tra le
discipline, sottolineatura di dettagli, intreccio di riflessioni filosofiche
377
e caccia di fonti letterarie è ciò che chiamiamo oggi cultura
umanistica, che finisce per aver un valore in sé, per generare il
modello di vita, in questo caso, dello storico dell’arte, che diventa
ammirevole e confortante per molti di noi che annaspiamo
sfuggendo a una sagomatura disciplinare precisa. Oltre a farci
guardare il quadro con una vista seconda, che non si compenetra
mai con la prima, infatti lo godiamo come se non ne sapessimo
nulla, anche dopo la lettura di ponderosi volumi, quali quelli scritti
sulla Flagellazione, ma ne alterniamo la pura visione, che resta vergine,
con una lettura dotta che ci permette di parlarne con altri, mentre la
prima visione è solitaria, ineffabile e incomunicabile.
Lo scopo dello storico dell’arte è perciò soprattutto sociale e
comunicativo.
La differenza sta allora tra lo storico didattico e divulgativo, fino al
livello alto di Gombrich, che potrebbe anche sparire dietro le
cognizioni da lui conquistate, da condividere o respingere, e lo
storico scrittore, come Roberto Longhi, il quale pure ci insegna
moltissimo, ma ogni suo giudizio reca il suo marchio ed è
inscindibile da lui, sicché anche le sue tesi meno accreditate (non
parlo di expertise, ma di giudizi sintetici e folgoranti) restano pregne
di valore e significano comunque qualcosa. Mentre Gombrich scarta
gli errori, altrui e propri, senza rimpianti e per sempre. Giudica tanti
libri, perfino suoi, superati senza versare una lacrima.
Mao-tze-tung
Ieri incontro Alexander Makhov con una delegazione culturale
russa, ma privata, di poeti e musicisti, e mi racconta la seguente
storia da lui vissuta. Al Kremlino c’è una riunione dei partiti
comunisti di tutto il mondo e lui fa da traduttore per i comunisti
italiani. C’è un tavolo lunghissimo intorno al quale vengono disposti,
dopo studi infiniti, i vari capi dei partiti, badando per esempio a
tenere lontani israeliani e libanesi.
Quando arriva Mao-tze-tung (allora si traslitterava così) tutti gli
fanno strada, pieni di paura e di soggezione. È alto più di due metri,
massiccio, e incede come un dio in terra. Si siede di fianco a
378
Krusciov, fumando la sigaretta con un bocchino d’avorio, mentre i
valletti, senza che faccia un gesto, gli tolgono la cicca per mettergli in
bocca una nuova sigaretta. I traduttori cinesi, col cuore che batte per
la paura di sbagliare, ne traducono in russo le parole tra le volute di
fumo:
“Compagno Krusciov, di cosa ci preoccupiamo? Noi abbiamo la
bomba atomica.”
“Ma avrebbe conseguenze terribili per tutti,” rispose Krusciov.
“Sì, i due terzi morirebbero. Ma resterebbe un terzo. E saremmo
noi.”
Alexander, che allora aveva un bambino piccolo, tradusse
impressionato il dialogo ai compagni italiani, che non fecero motto.
Lapsus
Il lapsus per eccellenza: dimenticare il nome di Freud (per inciso:
avevo scritto palpus).
Pensiero e poesia
Alcuni pensieri li hai scritti in poesia. Cosa accade in questi casi?
L’intuizione è velocissima e subito dopo puoi scegliere, se articolarla
in modo sensato e riportando tutti i passaggi o lasciarla ruscellare in
una sequenza di versi a te stesso semichiari, che scrivi in dieci minuti
e forse meno. Ma è solo questione di una diversa velocità? No,
perché, quando scrivi versi, tu ascolti una voce che ti guida senza
sapere cosa verrà fuori, cavalchi un cavallo che non sai dove ti
porterà, anche se devi stare bene attento a non farti disarcionare,
invece quando scrivi in forma di prosa non hai sotto le reni un
animale ma guidi un’automobile o pedali o pattini, comunque con
un mezzo artificiale, delle capacità del quale devi tener conto, ma sei
tu che lo piloti.
Questa è la differenza. Ma in che modo e in che senso quello che
scrivi è sostanzialmente lo stesso? Se confronti le frasi con i versi
non c’è quasi nessuna somiglianza se non in qualche espressione
379
spia, eppure hai la certezza che si tratti esattamente della stessa cosa.
Vediamo un esempio dal vivo?
La presente luce
Sole tinto dei nostri balconi,
delle case chiuse della civiltà, delle tende
femminee gocciolanti lo sperma degli avi
dei pini rassegnati a una fruibile gioia,
luce storica della lussuria democratica
quando la torta degli affetti cuoce
nel forno popolare dei paesaggi
Nell’oro evirato e canoro
le piume dei vecchi fibrillano,
mareggia la ragazza incinta
e tu ci gonfi di seme spirituale
luce bianca dell’astro
che testimoniò il grido neonato
all’ospedale di Pesaro, ardendo
il matrimonio benedetto
e la mia doppia maternità
Sole scottato dai tanti corpi nudi
quando uscimmo scappando dalla peste
a bagnarci nella marina fidanzata
come bambini che lavò la madre
nel confessionale della vasca
e qualcosa non ci basta
chiamando la presente luce
“Sole tinto dei nostri balconi”... Il sole non è esso a tingere ma è
tinto dalla nostra civiltà. La qualità della sua luce infatti è storica e
dipinta dagli interni, perché la civiltà è fatta di case chiuse, di forme
geometriche inclusive ed esclusive, dentro cui si snodano le
generazioni, serbando memoria dello sperma, e cioè dei caratteri,
degli avi. Anche la natura è rassegnata a godere con noi di una gioia
convenzionale, “fruibile”, data dalle condizioni ferree
380
dell’architettura urbana che ingloba le piante. Anche la natura, parca
e severa, è ingoiata dalla nostra “lussuria democratica”, al punto che
i nostri affetti diventano qualcosa da gustare, dopo averli infornati
nel paesaggio, popolare perché alla portata di tutti.
“Nell’oro evirato e canoro…” L’oro del sole viene così evirato dalla
civiltà umana e il suo canto diventa musica adatta alle nostre
orecchie, scandisce liturgicamente la vecchiaia e il concepimento e
illumina il parto della donna che parla, ricordando la benedizione del
sole alla nascita dei suoi due figli.
“Sole scottato dai tanti corpi nudi…” Ancora una volta non è il sole
che scotta ma è esso a essere scottato, dai bagnanti nudi che lo
usano come un prodotto della civiltà dell’ozio e dello svago, ma
anche come uno scampo dalla peste del dolore e dell’ingiustizia, che
ci fa rintanare nelle case chiuse, ritrovando un sentimento della
natura, non più basato sull’uso e sul consumo, bensì
sull’innamoramento (“a bagnarci nella marina fidanzata”) e sulla
memoria di un’educazione spirituale, simboleggiata dalla vasca in cui
la madre lavava la bambina, per un auspicio di pulizia dell’anima,
come in un confessionale domestico.
“e qualcosa non ci basta / chiamando la presente luce”. E anche
ritrovando il sole come potenza spirituale, che ha vegliato
paternamente sul parto, sull’infanzia e continua a farlo, benché
incompreso e addomesticato, pure sulla civiltà, anche chiamandolo e
riconoscendo, qualcosa non ci basta. Perché? Questo sta a ognuno
accettarlo, se non vuol tentare di rispondere.
In questi due brani, il primo cavalcando senza sella, in forma di
poesia, dico lo stesso che nella prosa seguente, ma con quale
differenza? Il ritmo, il tempo, il tono, la melodia sono diversi, va da
sé, ma soprattutto nel primo caso, nei versi, io faccio intendere
subito al lettore che non ho intenzione di spiegare niente, che tutto
deve spiegarsi da sé, che è chiamato a condividerne l’evidenza che è
così, anche se non sappiamo nessuno dei due come e perché. Egli
potrà entrerà con me in una corsa, lenta nel ritmo, ma velocissima
nel significato. Mentre nel secondo caso, cavalcando con la sella
dietro di lui e tenendo le briglie del mio cavallo, gli dico subito che si
381
può mettere calmo, perché motiverò ogni passo senza correre. E
indagando i significati, il cammino gli sembrerà di certo molto più
lungo.
Inoltre in versi dirò solo gli effetti, in prosa dirò le cause, almeno
dando un contesto descrittivo, indicando la pista dentro cui si
svolgerà il piccolo trotto della prosa. Il lettore avrà tutto il tempo di
verificare se è d’accordo o no con me, e di scendere in qualunque
momento. In poesia, il lettore non vorrà scendere di cavallo fino alla
fine, pur senza sapere dove si andrà, preso dalla curiosità e
dall’eccitazione della corsa, che al momento varrà più della meta,
riservandosi il giudizio a quando scenderà di sella.
La prosa permette una concentrazione continua su di sé e sul
paesaggio, attraverso una cavalcatura affidabile, mentre la poesia una
cavalcata emozionante, anche perché rischiosa. Ma se la poesia ti
darà anche una vista inedita su di te e sul paesaggio sarà meglio,
anche se non te ne accorgerai subito.
7 maggio
La donna nell’arte
(Federico Zeri)
Federico Zeri, nel suo saggio La percezione visiva dell’Italia e degli
italiani, osserva come Leonardo da Vinci abbia finalmente ritratto la
donna liberandola dai suoi connotati tradizionali, opposti e
complementari, di sex object e di dolente imitatrice della Madonna,
dolce, malinconica e gravata di spaventose responsabilità materne.
Nella Belle Ferronière del Louvre o nella Dama dell’Ermellino di
Cracovia sono lampanti i segni di una condizione femminile aperta,
“di una fioritura senza vincoli” che splende nei due dipinti come mai
è stato prima e mai sarà dopo. Non importa che fossero le amanti di
Ludovico il Moro, non importa che fossero espressione di una élite
ristretta. Finalmente vediamo due donne stupende, ma né erotiche
né materne.
Due donne che fioriscono nella loro personalità, al di là del ceto
sociale, del legame amoroso, del richiamo sessuale, delle virtù
382
religiose, del significato allegorico. Fioriscono non come agavi
femminili e magnolie umane ma come persone, così pure da non
simboleggiare altro che il loro vertiginoso e fermo essere al mondo.
Caricandosi di quel sentimento transessuale (come si dice
transoceanico) della vita che era proprio di Leonardo.
Questo equilibrio si perde, spiega Federico Zeri, con la intellettuale
cinquecentesca, “la superciliosa, sensitiva Laura Battiferri, moglie
dello scultore Bartolomeo Ammannati, ‘tutta dentro di ferro fuori di
ghiaccio’, come la cantava il Bronzino, che l’ha fissata in atto di
ostentare, tra le mani eburnee, il Canzoniere di Petrarca, nume tutelare
dell’alienazione italiana.”
E arriviamo così al terzo tipo di donna italica: l’insegnante, la
direttrice delle poste, la capoufficio, la preside, la diligente, virginea,
rigorosa, morale, cadenzata, regolata, illuminata od oscurata, la
parrocchiana, la madre matrona, che differisce il piacere all’infinito e
lo spia sospettosa negli altri, disprezzandolo, che tiene in ordine la
casa della vita e sferza la propria mente, la disseccatrice di verghe
maschili, la moglie dell’uomo potente, nella perenne Controriforma
italiana.
La matrice di ogni controriforma sta nel Concilio di Trento, che si
basava sulla severità e sul rigore verso gli altri, e non verso se stessi.
Il vero inquisitore inquisisce se stesso, il vero censore censura se
stesso, il vero fustigatore dei costumi, fustiga se stesso.
Invece papi, cardinali, vescovi esercitavano una severità letale contro
gli altri, impedivano altri di leggere quei libri che tutti assaporavano
di nascosto, frustavano sempre gli altri e mai se stessi.
Per questo è da temere ogni orgasmo di severità, ogni eccesso di
rigore punitivo nei singoli e nelle collettività, perché esso verrà
esercitato sempre e infallibilmente contro gli altri, tanto più che non
sentiamo il dolore se non nel nostro corpo e l’umiliazione se non nel
nostro animo. E così pensiamo che sia salutare ed energetico
infliggerli ad altri corpi e ad altri animi.
Talento e genio delle donne
383
Oggi alle donne è richiesto non più talento, che hanno sempre
avuto, ma genio. Devono essere dolcissime come ballerine egiziane
ed efficienti come manager londinesi, eleganti come attrici parigine e
oneste come maestre abruzzesi. Devono cambiare continuamente
stile con figli, figlie, mariti, padri, madri, colleghi, colleghe, passando
dallo scherzo più pazzerello alla drammatica mansione di
responsabile della famiglia. Devono insomma alternare di continuo
la razionalità indispensabile per governare tutti coloro che a una
donna sono sempre e comunque affidati e l’irrazionalità necessaria
per essere seducenti, folli e libertarie.
Non c’è da stupirsi che in molte cedano le armi e finiscano per
rinunciare agli istinti più consolidati, reggano i ruoli delle commedie
e dei drammi che devono recitare ogni giorno, mischiandoli di
continuo insieme, e in realtà non desiderino altro che star da sole e
fare qualcosa di stupido in santa pace.
Se tanti ragazzi e ragazze non si sposano e cercano di protrarre fino
al limite massimo qualunque responsabilità matrimoniale e
autonomia, dipende sì dalle difficoltà economiche, che più o meno
ci sono sempre state, almeno da quando l’Italia è diventata una
repubblica, tanto che fatico a ricordare un periodo che non sia stato
detto di crisi, ma soprattutto consegue allo spettacolo che offrono i
loro genitori, ai quali in nessun modo vogliono assomigliare, senza
saper trovare una qualunque alternativa verosimile. Il fatto è che
sono esattamente come i loro genitori e non hanno voglia di ripetere
la loro stessa vita ma per la prima volta sanno che non ne esiste
un’altra.
L’etica del giusto mezzo
Aristotele definisce l’etica come arte del giusto mezzo, della mesotes,
che non va confusa con la mediocrità, trattandosi invece di mirare il
bersaglio nel suo centro perfetto. E per giunta di corsa, nel continuo
cambiare delle situazioni. La mesotes è in realtà un’eccellenza, un
esercizio acrobatico che richiede straordinaria prontezza ed agilità.
384
Ma per quanto uno possa perseguirla e trovarvi una relativa
gratificazione, sempre intorno a lui gli altri contesteranno che abbia
fatto centro, e quando lui si sentirà coraggioso, lo troveranno
spericolato oppure pauroso, se visto da un altro punto di vista.
Quando gli sembrerà di essere generoso lo troveranno uno
sprecone, quando crederà di dare il giusto peso ai soldi e al successo
lo troveranno avido, vanitoso ed egocentrico.
Impossibile è misurare la quantità di virtù o di vizio, di eccesso o di
difetto. E giacché soltanto l’intuizione potrà soccorrerci al momento
di mirare il bersaglio, troverai sempre un altro che avrà avuto
un’intuizione diversa dalla tua, o che non ne avrà avuta nessuna, e
quindi troverà comodo spregiare la tua.
Un’etica come quella di Aristotele ha bisogno di una società giovane,
non solo in cui pochissimi erano i vecchi, e quindi avevano molta
più autorità, ma in cui l’epoca stessa era giovane, all’aurora della
filosofia, della letteratura, della musica, dell’arte, della politica. E
soprattutto dell’etica.
Ora noi siamo giunti da più di un decennio in una fase di giovinezza
artefatta del mondo, tra legioni di anziani, in cui palesemente la
storia della civiltà è ormai troppo lunga per poter più sperare di
governarla in qualsiasi campo.
Ci sono decine di morali, di religioni, centinaia di forme artistiche e
musicali, migliaia di filoni letterari e poetici, milioni di film, miliardi
di visioni della vita.
La maionese è impazzita in tutti i campi, perché troppi ingredienti
vengono messi dentro il pastone mondiale, che deve contenere tutto
per tutti.
Per questo nei giornali non c’è opinione che non trovi il suo
contraddittore, in economia non c’è modello che non conviva col
suo opposto, spesso nello stesso cervello, in letteratura non c’è
dilettante che non venga stimato e recensito da altri dilettanti, in arte
non c’è capriccio o scherzo della fantasia che non goda di rispetto
incondizionato da parte di altri capricciosi.
385
Il crepuscolo che stiamo vivendo è all’insegna del troppo pieno in
tutti i campi ed è un miracolo che in qualche modo il mondo tenga,
e forse perché in realtà, sotto la crosta vociferante, sotto i fiumi di
bava e il torrente psichedelico di immagini, resiste una natura che
non riusciamo ad intaccare, che ignora tutta la carnevalata, che non
si fa tingere dai mille coloranti tossici e riporta ciascuno al suo vero
incolore sé.
Cambiamento e movimento
Si dice che gli uomini cambino continuamente e su questo dogma si
basano tutti i settimanali in cui vengono registrati i vertiginosi
mutamenti di mentalità che intervengono ogni mese e quasi ogni
settimana. La nascita di nuove categorie di lavoratori, di nuove
abitudini sessuali, alimentari, di modi inediti di divertirsi e passare la
notte, di nuovi rapporti con i figli, di nuovi modi di innamorarsi, di
nuovi modi di trattare i genitori, di nuove abitudini religiose, di
nuove fogge di abbigliamento, di nuovi mezzi di trasporto, di nuovi
gusti televisivi, di nuovi modi di andare in vacanza, di nuovi modi di
fare sport e ginnastica, di nuovi, nuovissimi modi di raccontare le
favole agli ingenui.
In realtà non bisogna confondere il cambiamento con il movimento.
È vero verissimo che gli uomini si spostano di continuo, nella stessa
casa, nella stessa città, nella stessa nazione e nello stesso mondo ma
è altrettanto vero che la gran parte di questi movimenti sono
circolari. Uno per esempio non mangia più carne per rispetto verso
gli animali e dopo un mese mangia solo carne perché si sente fiacco.
Veste solo in jeans perché vuole la semplicità e poi veste solo
firmato perché si deve consolare e poi veste di nuovo solo jeans
quando ha un’altra storia che fila bene. Uno va in vacanza solo per
una settimana e l’anno dopo per un mese e poi di nuovo per una
settimana.
Il carattere ciclico della moda poi è evidente, tant’è che conservando
i vestiti dei decenni passati tu troverai che saranno di nuovo di gran
moda ogni qualche stagione.
386
Il continuo affannarsi è sempre più avvitato su se stesso, mentre i
cambiamenti sono del tutto superficiali. Se tu ti innamori, cosa
importa mai che conosci la tua donna in Internet o in un bar, che le
mandi sms o lettere scritte con la penna d’oca, se ci fai l’amore dopo
il matrimonio o prima? La sostanza sta nell’amore, che è sempre
quello, un genio transtemporale.
Se tu vivi in un paese sperduto e passi le giornate a lavorare in un
ospedale, dedito alla cura dei tuoi pazienti e invece vivi a Tokio con
attrezzature sofisticate, che orami si trovano del resto quasi
ovunque, e la tua giornata ha il suo cuore nel tuo appassionato
lavoro, cosa importa se poi ti fai due ore di metro o una passeggiata
fino a casa?
Le tue condizioni sono diversissime ma la sostanza della tua vita
non cambierà di un millimetro, perché, messo al sicuro ciò che
veramente conta, troverai facilmente il modo di adattarti alle
circostanze, trovandovi qualcosa di buono relativamente a te, a
Tokio come a Monte Ciccardo.
Ecco che però molti, non avendo capito questo, non sono più in
grado di innamorarsi, di fare bene il loro lavoro, di seguire una rotta
morale, di coltivare un’amicizia sincera. La differenza tra le
condizioni esteriori della vita li fa impazzire e distrugge la calma che
presiede a tutto ciò che conta profondamente nella vita.
15 maggio
Dante
(Canto XXX del Paradiso)
Lasciata la bicicletta dal bagnino Leonardo, ho preso a camminare
lungo il mare con la Divina Commedia nella tasca del giubbotto. È una
copia che posseggo da quindici anni, pagata mille lire, di cento
pagine fittissime e che porta i segni di tutte le camminate e le soste
in cui ho letto, mormorando o mandando a memoria, i versi di
Dante. Macchie di terra, tinture di petali, chiazze di tabacco, persino
387
i segni del copertone di un’auto che ci è passata sopra quando mi è
caduta in un sottopasso.
Sperimento ogni volta la tolleranza dei camminatori come me, chi
ascolta musica con l’iPod, chi mi sorpassa chiacchierando, chi corre,
chi marcia con disciplina per dimagrire e rassodare. Nessuno che si
stupisca se mi vede leggere.
Leggo un canto ogni volta e me lo rigiro in bocca verso per verso e
ogni volta ritrovo quel pensiero vergognoso e realissimo, secondo
cui Dante non è un essere umano come noi, pur essendo un essere
umano più di tutti noi. Morto a cinquantasei anni, come ha potuto
nello stesso tempo progredire così pazzescamente nella lingua, che
ha lui stesso reinventato e arricchito di centinaia di vocaboli, oppure
usando nomi, veri e aggettivi in modo traslato o slittato o
trasmodato? Come ha potuto caricare ogni verso di un’idea poetica
o filosofica o tattile, ottica, gustativa? Percorrere tutto l’arco del più
raffinato artificio poetico e linguistico per chiuderlo nella
naturalezza del dire più sensato e, non dico già immediato, ma
universalmente riconoscibile e godibile.
In tal modo che, pur essendovi moltissimo di strapensato, di
lambiccato, di allegorizzato, di artato, di sofisticato, tutto ricada
come una musica di neve, di sangue e di luce, riconoscibile e
familiare quanto il verso della marina o lo stormire del vento o il
suono di una scossa di terra. Ruvida e spedita come la natura, lenta e
austera, come la natura. Guizzante e geniale come la natura. Come
se la voce umana e poetica sua si fosse nutrita di tutti i suoni e
rumori della natura.
Di continuo è necessario un commento per la sua comprensione
eppure, tradotti e spiegati i passaggi pregni di erudizione o di
dimenticati fatti storici o di perduti sensi lessicali, tutto ritorna
cerchiato, chiaro e completo, come eravamo certi che fosse
all’origine, non cogliendolo noi solo per nostro difetto.
Penso ai primi quindici versi del canto XXX del Paradiso, nei quali,
tra le tante trovate eccitanti, come quella di definire l’orizzonte, il
“letto piano” e la corona degli angeli “ il trïunfo che lude”, perché è
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un’esplosione di gioia vittoriosa che gioca nel piacere disinteressato
e privo di violenza, c’è la visione geniale di Dio, il “punto che mi
vinse” che pare “inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude”, come il sole, che
abbraccia tutto nella sua luce, ci appare come un punto abbracciato
dal mondo.
La verità, straordinariamente concentrata, diventa puntiforme, tanto
che Dio lo nominiamo e pensiamo come un ente tra gli infiniti enti
del mondo, e invece tutto è soltanto dentro la sua luce
onniabbracciante.
Il che mette in moto pensieri a non finire e, tra tutti, quello che
riguarda proprio il modo generale del pensiero stesso, che non può
fissare qualcosa se non riducendolo a suo oggetto puntiforme,
mentre invece deve riconoscere che è esso un punto tra i miliardi
che quella luce illumina e rende vivo.
La bellezza di Beatrice “si trasmoda / non pur di là da noi, ma certo
io credo / che solo il suo fattor tutta la goda” (XXX, 19- 21).
Beatrice è così bella che non solo nessuna voce terrena saprebbe
lodarla ma neanche gli angeli e gli arcangeli. Soltanto Dio potrà
goderla tutta.
Questa è la vera innocenza perduta da noi occidentali troppo
invecchiati. Dante non si vergogna verso il culmine della visione
beatifica di esaltarsi per la bellezza della sua donna, che non vede
per niente come peccaminosa, benché sappia benissimo che ogni
contemplazione della bellezza è sempre erotica, in tutte le sue
trasmodazioni.
Ma è la sua coscienza purificata dalla gioia, così forte, del bene, che
lo autorizza, con una fiducia sovrumana nella sintesi di giustizia e
felicità nell’amore, che lo porta addirittura a dipingerci un Dio
innamorato di Beatrice. Idea per noi, sfortunati contemporanei,
sospetta e spavaldamente maliziosa, e per Dante stupendamente
ingenua, vera e potente, perché egli era giovane, e la purezza tiene
sempre della gioventù di spirito, del forte godere il quale, in virtù
della sua forza, sempre purifica. Mentre il debole godere, l’eccitabile
e fiacco godere contemporaneo, ricade nel pensiero morboso e
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sospettoso, nel ridicolo, nel timoroso. La malizia infatti è sempre
segno di debolezza e di fiacco sentire, se si ferma a metà. Ma se è
così vigorosa ridà in innocenza.
Dante può dire “vinto mi concedo” (v. 22) perché vittoria e
sconfitta nell’amore si identificano, e perdere la sfida con Beatrice,
rinunciare a resistere al suo fulgore, è andare al di là della vittoria. E
perdere la sfida con Dio è godere tutta la luce possibile a un umano.
Dante, notiamo bene, perde, sì, la vista ma non chiude per questo gli
occhi, anzi li tiene bene aperti, bene abbagliati davanti “al ciel ch’è
pura luce”:
Luce intellettüal, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogni dolzore.
La “luce viva” di Dio non è piena d’amore perché intellettuale, come
potrebbe parere in un’ottica filosofica greca, ma è in tutt’uno e
dall’inizio amore e conoscenza, giacché l’amore non consegue né
segue, bensì crea, inaugura, genera, tutto con la stessa conoscenza.
Così come la letizia, la beatitudine creativa, non vince il dolzore
dopo lunga lotta ma lo trascende, lo precede da sempre, non
essendo mai stata minacciata da esso. Come mai si è visto un “sùbito
lampo” minacciato dall’ombra.
Prima luce puntiforme nello spazio, ora Dio è luce puntiforme nel
tempo, lampo, ma lampo che abbraccia tutto il tempo.
Grazie a questa apertura tenace dello sguardo, Dante si riaccende “di
novella vista”, e ora non c’è luce che non possa più sopportare: si
spande la fiumana di luce dalla quale angeli, come api e farfalle,
escono e nella quale si risprofondano.
Che in questa apoteosi di luce Beatrice continui a parlare è un’altra
prova, ce ne fosse bisogno, della sorgente potentissima dell’amore di
Dante, e di come tale potenza abbia purificato e reso innocente
l’inserzione di una dea pagana, perché tale è in realtà Beatrice, molto
più simile alla Venere-natura di Lucrezio che non a un’ancella della
Madonna, nell’Empireo. Perché anzi Beatrice è la natura stessa, e
390
non ci vuole un freudiano, anzi in questo caso sarebbe puro
masochismo invitarlo, per leggere nel giusto senso le parole
dell’amata:
L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
d’aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge;
Lasciando stare l’infernale gaffe di quel punto e virgola dopo turge,
che non so quando e da chi sia stato aggiunto, è deliziosa la sincerità
di Beatrice che gode di vedere inturgidirsi il desiderio di Dante e che
tarda a soddisfarlo perché è troppo bello vederlo crescere. Turgida è
infatti la verga, come non può non venire in mente a noi maliziosi,
nello sprofondo dell’amore incorporeo. E subito dopo lei legittima il
suo piacere di vederlo teso sulla corda del bene felice, dicendo che
“convien” che Dante beva prima l’acqua della Rivelazione. Prima
però è il piacere a muoverla, e solo dopo il conveniente.
Così, in mezzo alla fiumana di luce che tutto inonda, nello
svolazzare inebriante degli angeli, Beatrice riesce a mettersi al centro
di tutto e a governare saldamente il cuore del suo amante mai
toccato, perché alla fine sa che lui non avrebbe mai potuto cogliere e
capire l’amore di Dio se non avesse prima e insieme assaggiato del
suo.
E allora ridi! Ridiamo anche noi! Dio non è stampato nei libri di
teologia e di filosofia, Dio non è pensiero o pensato filosofico, Dio
è riso di luce, di felicità femminile, Beatrice “il sol de li occhi miei”, e
se non lo capiamo è perché non abbiamo “viste ancor tanto
superbe” (v. 81).
Oggi appunto non siamo abbastanza superbi, abbiamo paura, siamo
timidi tanto più siamo arroganti e impuri. Tutt’uno è il riso di Dio,
della donna amata e della natura! Osi spingerti a questo? O hai
paura? E allora tieniti i tuoi sospetti, le tue ortodossie ed eresie, i
tuoi sottili distinguo ermeneutici e le tue colpe sofisticate. Dante
non ha paura del bene e vedi come è in grado di rigenerarlo.
391
Segue un’immagine che dice tutto e che ho più volte sperimentato
con i miei figli. Quando un neonato si sveglia tardi, oltre il tempo
abituale della poppata, ancora a occhi chiusi fa uno scarto con la
testa e volge la bocca dove si aspetta il seno. E ha delle scosse di
desiderio, succhia a vuoto, agita le braccia e, se non trova subito la
tetta, si mette a urlare e a piangere finché non succhia il capezzolo
che la madre, già timorosa che muoia di fame, con movimenti
convulsi sfodera per porgergli:
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato dall’usanza sua,
come fec’io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli;
Un amico dantista mi fa notare che si tratta di un fantin, non di un
in-fante, di un neonato che non parla. E in effetti allora le donne
allattavano per anni. Ecco detta l’innocenza del fantino verso cui
punta il massimo sapere, da cui sfugge ghignando la mezza cultura, il
mezzo sapere. La stessa innocenza che noi vediamo con sospetto
quando lambisce la massima potenza. Il delirio di potenza di Dante
che, dopo Mosè e San Paolo, è il solo a poter mirare questa luce. Ma
chi si credeva di essere? Sapeva, d’accordo, di essere un poeta
sommo ma possibile che pensasse davvero di essere il prescelto di
Dio in virtù delle sue leggendarie qualità poetiche?
È possibile una presunzione sfrenata del tutto pura nella sua
innocenza, è possibile un’elezione della quale uno non goda neanche
per un millesimo di secondo per basse ragioni venali e vanesie? A
quanto pare, sì.
In questo passaggio Dante ci affascina per la sua pazzesca e delirante
pretesa, tanto più in quanto ci sembra credibile e innocente. Chi ama
Dio in questo modo è il solo, è l’eccezionale, è l’eletto. Chiunque lo
ama in questo modo è Mosè e San Paolo. Ma noi che ne veniamo a
conoscenza scopriamo nella nostra privazione, benché faville di
quella luce solo grazie a Dante ci brucino felicemente gli occhi, che
pensare così equivale a considerare geloso e selettivo l’amore divino,
392
aristocratico ed esclusivo. Non sapeva Dante tutto ciò? O pensava
davvero di essere il nuovo Cristo, il Cristo poetico? Pensava davvero
di poterci salvare col suo poema?
Io credo che lui lo pensasse. E credo anche che aveva ragione a
pensarlo. E che pure questa capacità di delirio sproporzionato,
questa theia mania fosse parte integrante del suo talento. Un talento
di straordinaria innocente superbia in grado di toccare, percorrendo
il cerchio vertiginoso, l’inerme innocenza del “fantino”, del
fantolino.
E così mi domando, non è che dovremmo anche noi diventare più
superbi? Avere pretese più alte, rilanciare la posta, osare?
E se davvero Dio l’avesse scelto?
Se Dio abbaglia con la sua luce le anime dei beati si vedono riflesse a
migliaia, le “vidi specchiarsi in più di mille soglie”. Capovolgendo la
percezione comune, secondo cui è evidente ciò che ho sotto gli
occhi ma remoto e astratto ciò che è metafisico e divino, Dio si vede
molto meglio, con gli occhi abbagliati, è molto più evidente di ogni
altro essere, visto che le anime sono solo riflesse, come un colle si
specchia in acqua per rimirarsi. Eppur sono lucentissime. Ma quello
che più mi sorprende è l’affermazione che segue:
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ’l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Dante può vedere tutto nel nitore più completo e con precisione
estrema, indipendentemente dal fatto che sia vicino o lontano. Senza
più i vincoli del cono prospettico o con una vista talmente acuta da
cogliere i dettagli di un beato lontanissimo? È una di quelle
percezioni impossibili e paradossali che pur aprono all’intuizione
che la visione prospettica del cono visivo è interamente umana, e
valida soltanto quando abbiamo a che fare con i corpi nello spazio
393
terrestre. Se Dio guardasse Pesaro, in una cella di una casa della
quale città sto scrivendo, non la vedrebbe certo come noi, non
avendo occhioni dotati di retina, fovea e bastoncini. Ma come la
vedrebbe? Caduti i vincoli della sopravvivenza darwiniana che
struttura i nostri occhi come le gambe e i piedi per poterla sfangare?
Dante ce ne dà una visione impossibile, spiegando che “dove Dio
sanza mezzo governa / la legge natural nulla rileva”.
Non si rende conto Dante che la natura non si può scavalcare? Che
la natura è la stessa creazione di Dio? Che non la si può contraddire?
O se ne rende conto fin troppo, visto che non vi sono più in gioco
corpi ma anime di beati ed angeli. Ma il corpo di Dante resta vivo o
no? E allora questa nuova vista è un dono indotto dalla grazia
divina. Eppure il nitore con cui Dante vede tutto tranne Dio non
vuol dire che il nitore stesso, l’evidenza fotica stessa non è il valore
assoluto, che Dio non è né può essere luce, bensì oltreluce?
Quando Dante si inoltra nella luce profumata della rosa divina, “nel
giallo della rosa sempiterna”, vede, a quanto pare, che i colori
almeno restano tali e quali a come noi li percepiamo e che le regole
della riflessione e della rifrazione della luce non cessano di valere,
tanto più che Beatrice, la quale non perde mai il controllo dei nervi e
delle estasi, lo invita a mirare le bianche stole e a individuare il seggio
vuoto di Arrigo VII di Lussemburgo.
Davvero Beatrice è donna di ferro e di petalo, “dittatore spedito” e
nobile guida turistica del paradiso, che non le fa più quel grande
effetto, essendone abitante privilegiata. Anche quando si starebbe
per sprofondare nella luce divina, senza fare una piega, lei gli
profetizza la discesa imperiale e, come una madre adirata, strapazza
lui e tutti i “fantini” italiani che, in preda alla “cieca cupidigia”
muoiono di fame e cacciano via la balia, cioè l’imperatore.
Dando così un solenne liscio e busso anche a Dante, che non viene
risparmiato dall’accusa, in un passaggio involontariamente comico
della Commedia. Il quale Dante ci aspetteremmo si svegliasse
dall’incubo della metamorfosi di Beatrice con un sussulto
d’angoscia, visto che l’amata salvifica si trasforma in un’energica
matrona sermocinante, pronta ad annunciare la spedizione di un
394
altro papa, Clemente V, nel fondo dell’inferno. Invece Dante non fa
una piega neanche lui e comincia il nuovo canto come nulla fosse
successo. Si sa che le donne hanno di questi scatti, per il loro
famigerato senso di giustizia che strabocca.
E tuttavia queste docce fredde sono indispensabili perché l’orgasmo
mistico non arda dentro di sé e non lasci svuotati a sorpresa.
16 maggio
Dante
(Canto XXXI del Paradiso)
“In forma dunque di candida rosa” gli si mostrava la chiesa che “nel
suo sangue Cristo fece sposa”. Sangue che non macchia affatto la
rosa con le sue gocce perché anzi è proprio il rosso che
metamorfosa in bianco, mentre gli angeli cantano la gloria di Dio
che, facendoli innamorare di lui, ispira la loro ugola, e vanno e
vengono tra lui e la chiesa. Sono essi a mellificare in Dio col polline
della chiesa ed è Dio a conferire loro la virtù di mellificare grazie al
polline umano. Per trasformare il polline in miele ci vuole questo
amore scambievole, occorre la virtù delle api angeliche, della
fioritura ecclesiale e del potere mellificante di innamorare da parte di
Dio.
I colori, come gradazioni ed espressioni dello spettro della luce
divina sono le qualità più oggettive che ci siano, ma oggettive in
virtù dello scambio amoroso. Per cui si può dire che senza amore
non ci potrebbero essere i colori. Né il color di “fiamma viva” delle
facce, né l’oro delle ali né il bianco della figura. E quando gli angeli
“scendean nel fior” non è per depredare e per succhiare il polline
ma per porgere “de la pace e de l’ardore”. I fiori godono del succhio
delle api che si sono caricate dell’amore divino “ventilando il
fianco”.
Il bello è che la luce non è metafora, la luce è emanazione divina
fisica e ultrafisica, è il ponte tra il corporale e lo spiritale, essendo
entrambi decisivi, e penetra “per l’universo secondo ch’è degno”. È
la “trina luce” scintillante in una “unica stella” che Dante invoca:
395
“guarda qua giuso alla nostra procella!”, in una delle sue frequenti
ricadute a piombo nel mondo terreno, quando la corrente della sua
esaltazione ha un black out, con una brutale mancanza di riguardi
verso di sé e verso di noi che ci troviamo tutti a precipitare con lui, a
una velocità ben maggiore di quella che possa sopportare il nostro
invecchiato corpo artificiale.
E dopo una picchiata vertiginosa verso terra, ecco una nuova
rapidissima risalita che, quasi giunto al suolo, porta l’aereo mistico
del corpo di Dante a risalire grazie a un paragone così coerente con
la dinamica spaziale da rendere l’impennata, che lo riporta su, del
tutto naturale:
Se i barbari, venendo di tal plaga
che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
rotante col suo figlio ond’ella è vaga
veggendo Roma e l’ardua sua opra,
stupefaciensi, quando Laterano
a le cose mortali andò di sopra;
ïo, che al divino da l’umano,
a l’etterno del tempo era venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano,
di che stupor dovea esser compiuto!
Se i barbari, i peggiori responsabili della procella, venuti dal Nord
rimasero a bocca aperta quando videro a Roma il palazzo imperiale
del Laterano, io che “era venuto” da Fiorenza, quella feccia di città,
“in popol giusto e sano” di quale stupore dovevo essere colmo! Dai
barbari a Roma e da Firenze alla “milizia santa”, alla comunità dei
giusti e dei sani. Dante riesce a dare a Fiorenza un fendente tanto
più efficace quanto più la inserisce come secondo termine di
paragone, cioè quello che in genere è universalmente e per
antonomasia condiviso da tutti, e così fa slittare come la cosa più
pacifica del mondo che la sua città sia la più ingiusta dell’universo.
E non per un odio e un risentimento suo, che si scatenano incongrui
quando più il suo animo dovrebbe essere purificato e deliziato, e che
hanno invece su di lui una potenza tale da proiettarlo violentemente
fuori della rosa mistica, come ci segnala quell’espressione “era
396
venuto”, come se la sua visita paradisiaca fosse avvenuta ormai così
tanto tempo prima da essere persa e da conservare soltanto
un’evidenza logica e dimostrativa ai fini dell’argomentazione.
Straordinaria evidenza di un odio oggettivato che noi non riusciamo
più a capire né a sentire, convinti come siamo, per eccesso di
ripartizione e compartimentazione intellettuale e artificiale, che ogni
passione, dall’estasi all’odio, debba avere la sua aula e il suo reparto
nell’animo umano. Cosa che Dante, che ci viene a dire molto della
forza passionale dei suoi tempi, smentisce senza farsene un
problema.
Potessimo anche noi, quando odiamo e disprezziamo un male in un
uomo o in una città avere la certezza che meritino un qualche girone
infernale, dove certamente andranno a cadere, senza mai pensare
che invece potremmo essere noi, per ragioni subdole e inconsce,
comunque ambigue, a rivelarci ingiusti e a nutrire in noi lo stesso
male che condanniamo, o un male diverso che preferisce
mimetizzarsi attaccandone un altro di altri.
E soprattutto senza dover pensare che quel male non riceverà
nessuna punizione e che quell’uomo, o quella città ingiusta,
continueranno beatamente e senza neanche accorgersene la loro
opera corruttiva, e sarà più facile che ci rimetteremo noi
denunciandoli.
Dante invece, lo vediamo ancora una volta, credeva nella forza
politica e morale della poesia, e infatti ha consegnato uomini e intere
città a un inferno poetico perenne, ancora bollente dopo
millesettecento anni. Ed è un inferno così naturalmente giusto che il
sentimento che prova è lo stupore, tra i più ingenui che esistano, e
più idonei ad addossare tutto il male alla cosa, senza nessun
intervento polemico di colui che la condanna. E già si scorda di
Firenze e dei barbari, che in fondo gli servivano solo a ritornare, e
precisa che, se restava zitto, era anche per il gaudio che provava, che
gli dava piacere nel silenzio.
18 maggio
397
Un pensiero superstizioso
Mi visita più volte un pensiero irrazionale e superstizioso, che gli
stati d’animo che viviamo oggi siano determinati dalla sorte che
avremo domani. Quando un bambino soffre una misteriosa
malinconia è il presentimento di un licenziamento a quarant’anni.
Quando una bambina non gioca più con gli altri è perché a
trent’anni verrà lasciata dal marito. Ma non è certo più né irrazionale
né superstizioso se pensiamo non a fatti locali, a occasioni precise
ma alla morte, l’evento che sappiamo con certezza che accadrà,
benché, stando alle teorie di Hume, esso stesso non è una verità di
ragione ma soltanto un caso altamente probabile, una possibile
verità di fatto tutta da verificare.
Ci ripenso osservando come gli stessi casi si ripetono alle stesse
persone, fausti e infausti, come se non promanassero dalle fontane
esterne della sorte ma da una fonte interna che srotola il suo getto.
Dal tuo cavalluccio della giostra o dalla tua auto biposto puoi tentare
di catturare a ogni giro i premi appesi, ma dalla stessa posizione e
con le stesse possibilità. Così quando sei diventato adulto e concorri
a un incarico di manager hai le stesse probabilità di vincerlo di
quando da piccolo tentavi di prendere il premio volando nel
seggiolino.
Nella misura in cui questo è vero, dipende dalla statica società
italiana, dalla ciclica mentalità dei peninsulari, coloro che amavano
un tempo la commedia all’italiana, con i caratteri tutti fissi, ma
allegra, esuberante e guascona, e amano oggi gli sceneggiati, molto
più tristi e sibilanti, sussurrati e medianici, recitando come
sacerdotesse in trance, dove tutti non solo soffrono di continuo con
il pilota automatico, esperienza impossibile nella realtà se non per un
forte dolore fisico, ma vivono sempre le stesse esperienze: la donna
lasciata dall’amante, se la serie dura, viene lasciata da cinque amanti.
Il capitano d’industria, se truffa i concorrenti, li truffa per cinque
volte, il ragazzo inaffidabile invecchia tradendo le stesse persone
nello stesso modo.
398
La commedia di caratteri è il modo più efficace per cogliere gli
italiani nei tempi grassi e proiettati verso il futuro, per ignoranza ed
innocenza. Per i tempi magri, nervosi e scontenti come i nostri
invece non c’è genere letterario che possa diventare popolare,
perché gli italiani non amano essere colti nei momenti di debolezza,
se non col riso.
La poesia del tranfsuga
La poesia, essendo espressione del sentire di uno che esce dalla
società, sarà sempre occasione di letture svagate e distratte per i più.
E per i meno segno che qualcosa è fin dall’infanzia incrinato e
impedisce di salire su quel palcoscenico. Sebbene ci sono molti che
con la poesia sul palcoscenico tornano, in recital per un pubblico
scelto. Ma il poeta non sarà mai personaggio di commedia o di film
drammatico se non in forma svisata, o ridicola o sentimentale
oppure in un flusso liricheggiante che intride tutto.
Se la lingua sociale è ormai finta, menzognera, fasulla, ciò dipende
non solo dal fatto che si dice il contrario di quello che si pensa, che
si dice il contrario di quello che si fa, ma anche dal fatto che si fa
finta di conoscere verità che si ignorano e di avere certezze che non
si hanno. La parola è un’arma di nascondimento, difesa e attacco che
puoi usare per confondere le acque, confondere gli altri, illuderli,
emozionarli verso false mete, depistarli, coonestare le tue malefatte.
Poesia tra il dire e il fare
Quando scrivi poesie manca il ponte tra il dire e il fare, perché dire è
lo stesso fare. Se non conosci la vita del poeta te ne crei
un’immagine tutta dipendente da ciò che scrive. Diventa patetico o
ridicolo scoprire il più delle volte che la mammola tutto sentimenti
delicati è un cinico profittatore e imbonitore sociale.
La poesia tuttavia conserva non solo la sua aura ma anche il suo
valore, poiché scrivere è appunto già un fare, anche se molti non
riescono più a prendere sul serio il poeta che hanno visto impegnato
399
in una sua volgare e selvaggia autopromozione. Il suo atteggiarsi
ripugnante non intacca più, dopo la sua morte, la sua opera. E per i
più equanimi neanche prima.
Il poeta può essere una canaglia nella vita e uno stinco di santo in
poesia. Non perché canta i sentimenti nobili ma perché, mentre
mente artisticamente, non dice mai bugie, non trucca mai i dadi e
non tira mai colpi bassi. Quest’impresa lo sfianca al punto che dopo
vuole godersi una sana cialtroneria.
Quando scrivi manca anche la verifica sul ponte tra il dire e il sapere
perché in una forma traslata, metaforica, obliqua non puoi risalire
sempre al significato del detto, e così il poeta ti può far presumere di
conoscere verità che non conosce affatto e che, risalendo per i
palchi dei rami, potresti scoprire in quei versi, sebbene in certi casi
non ci sia un significato né un senso preciso. E togliendo tu la
polvere dalle ali dei versi la farfalla non vola più. Ma ciò non
significa che non volasse prima, grazie proprio alla magica polvere
poetica che hai soffiato via. Ci sono farfalle che continuano a volare,
forse erano in realtà altri insetti.
Ecco perché il poeta non può dire la sua verità direttamente, pena il
sembrare retorico, ingenuo o utopistico, né denunciare direttamente
l’altrui menzogna, perché sarebbe oratorio e tribunizio. Deve allora
trasporre tutto con figure retoriche, scene svisate, anamorfosi
ingegnose in un piano teatrale, nel quale incorporare il male stesso
del mondo, la sua mascheratura sociale, come se si muovesse ancora
in quella situazione pericolosa che sempre la convivenza con gli altri
ci dispiega, e solo raramente può aprire un varco di dire diretto.
Pensieri questi che mi sono suscitati dalla lettura di Ronda dei conversi
di Eugenio De Signoribus.
Poetare è spiazzare il nemico, costringendolo a combattere nel tuo
terreno. Il più delle volte il nemico lo fiuta e rifiuta la lotta.
Poetare è attivare un’amicizia possibile. Ecco perché alla poesia ti
devi affidare, del poeta ti devi fidare, perché solo allora ti elettrizza il
transito verso verità che puoi immaginare vive e reali con lui. E
finché dura la poesia.
400
Oggi la poesia da vivere in flagrante è di gran lunga più diffusa di
quella da rimeditare dopo. Mentre è poesia vera quella che ha
entrambe le qualità.
Una studentessa mi dice, dopo aver letto una poesia italiana
contemporanea: “Sembra scritta in un’altra lingua.”
Nella Piazza del Popolo
Nella piazza del Popolo di una qualunque città, in una notte di
maggio ancora calda, attorno a tavoli pieni di birre e caffè, da una
solitudine senza sponde, proiettati in un fitto vociare euforico e
spaurito, rivedendo per un’ora amici che non vedi mai. Tra le voci,
le invocazioni: “Quando scrivi di me?” che osano i più navigati o più
sicuri. Oppure: “Hai letto il mio libro?” Le persone più libere, pur
desiderando le stesse risposte, se ne guardano bene e scambiano
battute, spiando l’interesse che da te possono trarre, e tu fai lo stesso
con loro.
Di certo una tua mancanza è stata soppesata col bilancino del
rancore, e tu magari non ne ricordi nulla, e un’omissione dell’amico
ha spruzzato l’amaro sul tuo spontaneo abbraccio, senza che tu
metta a fuoco più bene il motivo. In pochi minuti sintetizzi un
ricordo, ribilanci un rapporto, cerchi di farti tornare in mente a che
punto sta la partita del dare e dell’avere, in un desiderio di amicizia
struggente che presto sarà tradito dalla lontananza.
Quando sospetti un’insincerità nelle parole affettuose che ricevi, una
doppia e opposta via del sentire, devi rispondere con parole ancora
più affettuose, con espressioni ancora più calorose, per neutralizzare
il male latente o soltanto per spingerlo più a fondo. Gli altri sentono
in te la stessa insincerità.
Siamo troppo onesti quando scriviamo per riuscire a esserlo quando
ci incontriamo. I nostri libri sopportano la solitudine, noi no, e
abbiamo bisogno gli uni degli altri, con tutti i nostri difetti
insopportabili, indispensabili per amarci.
401
Le omissioni
Le relazioni tra gli uomini vengono stabilite in base alle parole che si
dicono e agli atti che si compiono. Ma sarebbe istruttivo, forse più
efficace, anche se più duro a sopportarsi, indagarle in base ai silenzi
e alle omissioni. In ogni scambio di lettere già possiamo accorgerci
che non corrispondiamo mai interamente a tutto quello che ci viene
detto ma tacciamo proprio sui punti che o non ci garbano o
vogliamo lasciar cadere, o ci toccano troppo profondamente o in
modo troppo malaccorto. Quando rispondiamo rilanciamo con
questioni che l’altro non ha mai sollevato e sono precisamente quelle
che ci stanno più a cuore e che non riceveranno risposta.
Riprendendo in mano le lettere che ci siamo scambiati potremo
definire con gran precisione le strade che non potremo mai
percorrere in comune, potremo misurare la distanza tra noi, al punto
di accorgerci che la strada comune è ben stretta e che molto spesso
l’abbiamo già percorsa insieme.
È elementare l’accortezza di chi risponde a una lettera punto per
punto, credendo in questo modo di mascherare bene i suoi desideri
e le sue delusioni e di continuare il cammino a due virtualmente,
tenendolo a disposizione al bisogno. Ma questo stesso modo di
rispondere segnala che non c’è un interesse nativo ma soltanto di
riflesso e che non c’è nessuna intenzione sostanziale di uno scambio
concreto né, molto probabilmente, ci sarà mai. Ma hanno risposto
per buona educazione. E io li apprezzo.
E ci sono quelli che ti mandano sette o otto pagine di riflessioni
articolate di fronte alle quali diventi un pubblico lettore. E in fondo
queste sono le vere lettere.
Lo stesso capita quando si conversa. Straordinario è il caso di un
ascoltatore sincero, che comunque sarà relegato in quel ruolo per
sempre. Altrettanto infrequente è colui che, tenendosi a quello che
dici, adduce esempi e situazioni simili a lui capitate, non per
cancellare l’esistenza dei tuoi e sostituirli con i propri, ma per capire
402
insieme qualche tratto della sorte. E ciò deriva dal fatto che sono
rarissime le persone congeniali e così disinteressate da nutrirsi di
tutto in vista di una loro comprensione più completa della vita, o
almeno della propria natura.
Più unico che raro infine il caso in cui quello che dici interessa un
altro in modo decisivo per la propria vita e quello che dice lui
interessa te per la stessa ragione.
Black out creativi
C’è in ogni argomentazione, fatta eccezione per il discorso di pura
logica deduttiva, una sequenza di vuoti impercettibili, di
appuntamenti mancati con il senso, di black out ragionativi, di perdite
secche di coerenza, mascherate dall’ordine sintattico e dalla
precisione della lingua.
Ogni discorso in prosa sopravvive lungo ponti aerei, compromessi
arrischiati, scuse mancate, analogie improbabili, condoni edilizi e
sanatorie, per cui il fantastico, il poetico, l’immaginativo, l’opinabile,
il fascinoso e il drammatico costruiscono di fatto quel ragionamento
che sembra filare per ragioni esatte che in realtà sono di superficie.
Se questo è evidente nella psicologia, nella sociologia e nella stessa
storiografia, non è meno insinuante nella filosofia. La potenza di
voce del depositario della parola crea un’unità timbrica che si fa
seguire in modo del tutto indipendente dalla veridicità dei significati.
Non faccio esempi perché basta aprire qualunque libro. Con un
esame meticoloso ci fermeremmo alla prima pagina, riempiendola di
dubbi, di controprove, di ipotesi opposte, di obiezioni decisive, che
restano tali finché si perde la sintesi di pensiero che soltanto
autorizza questa marea di singole proposizioni inattendibili e
inverificabili.
Si scrive un saggio perché in esso la sintesi è più importante dei
singoli elementi. Grande saggista è appunto chi è capace con queste
sintesi poderose di far dimenticare le mille opinioni controvertibili,
come Panowski, come Debenedetti, come Bonnefoy.
403
Le loro sintesi sono anch’esse controvertibili ma hanno una potenza
artistica.
Nella conversazione invece ogni frase viene discussa
dall’interlocutore e non si arriverebbe da nessuna parte, perché ogni
singola cosa che dici è controvertibile, isolata dal contesto.
Ogni uomo è una selva di filoni discorsivi che puoi potare soltanto
in un saggio. Non per questo diventi un uomo-saggio. È il saggio
scritto semmai che assomiglia a un uomo tutto di un pezzo.
Hai scordato un appuntamento. Come è potuto accadere? Un vuoto
assoluto ti ha colpito e per giunta non avevi niente da fare. Una
cancellazione, la morte di un secondo. Allora ti appigli a Sigmund
Freud, il baluardo degli smemorati, che scopre universi di senso nel
black out dello stordito. Peccato che le scoperte dell’indagine siano
piuttosto amare. Confidi allora nel condono, nella grazia di chi ti
dica: Non fa niente. E comprende il tuo dolore misto al suo, senza
andare a cercare pulsioni sotterranee e ostili. È rarissimo però
trovare una persona che conosca i punti ciechi, le perdite secche, e le
accetti, in sé e negli altri, senza ricordarsene al momento opportuno
per deprezzare, per far vendetta. L’uomo della grazia gratuita nei
piccoli fatti della vita, che si esercita in vista del perdono globale di
una vita intera.
Velocità poetica
La poesia come alternanza di mancanze e di abbondanze (avevo
scritto: abbandonanze), di sviste e di perdoni, di risarcimenti e di
saccheggi, di avventatezze e di ritorni nel branco. Un insieme di furti
e di regali, di insufficienze clamorose e di scariche d’oro immeritate,
che si susseguono a gran velocità, in modo che le colpe non
stagnino e i colpi di fortuna non suscitino invidia. Come quando
vedi correre un uomo sui sassi lungo un guado e sospendi ogni
giudizio sulla sua anatomia finché non rimette piede a riva, perché
speri che si salvi. Ma allora la poesia è finita.
404
Un conto, la poesia, che va in rosso e in bianco a gran velocità, e i
cassieri della lingua rinunciano a farle il saldo.
Doni e furti poetici fatti a chi? Al lettore o a se stessi? È la stessa
cosa: un lettore è un autore che vuole arrivare sul fatto quando
accade la seconda volta. Per questo si sente sempre più potente
dell’autore.
La poesia di scambio, col conto esatto e leggibile del dare e
dell’avere: la cattiva poesia.
6 giugno
Giuda
Giuda abbraccio Cristo che non lo rifiutò. Tu, piccolo uomo,
quando sei preso nell’abbraccio di un giuda cosa fai? Nessuno ti
considera tanto importante da tradirti, allora stringilo ancora più
forte, non perché senta la morsa che lo faccia temere, quando passa
la misura, ma perché, andando più a fondo, senta vanificarsi le
ragioni dell’odio, forse rinsavendo.
Quanto dell’odio e del rancore rivolto contro di noi o che noi
rivolgiamo ad altri è rancore e odio per la propria sorte, che va a
caccia di un colpevole quasi per caso, o ingigantendo un piccolo
torto, per riversare in quel forellino un fiumana di risentimento volta
al tutto, a quello che per noi in quel momento è il tutto.
27 maggio
Trinità
Un giorno qualcuno dovrà fare giustizia di tutta la violenza in nome
del divino. E non sarà certo un uomo.
Dio che ci hai amato da morire, amaci ora da vivere.
405
Eppure chi ama non dice mai: Amami! Né dice mai: Ti amo. Ama di
fatto. Invocando l’amore Suo o dicendo l’amore tuo, non sei degno.
Sogno di una città del Nord
Stanotte ho sognato una città del Nord Italia percorsa da un fiume
di lava che passava sotto i ponti e che si accendeva all’improvviso,
illuminando a giorno la gente che guardava dalle finestre rapita, o
che scappava e forse moriva. Non posso dirlo perché correvo in un
dedalo di vie verso un appuntamento con amici di cui non riuscivo a
ricordare i nomi, i quali sarebbero dovuti tornare in auto a Pesaro
con me. Ma ormai erano le otto e venti e come aspettarsi il rispetto
di un impegno da parte di persone di cui non riesci a ricordare
neanche il nome. Una bambina vicino a me, vedendo il fiume
accendersi di colpo, lo guardò dicendo: “Che bello!”
Il male
Due amici che si sono ammalati, hanno attribuito tutti e due il male
a un grave dolore che li ha colpiti. Non ci sono prove ma è evidente
che coloro che fanno il male agli altri sono responsabili anche delle
loro malattie.
Il male ha una forza esponenziale mentre il bene soltanto aritmetica.
Là c’è l’effetto valanga qua la ricostruzione paziente mattone per
mattone.
Il male morale è il modo in cui la natura selvaggia scatena la sua
potenza dentro di noi.
Quanta umiliazione, amarezza, violenza subita, quanta mancanza
d’amore, quanto accanimento contro noi piccoli mortali per poter
rilanciare un po’ di vita, per poter reagire e resistere in vita agli stessi
nemici senza i quali resteremmo in vita molto meglio, e senza una
perpetua guerra.
406
Forse la natura ci sveglia così dal sonno pastorale che ci vedrebbe
inerti? Perché non escogita invece una felicità positiva? Non è vero
allora che è così geniale.
Si dice che gli animali siano amorali perché seguono l’istinto. Ma
oggi che si scoprono in loro sfaccettature complesse, che essi si
rivelano per la loro ricchezza intellettiva e sensitiva anche
individuale, non potrebbero essere così furbi da nascondersi nella
specie e addebitare agli istinti il loro personale piacere di uccidere.
La tigre che ti sbrana sta godendo?
7 giugno
Sesso selvatico
Si contrappone l’omosessuale all’eterosessuale. Ma in realtà
all’interno di queste due categorie, in certi casi sfumate e graduate,
per cui si può riconoscere a volte solo una dominanza, esistono
sottospecie altrettanto costrittive della tendenza primaria. C’è quello
che a qualunque età è eccitato esclusivamente da ragazze
giovanissime, chi è attratto solo dalle coetanee, chi cerca donne più
anziane, chi è sedotto solo dai caratteri forti e allegri chi dagli
introversi e malinconici. Chi può far sesso solo se ama, chi può farlo
solo se non ama.
Con l’affermarsi di una civiltà sempre più artificiale i primi istinti a
essere colpiti sono quelli sessuali, che trovano strade sempre più
tortuose e compulsive. Con la solita larghezza di manica ben tre
milioni di uomini sono classificati in Italia come impotenti e una
selva di perversioni, manie, complessi, complicazioni, inibizioni e
aggrovigliati rituali sono diventati indispensabili per quell’atto che
ancora quando ero ragazzo io si compiva con molto maggiore
semplicità. Non che oggi non accada esattamente lo stesso tra i
ragazzi, che si dimenticano il resto del mondo, ma con questo
consenso appiccicoso e nauseante del mercato universale del
piacere, che rende l’atmosfera meno intima e più imbarazzante.
407
La fine del senso del peccato, la mollezza della chiesa nell’escogitare
proibizioni e vincoli che scatenavano l’istinto e lo arricchivano di
spezie voluttuose, la familiarità sportiva con corpi nudi, la rinuncia
di molte donne a caricare i gesti di una sensualità allusiva, poetica e
sofisticata, nell’illusione che sbattere in faccia la nudità sia un segno
di libertà, la passione per il proprio corpo considerato un tesoro
inestimabile da offrire alla pubblica ammirazione, la palese
predilezione delle donne di farsi contemplare nude o spogliate da
tutti piuttosto che da uno solo, ha trasformato il sesso in una
ginnastica impoetica, dove è sempre troppo caldo o troppo freddo,
troppo presto o troppo tardi, troppo strano o troppo banale, finché
la coppia compie il suo dovere di performance nella società del
piacere legittimato e benedetto, non vedendo l’ora di tornare alle sue
occupazioni.
Nei costumi dei giovani la rivoluzione è iniziata quando gli
adolescenti hanno cominciato a far sesso nella casa di famiglia, con
la piena conoscenza, se non il consenso, dei genitori, spaventati
dall’idea che in luoghi appartati le loro creature possano essere
minacciate da malintenzionati. Mentre fino a vent’anni fa si
cercavano piazzali di fabbrica notturni, boschetti rischiosi, si
parcheggiavano le auto in aperta campagna, si amoreggiava negli
androni di chiusi palazzi o sulla spiaggia non illuminata ancora dai
faretti dei bagnini.
Chiuse la case chiuse si sono aperte le case di famiglia e la mamma si
vede venire incontro nel corridoio il ragazzo della figlia ancora
ubriaco da un’ora di sesso e non sa dire nulla. Questo sesso
casalingo e legittimato ha qualcosa di così perverso e strano che da
solo spiega come si sia potuto spegnere l’istinto di rivolta in
un’intera generazione.
L’anima gemella
(un apologo)
Mettiamoci nei panni di un ragazzo di vent’anni vergine, con una
mentalità metodica, che voglia cercare una ragazza congeniale. È
riservato e di poche parole con chi conosce ma molto aperto e
408
buono con gli amici. Frequenta l’università e a un certo punto ha
deciso che deve cercare la donna giusta, non affidandosi al caso e
alla fortuna, alle emozioni e alle atmosfere, all’intuito e all’istinto, ma
con la stessa mentalità scientifica con la quale studia la chimica
farmaceutica.
Dicono che in tutto il mondo c’è una sola anima gemella ma come
fare per incontrarla? Le probabilità, ha calcolato, sono una su diversi
trilioni, visto che non basta incrociare una donna ma bisogna
scambiare con lei almeno qualche parola sensata. Né può mettersi a
viaggiare selvaggiamente per l’Italia per poi passeggiare in ogni città
più popolata, non soltanto perché ha un solo mese di tempo prima
di rimettersi a studiare, ma perché dopo un po’ che guarda le donne
che incrocia ne trae un senso di vanità e inquietudine, se non di
ridicolo.
È deciso a circoscrivere la ricerca alla sola città di Torino, dove vive,
scartando l’ambiente universitario che frequenta, perché ha già
conosciuto tutte le ragazze del suo corso e quella giusta gli sembra
non ci sia. Non che confidi sul colpo di fulmine ma insomma
cercarla nel suo ambiente sotto sotto gli dà un senso di disagio e
preferisce scartare l’ipotesi.
L’impossibilità manifesta di una ricerca scientifica non lo scoraggia.
Si contenterà di un metodo sistematico. È evidente che dovrà
cercare di incontrare il maggior numero di ragazze, perché altrimenti
con un confronto tra poche donne quella che gli sembrerà giusta
sarà la prescelta, ammesso che lei scelga lui, in un campione troppo
piccolo. E, una volta unitosi a lei, la probabilità che ne scappi fuori a
sorpresa una ancora più giusta sarà elevatissima. Ecco perché molti
matrimoni falliscono entro il primo anno: le scelte sono state troppo
istintive.
Se lasci prevalere la parte animale, è possibile che su dieci donne che
conosci tu abbia voglia di fare sesso con almeno due o tre di esse.
Ed ecco che hai già una buona ragione per stare con una di loro. Se
poi viene il desiderio di una vita regolare, e magari di un figlio, le
ragioni per rimanere insieme aumentano e tu hai rinunciato per
sempre alla donna giusta.
409
Il ragazzo vergine si mette a camminare per le strade e le piazze
centrali di Torino e attacca discorso al bar, in un supermercato e in
autobus con tre donne diverse, due delle quali lo degnano appena
mentre la terza, più disponibile, è sposata.
Mentre rientra a casa dopo tre ore in giro per la città, e centinaia di
volti e di corpi guardati e subito cancellati, si rende conto che
l’impresa è disperata. Non solo non poteva scegliere tra tutte le
donne del mondo ma neanche tra un gruppetto di nove o dieci,
perché poteva dire di conoscerne piuttosto bene soltanto due o tre.
In novantanove casi su cento uomini e donne si accoppiavano in
una rosa così ristretta di persone che era praticamente escluso che
due esseri congeniali, nati per essere l’uno dell’altra, potessero
conoscersi in questo mondo.
La situazione gli sembrò finalmente assurda e crudele: l’anima
gemella doveva esistere ma maschi e femmine erano distribuiti con
causalità vertiginosa, che impediva loro di incontrarsi per sempre.
Allora andò su Facebook e, cliccando il nome di un’amica, da lì
andò a visitare le pagine delle amiche dell’amica, per guardarle
almeno in faccia. Guardò migliaia di volti fino a notte inoltrata senza
risultato.
Non aveva mai riflettuto su quest’altra perfidia nella distribuzione
della sorte, su questo tesoro di amori possibili, che avrebbero reso
felice una proporzione altissima degli abitanti della terra, resa però
impossibile dalla sconfinata estensione del pianeta e dal fatto che
quasi tutte le abitanti hanno un palazzo, una casa o almeno una
capanna dove nessun altro può entrare. Era naturale che tutti si
affidassero al caso, all’occasione fortuita, cercando di dare qualche
cauta spintarella alla sorte, uscendo spesso di casa e assumendo
un’aria aperta e interessata a quello che si muoveva loro intorno.
Un fatto incontrovertibile era anche però che uomini e donne si
mettevano insieme di continuo, che le coppie erano almeno quante
le persone sole e che molte ne conosceva che si dimostravano
soddisfatte. Doveva forse pensare che un dio provvidente curava gli
410
incontri senza che nessuno se ne rendesse conto? In tal caso erano
davvero ingrati verso quest’opera segreta della provvidenza.
Considerato pure che quando uno incontrava la donna giusta aveva
la sensazione di conoscerla da sempre e la riteneva l’unica, almeno
per qualche mese.
Non restava che ammettere che ogni uomo può disporre in una città
di un milione di abitanti almeno di un migliaio di donne congeniali,
come una donna può incontrare qualche migliaio di uomini che
facciano al caso suo, e che quella con cui ci si mette, non potendo
andare con più donne insieme, è una intercambiabile ma degna e
sufficiente rappresentante della categoria.
Almeno all’inizio, perché dopo ti affezioni a lei e non accetteresti
più, salvo eccezioni, di andare di punto in bianco con una
sconosciuta solo altrettanto congeniale.
Restava aperto il problema della verginità, perché intanto era
diventato un problema, e quando a mezzanotte aprì la porta una
delle ragazze che viveva nel suo appartamento misto di studenti, il
ragazzo vergine considerò che era intelligente, aveva un viso
delizioso e le braccia nude.
Per fortuna lui era un bel ragazzo e d’improvviso si accorse del
modo in cui lei lo guardava. Delle due o tre ragazze che conosceva
un po’ di più, era l’unica libera. Così finirono a letto e lui stupì della
rapidità dell’iniziativa della ragazza e ancora di più nel sentirsi dire
che l’amava ed era stupenda.
Non avrebbe mai pensato a una soluzione del genere, fatto sta che
lei aveva risolto il suo problema in un battibaleno. Anzi ora esso gli
si mostrava in tutta la sua paranoia.
Dopo tre mesi di un idillio di poche parole e molti fatti, la ragazza
tornò a casa nervosa con un ragazzo americano che gli presentò,
dicendogli che sarebbe andata a vivere con lui nel Nevada.
Il ragazzo ne aveva visto la foto nel suo profilo, dopo una capillare
esplorazione nei cinque continenti. Era partito col primo aereo, si
411
era presentato a lei, dichiarandosi sfacciatamente, e così l’aveva
conquistata.
Venne a sapere due mesi dopo dalla mail di un’amica comune che la
ragazza aveva lasciato anche lui e che ora si era unita a un professore
di contrabbasso di Barcellona.
Il ragazzo aveva ormai ripreso a studiare e, gettando gli appunti su
una poltrona, si disse che finalmente aveva capito e poteva smetterla
di interrogarsi sull’animo femminile. Ripensando a situazioni
parallele e perpendicolari alla sua, comprese finalmente che poteva
rilassarsi e aspettare il momento giusto con tranquillità. Non stava a
lui infatti la ricerca. Sono le donne che sanno come cercare e come
trovare. E soprattutto sono loro a scegliere.
Fece la doccia, si specchiò, si trovò bello. Avrebbe avuto una buona
professione, benché all’estero. Non gli restava che mettersi in
piazza, ostentando autonomia e sicurezza, e soprattutto senza
nessun bisogno di correre dietro a qualche femmina. Tanto sono le
donne a scegliere. E l’uomo fa prestissimo a innamorarsi di chi si
innamora di lui.
Sempre che gli piaccia? Neanche questo è un problema: la donna
non si innamora mai di un uomo al quale sa di non piacere.
8 giugno
Lo spazio immenso rende così difficile che due anime gemelle si
incontrino. Ma che dire del tempo? Quarant’anni dopo di te nasce la
donna o l’uomo che è la tua verità, e non c’è più niente da fare,
perché l’abisso degli anni che vi separa è riempito dalla valanga della
società, con l’urto delle sue mille convenzioni, che travolge ogni
sentimento il più puro. Oppure l’uomo per te è vissuto
nell’Ottocento e la donna di cui potresti innamorarti vivrà nel 2300.
Lamenti con gli inferiori
412
Tu troverai sempre che il ricco si lamenta col povero, il bello con il
brutto, la madre con la donna sterile, il vincente con il perdente, il
famoso con l’ignoto e mai con qualcuno pari o superiore a lui o a lei
in quel campo, perché si aggraverebbe la competizione frustrante,
mentre crede di poter godere al contempo l’inferiorità dell’altro,
mostrandosi dolente e inerme, e quindi in apparenza sicuro dai
morsi dell’invidia. Mentre proprio così facendo la susciterà, insieme
al disprezzo per la sua ottusità nella sensibilità e cecità nella strategia
sociale.
Col risultato che non solo non potrà effettualmente godere in modo
mascherato la sua superiorità sul più debole, che non lo ammirerà né
consolerà, anzi lo odierà, ma non potrà nemmeno trovare lenimento
al suo dolore, che anzi si inasprirà per la manifesta confessione di
debolezza morale, che all’altro sembrerà ben più grave
dell’incomprensione da parte degli altri del suo supposto valore.
Cerchiamo chi sta peggio di noi non per consolare, per farci
consolare.
10 giugno
Pro e contro Ceronetti
Mi uniscono a Ceronetti, che ammiro come ogni raro uomo
fortemente individualizzato, il quale abbia inventato la sua vita,
sintonie radicali e antagonismi profondi, come ad esempio quando
parla malamente dei bambini, che proprio uno spirito giocoso come
il suo, crudele, tenero e guizzante come quello di un bambino, non
riesce a capire. È troppo bambino anche lui, perciò gli ripugna il
sentimentalismo verso di loro.
“(I ragazzini) liberàti da scuola e famiglia ritroveranno le ali
angeliche che gli furono tagliate insieme al cordone materno” (Insetti
senza frontiere, 237)
“Se sei amico della vita devi essere nemico della riproduzione
umana, Se ami gli esseri umani, guardati dal riprodurne la specie.”
(ivi, 260)
413
Queste due insensate affermazioni di Guido Ceronetti mostrano
come l’audacia del ribelle, chiudendo il cerchio, si congiunga con il
luogo comune più imbarazzante, mettendo in luce una viltà
deludente di fronte alle tre attività che richiedono più coraggio:
generare, formare una famiglia e insegnare (o imparare, che è lo
stesso).
Prendersela con la scuola oggi, quando tutti si sentono onniscienti e
padroni del mondo e i soli angeli feriti sono proprio quelli che
studiano e prendono la scuola seriamente. Accusare la famiglia di
tagliare le ali mentre per molti è l’unico modo per levarsi mezzo
metro da terra con un barlume d’amore. Scoraggiare la riproduzione
quando le coppie negano ai figli di nascere e il popolo europeo
sbianca in un inverno senza primavera, vuol dire giocare a fare le
veillard terrible. Quando puoi, per diventare un angelo ferito, le ali
qualcuno te le deve pur tagliare, e allora siano almeno la scuola e la
famiglia.
Il punto iniziale dell’innamoramento
Leggo un pensiero di Guido Ceronetti: “Possiamo vivere a lungo,
ma di tutti gli amori che abbiamo avuto e vissuto nessuno riuscirà ad
apparirci reale. Tanto accedere e abitare in corpi di materia svela alla
fine la sua immaterialità di sogno, si perde il convincimento che quel
che abbiamo perduto ci sia mai stato realmente dato” (Insetti senza
frontiere, p. 76). È un bel pensiero, è anche vero?
Più volte ho cercato di risalire al punto iniziale dell’innamoramento,
che è quello che decide tutto. Se infatti quello è reale tutto il seguito
dell’amore lo è.
E ho trovato che non sono riuscito a identificarlo, benché una
certezza atmosferica vibra in tutto il primo tempo dell’amore. C’è
stato e poi lo abbiamo dimenticato? Oppure non è un punto bensì
una scia, una vena, un campo amoroso (come un campo
elettromagnetico). Così la domanda: “Ho veramente amato?” fa
tremare perché partecipa della realtà e dell’irrealtà del fenomeno allo
stesso tempo. E la domanda: “Sono stato veramente amato?” fa
414
anche disperare, perché ci arrovella il dubbio che tutta la costruzione
affettiva abbia seguito un punto cieco, un Big Bang individuale
opinabile, una creazione inesplicabile e mai verificabile, perfino nel
fatto che ci sia veramente stata.
Potremmo fare l’inno alla creazione amatoria ma non saremmo
onesti, anche se magari saremmo innamorati. Potremmo dire che
solo chi ama ora sa se ha amato all’inizio. E che il nostro
interrogarci è segno espresso di disamore. Ma la cosa è molto più
delicata e complessa. Pause d’amore ci sono anche nei primissimi
giorni d’innamoramento e una lucidità analitica può congiungersi
benissimo con la passione più forte. Basti pensare al Diario del primo
amore di Giacomo Leopardi, al saggio sull’amore di Stendhal o alle
lettere di Eloisa e a tanti altri evidenti esempi.
Quello che a posteriori si può senz’altro dire è che prima di
innamorarsi si deve creare una mancanza, una situazione di fertilità
nella quale più o meno inconsciamente senti che innamorarti sarà
per te l’unica salvezza, un evento indispensabile, benché senza
ancora un volto preciso. E soltanto allora, se incontri la persona
giusta, ti innamori.
Più ancora della persona giusta quel che conta è il tempo giusto,
perché la cosiddetta persona giusta la incontri più di una volta senza
accorgertene, e senza una voglia speciale di continuare a vederla,
come capita a quelli che si frequentano da anni e solo un certo
giorno si innamorano.
L’irrealtà dell’amore, irrealtà che divora tutta la tua vita, cerca di
placarsi nell’evidenza sperimentale dell’atto sessuale. Ma questa
“prova d’amore”, questa prova che l’amore esiste e non ce lo siamo
inventati noi, è ingannevole. Dopo fatto, torna più bruciante di
prima la domanda se ami, se sei amato. E la gelosia rende
l’interrogativo ossessivo. È possibile che una persona ne ami
un’altra? Questa è la domanda del geloso, filosofo dell’amore,
scettico sull’esistenza dell’amore, e insieme smanioso di credere che
l’amore sia vero.
415
Io so di essere, o essere stato innamorato, se nessuno me lo
domanda. Ma se me lo domanda non lo so più. Non è che avevo
semplicemente il bisogno disperato di una donna? Non è che volevo
che la mia vista si semplificasse? Non è che godevo all’idea di essere
ammirato dagli altri in sua compagnia? Non è che la solitudine mi
era diventata insopportabile? Non è che mi piaceva soltanto farci
sesso?
Se sei innamorato tutto ciò non ti importa, perché non t’importa
sapere se ami veramente, visto che ameresti comunque.
Simultaneità in amore
Venire insieme durante l’atto sessuale è considerato il culmine del
piacere e il segno dell’armonia amorosa della coppia. Questo perché
è la simultaneità dell’innamorarsi, la reciprocità folgorante del
riconoscimento a essere garanzia di realtà dell’amore che, disfasico e
anacronico, potrebbe suscitare dubbi sulla sua natura genuina. Il
vero amore infatti non solo è sempre reciproco ma sempre
simultaneo.
Visto che ci siamo innamorati insieme, è naturale anche venire
insieme facendo l’amore.
Far durare l’amore vuol dire accettarne le sfasature, le diacronie, le
intermittenze, i gesti mancati, i silenzi, i vuoti: inglobare il disamore
nell’amore.
Se invece intendi amare nel senso più profondo come desiderio del
bene di un altro e, fra tutti, di quell’altro che hai eletto, o dal quale
sei stato eletto, desiderarne o averne desiderato il bene è una
certezza che puoi garantire anche a distanza di anni. Anche se
desiderarlo non vuol dire agire per conseguirlo, né tanto meno
averlo di fatto conseguito.
Noi infatti non sappiamo quale sia questo bene e perciò riteniamo
vero amore quello che lascia libero l’altro di intuirlo e perseguirlo a
modo suo, anche contro il nostro interesse. Se non si arriva almeno
416
una volta a questo, al massimo si scrivono paradossi brillanti ma non
si attinge l’amore.
Attingerlo del resto non migliora le cose. È anzi addirittura un modo
di arrendersi all’evidenza.
Amare è arrendersi mentre combatti per sopravvivere.
Le donne sono più capaci degli uomini di questo puro dono. Per
questo credono più di noi che l’amore esista, perché lo fanno loro.
Se sono io a fare qualcosa, questo non vuol dire che sia irreale e
soggettivo. Il tavolo l’hai fatto tu, non esisteva in natura, quindi non
è un vero tavolo. Questo discorso sarebbe assurdo. Vuol dire allora
che l’amore appartiene all’artificiale? Lo spirituale ha infatti in
comune con l’artificiale che non esiste in natura. Ma noi siamo in
grado di far diventare natura anche l’artificiale e lo spirituale. Se non
pensiamo questo dobbiamo arrenderci ad abitare da profanatori un
mondo sacro. Pensare in questo modo semplifica le cose e dà un
amaro senso di potenza intellettuale, ma ci deforma.
Il problema è definire il limite del sacro. Tutto è sacro ma ciascun
ente in modo limitato. E anche il tutto, in modo limitato. Se no
facciamo del mondo un assoluto e non ne usciamo più.
Ricordiamoci l’arte di recintare il sacro.
Quando hai una pena d’amore condivisa con una donna devi
cercare di far esporre lei e puntare sulla sua metà del dolore comune
per tirarti su tu. Giocare d’attesa, addossare sull’altra il dolore.
Strategie che già segnalano che soffri meno, che ami meno. Cose
che una donna non potrebbe neanche concepire.
In amore non è tanto la telepatia che sorprende ma il fatto che due
persone che non si vedono per un’intera giornata quando si
incontrano si ritrovano nello stesso stato d’animo, non perché si
specchiano l’una nell’altra ma perché la parabola del loro amore,
come nei tuffi sincronizzati, si è svolta, anche in solitudine, nello
stesso modo. E uno sa da sé come sta l’altra né per questo può
417
cambiare il modo di atteggiarsi, se non è finto, quasi l’amore
imponesse le sue curve
Si innamorano tra loro le persone che amano nello stesso modo?
L’amore fa saltare i soliti discorsi sull’identità e la diversità, perché tu
diventi l’altro diventando te stesso, quindi ti identifichi con colei che
si identifica in te, formando insieme un cerchio di identificazione in
cui vortichi, diventando te da donna mentre lei diventa te da uomo.
Ma inoltrando gli sguardi in questo moto rapinoso tu vedi che
invece lei è diventata più donna che mai mentre tu sei più uomo che
mai.
L’amore ti inabissa in un essere lei con dentro un’altra lei, perché
ogni volta che la vedi è diversa. Lo stesso capita alla donna, sicché si
può dire che soltanto nell’amore c’è l’uguaglianza perfetta dei
diversi.
Lutto per amore è come lutto per morte, giacché come l’amore è la
nascita di un essere nuovo, così la separazione ne è la fine.
Ma è un sentimento ingiusto, benché letteralmente vero, perché,
mentre morendo una persona cara, tu la rigeneri dentro di te ma non
puoi farle alcun bene più in questa vita, continuando a vivere la
persona cara, tu puoi sempre confidare nel suo bene terreno, anche
in tua assenza. E soltanto allora si vedrà se la ami davvero, e non
solo come fonte di piacere.
Sopporta una donna che altri godano il bene che scintilla dall’uomo
amato, in sua assenza? Dovrebbe essere una santa. O innamorata
tremendamente, continuando così a morire in vita.
Sopporta un uomo di amare una donna morta? Dovrebbe avere in
lei una fede pari all’amore per Dio. Cosa non affatto impossibile.
Numerare i pensieri
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Numerare gli aforismi, come si vede nelle opere di Nietzsche (per
mano sua? Ne dubito), vuol dire appigliarsi a un ordine aritmetico
formale, ben sapendo che questo modo di scrivere e pensare è
sempre minacciato da un intrinseco disordine benché alla fine, se
uno riesce a resistere in mare aperto, scopre di aver navigato dentro
un lago.
E tuttavia la numerazione progressiva, segnatempo della successione
dei pensieri, calendario di una quinta stagione mentale, inganna
ironicamente sulle relazioni numeriche interne di quello che si è
detto, le quali molto meglio sarebbero chiare in una mappa lungo la
quale si tendano tracciati in tutte le direzioni. Ma allora verrebbe
meno la sensazione mimetica del pensare in un corpo che vive
minuto per minuto e può saltare dall’Islanda al deserto africano,
dall’antica Grecia all’America di Obama, sempre seguendo la sua
sicura passeggiata di essere pensante qui e ora.
Apertura agnostica di Leopardi
Leopardi invece non numerava i pensieri ma, oltre alla data,
riportava la festa religiosa del giorno, il santo che veniva onorato. E
dicono che fosse ateo…
In tutta l’opera di Leopardi non c’è una professione di ateismo.
Molte di sperimentale apertura agnostica, di fronte alle possibilità
inimmaginabili che si aprono, e molte chiusure gnostiche, pur nella
pudica e delicata astensione dal nominare Dio quando attacca la
natura o “il brutto poter che ascoso a comun danno impera” oppure
nell’abbozzo dell’Inno ad Arimane. Che non diventa comunque mai
teoria filosofica globale.
Come può essere globale il cervello di un uomo con due braccia e
due gambe?
L’anonimo
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Miliardi di uomini sono vissuti e morti senza aver lasciato neanche il
più piccolo segno della loro esistenza, che sia sopravvissuto ai nostri
tempi. Dovremmo sempre tenerli presenti prima di pensare e
scrivere. Essi in realtà ci si presentano da soli, ma restando anonimi.
Allora cerca tu di diventare così anonimo quando pensi e scrivi da
poter fare in modo di essere degno di convivere con loro, che ti
ascoltino, che possano pensare che parli per loro, a nome loro.
Libri che danno la voglia di scrivere
Se avessi l’energia e la pazienza, dopo aver letto Insetti senza frontiere
di Ceronetti, potrei scrivere un libro altrettale non già di commento,
di critica e consenso, a quanto scrive ma fatto dei pensieri miei, che
lui ha messo in moto e da immaginazioni che ha risvegliato. Da
questo si può capire se un libro è buono: se ci dà voglia di scrivere,
se ci ridà la spinta a pensare in proprio.
Si può dire che questo può capitare anche con un libro brutto e
scritto male ma non è lo stesso, perché la nostra sarebbe una sequela
di critiche astiose, di correzioni risentite, di idee contrarie e sferzanti,
di recriminazioni per le torsioni utili a rimettere in squadra un
problema, o di fastidi per mettere colore sopra a colore, perché
sarebbe vano tentare di migliorarlo, e non avrebbe alcun senso
dimostrare che un quadro è brutto, pasticciandoci sopra, quando
puoi dipingerne uno migliore.
Per la poesia invece la regola non vale. Ci sono poeti che ti danno la
voglia di scrivere, come Rimbaud e poeti che te la fanno passare,
come Eliot.
Ci sono anche narratori sommi che ti fanno passare la voglia di
scrivere, come Proust, e altri che te la fanno venire, come Cechov.
Allora non è vero quello che ho detto sopra. Non è vero sempre.
Non è che qualcosa che è tutto vero debba anche essere vero
sempre.
Ci sono poeti su cui puoi scrivere all’infinito, come Montale, e poeti
su cui c’è poco da dire, come Umberto Saba, perché ha già detto
420
tutto lui. Per lui il poetico è nel suo dire stesso, è lui che compone e
suona. Montale invece scrive le partiture in modo che vibrino
all’ascolto, ma non le esegue per intero. Così la musica che ne esce
puoi eseguirla all’infinito, e ti sembra sempre diversa, anche se è
sempre uguale.
11 giugno
Torbidi nell’amicizia
L’amicizia più profonda e ferrea non è esente da violenti desideri
che la fortuna dell’altro si ridimensioni, ma soltanto quando supera il
livello che è considerato aureo per l’amicizia, non per cattiveria ma
per il sentimento di una sproporzione che potrebbe spingere l’altro
verso una perdita e una svalutazione del sentimento stesso
dell’amicizia.
E come dall’amore sboccia sempre la gelosia che sta in guardia per
intervenire ogni volta che l’altro è distratto da altre cure, non per
forza sentimentali, ma pure in campi all’amore aliene e inoffensive,
così nell’amicizia, specialmente tra affini, e cioè proprio nella specie
più alta, subentra una gelosia che fa salutare gli infortuni, qualora
non ledano l’acquisita solidità di un bene o di una fortuna dell’altro,
come salutari per un riequilibrio.
Ma la persona che li subisce ne ingigantisce sempre la portata, tanto
più si sente sicuro in quel campo, perché sappiamo che un
insuccesso ci ferisce più di quanto novantanove conseguimenti di
bene ci compiacciano, e si sente abbandonata proprio nel momento
del bisogno, mentre chi vive da amico la situazione ha sempre
presente la sintesi di fortuna dell’altro e la giudica nella sua
completezza, sicché sempre un singolo caso, se non incrina quel
tondo potere di bene che vede nell’amico, gli sembrerà abbastanza
secondario da poter richiamare all’altro la benefica necessità di una
sconfitta.
Guardati però dal dirlo espressamente all’amico, perché non c’è
amore, amicizia, sodalizio, fratellanza, comunanza, per quanto
421
duratura e idilliaca, che non possa venir stravolta da una sola parola
che traversi la sorte altrui con la disinvoltura di un detto giusto ma
anaffettivo. Verrà vista come lo spiraglio di infinite, inconsce, riserve
e di retropensieri coltivati nel tempo e infine traditi da quel giudizio.
Come ho più di una volta sperimentato in me stesso.
E questo a ragione, perché il potere di una singola delusione, tanto
meno siamo abituati ad essa, può gettarci in alto mare in un
momento, tanto poco crediamo nel nostro valore, benché tante
volte assicurato, e soprattutto nella nostra capacità di giovare ad
altri, il che soltanto ci darebbe la vera certezza di aver fatto qualcosa
di bene che conta. Se infatti qualcuno ci dicesse: “Così operando hai
fatto il mio bene” ecco che finalmente ci placheremmo, mentre se il
nostro valore è soltanto apprezzato e ammirato, resta sempre un
bene che si specchia in sé, e già per questo da sé si svaluta e
sminuisce.
Paradigmi nella scienza
Nella scienza, secondo le teorie di Kuhn, si tenta di insaccare tutto
ciò che si scopre in un paradigma scientifico, finché non si genera
un nuovo paradigma in grado di far tornare i conti e di spiegare un
maggior numero di fenomeni. La comunità monastica degli
scienziati che aveva difeso unanime una ortodossia, respingendo e
ridicolizzando ogni attacco ereticale, si converte alla nuova
dogmatica, promossa dai quei pionieri coraggiosi che si sono esposti
per affermarla. I dogmi scientifici però hanno il pregio di richiamarsi
sempre alla realtà, che aspetta l’occasione di smentirli e, domani o
dopo un millennio, la trova. I dogmi delle consorterie artistiche, mai.
Ed ecco che il mercato, ecco che la nauseante parola successo
risolve il loro piccolo problema.
Cosa vuol dire che nella scienza ci sono paradigmi, codici linguistici
e convenzioni? Mentre infatti le lingue del mondo sono migliaia e
nominano quasi sempre le stesse cose, dove si presentino,
riferendosi a esse, i paradigmi nominano le cose e diventano essi
stessi le cose, si sostituiscono ad esse, organizzandole, ma anche
rielaborandole e rigenerandole all’interno di un sistema di teorie.
422
Essere convenzionalisti, sempre considerano che una sola
convenzione, quella cioè non smentita e falsificata, resta valida, vuol
dire comunque, pur riconoscendo che la realtà è inattingibile nella
sua sostanza ultima, che è sempre essa a farla da padrona, vuol dire
ribattere e rimarcare che c’è una realtà in sé, sia pure come calco
negativo, senza la quale non potremmo mai decidere quale
convenzione è più funzionale e più adattabile ad essa, che resta la
sagoma vivente ineludibile della nostra sartoria convenzionalistica.
Storicismo poetico
Qualcuno pensa che anche per la storia della poesia debba accadere
la stessa cosa, che cioè vi sia una realtà ineludibile e una poesia più o
meno funzionale a essa. E in molti vanno ripetendo che un modo di
concepire la poesia è finito, che un modo di scrivere romanzi è
defunto, e si allega che i narratori di oggi si sono formati coi fumetti,
con la televisione, coi cartoni animati giapponesi, col cinema di
massa, con Internet, mentre prima ci si formava leggendo Goethe e
Leopardi, studiando Nietzsche o Sartre.
Questo effetto di modernariato patetico sta investendo anche
generazioni recenti di poeti e scrittori, come Mario Luzi, come Paolo
Volponi, che pure non hanno ignorato i tempi in cui vivevano, anzi
li hanno interpretati dal di dentro con coscienza e con furia. Solo gli
oggi viventi sono vivi, energici, smaglianti. Ma siamo sicuri che l’arte
poetica e letteraria invecchi col ritmo delle teorie scientifiche
sorpassate? E siamo sicuri soprattutto che il nuovo paradigma sia già
pronto ed efficace mentre dismettiamo il vecchio?
Potrebbe essere un semplice periodo di letteratura fiacca, come ce
ne sono stati tanti, da Omero in poi, senza paradigmi all’altezza delle
cose nuove. Letteratura che si distingue per l’inseguimento smanioso
della cronaca, senza una luce di sintesi sulla natura umana, fosse
pure questa natura in realtà una conformazione storica di lunga
durata. E nessuno ci costringe ad abitare soltanto i nostri tempi. Ma
in tutti gli altri ci troveremmo tra pochissimi solitari.
423
La cronaca accieca la storia.
Il mondo è diventato troppo artificiale per la letteratura, che è
sempre stata alleata della natura, non solo di quella verde ma
soprattutto di quella color carne, e che si è sempre tenuta lontano
dall’eccesso di informazione e di interpretazione che confonde e
soffoca quella decina di caratteri costanti che hanno distinto la
letteratura di ogni tempo.
Vera arte è infatti variare e articolare sempre gli stessi temi in modo
nuovo, dialettica del perenne e dell’attuale. Senza questa coscienza
della durata millenaria della natura umana non c’è arte. Come non
c’è senza la coscienza del modo tutto odierno di essere perenne.
Nessun artista reggerebbe a tanta spericolata inquietudine nel
cambiamento vorticoso senza sentire di appartenere al “sempre”
poetico e storico, di essere un figlio bastardo di Omero.
L’ironia di Sanguineti
Edoardo Sanguineti non perde occasione di ridicolizzare il dolore
lirico, il canto dei sentimenti, l’amore impossibile, l’invocazione
mistica, la contemplazione del paesaggio, la rivelazione poetante
della donna, il lutto in versi, e poi nelle sue poesie nasconde
abilmente quegli stessi temi che deride in prosa tra applausi e risate
di un pubblico ammaliato dalla sua arte recitativa e dal suo
montaggio avanguardistico, e che sono proprio quelli che
garantiscono anche ai suoi versi, nell’intreccio dei suoi giochi ironici
e linguistici, una vita credibile e intensa.
Amicizia tra libri
Frequento poeti e scrittori come fossero alieni, e mi domando: Chi
siete? Lo stesso si domandano loro di me. Nei momenti lugubri mi
sento alieno io e mi domando: Chi sono? Poi ci mettiamo a scrivere
e ce lo ricordiamo.
424
Questo non capita quando sono amici, non perché sono amici i
nostri libri, perché siamo amici noi.
Un libro non è amico di nessun altro.
12 giugno
Patto d’amore
Come venne in mente a Dio, che non l’aveva mai fatto, di creare il
mondo? E di creare insieme la creazione, perché non puoi inventare
il mondo senza inventare insieme la creazione. E di inventare il
tempo e lo spazio che, birbanti, hanno un valore retroattivo, e va a
finire che anche Dio, dopo averli creati, si ritrovò allibito a scoprire
la distesa infinita che aveva preceduto la creazione della sua
creazione del mondo.
In questi casi va da sé che l’impossibile è anche quello che è più
probabile che sia stato. Non capendoci niente andando per diritto
con la logica, per forza dovremo camminare con le braccia. Dio
allora non solo ha creato la creazione del mondo ma ha creato anche
se stesso. Quale Dio è mai infatti uno che se ne sta lì e non crea
niente, beato negli intermundia o cogitante se stesso felicemente? Dio
si autocrea e boom, ecco che nasce il mondo, un uovo di energia, di
luce, di calore, un embrione poderoso che scoppia e con tale
spaventosa potenza da creare a sua volta altri embrioni di universi,
che scoppiano anch’essi, e in un battibaleno ci sono miliardi di
universi, ciascuno con miliardi di galassie, ciascuno con miliardi di
stelle.
L’avesse saputo prima l’avrebbe fatto prima. Del resto che si
aspettava? Basta un solo clic a Dio, un accenno del dito e si spalanca
una distesa di miliardi di anni luce, una espansione esplosiva di
spazio, tempo, luce, calore, energia, intelligenza. E in effetti era
davvero troppo, se continuava così in dieci minuti di universi ne
esplodevano talmente tanti che Dio poteva pure cominciare a
sentirsi un po’ solo. Aveva sottovalutato la sua potenza, forse perché
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essendo uno non aveva confronti e, essendo perfetto, non aveva mai
sentito il bisogno di vedere cosa c’era sotto la sua perfezione.
Così gli venne un’altra idea. Scelse uno di questi miliardi di universi
che nessuno poteva contare, perché si moltiplicavano come le
cavallette, e dentro di esso una dei miliardi di galassie e dentro di
essa una dei miliardi di stelle e le mise di fronte un pianeta, un
puntino infinitesimale, che lui stesso faceva fatica a vedere
aguzzando lo sguardo e dentro quel pianetino, il più piccolo che
riuscisse a concepire, all’opposto di quella sconfinata estensione di
materia, come un miniaturista geniale, lo popolò di milioni di ometti
microscopici e articolò meravigliosamente la vita in ogni sua forma,
non trascurando di trasformare la natura con tale finezza e
ingegnosità da farla diventare un’opera d’arte a cielo aperto.
Trasse più soddisfazione da questo lavoro di altissima arte
miniaturistica sull’infinitamente piccolo che non con la gettata
dell’infinitamente grande, così che decise di completare l’opera con
un tocco di ironia geniale: questi microscopici ometti sarebbero stati
i soli a poter conoscere la sua opera, sia pure di riflesso, in parte e
nei suoi effetti fisici più prossimi, e rendersi conto almeno di una
minima porzione di uno degli universi in cui erano collocati.
E quale fu la sua gioia quando vide che questi ometti, spuntati fuori
dalle scimmie e da altri animali che gli era venuto il vezzo di animare
si misero a trasformare loro stessi il pianetino, riuscendo a dipingere
opere d’arte e scolpire statue che in nessuna altra parte dell’universo
neanche lontanamente si potevano immaginare.
E si mettevano a pensare anche a Lui, in un modo infantile e
ridicolo che lo riempiva di tenerezza. Scatenavano guerre atomiche,
non rendendosi conto che si uccidevano tra loro e fuori
dell’atmosfera del loro atomo nessuno se ne accorgeva, e
costringevano miliardi di persone a morire di fame e altri miliardi a
lavorare tutto il giorno per sopravvivere. E alcuni di loro, pochissimi
e buffissimi, si credevano potenti e si pavoneggiavano con ville e
auto di lusso, di un milionesimo di millimetro più grandi e più
lunghe delle altre.
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E in mezzo a quella baraonda divertente e tremenda di ometti
indaffarati, con un ingegno che rilanciava nell’infinitamente piccolo
il genio del loro creatore, un giorno vide una ragazza sola che dalla
finestra guardava il cielo notturno a mani giunte pregando e, per un
momento, si senti anche più piccolo di lei, vertiginò dentro di lei e
credette per la prima volta di capire qualcosa della sua solitudine e
del perché aveva creato se stesso e quei miliardi di universi. Fu un
secondo, pauroso o meraviglioso, entrò nella verità, sorrise, e se ne
dimenticò. Ma non fu più lo stesso. E neanche la ragazza. E neanche
il piccolissimo mondo. Quel patto d’amore fu irreversibile.
12 giugno
Tre inchini per Kant
Kant si è premurato di rendere la filosofia scientifica come la
matematica e la fisica e ci è riuscito, al prezzo di renderla del tutto
formale: lo spazio e il tempo sono nostre intuizioni, i concetti sono
nostre forme organizzative. l’Io penso perfino è un modo di
funzionare del nostro pensiero. Soltanto il combustile deriva
dall’esperienza ma siamo noi a mettere in moto l’automobile
filosofica. E chiederci come sarebbe il mondo indipendentemente da
noi sarebbe come chiederci com’è la notte al buio assoluto. Per
saperlo dobbiamo accendere i nostri fari ma, accendendoli,
illuminiamo la notte della nostra luce. O notte assoluta o filosofia
relativa al soggetto. Né possiamo puntare i fari verso l’auto stessa e il
suo motore, se non con un’altra auto, facendoli diventare oggetti
sensibili, cosa che non sono e non possono essere
Viaggiamo allora con un’auto invisibile oppure la illuminiamo come
fosse una cosa fatta di materia.
Tre inchini a Kant per ogni sua Critica e per la qualità stupenda della
sua intelligenza civile ma la filosofia conoscitiva allora che cosa
aggiunge a quanto del mondo già ci dicono la fisica, la matematica, la
biologia?
427
Ci spiega essa soltanto come funzionano e su quale intelaiatura
stanno in piedi: è allora una filosofia della scienza? Della filosofia
ancilla scientiae?
La filosofia della scienza non è vero che non serve a niente. Essa fa
ribollire la testa dei fisici, in modo da invogliarli a rompere i loro
schemi.
Il vero scopo della Critica della ragion pura non è di conoscere una
qualsiasi cosa prima ignota ma di definire il campo del conoscibile,
una preoccupazione eminentemente giuridica e da legislatore. Kant è
come Montesquieu, che ha distinto i tre poteri e, definendo i limiti
della ragione conoscitiva, ha aperto la strada a una società liberale.
Il primato della ragion pratica, il valore assoluto della morale infatti
non è mai discinto, benché si debba fare ciò che è giusto soltanto
perché è giusto, e benché si consideri un qualunque scopo già
condizionante della purezza della volontà morale, da una qualche
idea di bene sociale e comunitario.
Lo stesso imperativo categorico: “Agisci in modo che la massima
della tua volontà possa agire come fondamento di una legislazione
universale” presuppone una lunga serie di valori e di contenuti
morali impliciti: il valore della vita, l’uguaglianza tra gli uomini,
l’ordine sociale, la pace, la sicurezza. Tutti contenuti questi, e non
forme a priori della giustizia.
Il che rafforza la convinzione che Kant elabori una morale assoluta
essa stessa funzionale, nel suo candore geniale, a una società pacifica
e prospera, profondamente umana e serena, visto che il fondo del
suo animo non è né quello dell’uomo della conoscenza né quello
dell’alfiere della morale intransigente e pura del singolo individuo,
bensì quello del legislatore attento alla vita comunitaria e socievole.
Kant è soprattutto un casto ed equo magistrato del genere umano,
che distingue i poteri giuridicamente e sentenzia con benevolenza e
onestà, dando a ciascuno il suo. Magistrato di cause civili, anzi
civilissime, vista la fiducia ferma e costante, pedagogicamente
incrollabile, benché amara, in noi animali salati.
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Essere salati o zuccherati: due tipologie umane. Non solo Kant, tutti
i filosofi sono salati. Come i poeti. I narratori invece sono salati o
zuccherini.
Geografia kantiana
Kant ha insegnato geografia fisica per trent’anni, nei semestri estivi,
che oggi si fanno al mare, considerando anche una geografia
matematica, morale e addirittura geologica. Non c’è da stupirsi allora
che abbia voluto darci, nella Critica della ragion pura, una mappa del
conoscibile. E ha definito che das Land des reinen Verstandes, la terra
dell’intelletto puro, è un’isola: das Land der Wahrheit, la terra della
verità.
Intorno a essa l’oceano tempestoso dell’apparenza dove nebbie fitte
e ghiacci in liquefazione “danno a ogni istante l’illusione di nuove
terre e, incessanti ingannando con speranze vane il navigante che
erra in cerca di scoperte, lo trascinano in avventure alle quali non
saprà mai sottrarsi e che non avranno mai fine”.
Anche in questo caso è evidente il primato della ragion pratica, cioè
della morale, sulla ragion pura, sulla conoscenza, giacché il monito è
quello di restare sull’isola e qui costruire edifici stabili e abitabili,
mentre l’umanità non ha fatto altro che avventurarsi per mari
insicuri, esplorando tutto il globo e così facendo però delle terre le
ha ben trovate.
Anzi si può dire che questa metafora continua di Kant finisca per
attestare in piena coscienza che la terra della verità, nel globo
vastissimo, non è che un’isola che la gran parte degli uomini ha
abbandonato, per esplorare tra ghiacci e nebbie, salvo farvi ritorno
dopo millenni per scoprire che appunto era quella la terra tanto
cercata ovunque e senza requie.
Una volta fatta la scoperta, come Kant stesso era sicuro che sarebbe
accaduto anche dopo la sua attestazione, essi sono ripartiti, non
trovandola sufficiente ai loro mezzi e desideri, e tanto più è rimasta
429
un’isola abitata da pochissimi, per giunta lontanissimi tra loro,
giacché si tratta di un’isola filosofica i cui abitanti sono sparsi nel
mondo.
O si tratta anche di un’isola politica, di una società fondata sui sensi
e sull’intelletto puro, ormeggiata al mondo fenomenico, volta alla
edificazione di una vita attiva e pacifica in essa? Questo Kant si è
messo a immaginarlo, votandosi al progetto della pace perpetua,
attestando così, da uomo buono e onesto (caso rarissimo in un
genio) che anche restando nell’isola l’immaginazione galoppa, i sogni
si accavallano, le illusioni politiche e morali si sfrenano.
L‘analogia geografica, estesa alle tre Critiche, per cui la conoscenza,
la morale e il sentimento sarebbero tre terre, con sopra il cielo
inattingibile della metafisica, non soddisfa come non poteva
soddisfare Freud la struttura della psiche vista come una topica, con
l’isola dell’io cosciente al centro e intorno l’oceano impersonale
dell’inconscio da bonificare metro per metro.
Conoscenza, morale, sentimento sono tre forze, tre potenze, tre
energie, non tre terre o tre città nelle quali entrare o dalle quali
uscire, lasciandole per forza alle spalle quando si va in un’altra.
Da tempo ci accorgiamo che c’è una sola immensa metropoli,
conoscitiva, morale, sentimentale, un solo paesaggio globale dentro
il quale costruire isole e isolette sparse, conoscitive, morali,
sentimentali. E che l’oceano avanza.
16 ottobre
Tu devi quindi tu puoi
Il primato della libertà sussiste per Kant nell’ordo essendi, che precede
per importanza l’ordo cognoscendi, e tuttavia Kant non scrive: “Tu puoi
quindi tu devi”. E cioè che, visto che sei libero, allora è tuo dovere
obbedire alla legge morale. Egli considera infatti che molto spesso ci
accorgiamo di essere stati liberi a cose fatte, attraverso il rimorso.
Denunciamo un compagno sotto tortura, perché ci sembrava di non
poter fare altrimenti e, ritornati in cella, ci accorgiamo di averlo
430
liberamente tradito, avendo anteposto la nostra vita alla sua. Ed
entrambe alla legge morale.
Ci si domanda allora quale libertà sia quella di cui non riusciamo
neanche ad accorgerci al momento giusto. Ma il punto è che Kant
formula il comando dicendo: “Tu devi quindi tu puoi”, perché è
grazie al comando etico che scopri quando serve che sei libero. Un
imperativo che Schopenhauer ha trovato un ferro fatto di legno,
giacché o devi necessariamente o liberamente puoi.
Soltanto che non devi nell’ordine della necessità fisica ma in quello
della necessità morale. E tuttavia tale necessità viene percepita
dall’uomo torturato tutta al contrario, come necessità fatale di
tradire per salvare la pelle, tanto che il rimorso stesso, quando
incorre, si presenta anch’esso come un sentimento nobile,
lancinante, sia pure, ma astratto. Giacché quell’uomo, di nuovo
torturato, di nuovo avrebbe tradito.
Altri invece hanno resistito a bocca chiusa fino alla morte. Ma come
sapere mai se lo hanno fatto per una scelta morale? C’è chi
semplicemente ha più fegato, più carattere, è più ostinato o troppo
sensibile per fare danno a un altro. Ci sono uomini infatti che il
comando etico lo sentono e altri che non colgono per niente la sua
voce. Anche per il dovere morale vale allora il discorso che puoi
accorgertene soltanto dopo la prova, oppure mai.
Senza ignorare il fatto che un comando del genere non dovrebbe in
alcun modo presumere la conoscenza delle opere di Kant, che ce lo
insegna, ma essere inscritto nella natura. Cosa che non è. Sappiamo
tuttavia di eroi della resistenza che proprio grazie allo studio di Kant
hanno trovato la forza di essere morali a sacrificio della vita e di altri,
analfabeti, che hanno dimostrato una tempra anche più salda.
Il comando kantiano “Tu devi quindi tu puoi” pertiene allora molto
di più alla dimensione dell’amore, del quale possiede tutta la spinta
paradossale e irresistibile, quando si manifesta. Non un ferro fatto di
legno, bensì un sangue fatto d’oro.
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Motore immobile
Nella attuale e grave crisi economica non si rallenta in nessun modo
né si pensa di cambiare strada. Si manda solo il motore al massimo
dei giri mentre sta immobile sul cavalletto.
La trappola del generoso
Un amico mi dice che è stanco di andare sempre incontro agli altri,
prendendo l’iniziativa di telefonare, di salutare, di ascoltare e
risolvere i loro problemi. Quando lui si sente solo invece nessuno lo
chiama e lo cerca perché li ha abituati male. Se tu sei più vivo, gli
rispondo, è giusto che continui ad essere tu a risvegliare i sentimenti
e le coscienze degli altri.
Mi ascolta sconsolato, il punto è che ha finito lo energie ma la
produzione del film della vita lo cerca soltanto in quel ruolo in cui
tutto lo conoscono.
L’uomo generoso che entra in crisi è il più noioso che esista e io
cerco di disimpegnarmi quando lui mi dice: “Dammi una mano tu,
usciamo insieme.” E io scopro che non ne ho nessuna voglia. Lui è
sopportabile solo in quanto generoso.
Il generoso è colui che è abbastanza forte da esserlo, e perciò viene
invidiato per questa forza, che è giusto che paghi, quando non ne è
più all’altezza, non sovvenendo ai suoi bisogni.
Il massacro delle illusioni
Leopardi parla del massacro delle illusioni in un’epoca troppo
razionale e civilizzata, che oggi stanno rinascendo selvagge in una
società tornata irrazionale nel modo più caotico ed egocentrico,
mentre si sta sterminando la sensibilità. Oggi le illusioni non sono
più massacrate ma ci massacrano esse, perché vengono usate dai
potenti.
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Col vecchio muore più vita
Quando muore un bambino una breve storia se ne va con lui,
quando muore un vecchio una lunghissima vita, e quindi pietà e
dolore dovrebbero essere più forti. Così sentivo anch’io con
naturalezza quando ero giovane. E ora invece sento il contrario,
come quasi tutti, forse perché stimo meno la mia stessa vita
invecchiante? O perché, conoscendone il valore terribile, compiango
chi non l’ha vissuta?
È l’oblio il nazismo più crudele
Quando scrissi il verso: È l’oblio il nazista più crudele, mi riferivo più di
vent’anni fa a quello che adesso sta accadendo in modo massiccio
senza che nessuno se ne turbi. Ogni disposizione memoriale viene
vista come malata e senile, come una forma di debolezza e di
isolamento, come se i vivi potessero attingere la loro energia
soltanto ad altri vivi, come se fossimo tutti in gara tra noi, nel
campionato mondiale di vita, e tutti i record stabiliti in passato dagli
oggi morti, benché largamente superiori a quelli dei vivi, fossero
comunque decaduti una volta entrati nel cimitero.
Malinconia dei libri
Basti vedere l’atteggiamento indotto nei più giovani verso i libri.
Soltanto alla vista li coglie un’indefinibile malinconia, la sensazione
che siano oggetti passati, a meno che non li abbia scritti qualcuno
che sia vivo, di cui tutti parlano e che trasmetta loro la sensazione di
essere al centro di un campo energetico attuale.
Tabù della morte
Si dice che oggi c’è il tabù della morte, che invece è un pensiero
continuo e assillante, esorcizzato di continuo, osteggiato con analisi
e cure diuturne. Il tabù reale è invece quello dei morti, ed è segno di
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energia vitale minima non essere capaci di rivolgersi ad essi,
chiedendo soccorso e offrendosi di darlo.
Memoria madre dell’etica
Se proprio insisti per la tua strada, se ti incaponisci nella memoria,
che è la madre dell’etica, perché mette in relazione i comportamenti
nel tempo e non soltanto nello spazio, costringendoti a una scelta
coerente, allora che tu muoia in pace da solo. Così sentenziano gli
immemori.
Tolleranza senile
Cioran dice che la tolleranza è un segno di senilità, perché chiunque
ama e odia è vigoroso e non è tollerante. La democrazia stessa allora
è un fenomeno senile, come si vede anche dal fatto che si perde la
forza di approfondirla nel tempo, nella sua storia e nelle conquiste
faticose e sanguinose che ha imposto e la si sviluppa soltanto nello
spazio, nel confronto tra regimi contemporanei, nella tolleranza per
tutti gli oggi viventi. La democrazia diventa così l’alibi per tollerare
tutti coloro che vivono e operano al suo interno, mentre odiosi
sarebbero soltanto i servi dei regimi assolutistici e soprattutto i loro
padroni.
Ciò che equivale a compiangere l’assassino e non la vittima, soltanto
perché ormai è morta.
Ma quanta violenza, ingiustizia, spietatezza, aridità, indifferenza
subumana c’è nelle democrazie? Bene, dobbiamo tenercela tutta,
perché almeno abbiamo il governo del popolo, cioè il governo dei
vivi. Dovremmo invece imparare a farci governare dai morti.
L’individuo assoluto
L’individuo che nelle democrazie non conta niente adora il leader
carismatico, il tiranno mediatico, il padrone del suo stato,
esprimendo così, per interposta persona, la sua fede cieca nel valore
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assoluto dell’individuo. Io non conto niente ma lui che comanda
tutti e tutto mi dà almeno la soddisfazione di vedere un individuo
sopra ciascuno di noi.
È vero che gli italiani pensano soprattutto al loro particulare, come
scriveva Guicciardini nei Ricordi, con parole che valgono tutte per
oggi, come quando definisce la folla un animale pazzo, ma questo è
anche una reazione all’assoluta impotenza che viviamo, al nessun
conto che il nostro voto, parere, la nostra idea della vita e della
società può detenere. E questo vale anche per i leader politici che,
come individui, non contano niente tranne uno.
Apocalisse
C’è un ciclo delle forme di governo, come diceva Tucidide, una
anakylosis, come scriveva Polibio, che però è diventata lentissima,
bimillenaria, per questo non ce ne accorgiamo. La democrazia nei
prossimi cinquant’anni sarà spazzata via, pur restando nelle forme,
in tutto il mondo occidentale. Non andrà a votare quasi nessuno e
l’autorità di pochissimi uomini deciderà il destino di tutti. Le
violente sommosse, le rivolte, le bombe terroristiche si
moltiplicheranno in modo aritmico e verranno stroncate con eserciti
di professionisti, non appena l’acqua, il petrolio, il gas, tutte le forme
di energia verranno meno ma, nessuno cedendo o rallentando, solo
con lotte cruente ci si disputerà il diritto di illuminare a giorno un
pianeta in guerra perenne.
Le guerre più sanguinarie saranno trasparenti e la maggior parte
degli abitanti ne negherà l’esistenza, finché l’apocalisse invisibile non
avrà deformato tutti i cuori che non si riconosceranno nella
condanna, sentendosi innocenti.
Allora pian piano, tra sole e sterco, nel sonno, nella fame, nella sete,
nel pianto, feriti e mutilati, pesti e sfiancati, i sopravvissuti
ricominceranno a spingere la ruota. Il sole continuerà a brillare e le
donne salveranno la specie, alleate di una natura che, benché essa
stessa presa soltanto dalla volontà di sopravvivere, mentre troppi
vorranno distruggere, proprio per questo solo tornerà nostra madre.
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Essere apocalittici è gratificante ma rivelare un terribile futuro, che
in realtà è un terribile presente, è lecito soltanto con estrema purezza
e limpido desiderio di bene. Tu ne sei posseduto?
Pensieri firmati e non
Ci sono pensieri firmati, di marca, e pensieri di buon tessuto ma
anonimi che può indossare chiunque sia onesto e abbia uno stile.
Coi primi ti senti sempre l’autore addosso, coi secondi cammini
sciolto e non importa più chi ha fatto la maglia. Io preferisco i
secondi.
Con i pensieri firmati, sia pure da uno scrittore e pensatore di valore,
la responsabilità dell’autore diminuisce di molto, è lui che ci si rivela,
che esprime i suoi umori, i suoi paradossi, le sue iperboli, nel modo
più colto, brillante, veemente. E quando lo incontri a tu per tu
troverai facilmente un uomo di poche parole, che eviterà il
confronto. Se ti attenterai a dissentire in pubblico, tutti ti
guarderanno con un sorriso indulgente, perché non hai capito in
quale senso lo diceva, e in quale clima stilistico, e per reagire a quale
opposta tendenza. Non hai capito che fuori di quello stile il pensiero
è tutt’altro, che esso cadeva in quel punto, prima di questo pensiero
e dopo quell’altro, che c’era una luce particolare, una temperie
esistenziale speciale, che rientrava in una tradizione dissacratoria,
che spesso in lui una parola vuol dire il suo contrario. Insomma non
ne caverai un ragno dal buco perché chi scrive pensieri firmati ne è
geloso come di un distillato tutto suo, e troverai che disprezza sia
chi è d’accordo con lui sia chi è contrario.
La verità Gadda
Si dirà che proprio questo, se non è filosofia, è letteratura; che c’è la
verità Gadda o la verità Montale. Ed è vero, ma soprattutto c’è la
verità detta da Gadda, detta da Montale. La partenza è firmata ma
l’arrivo è anonimo.
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Come quando si leggono testi di canzoni senza la musica, le parole
perdono senso, così certe frasi poetanti, fuori del ritmo della prosa
di Gadda, diventerebbero banali: “Oh! vi doveva pur essere, sulla
terra di tutti i dolori, un giardino profondo, lontano, silente, dove
solo fossero sognanti alberi in un loro comune pensiero e
lucidissime stelle!” (La meccanica, p. 36)
Oltre al ritmo, ciò che conta è il suo particolarissimo pensiero libero
indiretto, attraverso cui ghermisce la mente di un personaggio
sviluppandone i meandri segreti e creando un effetto parodico,
come quando qualcuno ci cammina alle spalle, facendo aderire le sue
gambe alle nostre e camminandoci appiccicato esattamente come
facciamo noi.
E così fa con il semicolto, con lo sboccato alla moda, col
meridionale che vuole fingersi milanese, con chi parla per
eufemismi. E tutto questo ghermire, questo immedesimarsi, questo
ricalcare la camminata, appiccicandosi alla vittima, gli costa tanta
fatica che non ci vedi nessuna protervia ma un maledetto
involontario dolore fraterno.
Chi scrive pensieri del secondo tipo, non firmati, invece è in grado
di dialogare e di difenderli, di argomentare ramificandoli, di
soppesare le obiezioni, di spiegare da quale prospettiva l’ha detto,
anche se nell’intimo si stupisce che ci sia bisogno di articolare ancora
quello che gli sembra del tutto chiaro. Anche per lui (o per lei) va da
sé, lo stile è decisivo ma incorpora carnalmente, organicamente o,
almeno, in modo vegetale e floreale il significato, e persino il senso.
Perché in entrambi i casi i pensieri, benché rotti, staccati e
smembrati, hanno sempre un senso di marcia, circolare o lineare
che sia.
Aforismi
Non si può contraddire un aforisma: prendere o lasciare.
Per questo io non li amo, neanche quando li scrivo io, in specie
quando sono uno dietro l’altro, battenti e sentenziosi. Essi usano
437
frecce false per colpire il vero o frecce vere per colpire il falso.
Hanno una loro utilità perché ci scuotono ripetutamente,
rimettendoci in moto dalle nostre ipnosi e dai torpori ma non
possiamo dire che non siano antipatici.
A volte, neanche l’autore sa esattamente come, centrano
perfettamente il bersaglio. Il gesto rimane impuro, troppo goduto,
aristocratico, violento, benché indispensabile a sopravvivere, e resta
al suolo come un bossolo fumante, ma la preda ce la mangiamo
volentieri a casa. Uno scrittore di aforismi infatti è un cacciatore di
prede quali che siano, perché ha paura di morir di fame. Mentre
leggi vedi il suo carniere. Hai voglia poi a voler essere vegetariano. Si
colpiscono e mangiano pensieri come se fossero uomini in carne ed
ossa, si è logocidi e logofaci.
Tifo passivo
Nella politica italiana si sperimenta un’anomalia: il tifo passivo.
È vero che la democrazia italiana ci ha profondamente deluso. In
realtà c’è un’oligarchia al potere, con il consenso passivo dell’uomo
massa e il dissenso passivo di una minoranza dei due terzi della
popolazione, molti dei quali sarebbero pronti a tifare passivamente
per un’oligarchia opposta. Ma la democrazia è come la medicina
preventiva, ci mantiene in uno stato di salute approssimativa, che ci
sembra scontato e insufficiente, perché non riusciamo neanche a
immaginare le malattie terribili in cui cadremmo se non ci fosse.
Il chirurgo che ci salva la vita con un’operazione in extremis è di
certo più ammirevole e salvifico ma la prosaica tutela da terribili
disgrazie dittatoriali, di prepotenze e umiliazioni mostruose che oggi
neanche concepiamo è dovuta al modesto medico della mutua
democratica, che con ostinazione pedante impedisce che saggiamo i
grandi mali, romantici a immaginarli, e desolanti e tenebrosi a
viverli.
Vero è che nessuno sano si è mai contentato di essere sano se non è
vecchio dentro e fuori, e noi indubbiamente in Italia siamo vecchi.
438
Ecco che il dittatore mediatico eccita gli animi, facendo balenare
sullo schermo le voluttà eccitanti della dittatura, che tengono desto il
corpo senile dell’Italia con continue minacce e prepotenze,
suscitando la gratitudine dei cittadini che vivono in una democrazia,
pur saggiando i piaceri morbosi di essere ingannati, truffati,
comandati, asserviti, tipici delle dittature.
Quando il più potente non servirà più per questo teatro della
dittatura così profondamente terapeutico per chi non sa più sognare
neanche un simulacro di società alternativa, verrà gettato via come
uno straccio.
Rischioso sentenziare sui grandi
Rischioso sentenziare in modo lapidario e apodittico su Pascal e
Leopardi, come fa Ceronetti. Non è il mio un semplice monito di
non giudicare per non essere giudicato, perché altrimenti nessuno di
noi penserebbe, anche se quell’esortazione è indispensabile nel
modo più sottile anche al fine di ben pensare. Ma è la coscienza del
rischio smaccato, che anch’io corro di continuo con leggerezza, di
sedersi su un piatto della bilancia quando dall’altra c’è un pensatore
non solo tanto più ricco e sfaccettato, per cui puoi sempre trovarci
affermazioni contrarie, o che temperano e correggono quel detto
che tu critichi, in modo più maestoso e illuminante. Ma anche
perché tanto più visceralmente cosciente del doppio e triplo salto
mortale della coscienza, della doppia e tripla lama di ogni detto.
L’incomprensione di un paesaggio vastissimo, nelle sue quattro e più
stagioni, che si pretende di comprendere con una sintesi
meteorologica artificiale, come quando Ceronetti scrive che
Leopardi culmina in una quiete altissima e sepolcrale, mentre invece
ovunque guizza la sua malinconia ribelle, come la definì Walter
Benjamin, in una recensione ai Pensieri; o quando imprende una
difesa strenua della filosofia contro Pascal, che invita a s’en moquer,
quando proprio questo gesto, essendone l’apice Zen, è filosofico, è
un falso movimento del pensiero che ci deve incoraggiare alla
prudenza, a placare la nostra sete fittizia di onnipotenza quando si
pensa all’arma bianca.
439
A me stesso: Il pensare breve scatena le endorfine come una gara di
velocità. Ma le endorfine, godendo, non per questo hanno ragione.
Scrivere non letto
La condizione perché io possa scrivere questi pensieri è che nessuno
li legga. Basta che immagini un lettore senza volto perché già mi
pieghi il braccio contro il suo gesto naturale. Se penso poi a un
nome preciso, esso mi compare come un giudice straniero o come
un amico troppo fedele. E sarebbe come se un bambino riuscisse a
crescere già sapendo quando verrà potato o sradicato. E tuttavia il
bambino nel suo istinto solitario non crescerebbe mai se non
sapesse che darà gioia a chi lo guarda o l’ombra fresca di un
conforto o la compagnia della sapienza naturale, benché in nulla
potrà cambiare la sua vita.
Per gli esseri reali
Difendere la filosofia, vivere per la poesia, esaltare la conoscenza,
cantare l’amore, votarsi alla fede, sono tutti falsi movimenti.
Esistono solo filosofi, poeti, scienziati, la donna o l’uomo amati, il
Dio persona. Non scambiamo la freccia con la preda. Piuttosto
diventiamo noi preda.
Amare la carta, le sillabe, le impressioni d’inchiostro carnale, la
sacertà del libro, tutti modi sensuali per traviare il diritto, o sinuoso
che sia, amore per gli esseri reali.
Contro il nominalismo e contro il realismo: la realtà non esiste,
esistono i reali.
Ogni donna è una rivelazione, gli uomini lo sono solo ogni tanto.
15 giugno
440
Genio dell’adolescenza
Insegnando da trent’anni, anzi, per trent’anni, perché finché faccio
questa esperienza essa mi è tutta contemporanea, mi accorgo di
come a sorpresa, per due o tre anni, si formino generazioni
superiori, quasi perfette, dotate di uno stile raffinato. Ragazze e
ragazzi delicati e ironici, responsabili e assolutamente seri. Si
disperderanno nella società, serbando sempre il loro timbro di
onestà, finezza e senso dei valori. Sono gocce d’oro che la natura
secerne perché abbia sempre un senso scavare nelle miniere.
Esistono mesi o anni geniali nella vita di ogni uomo, tra i quindici e i
vent’anni. E fortunato chi li può scoprire in sé e negli altri, e chi
impara dalla bocca e dallo sguardo di quei ragazzi qualcosa che non
trovi in nessun libro e in nessun’altra esperienza delle donne e degli
uomini.
Benedetto Croce ha scritto che chi continua a scrivere poesie dopo i
diciott’anni è un grande poeta o un grande cretino. La realtà lo
smentisce.
Eguaglianza delle vittime
Dire, come è giusto, che la Shoah è toto coelo diversa da qualunque
altro genocidio non vuol dire che gli ebrei siano morti più morti,
vittime più vittime di tutte le altre. Altrimenti anche questa sarebbe
una forma di razzismo.
Dolori fisici e spirituali
Coloro che non vogliono fare figli sono milioni e le ragioni sono
talmente tante che addurre egoismo e paura non basta. Ma dire che
uno non procrea perché non vuole far soffrire un’altra persona
come succede a lui, o a lei, è da cialtroni allo stato puro.
La sofferenza è tanto maggiore quanto più viene negata la nostra
libertà, di vivere, di muoverci, di parlare, di pensare, e quindi è ovvio
441
che sono i dolori fisici quelli più gravi (anche se un dolore solo fisico
non esiste), i dolori per cause fisiche. I dolori spirituali e morali,
quelli filosofici e letterari, nella misura in cui restiamo liberi di
vivere, muoverci, parlare, pensare, lo sono molto meno, così tanto
meno che un grande sofferente, un sofferente professionista, un
retore del proprio dolore è sempre leggermente inattendibile e
ridicolo, è palese che “ci sta marciando”, che “la sa raccontare”, che
sta tentando la metamorfosi di dolore in piacere attraverso la
filosofia e la letteratura. Cosa per niente facile, ma che non ci
commuove, semmai strappa un silenzioso applauso.
Certe cose non le diremmo mai in pubblico, in un’aula, in
un’assemblea, a una platea televisiva o radiofonica e nemmeno tra
conoscenti a una cena o durante una passeggiata. Non le diremmo
neanche ad amici e parenti o alla moglie, al marito, ai nostri sodali e
compagni di vizio o di partito. A chi le diremmo? Ai lettori. La
libertà di parola sta diventando la libertà di sussurrare segreti
perturbanti e di confidare terribili verità all’orecchio che cerca il
brivido della trasgressione e il piacere dell’intimità intellettuale. In
questo campo ci sono alcuni maestri sussurratori, nemici della
democrazia, dissuasori di vita, persuasori di astinenza sessuale,
esaltatori dell’immorale vigore della natura banditesca, dispregiatori
della specie umana.
I pudichi e ipocriti perbenisti della democrazia di massa leccano di
nascosto idee che sarebbero corrompitrici in una scuola, fasciste in
un’assemblea e demoniache in una parrocchia e ti porterebbero al
linciaggio mediatico, e invece diventano eccitanti e titillanti nella
solitudine in cui l’uomo massa va in cerca dei suoi antenati
aristocratici.
Dice che non si dovrebbero mai far figli. Esiste al mondo un solo
uomo e una sola donna che non li abbia fatti perché ha letto il suo
libro? No. E allora a che serve dirlo? Perché non si limita a non
procreare senza il bisogno di una propaganda che non prenderà un
solo voto?
Il fatto è che discorsi apocalittici, negatori del genere umano,
scandalosi, distruttivi, o che la distruzione in atto svestono e
442
smascherano, ci sono indispensabili. Non solo per tenerci giovani:
non dimentichiamo che i ragazzi di continuo dissacrano e
sputtanano a parole tutto ciò che la società inclina a imporre o a
consigliare. Non solo per tenerci liberi, perché a furia di indulgere gli
uni agli altri finiamo per essere banali mammiferi spelati, brutti,
malinconici e fessi. Ma proprio per ricordarci che siamo uomini,
gente che un giorno (perché non è stato Prometeo) rubò il fuoco
agli dei, che morì perché altri fossero liberi, che costruì il Tempio
Malatestiano, che resistette contro il nazismo, che sputò sulla scuola
dei padroni, gente che insomma aveva un fegato, un cuore e un
cervello, e che oggi vedi passeggiare in questo ospizio di superstiti
che è diventata l’Italia, affondati in una melma di bugie, terrificati
dalla voragine che buca il cemento armato e l’asfalto, e ci risucchia
come una pompa aspirante dei rifiuti umani. Sveglia.
Per questo spiriti di robustezza selvatica, sotto la pelliccia culturale
folta e morbida, pieni di aculei e scattanti, come Cioran, uno che è
sempre scoppiato di vitalità, nutrendosi allegramente e
acrobaticamente del terribile, sono indispensabili, come uno schiaffo
dato da uno che ti vuole bene, come la lotta tra ragazzi, come la
crudeltà condivisa a turno, se il branco degli amici resta alla fine
alleato e leale. Ci svegliano il sangue nelle vene. Poi ciascuno ne farà
ciò che può, generalmente molto poco.
Il campione della sofferenza
Se soffro, allora che io sia almeno il campione della sofferenza, non
dico mondiale ma almeno locale, regionale, stagionale. Che gli altri
sappiano che nessuno soffre come me, che nessuno ha ragioni così
profonde come le mie per soffrire, che fin da piccolo soffrivo, e non
per ragioni occasionali ma che precedevano ogni caso che mi
capitasse, per la forza stessa della mia sensibilità, che mi rendeva
scontento di tutto, e sempre più ho sofferto e soffro, per qualcosa di
universale, di radicale, di incurabile, tanto che ogni giorno vorrei
morire ma non mi uccido perché la mia stessa sofferenza me lo
impedisce. E costruisco un grandioso sistema di sofferenza con il
quale dominerò il mondo soffrendo, e voi non potrete farmi niente,
se non riuscirete a convincere tutti che soffrite più di me. Cosa
443
impossibile perché io, da quando sono nato, sono specialista del
dolore e conosco tutte le pieghe della recitazioni e le sfumature
dell’arte. E se voi invece ve la godete, almeno statemi sotto e
abbiate paura di me.
Gente che non soffre mai
Schopenhauer scrive che la sorte di tutti è la stessa, oscillando tra il
dolore e la noia, e che, così stando le cose, nascere re o essere
mendicante è lo stesso. Straordinaria terapia dell’eguaglianza, le sue
parole ci consolano e ci calmano: non vale la pena allora scaldarsi
tanto. E tuttavia, frequentando poco troppe persone, mi avvedo che
esistono creature che non soffrono mai, salvi i casi in cui capita loro
qualche brutto guaio o lutto o disdetta, cosa che magari per venti,
trent’anni non capita, e quando accade, comunque la fronteggiano,
se ne rialzano senza fare troppe scene, perché hanno una soglia del
dolore morale molto alta.
Ho visto persone restare le stesse attraverso la morte del padre nel
giro di pochi giorni o dimenticare la moglie che li ha traditi nello
spazio di una settimana, come niente fosse. Ho visto persone
durevolmente contente e soddisfatte, che non si sono mai annoiate
né deluse, di invidiabile buonumore e compattezza, che digeriscono
anche i sassi. Per loro le teorie di Schopenhauer sarebbero
incomprensibili. Esse servono a un tipo umano molto circoscritto,
incline a soffrire neanche sa bene per cosa, sprofondante facilmente
ma anche ribelle e orgogliosa, per la quale Il mondo come volontà e
rappresentazione è come un farmaco, un rosario laico, un rituale
magico, una psicoterapia.
Ma non raccontiamoci favole, tra un re e un mendicante nessuno ha
mai scelto: il primo ha ereditato, il secondo è stato eletto.
Una rivelazione sconcertante: la volontà di vita cosmica di
Schopenhauer non puoi che chiamarla amore. Ne ha gli stessi
caratteri terribili. Arthur non scrive in cifra, ascolta il demone che gli
guida la mano.
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Soldati
Se rinascessi mai più vorrei tornare ad essere io. Se rinascessi vorrei
rifare la mia vita esattamente identica. Chi vi pare qui l’uomo forte?
Chi sposereste, donne?
Soldato della vita, te la consegnerò dentro la bandiera ripiegata, così
come me l’hai data, non macchiata, inconsumata.
Comunque ti tratteranno, amica, qualunque cosa penseranno di te,
tu starai sempre dentro la tua vita, dentro il tuo cuore, dentro la tua
intelligenza, potrai nutrirti di te, contemplarti, soffrirti, goderti. No,
non dire che per tutti è così.
Nonostante Dio in persona abbia mandato satana per tentarmi, io
ho chinato il capo e resto una persona integra e buona: così un
amico serenamente mi dice. Che terribile presunzione, come si frega
da solo. Sì, che coraggio però, che franchezza.
C’è nel metodo nella mia bontà.
Un poeta ottantenne mi disse: “Non dimenticatemi”. E da allora
non ho più letto un suo verso. Avesse detto: “Non ti dimenticherò,”
ora starei col suo libro in mano.
Gli antichi erano molto più forti e vitali di noi, perché erano più
giovani, scrive Leopardi. E infatti anche oggi i ragazzi sono
incomparabilmente migliori di noi, anche i peggiori di loro.
16 giugno
Prospettive dell’amore e dell’odio
L’amore opera da sé la distinzione tra il peccato e il peccatore,
odiando il peccato al massimo, perché ha colpito malignamente
l’amato peccatore. La donna che vuol bene a un ladro o a un
dipendente da droghe odia con tutta l’anima il suo vizio
445
personificato e attentatore dell’anima pura dell’amato. Chi odia
invece distingue anch’essa peccato e peccatore, vedendo il peccato
così in astratto che gli sarebbe inconcepibile anche considerarlo
esistente e odiando invece appunto il peccatore, che quel peccato fa
esistere in sé, che diventa quel peccato in forma mostruosa e
irredimibile.
Odiando proprio lui fino alla morte, cioè finché non muoia o al
punto da ucciderlo, non si pensa di combattere il male che lui
incarna, di contribuire a una pulizia morale della società ma di
annientare la singola persona, in modo del tutto indipendente dal
problema morale. Proprio come l’amore, l’odio, arriva a un eccesso
oltremorale, e come l’amante vuole che colui che ama sia così
l’odiante vuole che colui che odia non sia.
Antologia liturgica
Qualche anno fa è uscita un’antologia in cui si parlava della poesia
come di una religione, e ogni testo presentato, senza distinzione di
fama ma soltanto di intimo valore, diventava come l’offerta di
un’ostia. Gli officianti erano i curatori e non i poeti, come in ogni
antologia, che è sempre liturgica e istituzionale, ma allora, se sono
loro a dare le ostie ai poeti, non si dovrebbero negare a nessuno, e
fare un’antologia di centinaia di migliaia di pagine, tanti sono oggi gli
scriventi che vanno a capo liberamente. Se sono invece i poeti a dare
la loro ostia di una religione che li vede come unici rappresentanti,
siamo sicuri che la loro poesia sia profumo formato dalla stessa
Poesia, la quintessenza simile alla religione, di cui si parla
nell’introduzione?
Potrebbe essere una soluzione, a patto sempre di essere esonerati dal
culto: migliaia di poesie, migliaia di religioni, migliaia di devoti.
Come mai altrimenti a certi incontri letterari si forma questo clima
liturgico, si distribuiscono ostie invisibili, la voce si fa tremula alla
lettura quando non proviene da orchi dell’Acheronte, un
imbarazzante clima adolescenziale, con un vago odore si sperma e di
vagina commossa, turba anche gli attempati ascoltatori. E si
rievocano sogni e desideri falliti, gioventù abortite, i pallori
446
parabolici della seconda vita sotto la quale si sono fatti figli,
comprate case, aggiustate tende, guadagnati soldi, goduti risotti
nell’unico ristorante della città che li abbina con i vini giusti.
I poeti non dovrebbero curare antologie, a parte l’imbarazzo di
includersi e la castrazione di escludersi. Come i pittori non curano
libri d’arte, i musicisti non curano compilation, per la ragione
elementare che un artista non potrà uscire dalla sua idea di
letteratura o di musica che a prezzo di una cancellazione temporanea
della propria arte, di una rinuncia a essere se stesso, o altrimenti
trasformerà l’antologia nel libro che avrebbe voluto scrivere, avesse
avuto cinquanta personalità e cinquanta teste sotto il suo comando
di direttore d’orchestra poetante, creando un libro di poesia
collettivo.
Un’antologia non si misura in base a coloro che include ma in virtù
delle sue esclusioni. Devi leggerne mille per sceglierne venti, trenta,
quaranta. E se l’inclusione viene sempre argomentata e salvata
spesso con riserva o dubitando o temperando il valore, l’esclusione è
sempre secca, tagliente, senza appello e muta.
Logico che il critico autorevole o spericolato che si imbarca in
un’impresa del genere, se non gode di un sadismo sottile, stia sulle
spine mentre lavora, soprattutto se vive in una società di scambi,
conoscenze nell’orto, battute e ammicchi con amici e sodali, e
diventa un bersaglio immobile dopo, a meno che non sia così tanto
rispettato da essere odiato ma senza avere i mezzi per nuocergli.
L’incluso avanza dubbi cauti o sferzanti sulla compagnia, all’escluso
restano due strade. O dirsi: Sono l’unico, inidoneo a qualunque
comitiva poetica. Oppure: Sono l’appartato, l’outsider, il selvatico che
non entra nei palazzi editoriali.
Anche il giudice letterario deve essere giudicato e dimostrare di
avere il valore per svolgere il suo ruolo. Altrimenti chi non sa far
nulla e non ha mai dato prova di nulla avrebbe facile gioco a
scatenarsi contro o a favore di coloro che qualcosa hanno provato a
fare.
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In Italia i poeti giudicano i critici come gli imputati vogliono
giudicare i giudici? Non è la stessa cosa, tranne quando, cosa non
rara, una poesia è palesemente un reato, o come tale ravvisabile.
19 giugno
Italiani multietnici
In Italia ci sono tanti popoli ed etnie: gli appassionati di calcio, di
moto, di automobilismo, i patiti di musica pop. I tifosi del Partito
democratico, i tifosi dell’Italia dei valori, i tifosi del Popolo delle
libertà, i cacciatori, i vegetariani, i macrobiotici. Anche tra i cattolici
ci sono tanti popoli: i parrocchiani di stretta osservanza, i
neocatecumenali, i ciellini, ciascuno con proprie usanze, riti,
convinzioni, caratteri. Sono etnie così definite culturalmente e con
tratti psicologici così ricorrenti che al confronto le differenze degli
italiani rispetto ai peruviani, ai rumeni, agli slavi, agli africani sono
molto minori. E questo perché l’immigrato già cambiando patria si
apre al cambiamento, è disposto a mettersi in gioco con una cultura
nuova, automaticamente si confronta, perché è una necessità,
mentre il tifoso del Milan non passerà mai all’Inter, il ciellino non
diventerà mai neocatecumenale, il fan di Vasco Rossi non ascolterà
mai Gigi D’Alessio, perché non ne ha e non ne avrà mai nessun
bisogno.
Stagioni senza casa
Ogni stagione ci richiede un faticoso accasamento e, quando ci
siamo finalmente ambientati, si passa già alla stagione successiva.
Quando viene l’inverno, le giornate si accorciano e la luce si fa nera,
il cuore si stringe e la nebbia fa paura, finché piano piano vi si trova
un senso di intimità, si fa una vita più ritirata e il venir della sera
acquista un raccoglimento che dà calma e serenità.
Ma già urge la primavera tanto attesa, che promette gioia solo con lo
spianarsi della luce, eppure quando incombe si diventa nervosi e
irrequieti, e la casa, faticosamente costruita, trema alle esigenze
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indeterminate di uscite e di avventure che mettono ansia e restano il
più delle volte appena abbozzate, finché finalmente, dopo il primo
colpo di ambigua vitalità, che dà un languore indecente e
ingovernabile, come si entrasse indebitamente in calore, si impara a
cogliere la sua promettente poesia non già in vista di uno scopo che
sfugge, ma di per se stessa, e ci si accasa nella nuova stagione e nella
sua giovinezza involontaria, della quale non ci sentiamo mai più
davvero all’altezza.
Siamo grati al sole tiepido e ai paesaggi incerti tra nubi ventilate e
varchi di sereno e già arriva l’estate. Subito troppo calda e troppo
umida, con una luce violenta che ci costringe di nuovo a scasare.
Dovremmo uscire più spesso e progettare viaggi proprio quando
avevamo cominciato ad apprezzare gli ozi banali di una passeggiata
senza pretese nel profumo dei tigli. Cominciamo a rimpiangere la
severa intimità dell’inverno e le sue giornate laboriose di rinuncia ma
il sole ci chiama fuori, ci ordina di vivere più fortemente e di
affrettarci a godere quello che durerà così poco, perché già scrosci
improvvisi e giornate temporalesche, come squarci di inverno
dentro l’estate, ci ammoniscono che ogni lasciata è persa e bisogna
cogliere l’occasione al volo per una nuotata o una gita fuori porta.
È appena cominciato agosto che già tutti dicono, con un sottile
piacere masochistico, che l’estate è finita, che è vicino l’autunno, che
tutto già sta decadendo. Già ad agosto i campi di girasole, sbocciati
appena le ginestre perdono a giugno i loro fiori gialli, bruciano e
anneriscono come un cadavere dell’estate, che minaccia i ritardatari
appena partiti per il viaggio. E ci si dispone all’autunno e all’inizio
del lavoro con un misto di desiderio e di paura.
Così ogni anno traslochiamo quattro volte da case che abitiamo
troppo brevemente, migranti del tempo e del meteo che sognano la
casa perfetta della quinta stagione, della casa della salute che non
esiste.
Le donne sensibili al clima
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Le donne sono in genere molto più sensibili degli uomini al clima e
più inclini a percepirne gli effetti, anche minuti, sul loro corpo, e a
descriverli in modo analitico. È impossibile per molte di loro che il
clima sia mai quello giusto. Anche se dichiarano generalmente di
preferire il freddo al caldo, d’inverno si lamentano di continuo
perché non è mai il tipo di freddo da loro prediletto. Comunque
trovano sempre la stagione più fredda o meno fredda del giusto e, se
proprio non trovano una causa precisa del loro malessere
meteorologico, preferiscono tacere. Il vento le fa innervosire, non
solo per il suo comportamento irriverente verso i loro capelli, e se
viene da terra dà mal di testa, se viene da marina è gelido e fa venire
il mal d’orecchi. Con l’umido le chiome si rovinano e tutto il corpo
diventa appiccicoso. Troppa luce dà fastidio agli occhi ed esporsi ai
raggi fa male alla pelle. La penombra però è cimiteriale e in casa
manca l’aria. Aprire le finestre fa entrare l’aria calda ma tenerle
chiuse la rende guasta.
Questa sensibilità spiccatissima per ogni minima sfumatura della
temperatura, della luce, dell’umidità dipende forse nelle madri dalla
assistenza dei figli neonati, esseri delicatissimi da proteggere e
salvaguardare da ogni sbalzo traumatico, ma perdura poi tutta la vita,
al punto che fa strano che le donne, considerate istintivamente dai
più molto più vicine alla natura di noi, siano poi così
straordinariamente protese a difendersi dalla madre comune e
vivano in perpetuo allarme contro ogni disposizione ed effetto
climatico.
Le donne non sposate o che vivono sole sono molto più asciutte,
sbrigative e meno sensibili a tutti questi effetti.
Le ragazze scrutano il loro corpo alla ricerca di foruncoli, macchie,
arrossamenti. Sondano la diversa levigatezza della loro pelle,
individuando i punti più teneri: l’interno del polso e
dell’avambraccio, l’incavo dei ginocchi, il collo. Si tastano dietro
l’orecchio e tra il mento e il labbro, sotto gli occhi e sulla punta del
naso, sapendo alla perfezione dove la pelle è più o meno grassa,
dove più sensibile e più sorda.
450
Questa confidenza col corpo le diverte e le fa scherzare tra loro e
con i ragazzi, che imparano da loro a scoprire il proprio corpo, e
restano sorpresi da un’infinità di veridici segreti che non avevano
mai considerato. Per esempio di avere anche loro dei capezzoli o un
ombelico diverso da quello di tutti gli altri o una forma delle unghie,
giudicata insolita, e a loro vedere normalissima.
Questa attitudine però non è espressamente erotica e può diventarlo
solo in certi casi, e come preambolo agli atti amorosi, essendo la
sensualità femminile più duttile e liberamente distinta da quella
erotica, cosa che molto più difficilmente si riscontra nei ragazzi.
Signore
Signore, fai il bene delle persone care. Signore, fai il bene. Signore,
fai il Signore!
Ma dovrei io invitare Dio a essere Dio? Non è meglio allora
chiedere: Signore fa’ che io faccia il bene degli altri, cioè intervieni
sulla mia libertà, orientala, spingila! Ogni preghiera è una libera
rinuncia alla propria libertà.
Questa espressione - Signore - è molto singolare. Vuol dire padrone
signorile? Vuol dire sire, regnante? Non è bello allora che ci si
rivolga a Dio come al nostro Signore. Non ci sarà nascosta dentro
l’eredità dello schiavo che supplica il proprio padrone? Di certo sì.
Ma c’è anche la rivolta libera dello schiavo che dice: Io ho un unico
Signore, e non è il mio latifondista, non è il mio capo terreno.
Quello non lo pregherei mai. Che ci sia un capo più alto di ogni
capo terreno diventa così liberatorio.
Rinuncia cattolica alla felicità
Il cattolicesimo è rinuncia alla felicità. Dico alla felicità, non
all’allegria. Se non si comprende questo non si comprende nulla. E
neanche il carattere ruvido di molti credenti giovani e la severità
rugosa di molti credenti vecchi. Il dolore, considerato sempre al
451
culmine della sua violenza, al parossismo, è sempre ricorrente nelle
confessioni delle mistiche, che si fanno un punto d’onore nel
sopportarlo fino alle estreme conseguenze. E l’estasi, l’esaltazione, la
gioia furibonda che provano, altrettanto forti, non hanno niente a
che vedere con la felicità, e sono il dolore stesso sfoderato,
svaginato, sbucciato. Forte dolore e forte godere sono l’opposto
dell’atarassia, della felicità possibile in terra.
Ma anche e soprattutto nella media la rinuncia alla felicità e la
conseguente sobrietà, misura, medietà, lo scetticismo, a volte il
sadismo, più o meno manifesto, sono tutte conseguenze di questa
innaturale rinuncia.
Le cattoliche non credono all’aldilà
Rivelazione sconcertante: la gran parte delle donne cattoliche
praticanti credono in Dio, credono in Cristo, credono nella Chiesa,
credono che sia bene credere ma non credono affatto che esista una
vita dopo la morte. Esse hanno capito che essere cattoliche è per
loro il modo migliore di vivere in questa.
La prova? Chiedi a una di loro se una persona cara a entrambi,
morta, continua a vivere, parla di paradiso o della vita serena che
adesso fa, le vedrai tacere in imbarazzo e guardarti con aria
vagamente compassionevole, e insieme indispettita. Non si fa, non si
dice, sono cose di cui non si parla. È evidente che non ci credono.
Un tempo le donne cattoliche erano molto più sensuali, perché
vivevano il contrasto peccaminoso nella loro carne. Oggi di carne
non si parla più. Le cattoliche sono diventate più intellettuali e
astratte, e la vicenda drammatica della lotta dell’anima e del corpo,
che vedeva vincere entrambi con buona coscienza, in un pareggio
eccitante, è diventata una faccenda pratica, psicologica, e a volte
farmacologica, che non interessa più nessuno.
22 giugno
452
Tre parti dell’anima
Nella Repubblica di Platone si identificano tre parti dell’anima:
irascibile o ardimentosa, concupiscibile o passionale e razionale, che
è la più alta e propria dei filosofi. Ciascuno di noi possiede tutte e tre
le componenti ma in base a quella che domina saremo destinati a
una delle tre classi: soldati, mercanti e governanti filosofi. Nel Politico
i caratteri diventano due: quello attivo, pratico, combattivo e quello
conoscitivo e contemplativo. Lo stato può essere giusto soltanto
grazie al bilanciamento oculato dei due caratteri, nell’arte della giusta
misura, detta metretrica.
Questa riflessione sui tipi umani, intesi come caratteri definiti alla
nascita, è diventata secondaria nella teoria politica, convinti come si
sono detti tanti pensatori che negli stati artificiali la natura nativa e
innata degli uomini finisse per contare poco, di fronte al
dispiegamento massiccio dell’educazione istituzionale, scolastica,
familiare, religiosa, politica, lavorativa, e insomma si piegasse
facilmente travolta dalla falange sociale. Ma l’osservazione
quotidiana degli uomini ci dimostra tutto il contrario, che il carattere
di una persona, non solo è immutabile nel novantanove per cento
dei casi, ma si trasfonde nel ruolo sociale, imprimendogli una
direzione precisa e oltrepassante valori, dogmi, finalità ed esigenze
della sua funzione.
Scienza dei caratteri: questo è un corso di studi universitari
indispensabile.
C’è un tipo umano destinato alla vita parrocchiale, pastorale e
addirittura a un filone ben determinato di cattolicesimo. Ce n’è un
altro comunista già dai primi anni, c’è il dipendente aziendale e il
commerciante, c’è l’insegnante e il medico. E tutti sono già definiti a
due, tre anni, già alla scuola materna, come se esistesse un piano
sociale, attuato dalla natura, che programma i caratteri a seconda
delle esigenze per ricoprire le varie mansioni.
In questo progetto a priori alcune figure sono più mobili in
apparenza: musicisti, artisti, scrittori, attori, registi, saggisti, grafici.
Ma se andiamo a guardare più attentamente, anche essi sono
453
preordinati a un qualche ruolo sociale indispensabile e predefinito, a
meno che non vogliano proprio sfuggire loro al destino segnato,
trovandosi così ad essere persone oneste, sincere, drammatiche e
prive di una funzione precisa.
Governo segreto della natura
Non possiamo pensare che la natura, con l’affermarsi delle civiltà,
abbia abbandonato il compito evolutivo che continua a svolgere
pienamente nel conservare e distruggere le specie animali e sarebbe
davvero sorprendente, se si potesse accertare (cosa purtroppo
impossibile) qual è la sua incidenza nel far sì che nel mondo
nascono, che so io?, centomila banchieri, qualche centinaia di geni
dell’informatica, un paio di milioni di delinquenti e qualche decina di
milioni di donne destinate a ridare vigore e fiducia al genere umano.
Persone oneste e disoneste, talentuose e ottuse, sarebbero così
distribuite in ogni campo perché la specie non si estingua, mentre
ciascuno di noi crede di aver scelto la sua professione e il suo ruolo
in modo del tutto libero.
Mia madre mi disse: “Noi apparteniamo a una razza di insegnanti.”
E questo dopo soltanto due generazioni di donne, essendo io il
primo uomo. Eppure io mi dimentico del tutto del mio lavoro non
appena esco di scuola. Infatti la natura mi ha orientato per farlo e
quindi ho rispettato il compito evolutivo, o il dovere sociale, ma
senza immergervi tutta l’anima. Questo compito infatti mi ha
risucchiato con insolita violenza, anche se io non ho mai voluto
farlo. La natura mi ha reso impossibile vivere da scrittore perché a
quel punto gli serviva un insegnante. In modo magnanimo poi mi ha
consentito di essere scrittore nelle ore libere dall’insegnamento,
stando soltanto attenta che non guadagnassi abbastanza da smettere
di insegnare.
24 giugno
Non puoi andare d’accordo con tutti
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Questo è un modo onesto di ragionare: Io vado avanti per la mia
strada, voi andate avanti per la vostra: dubito che ci incontreremo
mai. È ora di finirla con il bluff scandaloso per cui tutti possono e
debbono andare d’accordo con tutti, che tutti si possano mettere in
rete e che tutte le donne e gli uomini possano convivere in una festa
universale. Ci sono persone che spero di non vedere mai più
neanche da lontano e capisco bene, anzi desidero, che per altri sia io
l’indesiderato.
Incontrare certe persone in un libro è già abbastanza ripugnante, ma
abbattersi in loro dal vivo è peggio di un pugno sul naso. Se uno
pensasse questo di me e mi evitasse potrei essergli soltanto grato.
Se mi impegno a non fare male a nessuno di costoro, cosa che mi è
imposta da un dovere morale al di sopra dei miei impulsi più bassi e
violenti, mi ritengo libero di pensare di loro liberamente il male
possibile, senza che possa essere accusato di cattiveria. Io non solo
non faccio nulla per perseguire il loro male infatti, ma non lo
desidero né lo auguro. Cerco soltanto di tenerli lontani il più
possibile da me. Non è molto?
Gli insulti
Desueto è definire qualcuno “ignorante” nel senso di volgare,
arrogante, prepotente, rozzo, tutti vizi giustamente, nella sapienza
popolare, associati all’ignoranza. Quello che ad esempio nell’italiano
popolare classico suonerebbe: “Quanto sei ignorante!” oggi
universalmente suona: “Quanto sei stronzo!”
L’espressione del disprezzo più profondo consiste oggi in questa
parola, che ha sostituito “testa di cazzo”, nella quale si può percepire
ancora un residuo di considerazione, una complice indulgenza,
almeno per la vitalità rozza, e il riconoscimento della qualità robusta
e primigenia del carattere dell’insultato.
“Testa di cazzo” è un insulto che si può pronunciare anche con
disprezzo malinconico, con un sibilo, quasi assaporandolo tra i
denti, senza nessun compiacimento o inconfessabile apprezzamento
455
per la vitalità animalesca messa in atto in modo perverso. In questo
caso denota un misto di energica stupidità e di furbizia selvatica, che
arrivano a un amalgama particolare, a quel dosaggio quasi da
manuale esattamente combaciante con la definizione, al punto da
attrarla e da esigerla in modo automatico, ma sussurrato.
Stupefacente che il cazzo, da noi maschi tanto tenuto in pregio e
ritenuto blasone di potenza e di prestigio, venga usato come l’insulto
più sprezzante.
“Stronzo” denota invece colui che fa del male con ottusità e
arroganza, se ne accorge, e nonostante questo continua a farlo, per
un’esuberanza incontenibile e immedicabile dei suoi vizi, ormai
tutt’uno con lui al punto da diventarne la sostanza più propria.
Questo processo è proprio del resto di tutti gli insulti, che
addebitano una qualità dell’azione a sostanza e natura dell’agente,
metamorfosi giudicata così irreversibile da sboccare nella condanna
a morte dell’insulto. “Tu sei tutto scemo”, in luogo di “Tu hai fatto
una grossa scemenza”.
Una frequenza, o una ricorrenza persistente, dell’agire viene
percepita come l’essere stesso.
“Stronzo” è l’insulto che i giovani scagliano addosso più spesso. Se
colpiti, del resto, essi lo fronteggiano con la massima disinvoltura,
curandosi più dei fatti contestati che non della magia nera e fecale
della parola, tenendo a freno l’immaginazione.
Tornano a usarla donne e uomini di età matura e avanzata, che
invece però, se colpiti, barcollano seriamente, e lo vedono come un
segno di rottura irreversibile o di umiliazione viscerale, dando essi
più peso alle parole che non ai fatti, o forse essendo dotati, per
ragioni storiche, di un’immaginazione più vivida, quasi precipitando
nel gorgo cloacale, anche per ragioni superstiziose e feticistiche.
Mentre corre nell’arco di una vita circa un ventennio di pudicizia, dai
trenta ai cinquanta, in cui tale uso appare disdicevole e sminuente la
sintassi purista delle illusioni. Dal che ricavo che si vive circa un
456
ventennio in cui ci si illude di poter vivere in un mondo che le
buone maniere e il fair play riusciranno efficacemente prima o poi ad
addomesticare.
I vecchi non usano dire “stronzo”, perché si sentono troppo umiliati
nel fisico e trovano più gentile, anche verso se stessi, rivolgere
soltanto insulti che puntino al morale e allo spirituale, essendo tutto
ciò che è anatomico un monito alla loro decadenza.
Ma perché questa parola ha raggiunto tale fortuna? La cacca in sé
non è meritevole di un disprezzo così violento, che segnalerebbe
semmai la persona fobica e pericolosamente incline a purezze
immacolate, visto che per ore ed ore, o per giorni e giorni, la cacca
può stazionare dentro di noi grazie alla morsa del retto e, quando
scappa, imbratta e appuzza il corpo di barboni e di papi.
Una buona relazione, anche verbale, con la cacca, è indizio semmai
di persona sana, concreta ed equilibrata. Italo Calvino ad esempio la
pensava in questo modo.
A parte l’ovvio fendente metonimico che riduce un uomo ai suoi
escrementi, c’è qualcosa di ancora più offensivo, in questo come in
qualunque oltraggio: è la sintesi vergognosa che viene compiuta di
un uomo con una sola parola. Con tutta la tua storia e il tuo infinito
affannarti, tu rientri tutto in una breve parola che finisce nel cesso:
morte da vivo ingloriosa.
Questa tristezza della sintesi intacca anche la lode che, per quanto ci
compiaccia, ci immalinconisce sempre, anche perché una vita ricca
di opere, una sequenza di attitudini messa alle prove migliaia di volte
non produce altro che un solo aggettivo o nome, benché azzeccato
o benigno.
Anche le donne si incazzano, non si “inficano”, che suona deforme,
e, specialmente le ragazze, usano “cazzo” come intercalare. Ma ciò
non significa che esse facciano proprio un modello maschile di
reazione, come se la rabbia, la volgarità rude ma efficace, la
secchezza nell’esprimersi vengano assimilate e accettate dalle donne
perché esse adottino, quando ci vuole, il modo di fronteggiare le
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avversità dei maschi. Semmai esse si appropriano, senza nessuna
malizia, ma in uno stato di coscienza neutro, di una reazione
aggressiva maschile, in loro più asciutta e meno torbida,
accettandone il codice solo sul piano linguistico, per svuotarlo del
carattere istintivo e cieco di legame tra aggressività e istinto sessuale.
Uno sciocco è un “cazzone” nell’uso nazionale, uno che dice
“minchiate”, in siciliano (da minchia: sesso maschile), ma è un mona
in veneto, parola che indica il sesso femminile. Una bella donna è
“una gran figa” ma un bell’uomo non è “un gran cazzo” bensì “un
gran figo”, e non per pudore femminile ma per dire: “Guarda che
quello che provate noi maschi per noi, lo proviamo noi femmine per
voi”. “Bono”,”bona” alludono all’impulso gastronomico del sesso,
al mordere, gustare, leccare, assaporare.
A me non piace usare il verbo “incazzare” come segnale che la mia
rabbia va oltre lo sdegno medio. Molti lo usano infatti non perché
siano fisiologicamente arrabbiati, e infatti lo dicono in modo sciolto
e disinvolto: “Non sono arrabbiato, sono proprio incazzato.” Perché
non va bene usare le parole più volgari e istintive come segni. Si
dovrebbe dirlo solo nel pieno di una rabbia reale, come sfogo,
altrimenti fai teatro. Gi altri intendono infatti: “Sono così arrabbiato
che arrivo a dire le parolacce.” E diventa così qualcosa di snob e di
poco credibile.
27 giugno
Pensieri pensati e vissuti
I pensieri si distinguono in pensieri pensati e pensieri vissuti. Ecco
un esempio del primo tipo:
Quando sei giovane gli impulsi buoni sono molto più veloci di quelli
cattivi, che invece nascono proprio da un rallentamento artificiale e
ragionato, indotto da altri o dalla situazione minacciosa, della prima
spinta naturale. Il contrario capita quando sei dalla banda simmetrica
e opposta alla giovinezza, quando gli impulsi cattivi sono diventati
immediati e naturali e per pensare il bene di qualcuno devi rallentare,
458
fermarti ragionando e imboccare la strada opposta a quella del tuo
giudizio istintivo.
Ciò dipende dall’aver troppo spesso visto il male premiato e il bene
offeso e dal dubitare sempre più che venga in un giorno al di là dei
giorni fatta giustizia.
Questo pensiero pensato è ragionevole e corrisponde a gran parte
delle esperienze mie e di tanti altri, possiamo consentirvi, eppure gli
manca qualcosa di decisivo, che non lo rende meno vero, eppure gli
toglie forza: il fatto che non è stato vissuto, come invece accade al
pensiero che segue:
Quando qualcuno si comporta stupidamente lo fa sempre non
perché non è in grado di capire ma per qualche vizio morale:
prepotenza, testardaggine, volontà di far male, invidia, rancore
diffidenza, paura. È tutta la vita marcia e corrotta che ha dentro da
tempo a renderlo stupido. Quando invece uno si comporta
immoralmente, e fa del male o omette di fare del bene ad altri,
sempre si scopre, anche a un’osservazione superficiale, qualcosa di
ottuso, di irragionato, di meccanico e bestiale nel suo agire.
La disputa classica se il male si faccia per ignoranza del vero bene
(Socrate) o per volontà maligna (il cristianesimo) si risolve nel senso
che hanno ragione sempre tutti e due, perché ignoranza e cattiva
volontà si avvinghiano e si rilanciano a vicenda, moltiplicando la
loro potenza distruttiva, creandosi continui alibi solo per affondare
di più i colpi e affondando di più i colpi solo per nascondere la
propria colpevole ignoranza del male.
Noi uomini abbiamo la volontà maligna di essere ignoranti e
l’ignoranza della nostra volontà maligna, e in questo modo
combiniamo i guai peggiori.
Idea e passione
Spinoza sostiene nell’Ethica che idea e passione sono sempre
collegate, sicché avendo un’idea adeguata sarà impossibile fare il
male e necessario fare il bene. Stupenda visione ma per avere un’idea
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adeguata bisogna già avere una volontà buona, non basta ascoltare la
semplice comunicazione filosofica di questa idea, per esempio
attraverso la lettura dell’Ethica. Coloro che sono incapaci di fare il
male perché hanno un’idea adeguata di bene, sono così dalla nascita
e non in virtù della lettura di qualche opera filosofica che li educhi.
Al contrario, Spinoza ha scritto l’Ethica appunto in virtù della sua
natura buona.
Una natura buona dalla nascita è tale perché ha una forza
sovrabbondante, talmente ricca che uno può concedersi di essere
più buono di altri senza soffrirne conseguenze drammatiche per la
sua sopravvivenza e per la sua salute spirituale. Tale eccesso di
qualità non lo proteggerà affatto però dalla cattiveria, che sarà
intermittente e poco crudele. Spinoza stesso, quando non scriveva
nell’Ethica ciò che è bene pensare, vivere e dire, non era esente da
tutti i vizi che così precisamente enuncia e descrive, ma li teneva
cuciti sotto pelle.
Cos’è la cattiveria? Puoi fare mali terribili in perfetta mancanza di
cattiveria e coltivare una sottile cattiveria nei comportamenti più
innocui. La cattiveria è qualcosa di legato all’immaginazione. È più
un’intenzione del cuore, un sentimento che un atto e una decisione.
È difficilissimo che un filosofo sia un santo perché pensare è una
forma di egoismo molto radicata. Può essere un uomo
profondamente sincero, come Wittgenstein, o un santo del tutto
involontario e inconsapevole di esserlo, come Leopardi, o un santo,
nell’ipotesi più superficiale, canonizzato dalla chiesa per meriti
intellettuali speciali, come Agostino, Tommaso, Anselmo. Ci vuole
una certa santità infatti per pensare tutta la vita, visto il poco bene
che se ne trae, il molto male, e gli infiniti svantaggi pratici.
Il santo è un atleta che fa una maratona lunga tutta la vita. La sua
grandezza sta nella continuità, giacché molti di noi potrebbero
correre per dieci o anche cento chilometri o fare scatti improvvisi e
correre a gran velocità, a trenta o perfino a quarantacinque
chilometri all’ora, come il campione del mondo giamaicano Usain
Bolt, almeno per dieci metri... Logico che mentre corre, fatica e
460
soffre il santo le pensa di tutti i colori come tutti noi. Ma non è
questo il punto. Il punto è che non si ferma.
5 luglio
Blitz
Sono saturo, devo al più presto diventare un altro. Nessuno che già
esiste.
Gli uomini rifuggono dalle complicazioni, che le donne adorano. E
viceversa.
Il mondo di Alice nel Paese delle meraviglie racconta fatti che non
possono verificarsi in realtà. Questo non basta per definirlo un
mondo assurdo. Sia perché il mondo dei fatti che si verificano non è
logico sia perché il mondo di Alice ha una logica profonda.
La trasformazione della donna in bocca parlante, in cervello parlante
si sperimenta agli esami di stato e poi si placa, a meno che una non
diventi giornalista televisiva, preside, direttrice di qualcosa. In questi
casi lei diventa molto più asettica, anemotiva, chiusa
linguisticamente dell’uomo.
Colloquio di maturità
Amore e Pische apparvero a Schopenhauer in pieno sciame sismico,
mentre stava cercando la derivata prima di x e Verga, travolto da
una nube di elettroni, si rifugiò nell’ideale dell’ostrica. Degas dipinse
L’assenzio anche se era astemio e Baudelaire era un poeta maledetto,
anche se nessuno sa da chi. Svevo non riusciva a smettere di fumare
e Kierkegaard tifava per Abramo, giacché le rocce del sacrificio si
dividono in metamorfiche e sedimentarie. D’Annunzio aveva un
temperamento effusivo e Montale intrusivo. E tu ripensa bene a
quello che stai dicendo, indaga dentro di te come Seneca e, mi
raccomando, non venirmi a dire che Tacito era un precursore del
nazismo perché esaltava i germani. Ormoni, endorfine, matite,
461
penne, pelli professorali, gomme, caffè, occhiali, stress, le fasi
psicosessuali di Freud, il circuito elettrico, le paste, il collo che suda,
il rito di iniziazione, le mamme commosse, la paralisi di Joyce non
va confusa con l’epifania. Ha detto tutto però non ha spirito critico.
Ha dimostrato spirito critico però non ha detto niente. Se continua
così collassiamo. A proposito, parlaci del collasso dell’universo. Che
farai da grande? Buone vacanze.
Il corpo per i greci antichi
“Veramente in Omero non troviamo nemmeno un vocabolo che
corrisponda a braccio o gamba ma semmai per indicare la mano,
l’avambraccio, il braccio superiore, il piede, la parte inferiore e la
parte superiore della gamba” (Bruno Snell, La cultura greca, p. 28).
E neanche una parola per il tronco, anzi addirittura per il corpo,
giacché soma significa ancora corpo morto, cadavere, corpo esposto
all’insulto delle fiere e violato dai nemici, se non viene sepolto.
Ancora in Platone, nel Fedone, l’espressione orfica soma-sema, allude al
doppio significato del corpo come tomba e come segno dell’anima,
in quanto la copre, seppellendola quasi, e la indica, la attesta e la
rivela, attraverso le espressioni del volto.
È naturale che ciò avvenga quando si parla di combattenti, di uomini
d’azione, immessi in una corrente di eventi che li attraversa e
trapassa, di rado rivolti alla meditazione solitaria, alla concentrazione
unitaria del sé. Non so se davvero sia il caso di pensare questo modo
di nominare il corpo come rivelazione di una visione toto genere
diversa rispetto a noi. Paul Feyerabend, che commenta il passo,
ammette: “Ciò non significa che il corpo umano non sia concepito
come unità. Tuttavia, ha l’unità di un aggregato, non quella di un
intero che trascenda e modifichi le sue parti” (Conquista
dell’abbondanza, p. 29).
Secondo me è questo un esempio illuminante di come ogni indagine
filologica,storica, antropologica, filosofica abbia sempre bisogno di
un forte connotato inventivo e romanzesco, indimostrabile e
contestabile all’infinito.
462
Il fatto che non ci sia una parola per il corpo vivo potrebbe infatti
voler dire l’esatto contrario: che ciascuno è talmente tutt’uno col suo
corpo (“E il corpo è l’uomo” scrive Leopardi nel Dialogo di Tristano e
un amico) che non c’è alcun bisogno di una parola per dirlo. Proprio
il fatto che ci sia la parola attesta invece una separazione da sé del
corpo, un distacco da marionetta.
Proprio in virtù di una interpretazione in gran parte fantastica, a
condizione che l’impianto retorico sia di buon livello, come nel caso
degli studi pioneristici di Bruno Snell, si ottiene un successo
rilevante di comprensione.
In questo caso ad esempio si può concludere che i greci omerici,
essendo più votati all’azione e al pensiero corporale piuttosto che a
quello riflesso vivessero più avventurosamente di noi l’appartenenza
al corpo, provando anche i terribili morsi delle ferite come eventi
dell’avambraccio o del petto da vivere con un sentimento epico, non
essendo il corpo loro, una proprietà da tesaurizzare, difendere e
custodire ma la forma dentro cui erano destinati a vivere la loro
esperienza. Non già quasi bambole di pezza o marionette, come
scrive Feyerabend, senza per questo crederci lui stesso, ma con il
rispetto quasi impersonale e collettivo per il piede non proprio, per
l’avambraccio non più solo strumento di un io ma arto epico
vivente.
Grandiosità nello scandalo
Giovanni Burcardo, maestro di cerimonie del papa Alessandro VI,
così racconta nel suo diario (in Antonio Forcellino, Raffaello. Una vita
felice, p. 64): “La sera si è svolto nel palazzo apostolico, nella camera
del duca Valentino, un banchetto cui hanno preso parte cinquanta
meretrici oneste, quelle dette cortigiane. Finito di cenare, hanno
danzato con i servitori e con altre persone che si trovavano lì: da
principio vestite, poi nude. Sempre dopo cena i candelabri con le
candele accese che illuminavano, la mensa sono stati posati per terra:
dove sono state sparse delle castagne che le meretrici, nude, hanno
raccolto passando fra i candelabri sulle mani o sui piedi. Questo alla
463
presenza e sotto lo sguardo del Papa, del duca e di sua sorella
Lucrezia. (...) Infine sono stati mostrati mantelli di seta, sandali,
berretti e altri doni che sarebbero stati assegnati a quanti avessero
avuto il maggior numero di rapporti carnali con queste meretrici.”
La pazzia italica allora era grandiosa, sfrenata e sfacciata, nelle teste
di pochi potenti. Oggi è sbriciolata e moltiplicata per qualche
milione.
Veramente il più potente ha tutto da imparare da Alessandro VI
anche nella lussuria del potere. Al confronto i suoi giri di ballo dopo
aver fatto contemplare alle donzelle le sue glorie mondiali sul
maxischermo, con una notte ad alto rischio cardiaco, sanno di
dancing patetico degli anni ’50 e di performance da ricchi milanesi
imbrillantinati sulla Costa azzurra per un giorno da vecchi leoni. A
dispetto della pompa, del fasto e dei milioni di milioni di euro, i suoi
gusti musicali come le sue idee di trasgressione si muovono tra le
macchiette di Carlo Dapporto e i personaggi di Alberto Sordi al
casinò di Montecarlo.
I giornalisti che frugano dappertutto rendono impossibili del resto
quelle perversioni leggendarie, quando comandare e fottere
venivano goduti insieme. Anche le cortigiane di oggi sono attrezzate
di registratore e cellulare per filmare e fotografare le scene che
vivono, preparando ricatti e interviste a pagamento. E ti presentano
il prezzo con la stessa freddezza e lo stesso annoiato disgusto con i
quali si fanno pomiciare, palpare o fottere. Ma era molto più
eccitante farlo davanti al papa?
E cosa faceva la chiesa allora? Possibile che non ci fosse nessun
coraggioso neanche allora? Se la prendevano con gli eretici e
adoravano il papa assatanato? Dal racconto di questa festa vedi
benissimo il carattere degli italiani, e probabilmente di tutti i popoli:
se fa il male chi ha il massimo del potere lo adorano, se fa il bene
uno che non conta niente lo demonizzano. Solo che certi popoli
non danno il potere a chi fa il male, onde evitare di questi rischi. E
altri sì.
464
Esercizi matematici
Se gli studi matematici sono condotti con la più completa
consapevolezza, essi costituiscono un esercizio dell’intelligenza
serrato e costruttivo. Ma nella straordinaria maggioranza dei casi gli
studenti e i professori di matematica sono abituati a compiere
esercizi a velocità più o meno elevata senza pensare mai non solo a
cosa serve ciò che fanno, intendo a cosa serve rispetto al sistema di
concetti dentro il quale si muovono, ma neanche se ha un senso
quello che fanno al di fuori di un mero allenamento della mente.
Senza poi parlare della totale acquiescenza che i matematici hanno
rispetto alla lingua che essi usano, la lingua che sopravvive alla
formalizzazione crescente alla quale il loro operare è di necessità
sottoposto. Termini come integrale o derivata, e centinaia di altri,
come punto angoloso ad esempio, vengono trascinati senza che mai
qualcuno tenti non dico di difenderne l’uso ma anche soltanto si
periti di spiegare perché è quello più giusto e chiaro in quel caso.
Uno studente che è arrivato alla laurea in matematica ha già bevuto
una tale quantità di affermazioni e pratiche operative senza mai
ragionare che è ormai disposto ad accettare il mondo com’è ed è
convinto che, se qualcosa esiste e accade in un certo modo piuttosto
che in un altro, vuol dire che una ragione c’è. Questo modo di
concludere l’ho saggiato infinite volte in professori di fisica e di
matematica che avviano la loro intelligenza solo a posteriori, a cose
fatte, e da quel punto in poi procedono speditissimi, anche in virtù
del fatto che non guardano né a destra né a sinistra. La matematica
diventa così il modo migliore per esercitare il cervello a non
ragionare.
Verifico tante volte con i miei studenti che essi non hanno la più
pallida idea, quando studiano matematica, né del senso né del
significato né dello scopo né della logica che sovrintende al loro
lavoro, e magari scrivono compiti perfetti e prendono dieci.
7 luglio
465
La Resurrezione di Piero
La Resurrezione di Piero della Francesca viene interpretata da
Massimo Cacciari (Il risorto di Sansepolcro, in Tre icone), in uno dei suoi
saggi ispirati. Dio è risorto e sa, e vede, la sua solitudine tragica, oltre
la speranza e la disperazione, la sua libertà assoluta di martire per
nessuno. Con la resurrezione non c’è il superamento dialettico della
morte ma convivenza con la Passione.
In effetti Dio è risorto e ha aperto per noi la possibilità della
rinascita. Non ci ha tolto però la possibilità della morte. La partita, la
nostra, quella che a Cristo sta a cuore più di tutto è ancora tutta da
giocare. E Cristo non può fare più altro per noi, avendo fatto già il
massimo possibile, il massimo impossibile.
Quando Cristo esce dal sepolcro nessuno sa ancora che è risorto, e
quindi per forza è solo. I soldati dormono, e con quale gusto!
Nessuno lo vede uscire dalla tomba e nessuno se ne accorge. È
durato molto il vegliare dei discepoli, sì! E, diciamola tutta, Maria
dov’era? Il suo sepolcro dopo pochi giorni era già deserto e senza
sentinella amorosa, segno che nessuno credeva veramente che
risorgesse.
Questo è il punto. Gli uomini non credono alla parola di Dio
neanche a vederlo passare dentro il sacrificio della croce.
L’incredulità ricomincia, il sonno ci riprende, un sonno piacevole e
soavemente ateo e animale come quello dei soldati, verso il quale
Piero Della Francesca è persino indulgente e quasi paterno, se Piero
può esserlo. Eppure Cristo sta lì, come scrive Cacciari, fermo, libero,
proteso alla salvezza di noi perenni animali bambini, perenni figli
traditori.
Questa idea che la tragedia sia oltre la speranza e la disperazione, è
dura da sopportare. A un certo punto anche il dramma viene meno,
dolori pazzeschi e speranze inconcluse, smania degli estremi e
agitazione maligna o benigna, scandalosa o provvida, e non resta che
il tragico, la vita da morti, il nulla da viventi, oltre il santo e lo
zombie. Matrice della salvezza.
466
Dalle donne, soprattutto del popolo, si sente dire ancora: “Non te la
prendere per quello che è successo. È stata una tragedia”. È tragico
quello che non è colpa di nessuno, che accade indipendentemente
dalla nostra volontà. Un destino al di là del bene del male morali.
Mentre è drammatico l’esito catastrofico della libera volontà di
qualcuno.
Il Cristo di Piero è tragico. Non il Cristo di Cristo ma quello di
Piero. Eppure anche il Cristo di Cristo attraversa il tragico, e non
con la morte, ma con la resurrezione, dopo la morte.
Oddio, è un pensiero che mi fa paura. Non è che ci facciamo paura
da soli? Come quando giocavamo da bambini a chi diceva la cosa
più terribile finché uno scoppiava a piangere e tutti scappavano a
casa?
Un Cristo tragico è una pensata grandiosamente terribile ma allora
Cristo non è Cristo se non in Cristo, e in ogni altro modo il mondo
è votato al male.
Che sia così oscuramente ci conforta pure, perché almeno il mondo
ha un senso, cioè una direzione di marcia. Sollievo troppo umano.
Oltre la disperazione e la speranza non c’è nulla di umano. E se
invece c’è il tragico, allora è qualcosa che non c’entra con noi, che
non è fatto per noi e che non possiamo né capire né sentire. A meno
che non si voglia assecondare la disumana e autolesionistica verità
che il male sia impersonale, rendendolo così imbattibile e sempre
trionfante sul bene personale e divino.
Ripenso a quando, nell’adolescenza, di fronte all’incomprensione
che credevo di tutti verso di me, mentre era anche mia verso tutti,
mi immaginavo di rimanere fisso, statuario, al di là della gioia e del
dolore, mentre tutti mi venivano incontro, chiedendo: “Che cosa
hai? Ti senti bene?”. Ma io, niente, non cedevo, ormai era troppo
tardi. Ero già nel tragico? Secondo me cercavo solo una mano
soccorrevole.
467
Molti bestemmiano Dio perché sanno che tanto è buono e non può
vendicarsi, e non insultano il suo antagonista perché sanno che è
cattivo. Furbi.
O perché non è un chi, è un cosa?
Il male è un cosa, solo intingendovi il bene lo rendi un chi.
In Cristo
Cristo ha scelto la croce, scrive Kierkegaard nel Diario, benché i
discepoli volessero farlo re (Gv, 6, 13). La sua Passione è durata
poche ore e i Vangeli, specialmente quello di Giovanni, sono molto
asciutti al riguardo, non insistendo sui dettagli della violenza subita
nella Via crucis e restando essenziali sull’agonia. Cristo non si è mai
incentrato sul dolore in assoluto, parla molto di rado della propria
pena, raccomandando di tacerla. Solo nell’orto degli ulivi, nell’ora
più scura, nella quale matura la scelta della croce d’amore, confessa:
“L’anima mia è triste fino alla morte”.
Ma non si lamenta per sé, anzi giudica un tentatore chi lo
compatisce e cerca di farlo scampare. È combattivo, forte, mite,
benché martoriato. Anche inchiodato sul legno, quando grida “Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt, 11, 34), il culmine
della disperazione non allenta il suo legame col Padre, giacché
nomina l’esordio del salmo 22, compiendone col sangue la profezia.
Egli risponde all’angoscia non col risentimento e la rabbia, ma con
una protesta d’amore filiale: “Padre, perdonali perché non sanno
quello che fanno” (Lc, 23, 34).
I quaranta giorni di digiuno nel deserto, le tentazioni diaboliche, le
accuse mostruose di parlare in nome di un demone (Gv, 8, 48- 52),
le minacce di morte dei giudei ci dicono effettualmente del suo
dolore. Ma risolto tutto nella caritas, versato nel bene altrui, nella
commozione per la sapienza dei bambini, nella compassione
fraterna per i poveri, i malati, le prostitute, gli zoppi, i ciechi. Gesù è
di una serietà assoluta, di una fermezza tesa come una corda. Il suo
amore è negli atti e nelle parabole, che sono, benché mai è detto che
468
sorrida, essi stessi un sorriso interiore, sostanziale, al prossimo, agli
oggi viventi: “Ora non è Dio dei morti ma dei vivi” (Mt, 22, 32),
perché il “Regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc, 17, 20-21). Il Regno,
per chi ama, è adesso!
Cristo è duro quando al discepolo che vorrebbe seppellire il padre
prima di seguirlo, risponde: “Lasciate che i morti seppelliscano i loro
morti” (Lc, 9, 60). La sua è predicazione di vita, non basata sulla
magia del dolore e sull’ipnosi della morte, ma sul miracolo che risana
di colpo. In tutto il suo modo di replicare e di sconcertare con i gesti
c’è sempre del resto qualcosa di audace.
Ma la morte violenta, necessità d’amore, sapeva che non poteva
essergli risparmiata. E già dopo la moltiplicazione dei pani, quando
chiese ai discepoli “E voi, chi dite che io sia?”, annunciò agli occhi
stupefatti che avrebbe dovuto soffrire molto, essere riprovato da
anziani, sommi sacerdoti e scribi, essere ucciso e risorgere il terzo
giorno (Mt, 9, 22).
Non c’è chi non soffra. È naturale che la devozione popolare, nella
misura in cui ciascuno di noi è popolo ed è bene non se lo
dimentichi, si sia concentrata sul Christus patiens e sulla via Crucis
come itinerario di dolore e di agonia universale, rivivendola ogni
anno al rallentatore nella liturgia, ma soprattutto nell’affanno di ogni
giorno, perché il Cristo incoronato di spine è fratello a noi mortali.
E la Via crucis scandisce così la parabola di ogni vita dall’agape alla
morte: dalla cena in cui si spezza il pane fraterno al tradimento che
piove su tutti, giacché qualcuno prima o poi ci tradirà e noi
tradiremo qualcuno. Dalla solitudine nera, perché chi ci ama si
addormenterà per la tristezza della nostra sorte, al coraggio che
dovremo sfoderare quando saremo gettati, e magari da vecchi, in
prima linea.
Così ben tre cadute di Gesù, di cui non si fa motto nei Vangeli, sono
entrate nel tracciato novecentesco della Via crucis, giacché è per noi
abituale ricadere e siamo costretti a rialzarci pur di arrivare in piedi
alla fine, quasi sempre subita, non scelta. Da Gesù invece scelta,
469
rifiutando come tentazione la fuga, non per tuffarsi nell’assoluto
della morte, bensì per bruciarne il fuoco, risorgere e far risorgere.
Gesù attraversa gli inferi con noi, mentre Socrate, che qualcuno ha
accostato arditamente a lui, affronta la morte, secondo il racconto di
Platone nel Fedone, come l’estrema delle nostre avventure, e
pronuncia, prima di bere la cicuta, una geniale battuta di spirito.
Cristo la vive da semplice creatura universale, non da filosofo, fino
al morso sull’osso, e nel contempo da Figlio di Dio, sicché, nel
paradosso divino della morte d’amore, nelle doglie dell’agonia, che è
già resurrezione, la disperazione è la speranza.
Perché infatti in Cristo non c’è nessun amore della morte e tutto e
solo della vita, e proprio quest’amore pieno della vita, amore non
della durata, come nella chiesa, che gode i suoi millenni e le
promesse di quelli futuri, ma dell’istante, della verità che è ora, lo
getta nelle braccia della morte per trasformarla in vita.
Cristo è vissuto trentatré anni, la chiesa due millenni. Cosa ne può
capire?
9 luglio
Sbagliare nome
Cosa vuol dire sbagliare di continuo il nome delle persone care e
chiamare uno col nome di un altro, fenomeno che non è affatto
proprio solo dei vecchi e di incipiente rimbambimento. Forse che gli
affetti sono intercambiabili, se della stessa intensità, forse che nella
rete affettiva un nome ne richiama subito un altro, generando una
glassa impersonale. Forse che amore chiama amore e si vorrebbe far
convenire tutti ogni volta a una chiamata generale degli amati?
O forse invece che il richiamo del nostro sé accentratore ci
impedisce di concentrarci interamente sul nome esclusivo di una
persona anche la più cara e subito ci fa ricorrere a un’altra risorsa
collaterale, di compenso, di sicurezza, attestando la nostra mancanza
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di fiducia assoluta, di un nostro amore esclusivo e univoco, di un
nostro affidamento, anche se per pochi minuti completo, tutto a lei?
Quando Andrea Sperelli, nel Piacere di D’Annunzio, chiama l’amante
virtuosa che abbraccia, nel momento della verità corporale, col
nome dell’amante proibita che sogna, non c’è Freud che potrà mai
salvarlo dall’odio. Eppure tu troverai che quando ami davvero una
persona fai fatica a identificarla col nome, perché il tuo amore risale
a prima del battesimo, anche se ci saranno ore in cui il suo nome
sarà come un mare dentro cui nuoti e che ripeti come un sortilegio,
come la prima parola che hai ascoltato nascendo.
Intrattenere rapporti amichevoli con tante persone in una perenne
socievolezza, rende sempre più simpatici gli uni agli altri ma accelera
lo svaporamento, altrui e proprio, non appena non si compare più
sulla scena. I nomi allora sono i primi a cadere.
Invidia e malevolenza
Aristotele distingue l’invidia dalla malevolenza, la prima consistendo
nel dolore per coloro che giustamente sono fortunati, la seconda per
il dolore dei beni altrui, che meritino o no (Etica Eudemia, III, 7,
1233b). La nemesi invece è “l’addolorarsi per sventure e venture
immeritate, e il godere di quelle meritate”. Ma sdegnarsi per fortune
immeritate è chiamato invidia dagli italiani di oggi, tanto sono
convinti che il successo, come lo chiamano, sia di per sé invidiabile e
invidiato, e la dea Nemesis non sanno che esista.
Gli animali e la musica
Aristotele scrive che “tutti gli animali sembrano essere insensibili
riguardo all’armonia e alla bellezza. E che in nessun modo
“sembrano emozionarsi per la vista di cose belle o per l’ascolto di
suoni armonici, a meno che non si tratti di qualche caso prodigioso”
(Etica Eudemia, III, 2, 1231a).
471
Oliver Sacks, riportando un giudizio di Patel, scrive: “Non è stato
descritto un solo caso di un animale che sia stato addestrato a
picchiettare, beccare o muoversi in sincronia con un ritmo uditivo”
(Musicofilia, p. 277).
L’impossibilità di godere l’armonia musicale sarebbe collegata
all’incapacità di muovere il corpo a tempo e seguendo un ritmo.
Mentre leggo questi due giudizi scritti a distanza di più di duemila
anni, cinguettano i passeri fuori della finestra e a ogni sequenza di
suoni fanno corrispondere un moto del capo, addirittura
coordinandosi e distribuendosi per i rami come per un’orchestra
dall’invisibile direttore, che viene voglia di cercare tra le fronde.
Avendo avuto per tanti anni un canarino, non per caso chiamato
Turbine, ho osservato come l’emissione di note era sempre
accompagnata da una postura del capo particolare, da un’erezione
del corpo con protensione verso l’alto del collo, e da un palese
atteggiamento di ascolto della propria musica, come farebbe un
cantante, al fine di modularla e scandirla in modo armonico.
Svolazzava con vitalità incessante ma quando cantava si fermava, più
come un musicista che come un ascoltatore danzante che
accompagni col corpo il piacere del ritmo e della melodia.
Il paragone va fatto tra il canto degli animali e l’esecuzione del
musicista, non già col ballo e l’accompagnamento fisico
dell’ascoltatore. Per questo i passeri e altri uccelli quando
cinguettano rimangono composti, rifuggendo da facili effetti,
prendendo molto sul serio esteticamente il loro canto.
Né puoi dire che il canto serva loro soltanto per le utilità della
sopravvivenza, per il sesso o la comunicazione dell’allarme, o per
altri scopi sociali, perché mille esperienze lo smentiscono.
Oliver Sacks parla molto e bene della musica come terapia di
malattie neurologiche, quale è il morbo di Parkinson, attingendo
senza nominarlo all’antica sapienza di Pitagora, il quale parlava di
salute come armonia e di malattia come disarmonia. Del resto
nell’Italia meridionale si dice ancora “Mi sento stonato”, per indicare
che si sta male, quasi si fosse persa l’accordatura. Se ammalarsi
472
neurologicamente è perdere il ritmo, del pensiero, della parola, del
passo, la musica può aiutare a ritrovarli, ma soltanto finché dura.
15 luglio
Virtualità dell’opera
Se uno compie un’opera, artistica o letteraria, virtualmente deve
essere in grado di farne una dieci volte più grande. La virtualità
dell’opera infatti è sempre megalomane e sproporzionata rispetto
alle capacità reali. Quando progettiamo un romanzo o un quadro o
una composizione musicale vediamo l’opera che vorremmo
compiere e il risultato è sempre un drastico ridimensionamento del
progetto. Se uno ha scritto di fatto un’opera grandiosa pensiamo
allora quale impresa aveva immaginato. Magari era partito però
pensando a una cosa da niente.
Spesso siamo delusi da un’opera d’altri o nostra perché la
commisuriamo a quel piano puramente virtuale. Come quando,
vedendo correre un velocista, ne esaminiamo dagli spalti i difetti e
vediamo mentalmente come potrebbe essere migliore la nostra
corsa. Ma, scesi in campo noi con lui, come sarebbe realmente?
Molto più difettosa e goffa di come la immaginiamo. Il risultato
effettivo è il segno lasciato nella materia dai nostri limiti, diceva
Bergson, intendendo proprio questa necessità dello spirito di fare
comunque i conti con la materia.
Carattere artistico della filosofia
In un piano filosofico c’è sempre qualcosa di artistico e di politico. Il
carattere artistico sta nel dare una forma unitaria e stabile a idee che
svolazzano, oscillano, mutano di continuo, imponendo loro una
riconoscibilità stabile, anche quando non si pensano più in quel
modo, anzi al contrario. Vogliamo per esempio che Aristotele per
tutta la sua vita abbia pensato a un Dio come motore immobile?
Certamente no, e chissà quante altre ipotesi avrà fatto, diverse e
contrastanti. Ma ha tenuto duro nel non comunicarle, fedele alla
473
forma artistica che le sue idee avevano ormai assunto, alla
cristallizzazione che ha permesso di associarlo nei millenni a quella
teoria. È artistica la capacità di filosofi di non cambiare idea per
rispetto di una forma che imprimono al loro pensiero e che li fa
ricordare.
Altri filosofi più onesti e liberi, come Platone, che pure era molto
più artista di lui, ma in modo più felicemente incoerente e
sperimentale, hanno saggiato più teorie, a volte affini a volte
ondeggianti, parlando di un dio demiurgo, come nel Timeo, ma anche
degli dei tradizionali, come nel Fedone, dove dice che noi uomini
siamo ktema theon (possesso degli dei), col risultato di rendere meno
impresse, chiare e assolute le sue posizioni.
Questa chiarezza artistica di Aristotele è anche politica proprio
perché, parlando di una causa prima, stabilizza un regime filosofico
bene ordinato e immutabile, benché puramente ipotetico e
indimostrabile anch’esso.
15 luglio
Lo sport
Ci sono persone letteralmente incapaci di provare gioia di vivere:
quella vampata di ben essere elementare, di ben vivere immediato, di
felicità fisica. Molti, che pure ne sarebbero incapaci, la conseguono
lo stesso con lo sport, sperimentando lo stato simbiotico ed
energico che ci prende quasi sempre quando abbiamo tenuto in
esercizio il corpo, abbiamo camminato, corso, saltato, nuotato.
Lo sport non sposta di un millimetro la nostra visione delle cose né
ci ispira nella risoluzione di qualcuno dei nostri problemi ma o ne
allenta la tensione o ne sospende la coscienza, e soprattutto non si
configura come un piacere statico, negativo, “figlio d’affanno”,
benché anche questo genere si sperimenti dopo uno sforzo fisico,
una nuotata o una corsa, ma come un vero e proprio piacere
positivo, attivo. E a nulla vale ridimensionarlo dicendo che si tratta
474
soltanto di endorfine: tutti i nostri sentimenti e le emozioni più forti
hanno sempre una base chimica ma un’altezza spirituale.
E lo sport è una delle attività più spirituali che si possano compiere,
in quanto riconcilia anima e corpo e li fa concorrere musicalmente e
ritmicamente in un’attività benefica e disinteressata, dove non vi sia
competizione con altri e caccia di denaro o successo. Lo sport
praticato per semplice piacere musicale e personale sta allo sport
agonistico come la contemplazione filosofica alla guerra, come
l’esercizio artistico al commercio. È una forma di sport superiore, in
quanto non teso al record, non dominato da uno scopo schiacciante,
non pronto a mortificare il corpo con sostanze chimiche, ma teso ad
auscultarlo, appunto come uno strumento musicale che possa dare
l’esecuzione migliore solo curandone l’accordatura e gli specifici
timbri e ritmi.
Non è escluso che un atleta sia il recordman mondiale e nello stesso
tempo un uomo libero, disinteressato, filosofico e musicale. In tal
caso è il vero atleta che ammiriamo.
In qualunque sport devi essere molto concentrato e insieme molto
sciolto, come nel pensiero. Quando hai paura di sbagliare, perché un
allenatore, o un giudice invisibile alle spalle, ti fa sentire incerto, sei
più indisposto a farlo.
Se tu giochi in una partita, a tennis per esempio, e in una pausa ti
fermi a fare un bilancio, aumenti la possibilità di perdere. Se stai
vincendo infatti, la precognizione della vittoria finale ti indurrà a
giocare peggio e, se perdi, la prospettiva negativa ti farà giocare
anch’essa peggio.
Vinci, anche fuori dello sport, se ti concentri tutto nel momento
presente, sempre che abbia sciolto prima ogni nodo.
La squadra è il modo migliore per esaltare onestamente le qualità dei
migliori. Non è vero che l’individuo è ridimensionato, perché
soltanto la squadra permette al campione di esprimersi, nel mentre
rivela le debolezze dei peggiori.
475
La società italiana non fa squadra non per individualismo vincente
bensì perdente, per la paura infatti di non essere noverati tra i
migliori.
Individualismo di gruppo
Esistono associazioni di volontariato che riuniscono milioni di
concittadini, esistono movimenti scoutistici, associazioni religiose e
sportive, famiglie sane e famiglia mafiose, clan e società per
delinquere, nelle quali la rilevanza dell’individuo è sempre
subordinata al gruppo, a meno che non emerga palesemente, se
anche non in modo, per lo più, limpido e verificato come nello
sport.
In questi casi si manifesta un individualismo di gruppo, giacché
diventa individuo la squadra o l’associazione. Ma diventare un unico
corpo moltiplica il bene come il male, e a volte li mescola
indissolubilmente, come nel movimento degli scout, che educa in
mille modi ma esercita una violenza morale verso le persone inadatte
al perenne vivere comunitario, i cosiddetti ipersensibili, che vengono
strapazzati senza indulgenza, rovesciando il bene in male.
Complicità tra parlanti
Quando manifesti solidarietà per chi sta perdendo, presso un
gruppo che lo sta criticando, tutti ci leggono un’offesa alla loro
sensibilità e si precipitano a smentirti, benché esattamente quelle
critiche spietate avevano fatto.
Tu hai rotto così la complicità tacita tra i parlanti che stabilisce che,
ancora prima di aprire bocca, tutto venga detto, fermi restando quei
valori condivisi e quella civiltà reciprocamente riconosciuta che,
aprendola appena, regolarmente vengono irrisi e contraddetti
L’esercizio a pensare in modo universale è ripugnante a qualunque
occasione concreta della vita sociale, nella quale tutto ciò che si dice
deve riferirsi a un caso concreto o alludere a qualcuno o a qualcosa.
476
Visto infatti che quel pensiero ti è venuto in mente in quella
circostanza, pensano i più, è inutile che tu finga che a essa non sia
legato e che a essa non debba tornare.
In libreria
Sei un ingegnere edile preciso e rigoroso, sei un medico cardiologo,
sei un’insegnante di fisica stimata, sei un operaio specializzato, sei un
artigiano del legno, sei una commerciante d’abbigliamento, sei un
impiegato dell’Inps e stai entrando in libreria. Stai attento! Vorresti
un libro che non ti faccia più pensare, che ti distragga, che ti diverta
e ti faccia magari imparare qualcosa. Davanti a te ci sono pile alte e
colorate che segnalano libri già letti da centinaia di migliaia di
persone. La cosa ti rassicura, già pregusti quando racconterai agli
amici le tue impressioni su un libro che anche loro vorrebbero
leggere e che tu avrai letto prima. Tutti parlano bene di quei libri
impilati: giornalisti televisivi e vicini di casa: stai entrando nel mondo
della cultura a pieno titolo, tanto più che hai un lavoro che ti dà
soddisfazione e puoi giocare in libertà su questo secondo tavolo.
Nel tuo lavoro sei stimato e riconosciuto, vuoi un libro che continui
a far spirare su di te la stessa benevolenza, che ti rispetti e ti
gratifichi, senza minacciarti con parole che non conosci e situazioni
che ti metterebbero in imbarazzo e ti farebbero sentire più piccolo
di quello che sei. È il momento decisivo, attento! Hai già preso il
libro più alto della pila, con aria di sospetto e di prudenza, a
beneficio degli astanti. Tu lo vuoi leggere beninteso, come tutti, ma
per motivazioni ponderate e tutte tue. Il librario non ti giudicherà
male, è sempre un libro in più che vende. E poi tu resti sempre in
buona posizione nella classifica lavorativa. Paghi, lo tieni sotto il
braccio con un breve piacere proibito. Lo tieni dentro la busta per
un minimo di intimità. Tranquillo: la metamorfosi di un uomo
intelligente in un lettore stupido è avvenuta senza nessuna
conseguenza. Ancora una volta hai la conferma di una delle
esperienze più piacevoli della vita: la stupidità non contagia in
nessun modo l’intelligenza, e convive beatamente con essa. Questa è
la grande scoperta inconscia del mercato librario.
477
È fastidioso essere d’accordo con chi non stimiamo. Abbiamo paura
che in qualunque momento ci rovesci addosso pareri difformi e
inverosimili su di un capolavoro con lo stesso entusiasmo col quale
partecipano convinti a una nostra opinione.
E allora dovremo accettare inermi la raffica delle sue critiche, senza
poterci dire che è una persona aliena da noi, e quasi temendo che
abbia ordito la complicità solo per poterci assestare il colpo
definitivo al momento giusto.
Predilige poeti maledetti, emarginati con Aids, o poeti vagabondi
senza lavoro che hanno scritto pochissime pagine preziose, che
conserva manoscritte, centellinando confidenze, facendo sbirciare
frammenti di lettere scritte al critico sodale nei sotterranei della
metro, versi segnati sul bordo di un libro geloso in una notte
insonne per strada. Il loro genio è indiscutibile e fiammante,
soprattutto se le loro opere sono inedite. Poi ti squadra nei tuoi
vestiti puliti, fresco di barbiere, si ricorda che tutti i giorni vai a
lavorare, e si trattiene dallo scuotere la testa.
18 luglio
I depressi per scelta
Quando uno è giù d’umore o malinconico dice che è depresso, nella
speranza di avvalersi della immediata solidarietà sociale che scatta in
questo caso, mentre a uno avvilito si darebbe una pacca sulla spalla e
un invito a reagire e a uno malinconico si farebbe un sorriso
scherzoso. Se sei depresso entri nel recinto sacro e nessuno ti può
più toccare.
La depressione è una malattia da prendere molto sul serio, da
rispettare in massimo grado e da curare con arte sottile e paziente.
Ma esistono i depressi, direi quasi, per scelta, soprattutto tra le
donne, le quali hanno sempre avuto questo potere di santificare e
glorificare le loro debolezze e cattiverie, illuminandosi di una luce da
vittima eroica, da eroina sfortunata da difendere e proteggere,
quando non da esaltare.
478
Rare sono infatti le depressioni cliniche reali, malattie terribili, al di
là della morale e della stessa psicologia, oltre che gorghi di egoismo
fisiologico, rispetto alla legione di casi di persone che si
diagnosticano da sole una depressione. Io conosco diverse di queste
persone e sono profondamente colpito ogni volta da due ricorrenti
fenomeni: l’incapacità di amare e la smania di potere.
La donna che ha deciso di essere depressa non si cura più dei figli,
del marito, del compagno, dei genitori, degli amici, di nessuno
insomma, ed è convinta che invece tutti debbano curarsi di lei, e
resta stupefatta e avvilita quando vede che questo non accade, che
cure indispensabili le sono negate, che assistenze assidue vengono
rinviate, che tutti, figli, madri, sorelle, continuano ad avere una loro
vita.
Come è possibile? Non dovrebbero annullarsi per pensare
esclusivamente a lei? Osano condurre un’esistenza separata,
autonoma, persino allegra, mentre lei dovrebbe essere il centro
doloroso del mondo, l’unica degna ragione di vita di tutti? La donna
depressa ha dimenticato come si ama e ne scaglia le colpe addosso
agli altri. Se ha un marito fedele lo trasforma in traditore, se ha una
figlia esemplare la fa diventare impossibile, se ha un padre affettuoso
lo irrita fino a sfigurarlo. Lei svela il male annidato in tutti tranne che
in se stessa.
La brama di potere della donna depressa per scelta è mostruosa: lei
se ne sta immobile, come un sole malato, ma scatena intorno a lei un
moto frenetico: visite di dottori, caccia ai farmaci, viaggi per gli
specialisti, consulti per comprendere le cause profonde del suo stato.
Lei è immobile ma intorno a lei tutti corrono, prendendo permessi,
gettandosi nel traffico, sfiatandosi per non farle mancare una
compagnia che lei disdegna fissando il vuoto. Si ammalano, ma di
banali malattie fisiche. Lei sola, dalle analisi sempre perfette, ha il
male impalpabile, il morbo sacro, il male che non si cura. Gli altri
cadono per la strada con banali aneurismi, tumori, ictus. Lei arriva a
novant’anni sanissima e sempre malinconica e commiserante se
stessa.
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La persona depressa diventa la protagonista assoluta della tragedia
del non amore. Ed è vero che tale non amore è reale, realissimo, ma
è altrettanto vero che è presente in lei in modo assoluto. Basterebbe
cominciare ad amare appena un po’ una qualunque creatura umana e
le foglie smosciate e prostrate comincerebbero a rialzare gli steli.
Una donna, assai bella, non è più giovane. Ecco che comincia
graziosamente a deprimersi. L’ape regina è malata e le api operaie
devono spendere nel tentare di farla sorridere la stessa cura che
mettevano nel fecondarla. Potranno mai riuscirvi?
Quando torna dai medici, che devono prenderla molto sul serio, la
donna depressa, che non lavora più ed è mantenuta dal marito che
spietatamente l’ha lasciata, ha per loro un sorriso di disprezzo e
compatimento. Loro non hanno capito nulla della sua sfrenata
smania di potere. Ma se tu la prendi abbastanza sul serio da
mascherarla ti odierà al punto di distruggerti, se potrà.
L’odio è il sentimento latente della persona depressa per scelta,
pronto a scatenarsi non appena qualcuno la contraddice o non la
asseconda.
Ho notato che la depressione si innesta sul carattere mostrato prima
della malattia. Una persona generosa lo resta così come un’altra
stupida e volubile. Ma, a ben guardare, chi cade nella depressione ha
sempre avuto, fin dalla prima infanzia, un carattere prepotente e
vendicativo, anche se mascherato da moine e false timidezze.
Osservate come una donna profondamente buona non potrà mai
diventare depressa, benché potrà soffrire molto. Un uomo invece sì.
Ma egli sarà innocuo nella sua depressione e più facilmente
controllabile, benché noiosissimo e fastidiosissimo.
Una donna cade più facilmente in depressione di un uomo perché
per lei non amare è altrettanto terribile che non essere amata. La
scoperta di non riuscire ad amare la fa impazzire e a nulla vale che
altri la amino. Il che conferma la superiorità spirituale delle donne.
480
Mia moglie ha speso tante energie per frequentare e soccorrere
amiche depresse senza conseguire mai nessun risultato, se non
costringerle a riconoscere che esistono persone disinteressate e
capaci di sacrificarsi. Un giorno, tornando da una passeggiata
interminabile con una di loro, che si era sfogata per l’assedio di
indifferenza che subiva mentre era afflitta da infiniti mali, quasi tutti
immaginari, lei si è accorta all’improvviso che l’amica mai una sola
volta, in tante ore di assistenza, le aveva chiesto notizie dei nostri
figli. E ha commentato: “Il dolore è dolore.”
18 luglio
Pensieri senza coloranti
Qualunque persona onesta può verificare che i miei pensieri sono
naturali e senza trattamenti chimici, evitando i colori forti, come fa
la natura. Eppure in questi tempi essi sembreranno a molti inattuali,
magari opportuni, ma non abbastanza colorati, artefatti, stilizzati,
eccitati. Come quando un soffione di polline entra in aula, una foglia
vola dentro un cinema, un’ape in sala operatoria, una coccinella in
un negozio di fruttivendolo. Cosa facciamo? Ripuliamo,
sgombriamo, uccidiamo? O li teniamo sul palmo della mano e li
guardiamo.
Velocità dei saggi filosofici
I saggi filosofici che si scrivono ormai da cinquant’anni hanno una
caratteristica comune: la velocità. Sono l’opera di menti
allenatissime, che hanno palleggiato tutti i giorni concetti,
addestrandosi, come in una partita di ping pong cinese, a rimandare
la pallina a velocità crescente e da ogni posizione. Sono pagine
scritte con una tale accelerazione concettuale che il lettore via via è
sempre più preso dallo stesso ritmo crescente, eccitato da una raffica
di idee che piovono da tutte le parti e allenato lui stesso dal libro a
ribattere con sempre maggiore abilità e ritmo. Ma così la filosofia è
diventata uno sport agonistico come tanti, e la vita per il lettore, alla
481
fine della partita, è identica a com’era all’inizio. E pure per il
giocatore.
Alla fine del libro si esce eccitati e sudati come da una performance
fisica, molto simile a un videogioco, solo che non sono i pollici e le
aree cerebrali dei riflessi meccanici a essere eccitati, ma quelle
dell’elaborazione concettuale. Si è pensato tantissimo da virtuosi e
acrobati, a velocità che escludono tutti coloro che non sono
esercitati a pensare filosoficamente, ma il risultato non è una crescita
delle conoscenze, la conquista di un risultato chiaro, la convinzione
di aver scoperto o capito qualcosa in modo irreversibile e concreto.
Se va bene è una sola idea centrale che viene catturata, molto spesso
soltanto un’interpretazione personale di un’altra idea, ancora più
spesso una coloritura minima, una sfumatura impercettibile, una
variante appena definibile di un pensiero già codificato. E tutto
questo in centinaia di pagine.
Quello che conta è sempre meno approdare a un risultato e sempre
più percorrere fantasticamente un ottovolante concettuale con
maestria, acrobazia, scioltezza e, naturalmente, ad altissime velocità.
La filosofia assomiglia sempre più a uno sport estremo, a un
virtuosismo circense, a una performance da Guiness dei primati, a
una gara mondiale da videogiochisti.
Il pensiero però è rallentamento, non solo per attingere quella che
Nietzsche chiamava la calma filologica ma perché solo così esso
entra nei ritmi lentissimi, poco colorati, e profondamente superficiali
della natura. E nella vita, individuale e sociale, di quel ciascuno che
con le alte velocità non può più essere il soggetto della filosofia, la
quale non può più essere universale, cioè per pochi ma di tutti.
L’ultimo filosofo lento italiano è Giacomo Leopardi. Che pensava in
modo velocissimo verità genialmente rallentate scrivendole.
Nel secondo dopoguerra molti filoni filosofici conversero nel negare
un’autonomia sostanziale alla natura e nell’insistere sul fatto che
molti tratti, giudicati naturali, sono in realtà culturali e storici. Sulle
482
orme di Nietzsche e della scuola di Francoforte, sulla scia di una
lettura di Marx tutta volta a smascherare le ideologie e a ricondurle
agli interessi di classe, si finì per svuotare la natura della sua potenza
attraverso la superba primazia del pensiero.
La stessa considerazione della storia come campo di forze che
possono da noi essere dirette, facendo leva su classi sociali e su una
presa di coscienza di élites che le guidasse, o contentandosi almeno
di una visione filosofica superba, che riservasse agli eletti almeno la
coscienza, pur nell’impotenza fattuale, di questa verità segreta, è
stata spinta dall’illusione che la storia fosse molto più modificabile
della natura.
Ma in realtà la storia non è che un’accelerazione della natura, la
quale conosce tutte le arti della lentezza, e soltanto quando non può
farne a meno esplode in catastrofi violente e brevi. E in modo
particolare nelle svolte convulse e decisive, prima fra tutte la guerra,
sempre incidente, e le rarissime rivoluzioni.
E tentare di conoscere a posteriori i meccanismi storici, ammesso
che siano identificabili con certezza e tendano a ripetersi, in nessun
modo vuol dire poterli pilotare.
Così il più delle volte si assiste alle svolte cruciali del tutto indifesi e
confusi, giungendo esse di colpo e con violenza e urgenza sempre
superiore alle più attente previsioni.
Il pensiero poi è un’accelerazione ulteriore della storia, tanto più in
quanto si va da discipline alla storia legate, come la sociologia, la
storiografia, l’antropologia, l’economia verso la filosofia, che almeno
a partire da Nietzsche ha cominciato ad accelerare vertiginosamente,
al punto che si pensa e si scrive con tale velocità bruciante che
molto spesso un libro comincia dove è finito il precedente, in un
viaggio vorticoso, che però si lascia abbondantemente alle spalle la
natura, sicché i pensatori diventano sempre più riservati a quei pochi
in grado di reggere prestazioni ai limiti della sopportabilità umana.
Essendo però la stragrande maggioranza della popolazione molto
più lenta, e quindi molto più conservatrice, più legata al lessico
483
ristretto e al mondo emotivo e intellettivo utile per sopravvivere, e
quindi più in sintonia con la natura, è sempre più difficile che un
pensatore possa esercitare il minimo influsso al di fuori della cerchia
dei pensatori, degli studiosi dei pensatori e degli studiosi degli
studiosi dei pensatori, risultando ai più incomprensibili nella lingua e
nel pensiero.
La folla poi di saggi che escono ogni giorno, bruciano come un
petardo e cadono a terra neri e spenti, è così fitta che nessuno può
sperare di trattenersi almeno nella retina di chi li legge, finendo per
bruciarsi a vicenda, sia perché sono scritti di getto e rapinosamente,
per sfruttare la congiuntura istantanea, che domani sarà già mutata,
sia perché, fossero meditati per anni, non verrebbero incontro
all’illusione che ogni giorno accada qualcosa di nuovo, che esistano
fenomeni che, essendo già spolpati da migliaia di esperti, non
avrebbe più senso mettersi a studiarli.
Lo studio stesso è anzi disintegrato nella sua sostanza, nessuno
resistendo all’idea che le leggi della economia o della sociologia si
facciano giorno per giorno e che tutto è così diverso da tutto il resto
da non consentire un confronto che vada al di là dell’immediato, se
non in pausa ricreativa.
Un classico di sociologia o di economia, di storiografia o di
antropologia, oggi non può comparire, perché chi si mettesse a
comporlo in solitudine si sentirebbe anacronistico e sarebbe da tutti
tenuto per tale.
Ma come facendo il giro del mondo con un jet tu percorri sempre lo
stesso globo, anche se non la stessa rotta, che faresti con un biplano,
e come camminando dalla Sicilia al Piemonte sarebbe comunque la
stessa Italia che attraverseresti in auto, il mondo non cambia
percorso a velocità maggiore o minore con qualunque scienza e
disciplina. E anzi lentamente andando tu potresti capirlo e
conoscerlo molto meglio.
Un filosofo o uno scrittore si riconosce per il fatto che fa il suo libro
in modo che sia destinato a durare, e non a bruciare. Lo fa tale che
possa esser letto tra un secolo o dieci, fosse pure destinato a
484
sopravvivere in poche copie e letto tra mille anni da tre persone,
perché l’etica e il senso stesso di quello che fa lo spinge a essere
responsabile di ogni sua parola, in modo che, appena sufficiente o
eccellente, chiunque possa ritrovare la stessa forza minerale, la stessa
resistenza alle intemperie, la stessa geologica disposizione a entrare a
far parte del mondo non come volume di carta, o come un
documento tra miliardi di un’epoca, ma come testimone di una
creatura degna di scrivere quanto di amare o di mangiare.
Filosofi e critici filosofici
Come si distingue il critico letterario dallo scrittore e dal poeta, così
bisognerebbe distinguere il critico filosofico dal filosofo e dal
pensatore. Il critico filosofico non elabora pensieri propri ma
commenta, interpreta, mette in gioco e fa vibrare quelli degli altri.
Come però esistono critici scrittori, possono esistere anche critici
filosofici che siano filosofi. Quando cioè a furia di interpretare e
commentare, di spiegare e sviluppare il pensiero di un altro
finiscono per metamorfosare le idee altrui nelle proprie.
Quasi impossibile trovare oggi un filosofo che abbia una qualche
idea dello stile, o almeno una volontà di stile. Educarsi a uno stile
richiede almeno altrettanto tempo che costruire un pensiero proprio.
Ammirevoli sono coloro che, coscienti di questo e disperando di
potervi ancora riuscire, dopo aver pubblicato i cosiddetti saggi per
specialisti, adottano una lingua semplice e chiara per affrontare
problemi di interesse comune, senza darsi una solennità ridicola e
mai aggrovigliandosi in termini esoterici e minatori.
Un accademico in carriera, piuttosto che pensare, preferisce scrivere
dieci libri alla massima velocità, che almeno occupino una porzione
tale dello scaffale da dargli l’illusione di esistere. E fa così per paura,
giacché non sa, come nessuno sa, se sarà veramente capace di
pensare, e quindi non vuol prendersi un rischio che forse lo
umilierebbe o una fatica che lo metterebbe in gioco troppo
duramente e per sempre.
485
Pensare infatti è irreversibile. Se cominci non puoi più tornare
indietro.
Caro studioso filosofico che scrivi: “Intendo l’espressione nel senso
del secondo Heidegger”, “uso questa parola nel significato del primo
Derrida”, “ovviamente lo dico riferendomi al Benjamin del saggio su
Baudelaire in Angelus novus”, scontata la riconoscenza per come ti
fidi della nostra memoria e dottrina, non potresti sprecare un’altra
riga per farci sapere tu direttamente, mentre leggiamo con gli occhi
ballanti il tuo velocissimo libro con la lingua tra i denti, in quale
benedetto significato esattamente lo dici tu, proprio tu, senza
costringerci a tirare fuori e a sfogliare dieci volumi alla ricerca
impossibile di quel significato pulviscolare, sprofondati come siamo
in un comodo e insidioso divano occidentale? Grazie.
I nostri tempi però sono veloci. Come c’è una nostra musica, dal
jazz al punk rock, così c’è una nostra filosofia. Non è all’altezza di
quella classica ma è nostra. Solo nel caso di Massimo Cacciari la
velocità mi sembra coerente stilisticamente, essa stessa una presa di
coscienza della realtà, un modo di vivere il pensiero dei nostri tempi,
un suonare le idee da uomo orchestra, con un’onda sonora
emozionante, con un tripudio da concerto, un sound ispirato che fa
scorrere il nostro sangue nel corpo collettivo del pensiero
contemporaneo.
Fin dai tempi di Krisis (1976) avevo pensato: questo filosofo è un
musicista. Il sound è decisivo: ritmo, melodia, timbro, toni,
intervalli. Puoi ascoltare, assorbire e mettere in moto un tuo
pensiero e una tua immaginazione, non dialogare. Ma la scossa che ti
dà risveglia il tuo pensiero e ti fa diventare ciò che sei, ciò che non
sei.
19 luglio
Bene e mali da lontano
Nelle comunità strette, negli ambienti circoscritti in cui tutti si
conoscono, essere sleale, ladro, falso, sfruttatore si paga
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amaramente. Naturale è quindi che a questi comportamenti siano
associati dolori, umiliazioni, isolamenti e condanne pubbliche. Il
male e il bene si spartiscono facilmente perché il primo ti dà
sofferenza e il secondo gioia e salute.
Ma diventando le società sempre più complesse viene a mancare del
tutto il confronto corporale e la verifica sperimentale del prossimo, e
così il male e il bene non si associano più al dolore e al piacere e si
può far moltissimo male a migliaia di sconosciuti che restano nomi
astratti e far del bene a qualcuno che non saprà mai a chi essere
grato.
Come nella guerra non vedi più il corpo stravolto di chi hai ucciso e
pigiando un bottone puoi sterminare una città senza vedere nulla del
male che fai e senza che nessuno te ne chieda mai conto, così nelle
scelte di governo puoi distruggere centinaia di migliaia di poveri
senza che nessuno di loro abbia mai un nome e un volto.
Dissociato il bene dal consenso caloroso di chi ti abbraccia, e il male
dal disprezzo di chi ti ferma per strada e ti insulta, tu dovresti essere
giusto senza alcun riguardo alla gratificazione e alla mortificazione,
ed è impresa che solo pochissimi, e mai al massimo potere, possono
compiere, e mai per tutta la vita, se non è molto breve.
Libertà di pensiero non è sfogo
Abbiamo sopravvalutato tutto, prima di tutto noi stessi.
Quando uno si ripromette di pensare e scrivere con libertà, deve
però stare attento a non confondere la libertà con lo sfogo di
impulsi immediati, di malumori personali, di idee e sensazioni
istintive, che della libertà sono il contrario. Se rileggendo mi accorgo
di questo, gratto via la pagina. Ma sono sicuro di non lasciare una
vendetta molto ben mascherata sotto le righe? In tal caso chiedo si
abbia un occhio di riguardo per lo stile, che è un codice morale
profondo, benché insufficiente.
Ne è un esempio tragicomico il blog in cui tutti esprimono
liberamente il loro parere, senza sorvegliare la rabbia, la schifiltosità,
487
l’allergia, la simpatia a pelle, il capriccio del momento, sicché tutti
vengono tirati giù dal pero bruscamente, attaccati nelle pieghe intime
della vita privata, smascherati con un’impudenza goliardica e feroce,
accusati di nefandezze e brutture inimmaginabili, e il tutto tra
battute, spiritosaggini, giochi verbali e l’imposizione terroristica che
devi subire tutto in silenzio altrimenti non sei democratico e non sei
un uomo libero.
In questo gioco al massacro da festa di ex compagni di scuola tutti
escono alterati e spennati, e mestamente chiudono il computer
pensando che tutto questo fascino liberatorio del blog libertario in
fondo è una trappola ed è meglio tornare a “mia gentile e cara
amica” se non a “il suo devotissimo servitore”.
La nominazione
Non nomino mai chi disprezzo. In certi casi nomino persone che
valgono così poco da essere assolutamente innocue, per quanto
rumore facciano. Ma quando scrivi devi onorare chi vale.
In queste frasi scorre una sicurezza che può suonare arrogante e uno
spirito aristocratico che non si accorge di essere ridicolo, perché si è
cucito il blasone da solo. Forse. Ma come è aristocratico
l’intagliatore di mobili, il viticultore, l’atleta solitario, il chirurgo
amante dei corpi sani, la ragazza che indossa il suo primo abito
lungo, senza che nessuno guardi o ne sia offeso.
20 luglio
L’insuccesso è colpa del figlio
Un difetto dei genitori è quello di addebitare sempre alla personalità
del figlio gli insuccessi e le sfortune della sua vita, come se il mondo,
trattato con entusiasmo e con fiducia, rispondesse più efficacemente
e generosamente ai nostri desideri. Ogni volta che non vince una
gara o non supera un esame o non ottiene un posto di lavoro madri
e padri gli ricordano la sua sfiducia in se stesso, la sua eccessiva
488
ritrosia, la sua insicurezza. Se solo lo volesse, viste le sue doti
intellettuali, potrebbe fare benissimo ma dovrebbe cambiare del
tutto atteggiamento.
Questa tendenza si fa più grave quando il figlio manifesta un certo
rigore morale, rifiuta compromessi, non è disposto ad accettare un
sistema di scambi e di favori, non si mette in partita con i metodi
che sono dominanti.
Ecco i genitori che lo rimproverano, lo compiangono e gli
assicurano un futuro di solitudine e impotenza. Gli ricordano
quanto conti la mediazione e che senza compromesso non
esisterebbe nessuna società. Non è vero perciò che non c’è
educazione sufficiente in Italia, c’è e come, ma tutta volta ad
accentuare l’immoralità e il disprezzo di qualunque regola, e questo
anche da parte di chi in pubblico è onesto e serio, di chi mai è sceso
a compromessi, di una persona cioè che, avendo verificato quanti
danni e smacchi subisce la persona seria, pur non potendo fare
diversamente per sé, cerca almeno di salvare i suoi figli da una
disdetta sicura.
Lo rimproverano di essere troppo sensibile, aggiungendo che deve
farsi una corazza per la vita. Ma la sensibilità è la sua corazza.
Ridere
Uomini che hanno raggiunto il potere e la fortuna nel modo più
cinico e spregiudicato oggi sorridono molto, ai fotografi, agli
intervistatori, ai conoscenti. Vivono quasi ridendo, finché qualcuno
li guarda. Credono di dimostrare col solo sorriso che tutto è stato
limpido, naturale, giusto. Credono di convincere con la sola simpatia
che l’unico segreto del loro potere e dei loro soldi sia consistito in
un ottimismo a prova di bomba e in uno sguardo benevolo e
fiducioso perennemente rivolto ai casi della sorte.
Mai si è sorriso e riso tanto in tutta la storia del genere umano. Ci
sono intere categorie di sorridenti e ridenti professionisti: attori, non
soltanto i comici, veline, concorrenti a gare di bellezze, promotori
489
pubblicitari, personaggi dello spettacolo, politici, imprenditori,
sindacalisti. Non sei veramente arrivato, non sei veramente al potere
né famoso se non ridi.
Chi ride è il padrone del mondo, si dice. E tutti infatti lo sono e si
sentono tali. Se non ridi vuol dire che le cose ti vanno male, quindi
tutti saranno pronti a fartele andare peggio. Se non ridi vuol dire che
hai un brutto carattere e che qualcosa non torna per te in questo
gioco sociale così esaltante. Perché allora non ti isoli e non ti
nascondi?
Andando però in giro per le strade si vede che è rarissimo che
qualcuno rida. Tutti se ne vanno seri, se non immusoniti, a meno
che non stiano con dei bambini. E questo dipende appunto dal fatto
che i passanti non hanno potere e non sperano di averlo, o non lo
desiderano neanche. Così non solo la loro vita è seria ma quando
sorridono o ridono sono sinceri.
Anch’io scoppio in una risata all’improvviso, per dire: è stato bello.
Sì, però adesso basta, ricominciamo da zero.
Ragazze al mare
Le ragazze al mare si prendono nelle mani i glutei, che sbucano da
un curioso costume che li schiaccia a metà, si stringono il seno per
tastarlo, camminano a passo veloce sul lungomare con fierezza da
culturiste e ginnaste. Non vogliono essere belle per noi, cercano di
non essere brutte per se stesse e per le altre donne. Gli sguardi sono
decisi e parlano tra loro in fila per tre con serena autosufficienza. Il
corpo è diventato per loro un sosia, un’armatura, un vestito, un
animale secondo e impersonale. Indossano il corpo.
Ecco che passa invece una ragazza che porta lo slip come uno
straccetto, annodato con fili leggeri, lasciando lento il reggiseno, e a
ogni passo dice: “Sono io, sono tutta io, sono io dovunque, fino
all’ultima unghia del piede, fino all’ultimo capello.”
490
Erotica è la donna che è con tutta l’anima sparsa in tutto il suo
corpo.
23 luglio
Cura del corpo
Perché tante persone seguono con cura maniacale il loro corpo,
facendo continue analisi del sangue, tac, ecocardio, risonanze? E
non solo con spirito di sacrificio e umiliazione ma con una sottile,
indefinibile, voluttà? Perché tante donne, soprattutto donne, e
uomini parlano così volentieri di malattie, altrui e proprie, con
spirito di mortificazione, sia pure, ma anche con un leggero,
inconfondibile, piacere, per cui non le trovi affatto avvilite dopo
tanto illustrare i loro mali ma, anzi, se non tonificate almeno
disposte a continuare la giornata come niente fosse.
La risposta che mi sono dato è che la malattia, reale o presunta, è sì
una minaccia e un avvertimento ma, se non mortale, è anche e
soprattutto uno schermo alla morte e una protezione da essa.
Coloro che pensano sempre alle malattie non pensano mai alla
morte, ed ecco perché sono le donne le più interessate alle malattie,
visto che sono le meno inclini al pensiero assoluto della morte.
E mentre un uomo soffre in ogni malattia, anche lieve e accennata,
la morte che vi si avvista e vi si nasconde dentro, la donna trova
nella malattia, che è concreta e alla fine manifestazione di vita,
dentro la vita, l’occasione per rimandare all’infinito il pensiero che
più ripugna alla sua natura: la morte in quanto morte.
Per la stessa ragione troverai sempre le donne più religiose, o
almeno più inclini a credere in un altro mondo, più assidue
frequentatrici delle funzioni religiose, più disgustate da discorsi
filosofici sulla morte, meno malinconiche e inclini a fare proverbi e
sentenze sulla sorte mortale, ma invece molto sbrigative e
insofferenti in questo campo.
491
In pensione
Perché l’uomo che va in pensione è così sbandato, passivo e incline
all’angoscia? Ancora una volta perché vive la pensione come
un’anticipazione, un assaggio, una premonizione della morte.
Mentre la donna come una tardiva concessione di libertà, una
occasione di vita. A tanto arriva l’assoluta ripugnanza delle donne a
una meditazione sulla morte.
La donna stabilisce una continuità tra la vita lavorativa e quella
pensionale, perché continua a fare la spesa, a cucinare, a lavare, a
stirare, a fare i letti, a spazzare la polvere, a dare lo straccio, a fare le
analisi mediche, mentre guadagna una libertà meritata che ha l’ansia
di godere.
L’uomo incapace di reagire con un guizzo di libertà, cominciando
anche lui finalmente a lottare per la sua sopravvivenza, diventa un
peso morto, un adolescente invecchiato, un ansioso o un depresso
che si aggira come uno zombie tra gli umani consorziati in società.
Molti reagiscono tornando nei luoghi di lavoro ogni giorno,
pregando che una tana, un buco, un pertugio, un nido, un corridoio
sia loro serbato per riconoscenza e perpetuamento di memoria,
mentre null’altro i lavoratori ancora in forze desiderano che gustare
l’alleggerimento collettivo per la sua mancanza.
Al pensionato si chiede essenzialmente di saper morire socialmente
con dignità e senza sbavature e di maturare vertiginosamente nella
coscienza che saremo cancellati, mentre lo scopo del lavoro appunto
era quello di essere perpetuamente ricordati.
Vero è che questa sensazione si prova sempre quando qualche figura
di personalità dominante sgombra il campo, e persino quando
muore, benché stimata e amata, quasi i sopravvissuti sentissero la
terra diventata più leggera e per loro più spazio e più aria, mentre in
un secondo tempo subentra la sensazione opposta di rimpianto e di
nostalgia, quando gli effetti della mancanza non si colgono più in
maniera animale ed istintiva ma ponderata e considerata nei tempi
lunghi.
492
Per questo la nostalgia e il rimpianto sono sempre leggermente
intinti di colpa, perché abbiamo desiderato perdere chi
rimpiangiamo.
Quando una persona è figlia, madre, sorella, cognata, nuora, amica,
prova affetto per tutte loro e di volta in volta per quelle che sono
presenti e per le quali si spende nel presente. Le altre, non essendoci,
tendono ad andare nello sfondo, a meno che non soffra nostalgia
per chi non c’è più di quanto provi piacere e gratificazione per chi
c’è, caso raro e doloroso, che anche per questo si sfugge.
29 luglio
Sport e pensiero di Dio
Quando si fa un esercizio fisico intenso, una nuotata, una corsa, una
ginnastica che tonifica e svuota la mente, e ci si identifica con
l’animale vitale, si diventa tutt’uno con esso, e d’improvviso tornato
a casa e cominciando a sentire la stanchezza ti visita un pensiero su
Dio, sulla sua bontà o cattiveria, o indifferenza, o quello che sia, e lo
si compara con la tua sorte, ecco che ti nasce una carica aggressiva,
come di qualcosa che con la natura non ha niente a che fare, che
non può esistere e che, se esiste, non può che mettersi di traverso
alla natura con prepotenza o almeno senza nessun riguardo.
Il pensiero di Dio è sempre fortemente spiritualizzato, e quindi
occorre con naturalezza quando soffri, sei malinconico, hai paura, ti
senti fragile, flebile, languido e attraverso quel pensiero cerchi la
risalita e la rimonta, il rilancio delle tue speranze e della tua fiducia a
vivere.
Per questo è da dubitare che possa esistere un pensiero innato di
Dio e che un bambino si volga a Dio anche se nessuno ne lo
orienta, per cercare protezione o per provare timore. Dio è per forza
il portato di una civiltà molto avanzata e che ha già sofferto prove
terribili, troppo superiori ai mortali.
493
Gli italiani e gli altri
Gli italiani eccellono nel disistimarsi, nel compiangere i propri mali
come eterni, nel considerarsi incorreggibili e inidonei al progresso e
al miglioramento. Ma tutte le popolazioni pensano lo stesso di sé,
soltanto che alcune non lo dicono in pubblico, perché più accorte, e
altre godono voluttuosamente, sempre che non vi siano stranieri a
tiro, nel denigrarsi.
Ed è naturale che ciò accada perché critichi più aspramente chi
meglio conosci. E così, vivendo nelle Marche, troverai tutti i difetti
nei marchigiani, e vivendo in Lombardia nei lombardi, salvo che
non lo dirai o lo dirai. Il non dirlo, come capita per esempio agli
inglesi, del resto, non è detto che significhi sempre un maggiore
orgoglio nazionale, perché potrebbe esprimere una segreta e
immotivata insicurezza che non dovrebbe esserci e invece
irrazionalmente, diabolicamente, persiste.
Tutti dicono che la città in cui vivono è fredda e che gli abitanti
sono chiusi, sempre mitizzando altre città, in genere del Sud, alle
quali si riconosce almeno questo vantaggio, che sono calde e
ospitali. Ma non è più vero, perché anzi i troppi problemi,
l’insicurezza della vita e dei beni, rendono le persone egoiste ed
aride, fuori della famiglia e della cerchia dei sodali, a meno che non
pensino che quella che loro vivono sia l’unica realtà al mondo. Ciò
che oggi non è più possibile.
Discorsi da ombrellone sull’Italia e sugli italiani. Esattamente gli
stessi di trenta, venti, dieci anni fa. Gli italiani non si fanno cambiare
da nessuno. Capiscono tutto loro.
Il volontariato
Fervono in Italia le opere del volontariato, ed è un segno
rassicurante in un Paese (un immenso paese dove tutti conoscono
tutti e deprezzano tutti) di evasori, truffatori, spergiuri, bugiardi e
truccatori. Vi sono donne stupende, animate dalla gioia del puro
494
dono e uomini che soli hanno inteso lo spirito virile che consiste nel
dare ad altri la propria forza e la propria allegria in modo naturale e
franco. Ma vi sono anche donne e uomini dalla vita vuota e cava,
che non saprebbero cosa fare di sé, che giudicherebbero una tortura
pensare a una qualunque cosa ambivalente e oscillante tra il vero e il
sogno.
Essi si riversano sugli altri, dedicandosi ciecamente a opere pratiche
e di sostegno fisico e tecnico, con la volontà assoluta di non pensare,
di non elaborare la più breve immaginazione e anzi di investirsi tutti
nell’azione, come l’unica forma non intinta di relativo, non ricca di
sfumature opinabili, non reversibile in astuzia e trucco per
affermarsi e farsi valere.
Essi manifestano così una fede ingenua nella tecnica della bontà, che
è la versione morale della fede positivistica nella scienza, e vi
mettono davanti al fatto che comunque quelle piaghe di decubito le
hanno curate, quel pasto caldo lo hanno servito, quel culo di vecchia
intrattabile l’hanno pulito, quel cieco l’hanno portato a passeggiare
per due ore nel centro di Milano. E questi sono fatti.
Donne in azione
C’è nelle azioni pratiche che tu compi a beneficio di un altro una
forma di bene condensata, una essenza con la quale puoi fare tanti
profumi sentimentali e affettivi, che sarebbero fallaci e ondeggianti
se non ci fossero al mondo azioni certe e codificate di bene, sulle
quali nessun dubbio può essere sollevato.
Ha odiato il padre che l’ha condannata a servirlo nel corso dei due
anni a letto che hanno preceduto la sua morte. L’ha odiato, ma cosa
volete che sia un sentimento, per quanto duro e cattivo e ostinato,
rispetto al fatto che lei l’ha fatto, rispetto al servizio che ha
effettivamente reso e che è sotto gli occhi di tutti e che vanifica ogni
filosofare scettico e distruttivo sulla natura umana, visto che è
indubbio che lei, odiando, l’ha fatto!
495
Queste rocce sedimentarie e intrusive di bene sono lo strato
geologico sul quale può crescere la pelliccia d’erba degli affetti e
delle effusioni.
Non c’è dubbio che le donne abbiano sempre dato le prove fattuali
e sperimentali più certe sull’esistenza e la possibilità del bene, anche
nelle forme più spoglie, zitte, dure, cattive, inesorabili.
Altro caso è la micidiale prepotenza e la selvaggia volontà di potenza
di certe donne che scelgono dei beneficiati sacrificali, succhiano la
vita di un maschio come fosse un film che seguono minuto per
minuto cercando di orientarlo verso il bene, verso la loro idea di
bene. Sono disposte a privarsi di quasi tutto per la buona causa che
sostengono e sono capaci di armonie deliziose se il piano si svolge
secondo le loro intenzioni. Ma se gli attori si ribellano alla regista e
soprattutto se la ignorano anche soltanto per qualche giorno, il loro
risentimento si scatena e si spande con accuse, recriminazioni,
dolenti rinchiudimenti, minacciosi silenzi, lamentazioni feroci che si
estendono fino al più potente e inarrivabile dei maschi: Dio.
Hamletica
Hamletica di Massimo Cacciari è un libro mistico, nel senso che è
volto alla decisione che soltanto adesso posso compiere, un libro
che corre verso l’attimo decisivo, il più importante di tutti, che può
essere soltanto ora. Un libro talmente sano che sceglie di
attraversare la malattia spirituale con tale purezza e coraggio da non
puntare a salvarsi ma a essere degno senza volerlo. Nel primo
saggio, su Amleto, ci dice che siamo responsabili di ciò che ora
siamo, cioè di ciò che ora facciamo. E tutto il resto è delirio. Nel
secondo, su Il castello, che non dobbiamo aspettare una chiamata, che
non arriverà, e vivere decentemente senza confidare in Dio.
Dio infatti o è un nemico o è un mistero. Se è un nemico, inutile
confidare, se è un mistero, vano cercare di illuminarlo. E se non è né
l’uno né l’altro, siamo liberi, e questa è la terribile sorte che ci tocca.
Nel terzo saggio, su Beckett, si dice che siamo già morti in vita,
comicamente morti, perché impotenti e infelici proprio in quanto
496
liberi. Non dobbiamo quindi puntare più sul dolore come mezzo di
conoscenza e di salvezza ma sulla nostra umiltà e infermità comica
di creature senza creatore, come un Buster Wittgenstein.
Gran Torino
Ho visto Gran Torino di e con Clint Eastwood, il più austero e
veritiero dei registi americani, con uno stoicismo puritano e una
onestà virile che andrebbero iniettati, si potesse, ai nostri sempre più
smidollati connazionali, che ignorano cosa vuol dire disciplina.
Dopo una vita passata a rispettare e a coltivare sfumature ogni tanto
bisogna anche ricordarsi che esistono il male e il bene, e che questi
vanno polarizzati perché esistano.
Se il suo personaggio è sempre e comunque quello del giustiziere, in
questo film si risente il passaggio benefico alla presidenza di Obama.
Il vecchio operaio della Ford, che conosce il nome e la funzione di
ogni attrezzo raccolto nel suo garage in cinquant’anni di dedizione al
lavoro fatto bene, fa giustizia, in questo caso offrendosi come
vittima sacrificale alla sparatoria di una gang cinese, per salvare il
muso giallo che cerca di non farsene incastrare e al quale lascerà nel
testamento la sua Ford Gran Torino del 1972.
Clint si fa fare il primo vestito su misura della sua vita per esserci
sepolto. Una parabola: la morte, il primo e solo vestito su misura?
No, non è questo, ancora una volta le cose vanno fatte bene fino alla
fine.
Qualcosa di regale
Pensiero terribile: Non c’è in me, in ciascuno di noi, qualcosa di
regale, la nobiltà presuntuosa di un sovrano spodestato? Contro il
quale si esercita, ma da parte di chi?, la spregiudicata e cinica
potenza dell’usurpatore?
Un male oltre il male
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Parliamo di un dio del pianeta terra, che è meglio. Che ne sappiamo
noi dell’universo?
L’uomo, un animale processuale. Un essere per cui la giustizia è
questione di logica inesorabile, non certo di vita.
Un mare di male che copre i due terzi del pianeta. Il bene però non
ha continenti, solo terre emerse, isole, arcipelaghi al massimo.
Norman Mailer ha detto in un’intervista che nel Novecento è stato il
diavolo a vincere. Ma che la battaglia continua.
Conrad scrive che il diavolo ha come sola movenza l’orgoglio
satanico, e quindi non è poi così nero come si dipinge (Con gli occhi
dell’Occidente).
Non fosse il diavolo ad aver vinto, ma gli uomini, come la
metteremmo per il futuro?
Dio è perdente sulla terra. Quindi o non esiste Dio o deve vincere
dopo.
Noi italiani del tutto smidollati sul problema del male: non vediamo
la foresta del male a causa degli alberi della cronaca nera.
Come la malattia è schermo alla morte, come ho detto in un altro
pensiero, ed è per questo che piace tanto, soprattutto agli anziani,
parlarne, così la cronaca nera è schermo del male.
La verità non è una cosa, è un chi. Sei tu, sono io. E brucia.
Improvvisi
Espellere tutto: pipì, cacca, sudore, sperma per svuotarsi, diventare
più leggeri.
498
Dicono: “L’estate è già finita” prima ancora che cominci.
Desiderano la fine, hanno paura di vivere l’acme, l’apogeo, lo
aggirano sperando che la vita torni a morire mediamente con la
stessa calma statistica e stilistica, senza punte e senza exploit. Il
bisogno di chiudere le situazioni, di liquidare quello che c’è da
vivere, di sgombrare il campo dalle attese e dalle aspettative per
tornare al più presto alla non vita.
Vivere è l’ostacolo che ci impedisce di capire quello che, non
vivendo, non esisterebbe.
“Ho paura di andare a letto da solo a cinquant’anni suonati.”
“Segno che non sei invecchiato.”
9 agosto
VIII canto del Paradiso
Nell’VIII canto del Paradiso Dante nomina la natura sette volte. E
nel “più ampio spettro di significati”. Vittorio Sermonti, nel suo
commento alla terza cantica, osserva che “nella lingua in cui
parliamo, la parola ‘natura’ connota comunque un antagonismo
forte con lo storico e con l’artificiale", mentre nel Medioevo, nel
quale il potere di incidere e deformare l’opera della natura era
insignificante tale conflitto non poteva avere senso. “Così, per i
contemporanei di Dante, la mietitura non è meno naturale del
frumento, una cattedrale o una scarpa testimoniano della vita del
creato non meno di una rondine o del mare.”
L’osservazione è suggestiva e ponderata e tuttavia non mi convince.
Vero è che il lavoro umano, in ottica religiosa, non è che la
prosecuzione del creato. Ma esistevano mestieri, nell’alto Medioevo,
come l’usura e la mercatura i quali, rubando il tempo e lo spazio a
Dio, valorizzavano le merci in modo innaturale. Senza dire che da
sempre è inscritto nell’animo umano il senso di una natura
primordiale, età dell’oro, paradisiaca, genuina, da subito tradita e
offesa, da riscoprire e rigenerare.
499
Né è pensabile mettessero sullo stesso piano la rondine viva e quella
scolpita.
E tuttavia pensare che la storia fosse per loro più dirittamente
un’espressione della natura è tanto possibile che oggi stesso io credo
che così sia, che le settantamila sostanze prodotte dall’uomo siano
comunque naturali, che i millenni di civiltà siano anch’essi naturali,
che tutto alla fine non sia e non possa essere che natura, perché
tutto può storcersi dalla fonte fino a snaturarsi, in senso relativo, ma
non può prescinderne, né nella materia né nella forma in senso
assoluto, come fosse di tutt’altro genere, sicché porterà comunque
l’impronta dell’origine nella più spinta contraffazione e nella
inimicizia più spietata col principio generante.
Si dovrebbe semmai parlare di natura prima e natura seconda, come
fa Leopardi più volte nello Zibaldone.
“La circular natura” (v. 127) del cosmo è in sintonia con la “natura
generata” (v. 133), guidata dal “proveder divino” (v. 135), che è
buona. Ma c’è bisogno della fortuna: “Sempre natura, se fortuna
trova discorde a sé, com’ogne altra semente fuor di sua regïon, fa
mala prova” (vv. 139-141). E della volontà di attenersi alla sostanza
naturale: “E se ‘l mondo là giù ponesse mente al fondamento che
natura pone, seguendo lui, avria buona la gente” (vv. 142-144).
16 agosto
Rimpianto di gioie non godute
Una persona cara dice, come tutti gli anni, che ha aspettato tanto i
dieci giorni in cui siamo stati insieme e che sono volati così
rapidamente che sono già passati, e che quindi sarebbe stato quasi
meglio non ci fossero mai stati.
Potrei pensare che li abbia vissuti con tale gioia che adesso
rimpiange di perderli, mentre invece si rimpiange un periodo che ci
ha creato tante aspettative proprio perché non lo abbiamo goduto.
Se così fosse stato. penseremmo subito che comunque lo abbiamo
500
vissuto, e che è una provvista che non potrà più esserci tolta, un
cibo che ci ha nutrito e rigenerato e in virtù del quale ora possiamo
affrontare il momento presente.
Padre della madre
Una delle esperienze più dure della vita è assistere ai cambiamenti
che subentrano in una persona cara, e soprattutto nella madre o nel
padre, con la vecchiaia. E non dal punto di vista fisico perché,
essendoci spesso sotto gli occhi, noi ne vediamo le trasformazioni in
modo graduale, ma quanto al carattere e all’attitudine verso la vita,
che arrivano a snaturare una persona e a renderla quasi
irriconoscibile.
Essendo poi abituati ad esserne, se non consolati, compresi e
sostenuti, la situazione, invece che alleviarsi, si aggrava. Ci riesce
impossibile consolarla, non essendoci mai stato bisogno di
approntare, negli anni, le strategie giuste, tanto più se lei è stata
incline a sdrammatizzare e a risolvere in gioia generosa quello che
adesso regolarmente, a causa della sua paura di perdere la salute e la
stessa vita, si risolve in angoscia, si annoda in rabbia e in delusione.
Quando arriva il tempo di essere padre alla madre, madre al padre,
bisogna prepararsi come a uno dei fronti più cruenti della vita.
19 agosto
Esprimere gli affetti li potenzia
Esprimere gli affetti li incoraggia e li potenzia, sicché attestando,
anche esagerando e persino affettando, un sentimento benevolo
verso un’altra persona, finiamo per provarlo ben oltre la semplice
manifestazione. E costruiamo a noi stessi una convinzione e quasi
un patto di benevolenza, grazie all’abitudine, per cui non riusciremo
più a fare del male, e neanche a pensarlo, verso colui che abbiamo
pubblicamente o privatamente gratificato di parole di stima, seppure
non sentite. Dal che discende come corollario che gli astuti
501
estorcono riconoscimenti, ben sapendo di vincolare a essi la stima di
chi se li lasciati strappare.
Così se un critico autorevole parla troppo bene di un libro che non
lo merita, con gran difficoltà farà una palinodia in pubblico.
Preferirà anzi tacere e così per decenni l’ingiustamente beneficiato si
avvarrà di quel titolo e potrà usarlo anche per smontare e
scoraggiare i detrattori.
Al contrario, non manifestare la stima apertamente la smorza e la fa
decadere nella persona stessa che pur la prova, e sincera e forte,
sicché troverai facilmente che colui che ha saltato l’occasione di
esprimerla non lo farà mai più, spinto da una inerzia del suo silenzio
accecante, dotata di una sua forza meccanica invincibile, che
chiunque sarà libero di interpretare come indifferenza o disprezzo,
finché lui stesso, convinto dalla sua stessa omissione, pregerà una
persona o un’opera molto meno che non all’inizio.
Allo stesso modo non esprimere gli affetti li smorza e li atrofizza,
sicché chi sempre li nasconde nella riservatezza, li cova nel segreto,
non si abbandona mai a effusioni, non bacia, non abbraccia, non
dice frasi dolci e carezzevoli, finisce per non provare neanche più i
sentimenti che quelle frasi e quei gesti avrebbero risvegliato.
Non è da credere all’esistenza di questi mondi d’amore sotterranei e
segreti di cui si favoleggia, che mai in tutta la vita si manifestano
perché la persona sarebbe di carattere riservatissimo, finché un bel
giorno un gesto rivelatore porta alla luce una cascata di emozioni
pluridecennali, come in tanti film ci assicurano che accada.
In questi casi si tratta semmai di un improvviso risveglio di affetti e
sentimenti per tanto tempo in letargo, che semplicemente prima non
esistevano se non in uno stato debole e latente.
Di quello che ho appena scritto io sono convinto perché
l’esperienza me lo ha attestato tante volte eppure devo dire, per
amore di una verità più completa, che esistono esseri, soprattutto
donne, capaci di non esternare mai o quasi mai sentimenti molto
profondi e costanti.
502
Sono casi molto rari e tragici, perché uno spreco di tal genere che
assimila la persona amorosa e riservata a quella egocentrica e fredda,
in tutto e per tutto, è una specie di ricchezza povera, di virus assurdo
dell’amore, di stupidità insita nel cuore dell’intelligenza affettiva, che
non mi commuove affatto, come invece accade a tanti registi, attori
e spettatori.
Caso diverso è quello dei genitori verso i figli dove l’amore è così
forte, dominante e indiscusso che si possono ben tralasciare le
manifestazioni dell’affetto, senza che esso sia minimamente
indebolito. E tuttavia così facendo, pur amando nel modo più
disinteressato, si privano i figli di un bene di cui nessuno li risarcirà.
Tre tipi di pensiero
Pensieri che si sviluppano nel tempo dall’esterno, che consentono
alla vita organica, come nella dialettica di Hegel. Pensieri che si
staccano dal tempo, perché il tempo è la loro forma perenne di
organizzazione, la camera dentro cui si muovono, come
nell’intelletto kantiano. Pensieri che vivono ora la vita dall’interno e
non potranno essere scritti ma solo segnalati dalle parole.
26 agosto
Pedagogia di Pasolini
Pier Paolo Pasolini, nelle sue risposte ai lettori di “Vie nuove”, dà un
ottimo esempio di cosa voglia dire impostare il discorso
retoricamente, dando a questa parola il senso migliore, cioè quello
pedagogico. Ogni sua affermazione, e specialmente quelle più dure e
implacabili, sulla chiesa, sulla scuola, sulla borghesia, sulla cultura
italiana sono volte a produrre l’effetto, anzi la scossa scandalosa più
efficace al conseguimento del risultato, cioè lo scuotimento di una
coscienza assopita dentro i pregiudizi e, spesso, le angosce di una
classe sociale, di uno spirito aggressivo chiuso nella trappola di una
mentalità che gli fa del male tanto più la trova naturale e giusta.
503
Quando poi qualcuno gli chiede conto di quello che ha scritto,
intendendolo nel senso letterale, cioè non retorico e non
pedagogico, Pasolini si sdegna e si ribella. Dice per esempio che
Marx andrebbe sostituito a Cristo, ma per risvegliare un desiderio di
azione concreto contro le ingiustizie economiche, per rivendicare
poi, di fronte al contraccolpo delle obiezioni, il carattere astratto,
simbolico, provocatorio della sua espressione. E contrattaccare
dicendo che un lettore intelligente avrebbe dovuto capire la boutade.
Dice che con l’atto omosessuale si risolverebbero i problemi del
sovraffollamento e poi si difende dalle ironie di Umberto Eco,
umiliato da lui per come la sua azione scandalosa è stata fraintesa
proprio con un’assunzione letterale. Dice che la scuola media
andrebbe abolita e poi rimane offeso dalle obiezioni che essa ha
contribuito all’emancipazione delle classi popolari.
In altre parole, Pasolini rispetta i suoi lettori a tal punto da esigere da
loro la stessa febbre di purezza e la stessa libertà oltranzista di
parola, puntando direttamente non ad un modo di ragionare e di
parlare convenuto ma a un modo di essere e di agire, capace di
scavalcare la provocazione, traendone l’energia per reagire e per
rompere l’uovo della convenzione e del pensare pigro e collettivo.
Il suo non è un uso magico della parola ma fortemente pratico e
morale, affinché il conoscere e l’agire siano strettamente legati fino a
conseguire, attraverso la retorica e la pedagogia scandalizzanti,
drastiche, basate spesso sul contrasto e sull’ossimoro, un’ultraverità,
cioè la capacità di non scandalizzarsi per potere comprendere e
rinascere.
Scrivere è esagerare
La letteratura è esagerazione non solo nella prosa narrativa e nella
poesia ma anche nel discorso critico. Questa non solo è una
condizione perché il discorso resti impresso ma è l’unico modo per
far sì che quanto si dice non venga sciolto da quegli avverbi e
locuzioni – “qualche volta”, “spesso”, “in certi casi”, “dal mio punto
504
di vista” che sono un modo inconscio per disinnescare la potenza di
quello che si sta dicendo.
Se io scrivo che la chiesa “qualche volta” è a sostegno dei potenti,
non ho detto nulla, perché “qualche altra volta” è a sostegno dei
deboli. Se invece dico che “la chiesa è sempre a sostegno dei
potenti”, che “la chiesa è sempre il contrario del cristianesimo”,
ottengo una forza di scuotimento, che deriva da un’affermazione
falsa, ma che solo così può mettere in moto una reazione vera.
Affermare, come fa Pasolini, che professare la carità è qualcosa di
mostruoso perché vuol dire rassegnarsi a un mondo in cui ci
saranno sempre mendicanti scatena le proteste più accorate e ti
spinge o a rifiutare e odiare colui che osa dirlo o a interrogarti e
mettere in allarme la tua più placida convinzione. E spesso induce
insieme a tutte e due le reazioni.
Un modo così duro e coraggioso di usare la retorica costringe a un
modo di essere sempre vigile e radicale, come è stato, prima e più di
tutti, quello di Cristo, e presume uno spirito che si mette sempre in
gioco nelle sue fibre, tanto più drammaticamente quanto più
l’imitatio Christi è terribilmente seria, visto che non ci sarà mai un
altro Cristo, e che l’immane impiego di inquietudine, onestà e
profondità, il lavoro diuturno per spiegare, intervenire, guidare non
potrà approdare che ad avere effetto su poche centinaia di persone e
per breve tempo, senza poter approdare mai a un modo nuovo di
vivere.
Che ci saranno sempre guerre è banale, che la maggioranza delle
persone sarà sempre eterosessuale è banale, che la carità farà
comunque del bene, visto che mai ci sarà una società giusta ed equa
è banale, ma vero. Quali sono però gli effetti di queste constatazioni
vere secondo Pasolini? Lo sdraiarsi sulla società com’è, cercando di
integrarsi nel modo più placido. È l’effetto di questo modo di
pensare e di parlare che Pasolini respinge con tutte le sue forze.
La sua retorica perciò attacca gli effetti, dicendo il falso in modo da
produrre il vero come effetto.
505
L’accusa di egocentrismo, o addirittura di voler fare il testimone
sacrificale, che gli è stata rivolta è arida e spietata. Ci vorrebbe più
gratitudine per il suo lavoro impossibile di educatore, visto che lui
ha sempre saputo benissimo che non avrebbe potuto produrre
effetti durevoli. Ma ha dato una bella scossa alla pianta, e continua a
darla anche oggi per chiunque lo legga. E questo fa finalmente
cadere la frutta.
Poi sei libero tu di mangiarla o no. Ma almeno non ti limiti a
contemplare il frutto marcio che cade da solo.
“Ma l’ansia raramente diventa vera e propria malattia. Essa
perseguita tutta la vita le persone sensibili (che sono poi tante). È un
sottile male, che dà una continua sofferenza, una tentazione
continua di lasciare, di arrendersi: di anticipare la fatale clausola della
morte” (Pier Paolo Pasolini, “Vie Nuove”, a. XVI, n. 48)
30 agosto
Uomini misteriosi
Di continuo vengono proposte dai giornali e dalle riviste immagini
di uomini che guardano misteriosamente al di là del riquadro della
foto, pensano, sognano, provano sensazioni indefinibili e gravide di
avvenire, sono capaci di passioni inaccessibili ai comuni mortali e
schiudono nel loro sguardo mondi a cui tutti vorrebbero accedere.
Sono forse poeti? No, sono allenatori di calcio.
Vi sono poi foto di uomini decisi, fieri, vigorosi, che guardano
risolutamente in faccia e fanno guizzare i muscoli del volto, hanno
occhi volitivi e la pelle abbronzata, spingono avanti i pettorali e
camminano a gran passi. Sono timonieri di regate oceaniche,
condottieri di eserciti, esploratori di terre incognite? No, sono
industriali e finanzieri.
Ecco comparire, sfogliando il giornale con la galleria dei grandi
uomini, personaggi che meditano profondamente, stringono gli
occhi per arrivare a intuizioni risolutive, parlano lenti e severi
506
pesando ogni parola. Sono forse filosofi? No, sono uomini di
partito.
Tutti recitano personaggi destinati ad avvincere le masse, essendo
dentro completamente vuoti, per affidarsi tutti alla loro parte.
Intanto coloro che veramente sentono, coloro che veramente
pensano, coloro che veramente agiscono sembrano alle masse esseri
vuoti e strani, le passioni dei quali non interessano nessuno, le
malinconie dei quali sono ridicolizzate, i pensieri dei quali sono
incomprensibili, le traversate oceaniche in solitaria dei quali
sembrano fatti privati o hobby di clan e di setta.
Poeti, pensatori, scienziati non esistono o esistono blandamente, il
loro difetto principale restando quello di non essere milionari.
Gli studenti in televisione
Quando c’è un film o uno sceneggiato televisivo gli studenti non
hanno regolarmente nessuna voglia di studiare, sono somari felici o
sofferenti, pieni di vitalità, di sfrontatezza simpatica, di
maleducazione allegra alle quali il regista ammicca, criticando
debolmente, e in fondo consentendo. Unica alternativa immaginata
e considerata infinitamente peggiore quella di un ragazzo che, per il
fatto di studiare, si isola dal mondo, si deprime, diventa rigido,
intrattabile e antipatico.
Quando si mette in scena una classe durante la lezione in televisione,
i contenuti sono del tutto irrilevanti, o abbozzati in modo patetico,
quello che conta è sempre l’onda delle passioni che costantemente
agiterebbe gli studenti, che non fanno che pensare a innamoramenti
incrociati e intramati, o sprofondano nella noia fino a spalmarsi sui
banchi o incessantemente si volgono a quello che faranno appena la
lezione sarà finita. Gli insegnanti sono macchiette oppure
investigatori, mamme ausiliarie, schianti di ragazza, magrolini
occhialuti e timidi, finché non appare il tipo carismatico che le
ragazze tentano di sedurre mentre i ragazzi ne fanno il loro eroe o
nemico.
507
Il luogo dell’educazione, l’unico disperato tentativo di educare un
popolo ineducabile viene ridicolizzato felicemente con il consenso
di tutti.
Quando un regista fa la satira della società fa sempre il doppio gioco
perché dirà con gli intellettuali che la sua è una critica spietata e con
gli anti intellettuali che l’ha fatta per farci fare quattro risate. Per
come si fa la satira oggi infatti la bonomia, l’indulgenza, l’ammicco,
la complicità sono esattamente pari, se non superiori, all’ironia, al
disgusto, alla messa in ridicolo. Tutto ciò passa per una superiore
umanità e per la classica bonomia e sapienza di vita italica
I giovani dovrebbero ribellarsi al modo in cui sono rappresentati in
televisione. Io che ho fatto scuola a migliaia di ragazzi, in regioni
diverse d’Italia, non ne ho mai incontrato uno che assomigliasse
vagamente a quei citrulli presuntuosi e vitalisti caotici che ci
compaiono davanti sullo schermo.
Imperdonabile
Una colpa imperdonabile: negare l’amore a chi se lo merita.
Il genio perfido del capitalismo è quello di rivolgersi ai bambini e ai
ragazzi e di corromperli con un paese dei balocchi messo sotto gli
occhi ogni cinque minuti e pagato dai genitori coglioni e passivi.
Una colpa d’amore incrociata
Un amico mi confida che dopo tre anni dalla morte della moglie si è
innamorato di un’altra donna e si sente in colpa per la sua felicità.
Ma non è questo, penso, il sentimento più forte che dovrà affrontare
perché, innamorandosi di un’altra, si riaccenderà simultaneamente il
suo amore per la moglie scomparsa, e tanto più rilancerà
quest’amore nuovo, tanto più si infiammerà l’amore più antico e più
forte, perché ormai impossibile, e contro il quale nessun amore con
persona viva potrà competere, sicché al sentimento di colpa verso la
508
moglie scomparsa si aggiungerà il senso di colpa verso la donna viva
e amata.
E proprio questa colpa incrociata sarà la verità di quest’amore.
3 settembre
L’inizio della libertà
Il pensiero è il modo che hanno i filosofi di essere liberi. Nella
Critica della ragion pura c’è già la Ragion pratica (l’io penso deve poter
accompagnare ogni rappresentazione), e anche nella dialettica
hegeliana c’è già la volontà motrice, visto che non solo il motore
della logica formale qualcuno lo deve accendere e ci deve buttare
anche dentro il carburante. Ma prima deve pure spezzare le catene
dei sensi (l’allegoria platonica della caverna). E perché lo fa? Perché
alcuni (tutti, in potenza, ma pochi di fatto) lo fanno? Boh. Anche
Nietzsche dice che a un certo punto della storia nasce lo spirito
libero e non si sa perché.
Divento libero nell’inizio misterioso in cui comincio a pensare? O
divento libero nel momento in cui nasco e misticamente apro gli
occhi sul mondo? Ricevo un dono che non capisco, una libertà
vertiginosa dentro cui sono, una vita prima di quella vita che per il
filosofo è il pensiero?
Voi chi pensate che io sia?
Il discorso che Massimo Cacciari ha tenuto a Pesaro, muovendo
dalla frase di Cristo “Voi chi pensate chi io sia?”, non è stata una
lezione ma un’esperienza mistica, intendendo il mistico come lo
sprofondarsi ora nella vita concreta della libertà. Un discorso
ispirato dall’inizio alla fine, perché la libertà di cui ha filosoficamente
parlato, l’ha direttamente messa in atto. E resta un fuoco che non si
spegne, un’ora che non passa.. Un’esperienza da Settima lettera
platonica che non avevo mai sperimentato semplicemente
ascoltando.
509
Il dono, il perdono, il transito amoroso come libertà mistica che in
qualunque “ora” e in qualunque condizione posso attivare.
Posso sempre amare ma non posso sempre pensare. Allora perché
penso tanto e amo così poco?
Un pensiero che può non essere trionfo baccantico, ma carità. Senza
smettere di essere pensiero? Un intelletto d’amore? O l’amore sale
sul pensiero solo per prendere lo slancio?
L’amore spesso evita il pensiero come la peste.
Platone nella Settima lettera parla di questa conoscenza che irrompe
all’improvviso e solo attraverso il discorso orale. Parla cioè di una
ispirazione filosofica, diversa e simile a quella poetica. L’ispirazione
filosofica è ormai quello che conta, del tutto diversa da quella
poetica, ma dalla stessa fonte.
4 settembre
La calma
L’assetato si placa bevendo, l’affamato mangiando, l’assonnato
dormendo ma colui che pensa non si placa pensando.
Conquistare l’oggetto del pensiero placa la tensione quando si fa una
scoperta scientifica. Conseguendo un risultato si può smettere di
pensare. Ma come si placa un pensiero su ciò che non si può né
scoprire né conquistare? Col non pensiero, che non va confuso con
l’assenza di pensiero. Perché invece è il perdurare della domanda in
una specie di dormiveglia, di non pensiero che è pensiero, nel quale
ti apri al mondo in modo indicibile e soave, nel mareggiare di uno
stato d’essere che continua a vibrare, come una lamina dopo che è
stata rilasciata una pressione.
La cosa più difficile da conseguire e più bella da godere, che fa
convergere tante qualità morali in una sola e raccoglie tante
510
conquiste spirituali, un dono divino sempre trascurato e
sottovalutato: la calma.
6 settembre
Intuizioni
Come faccio a capire se un autore vissuto millenni fa è ancora vivo?
Penso se riesce a cambiarmi in qualche cosa.
Il mio difetto è di aspettare che qualcuno prenda l’iniziativa per
mettere in moto le mie qualità e, cosa molto più importante, la mia
generosità.
Se perseguo qualcosa per la mia vaneggiante glorificazione, fallisce.
Se la intraprendo per il bene di un altro infallibilmente riesce. Segno
di un destino o di una piccola vocazione?
Uno deve mettere in moto l’amore esattamente dov’è, nel suo
mestiere e nella vita concreta. Un bancario per esempio deve essere
generoso nel concedere un mutuo. La cosa suona ridicola mentre è lì
esattamente che dovrà mettere in moto l’inventiva del suo amore,
rischiando non in modo istintivo, che lo porterebbe al fallimento e
al licenziamento, ma sfoderando tutte le sue arti bancarie ed umane.
Quando uno è ispirato, non gli importa di sé. Sta talmente bene che
non ha bisogno di dedicarsi al proprio bene tecnicamente.
Non dobbiamo partire dalla scimmia per arrivare a noi né partire da
noi e andare a ritroso. Cacciari ha detto a Pesaro: “Da qualunque
animale noi possiamo derivare, ciò che conta è che noi oggi siamo
questi animali.”
15 settembre
Una poetica.
Tomasi di Lampedusa
511
Tomasi di Lampedusa scrive a proposito di Stendhal che non
esprime le sensazioni ma le trasmette, e soprattutto quella del
tempo, il suo principale rovello.
Lampedusa stimava lo stile magro, allusivo, elusivo, implicito,
“sincopativo”, con pochi aggettivi e scrive con uno stile grasso,
esplicito, aggettivante, sensuale. Quello che amiamo non è
precisamente quello che stimiamo, visto che stimiamo chi è così
forte e bravo da distrarci del tutto da noi stessi, da smagrirci e
renderci leggeri e asciutti come non siamo.
In arte il meno è più difficile del più. Ma soltanto quando al più si
rinuncia. Tomasi di Lampedusa ha scritto di preferire lo stile magro
di Stendhal allo stile grasso, per esempio di Balzac. Ma ha scritto il
suo romanzo con uno stile grasso. Si può apprezzare uno stile, in
genere quello di cui non siamo capaci, ma si scrive con lo stile che si
è.
Lampedusa scrive di Stendhal (Opere, p. 1774): “Si poneva a tavolino
e non aveva che da ricopiare, per così dire, dalla propria memoria
ridiventata sensazione il suo libro. Era affare di pochi giorni. Ed il testo
appariva sciolto, irruente, improvvisato, mentre era il frutto di una
lunga e minuziosa elaborazione compiuta però non sula carta, sulla
quale non si possono fare elaborazioni che di parole, ma nel calore
della sensazione, con l’infallibile istinto che tende a render netti i
pensieri prima che li formuliamo. (Essi si intorbidano dopo, alla
scrittura.)”
Scrivere prima di scrivere, pensare prima di pensare.
16 settembre
Pensieri da viaggio
(Tbilisi, Georgia)
La barba
512
Nel rito greco-ortodosso l’importanza della barba e del pelo è
ancora molto forte. Come mai invece nella chiesa cattolica essa non
ha attecchito che raramente e soprattutto fino al Cinquecento (vedi
il ritratto di Raffaello di Giulio II)?
In genere la barba è adottata dal clero ogni volta che c’è una
fiammata spirituale e che comunque si sente la supremazia dello
spirito sul corpo, e la si vuole marcare col pelo sul volto per
significare la gravezza, la profondità meditante, la foltezza del dolore
purificatorio, anche nel trentenne che tenta di sembrare un
cinquantenne, di acquisire quella autorevolezza che è concessa in
genere soltanto agli uomini maturi.
Ed è singolare che proprio l’attributo più animale della barba, la
memoria del pelame bestiale, quello che spinge Schopenhauer a una
invettiva inesorabile, venga scelto dal clero greco-ortodosso o dagli
ebrei più rigidi nel culto come segnacolo dello spirito.
La barba era adottata anche dai rivoluzionari, per distinguersi dagli
altri, ma soprattutto per trapiantare nella sfera laica e politica la
stessa autorevolezza sacrale associata in passato agli uomini di culto.
Anche in questo caso il pelo, oltre che essere segno di virilità e
quindi di forza, è un modo per marcare il corpo con la potenza
dell’ideologia, in questo caso, che anima come fede politica il
rivoluzionario.
Meraviglia georgiana
Assistendo ai cambiamenti profondi e superficiali che avvengono in
Georgia, questa terra europea meravigliosamente fervida, libera,
originale, cristiana e mediterranea, a dispetto della geografia,
folleggiante in modo benigno e temprata da mali affrontati con
stoico humour, ho osservato che le donne stanno cambiando più
rapidamente degli uomini. E non tanto nell’assomigliare alle parigine
o alle romane, quanto nell’essere moderne a modo loro. Mentre gli
uomini resistono a ospitare uno spirito fiero e geniale in corpi buoni,
goffi, agricoli.
513
A Tbilisi tu non esci per comprare, perché non c’è nulla da
comprare, nel senso che non c’è l’assedio delle vetrine ammiccanti e
seduttive. Ci sono negozi dove comprare quello che serve. Questo ti
libera a tal punto che uscire dall’albergo e andare a piedi al centro
diventa una pura avventura dello spirito.
In tutta la città, di quasi due milioni di abitanti, c’è una sola libreria
inglese. Per il resto la televisione, il cinema, il teatro, le conferenze,
tranne che nell’università, sono tutti in georgiano, una lingua che è
l’unica del suo ceppo e scritta in caratteri anch’essi unici, diversi sia
dal greco sia dall’armeno sia dal cirillico.
Dovresti averne un senso di clausura e invece no, perché del tutto
aperta è la comune fraterna umanità, l’internazionale vita che si
riconosce e si comprende da mille altri segni.
In Georgia hanno vissuto per dieci anni al buio completo, dal 1992
al 2003. Si scaldavano con bracieri e stufe a legna, lavoravano al
freddo e la notte si rintanavano nelle case, perché le strade erano
fasciate solo dalle scie delle poche automobili. Niente televisori,
radio, Internet. Candele e cherosene. Poi finalmente quattro ore di
elettricità. I bambini nelle campagne hanno scoperto a dieci anni
l’esistenza della luce elettrica. Nessuna industria e un commercio
moderato. In quegli anni i georgiani hanno lavorato in ogni modo,
con un’inventiva italica, mentre l’occidente, visto dal cielo, era un
immenso parco di luce acceso anche di notte, sprecava energia, luce,
intelligenza, morale, verità. Dissipava idee, parole, emozioni,
sentimenti.
Incontrandomi con alcuni di loro, persone di gran valore e con
personalità tutte originali, ho visto che non sono rimasti indietro
nemmeno di un passo in ogni strada, non solo culturale, che conta.
Come è possibile?
Non voglio neanche dire che siano più forti e temprati di noi,
perché il capitalismo, il consumismo, la frenesia smaniosa della
nostra vita, la freddezza, la violenza acerba, il cinismo, l’eccitazione,
l’euforia il passaggio continuo di stimoli, smacchi e successi alterni,
514
impongono una prova di resistenza almeno pari delle privazioni, dei
vuoti, del rallentamento, del digiuno, della riduzione all’essenziale.
Tra il troppo e il troppo poco, fermo restando che a loro
toccherebbe adesso conoscere un po’ di benessere e a noi un po’ di
penuria, la nostra povera natura è sballottata senza trovare pace e
senza darla.
I mendicanti e gli sfollati sono una legione a Tbilisi. Ci sono donne
magrissime che porgono la mano bianca dalla veste nera con la
finezza di una aristocratica. Uomini bruni che porgono la mano
selvaticamente. Due mani si toccano, una dà un soldo l’altra una
benedizione.
Restaurano in via Rustaveli le facciate dei palazzi storici e dentro
restano le stanze con gli stessi odori di cento anni fa. Il passato resta
parente del presente.
Lamentiamo che in occidente i ricchi diventano ricchissimi e i
poveri poverissimi. Lo stesso fenomeno si registra in Georgia, dove
è ricchissimo il dieci per cento della popolazione. Da loro, perché
non si è ancora formata una borghesia capitalistica, da noi perché sta
riducendosi sempre più.
A Tbilisi, sotto la pioggia, gli uomini non aprono mai l’ombrello
perché non è virile. Mi riconoscono subito come occidentale perché
preferisco non bagnarmi la testa.
Non si ride molto a Tbilisi. Solo le ragazze ridono. Certe bellissime,
originali, eleganti, fiere, animali razionali superiori.
Dopo tante privazioni, adesso guidare l’auto a Tbilisi è una festa e
un gioco. Un fiume di alluminio, plastica, ferro, benzina su strade
dissestate con buche micidiali, che stanno ricoprendo ogni giorno.
Suonano allegramente le trombe nella fiumana, senti le
radioriceventi della polizia a distanza di centinaia di metri.
Scrosci violenti e brevi di pioggia, sassate d’acqua che fanno pozze
in mezzo ai platani nella notte finalmente illuminata. Tutto è sonoro
e potente, come nei film che vedevamo da ragazzi.
515
Per capire i cambiamenti bisogna amare, scrive Pasolini.
21-26 settembre
Scambi di libri
Quando qualcuno mi manda un suo libro che non mi piace e mi
chiede un giudizio io mando sempre un mio libro per risposta
perché l’avversione è sempre reciproca, come la propensione, così
sono esonerato dal mentire, perché chi riceve il mio, non
gradendolo, smetterà di pretendere che io gradisca il suo. Questa la
strategia di un mio amico.
Capita invece che qualcuno ti mandi un libro che ti piace e che il tuo
invece non piaccia a lui o che apprezzi il tuo libro uno che scrive in
modo per te incomprensibile. Segno che l’ammirazione è insincera,
torbida, passionale, leggera?
Se uno ammira un libro in modo incondizionato ha la ferma
intenzione di non leggerlo più.
Tu dici di un libro: “È bellissimo.” Ti condanno a rileggerlo. Se
soffrirai le pene dell’inferno ma arriverai alla fine, non sarà stato un
fenomeno ottico. Se ti piacerà per la seconda volta si convertirà in
un premio per te e in un segnale per me che non tutto è perduto.
Confutazioni sofistiche
Un buon lettore è uno che immagina un libro diverso grazie a quello
che è stato scritto. Cattivo sarà colui che legge esattamente quello
che c’è scritto.
Un buon critico è colui che immagina esattamente il libro che è stato
scritto.
516
Un critico ancora più buono sarà uno che non solo immagina lo
stesso libro esatto, ma lo giudica rispetto a un’idea di letteratura,
incarnata da quello scrittore o da un altro, migliore o peggiore, che si
è misurato in una prova simile.
E non già colui che cerca lo scrittore che incarni la propria idea di
letteratura, giacché la sua idea non esiste in effetto, non avendo egli
scritto mai un libro come lo vorrebbe.
Il critico peggiore di tutti è quello che accorre a giudicare un libro in
base a una idea di letteratura che nessun altro scrittore al mondo ha
mai realizzato.
Un buon editore è uno che immagina come la maggioranza dei
buoni lettori accoglierà il libro. Tale maggioranza sarà però pur
sempre un’infima minoranza. Il buon editore è destinato quasi
sempre al fallimento.
Un cattivo editore è uno che immagina la maggioranza dei lettori
simili al suo alter ego medio. Ed è destinato al successo, a meno che
non esageri in disistima del pubblico.
Un buon editore deve essere uno scrittore mancato, non perché si è
misurato e non è riuscito, ma perché ha rinunciato a misurarsi. E
deve essere anche un critico mancato, alla stessa maniera. Così i libri
che farà saranno i suoi, amati, adottati per scelta, non per ripiego.
Egli deve riuscire a non godere il libro in proprio, risolvendosi, e
sciogliendosi quasi, in un ente impersonale che non esiste e tuttavia
compra libri. Chiaro che non possa essere un uomo felice.
Un editore ancora più buono sarà un critico e un lettore riuscito. Per
questo in un secolo si contano sulle dita di una mano. Ma siccome
non puoi essere un critico e un lettore riuscito se non sei anche uno
scrittore riuscito (che tu scriva o no), stamperà soltanto i libri che
piacciono a lui. E sarà un bene per alcuni, un male per altri.
Esistono scrittori riusciti che non hanno mai preso la penna in
mano.
517
Ci sono editori che prendono una cotta per un libro e lo pubblicano
per questo. Non si può parlare però di amore, per questo
l’esecuzione del progetto deve essere rapidissima, prima che
l’infatuazione sfiammi.
Freddi e caldi
Quando qualcuno è freddo con noi siamo portati ad andargli
incontro calorosamente facendogli favori e gentilezze che puntano a
scaldarlo e a cominciare un colloquio alla pari. Quando qualcuno è
generoso e liberale con noi siamo portati a diventare più accorti e
avari. Così i freddi che non se lo meritano ottengono sempre di più
dei disponibili e benevoli che se lo meritano, ma farebbero salire
troppo, se ricambiati, la temperatura dell’incontro.
Questo dipende dal fatto che tra due persone si deve instaurare una
temperatura costante e media, sicché se qualcuno è bollente l’altro
diventa gelido, benché lo nasconda con arti e cortesie. La ricerca di
una misura comune nasce dalla paura degli eccessi e dell’esposizione
di sé.
Il freddo però deve avere un certo carisma, perché altrimenti verrà
isolato ed escluso. Il caldo invece, anche se ha qualità e fascino in
grado sommo, rischia di essere sottovalutato per il suo stesso calore
e propensione per gli altri. È buona regola perciò prima dimostrare
se e quanto si vale con accortezza, e quasi severità, e soltanto dopo
aprirsi e manifestare la propria spontanea amicizia, che sarà molto
più apprezzata.
La spontaneità può essere data a tutti tranne a coloro che la leggono
come un segno di debolezza e di incapacità di affermarsi e di lottare,
cioè di ritirata e resa di fronte al conflitto sociale, i quali sono la
maggioranza. Soltanto che governando e tenendo a freno i moti
dell’animo in vista di un domani sempre a venire nel quale potranno
liberarsi, si disseccano le fonti stesse della sincerità, della
benevolenza e della spontaneità, finché ne resterà leggendaria e
soltanto sognata l’espressione e la condivisione.
518
29 settembre
La didattica della giustizia
(Gherardo Colombo)
Gherardo Colombo, uno dei magistrati che più hanno tentato di
dare una scrollata all’inerzia corrotta e alla indulgenza bonaria e
crudele dei disonesti, è tornato a parlare dopo più di dieci anni agli
studenti di Pesaro. E ha incentrato il discorso sul fatto che tutti noi
siamo illegali e maldisposti verso l’uguaglianza giuridica degli uomini
e il rispetto della democrazia, nei rapporti pulviscolari di ogni
giorno, in quel piccolo mondo meschino e segreto nel quale non
pretendiamo ricevute fiscali al fine di pagare di meno e non
mettiamo in regola la domestica per risparmiare quattro soldi.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra. La sua è un’attitudine
religiosa trasposta sul piano della giustizia civile.
Voleva dimostrare ai giovani che si deve partire sempre da se stessi e
che i vertici della politica e dell’economia sono corrotti perché tutta
la piramide è corrotta. Ha espresso insieme la fiducia più convinta
nell’eguaglianza e nella democrazia, come diceva Hegel, in sé e per
sé, e ha salutato i progressi che da cinquant’anni a oggi si sono
compiuti, anche grazie alla Costituzione.
Ma l’effetto che ha prodotto, almeno in me, è stato di una
impotenza desolante e di un senso di vanificazione naturale, mentre
il suo infiammato amore per la giustizia, quando sempre più cercava
di vivificarlo con esempi ora buffi ora severi, planava fervidamente
sopra le nostre teste, risultando sempre più simile a quella utopia
romantica che lui stesso ripeteva che non dovrebbe mai essere.
Il fatto è che proprio cambiare le abitudini quotidiane di
microingiustizia è impossibile se non attraverso secoli, e comunque
in modo aleatorio e solo astrattamente accessibile, perché è più
facile dissuadere un killer a uccidere che convincere qualcuno a
pagare i contributi alla domestica.
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L’idea che l’illegalità è una sola e che non esistano gradi, se non
giuridici, di ingiustizia e di violenza, è assai perniciosa, perché quello
che si fa fare in nero il lavoro dall’idraulico mai farebbe una rapina
in banca e chi evade qualche centinaio di euro mai nasconderebbe
allo stato un milione. Chi non ha il coraggio di chiedere la ricevuta al
medico da cui dipende la sua salute non è un potenziale mafioso
perché ormai ha rotto il patto con la legge.
C’è un dosaggio personale nella propensione all’illegalità che va
attentamente valutato, come la legge fa, anche su un piano morale,
pena la caduta nell’idealismo verbale più velleitario.
Non si può applicare all’illegalità lo stesso criterio che i cattolici
adottano per la definizione dei peccati, che rimontano addirittura
all’intenzione, se non al desiderio. Altrimenti finiremo come siamo
già finiti, e cioè infierendo con sciabolate punitive contro i più
deboli e indulgendo, come sempre, con i più ricchi e potenti.
Vedi il caso di una donna che ha mangiato tre babà e per snebbiarsi
ha fatto un giro in bicicletta, alla quale hanno ritirato la patente. O
l’astemio che ha bevuto in una cena l’unico bicchiere di vino rosso
dell’anno e ogni mese deve presentarsi all’ospedale per fare l’esame
del sangue. Mentre chi uccide i passanti ubriaco o drogato, essendo
il crimine tanto più invulnerabile quanto più è grosso e micidiale,
nella perenne schizofrenia repressiva italiana, la fa franca.
Il problema della giustizia viene affrontato come quello della
medicina, cioè con la prevenzione. Si presume giustamente che con
una buona dieta e salutari camminate si scongiurino gli infarti. Che
mettendo in guardia dall’uso di spinelli a maggior ragione si scoraggi
l’uso di cocaina.
La giustizia invece deve essere sempre anche repressiva, perché non
puoi costringere uno a curarsi ma puoi costringere uno a non
rubare, rendendo la pena sicura e dolorosa e premiando invece chi
fa il bene. Punire chi fa il male infatti deve sempre essere
accompagnato dal premiare chi fa il bene, in modo che ciascuno
tragga vantaggio dall’onestà e danno dalla disonestà.
520
La soluzione di Colombo invece, che fa appello a una presa di
coscienza unanime e, come si dice, culturale, renderà gli onesti più
onesti, e cioè più indifesi e disarmati, e i disonesti più forti e
indisturbati, visto che gli onesti punteranno, nei casi migliori, sul
proprio personale, e certo sempre più infelice, perfezionamento.
Mentre i disonesti trarranno vigore dall’essere loro, nell’universale
propensione all’illegalità, i più arditi e pronti a metterla in atto
efficacemente per sé.
1 ottobre
Del delitto
(Manlio Sgalambro)
Leggendo Del delitto provo, come nelle altre opere di Sgalambro, un
senso di liberazione, rivivo l’allegria di un uomo che pensa secondo
natura, e quindi secondo la sua natura. Una festa rischiosa. Mi
compromette? Scopre qualcosa di me a me stesso? Mi costringerà ad
essere diverso? A essere contro la mia natura? Ma questo è
impossibile.
Sgalambro scrive: “Non si possono amare certe opere senza temerle
(...). L’Etica racchiude tutta l’energia dello spirito, ma la sua
esplosione non viene temuta. Anche le Idee richiedono timore.
Anche i concetti. Potete amare Dio quanto volete, ma guai a voi se
non lo temete” (Del delitto, p. 140).
Spinoza è buono, sa di non essere Dio in persona, perché Dio non è
persona. La bontà è impersonale?
Leggo Del delitto in costante timore, un timore che suscita l’allegria
del coraggio. Ma amo quest’opera? Provo un senso di salute,
gratitudine forse, e mi dico: “Guarda quest’uomo come attinge,
giustamente e molto duramente, la gioia di pensare.” Ma amo questa
opera?
Ami chi ama.
521
E aggiungo: Mi fa del bene come un farmaco, anche se non è il suo
scopo, ché se non sei già sano non ti cura.
Ridurre un pensiero al personale, riconoscere che un pensiero è
sagomato sulla natura di un uomo, è già volerlo uccidere come
pensiero universale? Secondo me, no.
I pensieri di Sgalambro non riesco a considerarli sempre veri o falsi
benché riesca quasi tutti a ripensarli, seguendone la curva e l’esito,
con immedesimazione. Immedesimarsi, e cioè ripensare, è già un
rivivere dalla nascita un pensiero, e certo assomiglia molto a pensare
in proprio, visto che ogni nostro pensiero non nasce mai in noi ma
sempre per un impulso esterno.
Non è però proprio la stessa cosa. Perché lui se ne assume la
responsabilità. E io no, finché ripenso.
Quando leggi un libro o ti deve compromettere o ne devi diventare
corresponsabile.
La gioia di pensare leggendo non è la stessa gioia del pensare
scrivendo ma le è parente stretta.
Il pensiero nasce in una mente che sola può conoscerne la gioia
nativa. Ma nel pensare è essa quella che conta, o è invece
strettamente privata e secondaria, mentre è la forza di rinascere ogni
volta di un pensiero che dà la gioia più forte anche all’autore. Che gli
fa dire: questo pensiero è vivo.
Del delitto è una storia d’amore. Ma non tra l’autore e il lettore bensì
tra l’autore e Isabelle, un personaggio femminile. Lei infatti è
importante ma laterale nello scambio del pensiero. Per forza, lei
crede in Dio, e questo è giudicato dall’autore non già illecito bensì
non idoneo a mettersi alla pari nel pensiero, qualunque sia la
gerarchia dei valori. Altrimenti sarebbe stata una donna in carne ed
ossa.
522
Un buon libro dà un senso di sollievo perché ti esonera dallo
scriverlo. Visto che non sapresti farlo. Nessuno del resto sa scrivere
il buon libro di un altro.
Compito dei buoni libri è appunto questo, darci la scossa a generare
in proprio. Molto difficile e molto sterile che due persone siano
d’accordo sui pensieri naturali e vivi di un autore. Così i pensieri che
genero io leggendo Del delitto non sono né semplici prosecuzioni né
tanto meno interpretazioni di quelli che leggo, né repliche o
antilogie, perché che senso avrebbe controbattere quando si tratta di
pensieri vivi e naturali?
Il pensiero che genero è questo: L’assassino è uno che ha abolito la
morale come pratica dell’attesa, secondo regole di comportamento
sociale, la quale dovrà garantire alla fine del processo non solo un
premio o un castigo ma una conoscenza delle cose.
L’assassino
Uccidere una persona è il male radicale. A che pro pensare il
significato del suo atto? È una conoscenza che potrebbe servire a
qualcuno per scaricare l’arma? La cosa è altamente dubitabile. Serve
allora per spegnere ogni nascosto impulso presente in noi?
L’assassino vuole slegare la verità dalla morale, in quanto uccidendo
fa la verità di un uomo, perché chiude la sua vita. Ma la vuole anche
liberare dalla conoscenza, perché il senso della vita della vittima è
troncato dalla sua mano e non può più progredire. Egli vuole che la
verità accada. Non gli basta, deve accadere subito. Nel momento in
cui uccide infatti taglia per sempre la vita di un altro e taglia per
sempre la propria in quanto uomo dell’attesa morale e della
conoscenza. Taglia la moralità del tempo e vuole che il giudizio
universale, per la vittima e per lui, sia ora.
Mentre uccide già avviene tutto, quello che per noi non avviene e
non avverrà mai in questa vita, sempre rilanciante e rincorrente,
investente e capitalizzante, oppure bruciante e vanificante, fino alla
morte detta naturale.
523
Sta uccidendo e già non c’è più tempo: l’assassinato ormai può
soltanto contare su un’altra vita, può essere affidato fin da subito
soltanto nelle braccia di Dio, perché non gli resta nient’altro. Non
importa se crede o non crede. E l’assassino non può aspettarsi più
niente da niente e da nessuno, perché ha anticipato la morte naturale
di un altro, l’ha tagliata col suo gesto, si è strappato da qualunque
affidamento al tempo, alla società, alla morale, a Dio. Qualunque
cosa faccia, comunque si camuffi, per tutto il denaro e il potere che
potrà continuare ad avere, per tutta l’impunità che potrà coltivare,
egli ha messo Dio nella condizione di agire su di lui e sull’ucciso fin
da subito, contro qualunque religione, morale e filosofia.
La sua morte naturale diventerà ben più piccola cosa.
O sarebbe così se fosse un filosofo? Gli assassini ci tengono molto a
non morire e quasi mai si uccidono da vecchi.
Ma è il suo gesto che ha un significato inesorabile, se anche fosse
analfabeta o troppo rozzo per pensare.
Non è che Socrate vuole morire, salutando come benefattore chi lo
uccide, perché stanco della vita, come scrive maliziosamente
Sgalambro, ma per sperimentare, visto che non deve fuggire,
l’avventura della morte, nella speranza di una vita più alta e psichica.
E per questo dice che “il pericolo è bello”.
Questo fulminante potere dell’adesso, che l’assassino prende in
mano sparando, è una specie di nucleo di verità straordinariamente
compresso ed esplosivo dopo il quale milioni di volumi saranno
vanificati. Una riduzione all’essenziale istantaneo nella quale lui
realizza (e annienta) anche il filosofo idealista che fa la verità nel
pensiero e nello stesso tempo la distrugge, sempre nel pensiero.
Il suo gesto omicida è dialettico? È pensiero o è anti pensiero?
Hegel, che riconosce l’omicidio di massa della guerra come vento
dialettico, senza il quale il mare della storia sarebbe putrido e
stagnante, riconosce anche questo gesto come dialettico? Quando
Gaetano Bresci uccide Umberto I è in gioco la dialettica? E quando
524
il mafioso uccide Borsellino? E quando l’uomo geloso uccide la
moglie e i figli?
Hegel non ha mai detto che tutto ciò che accade sia razionale, anzi
questo è il fraintendimento massimo del suo pensiero. Ha ammesso
però che l’omicidio collettivo debba entrare nella dialettica razionale
della storia.
Non ha detto che così debba essere bensì che così effettualmente è
stato. E tuttavia ciò che è stato, quando si tratta di omicidio, è
sempre presente, per definizione, e reclama la nostra responsabilità
attuale. Altrimenti si cade nel panteismo storico, sempre molto
pericoloso.
“C’è chi dice che la contraddizione non si può pensare: ma essa, nel
dolore del vivente, è piuttosto un’esistenza reale” (Hegel, Scienza
della logica, I, II, p. 872). L’assassino che soffre di rimorso è però un
po’ troppo filosofico per essere vero. Molti uomini ne fanno di tutti
i colori e non soffrono per niente.
O tutto questo discorso avrebbe senso, oltre il pensiero dialettico e
le sue sconcertanti ambiguità, soltanto per i casi come quello di
Michael Kleist che uccide e si uccide, facendo accadere la verità e al
contempo consegnandosi alla morte, difendendo il proprio onore
nella milizia della vita. Kleist libera la donna dall’abnegazione di
uccidersi e prende su di sé tutta la responsabilità, non dell’intenzione
ma del gesto, uccidendola come lei desiderava morire.
Il gesto è un’intenzione potenziata, verificata? O esistono intenzioni
criminali peggiori del gesto?
Se uno uccide un altro la sua verità accade uccidendo la verità di un
altro, di uno che avrebbe ucciso lui, l’avesse potuto, sia pure, come
in guerra. A quel punto soltanto un dio lo può salvare. In molti casi,
cioè, nessuno. Ma anche prima che uccidesse era così. In
conclusione ciò che sembra una mostruosità in altro contesto
diventa nella guerra espressione dell’istinto che sceglie la ragione
irrazionale, nuda, la ragione istantanea: la mia vita per la tua, adesso.
525
Si tratta pur sempre dell’uomo bestiale o angelicale in azione, cioè di
colui che vive tutta la drammatica estensione di un animale instabile,
indeterminato, e che è uomo appunto per questo? Si tratta
dell’uomo che si distende fino a Dio ma può precipitare nel bestiale
uccidendo? Possiamo dire che una storia di assassinii ha definito che
cos’è l’uomo quanto una storia di azioni nobili e generose? E che la
dialettica umana parte sempre da questo dato di fatto accertato?
Nihil humani a me alienum puto?
No, anche la dialettica deve avere un raggio d’azione fisso, come
l’udito, come lo spettro visivo, non può coprire tutto: uccidere deve
sempre essere e restare qualcosa di anomalo, di impensabile, di
inconcepibile, anche se fatto milioni e milioni di volte.
Quello di dialettica è un concetto serio soltanto in senso pragmatico.
Moralmente è nullo.
Un uomo non può fare la verità senza distruggerla, ed è bene che lo
sappia, limitandosi a pensare. La dialettica è questione di pensiero,
benché in Hegel voglia diventare questione di vita.
Se l’uomo fa la verità la annienta e si annienta.
C’è un unico caso in cui l’amore fa la verità e la vita senza
distruggere: nell’amore stesso. Non può trattarsi comunque mai di
amore solo nostro, in questo caso, in modo più o meno latente,
potenzialmente distruttivo. Ma sempre di una corresponsione.
Questa illusione di fare la verità è prosperosa nel pensiero filosofico,
che quindi in questi casi è di sua natura delittuoso e, messo in
pratica, ha cacciato nei guai milioni di persone.
L’innocenza
Se uno trama l’omicidio di un altro al punto che con assoluta
sicurezza potrà uccidere senza che nessuno lo scopra mai, soltanto
allora, non compiendo l’atto, potrà scoprire se è veramente
innocente. Per un quadro ancora più puro, bisogna immaginare una
526
vittima che non lasci morendo alcuna scia di dolore in nessuno, sia
anzi odiata o indifferente.
Il delitto perfetto pensato e non compiuto è la prova del fuoco. Ma
è perfetto solo se lo compi. Il comandamento allora è: astieniti dalla
tua natura razionalmente delittuosa, se non sei innocente. E affidati
alla tua innocenza, al di qua della vita, se hai la fortuna di essere
innocente.
Filosofa fino in fondo ma sempre in piccole dosi. Segui la tua
natura.
Se la morale è infatti sempre controllo sociale sulle nostre azioni, a
quest’uomo non resterà che la sua coscienza sensibile al male,
perché nessuno ne saprà mai niente. Ci fidiamo però a mettere tutto
in mano alla coscienza pulita?
Il desiderio di una coscienza pulita non sempre è segno morale.
Potrebbe essere la stessa nevrosi di pulizia che si scatena tenendo in
ordine maniacale la casa o lavandosi le mani di continuo.
Non uccidere a quel punto, nella certezza di essere punito, anche al
di là della coscienza morale, sarebbe segno sicuro di innocenza. Di
innocenza naturale, cioè.
L’innocenza infatti, quando è, è innata, perché non solo le è
impossibile costruire le prove della sua esistenza (anche fermandosi
un momento prima di uccidere nulla sarebbe dimostrato) ma è
impossibile anche per lei costruirsi con l’esperienza. Essa viene
prima del bene e del male. Come l’idea di bene per Platone è al di là
dell’essere, essa è al di qua.
L’omicidio non è mai dialettico
Sappiamo che la bontà soffre sempre di un alto indice di debolezza,
di insicurezza, di paura, di scetticismo sugli uomini, di esperienza
amara dell’ambiguità e cattiveria umana. E tuttavia anche questi
materiali, coltivati dall’esperienza, sono indispensabili per essere
527
buoni. Già da quando uno ha pochi giorni di vita. La bontà è però
un’innocenza empirica, degradata.
Chi pretende di comprendere nel pensiero tutta la realtà è il migliore
candidato a distruggerla. Onorevole compromesso è la dialettica, che
pretende di distruggere conservando, nel corso della natura, della
storia e del pensiero? E tuttavia essa naturalizza troppo la storia e il
pensiero, giustificando la distruzione a posteriori con geniale viltà.
Non c’è più differenza allora tra Napoleone e una pestilenza, se non
perché Napoleone è superiore alla natura, è lo spirito del mondo a
cavallo. E la peste va a piedi.
L’assassino come “mostro razionale” riduce l’orgasmo dialettico, “il
trionfo baccantico in cui non c’è membro che non sia ebbro”, come
scrive Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia, ad orgasmo fisico e
immediato. Ma mentre l’orgasmo dialettico è al contempo la pace
laboriosa del concetto, l’assassinio è rogo di tutti i libri della storia
umana. E non è pace.
Filosofare implica la pace di chi non fa né riceve il male. Chi filosofa
può capire soltanto allora un male pensato o immaginato. Se ne
contenti, visto che non è capace di agire.
Non ci sarebbe lo smacco se l’assassinio fosse un gesto rivelativo.
Se, in altre parole, Dio reagisse subito. Ma allora l’assassino non
oserebbe.
Il male come orgasmo
Il male, come ogni orgasmo, non rivela nulla. Per questo è male. La
sua pretesa conoscitiva è pari a quella dell’orgasmo fisico. Per questo
le donne amando fanno continue battute umoristiche. Per far capire
agli uomini di non prenderlo troppo sul serio.
L’assassino può avere il senso dell’umorismo? Pare di sì.
528
L’orgasmo erotico è godimento istantaneo che dà la vita o la calma.
L’orgasmo omicida non solo non rivela nulla, come neanche, se non
nell’illusione, quello erotico, ma non lascia neanche il mondo
com’era, bensì lo priva di un essere che matura da morto la sua
potenza omicida su chi l’ha ucciso, essendo impossibile che la vita
del killer resti la stessa.
Un killer trova sempre più facile uccidere, ma non dimenticherà mai
il primo ucciso, che tiene sempre sulle spalle tutti gli altri, anonimi
ed anemotivi. Non ci pensa mai magari, ma lo sta uccidendo lo
stesso?
Ogni omicidio è reciproco?
Non è questione di rimorso, di cui Dostoevskij trovò singolarmente
privi i suoi compagni di galera siberiana. Si racconta di assassini
seriali e di parricidi completamente indifferenti. Completamente
morti, allora? Eppure c’era tra loro gente allegra, spiritosa,
innocente.
Ci sono cose che il pensiero non può capire. Non solo l’amore ma
neanche il delitto.
Manlio Sgalambro è una mente superiore (superiore restando alla
pari delle cose) senza diventare diabolico. Per quanto sulfuree
possano risultare certe sue uscite, non c’è una cattiveria manierata.
Assomiglia molto di più a un libero scienziato che sperimenta
ipotesi a tutto campo, nel quale la gioia di pensare non è superba.
Non è neanche umile, però, bensì votata.
Difficile non essere né buoni né cattivi come lui. Pur disperando
della propria innocenza. Essere soltanto onesti, e in ciò che è la tua
natura: pensare dal vivo.
Per quanto geniale chi scrive e pubblica si mette sempre ai piedi di
chi lo legge. E chi legge, preso dal suo genio, non se ne accorge.
Sarebbe ridicolo per questo mettersi ai piedi di chi scrive. Tanto più
se ci è superiore.
529
6 ottobre
Tao Tê Ching
Tanto maggiore il valore di un libro, tanto più forte la gioia di
finirlo. Perché?
Esistono però libri molto brevi, che ti dispiace di finire e vorresti
continuassero ancora, tanto che li rileggi da capo, anche se non è
mai la stessa cosa, come i Pensieri di Leopardi o il Tao Tê Ching (Il
Libro della Via e della Virtù), attribuito a Lao-tzu, vissuto dopo il 300
a.C.
Il Tao, scritto (o dipinto) su tavolette di legno o listelli sottili di
bambù, che contenevano una sola striscia, è l’esempio di un’opera in
cui tutto è evidente, benché non sia logico e neanche illogico.
Non sarebbe l’unico caso in cui abbiamo a che fare con qualcosa
che non è né logico né illogico, se pensiamo alla poesia e alla
religione, delle quali il Tao intensamente partecipa. Ci troviamo
tuttavia in questo caso di fronte a un’evidenza che ti fa consentire
ancora prima di una scelta religiosa o di una trance poetica, mentre,
attivando la ragione critica, ti trovi a parafrasare qualcosa di
irriducibile, pur restando con la sensazione che la fonte sia
palesemente vera.
Se lo apriamo al suo inizio vi troviamo infatti le seguenti
affermazioni:
“La Via veramente Via non è una via costante. I Termini veramente
termini non sono termini costanti. Il termine Non-essere indica
l’inizio del cielo e della terra; il termine Essere indica la Madre delle
diecimila cose. Così, è grazie al costante alternarsi del Non-essere e
dell’essere che si vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini.
Questi due, sebbene abbiano un’origine comune, sono designati con
termini diversi. Ciò che essi hanno in comune, io lo chiamo il
Mistero, il Mistero Supremo, la porta di tutti i prodigi” (tradotto da
Anna Devoto, che traduce J.J.L. Duyvendak).
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In Parmenide l’essere ha il suo contrario logico e ontologico nel
non-essere, ma in tal modo questo guadagna una consistenza che
non merita mentre quello perde la sua ricchezza extralogica. L’essere
infatti, essendo non soltanto un ente logico ma anche e prima di
tutto un ente ontologico assoluto, non può mai avere un contrario
dello stesso genere, se non nel discorso umano, il quale lo riduce ad
assoluto logico.
Ecco perché nel Tao si dice che il termine (cioè la parola che chiude,
che fissa un limite) ‘Non-essere’ indica non il contrario dell’Essere,
bensì l’inizio del cielo e della terra mentre il termine Essere indica
non un assoluto logico bensì la Madre effettuale delle diecimila cose.
E potremmo dire dei dieci miliardi o fantastiliardi di cose, e non
cambierebbe niente.
L’essere ha “i termini mobili” perché non è definibile solo
logicamente, come non lo è neanche il non-essere, il quale non può
essere negazione e definizione logica dell’essere. Il non-essere infatti
non è perdurante e statico, seduto in una sostanza logica, bensì è il
perenne inizio reale dell’essere, e perciò è sempre anche essere.
Soltanto come termini e concetti essi si possono distinguere e
contrapporre, per poi negare che il non essere assoluto esista (come
fa Parmenide), non nella realtà.
Allo stesso modo il termine “essere” (Leopardi stesso distingue il
“termine” dalla “parola”), un verbo sostantivato che chiude e
confina, e cioè fa finire l’essere, non può costituire nella realtà un
termine costante, giacché finisce appunto nel non-essere, che è una
fine ma al contempo è anch’esso un inizio.
E non giù nel suo superficiale versante logico e verbale, che li
scandisce in un tempo artificiale, concettuale, ma appunto nel suo
prodigioso essere preverbale e prelogico, nella semplice realtà in
persona e senza nome: “La Via ha la semplicità del senza-nome”
(XXXII).
Essi infatti, essere e non essere, hanno un’origine comune, sempre
presente in entrambi. L’origine in altre parole è sempre ora, è
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sempre finale e iniziale. Essa è il mistero che hanno sempre in
comune.
Il Tao sfugge al carattere definitorio delle parole senza scavalcarlo,
ma avvalendosene per farlo vibrare, tendendo verso ciò che esiste
prima e oltre le parole, cioè il pensiero dentro la realtà.
Questa mia parafrasi estemporanea, che prescinde in modo
dilettantesco da una giurisprudenza interpretativa durata millenni, né
dispone delle competenze sinologiche di Duyvendag (che ha
stabilito il testo al quale mi affido in traduzione) non potrebbe
essere per me modificata da anni di studi, in virtù di quella evidenza
che il testo tradotto conserva, pur parafrasandolo io, e cioè
ritraducendolo in un mio cibo mentale e spirituale soggettivo,
sempre secondario rispetto all’originale.
Infatti “La Via è qualcosa di assolutamente vago e inafferrabile”
(XXI). Mentre cioè la definisco e la afferro come indefinibile e
inafferrabile la indetermino e mi sfugge.
In altre parole l’evidenza del Tao è così potente perché non logica,
non poetica, non religiosa in prima istanza, bensì in quanto pensiero
originario e attuale, ultralinguistico, indifferente al fatto che sia
orientale, e quindi incomprensibile per un occidentale, giacché il Tao
viene prima dell’Est e dell’Ovest, sebbene nell’Ovest non avrebbe
potuto nascere, il che pure è secondario, visto che tale pensiero è
nato.
“La Via è vuota: nonostante l’uso non si riempie mai.” (IV).
Anche questo è evidente: io infatti mi uso da sempre eppure resto
sempre vuoto.
Lao-tzu percorre la Via come Maddalena de’ Pazzi, la quale dice:
“Non mi riconoscerete perché sarò lattante”, quando scrive:
“Concentrando la tua respirazione sino a fiaccarti, puoi diventare
come un lattante” (X, cfr. XX, LV).
La fede nella natura è a ogni passo evidente, come quando Lao-tzu
deplora la cultura artificiale, nata dall’intelligenza e dalla
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conoscenza” (XVIII) e quando esorta: “Mostra una semplicità
naturale e aggrappati a ciò che è senza artificio” (XIX).
Il lattante infatti, spiega, urla tutto il giorno ma non diventa mai roco
perché conosce l’armonia naturale. (Mio figlio però lo diventava).
“Colui che non si discosta dal suo giusto posto sussiste a lungo:
morire senza perire, questa è la longevità” (XXXIII).
Bisogna sapere qual è il proprio giusto posto. Ciascuno di noi lo sa,
cercandolo nella propria natura, e non deve mai agire contro di essa
per non essere travolto. In questo modo morirà, come tutti, ma non
perirà, perché la morte non l’avrà sconfitto, come accade a chi
assume un ruolo non suo.
Puoi essere longevo a trent’anni e prematuro a ottanta.
La tua inattività, il tuo non-agire non vuol dire non fare niente bensì
non agire contro natura o fuori di natura (XXXVII). Eppure non
basta, giacché il non-agire deve restare proprio anche della tua
natura propria, se questa ti spinge ad agire.
Il segreto espositivo del Tao è di non dire tutto, di fermarsi prima del
completamento, di non chiudere mai il campo, di lasciare un vuoto
che ti salva. Di ricordare che la parola si inarca oltre di sé, in una
linea invisibile che la completa e dalla quale proviene.
I sogni inventati da Freud
Da quando sono diventato scettico sull’interpretazione di Freud, i
miei sogni sono diventati molto più banali.
Ciò non significa che le sue teorie non siano valide ma che egli è
riuscito a entrare nel collettivo mondo dei sogni e a trovarne le
forme generative al punto da fare scorrere e ruscellare quelle che
erano chiuse e dormienti e da farti sognare nel suo stile.
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O il super-io trova un alleato nello scetticismo cosciente per
mascherare più profondamente i contenuti onirici?
Ingiustizie verso gli amici
Se rifletti sul comportamento degli altri verso di te, le mani tese e i
favori che ti sono stati fatti, ti accorgi che è difficile trovare un
amico che non abbia fatto qualcosa nel tuo interesse e nel tuo bene.
Ma questo non viene affatto percepito con chiarezza se non ti
attardi ad esaminare con pazienza gli atti che hanno compiuto.
Con facilità infinitamente maggiore si è inclini invece a pensare che
non abbiano fatto nulla o ben poco. Questo dipende dal fatto che
l’orizzonte di attesa nella fortuna, nel piacere, nel profitto che dalle
azioni altrui ci può derivare, o che presumiamo di meritare, è sempre
molto maggiore dei risultati concreti che da qualunque azione
possano scaturire.
E così va a finire che attribuiamo proprio agli amici che ci hanno
aiutato la responsabilità dei beni che non abbiamo avuto, mentre
coloro che non hanno fatto nulla per noi, essendo ancora
incontaminati nell’immagine assoluta e fantastica del bene
straordinario che ci potrebbero fare, vengono più stimati, riveriti e
soprattutto apprezzati buoni, anche se non hanno fatto né faranno
mai nulla, di quelli che concretamente hanno mosso un piccolo
passo per aiutarci.
8 ottobre
Pensieri leggeri
Pensieri inspirati ed espirati.
Prendere un pensiero al volo è più difficile che catturare uno
scoiattolo. Ma se si fida di te, puoi anche carezzarlo.
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Una coccinella si posa sulla mia mano. Mentre penso non peso
come lei.
“Io scrivo in completa libertà senza censurarmi, perché mi rivolgo a
me stesso.” Questo va bene, ma l’importante è che tu non creda che,
essendo immediato, tu sei anche rigoroso ed onesto. Tanti scatti,
sfoghi, impulsi hanno vita talmente breve da degradarsi in pochi
secondi. Non importa solo dire qualcosa che senti e che pensi ma
soprattutto che abbia una durata vitale e che possa essere
partecipato dopo un’ora, un anno, un secolo da un altro me stesso
fuori di me.
Né vale fare ritratti di questo o di quello, caratterizzare l’individuo,
esplorare le persone, i personaggi, le personalità che incontri (sia
detto sempre in senso spirituale,) se essi non ci dicono qualcosa
della natura umana, perlomeno in una striscia di tempo
ragionevolmente durevole. Altrimenti facciamo la cronistoria, cioè
l’antistoria, invece che la storia naturale.
7 ottobre
Il telefono
Abbiamo fatto o no il servizio militare, tutta la nostra vita è
sottoposta agli ordini fulminanti di un generale inesorabile: il
telefono. Al suo trillo, chiamata degli affetti o monito sociale, non
puoi insubordinarti. E se fosse l’invocazione di soccorso di un
familiare, se fosse un’amica che sta male, se fosse qualcuno che ha
pensato a te come a una speranza di scampare a un’ora nera? E se
fosse l’occasione della nostra vita?
Qualunque cosa faccia e dovunque tu sia, col sapone in mano o con
il boccone in bocca, nel pieno di un amplesso o leggendo un libro di
botanica, quando arriva l’ordine di allarme il povero attendente salta
fuori dalla camerata con la testa vuota e si fionda a rispondere
all’ennesima chiamata del call center o alla convocazione del dentista.
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Leopardi non aveva il telefono e quando riceveva una lettera aveva
tutto il tempo di meditarla e di soppesare una risposta. Ma come
decidere su due piedi se andare a parlare a Dublino o se scrivere un
articolo che ti chiede un amico che conosci da vent’anni, senza
imbarazzo, timore, paura di comprometterti se accetti o di essere
sgarbato se rifiuti?
L’attrice innamorata
Un’attrice molto bella sta simulando in televisione l’espressione di
una donna innamorata. E anche molto brava, perché ha intuito che
il suo sguardo, per essere verosimile, non deve essere diretto e
spontaneo né atono e assente ma che i propri occhi devono
guardarla dentro, dove si affollano i sentimenti che, tra paura e
desiderio, fanno fremere i suoi lineamenti e rendono i movimenti
ora repentini ora d’improvviso rallentati.
La donna realmente innamorata non avrebbe certo avuto le stesse
espressioni, se non altro perché gli occhi e il volto diventano
secondari quando la piena dell’affetto si autocertifica, e non ha
nessun bisogno delle prove dell’espressione che lo rivelino. Lei non
si sa guardata, come l’attrice, e sente che il suo amore da sé si rivela
senza cucirgli una pelle di emozioni sul volto.
E tuttavia per esprimere l’amore con il volto bisogna aver amato,
non solo immaginato o sperato di amare. L’attrice allora, mentre
finge, risveglia nella sua immaginazione l’amore realmente provato
un tempo, ed è esso a suscitargli la traduzione nelle espressioni del
volto, come da una lingua all’altra, dalla lingua dell’anima di una
volta a quella del corpo adesso. E, come una traduttrice che sa la
lingua dell’amore, lei fa transitare l’amore dal vero al finto, in modo
che sembri vero.
Insubordinazione del volto
Quando provando una forte emozione o un’attitudine affettiva
precisa, di dolore o di gioia, che sgorga dal nostro cuore per caso,
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all’improvviso ci cade lo sguardo su uno specchio, restiamo allibiti
che nel nostro volto non si rifletta nulla di quello che sappiamo con
assoluta certezza di provare. Al punto che pensiamo di essere
disabili, come fossimo ciechi o sordi, o che il nostro volto sia
incapace di rappresentarci.
Tante volte l’espressione nobilmente dolente che avevo creato
nell’immaginazione resta tutta nascosta dentro mentre fuori traspare
una risolutezza opaca e insignificante.
Se uno ne ricavasse che allora il nostro dolore non è autentico
sbaglierebbe di grosso, eppure è dalle nostre espressioni che gli altri
ci giudicano. E ci sono addirittura esseri convinti di poter intuire e di
capire tutto di noi, indipendentemente dalle nostre parole, soltanto
guardandoci, mentre è il nostro volto che, invece di esprimere i
nostri sentimenti, ne ricava le conseguenze e ne fa affiorare gli effetti
in modo autonomo dalla nostra volontà, oppure già reagisce a essi
con attitudini sociali automatiche delle quali non siamo responsabili.
13 ottobre
Chiaroveggenza e telepatia
Più volte capita di incontrare persone convinte, soprattutto donne,
che esistano tra gli uomini forme di comunicazione telepatica, di
chiaroveggenza e di preveggenza, quando per esempio ci si telefona
nello stesso momento, perché ci si pensa a vicenda in
contemporanea. Nella convinzione che il pensiero di uno accenda a
distanza quello di un altro.
Non ci sono prove né ci saranno mai, benché sia singolare che
quando la nostra giornata è popolata dai volti immaginati degli
amici, ai casi dei quali poniamo mente, intrecciandoli ai nostri, gli
amici più spesso si fanno vivi e ci scrivono e ci telefonano. Mentre
quando chiudiamo il nostro cuore e coltiviamo il nostro giardino, gli
amici tendono a scomparire, quasi sapessero che non li pensiamo,
pur non dando noi nessun segno e comunicazione che lasci trapelare
il nostro interesse o la nostra indifferenza.
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Quando per esempio sono in viaggio e non penso a nessuno,
nessuno telefona, neanche di quelli che non lo sanno, mentre
appena rientro è una sequenza di chiamate, quasi in qualche modo
sapessero tutti della mia presenza.
Gli stessi rapporti telepatici e interattivi sembrano a volte
intrattenersi con le cose inanimate, per cui c’è chi carezza lo
schermo del computer e gli rivolge persino parole dolci, come si
farebbe con un cavallo o con un cane, e quello riprende a marciare,
chi batte un cellulare sul tavolo per imporgli di funzionare, e ci
riesce, e chi, preoccupato di ingrassare, ottiene dalla bilancia l’esatto
verdetto desiderato, almeno in una prima pesata.
Questo accade con particolare frequenza quando siamo fissati con
un desiderio che passa per un tramite fisico e meccanico, quasi come
se la materia lo assorbisse e reagisse a modo suo all’impulso.
Il desiderio in genere troppo espresso e continuato è
controproducente in ogni campo. Potrebbe essere perché contrasta
con il mimetismo animale indispensabile per non svegliare le forze
che ci vogliono fare del male, mimetismo che continua ad essere
vitale su un piano spirituale.
Esiste un mondo transfisico o transpirituale di cui non sappiano
nulla.
Si tratta in questi casi di effetti sempre mossi da una causa fisica e
meccanica concomitante casualmente col gesto compiuto o da
quello motivata ad innescarsi. E tuttavia sopravvive questa
ondeggiante coscienza di una misteriosa relazione con le cose e con
la realtà che, dagli episodi minimi, si estende fino ai rapporti umani e
persino al rapporto col divino.
Sbaglia tuttavia chi vede la relazione con Dio come l’ingigantirsi di
una superstizione sperimentabile nella vita quotidiana, proiettata in
un fantasma cosmico e unico che assorbirebbe la miriade di spiriti e
spiritelli, forze mediatiche e telepatiche volitanti intorno a noi, ogni
volta che si guasta qualcosa o ci cade una pentola dalle mani.
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Che la materia possa pensare e avere sentimenti questo è evidente,
se consideriamo il nostro cervello che certo non è puro spirito. Il
punto è di indagare i gradi intermedi, dagli uomini alle cose, come
ben sapevano i filosofi tedeschi influenzati dall’organicismo
scientifico, come Schelling e Schopenhauer.
Il gioco a dadi
Un’altra forma singolare di misteriosa e indimostrabile influenza che
i nostri stati psichici esercitano su una realtà fisica del tutto
indipendente dalla nostra volontà è il gioco delle carte o dei dadi o
della roulette, nei quali chiamiamo fortuna o sfortuna la
corrispondenza attuata o mancata tra i nostri desideri e il risultato di
forze fisiche del tutto autonome rispetto a noi.
Se nei dadi siamo noi che imprimiamo il movimento ai cubetti, e si
potrebbe quindi pensare a una intelligenza inconscia della mano e
del braccio che vuole o non vuole, ammesso che ne siano capaci per
sé, il risultato che ci prefiggiamo, nella roulette è il croupier a mettere
in moto la ruota. Nel gioco delle carte la disposizione dipende
soltanto dal modo di mischiarle che con nessun altro mezzo può
essere orientata.
Eppure sperimentiamo giornate in cui siamo in vena sorprendente e
magica e siamo sicuri che le carte o la pallina seguiranno il nostro
volere e, sia pure per brevi sequenze, questo accade. Se poi
perdiamo è perché non siamo capaci di ritirarci al momento giusto.
Al modo contrario, giornate traverse e momenti di malumore,
stanchezza o atonia rancorosa generano stranamente risultati sempre
sfortunati nei giochi, per cui l’accidia che investe colui che perde
incombe su di lui fatalmente portandolo alla rovina, come se le carte
o i dadi sapessero e volessero cooperare alla sua distruzione.
Si potrebbe dire che colui che non è in giornata buona, senza volerlo
e saperlo, compie le mosse sbagliate con le carte ma come spiegare
le puntate votate consapevolmente all’insuccesso nella roulette o
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come addebitare la sconfitta a un sentimento morboso del giocatore
che lancia i dadi? Eppure, nelle due trances da gioco opposte, perderà
chi sa di perdere e vincerà chi sa di vincere.
Si potrebbe dire che, insistendo a perdere, subentrerà una
svogliatezza, una inconcludenza, una sfasatura goffa nelle decisioni
di gioco che causano esse la nostra sfortuna, ma come motivare la
durata, contro le regole della statistica e della decenza, delle
condizioni a noi sfavorevoli, finché si crea un vero e proprio campo
di sfortuna, dal quale è difficilissimo risollevarsi nell’unico modo
possibile, e in realtà impossibile al giocatore incallito, cioè
abbandonando il campo?
Il giocatore vizioso perde sempre, il che comprova che se tu vuoi
distruggerti si genera contro di te una coalizione delle combinazioni
fisiche che concorrono a darti il successo del tuo fallimento.
Fenomeno che i giocatori ben conoscono, che ne ha rovinati
un’infinità e che, non potendo né volendo spiegarlo con interventi
parapsicologici o superstiziosi, resta un mistero.
La superstizione è cacciata dalla scienza in un angolo buio e ridicolo
ma nella sua condizione di cenerentola essa concorre forse a
catturare dimensioni e voci della realtà altrimenti inattingibili, senza
nessuna speranza di diventare mai principessa ma, dal suo cantuccio
patetico e arcaico, fortemente influenza la vita di milioni di uomini,
che continuano comunque a crederci, e non per sola ignoranza, a
dispetto di lauree e di certezze scientifiche troneggianti sopra la
cucina sporca e calda in cui esse maturano.
La premonizione funesta
La premonizione di eventi futuri è molto coltivata dalle donne, che
infinite volte dicono di sentire prima quello che accadrà e, quando
una cosa accade, la trattano come se l’avessero già saputo. Queste
premonizioni sono spesso funeste e catastrofiche, perché vi sono
donne che sempre pensano il peggio, anzi lo vivono prima che
accada in ogni sfumatura e piega, e in modo così vivido e naturale
che è come se fosse già accaduto.
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È questo un atteggiamento scaramantico che mira a disinnescare il
male, immaginandoselo in ogni dettaglio, sia per diminuire la
probabilità che accada, essendo uno dei caratteri del male quello di
essere imprevisto, sia per premunirsi ed abituarsi a esso al fine di
non ricevere il colpo in modo brutale e inaspettato, sia per offrire in
sacrificio una dose di dolore preventiva, quasi una purificazione a
priori, in modo da non meritare più quel male che legittimamente,
esse pensano, aggredirebbe chi se ne stesse sereno e spensierato.
Si vede così che chi sempre soffre e affronta ogni situazione con
malinconica prudenza, nascondendo ogni sua piccola gioia e
ostentando uno scettico disinganno su ogni ipotetica fortuna e una
convinzione dura e ostinata di essere sfortunato e infelice,
comunicandolo a tutti con le parole e col gesto, finirà per essere
sano e fortunato, nonostante le apparenze, quasi protetto
dall’invidia, dalla malevolenza non solo degli uomini ma anche della
sorte.
Questa attitudine è antica se già Erodoto, nelle Storie, parla di
phthonos ton Theon, dell’invidia degli dei, esortando a occultare la
propria felicità, per impedire che gli dei ci colpiscano. Dei che non
arrivavano saggiamente fino a leggere dentro l’animo.
15 ottobre
Cantare davanti al cimitero
Quando passavamo davanti a un cimitero, seduto dietro i miei
genitori e noi figli cantavamo per scongiurare il mal d’auto, mia
madre ci invitava a smettere. Per rispetto verso i morti, che nulla
possono saperne. I loro corpi certo non ascoltano la musica e
tuttavia forse le loro anime percepiscono i segni del nostro rispetto
o della nostra indifferenza. E ce ne sono grati, sia perché li
consideriamo in qualche modo esistenti, sia perché temiamo di
disturbarli, sia perché vogliamo che uno scambio tra noi sopravviva.
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Quando fiancheggio un cimitero e ascolto un pezzo dolce tendo a
non abbassare il volume, pensando che anche i morti potrebbero
apprezzarlo. Quando ascolto Bob Dylan non penso di chiudere la
radio perché immagino che l’arte potrebbe essere loro cara, mentre
con un pezzo violento, magari di musica metal o con una canzone
banale, temo di offenderli e abbasso o spengo.
Ma siamo sicuri che la musica darebbe fastidio ai morti e che
preferiscano il silenzio? Se non ci possono sentire allora è
indifferente alzare o abbassare il volume, ma se invece possono, può
darsi che un segno di saluto sonoro di un passante sconosciuto li
conforti.
Se invece lo si fa più per noi che per loro, cioè per attestare a
vicenda tra noi che ne abbiamo rispetto, o lo si fa perché Dio sappia
che abbiamo rispetto per loro, o per costringerci col silenzio a
pensare a loro, potremmo magari imparare a onorare i morti con un
segno di vita piuttosto che non con un segno di morte.
Tacere di fronte alla tomba vuol dire infatti imitare il morto,
renderci il più possibile simile a lui per capirlo. E se morto non fosse
realmente e interamente? Quanto dovrebbe soffrire per questo
mutismo attonito che gli ricorda che ormai è dall’altra parte di una
linea mentre con tutto il suo essere vorrebbe poter condividere con
noi qualche momento, avere notizie di ciò che facciamo e pensiamo,
sentire la nostra voce che gli dice parole affettuose.
C’è una ragione che se il nostro caro è vivo dopo la morte stia
presso il suo cadavere o le sue ceneri nel cimitero piuttosto che in
qualunque altro posto e anzi, come sarebbe più naturale immaginare,
costantemente presso di noi? Una ragione non c’è eppure è evidente
che in un piano né fisico né metafisico ma transfisico, transpirituale,
un piano che non sappiamo neanche se esiste, ma che nella nostra
immaginazione è interposto ad ammortizzare e attutire l’attrito tra i
due mondi, la persona cara è anche spiritualmente presso il corpo
del cimitero, se è vero che quando andiamo lì le parliamo, le
facciamo domande, la informiamo sui nostri casi e la salutiamo
toccando la lapide con la mano.
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Si potrebbe dire che il mio comportamento è assurdo e
superstizioso. Ma potrebbe essere proprio di una mentalità
scientifica spinta fino all’estremo, giacché non siamo assolutamente
certi, con prove inconfutabili, che le anime dei morti non esistano e
non possano ascoltarci, quindi l’apertura mentale verso ciò che non
conosciamo non vi sembra una sana attitudine empirista?
Un sano empirista è infatti sia chi ammette l’esistenza di qualcosa
soltanto con delle prove sia chi non la esclude senza prove.
Ascesa e discesa della democrazia
C’è una fase ascensionale e una discendente della democrazia. La
prima è epica, romantica, appassionante, lacerata tra dubbi e una
fede che ci avanza, consunta ma non domata. In questa fase essa è
indispensabile per tamponare e cicatrizzare le malefatte e le crudeltà
delle dittature ma, raggiunti diritti civili universali in uno stato,
tutelata la vita, la proprietà e la libertà nei limiti sempre oscillanti e
incerti che alla vita consociata sono dati, la democrazia comincia a
secernere i succhi più acidi e corrosivi.
La libertà di parola, pressoché assoluta, in nulla serve a modificare la
realtà; la libertà di pensiero perde del tutto il suo mordente, la libertà
religiosa rende insipide quelle pietanze che con le spezie del peccato
erano saporite, la libertà sessuale rende l’amore una ginnastica per
tonificare gli addominali e i glutei.
Il bisogno di proibizioni, rischi, censure, divieti, passaggi chiusi,
specialmente nell’età matura, si fa spasmodico per potere non dico
esercitare, giacché non è questo che ci gratifica, ma finalmente
godere una qualunque libertà, ritrovandone il brivido e il gusto, oggi
ormai impercettibile, per poter disobbedire con gioia, provocare con
malizioso divertimento, restando nel giusto.
L’irriverenza
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Essere irriverenti oggi è impossibile, non essendoci riverenza per
nulla e per nessuno. Ridateci quei sani moralisti tutti di un pezzo che
veramente si sdegnavano, convinti di incarnare una legge sacra.
Ridateci quelle insegnanti pronte a soffrire dell’audacia incredibile di
un ragazzo che difendeva la libertà di divorziare. Dove sono finite le
persone capaci di scandalizzarsi, le donne profonde che incarnavano
nei fianchi e nei seni una morale assoluta?
L’unico modo per gustare la libertà ed essere irriverente oggi è di
criticare i tabù sociali più forti: la democrazia, la tolleranza, la libertà
stessa, l’autonomia, l’uguaglianza, la pace, la tutela dei deboli. Ma
mentre nelle fasi ascendenti della democrazia tu puoi essere
irriverente difendendo proprio i valori giusti e umani, non ancora
guadagnati, perché i più si sono fermati all’inizio della salita, nelle
fasi discendenti dovresti esserlo sostenendo assurdità pepate,
cattiverie speziate, mostruosità suggestive e verità sepolcrali, dal che
si ricava che non puoi farlo senza sfoderare tutto l’armamentario
letterario dei superalcolici e bizzarri manieristi, che negano l’umanità
solo per scrivere un libro eccitante, il che nei periodi di democrazia
discendente è patetico, come scuotere un vecchio che ha bisogno
solo di stampelle per non cadere.
Rimpiangi il passato? No, prefiguro il futuro. Con la fine delle
materie prime e delle fonti di energia, dall’acqua al petrolio, con la
ripresa di guerre selvagge per appropriarsi dei pochi pozzi e delle
poche sorgenti rimasti riemergerà una morale basata sulla frugalità,
la rinuncia, sul sacrificio, sull’obbedienza. Con un controllo ferreo
della religione, con un matriarcato rigoroso, con proibizioni di ogni
genere, un’educazione più rigida dei figli, letture collettive della
Bibbia e, per i più colti, rilettura dei classici cristiani dell’astinenza e
dei classici dello stoicismo.
Disperazione e fede possono convivere
Ci sono donne che vivono ogni situazione di rischio e di incertezza
pensando che esista una verità profonda e terribile che nessuno
intorno a loro è disposto ad accettare, perché vuole nascondersi la
realtà che solo lei conosce e vive con assoluta certezza. Quando poi
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il pericolo è scongiurato, si dimenticano del tutto della visione
premonitrice e catastrofica che avevano maturato e riprendono a
vivere come niente fosse, in attesa che un’altra situazione critica le
metta alla prova.
Si può essere cristiani senza nessuna fiducia nell’intervento salvifico
di Dio nella vita propria mentre si dà per scontato che egli
intervenga nelle cose del mondo con la fede più vigorosa. Come vi
sono persone che si considerano un’eccezione fortunata così ve ne
sono che eccettuano sempre se stessi quando si tratta di sperare in
un bene o in un aiuto, quasi fossero un buco nella provvidenza e un
vuoto nel piano universale.
Hanno fede in Dio per tutti ma non per sé.
La paura di ammalarsi
La paura di ammalarsi è anche la paura di cadere in balia degli altri.
Il gioco libero dei caratteri che ci consente di essere noi stessi,
rispettando gli altri ma tenendoli anche a prudente distanza quando
è necessario, si rompe quando siamo malati, e noi d’improvviso
veniamo a dipendere dal carattere di un medico, di un infermiere, di
una moglie, di un marito, che ci aiuteranno magari a convivere col
nostro male o a guarirne, ma sempre e solo entrando dentro la
scatola del loro modo di ragionare, di sentire, di trattare. Ed essendo
noi dipendenti, dovremo accettarlo, snaturandoci o almeno restando
noi stessi ma in forma larvale, silenziosa, malinconica.
Parte integrante della malattia è la perdita della propria personalità e
una schiavitù interiore peggiore di quella fisica.
Da questo si vede quanto sia importante saper trattare il malato,
senza dimenticare mai che deve continuare, per sopravvivere, a
manifestare liberamente la sua personalità, senza cogliere l’occasione
della malattia per punirlo del misfatto di essere diverso da noi.
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Mistero a due
Tutti i matrimoni sono misti, se non altro perché entrano in gioco
due sessi diversi. Ma quando si uniscono due persone di religione
diversa, o di una e nessuna, di cultura diversa, di classe sociale
diversa, di nazione diversa, di età diversa, di carattere diverso, il
mistero a due si approfondisce e si arricchisce e l’amore sperimenta
ogni giorno la tensione della differenza che dà una scossa
conoscitiva e affettiva.
L’incorporazione del mistero è sempre duale, se perfino quando
contempliamo il silenzio dell’universo o preghiamo c’è uno
sdoppiamento armonico tra un io empirico e un io sovrempirico,
sicché non trasciniamo più il corpo al sicuro dai rischi della giornata,
affannati dalla responsabilità di un essere che siamo e che abbiamo
in cura, comunque noi stessi, ma li mettiamo in gioco musicalmente,
sia pure per pochi minuti.
La camera segreta
Se noi fossimo sicuri di poter amare un’altra donna o un altro uomo
in una camera segreta, in una città irraggiungibile, e sapessimo con
assoluta certezza che nessuno mai lo verrebbe a scoprire, donne e
uomini sposati, che faremmo? Per una volta sola assaporare il
tradimento di un amore con un altro amore, badate bene, non per
fare sesso, il tradimento cioè di una persona che amate e rispettate
con un’altra persona che amate e rispettate, infrangendo il dogma
dell’unicità dell’amore, il monoteismo dell’amore, noi cosa
faremmo?
La donna o l’uomo amato non lo saprebbero mai perché noi
dovremmo rientrare come siamo partiti, senza dare segno della più
piccola perturbazione del comportamento, avendo concordato con
la persona della camera fuori della storia che nessuno di noi due mai
farà parola a nessuno di quello che è successo, preparati fin
dall’inizio a vivere il secondo amore fino in fondo soltanto per un
giorno.
546
Se non ci tradissimo da soli. Se non tradissimo cioè il nostro
tradimento, resterebbe la nostra coscienza a saperlo. La quale, al di
là di ogni rimprovero morale, giacché amando noi due persone, essa
non potrà accusarsi di vizi e di violenze verso nessuno, essendo in
entrambi i casi sinceri e generosi, si metterà a pensare però con
malinconia a certi record ormai imbattibili: quello di amare tutta la
vita una sola persona, quello di essere leale e fedele, quello di dire
sempre la verità e non avere segreti.
Senza pensare che, assaggiato l’amore libero e completo, sia pure per
un giorno, con un’altra o con un altro, esso rilancerà il nostro
desiderio per un altro solo e unico giorno nella camera segreta e
irraggiungibile. E noi finiremo per avere una vita parallela, nella
quale entrambi gli amori saranno tinti di veleno.
Nascerà comunque un’asimmetria, perché non potremo più
scongiurare che anche la nostra donna o il nostro uomo abbia una
sua seconda camera nuziale di un solo giorno, e il fatto stesso di
avere noi stessi trasmesso questo diritto getterà una luce triste sul
matrimonio che si basa sulla convinzione che la vita di uno non
tradisca quella di un altro, dogma matrimoniale, e profondamente
anticristiano, benché cattolico, senza il quale non avrebbe senso
parlare di tradimento amoroso.
L’immaginazione del tradimento è tuttavia connaturata in tutti gli
esseri umani e trae anzi forza proprio dalla fedeltà e dalla lealtà verso
la persona amata, scatenando il bisogno dell’eresia e della
contravvenzione della nostra morale e della nostra fede, nonché del
nostro stesso amore
Questo bisogno nasce dal culto dell’istantaneo, cioè di un atto che,
contro tutte le condizioni ragionevoli e contro tutti i valori che noi
stessi difendiamo, scateni una specie di amore al nero, cioè di amore
massimo proprio perché istantaneamente ribelle persino verso il
bene nostro e della persona amata, come una rivelazione istantanea
alla quale deve seguire istantaneamente l’atto, sia pure un semplice
bacio.
547
Anzi, un bacio, molto più di un atto sessuale completo, concentra in
un gesto in fondo insignificante, due ventose morbide che si
toccano, la confessione che l’amore è il più incivile, irragionevole,
sfacciato e irriverente dei sentimenti. La sua irrazionalità consiste
infatti, come si diceva nel caso opposto dell’odio, in una ragione
istantanea, che non ha né prima né dopo, né cause né conseguenze,
e rapisce la persona, in qualunque condizione si trovi, e la strappa
dal contesto immettendola nell’istante assoluto.
Ma come non esiste una camera fuori dello spazio così non esiste un
istante fuori del tempo. L’istante stesso ha una sua parabola, una sua
micro vita biologica, per cui mentre ancora stai dando il bacio del
tradimento esso si tinge del ritorno alla vita di prima e si carica di
tutte le conseguenze di un tessuto fittissimo e pieno ormai di
macchie che è impossibile governare, sporcando di malinconia il
distacco delle labbra.
E quanto alla camera segreta, lo spazio esterno la preme di continuo,
inserendola in una rete elettrica e magnetica di telefoni, di sms, di
turisti internazionali vicini di casa, di fotografie, di incongruenze, di
satelliti, di cedole dell’autostrada, di chiamate sospette, di vuoti
incomprensibili, nel reticolo fittissimo che lega ormai ogni camera
del mondo agli infiniti altri luoghi, rendendo materialmente
impossibile che ci sia un qualsiasi luogo del mondo dove non ci sia
almeno un italiano cugino dell’amica del negoziante sotto casa che
prima del nostro rientro metta nel suo blog, sotto un pezzo dal
titolo “Il vicino globale”, la foto di un uomo e una donna che
escono abbracciati dalla camera 26 dell’hotel più isolato del deserto
australiano.
Il senso pratico delle donne le spinge a considerare che la capacità
d’amare è limitata, che amare costantemente è un sacrificio continuo
e che tradire vuol dire disperdere energie in modo da non poterne
dare più di bastevoli a una sola persona, visto che già l’amore che si
riceve da un uomo è sempre troppo poco.
Le donne tradite nulla odiano come il fatto che altre sappiano che
sono tradite e tendono a essere meno dure con chi tradisce con stile,
cioè rispettandole e nascondendosi.
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Le amiche della donna tradita si precipitano invece a raccontarle
ogni loro scoperta con la scusa che fanno il suo interesse e in realtà
desiderando profondamente non tanto che il maschio sia punito ma
che l’amica perda ogni suo bene, specialmente quando il proprio
matrimonio è infelice.
17 ottobre
Ignota la nostra natura
È straordinario il fatto che proprio quello che ci sta fin dall’inizio
sotto gli occhi e che è la cosa più familiare e intima che esista, cioè la
nostra natura, sia anche ciò che impieghiamo tanti più anni a
scoprire, al punto che molto spesso sono gli altri a rivelarci qualcosa
di noi a cui non avevamo mai pensato e che dobbiamo convenire,
sebbene sempre a malincuore, anche quando si tratta di una qualità
positiva, corrisponde in effetti al nostro modo di essere e di
comportarci.
E anche appreso dalla voce chiara di qualcuno che ci ha scoperto a
noi stessi, in breve tempo dimentichiamo la rivelazione e
continuiamo a non conoscerci finché un altro giudizio sintetico ed
evidente non ci costringe ancora una volta alla resa.
Tanta disattenzione verso l’essere che quasi sempre ci sta più a
cuore, se non altro perché convive con noi, al punto di combaciare
fino all’identificazione con il nostro io, non può derivare da una
semplice incapacità intellettiva ma senz’altro esprime una volontà
precisa di non sapere chi siamo, un accorgimento più o meno
inconscio a voler eludere quella conoscenza possedere la quale ci
renderebbe tanto più onesti, equilibrati e sereni.
Un po’ l’illusione di voler essere qualcuno di infinito e di così ricco
da non poter essere chiuso in una definizione, mentre noi di
continuo ingabbiamo gli altri in schemi e formule insufficienti e falsi
con gran disinvoltura. Un po’ è la coscienza di non poter cambiare,
pur sapendo chi siamo, e di cadere così più gravemente negli stessi
549
errori, non potendo nasconderci più dietro la scusa che non ne
siamo consapevoli.
Ma soprattutto è il fatto che conosciamo di noi stessi solo quei tratti
che riusciamo a pilotare verso un qualche scopo, verso un progetto
voluto e cosciente, non tenendo conto che scopi e progetti
dipendono solo in piccola parte dalla volontà e molto più dal
carattere che mettiamo in atto, nolenti o volenti, in atti che ci
sfuggono, in impulsi imperdonabili che compromettono tutto, in
controsensi di cui non ci accorgiamo e che, essendo sempre gli
stessi, proprio per la loro frequenza e continuità finiscono per
sfuggirci.
Quando poi prendiamo di petto la nostra natura e cerchiamo di
spremerla e torchiarla, di certo riusciamo a governare azioni e
comportamenti, nei nostri limiti, ma si tratta di un’opera puramente
difensiva, di freno e contenimento, e mai attiva e propiziatrice di
qualche bene, se non perché un’omissione tante volte ci salva dal
commettere una sciocchezza.
Mentre accettando di conoscerci e riconoscendo così i nostri limiti,
che sono chiarissimi fin dall’infanzia, e quasi dettati in modo chiaro
e lento, con una didattica da maestra, dalla natura, potremmo molto
meglio volgerli al bene e all’utile, senza attribuire sempre agli altri
ostacoli, rifiuti e mancanze che spesso dipendono proprio da noi e
dalla nostra incapacità di guidare bene la nostra macchina naturale.
Una decisione che alla fine si riesce a prendere, ma in età già
avanzata, e spesso tardiva, è quella di non fare altro che non sia
consentaneo e sintonico col nostro modo di sentire e di essere. La
nostra vita si spoglia e si semplifica e perde gli smaglianti ed eccitanti
colori che ci colavano il più delle volte nell’anima ma le tinture
diventano più naturali, e proprio in questa tenuità si riscopre la luce
nitida e le sensazioni auree di una vita non ancor piegata ad
ambizioni e progetti meccanici, alla chimica di sostanze mentali ed
emotive inquinanti e tossiche. E l’autunno diventa tutt’uno con la
primavera.
550
Memoria motrice e spontanea
Quando mettiamo in atto quella che Bergson, in Materia e memoria,
chiama la memoria motrice, noi ricostruiamo la sequenza dei nostri
movimenti, nel caso ad esempio in cui dobbiamo ricordare dove
abbiamo parcheggiato l’auto, e ricostruiamo tutti i passaggi delle
nostre azioni. Ma non vediamo il filmato della scena in modo fluido
e continuo bensì attraverso una serie di fotogrammi che cerchiamo
di ridisporre nella giusta successione.
Quando invece agisce la memoria spontanea ci compare in modo
subitaneo una visione che fa rinascere una singola scena del passato,
al massimo una brevissima sequenza, e mai un intero flusso di vita
che duri più di qualche secondo.
Mi domando se sia necessario che quel momento sia stato già
significativo mentre lo vivevamo, impresso grazie a una passione più
forte, per cui useremmo gli stati di attenzione più vivida come pietre
per guadare il torrente del tempo e ricostruire poi gli stati intermedi
meno impressi.
Questo ci porta a pensare che anche la nostra percezione attuale sia
intermittente e fittamente spezzettata e che pure la continuità della
nostra vita presente sia riguadagnata attraverso velocissimi e
impercettibili salti, anche per la ragione che la nostra attenzione salta
di continuo dal fisico allo psichico, e che quindi non c’è mai una
percezione realmente continua del nostro vivere tutto fisico o tutto
psichico, che viene fluidificato e miscelato proprio dalla memoria,
intesa come azione pratica operante sul presente, proprio nel senso
indicato da Bergson in quel libro ispirato.
Con gli anni è provato che la memoria diminuisce. Ma è anche vero
che le persone, le città, i libri, le situazioni da ricordare sono molte di
più e quindi è legittimo domandarsi se la memoria non finisca per
toccare i suoi confini, fino ad arrivare a un troppo pieno. Se è così,
la vera differenza tra la memoria giovane e quella vecchia non è
tanto la ridotta capacità di trattenere le esperienze quanto la
coscienza obbligata della finitezza del sistema della memoria, visto
551
che ne saggiamo i colpi a vuoto lungo i confini, mentre prima ci si
illude che essa sia infinita, non avendo mai dovuto saggiarne i limiti.
È un fatto però che la memoria diviene meno atmosferica, meno
intrisa cioè dagli stimoli sensoriali, mentre invece fino a una certa
età, che è difficile precisare, essa è molto più animale, cioè intrisa di
odori, sapori, sensazioni di caldo o di freddo, di umido e di secco,
tanto che è inseparabile il ricordo di un amore dalla stagione in cui
l’abbiamo vissuto, da un odore di salvia o di incenso, da un profumo
o da una sinestesia esistenziale che lo immerge completamente,
rendendone struggente il ricordo proprio perché un’intera città può
essere intrisa dell’epifania perduta del volto di una donna, percepito
in continuità interiore con l’umido di un lungomare e l’odore di
piante di cui non sappiamo il nome ma sono intime in modo
inscindibile di quella passione.
Pure mi ricordo che a vent’anni, provando all’improvviso la gioia di
una memoria involontaria, lavandomi le mani con una saponetta
Palmolive, rimpiangevo il tempo in cui ero molto più sensibile alla
forza evocativa degli odori, età che probabilmente è realmente quella
della prima infanzia.
Tempo nel quale tuttavia queste sensazioni forti e organiche ci
arrivavano con minore coscienza e perciò stesso sparivano più
rapidamente e senza venire trattenute, con il che notiamo che
quando aspiriamo a conservarle sono molto meno forti e quando
non ci pensiamo affatto, proprio per questo ci sfuggono.
La conclusione è che neanche le sensazioni sono veramente mai
presenti a se stesse, ma sempre o intinte di un desiderio di ricordarle,
di una speranza di riassaporarle coscienti, che le ritoccano e quasi
reinventano, o chiuse nel loro irrompere attuale, che fa sì che non
siano più nostre di quanto non sia del ramo una folata che lo agita e
con esso consuona.
Punto critico: quando le sensazioni fisiche diventano spirituali?
La memoria involontaria della donna amata: memoria dell’Eden.
552
Adamo ed Eva, dopo la cacciata, serbavano memoria del paradiso
terrestre? Quanto mi sarebbe piaciuto essere uno di loro per sapere
cosa ne pensavano dopo.
Una pianta dalla chioma profonda e lucente, la gioia pura fatta
pianta, unico essere rimasto come nell’Eden.
Tra veglia e sonno
Quando si passa dalla veglia al sonno, c’è un passaggio in cui si
dorme da svegli, nel quale si risveglia una memoria atmosferica del
passato che fa affiorare non già un ricordo concreto e preciso di un
giorno o di un volto ma risveglia appunto un’atmosfera che ci
precipita piacevolmente in modo allucinatorio nel clima esatto di
venti o trent’anni prima, e soprattutto ci mette nel punto di vista
sensoriale in cui eravamo. Così che il giorno passato non è più un
oggetto ridestato e rianimato ma è il nostro io di allora, è il soggetto
che vive dal punto di vista di allora il nostro stato presente, e lo
nutre del plasma vitale di allora.
In questo tipo di ricordo il volto di una persona e il paesaggio in cui
l’abbiamo conosciuta fanno tutt’uno. E il paesaggio, inteso anche
come ambiente cittadino e artificiale, rinasce nel suo effetto globale
per qualche istante, ha dentro tutte le emozioni e gli affetti sensoriali
di quel volto, e il volto è esso stesso un brano del paesaggio, mentre
il paesaggio è un brano del volto. Odori e sapori allucinatori li
intridono entrambi in un una sequenza ondulatoria e piacevolissima
nella quale non ha alcun senso distinguere l’uno dall’altro.
Nota che il sogno non ha questo potere evocativo e sensoriale,
muovendosi in un piano allegorico, e montando le scene come in un
film nel quale non si ridestano né odori né sapori. Puoi sentire un
sapore o un odore nel sogno ma per produzione artificiale e artistica,
e senza nessuna naturalezza evocativa.
Quando ero convinto del valore sostanziale delle interpretazioni dei
sogni di Freud, i miei sogni ne erano addomesticati e seguivano
553
trame e soprattutto modelli che rientrassero in quei canoni di lettura
nel modo più chiaro e perspicuo.
Quando invece ho cominciato a dubitarne, a non aver più fede in
quel sistema geniale di dogmi (in senso greco: dogmata, teorie)
potentemente efficaci, anche i miei sogni hanno preso un
andamento più selvatico e renitente alla leva psicoanalitica,
conformandosi in modo da non avere quasi più nessun significato.
Hanno cominciato a sbandare e a vagare, alla ricerca di libertà, ma
cadendo ben presto in una tendenza ripetitiva, addirittura ossessiva,
per cui la loro banalità letterale e la loro ciclica ricorrenza finiva per
renderli disgustosi e quasi nocivi, al punto che rimpiangevo quella
vena artistica, da un verso chiusa in un canone, ma dall’altro
straordinariamente inventiva e plastica. Come se seguire le idee di
Freud stimolasse i miei sogni non soltanto al rispetto e
all’obbedienza delle sue formule ma nel contempo allo
scatenamento di un genio pittorico, di una invenzione continua di
messe in scena, di architetture luminose, di ambientazioni scultoree
e pregnanti, né più né meno come succedeva agli artisti
dell’umanesimo e del rinascimento i quali, vincolati ai dogmi, così
soltanto dispiegavano il loro tocco originalissimo e potente.
Da ciò si ricava che i dogmi non sono semplici idee repressive ma
potenze artistiche e geniali, elaborate in modo collettivo, che per
qualche ragione liberano, fecondano e scatenano l’immaginazione
vitale degli uomini più dotati, dando una forma e una resistenza
ambientale poderosa alla libertà creativa che altrimenti non sarebbe
mai compressa, caricata e dispiegata.
Esempi recenti di dogmi per élites ristrette sono le teorie di
Nietzsche, di Freud appunto, e di Marx, che poi hanno acquistato
potenza ben oltre la loro cerchia esoterica iniziale,
indipendentemente dalla loro corrispondenza con un vero fattuale e
sperimentabile, anzi spesso in aperto conflitto con esso, eppure
toccando nel vivo qualche bisogno poderoso o aprendo sbocchi di
immaginazione, pensiero e speranza altrimenti dispersi e
pulviscolari.
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Nei sogni del disincanto notturno si sperimentano monconi di vite
alternative ma sempre interviene un biglietto perso o scaduto, una
fermata dimenticata, un volo aereo cancellato, quasi altro la voce
della notte non volesse dirci che siamo destinati al fallimento, anche
quando non tentiamo più la sorte, anche quando lo sappiamo da
soli.
E tale banalità ci ripugna al punto che ci torna la voglia di vivere e di
vegliare, perché la veglia sarà senz’altro più varia, più inventiva, più
sperimentale di quella verità statica e fissa.
Inconscio, ricchezza sconfinata. E coscienza vigile, modesta povertà.
Che non sia invece il contrario? Che non sia la coscienza il paesaggio
sconfinato che si crea nel mentre si scopre.
20 ottobre
De mundo pessimo
Manlio Sgalambro, in De mundo pessimo e nelle altre sue opere, si
presenta come l’uomo del pensiero puro e radicale, il pensiero
vivente più che l’uomo pensante, il pensiero incorporato al punto da
pensarsi Dio lui (o esso) stesso, anzi superiore a Dio, esercitandosi
addirittura, con quelli che chiama i suoi confratelli di empietà, a non
considerare più Dio l’ente sommo ma, tutt’al contrario, l’ente infimo
anzi, come scrive lui, “l’ente più infimo”. Egli attribuisce al pensiero
umano tale potere da dominare Dio pensandolo.
Inteso alla lettera, sarebbe la prova più smagliante dell’assurdità
dell’idealismo soggettivo e della folle presunzione del pensiero
solipsistico, che non si accorge di produrre una verità tutta interna a
se stesso, come se pensare una verità bastasse a farle essere come la
si è pensata. Per dirla con Bacone, per il ragno il mondo è una
ragnatela e tutti gli altri esseri sono sue prede. Ma un ragno resta un
ragno, cioè un animale che ha lo stesso fascino di ogni altro e la sua
tela non è che una tela, così come il pensiero di Sgalambro non è
che il pensiero di Sgalambro e il pensiero mio non è che il mio.
555
Così non si accorge che il pensiero, producendo concetti, produce
anche se stesso, secernendo una sostanza dentro la quale soltanto è
vero ciò che pensa.
Allora Sgalambro reagisce dicendo: che mi importa del mondo!
Basta che pensi io e il resto vada alla malora!
Ma lui fa parte del mondo di qualche altro che con la stessa ragione
può mandare alla malora lui. Cosa che pure non gli importa.
Però pubblica libri, il che conferma che la sua esibizione sul
palcoscenico del mondo è indispensabile e che pensare non gli
basta, a meno che non voglia dirsi mosso da una intenzione
pedagogica, anzi dalla volontà di propalare il verbo. Il che sarebbe
leggermente ridicolo se Sgalambro non fosse un artista.
I libri di Sgalambro infatti sono soprattutto libri artistici, romanzi di
idee, racconti di pensieri, che ti danno l’euforia di un buon whiskey
invecchiato e che per un giorno o due ti stimolano con potenza la
percezione e l’intuizione delle cose, se non diventano un’abitudine
quotidiana, perché allora diventi un alcolista.
Così proprio il libro del pensiero puro e assoluto, del pensiero
empio e radicale, per un paradosso ironico al quale l’autore, da
bravo artista, non è insensibile, diventa tutto il contrario, cioè
un’opera letteraria, fatta di concetti invece che di emozioni, di
personaggi di pensiero invece che in carne ed ossa, ed esso vale
come autobiografia e come ritratto di una vita di pensiero, molto più
appassionante di tante narrazioni intercambiabili e puramente
istintive e linguistiche. Un romanzo di idee che lascia il segno,
perché non segue i mille rivoli del fiume del divenire sentimentale e
cronachistico ma sintetizza la storia di un vivente razionale unico.
Noi abbiamo una fascia uditiva che non ci consente di percepire
ultrasuoni e infrasuoni e abbiamo una fascia visiva che non ci
consente di vedere oltre e al di fuori del nostro cono prospettico.
Così abbiamo una fascia di pensiero che non ci consente di cogliere
gli infrapensieri e gli ultrapensieri, ed è non meno ridicolo
presumere che il nostro pensiero sia della stessa natura di quello di
Dio, che essere convinti che Dio veda il paesaggio davanti alla
556
nostra finestra con occhioni giganteschi, ma della stessa
conformazione dei nostri.
22 ottobre
Sminuzzare il tempo
Padre Bartoli parla dello sminuzzamento del tempo, dello
sgretolamento di ore in minuti, dello sbriciolamento di minuti in
secondi e ne trae un consiglio per affrontare il tempo per via
microfisica, microbiologica, attaccando il tempo nelle sue
componenti minime, impiegandolo in ogni sua fibra, assaporandolo
in ogni filamento, investendolo con una concentrazione sottile e
vigile, mordendolo e gustandolo in un lavoro di conoscenza e
operosità meticoloso, lenticolare.
Chiave di volta
Il problema terribile e insolubile di noi italiani è che resistiamo
eroicamente a salvare la natura dalla valanga dell’artificiale, che è
tutt’uno col progresso civile. Ma così facendo dobbiamo tenerci
anche il caos e la delinquenza.
Scrittori suicidi
Consideriamo gli scrittori che si sono uccisi e vediamo che si
possono dividere in due categorie. Nella prima il suicidio arriva
come l’atto finale di una storia tutta virata al nero, di conflitto
insanabile con se stessi e con gli altri, nonché con chi o cosa sta
dietro o al di là di se stesso e degli altri. In questo caso essi firmano
col sangue la propria opera, che da quel momento viene presa molto
più sul serio e letta con un plus valore radicale di verità negativa,
perlomeno personale.
Nella seconda categoria il suicidio arriva come un atto iniziale. Lo
scrittore che si è espresso nel modo più ricco e drammatico, ma
557
decidendo lui quale genere di armonia segreta o contraddittoria
dovesse trovarsi nella sua opera, non sopporta che la vita gli sfugga
di mano e vuole considerare essa stessa come un’opera, un romanzo
dal vivo che soltanto lui può decidere come o quando chiudere.
Morto lui, viene pubblicata la sua vita, da allora in poi oggetto di
studi, biografie, approfondimenti, anche feticistici, come nel caso di
Hemingway. Ho letto di recente un’intervista nel quale si chiedeva al
proprietario dello Harry’s bar quale fosse la famosa panca sulla quale
lo scrittore amava sedere. Domanda alla quale Cipriani ha risposto
che non esiste, si sedeva dove capitava.
Ma è inutile, ormai la sua vita è un’opera d’arte, che comprende tutte
le altre che ha scritto.
La ragazza per la gonfia
(David Forster Wallace)
Quella che Dante chiama nel Convivio donna schermo, e che si
interpone nella linea dello sguardo verso Beatrice, è diventata la
“ragazza per la gonfia” nell’industria americana del porno, cioè
quella che fa rizzare il sesso in vista dell’accoppiamento con la
donna designata alla penetrazione.
Un’attrice porno racconta che quando si avvicina a un uomo lo
sente vibrare come una foglia. “In pratica fanno tutto quello che gli
dico io”. E David Foster Wallace, nel suo reportage sul porno
americano, Considera l’aragosta, osserva: “L’intero settore ormai vive
di questa strana inversione di ruoli: i consumatori sono quelli che
sembrano vergognosi o timidi, invece gli attori sono sfacciati e calmi
e iperprofessionali.”
Il maniaco del porno azzera il resto del mondo, concentrandosi nel
corpo della donna, che incarna per lui un eccesso totale di realtà,
cancellando tutto il resto. La sua monomania non genera lo scacco
di ogni altra che, azzerando il mondo, deforma profondamente la
natura in un dolore fisso e irrevocabile, ma investe tutto il suo
piacere in un atto puntuale con la sua dea, il suo feticcio, il suo
558
oggetto mostruoso di desiderio tridimensionale, che dal vivo ha la
stessa consistenza straniante di un personaggio dei cartoni.
La donna accoglie il devoto, tremante e sconvolto, con indifferenza
assoluta, come una statua vivente, a condizione di aver varcato ogni
soglia del pudore, di essere capace di tutto proprio in questa vendita
totale del corpo, che è tutt’uno con il suo essere.
Almeno così sembra, finché lui lentamente deraglia in una
zuccherosa pazzia e lei, la dea spampanata, piano piano cade in una
follia strana, e basta un anno in più o un lifting andato male per
portarla al suicidio.
A tal punto è pericolosa la ricerca di una felicità corporale del tutto
amorale e asociale, giacché il pudore non è nulla di naturale, ma è la
morale sociale stessa col suo immane imene protettivo.
Lo stilnovista invece, anch’egli un monomaniaco, proprio nella
rinuncia al sesso, che resta la fonte della sua ossessione, rilancia
all’infinito l’immaginazione del piacere è costruisce così una vita
salda e poetica, ingegnandosi di trovare infiniti ostacoli al possesso,
o di ingigantire quelli reali, al fine di rendersi impossibile il
godimento attuale, e nello stesso tempo sublimandolo – perché in
questo caso Freud è più che pertinente – e reinventandolo fino a
scrivere una Divina Commedia.
Da tutto ciò si ricava che le fonti del piacere non vanno disseccate o
intaccate mai bensì orientate verso la salvezza, tanto più forte è
l’impulso erotico che le ha generate, come in Dante certamente lo
era. Perché altrimenti farsi guidare in Paradiso da una donna che
aveva il pur grande ma solo pregio di essere amata da lui?
L’arte della prudenza
La prudenza è un’arte che si impara a praticare quando è troppo
tardi ed è ormai possibile soltanto seminarne i frutti senza poterli
raccogliere. Essa infatti ha bisogno di un tempo molto lungo davanti
a sé, nel quale i suoi semi, incubati nei campi più disparati, hanno
559
qualche occasione di poter germogliare. Ma il giovane non è affatto
disposto all’impresa.
La gran parte dei danni e delle offese che riceviamo dagli altri
dipendono infatti dal troppo che diciamo e facciamo mentre il non
dire e il non fare, in cui consiste in fondo l’arte della prudenza,
sempre che pratichiamo nel contempo le persone dalle quali
possiamo sperare un sostegno, maturano molto lentamente, e
soltanto quando la nostra presenza è diventata così familiare da
meritare quella stima tranquilla che si è soliti tributare a chi non ci ha
dato ragione di pericolo e di minaccia.
Allora puoi tirar fuori le tue qualità, anche se preponderanti rispetto
a colui che altrimenti cercherebbe di soffocarle, anche perché
tenderà sempre a ridimensionarle per la memoria della tua innocuità
e durerà del tempo prima che si accorga che finiranno per metterlo
in ombra.
Convivere tempi lunghissimi con altri uomini, senza mai far
trapelare i nostri piani, è la prima regola di chi abbia ambizioni di
carriera in qualunque campo. Tu devi prima di tutto rassicurare, non
soltanto essere modesto e leggermente tonto, quasi distratto,
ingenuo, non soltanto figurare di non dar peso a quello che fai ma
neanche dare prove troppo smaccate di te, che farebbero subito
scattare l’allarme.
Il fatto è che chi è disposto a questa lunga pratica di prostrazione e
mimetismo, nelle università, in politica, nelle aziende, finisce col
tempo per diventare tanto modesto quanto sembra, tanto spento
quanto figura, e quando finalmente si può permettere di esprimere
un talento per così lungo tempo tenuto in letargo e in coma
controllato, quello ormai non sussiste più.
È esperienza comune che le reazioni degli altri verso di noi
dipendono soltanto in minima parte dalle nostre opere e molto di
più da episodi remoti, da atteggiamenti assunti da noi anni o decenni
prima, da battute dette o presunte o riferite, all’epoca da noi
considerati innocui, o perché le nostre critiche e sfavori andavano a
colpire uno che allora non contava nulla o perché mai avremmo
560
pensato che ci sarebbe stato utile colui che nulla lasciava sperare di
sé vita natural durante.
La prudenza ci dice appunto: tratta bene tutti perché potrebbero
diventare chiunque. Ma trattali bene in modo documentato e
attendibile, il che francamente è estenuante. Non ti servirà a niente
lo stesso, ma almeno saranno convinti che tu, riconoscendone il
valore, sei un giusto.
Ma proprio quelle persone insignificanti, criticare le quali sembrava
così naturale da non poter essere addebitato al nostro malanimo o
alla nostra severità, quasi sempre sono diventate uomini di successo
e di potere, dislocati nei posti chiave dai quali dipenderà la nostra
sorte.
E sarà impossibile rimediare perché, a dispetto di ogni nostro
atteggiamento cortese e favorevole, sempre si ricorderanno del poco
conto nel quale li abbiamo tenuti un tempo, in uno scritto, in un
incontro, in una cena tra amici. E anche se la nostra disistima era
così riservata da rasentare l’inconscio, da non rendercene conto
neanche noi, lo stesso essi l’avevano fiutata, e crudelmente sofferta,
da un gesto mancato, da un’omissione di lode, da un silenzio
circospetto, e a null’altro penseranno, quando ci presenteremo al
loro ricordo, che di vendicarsi con altrettale silenzio.
Mentre quelli che dall’inizio manifestavano talento in qualche campo
e avevano il nostro consenso più convinto, molto spesso troverai
che, avendo salvato il talento, non hanno guadagnato però null’altro,
e tristemente potrai specchiare nella loro la tua mancanza di potere.
Meditazioni in Cristo
Tutto Dio, tutto Cristo, Tutto Dio, tutto uomo. Tutto uomo, tutto
Dio.
Cristo figlio di se stesso, Dio padre di se stesso, Cristo padre del
figlio Dio, l’uomo figlio e padre di Cristo e di Dio.
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L’amore è lo Spirito Santo. Amante amato, amato amante. Si dice
sempre che non va amato l’amore ma l’amata. Eppure amando
sempre si crea l’amore, che è un terzo, e senza amore non ci sono
neanche gli amanti. Questo si sperimenta quando si ama, ed è da
questa esperienza che nasce la Trinità.
C’è molto da riflettere su questa linea maschile di trasmissione
dell’amore. Dio infatti è padre e madre (come lo si chiama in un
punto dell’antico testamento) ma dal punto di vista antropologico,
gli si attribuisce un carattere sessuale maschile. Cristo è maschio. Il
fatto che le donne siamo più religiose degli uomini dipende da
questo? Esse si buttano più naturalmente su un amore sublimato
con l’altro sesso.
La Madonna è vergine e madre. Ma sono sempre le donne a esserle
più devote. Si vede che il loro sogno proibito è essere insieme
vergini e madri.
Se devo entrare in un abisso posso liberarmi dai caratteri sessuali,
edipici, filiali?
La stalla della nascita di Cristo. L’amore è in grado di passare dal
puntiforme al cosmico. Amore è un filo di capello, un soffio sottile,
una cruna. Se non passi nella cruna minima non attingi il massimo.
Il moscerino non è nulla. Ma si potrebbe scrivere un trattato su i
esso. All’istituto Max Planck hanno studiato per due anni l’occhio di
una mosca, a dire il vero per progettare bombe intelligenti.
Se tu vedi un moscerino posarsi sulla pagina di un libro ti accorgi
che è un nonnulla, un quasi niente, un alito appena di vita
insignificante, eppure tra il moscerino e il nulla c’è un abisso.
Il bisogno di essere piccolo, l’umiltà come terapia. L’intimità come
bisogno profondo e fisico che corrisponde al riconoscersi molto
piccolo.
I nazisti hanno ucciso gli ebrei perché erano nazisti non perché gli
ebrei erano ebrei.
562
Uccidere è uccidere, e nient’altro. Per questo è così difficile trattare il
crimine e i criminali. Non puoi che separarli dalla vita, dalla società,
da tutto.
La Madonna ha mai detto a Gesù che era stato concepito dallo
Spirito Santo? Non le dava la vertigine dire al figlio che era figlio di
Dio? E alle amiche lo aveva confidato? Era una ragazzina. Allora si
diventava maggiorenni a undici anni e un giorno, e si poteva
maritare una bambina che aveva sviluppato. Oggi avrebbero fatto
l’esame del codice genetico alla ricerca del genitore. E cosa
avrebbero visto? E, non trovando il padre, cosa avrebbero
concluso?
Gesù si è trovato contro tutti. Era combattivo, audace, mancava del
tutto di prudenza.
Hai pensato fino in fondo. Hai solo pensato.
Chi più pensa più ne vede i limiti. Il campione del mondo dei cento
metri sa quanto va piano un uomo.
Fare una maratona e all’improvviso mettersi a correre in tondo a
tutta velocità.
Pensare la realtà: Cristo ha cambiato la vita in due millenni di milioni
di persone. Esistono santi locali, regionali, uomini e donne
illuminati, ammirati, missionari, dediti alla carità, ai quali ci si rivolge
con devozione per giorni, mesi, anni, sono decine, centinaia,
migliaia.
Ma soltanto Cristo accende chiunque lo conosca e dovunque,
credano o no nella sua natura divina. Come mai? Ci è indispensabile.
Non credo che sia figlio di Dio. Ma allora come mai proprio lui? Ha
trovato il nucleo paradossale e scandaloso della vita e il modo per
trasformare l’assurdo doloroso in assurdo gioioso. E qual è questo
nucleo? Ieri notte, nell’albergo Aurum di Berlino, lo sapevo. Ora
non lo ricordo più e soltanto perché non avevo voglia alle due di
notte di alzarmi e scrivere.
563
C’ero andato vicinissimo: al genio della vita, alla fonte
incandescente, al salto mortale che rovescia più di una volte le cose,
alla realtà delle realtà.
L’amore è potente e raro perché appaga l’altro e sé, cosa che non
capita mai. L’umiltà, la mitezza, l’audacia sono terapeutiche. L’amore
è guaritore.
Cristo amando insegna a Dio ad amare. Gli dice, visitando le
contrade selvagge e basse che Egli non può conoscere. Guarda che i
tuoi figli sono degni di te, puoi amarli! La sua spedizione nel pianeta
terra non lo ha deluso, anzi lo ha appassionato.
Cristo muore, e questo è un bel colpo per un Dio eterno. E rinasce,
e così si riavvicina al senso, ma sempre scandalosamente. Pensiamo
tuttavia a un primo colpo ignorato da tutti noi, perché molto
naturale in apparenza. Cristo nasce. Dio nasce! Questa è la cosa
decisiva e più scandalosa di tutte, perché tutto il resto ne consegue.
Dio ha desiderio di nascere, snobba l’eternità. Insemina una donna,
grazie alla Colomba, per nascere. Così facendo Dio dice la dignità
della nostra vita, scoppia come Dio, si sacrifica già allora.
Anche Zeus inseminava con una pioggia d’oro la sua amata nascosta
dal padre in un sotterraneo con poche fessure per respirare. Scambi
d’amore tra dei e uomini non sono nuovi, ahimè.
Il Vangelo dice che lo Spirito Santo episkiasei, inombra, ombreggia,
oscura, Maria. L’inseminazione è un adombramento, una copertura
di nube, di spirito.
Maria si scopre incinta e non sa come. Le hanno versato il seme nel
sonno? Ne hanno controllato la verginità, come allora era usanza?
Come hanno reagito tutti suoi familiari? E Giuseppe? Di sicuro
nessuno le ha creduto, eppure, guarda caso, quel bambino concepito
in quel modo così strano e unico era proprio Gesù. Anche questo è
molto strano. A meno che non si sia costruita a posteriori una
nascita tanto miracolosa.
564
Gesù non è figlio di Dio, le gravidanze delle vergini non sono
possibili. Eppure abbiamo bisogno ancora di Gesù, di un ragazzo
vissuto duemila anni fa in Galilea. Perché?
Riflettiamo sul mistero dell’esistenza di un miliardo di cristiani. Un
fatto che non si può eludere.
Un ragazzo morto giovane ci è indispensabile. Senza di lui la vita
sarebbe più dura e le sponde di pietra potrebbero farci molto più
male. Ma se non fosse Dio non sarebbe un’idolatria esagerata?
Prudenza vorrebbe di accettarlo come modello, anche perché
almeno io non posso farne a meno. Quanto vorrei venir liberato dal
Padre che, se non ci fosse Cristo, avrei già dimenticato come un
ricordo ingombrante dell’infanzia o temuto come un gigante
immenso.
In un pianeta di sei miliardi un uomo è Dio, uno solo conta per un
miliardo eppure vive e muore più crudelmente di tutti gli altri.
Pensiamo a fondo la cosa, pensiamo a fondo Cristo uomo, solo
uomo, e pensiamo a fondo la realtà bimillenaria del cristianesimo.
Quanta gente ha amato, sofferto, bestemmiato, sotto quanti cieli e
con quante trasformazioni vertiginose. E non ci siamo ancora
schiodati da lì né c’è alcun segno che nei secoli a venire ci
schioderemo. Siamo tutti ossessivi o è stato trovato qualcosa che
non si può più perdere, neanche volendo.
Quanto è difficile per noi cambiare una sola persona. Io ho
cambiato mai nessuno? Per qualcuno sono stato e sono
indispensabile? Per la mia famiglia sicuramente sì. Ma c’è al mondo
qualcuno che senza di me non sarebbe stato lo stesso, al quale ho
dato con i miei scritti, col mio insegnamento, con la mia parola la
chiave di un cambiamento irreversibile e profondo?
Eppure non mi mancano qualità umane e intellettuali, sono tra le
persone più colte e buone, eppure non ho sortito nessun effetto
decisivo in un altro, pur dando fondo a tutto quello che c’era nel
mio cuore e nella mia mente.
565
Di fronte a Cristo uomo io sono nessuno. Di fronte a Cristo Dio
torno a essere qualcuno.
Se Cristo fosse solo uomo sarebbe troppo grande per chiunque.
Cristo solo uomo nei suoi trentatré anni di vita sarebbe già
sproporzionato per chiunque ma nei suoi duemila anni di
trasformazione dell’animo di miliardi di credenti e non credenti cosa
sarebbe?
Maometto ha cambiato la vita di un miliardo di persone, ma è un
profeta e non un dio, perché nessun uomo lo ha visto abbastanza
grande da poter essere considerato un dio.
L’adorazione che allora gli viene rivolta ha per forza qualcosa di
esagerato, di forzato. Se non è abbastanza grande da essere
considerato un dio perché adorarlo tanto? I musulmani, onesti, che
se ne accorgono, adorano soltanto Dio.
Adorare un uomo, nel senso che nessuno lo può criticare né
rappresentare, è brutto, è malato.
Cristo è solo in quanto Dio, soggetto di un amore bimillenario. Ma
perché? Cristo è stato scelto come Dio. Da chi? Da Dio o dagli
uomini? Comunque è stato scelto.
Potrà mai qualcuno in futuro essere considerato Dio da milioni di
uomini, fondando una nuova religione in qualche parte del mondo?
Gli uomini capaci di parlare ai millenni sono vissuti solo millenni fa?
Berlino, 2 novembre
I beniamini della vita
La festa immeritata della vita, l’inno a qualunque vivente.
La gioia di vivere è la gioia di essere i favoriti.
566
A Berlino tutto ci parla dei morti delle due guerre. Perché non sono
stati scelti a vivere?
La elezione a vivere non è forse la vera elezione?
La giustizia imperscrutabile divina. Perscrutabile quella umana? La
giustizia umana è chiara?
La selezione colpisce sempre in modo bislacco. Idioti, canaglie,
deficienti, esuberanti e ciarlatani non vengono mai colpiti.
Mediocrità, banalità, bonarietà, ripetizione collettiva e massacrante,
odiosa e perversa bestialità producono la virtù. La cacca diventata
cibo.
Berlino, 3 novembre
Cartoni animati
Quando gli uomini tornano animali, non come bestie pazze, che non
esistono quasi mai, ma come quiete e civili bestie parlanti, ciò che
hanno colto i cartoni animati: il criceto, la gazzella, la gatta, il cavallo
umani, tutti riuniti in branchi e con abitudini e usi placidamente,
incorreggibilmente, simili ai loro.
Il dialetto
Nessun dialetto è brutto, si dice. Ma non è vero, ce ne sono di
musicali e di orrendi. La bruttezza del dialetto rivela la bruttezza
interiore di una gente o la sua mancanza di senso musicale? Si tratta
di una distinzione puramente estetica, tutt’altro campo della sua
morale e del suo valore. Esistono anime oneste e brutte.
Il dialetto tradisce lo stato dell’anima molto più della lingua
nazionale, più sofisticata nel nascondere, essendo entrata nell’uso
pubblico e vocale solo da qualche decennio in tutt’Italia, quando il
quoziente di artificiale e finto era già smisurato.
567
Il dialetto crea una comunità lessicale, tonale e sonora, rassicurante
per coloro che lo parlano ma esclusiva per coloro che non lo
parlano. Per quanto studi, se non sei Gerhard Rohlfs, non riuscirai
neanche lontanamente a parlarlo come chi in quella comunità
sonora è nato, quindi sarai un diverso, un escluso.
C’è una violenza nel dialetto, un’esclusione codificata alla nascita,
alla quale non c’è scampo. Essendo il valore dato dall’origine, chi
viene da fuori, perché nato fuori, è per sempre lo straniero.
Ai cantori della profonda umanità del dialetto andrebbe ricordato
che esso è nato per la tutela gelosa di una comunità che non vuole
forestieri tra i piedi e che ha studiato un modo per riconoscerli
appena aprono bocca.
Patetici e ridicoli quei meridionali che vogliono a tutti costi parlare
lombardo e generano un miscuglio tonale che non è né carne né
pesce, denotando mancanza di fierezza ma anche e soprattutto la
violenza subita, che li spinge a cercare di essere accolti in una
comunità fonetica, rimarcando con la loro lingua mista che è
impossibile. Come fai a essere nato dove non sei nato?
L’uso del dialetto non inganni: tutta la cucina è regionale.
I toscani
Anche i toscani usano le loro cadenze affettate per distinguersi,
quasi essere toscano fosse un merito innato.
Ricordo che, quando ero soldato, essi soli si erano radunati tutti a
dormire in una stessa camerata, cosa che per un lombardo, un
piemontese o un veneto sarebbe stato inconcepibile, almeno a quei
tempi. E con la lingua sempre calcata, a voce alta, esibita, smaccata
non facevano altro che ribadire che erano toscani. Se avessi
rimarcato il fatto avrebbero reagito con un silenzio sdegnoso o con
ironie salaci.
568
Frequentandoli per un anno ho osservato però che la loro superbia e
sicurezza di sé, sempre ostentate, e imitata gli uni dagli altri, non si
esprimeva mai con parole arroganti contro gli altri, della stessa o di
altre regioni, con irrisioni e con beffe sprezzanti, come quei toni e
quei modi avrebbero dovuto far pensare. Ma, al contrario,
rispettavano gli altri in ogni occasione, sia presi uno per uno che
messi insieme.
La loro superbia rimaneva come un a priori antropologico, come
attitudine, come maschera ma, fermo restando che essi solo erano
toscani, del che nessuno poteva e doveva dubitare, erano quasi tutti
sensibili, pazienti, modesti, capaci di ascoltare e capire le situazioni
altrui con delicatezza, anzi spesso venati da una malinconia sincera e
imbattibile, forse connaturata al loro vigore.
La superbia e il senso di superiorità possono rimanere in stand by
anche per sempre, come nel caso dell’uomo del nord verso quello
del sud, nel contempo frequentandosi, rispettandosi, stimandosi,
basta che non si dubiti che venga meno la distinzione, la quale resta
come forma a priori.
I fiorentini
Anche se i fiorentini di oggi nulla hanno a che vedere con Dante,
Giotto, Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Michelangelo, nati o
operanti a Firenze, abitano e nascono dentro la ricchezza artistica e
culturale come in una villa magnifica che hanno ereditato, perché
discendenti genetici della famiglia che l’ha costruita.
In gran parte essi, soprattutto se borghesi, ignorano o disprezzano
addirittura l’arte ma guardando con superiorità tutti coloro che
fiorentini non sono, non sentendosi affatto i custodi della villa ma i
proprietari, il che inzucchera ed esalta il loro orgoglio e il loro alto
sentimento di sé, anche se non abbiano combinato niente di speciale
oggi.
Sapremmo dire il nome di un pittore, di uno scultore, di un
architetto, di un artista, di un romanziere, di un poeta, dopo la morte
569
di Mario Luzi, ultimo erede nobile e fervido di quella tradizione,
fiorentini che non dico siano alla pari con loro ma almeno guardino
con disciplina e passione a quegli antenati immaginari di cui tutti si
vantano come fossero carne della loro carne?
Ma ecco che i quarti di nobiltà simbolica tornano a contare, anche
per il solo fatto di essere nati cinque o sei secoli dopo nella stessa
terra un genio innato aleggia in loro.
Nei ceti popolari invece, o in chi sa di popolo, qualunque sia la sua
ricchezza, tu trovi una mancanza di spocchia che te li fa subito
sentire più congeniali agli antenati.
I fiorentini parlano sempre a voce alta, rimarcando a ogni parola che
sono fiorentini. E dopo un po’ sei portato anche tu ad alzare la voce,
a prendere le loro intonazioni perché, se parlassi in modo naturale e
pacato, sembreresti uno straniero e un pesce fuor d’acqua, pur
restandolo altrettanto nella penosa imitazione.
Così ti senti più straniero a Firenze, alla civiltà della quale ti sei
nutrito fin dall’infanzia, che se fossi in Manciuria, dove magari
sarebbero interessati a come parli tu.
Godere dei vestiti
Un’analogia con gli animali che cambiano pelliccia e piumaggio si
trova nel modo in cui le donne e gli uomini godono i tessuti sulla
loro pelle, cercando un’intimità e una calma di fondo nella lana dai
colori bene abbinati e finiscono per sentire come una seconda pelle
le sete e i cotoni di cui si rivestono. Tristezza e buonumore vengono
assorbiti dai vestiti, dando la sensazione del passero che quando
dorme si gonfia nel suo piumaggio o nella volpe che si appallottola
nella tana.
Questo modo di godere dei vestiti era molto più forte da ragazzo e
quasi nullo oggi, perché è sempre più difficile godere una situazione
fisicamente intima, sentendosi con gli anni sempre più stanati e, in
certi casi, aumentando persino la fretta di incontrare il cacciatore,
non per farsene uccidere ma per sfidarlo pericolosamente nudi.
570
L’intimità invernale è molto sentita dai tedeschi e dai popoli nordici,
soprattutto verso Natale. La sensazione è che ci siano veri e propri
ormoni dell’intimità che secernono sostanze odorifere e letifere. A
Norimberga, già a novembre, luci, neve, giocattoli, dolci, libri,
castagne, nel freddo denso e cotonoso fanno capire che l’intimità è il
modo tedesco di percepire l’infanzia e il Natale un modo per
tornarci.
Banalità mondiale
La sgargiante, eccitata, volgare, smaniosa, presuntuosa, rumorosa,
sferzante dissonanza della società delle comunicazioni, nella quale si
comunica ciò che non si sa e ciò che non si è, ma nel modo che si sa
e si è, a persone che non ci credono ma si comportano come se ci
credessero, per il godimento di vedere altri svergognarsi e per la
pigrizia di non esporsi, è il modo più desertico di non comunicare
che si possa immaginare. Uno che mi perseguita e soffoca parlando
incessantemente mentre io ho la sola libertà di farmi soffocare da un
altro parlante in altro canale o di camminare da solo in una città in
cui tutti si fanno soffocare da qualche parlante.
Nella tele-società gli uomini e le donne deformati ripugnano ma chi
lo dice ripugna anche lui perché è un asociale.
Lo spettacolo più deforme e la letteratura più atroce acquistano
pregio in virtù del numero degli ascoltatori e dei lettori. Il numero
impazzito.
Pensare è diventato inutile alla costruzione della vita sociale. Ma è
indispensabile per sopravvivervi.
Dite una qualunque banalità: c’è almeno un miliardo di persone che
la pensa come voi.
Dite una cosa nuova e intelligente: almeno un miliardo di persone
capisce che lo è ma sa pure che è inutile ascoltarla e dannoso
condividerlo.
571
Berlino, 5 novembre
Santi potenti e impotenti
Immaginate un santo che cominciasse a frequentare giornalisti
televisivi, politici, veline, imprenditori, comici, pubblicitari,
conduttori, presentatori: gli spettatori sarebbero scandalizzati. Ma
ciò vorrebbe dire che i santi non li considerano veramente perduti
ma degni di predicazione.
Immaginate un santo che si metta a predicare a mafiosi e camorristi,
dicendo che sono pecore nere e smarrite, e che quindi il buon
pastore deve stare in mezzo a loro. Come minimo verrebbe
imputato per complicità. Perché? Il buon predicatore può stare con i
peccatori solo se la sua presenza li spinge a smettere di peccare. Non
se essi continuano, altrimenti la sua santità si rivelerebbe impotente
e complice.
Maschi, femmine, neutri
Da ragazzo osservavo mani, occhi, capelli, altezza, colore della pelle
dei maschi per confrontarmi, cosciente della pressione selettiva delle
donne, benché l’impresa fosse difficile e ansiogena, perché i corpi
degli altri maschi mi stavano così addosso da colpirmi in modo
troppo vivido i sensi e l’immaginazione
Quando un uomo raggiunge i cinquant’anni o è sposato, è libero da
questa spinta a migliorare la specie che vede negli occhi avidi e
spietati delle donne. E proprio allora le donne cominciano a
interessarsi a lui.
Nella donna genio naturale e banalità si attraggono e completano in
una mistura deliziosa. Nell’uomo si distruggono a vicenda, con la
vittoria del primo o, molto più spesso, della seconda.
572
Una donna nevrotica è pur sempre una donna. Una donna
anoressica si uccide pur sempre da donna. La lesbica resta donna
nella testa. L’uomo nevrotico perde la virilità e si uccide da neutro.
Se omosessuale invece salva la sua mascolinità.
L’omosessuale maschio sente troppo la sua propria mascolinità.
L’omosessuale donna sente troppo poco la sua femminilità. La
differenza è cruciale, perché la femmina omosessuale è spesso
mascolina ma il maschio omosessuale di rado è effeminato.
Il maschile, il femminile e soprattutto il neutro, il terzo sesso che sta
dilagando come un’epidemia di cui nessuno si accorge.
Una malattia finita
Stiamo andando verso gli ultimi decenni del capitalismo? Le fonti
energetiche sono prossime a finire? Cosa accadrà poi? Vedo una
grandiosa e solidale fratellanza per sopravvivere, macchiata da delitti
cruenti, percepiti come catastrofi naturali.
Saranno tragedie, mostruosi conflitti, clamorose generosità e
metamorfosi commoventi ma, se dio vuole, questa malattia sarà
finita!
Le società gloriose sono brevissime. Poter vivere in uno di quei
periodi e in posizione da poterli godere. Per secoli si rielaborano
quei picchi, senza riuscire a consumarli.
Berlino, 6 novembre
Specialisti nel creare i complici
Non sono poche le persone specialiste non soltanto nel criticare gli
altri perennemente ma nel trasformare l’ascoltatore in un complice.
Di fronte al silenzio o al semplice ascolto, non potendo colui che
assiste al bombardamento di una persona essere costretto a lodarla
in modo smaccato soltanto per disimpegnarsi, queste persone
inducono che tu sia d’accordo con loro, non opponendo altra
573
resistenza che il silenzio, e trovando naturale che tu la pensi come
loro. Non essendo infatti possibile che un ascoltatore sia tanto
villano da rovesciare i detti di un amico, del tutto convinto
nell’addossare il male addosso a un assente, finirà per passare da
complice.
Così lo specialista della critica non solo si convincerà che tu sia
d’accordo con lui ma dirà a tutti come tuoi i suoi pensieri,
guastandoti con una quantità di persone che ti odieranno, senza che
tu non solo ne sappia niente ma non possa fare niente per rimediare
e correggere l’equivoco.
Se invece resisterai in modo attivo, non dico capovolgendo le
critiche in lodi, perché diventeresti offensivo, e susciteresti indignate
denunce di incomprensione, ma temperandole, susciterai subito l’ira
di chi ha deciso di importi il giudizio severo che non è tuo.
Romperai con l’amico, passerai per un ipocrita, e comunque ti
troverai lo stesso a passare per colui che critica, perché l’amico
offeso troverà molto più naturale addossare davanti a tutti su di te il
malanimo che ha manifestato lui, visto l’uomo doppio che sei.
L’unica soluzione di fronte a questi denigratori per interposta
persona, a questi scaricatori di responsabilità, è di dichiarare con
semplicità che la vittima degli insulti è un tuo amico. Così
l’accusatore dovrà arretrare, senza che si entri affatto nel merito
delle presunte colpe. Disarmerai l’attacco, pur passando per uno di
quegli uomini buoni che, per questa stessa ragione, finiscono per
non guardare mai in faccia la realtà.
Gli insultatori
Più di una volta ho verificato che i grandi insultatori del loro
prossimo, i più dogmatici e convinti assertori dei loro giudizi
stroncatori, cambiano idea con la velocità del lampo non appena
ricevono, o sperano di ricevere, un favore da coloro che hanno
disprezzato.
574
E il loro cambiamento di giudizio non si limita al campo morale ma
investe in pieno anche quello sulle opere dell’ingegno, le stesse che
giudicavano una vergogna del genere umano, e nelle quali
riscoprono bellezze segrete e nascoste tra le pieghe, in un primo
tempo invisibili.
Se tu frequenti persone che non stimi o con te non congeniali, prima
o poi lascerai trapelare il tuo giudizio e la tua antipatia e finirai per
far loro torto, volente o no. Molto più sicuro non frequentarle
affatto, così potranno pensare che, benché esse appartengano allo
stesso genere di altre sulle quali ti sei espresso in modo negativo,
loro possano per qualche ragione costituire un’eccezione e, non
avendo tu avuto l’occasione di fare loro un torto, serberai una
verginità che non ti nuocerà al momento opportuno.
La gran parte della fatica che spendiamo nelle relazioni umane è
infatti volta proprio a che gli altri non ci nuocciano.
Amati dai mostri
Tanti uomini sono dei mostri per me, letteralmente, e io sono un
mostro per tanti, benché magari innocui e simpatici. Qualcosa di
estraneo, di incompatibile, di indigeribile. Inutile forzare la
situazione, meglio riconoscersi con i simili, con quelli che sono
umani per noi e per i quali siamo umani noi.
Ma come è forte la tentazione di essere amati dai mostri, di cercare
di amarli. Così, a maggior ragione, a maggior irragione, saremmo
molto più sicuri dell’amore di tutti gli altri.
Esistono scrittori di gran valore che hanno pochissime probabilità di
trovare persone simili in grado di riconoscerli e pubblicare un loro
libro in diecimila copie diventa impossibile perché gli editori, che lo
sanno, non possono rischiare di fallire affinché essi trovino i loro
confratelli.
Perché quelli che non sono confratelli non saranno più neanche
ostili ma del tutto indifferenti.
575
12 novembre
I beni dell’indifferenza
Ci lamentiamo sempre dell’indifferenza altrui, condanniamo
l’insensibilità ai mali sociali, alla solitudine, al dolore, ai problemi
degli infelici, dei malati, degli emarginati. E facciamo bene. Ma
l’indifferenza non sempre è negativa e anzi a volte è addirittura
salutifera.
Che le persone che ci sono vicine non soffrano per i nostri stessi
problemi, non vivano in modo drammatico ciò che per noi è
doloroso, restino tutte e sempre comunque prese da se stesse di
fronte al melodramma che noi stessi costruiamo, il più delle volte
per un impulso ossessivo, per pigrizia, per il conforto ambiguo di
approfondire un solo male, reale ma non mai l’unico esistente, e il
più delle volte non il più grave possibile, fa sì che proprio
l’indifferenza degli altri, e specialmente del prossimo, e soprattutto
quando è chiaro che non c’è una strategia sotto ma una naturale
incapacità di cogliere ciò che per noi è tanto rilevante e pernicioso,
ci conforti, ci tranquillizzi e ci faccia del bene.
Se infatti una persona cara non dà mostra neanche di percepire la
realtà feroce che noi crediamo di subire vuol dire che forse, se non è
una nostra invenzione, perlomeno è una nostra esagerazione. Ma se
anche fosse qualcosa di vero, cruciale e dannoso, proprio
l’indifferenza, per esempio della gente per strada, che continua a
essere presa dai suoi esclusivi problemi, del tutto diversi dai nostri, e
il più delle volte incomprensibili per noi, è ciò che ci rimette al
mondo e ci dà la forza di ricominciare.
Quando abbiamo una pena violenta l’unico scampo non è isolarsi
ma cercare persone del tutto indifferenti.
Per converso, quelle persone che dicono di amarci, e magari
veramente ci amano, ma che ci pedinano in ogni emozione,
espressione, atteggiamento, stato d’animo, intervistandoci
576
premurosamente sulle pieghe del nostro cuore, a mano a mano che
si formano, marcandoci con la loro attenzione e sensibile ascolto e
interlocuzione, ci danno la sensazione non soltanto che ciò che ci sta
accadendo sia serio e grave ma che qualcosa di terribile stia per
covare o che sia sempre e comunque sul punto di covare, cosicché
non siamo più in grado di pesare l’entità reale dei nostri mali, e
cominciamo a vedere la vita come un’acrobazia sulla corda dove ci
sono appunto due possibilità: alla peggio cadere nel vuoto e, nel
caso migliore, restare sulla corda dalla nascita alla morte, il che
suscita, specialmente nei figli verso i genitori che così si
comportano, reazioni giustamente rabbiose, oppure la voglia almeno
di simulare con scene grandiose quella caduta che loro sembrano
tanto temere.
Così mia figlia da bambina, quando le si diceva: “Attenta che ti fai
male”, rispondeva con uno sguardo ironico e ribelle: “Ma io voglio
farmi male!”
La tendenza dei ragazzi a far rumore e a scatenarsi vivendo a
oltranza di notte, in discoteca, in casa, in spiaggia, per strada rivela
l’incapacità di tesaurizzare la vita e risparmiare le energie, unica fonte
di serenità sulla terra. Ma loro non vogliono essere sereni.
21 novembre
Il male in abito di bene
Tra le forme di male presenti nel mondo, oltre quelle vòlte
apertamente alla distruzione, al dolore e al danno degli altri, come
l’assassinio, la violenza, lo stupro, ce ne sono di sottili e micidiali in
abito di bene o sotto maschera di ipocrisia inconscia, che risultano
talmente sottili e inafferrabili da sfuggire a qualunque vaccino e
contromisura. Genitori sempre in ansia per i figli che lentamente li
svuotano di ogni vita, insegnanti sempre trincerati dietro nobili
principi che dissanguano e colpiscono di continuo i loro studenti,
datori di lavoro che martoriano per il loro bene i dipendenti, preti
che mortificano negli oratori i ragazzi più vitali e innocenti, donne
che escruciano i mariti, devitalizzandoli e castrandoli con un lento
577
processo assuefativo di morte giornaliera, fatta inspirare minuto
dopo minuto finché quasi non sussisterà differenza con la morte
fattuale, se non per un sussulto e un incresparsi minimo dell’onda
vitale.
Tutti coloro che fanno il male in abito di bene, o per mezzo di una
istituzione volta al bene, come preti pedofili, infermiere assassine,
padri stupratori delle figlie, insegnanti sadici, genitori mortiferi sono
da giudicare molto più severamente degli altri, perché non c’è
demonio peggiore di quello che indossa il costume da angelo.
Esistono pirati, corsari, killer, torturatori, sadici, mostri, satanassi
che sfuggono del tutto al controllo della legge perché non
commettono reati ma si insinuano con diabolica abilità non solo tra
le pieghe del codice ma tra quelle delle relazioni umane,
perseguendo il male altrui con ferocia senza mai farsi scoprire, o
alternando il bene al male, ma facendo i generosi con alcuni solo per
mimetizzare i colpi che daranno indisturbati al debole,
nell’incredulità generale e nel massimo del segreto, o ammantando di
parole mielate e di un vittimismo sofisticato ogni vendetta che si
prenderanno per puro piacere di male su coloro che non avranno i
mezzi non solo legali ma neanche psicologici per smascherarli.
Questi uomini, giacché le donne colpiscono sempre più
apertamente, benché in modo più inesorabile e ferreo, godono alla
spicciolata le loro soddisfazioni sadiche, sparpagliandole in un’intera
vita, non avendo il coraggio o la grandezza per un male grandioso e
aperto. Come ci sono vigliacchi nel bene, don Abbondi che fanno il
male per omissione e paura dei prepotenti, così ci sono vigliacchi nel
male, che campano a lungo e, nascosti gratuitamente, sferrano i loro
dardi avvelenati tra profumi e canzoni di festa.
Vivere a lungo vuol dire scoprire il male torpido insito in ogni
uomo, vederlo dispiegare nella sua scia morbosa e monotona, simile
allo stridio unisono degli uccelli notturni, rivelarne il carattere
animale, cioè la bava evolutiva senza salto e senza variazione, ciò che
da sempre c’è di umano nell’animale, per dir così, e che all’animale
torna.
578
Non ti sopporto felice
Vi sono persone che non sopportano felici le persone care. Ogni
loro gesto di allegria, ogni loro esuberanza, le ferisce e le
innervosisce mentre, se le vedono sofferenti e malate, sono pronte a
prodigarsi con pazienza infinita. O per gelosia di un bene che non
sanno godere, non essendo inscritta nel loro carattere la semplice
gioia di vivere, o per l’invidia verso un essere indipendente, o per la
sintonia grave con tutto ciò che nella natura è sofferenza e pena
mezzana senza guizzi e crolli, essi simpatizzano solo con colui o
colei che vive un dolore in modo scontroso e incosciente, e sono
disposti a sopportarne i capricci e le insolenze a vita, basta che sia
comprovato che soffra e non sappia come uscirne fuori.
Sono contente che una persona stia meglio e provi sollievo ma,
appena s’accorgono che la guarigione è durevole e che il gusto di
vivere prorompe in lei, ecco che la molestano, la provocano, ne
pungono l’allergia con tali arti che la persona risanata percepisce, se
giovane, come colpa il suo stato di benessere, e, se adulta, come
disturbo all’equilibrio di colei che lo aveva fino a ieri soccorso
amorevolmente, finché pativa.
Riservandosi così o di fingere all’occorrenza di star male, o di
esagerare i sintomi di un malessere, e finendo per non trovare tanto
terribile lo star male, se perlomeno sarà confortato da una così
provvida e paziente assistenza.
Amare non è essere buoni
Se qualcuno conosce il nucleo intimo, il vertiginoso punto profondo
del desiderio, la fonte da cui zampilla ogni nostra speranza di felicità,
ciò che abbiamo di più proprio e naturale e che, ferito, scatena
dolori lancinanti, assecondato, ci promette una felicità perlomeno
immaginata. Se qualcuno conosce questo nucleo e nondimeno, o
forse proprio per questo, ce lo mortifica, con mira infallibile e da
quando siamo nati, magari anche allo scopo di metterci in moto, di
farci rialzare dal letto e reagire, di farci combattere per vivere,
579
strappando un altro centimetro al nemico, ditemi voi se potrà essere
buono.
Vedi che amarci non soltanto non vuol dire essere buono, ma il suo
contrario.
Probabilmente sapere troppo di noi provoca subito una cattiveria
selvaggia. Di qui la riservatezza indispensabile tra gli uomini. Ma si
potrà ammettere mai una consimile, e forzatamente più penetrante
cattiveria in Dio, il solo che ci conosce e ci rovescia come un
guanto, a quanto ne dice la religione cattolica? E se soddisfare
questo nucleo segreto, o anche solo accostarci ad esso, ci è
impossibile, mentre la sorte va a toccarlo di continuo, a pungerlo o a
offenderlo, come se la vita non consistesse in altro che in questa
continua puntura sul vivo, questa continua stimolazione mortificante
del nucleo intimo del nostro desiderio, non dovremmo pensare che
buono e cattivo, benefico e dolorifico, siano veramente nozioni
insufficienti da attribuire a Dio?
Cristo esiste, Dio non lo so. Ma di sicuro non è amabile. Esso
precede la civiltà e assomiglia grandiosamente, senza esserlo affatto,
proprio a colui che viene così chiamato e ritratto nell’Antico
Testamento, il Dio degli eserciti.
Francis Bacon il pittore
Che il male esista è doloroso ma non terribile, nella misura in cui
esso possa essere isolato, se non nella realtà, almeno nella
conoscenza. Ma che il male sia indispensabile quanto il bene, questo
sì è terribile e tragico, eppure è quanto di più naturale possa esserci.
Lo sperimentiamo per esempio nella pittura di Francis Bacon, della
quale posso parlare, avendone visitato una vasta esposizione al
centro Pompidou di Parigi, visto che di un pittore si può sperare di
dire qualcosa di sensato solo vedendone largamente le opere dal
vivo.
580
Se noi guardiamo un quadro di Bacon, vediamo la deformazione
spaventosa dei volti e dei corpi. Ma la anamorfosi mostruosa delle
figure, la dolorosa sfigurazione dei volti e il massacro dei corpi,
isolatamente presi, avrebbero suscitato soltanto disgusto, come ogni
atto di malvagità puro e isolato, nel piano pratico e morale. Ma tutto
ciò vive nello splendore rinascimentale dei colori di sfondo, nella
gloria squillante dei rossi, dei gialli, dei verdi, degli azzurri, in cui
Bacon riversa l’allegria selvaggia di dipingerlo, con una felicità così
pura da bilanciare perfettamente in modo classico, senza risolverle, il
peso confuso delle tragedie consumate.
Questo è stato l’effetto sensoriale immediato, e quindi decisivo, di
una pittura meravigliosa, di una lode al creato ad oltranza, come è
sempre nella vera arte, cioè di una lode anche di ciò che c’è di più
terribile nel mondo. L’effetto di pensiero è stato di scoprire che ogni
deformazione è sempre insieme una nuova conformazione, che ogni
disarmonia di postura, ogni torsione e stravolgimento è sempre nel
contempo una segreta e concorrente nuova armonia configurativa,
nello stesso scempio e sconcio dei corpi e degli sguardi. C’è sempre
un’architettura in ogni slogata ossatura che canta col colore
smagliante la sua vita che sopravvive stoicamente e, a suo modo,
allegramente.
Ciò che Bacon ha compreso è l’armonia dell’arco e della lira.
L’antica lezione di Eraclito, ciò che solo filosofi, artisti, poeti
possono dire, e a condizione di avere una vita casta, severa e di fare
molto male nell’arte e nessuno fuori.
Amici fuori della cerchia
Il frequentare tante persone, accomunate solo dal fatto di essere tutti
matematici o alpinisti o tifosi di calcio o letterati o parrocchiani,
genera un’assuefazione elementare per cui con tutti si applicano gli
stessi schemi di base del proprio carattere, che scattano senza più
antipatia o simpatia (la quale comporta comunque un giudizio
inconscio) di pelle, o stima e disistima di attitudine e di
comportamento, per cui ciascuno vale l’altro ed è tanto importante
quanto innocuo, tanto benevolo o malevolo quanto indifferente,
581
sicché non appena si smette di frequentarsi non si è più pensati da
nessuno e si è come morti in vita, anche per se stessi, e non si lascia
traccia in nessuno e nessuno la lascia in noi.
Questo è il portato di chi vive sempre a contatto con gli altri, anche
se in virtù di una riconosciuta bravura in qualche campo che lo
mette al centro dell’attenzione, o per una sua esuberanza di parlatore
e intrattenitore di compagnie e comitive. Ed è la ragione per cui chi
raggiunge una qualsiasi fama che lo espone a infinite conoscenze
occasionali, costringendolo a un volto benigno, multicorde e
simpatico, riesce ad essere amico solo di colui che è al di fuori di
quell’ambiente mondano, o che rimonta a prima della sua vita
pubblica, essendo essa, anche se sincera al momento, tutta bruciata
in se stessa, e con un sé tutto inventato, benché coerentemente, per
anni, e che svanisce tornando soli.
Spesso il divo del cinema, la cantante famosa, il personaggio
pubblico scinde per comodità la sua anima in due e impiega ogni
cura per tenere le due metà separate, chiamando la prima pubblica e
l’altra privata. E soffre di ogni interferenza e confusione tra le due
vite, tanto da spendere milioni per difendere la divisione, e tanto più
riuscendovi quanto meno la sua anima prima è profonda e vera.
Questo spiega perché attori di intelligenza teatrale indubbia, come
Tom Cruise, e dotati di umorismo, come John Travolta, entrino con
tanta ingenuità e fervore in associazioni ambigue e palesemente
speculative come Scientology e come tanti artisti internazionali cadano
in mani di parassiti che li sfruttano, di agenti che li derubano, di
medici che li avvelenano. A patto che sette e agenti siano duri,
pericolosi, ferrei con i nemici, di mentalità rigida, il che è
indispensabile alla vacillante psiche di chi indossa le vite degli altri.
Meno sorprendenti sono i fiumi di denaro che versano alle sette o a
personaggi inqualificabili, perché è naturale che donare denaro per
scopi assurdi, ammantanti di nobili motivazioni, scarica la tensione
di averne troppo.
Quando non ti fai vivo da anni con una persona un tempo cara ti
avvedi di come potessi farne a meno dal fatto stesso che non l’hai
582
mai cercata. Ma se all’improvviso la cerchi, per il fatto stesso di
averla cercata, penserai che è per te ancora importante.
Produzione pratica di affetti
Spesso non compiamo gesti di affetto in seguito ai sentimenti che
proviamo ma scopriamo o consideriamo i nostri affetti in
conseguenza delle azioni, spesso istintive e irresolute che, per un
capriccio del desiderio, compiamo verso una persona. Lo sanno
coloro che premono per avere favori e dichiarazioni pubbliche di
lode, perché essi vincoleranno coloro che le fanno, magari solo per
liberarsi di una seccatura, a un diverso sentire rispetto al loro di
prima, e ugualmente sincero, perché ricavato da ciò che hanno fatto.
E si convinceranno essi stessi di stimare colui che prima di fare
qualcosa per loro era un semplice disturbatore.
Se fai una vita inventata anche la tua solitudine lo sarà e tu ti
sdoppierai in due persone: una, che è la spoglia di una vita non tua, e
l’altra che è tua ma sola e nuda, visto che nessuno la conosce, ma
soprattutto perché è il tuo vero essere abbandonato in mezzo alla
strada e tradito.
C’è in noi un carattere animale di superficie, utile per i lunghi periodi
obbligati di convivenza in gruppo, che non ha niente a che fare col
carattere spirituale, che è per definizione intollerante verso tutti
coloro che non ci sono congeniali.
Cerca negli altri la felicità che non hai e sarai perduto in un labirinto
di echi che ti faranno passare il giorno, se giungere a sera è il tuo
scopo. Cerca un compagno di viaggio in una donna, senza sperare
mai nella felicità, e allevierai il suo dolore e il tuo.
Felicità è una parola che ha senso soltanto attraverso una donna. Le
donne non potranno mai essere felici, non potendo innamorarsi di
un’altra donna da uomini. Un paradosso.
583
Le donne sono per gli uomini la felicità, gli uomini sono per le
donne la serenità, per questo esse sono più forti e più durevoli negli
affetti.
Se una donna ti tradisce, tradisce la tua speranza di felicità, cioè un
sogno. Ma se tu tradisci una donna, tradisci la sua speranza di
serenità, cioè una cosa reale e possibile. Ecco perché le donne sono
sempre più feroci con gli uomini che le tradiscono.
L’amicizia virile è l’unico cibo del quale ti puoi nutrire per tutta la
vita senza ammalarti. Ti nutre e ti disinfetta allo stesso tempo.
Puoi essere amico di una donna perché le donne sono capaci di
essere amiche di un maschio, tuttavia in modo instabile e abbastanza
intermittente, a meno che un po’ non lo amino.
Non sperare di interessare qualcuno che non ti interessa.
Coloro che vivono dello sguardo altrui, come attori e cantanti, non
interessano per sé, se non tra i fan più giovani, e anche in quel caso a
condizione di essere usati come carburante mitico di sogni, ma
restano immagini, visioni, attori magici di un sogno a occhi aperti, in
rarissimi casi confuso con la veglia.
24 novembre
Selva della libertà
L’oro guasta chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Chi ce l’ha perché ha la
sensazione di essere separato da coloro che vivono la vera vita, e
quando li incontra si lamenta al solo scopo di sentirli vicini, mentre
ne riceve solo disprezzo per la sua presunta ipocrisia. Chi non ce l’ha
perché lo spettacolo di chi ce l’ha gli guasta l’uso sereno della
povertà. Ecco perché oggi c’è nell’Europa dell’Est una vasta
nostalgia del comunismo nel quale tutti, tranne i funzionari di
partito, però nascostamente e senza sfoggio, erano poveri, e quindi
la spaventosa invidia sociale e l’illusione della felicità data dall’oro si
assopivano, dando una serenità casta.
584
Mancava del tutto la libertà. Ma oggi c’è chi dice che la libertà di
essere disoccupati, emarginati, senza una lira e perlopiù disprezzati
perché non si viene considerati gente intraprendente, bensì perdenti
e sfigati, non è il massimo del godimento.
Io ho perso tutti i treni, per poter arrivare alla libertà. Non avendola
trovata sarebbe stato tragico. Ma l’ho trovata e quei treni,
perdendoli, li ho presi tutti. E allora è chiaro che erano da perdere.
Quale treno perdere è il segreto della decisione. Cosa non fare, quale
bella occasione perdere, il segreto della libertà.
Non tutti però sono nati per la libertà. Troppi ne sono rovinati e resi
infelici, perché di carattere instabile e scontento. Così prendendo un
treno e perdendone un altro, in modo aritmico e casuale, non
sapranno mai quando hanno fatto la cosa giusta, galleggiando in una
mezza libertà, vivendo tra due treni, che è peggio di niente.
Una delle battute più frequenti nei film e negli sceneggiati è “Dammi
una seconda possibilità.” Chi la chiede non si accorge che
l’occasione si prende al volo, non si chiede e non si dà, e così è già
rassegnato a perderla di nuovo. Come infatti accade.
Passeggiando per Norimberga
La società ebraica più antica, come ogni altra cultura arcaica, sapeva
essere mostruosa, se è vero che neonati vivi venivano sepolti nelle
fondamenta delle case, in un rito propiziatorio. Nuovi mostri hanno
costruito una società mostruosa sulla negazione di quella, ispirandosi
a Colui che aveva avuto il coraggio sovrumano di rivoluzionarla.
Un mostro ha sempre potere.
Ha diciotto anni e capisce già tutto su come vanno le cose. Che lo
stesso dio è buono, indifferente e cattivo, che le stesse donne sono
vergini e puttane, che gli stessi uomini sono santi e canaglie. Dopo
bisognerà vedere quanta voglia avrà di affrontare la faccenda.
585
Norimberga 1322-2009: la sempre identica, spartana e rustica, vita
tedesca: un bene da tutelare in Europa.
Il tradimento: essenza vitale della natura e della storia. Se non ci
credi, aspetta e vedrai.
Un killer comincia a uccidere corrotti e potenti. Tutti pensano che
sia un moralista pazzo affiliato a qualche setta, che i moralisti sono
tutti pazzi, che corrotti e potenti sono sempre meglio degli assassini,
che essere giusti fa impazzire e diventare cattivi. Non c’è più il
rispetto romantico per i tirannicidi.
Leggo, ad apertura di libro, al tavolo di un bar: “Non tutto è
possibile in ogni momento. Il modo di vedere ha di per sé una sua
storia e la scoperta di questi ‘strati ottici’ deve essere considerata il
compito della storia dell’arte”, Wöllflin, Concetti fondamentali della
storia dell’arte, p. 38.
Uomini spigolosi e rotondi
La realtà è spigolosa, oscura, traditrice, indecifrabile, brutale e
incoerente. Se uno è rotondo, chiaro, leale, manifesto, dolce e
coerente è tutto il contrario della realtà, come la si teme e come la si
desidera, per poterla comprendere, soffrire e godere, e quindi viene
chiamato idealista e debole. E preso poco sul serio.
Se uno invece è altrettanto spigoloso, infido, spezzato e puntuto,
discontinuo e inaffidabile della realtà, come è percepita quando ci si
predispone e corazza per affrontarla, a meno che non possa farci
danno o recarci vantaggio, diventa indifferente e pleonastico rispetto
alla nostra visione della realtà che ci prepariamo ad affrontare, e
quindi affoga nel tessuto omogeneo di quella.
Dal che si ricava che non puoi che figurare o debole e innocuo, se
rotondo e buono, e immeritevole di un confronto all’ultimo sangue,
o indifferente e intercambiabile, se spigoloso e cattivo.
586
E si comprende con quali alti parametri consideriamo, buoni o
cattivi che siano, coloro che non ci giovano o nuocciono.
Stimiamo il buono solo se ci può migliorare e disprezziamo il cattivo
solo se ci può peggiorare. Altrimenti fanno soltanto parte dello
spettacolo del mondo.
Se un narratore vuole raccontare la realtà deve gareggiare con quella,
alternando in modo imprevedibile rotondità e spigolosità, per dare il
senso d’avventura scorporato dalle vicende concrete che ciascuno
vive, ed essendo sempre eccessivo nel dolce come nell’amaro, per
restare più impresso, sconcertando con i contrasti che perlopiù dal
vivo si trovano diluiti.
Quando di uno scrittore si dice che è molto intelligente, si trova
sempre qualcuno che aggiunge: Troppo intelligente. Ma
letteralmente non c’è un troppo dell’intelligenza ma soltanto un
troppo poco, per esempio appunto quando uno non sa dosarla
secondo la necessità, e sfoggia la sua cultura in una poesia o divaga
cento volte senza venire al dunque, o gioca col linguaggio oltre
l’umana sopportazione, dimostra di difettarne.
Cosmo e caos numerico
Il fondamento della dottrina di Pitagora sta nella convinzione che
l’universo, per la prima volta chiamato cosmos, cioè ordine, proprio
dai pitagorici, obbedisca a proporzioni matematiche. L’armonia
matematica garantisce la salute, ordina la musica, scandisce il cielo
del dì e della notte, delle stagioni e del moto dei pianeti, costituisce il
sapere.
Una delle ragioni del caos presente sta invece proprio nel caos
numerico, che infesta qualunque campo nel quale il merito
intellettuale, artistico, scientifico, manuale potrebbero avere un
giusto riconoscimento aritmetico, orientando la vita verso una
proporzione serena.
587
Che un calciatore guadagni come cento operai, che un sarto
guadagni come cento scienziati, che un cantante guadagni come
cento scrittori, che un imprenditore corrotto guadagni come cento o
mille onesti chimici o ingegneri, che un politico guadagni come venti
direttori di museo, sfasa e sfigura alle radici ogni possibilità di
proporzione armonica, corrompendo la salute, steccando di
continua la melodia della vita, squilibrando il cosmo umano.
Si potrebbe dire che è questa una visione legata soltanto al denaro
ma sarebbe ignorare la potenza simbolica di attribuzione del valore
che nella mente dei più il denaro ha conquistato, sicché chi guadagna
poco sarà comunque messo ai margini del cosmo aurifero come
corpo opaco e ignorato.
Google come termometro del valore
Come nel campo economico, così in quello della nominazione, cioè
della notorietà, ci sono i multimiliardari e i poveri in canna. La
ricchezza tentatrice oggi sta nella nominazione più ancora che nel
denaro, perché il ricco vorrà darsi ad attività che rendano il suo
nome famoso e userà il denaro soprattutto a questo scopo,
spendendo le sue energie non tanto nell’operare ma nel promuovere
e rendere a tutti noto il suo operare.
Sicché vero povero e vero santo puoi dire oggi solo uno tra quelli
che mai è nominato in Google.
C’è chi ogni giorno verifica in Google quante volte ricorre il suo
nome, confrontandosi con amici e nemici che si sono misurati nello
stesso campo. A scoraggiarlo dal perseverare nella pratica infausta, si
potrà consigliargli di verificare quante volte è citato il nome
dell’ultimo cantautore di moda, dell’ultimo divo calcistico,
dell’ultimo improvvisato leader politico e, di fronte ai milioni di
nominazioni che rapidissimamente si moltiplicano, saggerà quanto
poco il numero conti nella classifica dei valori.
Rinunciare alla verifica numerica è tuttavia improponibile e
renderebbe impossibile ogni accertamento sperimentale dei valori.
Viviamo così nel paradosso che un valore debba essere attestato
588
sperimentalmente, perché non si cada nella monomania
autoreferenziale e nel delirio di onnivalenza e onnipotenza, eppure è
impossibile farlo in modo legittimo e sensato.
Il valore di una persona può riconoscerlo soltanto un’altra persona
che valga nello stesso campo, il quale a sua volta sia abilitato a
giudicare da un terzo, e così via all’infinito. Esso sfugge sempre a
quella certezza matematica che pure è intrinseca all’idea di valore,
generando oscillanti cordate di riconoscimento e apprezzamento che
fluttuano a ogni vento, si sfilacciano e generano un pulviscolo di
valenti effimeri e sconcertati.
Aggiungi che coloro che valgono più di tutti sono pochissimi e
quelli della stessa levatura, in concorrenza con loro, unici abilitati a
farlo, saranno nondimeno restii per invidia o gelosia o spirito
emulativo a concederlo.
Essendo invece legione quelli che valgono poco, essi saranno
riconosciuti dalla legione dei loro simili, sia perché speranzosi di
essere riconosciuti a loro volta, sia perché più inclini ad apprezzare
un valore medio alla loro altezza. Caso, fortuna e spavalderia
decidono così i campioni nelle arti e nelle lettere.
Più facile nello sport definire i meriti, ma sempre nel giro di quelli
che a quello sport, per talento, caso, fortuna, soldi, si sono dedicati.
Se la natura è armonia e proporzione matematica, tanto più siamo
entrati nell’artificiale tanto più ci siamo staccati dalla sua geometria
armonica. E siamo entrati non in una geometria non euclidea, in uno
spazio di Riemann, congeniale alla fisica di Einstein, ma in una
geometria pazza, in un mondo fatto di numeri ubriachi.
Un tempo, per esempio nell’antica Grecia, gli uomini viventi erano
pochissimi, il mondo ristrettissimo, cento uomini facevano una folla,
gli spazi vuoti erano immensi. Mentre oggi quasi sette miliardi di
uomini si contendono un mondo che spinge ogni giorno per
metterli tutti in contatto con loro, farli confrontare, competere,
esibire, sviluppare, perfezionare, grazie anche all’estensione della
scuola e della cultura.
589
Anche dove non ci sono guerre corporali, ogni uomo lo stesso
cancella l’altro, ogni essere distrugge l’altro, ogni molecola è sovrana
nella sua mente e diventa il re di un mondo che si fa su misura con i
frammenti dei corpi e delle menti degli altri, costruendo un immenso
collage mentale ed emotivo in cui tutti sono intercambiabili.
Dall’aereo presto vedremo milioni di uomini essere gettati in mare
dalla semplice pressione fisica dei loro connazionali che non entrano
più nello stesso stato tutti assieme.
26 novembre
Ogni tanto di qualche critico si dice che è il massimo studioso di
uno scrittore o filosofo, che non è a sua volta il peso massimo o
medio della sua categoria ma tutt’al più un peso piuma. Il che
dimostra come oggi si possa diventare il più grande dedicando la vita
a studiare il più piccolo.
27 novembre
Diventare belli grazie al talento
È sorprendente sperimentare come il volto e lo spirito di una
persona si plasmino a vicenda. È esperienza comune che quando
una donna si esprime nell’arte in cui eccelle, per esempio la Vezzali
nella scherma, Amy Whinehouse nel canto, Laura Morante nella
recitazione, esse non solo diventano più belle ma i loro lineamenti si
caricano di fascino e di un significato che non vi potrai trovare negli
atti e negli sguardi della vita quotidiana.
Lo stesso capita agli uomini, visti nel pieno dell’esercizio di un loro
talento artistico o sportivo o in un discorso ricco e sensato rivolto a
un pubblico o a un solo interlocutore. Quando non sono animati da
una passione cruciale dell’intelligenza, quelle persone appaiono non
tanto nude ma spoglie e, incontrandole al di fuori dell’ambito in cui
più degnamente si esprimono, sempre più insignificanti, non dico
590
nel carattere e nello spirito ma nel fisico e nei lineamenti. Non solo
ci appaiono più brutti ma persino più bassi.
Questo fenomeno non dipende soltanto dalle luci della ribalta, dal
trucco, dai ritocchi degli specialisti dell’immagine, fisica o virtuale,
ma dal fatto che una luce si spegne dentro loro e non la potrai
sostituire con nessuna lampada speciale, garza sulla telecamera o
filtro ottico.
Vero è anche il contrario, che volti belli e quasi perfetti inoculano in
noi un senso di ordine, calma e bellezza interiore del tutto assente
nell’animo dei personaggi che o trovano nel volto plastico una
maschera che li protegge, consentendo loro i pensieri e le emozioni
più vertiginose, che non arrivano a intaccare il fascino
imperturbabile dei loro sentimenti, oppure riescono a sembrare
molto più intelligenti di quanto non siano, perché la bellezza è già di
suo un colpo di genio della natura, un privilegio che rende chi ne ha
ricevuto il dono non solo elettrizzato simbolicamente ma anche
inconfutabile fisicamente nel suo primato, con l’evidenza a priori di
un dono che vanifica ogni contestazione.
Per questo particolarmente affascinanti sono per noi uomini le
donne bellissime e palesemente poco intelligenti, ma che soprattutto
non cercano in nessun modo di sembrarlo, e spiegano liberamente la
loro semplicità d’animo fino al frivolo e al fatuo più smaccati. In
questo modo esse si mostrano perfettamente sincere e prive di
presunzione, il che già costituisce un segno spiccato di intelligenza
naturale, ma soprattutto non mostrano di godere con superbia il
dono ricevuto e rendono così naturale quel gioco ironico di travaso
della natura del genio della bellezza in una mente disarmata a
goderlo, e magari furba e maliziosa nella semicoscienza dell’ironia
che incarna, ma sempre con una leggerezza liberatoria, per cui non
sai più se quella fatuità e superficialità non sia anch’essa un colpo da
maestra della natura che ci insegna, facendoci perdere la testa, che il
genio della natura ama la superficie e detesta il troppo serio e grave,
riservandolo tutto a sé e al suo drammatico concerto.
Una donna sicura e cosciente della sua bellezza, che la sfrutta a ogni
passo per una carriera e per arrivare alla ricchezza e al potere con
591
pose regali e altere è lo stesso potente, ma soltanto presso uomini
freddi e altrettanto calcolatori, mentre per gli altri, come me, sono
invece tristi e incombenti perché obbediscono alla elezione gratuita
della natura, come se l’avessero decisa loro stesse o come se
avessero qualità misteriose che l’hanno spinta a eleggerle. E così
rendono lo spettacolo stesso della natura insieme affascinante e
disgustoso, sovrano e prepotente.
Domanda a sorpresa
Il lavoro ben fatto ogni giorno, in modo tenace e maniacale, in una
disciplina ferrea, è il solo che ti garantisce una sera serena e non
visitata da fantasmi. Possibile in Italia solo a operai, artigiani, artisti
sconosciuti mentre all’estero solo a operai, artigiani, artisti famosi.
Perché?
Aiutare un amico
Quando vogliamo propiziare la fortuna di un amico e portare a
buon porto un’azione utile che lo riguarda, il difficile sta nel tenere
fermamente salda in mano la barra, non solo perseguendo quel
bene, che si più risolvere prendendo una singola decisione, per
esempio candidandolo a un premio in un concorso, ma anche e
soprattutto non creando noi stessi ostacoli a quel risultato,
consentendo ad esempio che altri concorrenti più deboli, ma più
popolari, vi partecipino o invitandoli noi stessi, per una distinta
volontà di bene, che però può minare il nostro primo progetto e
vanificarlo.
C’è in noi un fondo oscuro che ci spinge a far fallire l’opera
intrapresa per un altro, affidando alla giustizia delle cose il
conseguimento. Ma tale giustizia, dipendendo dalla volontà dei più,
inclina sempre a privilegiare i meno bravi e meritevoli, il che poi noi
compiangeremo come l’ennesimo smacco della virtù, mentre
inconsciamente noi stessi abbiamo favorito quel risultato.
592
Un campo sterminato dell’ambiguità umana si apre quando
consideriamo quanto spesso vogliamo e non vogliamo il bene e la
fortuna di un altro, e persino di noi stessi. La volontà di rado è
compatta e monolitica, il più delle volte, appena accesa, già si
ramifica in una raggiera di azioni e di orientamenti, che si intrecciano
tra loro e con altri atti di volontà, precedenti o successivi, o con
volontà di altri, alle quali ci avvinghiamo, mentre le loro si
ingarbugliano con le nostre finché, quando entrano in gioco più di
due o tre persone, si compone una chioma formata da rami di più
piante, decine e centinaia di piante, che coprono come una foresta
un campo d’azione, sicché il potere di un singolo ramo di inclinare
tutta la chioma diventa minimo.
Quando vuoi fare qualcosa per te o per un altro devi determinarti a
perseguirlo in modo costante e isolato, senza divulgare la notizia,
perché in tanti troveranno il modo di ostacolare o frenare, anche in
buona fede, col solo metterci le mani o avvisare coloro che ce le
vorrebbero mettere, e non cominciare un’altra impresa prima di aver
portato a fine quella.
Cosa impossibile oggi dove ogni iniziativa tende i suoi tentacoli su
tutte le altre, sicché il polipaio nazionale, una volta individuata una
linea retta d’azione, subito la avvolge e la storce, cercando di
avvinghiarla intorno alle altre o di soffocarla o indirizzarla a
un’azione comune di repressione di polipi concorrenti e avversi.
Vanità delle vanità
Se molti libri non si finiscono dipende in ugual misura dai libri e da
noi stessi, che subito cerchiamo il libro nuovo non appena abbiamo
letto la seconda pagina del libro già vecchio dopo pochi minuti.
Uno scrittore famoso, quando gli chiesero se avesse ricevuto una
rivista, fece un gesto con la mano, sorridendo con i suoi occhi
azzurri, per indicare la pila altissima dei libri e delle riviste che
riceveva. Si sentiva al di sopra delle cataste sul suo ironico podio. Ma
non pensava che anche ai suoi libri capita più o meno la stessa sorte,
593
casualmente al primo o all’ultimo piano di pile altissime nelle case di
altri poeti e critici, smaniosi come lui di bocconi sempre nuovi.
Definiamo scrittore appartato e schivo colui che abbiamo sempre
tenuto da parte e che tuttavia non si è mai ribellato alla sua sorte,
come se la considerasse naturale e che, essendo riuscito per qualche
gioco della fortuna e del merito a emergere, apparirà sotto le luci lo
stesso di prima, pur avendo avuto sempre lo stesso desiderio di luce
e di successo di coloro che si promuovono a ogni occasione,
rappresentanti di commercio di se stessi.
Sarebbe stato un genio se…
Leggo l’epistolario di Teresa Teja, che ha sposato Carlo, il fratello
minore di Giacomo Leopardi, del quale si dice che, se fosse stato
meno indolente, per le sue qualità intellettuali avrebbe eguagliato il
fratello. Molto spesso si sentono decantare le imprese mirabolanti e
virtuali di talenti potenziali nel corso della loro intera vita, inceppati
da qualità morali deboli o da bizzarre decisioni di silenzio o da
comportamenti ondivaghi.
Il fatto è che tutto ciò è una pia e comoda illusione, volendo far
carezzare un bene non posseduto, né possedibile senza averlo in
nulla meritato. Il talento potenziale è un controsenso, giacché propri
del talento sono appunto la tenacia, lo spirito di sacrificio, la ferrea e
cieca determinazione, l’ambizione sfrenata, l’energia sotterranea e
sovrumana, e soprattutto il risultato, a dispetto di tutti i lamenti
epistolari sulle proprie malattie, debolezze, astenie, traviamenti,
smentiti da opere che non sarebbero potute mai nascere senza una
salute o almeno una volontà di ferro.
Il che non vuol dire che tali malanni e debolezze non ci fossero
realmente ma in una seconda e parallela vita, sgominata dall’atto di
leggere, pensare, di poetare e di scrivere, certo soltanto per il tempo
in cui lo si fa.
Eppure incontri persone che hanno tutto per essere scrittori e non
lo sono. E persone considerate scrittori da tutti senza esserlo. La
594
natura ama che qualcuno scriva e poeti oralmente o addirittura solo
vivendo, senza mettere mano a carta o a tastiera. Perché stupirsi?
30 novembre
Plauto
Nulla ci dice della mancanza di sensibilità per la donna della Roma
arcaica come l’Aulularia di Plauto, la storia di un avaro che trova una
pentola piena d’oro e la sotterra in giardino, sorvegliandola di
continuo e naturalmente facendosi proprio così scoprire. Liconide
vitiat filiam, violenta o seduce sua figlia, finché proprio nel giorno in
cui dovrà partorire, senza che lui si sia mai accorto di niente, gli
arriva la proposta di matrimonio del ricco e vecchio Megadoro.
Come mai? Avrà saputo già della sua pentola? Si accerta che non è
così, persuaso da una strana teoria secondo la quale i ricchi devono
sposare le donne povere, più oneste delle altre.
Nello stesso giorno gli rubano la pentola e ascolta la confessione di
Liconide, nipote del vecchio ricco, che gli dice di aver sedotto da
ubriaco la figlia e la chiede in sposa. Il quinto atto manca ma si sa
con certezza che tutto finirà bene: con le nozze dei due ragazzi e il
ritrovamento della pentola.
Bene, in tutta la commedia la ragazza violentata, o sedotta, non dice
una sola battuta e non solo non viene mai chiamata in causa ma
nemmeno chiamata per nome da nessuno. Si apprende che si
chiama Fedra solo dall’elenco dei personaggi e nulla interessa del
suo carattere o dei suoi desideri. La si sente soltanto urlare nelle
doglie del parto.
Singolare che alla fine, proprio nel non venir mai chiamata altro che
figlia di Euclione e non dicendo una sola parola nella commedia a
noi restata sia l’unico personaggio che mi sia rimasto impresso e che
io sento vivere dopo più di duemila anni. Indifferenza per la donna
o arte sopraffina di Plauto?
595
Le donne di Shakespeare
La commedia degli errori ha le sue fonti nei Menaechmi e nell’Amphitruo
di Plauto e di certo in Shakespeare non v’è traccia di misoginia, anzi
continue espressioni di filoginia, essendo Adriana, Luciana e la
badessa tre personaggi limpidi e generosi. E anche un esempio
splendente di amore per la vita, come si vede nei casi in cui vita e
storia della vita vengono messe a confronto.
Il primo quando Egeone, il padre dei gemelli separati dalla sorte,
condannato a morte a Efeso dice: “Non avresti potuto impormi
compito più ingrato di quello di narrare le mie inenarrabili
sventure”, dove l’accento è posto sul dolore reale al punto che
raccontarlo lo aggrava. Ma anche quando, rimandando l’esecuzione
grazie al suo racconto, conclude: “con la storia della mia vita, finisce
la vita stessa”.
Che è una chiave per capire tutto Shakespeare, che sempre ti spinge
a tuffarti nella vita attraverso e oltre la sua opera, come dice ancora
Egeone al termine del racconto: “Ecco: avete sentito come fui diviso
dalle mie gioie e come dalla sfortuna mi sia stata prolungata la vita
solo per far di me il malinconico cantastorie delle mie disgrazie.”
A proposito di donne, quando Luciana, la sorella nubile, dice che “le
femmine sono soggette al dominio e governo dei maschi” (atto II),
Adriana le risponde. “Sono questi nobili sensi a tenervi lontana dal
matrimonio?” con il che è detto tutto: ogni teoria è misurata sulla
condizione che si vive, che è il modo più franco e vitale di mettere le
cose.
Puoi dire quello che vuoi ma quando tocca a te, quando le vivi, le
cose si mettono in tutt’altro modo: “Che la pazienza resti calma
finché non è messa alla prova non è un miracolo: possono essere
tutti zucchero quelli che non hanno motivo di essere amari. Una
creatura pestata dalle avversità, se piange, noi la esortiamo a
quietarsi: quando però fossimo noi sotto il peso degli stessi tormenti
piangeremmo altrettanto o forse anche di più.”
596
Le parole più belle e profonde della commedia le dice proprio
Adriana, una donna che ama:
“E ora come avviene, marito mio, che tanto ti sei straniato da te
stesso? Da te stesso, dico, se così ti estranei da me, la indivisibile, la
incorporata, la miglior parte della parte migliore di te!
Ah, non strapparti da me! Ricordati, amore mio, che ti sarebbe più
facile lasciar cadere una goccia negli agitati gorghi del mare e
ritrovarla, riprendertela e trarla di là senza misura né aumento né
calo, che strapparti da me senza portarti via tutta me stessa.”
Smettendo di amare una donna, estraniandosi da lei, l’uomo si
estrania da se stesso, degrada e diventa straniero per sé, si scorpora
dal migliore sé e insieme, nello strappo del disamore, strappa
Adriana da se stessa e se la porta via in sé.
Con i paragoni iperbolici, nello stile dei Vangeli, Shakespeare affida
al dolore la lezione d’amore, fino a una geniale identificazione
dell’amore cristiano e dell’amore passionale, quando Adriana dice: “e
se tu mi tradisci io da te assorbo il veleno della tua carne adultera
che mi fa baldracca al suo contatto”. Frase che è offensivo spiegare
e che solo una donna (badate, una donna) che ama può capire.
Adriana lo dice all’uomo sbagliato, quell’Antifolo di Siracusa che è il
gemello sconosciuto di suo marito Antifolo di Efeso. Il quale non
può comprenderne una sillaba. Ma la verità che viene detta da
Adriana, che si crede disamata senza esserlo, per un equivoco
comico, non perde nulla della sua potenza testimoniale.
E guardiamo come spiega lo sfogo e gli insulti della donna
innamorata: “La pavoncella strilla distante dal nido per sviare i
rapaci: il mio cuore prega per lui nel momento stesso che la mia
lingua lo maledice”.
Geniale clemenza di chi sa che le parole “non sono che vento” (III,
1), anche le parole sue di fronte al vero sentire, al quale si inchina,
fiducioso nella purezza della sua Adriana.
La bisbetica domata ovvero Come si doma il toporagno è, al confronto,
una commedia molto meno potente e molto più indulgente ai
costumi e ai luoghi comuni dei tempi, restando una macchina
597
teatrale di grandioso e scatenante effetto. Ma non devo credere che
indulga soltanto alla liberazione del pubblico maschile che sogna di
domare i capricci delle donne impossibili. Essa è un inno alla donna
capovolto nell’anatema per colei che inquina la sorgente del
femminile: “Donna irritata è fonte turbata; torbida sporca
ripugnante squallida, che nessuno, finché è così, per quanto arso e
assetato sia, degnerà di accostarvi le labbra o berne una goccia” (V,
2).
Un colpo di genio è che sia la stessa Caterina a svergognare quella
donna che lei stessa era, prima dell’addomesticamento, e sveli il
prospettivismo carnale di Shakespeare, il quale non teorizza mai
sopra le teste e i cuori, e che, se va adulando la perfida felicità del
pubblico maschile, compiaciuto del suo trionfo per mezzo del
domatore Pietruccio, illustra però anche come la stessa bisbetica, lo
stesso toporagno, nasconda in sé la natura opposta.
In questo Shakespeare è parecchio ottimista e certo non gli avranno
fatto onore le risate grasse degli spettatori, contenti di Caterina che
“va per pace in ginocchio”, e che, tornando a casa, avranno certo
spaventato e picchiato qualche ignara consorte. Ma sotto la losca
complicità tra maschi che avrà fatto saltare un bel po’ di monete al
botteghino resta, benché subliminale e attenuato, l’invito mistico alla
femmina a far valere le sue “lance di paglia”, a obbedire all’uomo
che per lei “affronta di persona gravi fatiche per terra e per mare e
sopporta per tre veglie di notte in mezzo alle tempeste, e giornate di
gelo; mentre tu te ne stai al calduccio, sicura e in salvo a casa tua.”
Il che ci riporta al contesto in cui la dipendenza della donna
dall’uomo, se dipendenza d’amore verso l’uomo che la ama,
beninteso, aveva un senso. Uomini che facevano fatiche durissime
per terra e per mare, che andavano in guerra e si ritrovavano a casa
la furia di una nevrosi domestica non meno terribile, e che essi erano
inabili a capire.
Il pragmatismo della commedia affida alla donna il compito della
concordia, ben sapendo che solo un santo avrebbe potuto
trasformarsi in casa dopo crude fatiche in un gentiluomo paziente.
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Parli di donne in Shakespeare e ti viene incontro nel Tito Andronico
una ragazza con la lingua e le mani mozzate, perché gli stupratori le
impediscono così di rivelare i loro nomi. E il padre, che tanto la
compiange, poiché non sopporta il disonore e la sua vista
angosciante, non trova di meglio che infilarle un pugnale nella
pancia.
La tragedia degli orrori
Tito Andronico aveva la metà dei figli di Priamo, venticinque, e
ventuno gli erano già morti in guerra, perché lui tornasse trionfante
a Roma. Dei sopravvissuti uno lo uccide lui, perché aveva osato
tentare di disobbedirgli, e gli altri due vengono decapitati da un
uomo che in punto di morte, sotterrato con la testa fuori, rimpiange
di non avere avuto il tempo di aver ammazzato più uomini e prova
rimorso della sola azione buona che gli pare almeno d’aver
compiuto.
Tito si fa tagliare una mano per salvare i due figli, le teste dei quali
gli vengono recapitate tra risa e beffe dietro i cespugli, per godere
l’effetto. Lui ne prende una con la mano rimastagli ed esorta la
povera figlia a prendere l’altra con i denti. E come altrimenti?
La vendetta della vendetta della vendetta è il tema della tragedia
dell’orrore, in omaggio a Seneca e allo stomaco forte dei
contemporanei, dove c’è chi fa violenze atroci per gusto sadico e chi
le fa in nome di nobili e rigidi principi. Appunto Tito, il quale fa
spappolare i corpi dei nemici, ne fa polverizzare le ossa come farina
e li offre all’inconsapevole madre, già regina dei goti e ora
imperatrice, che pare li trovi gustosi. Del resto è carne sua.
In questo scenario dell’orrore, opera di Shakespeare e aiuti, si
sperimenta il riso da atrocità, quello che scoppia dopo una serie
esagerata di nefandezze. E c’è da credere che il pubblico,
amantissimo di questa macelleria dell’antica Roma, abbia alternato
all’orrore (versione popolare del fobós aristotelico) le risate più crasse.
Shakespeare stesso deve essersi divertito a caricare al parossismo la
violenza (Tarantino non ha inventato niente).
599
In questa opera non da leggere ma da vivere in un teatro di fine
Cinquecento vi sono due scene bellissime. La prima quando Tito,
dopo un massacro senza fine, vede il figlio uccidere una mosca e gli
si scaglia contro dicendo: “Non pensi che anche lei abbia un padre e
una madre?”
E certo avranno riso tutti eppure è insuperabile l’ironia veridica del
macellaio legalizzato da nobili principi che si intenerisce per la
mosca o il canarino, come sappiamo da tanti torturatori dei Lager.
La seconda è la scena in cui, invocando giustizia, come viene
chiamata in quest’opera la vendetta, quando si ispira a principi
ritenuti giusti, ordina ai suoi figli di scagliare frecce contro gli dei,
con un rotolo in cui li si prega di spiegare dov’è appunto la giustizia.
Gettano frecce al cielo e invocano coloro che non danno segno di
contemplare la pazzia dei mortali.
Quando leggi opere così ti dici anche: non solo un drammaturgo,un
poeta, un romanziere, non è veramente grande quando non ha il
coraggio di tuffare il naso nella crudeltà. Senza atrocità disumane
non ci arrendiamo mai del tutto alla grandezza letteraria. Resta
sempre una riserva, e anche questo si sarà detto Shakespeare,
dandoci sotto fino in fondo.
Riccardo III
Odio, tradimento, violenza, malignità, quando hai il potere e cerchi
di conservarlo e quando non ce l’hai e speri di conquistarlo, non
puoi che bere e far bere queste quattro pozioni. Nel Riccardo III gli
spettatori sono presi per la nuca e affondati fino al collo in questa
mistura di quattro veleni. È un rito di iniziazione, una presa di
coscienza della realtà.
Resosi conto di questo, può esserci anche una catarsi da cattiveria,
da ripetizione degli omicidi fino alla nausea, di chi li commette e di
chi li guarda sulla scena.
La doppia faccia è il primo effetto del potere in cui “l’arte del
diavolo” consiste nell’assumere il viso d’angelo e la menzogna è così
600
sistematica che basta dire il contrario di quello che si pensa. Fuori
del teatro, e della sua verità, osservo che gli uomini che mentono
finiscono per pensare le menzogne che dicono.
Anche l’assassino più sanguinario sa nell’a parte della sua coscienza e
si dice tra i denti qual è la natura sporca e vituperosa della sua anima
così abile nell’infiocchettare a parole i lombi sanguinolenti che ha
macellato.
L’anima sopravvive nella sincerità con se stessi e col pubblico, una
sincerità primordiale e nativa che non sposterà di un centimetro il
braccio che darà la morte. È questo un atto di fiducia che
Shakespeare compie verso la natura umana, mentre più spesso i
mentitori professionisti mentono anche con se stessi, e soprattutto
davanti a un pubblico.
Nel Riccardo III, come in ogni altra tragedia di Shakespeare, c’è
almeno un personaggio che “gioca con le parole”, è un acrobata tra
la verità e la menzogna, è uno che dice le cose come stanno con una
scherma linguistica e ironica, che non depone a favore del suo valore
morale, ma attesta l’ardimento di chi usa le parole rischiosamente,
audacemente, suscitando un rispetto del nemico che non gli salverà
la vita.
Re Lear.
Non cedere il potere a una donna
Dal Re Lear si ricava che il potere va esercitato fino in fondo. Chi si
sottrae in modo gratuito, per godersi il meritato riposo della
vecchiaia, come Lear, scatena potenze infernali e in qualche modo è
corresponsabile dello scatenamento del male, che subito monta
quando si ha una debolezza del genere.
Io non mi pongo più come fonte della giusta condotta altrui,
dell’ordine e del bene ma mi affido all’amore naturale delle mie
figlie, le quali mi rispettano proprio in quanto governo e domino e
601
cominciano invece a odiarmi e a disprezzarmi non appena mi affido
al loro amore filiale.
L’uomo che si affida all’amore di una donna, figlia o madre o
moglie, viene in genere disprezzato e non ricambiato mentre può
essere amato molto se comanda, guida, governa, dispone, anche se
con fermezza, indifferente al fatto di essere amato.
Se tu non ti comporti in qualche modo per essere amato ma perché
sei così, una donna può amarti. Se scopre che lo fai per lei, per
l’ebbrezza che ti dà, grazie alla carica che ti trasmette, che ti
ringiovanisce, ti dà le ali ai piedi, ti riempie di entusiasmo, ti spinge a
rivelare il meglio della tua natura, allora lei si spegne e ti considera
meno affascinante e desiderabile, perché tutto il tuo potere sta in lei.
Se una donna scopre che tu dia sempre il meglio ti te stesso, ci sia o
non ci sia lei, e nondimeno lei ti è indispensabile, e sarà lei stessa a
capire da quali segnali impercettibili che non le sfuggiranno, allora ti
potrà considerare, sempre che il tuo meglio basti a contentarla.
L’amore fermo, sobrio, pudico della schietta Cordelia offende
profondamente il padre, sensibile alle adulazioni delle altre due
sorelle, un amore più ricco della lingua, l’amore di una donna che
non riesce a sollevarne il peso fino alle labbra (I, 1), è segno per re
Lear di non amore, essendo invece la sproporzione, l’eccesso i segni
tipici del vero amore.
Ma può mai esserlo l’amore di una figlia? Cordelia onestamente ne
dubita, dicendo: “Non mi sposerò certo come le mie sorelle per
amare soltanto mio padre”. Sia pure un padre che l’amava sopra
tutte, non per un segreto spirito incestuoso, ma per un
inespertissimo amore paterno, quasi egli fosse il re anche delle figlie.
Un padre regale che diventa folle prima che le altre figlie,
privilegiate, lo tradiscono, semmai proprio quando non apprezza
l’unica sincera e fedele.
Si parla di figli legittimi e di bastardi ma è indubbio, dice uno di
questi ultimi, Edmund che: “Mentre noi, nella gagliarda clandestinità
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della natura / abbiamo una carica di più fiero vigore / di quanta se
ne impieghi per creare, in un letto / Pigro, stanco e stantio, un’intera
tribù di scimuniti / generati tra il sonno e la veglia” (Re Lear, I, 2).
Re Lear si libera del potere per andare “senza più ingombri verso la
morte” (I, 1); Gloucester lamenta che “ogni sorta di ingombri
travagliano il nostro cammino verso la morte” (I, II); Edgar dice che
“le lusinghe della vita ci inducono a soffrire di ora in ora le pene
della morte piuttosto che morire subito” (V, III).
In tutti e tre i casi si nota che è il cammino per la morte a essere così
accidentato e duro, che non soltanto si va verso la morte ma è anche
assai duro conquistarsela se non come premio, come sollievo di
tanto faticoso percorso, che agonizziamo tante volte invece che
morire una volta sola, subito e per bene.
Che insomma quello che non va, il nostro assurdo, è che paghiamo
con tante sofferenze quotidiane e parziali il diritto di una sofferenza
ultima, sola e totale.
Re Lear impressiona molti lettori ma non è nulla dopo le tragedie
horror, di macelleria, di stragismo, di amorale e primitiva violenza
dall’Enrico VI al Riccardo III. E non è nulla perché, come nell’Edipo re
di Sofocle, al quale si richiama non per trama e disegno ma per la
potenza dell’isolamento tragico di un uomo segnato dal destino a
soffrire l’impossibile (benché a petto di Edipo re Lear la fa un po’
troppo tragica), alla fine un valore viene non soltanto affermato ma
esaltato in questo dramma, e cioè quello della riconoscenza e della
fedeltà delle figlie nei confronti del padre che invecchia.
E soltanto con questo valore dato per certo è tragica la vicenda. Così
come l’Edipo re potenzia, facendone un assoluto valore, il fatto che
non si deve uccidere il padre né avere legami sessuali con la madre.
Il padre si può definire l’uomo che meno di ogni altro si può
uccidere. La madre la donna che meno di ogni altra si può
desiderare. Perché? Il primo perché ci ha dato la vita. E la seconda?
Si potrebbe obiettare che desiderandola noi non facciamo opera
avversa alla vita.
603
E tuttavia, oltre alle infinite complicazioni sociali e morali che
affliggono l’adolescente che può arrivare per qualche giorno o mese
a essere afflitto da desideri morbosi verso la genitrice, soprattutto
quando non ha occasione di vivere una vita erotica sua e bene
orientata (vedi Il lanciatore di giavellotto di Paolo Volponi), tale eros
incestuoso è segno di una malattia del tempo, di una perversione
evolutiva, di una regressione patologica che è essa a essere
contrastata dal tabù, più del rischio di un figlio fratello con gravi
malformazioni fisiche.
Re Lear tragedia della vecchiaia? Di un re della vita che perde il suo
potere su di essa e viene abbandonato e poi minacciato dalle sue
stesse figlie? Non si può negare. Re Lear tragedia dell’ingratitudine,
di quella variante del tradimento che per Shakespeare è il nucleo più
profondo dell’esistenza? Altrettanto vero. Ma soprattutto il Re Lear è
la tragedia della nostra incapacità di accettare la natura e il suo ciclo.
È la tragedia della rivolta impossibile e destinata alla follia contro la
natura.
Se nessuno di noi vuole essere abbandonato da vecchio dalle figlie,
nessuno di noi vuole neanche dipendere per sempre dall’arbitrio dei
vecchi genitori. Nessuno vuole essere fedele fino alla morte alla
natura.
Ecco che Lear, che scopre il tradimento della figlia, che lo ha
adulato amorosamente soltanto per ereditare il regno, le scatena la
seguente maledizione: “Ascolta, Natura, ascolta! Dea venerata
ascolta! Se mai intendesti rendere quest’essere fecondo, revoca il tuo
proposito, riversale nell’utero la sterilità, prosciuga in lei gli organi
della generazione, sì che dal suo corpo degenere non scaturisca un
figlio ad onorarla (I, IV).
Re Lear, un canto della natura
Tutto il Re Lear è un canto della natura: Lear aveva una natura di
padre affettuoso (II, I), Gloucester crede che il figlio Edmund sia
leale perché è naturale; la natura, quando siamo infermi, impone
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all’animo di soffrire col corpo e “noi non siamo più noi stessi” (II,
IV); la natura è nel vecchio “al limite del suo dominio” (ivi); Lear
crede che almeno la figlia Regan conosca “gli affetti della natura”.
Tutti i torti subiti da Lear sono contro natura (III, I) e “la natura
dell’uomo non può sopportare né la violenza né il terrore” (III, II).
Re Lear impazzendo diventa “un frammento corroso della Natura”
(IV, VI). Cordelia invoca gli dei: “Rimarginate la grande ferita aperta
nella sua natura” (ivi).
Un gran canto della natura, insomma il Re Lear, madre adorata,
promotrice di affetti e di lealtà, di salute e di legami di sangue leali e
profondi tra genitori e figli, matrice della vita sociale che orienta
secondo il suo potere. Eppure madre impotente “su questo enorme
palcoscenico di matti” (IV, VI) dove leopardianamente quando si
nasce si piange perché intuiamo cosa ci aspetta.
E noi uomini, nelle parole di Edgar, figlio bastardo e leale di
Gloucester, dobbiamo sopportare l’uscita dal mondo come
l’ingresso. E tutto sta nell’essere maturi (V,II).
Forse un invito a scrutare quelli che nel Macbeth (I) Shakespeare
chiama the seeds of time, i semi del tempo? O a cogliere il momento di
grazia del salto, l’istante in cui si può trasformare la caduta dalla
pianta in un salto acrobatico, la forza di gravità in una decisione
nostra?
Gli uomini animali di Shakespeare
Shakespeare nell’Enrico VI (nella prima delle tre parti) non perde
occasione di richiamare gli uomini alle somiglianze animali: i soldati
inglesi scappano davanti alle truppe francesi guidate da Giovanna
“come api cacciate col fumo dai loro alveari; o come colombe coi
fumenti nauseosi dai loro colombai” (I, 5); il Delfino e la sua ganza
vengono correndo, “appaiati come due tenere tortorelle che non
riescono a vivere se non appaiate giorno e notte” (II, 2).
605
E dov’è la novità? Da sempre tali somiglianze sono state colte, dalla
favolistica greca e latina fino a oggi. La novità sta nel fatto che
sempre meno si tratta di somiglianze e sempre più di metamorfosi:
ho visto un mio vicino trasformarsi in un cinghiale e al piano di
sotto c’è una signora che si muove come un’oca. E appunto, dov’è la
novità? Queste metamorfosi ci sono sempre state ed è bene che ci
siano: è il bisogno delle donne e degli uomini di appartenere a una
specie, che essi stessi scelgono e nella quale si riconoscono per
vivere più tranquillamente e in modo riconoscibile.
La Giovanna D’Arco di Shakespeare
“Una goccia di sangue tratta dal seno della tua patria dovrebbe
contristarti più di un fiume di sangue nemico,” dice Giovanna
d’Arco al Duca di Borgogna, nell’ Enrico VI di Shakespeare (III, 4).
E lo stesso sentimento impregna il giovane Shakespeare, che vede la
santa Giovanna quasi sempre con occhi inglesi, accogliendo la sua
metamorfosi in strega e fattucchiera, visitata dai demoni (V, 3),
infida e astuta, spietata e mordace, capace di sconfessare il padre
pastore per i suoi presunti natali regali che, del resto, più di
un’indagine storica in Francia convintamente sostiene.
Fin presso al patibolo mente, dicendosi prima vergine poi incinta di
Carlo di Francia, anzi, no, di Alencon, poi di Renato re di Napoli.
Ma sono quei vaneggiamenti della disgrazia estrema, tipici in
William, in cui la verità e la contro verità, ormai fantasmi di fronte
alla morte, gettano un’ombra di gioco crudele sulla scena.
Giovanna (tra sé): “Vero francese, volta e rivolta bandiera” (III, 4):
che perfidia nel far dire a Giovanna stessa questa lode del suo
popolo che re Enrico (IV, 1) chiamerà “volubile e malsicuro”,
Che davvero sia stata chiamata, che davvero abbia fatto miracoli non
per grazia di diavolo ma di Dio, viene appena lasciato dire alla stessa
Giovanna (V, 4), prima che lei stesso capovolga tutto burlescamente
e follemente. Ma, chiamata dall’alto o no, come re e principi hanno
potuto ascoltare e seguire una ragazza, trascinandole dietro eserciti
quando le donne erano dotate soltanto di “lance di paglia”?
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Un personaggio del genere avrebbe meritato uno di quelle orazioni
di lode e stupore nelle quali Shakespeare è maestro, fatte magari
proprio dai suoi nemici inglesi, delle quali c’è pure un timido cenno,
e che danno un equilibrio potente alle sue opere maggiori.
Giovanna d’Arco: “La gloria è un cerchio nell’acqua che si allarga e
si allarga finché, così allargandosi, si perde nel nulla” (I, 3).
Giovanna: “Rammarico non è rimedio ma vana corrosione quando
una cosa è irrimediabile” (III, 1).
Il giovane Talbot morente sorride “quasi dicesse che se la morte
fosse stata francese a quest’ora sarebbe morta” (IV, 7). E se fosse
stata italiana?
Montagne fantasma
Pensare la verità vuol dire considerarsi il primo al mondo ma non
c’è sempre un altro uomo che potrebbe pensare più e meglio di me?
Se infatti una verità scientifica, prodotta dal pensiero, si scorpora da
esso oggettivandosi nella misura in cui non è stata ancora mai
falsificata da nessuno, come una vetta che uno scala, segnala agli
altri, e da quel momento entra nella mappa comune nella sua realtà
indipendente, una verità filosofica non si stacca mai dal processo
che l’ha prodotta, sicché si potrebbe dire che l’alpinista filosofico fa
la montagna che scala, la quale alla fine legittimamente porta il suo
nome.
Ma resta una montagna fantasma, che esiste finché un altro la riscala
in solitaria o con una guida o essendo tu la guida di altri. E come fai
a stabilire se un altro filosofo ha fatto scalando una montagna più
alta della prima? Se la filosofia di Schopenhauer è più alta di quella di
Hegel?
Ecco che molti critici filosofici parteggiano per l’uno o per l’altro o
scelgono un passaggio dell’uno e lo compongono con un dirupo
607
dell’altra formando una terza montagna, che è un montaggio delle
prime due, o addirittura fanno la loro con rocce e pareti di decine di
montagne diverse, ma che esistono sempre soltanto per tutti coloro
che praticano la montagna.
Mentre la fisica quantistica, anche se nessuno la scalasse più,
resterebbe stagliata realmente non solo nel mondo dei fisici ma nel
mondo di tutti.
Eppure senza montagne fantasma esisterebbero comunque le
montagne reali ma non esisterebbero più gli alpinisti costruttori di
montagne, indispensabili alla sete di conoscenze fantasmatiche degli
esseri umani, e senza di esse saremmo prigionieri dentro una
chiostra di monti, dentro la quale la nostra vista sarebbe indifferente,
essendo la realtà fatta tutta per conto suo e indipendente da noi.
La sostanza è posta dai greci come hypokeimenon, ciò che giace sotto,
tradotto poi nel calco latino in substantia, in base e fondamento, ma
la vera sostanza non è invece il vertice, ciò che realizza la potenza
del fundamentum, della base, di ciò che giace sotto? Il vertice dell’atto
che compie e realizza, fa essere, la base potenziale.
Pensare l’essenza vuol dire scalare il vertice di un ente, rischiando la
pelle e ferendosi le mani mentre la parete rischia di sgretolarsi
quando saliamo con gambe inesperte.
Il pensare per potenza ed atto è un’intuizione poderosa e
preveggente da parte di Aristotele, che troverà la sua legittimazione
biologica nel codice genetico, nel quale già sei in potenza tutto ciò
che sarai in atto, salvo incidenti e accidenti.
Essere in potenza non vuol dire il semplice avere la possibilità di
essere in futuro ma è già un essere determinante quello che sarai,
benché invisibile. Benché nessuno di noi sia necessario, è però
necessario che, non intervenendo agenti esterni a toglierci la vita o
sfigurarla, il nostro corpo diventi soltanto ciò che già in potenza è.
Magia della scienza
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Scienze politiche, scienze bancarie, scienze infermieristiche, scienze
della comunicazione, scienze della letteratura. La parola ‘scienza’ ha
una potenza magica tanto meno si ha un’idea dei suoi metodi. La più
prosaica e opportuna parola “tecnica”, oltre a svelare il carattere
empirico, procedurale, protocollare di queste discipline, ne mostra il
lato prosaico, nel farne cadere sotto gli occhi direttamente la
sostanza, oggi considerata la cosa più prosaica che esista.
Le procedure scientifiche reali invece sempre richiedono non
soltanto un metodo sperimentale ma anche un oggetto che
obbedisca a leggi universali, senza il quale non vi è scienza.
Quella che è soltanto una prassi tipografica, una convenzione nel
citare le fonti, una procedura accademica internazionale consolidata
nello stilare le note si fregia del titolo nobile e terrorizzante di
‘scientifico’, aggettivo che viene usato magicamente nel senso di
professionale, serio, rigoroso, mentre l’aggettivo ‘tecnico’ sa di
officina, di lavoratore prosaico, di diligente travet, scientifico apre
squarci di potenza gratificante e di applaudito rigore.
E troverai che proprio ciò che è più labile e opinabile, come la prassi
di posporre o di preporre la città alla casa editrice, di mettere o non
mettere la virgola prima della data di edizione, acquisterà un
carattere così stringente che tu penserai meno aggiornato e più
sospetto lo studioso che non si attiene alla pratica tipografica
accreditata del momento, fosse pure affidabilissimo e pregnante ciò
che scrive.
Nel discorso orale invece l’accademico intende per ‘scientifico’ il
tono asseverativo e impostato, scandendo con precisione autorevole
ciò che non è dimostrabile né verificabile: “Locke intendeva
sicuramente dire questo e, come i maggiori studiosi internazionali
convengono, non l’ha fatto per questa e quest’altra ragione.”
Poesia del non vedere
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Ci sono uomini che vogliono stare sempre dentro la vita: assistere al
parto del proprio figlio, toccare l’amico morto, assistere da vicino
all’incidente, e sembrano i più forti. Ma l’ironia della vita, che non
sopporta si guardi troppo da vicino dentro i suoi misteri, si rivale su
di loro, e non riescono più a liberarsi di ciò che hanno visto, come
avessero violato un pudore della natura, che non ama essere spiata
troppo da presso.
Io ho preferito in quei casi non vedere, non assistere, e non credo si
possa accusare di viltà chi vuole salvare la poesia del non toccare
con gli occhi quello che l’immaginazione all’infinito ti rende
qualcosa di troppo forte che neanche chi lo vive può guardare.
Se non vedi la persona cara morta, essa ti sarà sempre presente viva.
Diversamente mi disse una volta un’amica, invitandomi a guardare il
marito morto, a me carissimo: “Guardalo, altrimenti ti sarà per
sempre irraggiungibile”.
Vero è che questo invito salutare ha sfatato la mia convinzione, e
quella persona è comunque rinata in me, nonostante lo spettacolo
fisso e irrevocabile del suo corpo disteso eppure segretamente
spirituale.
1 dicembre
Stima di sé nel tempo
Una bella sensazione è quando scopri un tuo appunto al margine di
un libro, una considerazione di tua mano su un romanzo o un saggio
letto tanti anni prima, e li prendi sul serio, rispettando quel giudizio
che sai meditato, stimando quel tuo te stesso, riconoscendolo come
un tu affidabile, che potresti tranquillamente giudicare e correggere a
tua volta, smorzato l’attaccamento affettivo al tuo gesto, e invece
scopri per questa via inaspettata che guardi quel te stesso con
riguardo, cosa impossibile quando devi considerare e giudicare
quello che stai facendo ora. Ti stimi come se fossi un altro e ciò non
solo garantisce la tua equanimità, ma ti dà una prova che sei degno
di qualche rispetto.
610
Ci sono autori che, commentando in privato la propria opera,
dicono di trovarla ora meravigliosa ora ripugnante, ora convincente
ora penosa, a seconda del loro stato d’animo e del tempo della
lettura. Ma questa oscillazione estrema del giudizio non è buon
segno, perché vuol dire che la stessa opera oscilla e sfarfalla, se
suscita reazioni tanto diverse, così affidate all’umore, al sentimento,
alla severità più o meno incisiva dello sguardo, e induce la
sensazione che non sia né meravigliosa né ripugnante, ma
semplicemente indecisa e incompiuta in se stessa.
Un giudice in ascolto
La stragrande quantità delle cose che si scrivono sui giornali e si
dicono in pubblico sono condizionate dal fatto che chi le scrive e le
dice pensa a qualche ascoltatore di riferimento, al consenso del quale
aspira. Lo studente dice quello che fa piacere al professore, il
politico quello che compiace i suoi compagni di partito e soprattutto
i suoi elettori, il giornalista quello che attira i suoi lettori, l’attore
quello che fa piacere al molto rispettabile pubblico, lo studioso
quello che lusinga il suo maestro o colui che dovrà favorirne la
carriera, al contempo immaginando e vituperando gli ascoltatori
della riva opposta, i concorrenti, gli avversari che immagina mentre
lo deridono o lo criticano, dandogli la carica per i toni sferzanti e le
strenue difese.
C’è sempre un giudice in ascolto pronto a sentirsi tradito, a
offendersi, a prendersela a male, a ritirare il suo consenso, a negare il
suo appoggio, a vendicarsi alla prima occasione, a ribattere con pari
acrimonia. Gli studiosi scavano trincee di citazioni, i politici si
attorcinano in un linguaggio indecifrabile, i giornalisti si preparano
con altalene di comunque e nonostante, e in ogni caso al
cambiamento di vento.
Arriva in privato il momento della verità ma diventa solo uno sfogo
di emozioni ingiuste e represse, uno sfogo di rancori e di perfidie,
uno svelamento di infamità o di furbizie, proprie o altrui, che non
danno soddisfazione e non sono attendibili neanch’esse.
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4 dicembre
Relatività dell’albatros
Baudelaire racconta nell’Albatros la sorte del poeta, simile all’uccello
impacciato sulla tolda dalle sue stesse “ailes de géant” che
“l’empechent de marcher”, tra gli scherzi dei marinai. Così è lo
scrittore che fa una maratona di nuoto in solitaria e quando capita
tra le mani degli editori sbraccia patetico e ridicolo davanti alle loro
poltrone.
Il principio della relatività galileiana secondo cui un osservatore
all’interno di un sistema non può giudicare sulla qualità di quiete o di
moto dei corpi vale anche dal punto di vista culturale e
antropologico. Noi terrestri non possiamo giudicarci all’interno del
sistema terra. Lo sguardo dall’esterno cosmico è indispensabile.
Se l’abitante di un altro pianeta, nel corso di una passeggiata
cosmica, si imbattesse per caso nel nostro - giacché solo per caso gli
potrebbe capitare di scoprire la nostra esistenza microscopica probabilmente non potrebbe distinguere tra il naturale e l’artificiale,
non sapendo cosa abbiamo fatto noi uomini e cosa abbiamo trovato
bell’e fatto in natura.
Vedrebbe le cupole e i campanili come forme non dissimili da
boschi e querce e noi uomini come una specie animale tra le tante.
Le città popolate da milioni di umani sarebbero simili a foreste
abitate da migliaia di animali; l’acciaio, il vetro, il piombo, l’alluminio
non sarebbero per lui diversi dall’acqua, dal fuoco, dalla terra. Forse
cercherebbe da quali impianti l’ossigeno è sparato nell’atmosfera e
quali fabbriche producono l’acqua del mare.
Sarebbe proprio lui a capire, in virtù del suo errore di percezione,
che tutto è in realtà natura, e nient’altro che natura, e quello che
crediamo fatto da noi, dalla sua prospettiva esterna al sistema,
diventerebbe solidale a un piano globale della natura, che ha
prodotto attraverso noi anche la bomba atomica, le armi e migliaia
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di sostanze chimiche, i computer, le televisioni e i cellulari, forse allo
scopo di sopravvivere o forse per continuare la festa.
Potremmo parlare di natura prima, indipendente da noi, e di natura
seconda, trasformata da noi, ma a patto di estendere di molto
l’incidenza della prima, che non si fa governare tanto facilmente e
che opera attraverso i nostri istinti, anche in noi meccanici e
indomabili, per concertarli a un piano d’insieme, che forse
comprende anche le guerre, i cento milioni di morti ammazzati del
Novecento, le malattie, la fame di miliardi di persone, la distruzione
di aree vastissime del pianeta, dove noi uomini renderemo
impossibile la vita, crediamo, per nostra insipienza assoluta, e invece
sempre anche per un piano che ci oltrepassa, in nome di altra vita.
La visione della natura oggi dominante, di una povera vittima
innocente del nostro perfido dominio tecnico, di una sorella ferita
quando non di una immensa donna inerme di fronte alla violenza
delle belve artificiali che saremmo diventati, è allora molto
presuntuosa e ingenua.
La natura è sempre stata terribile, sempre noncurante del singolo,
sempre maestosamente dominatrice, non solo quando si scatena in
uno tsunami o in un’alluvione, in un’eruzione o in un terremoto,
benché questo puoi vederlo soltanto in tempi lunghi, lunghissimi.
La natura è più forte di noi perché è dentro di noi e oggi, come
sempre, come scriveva Francis Bacon, non le puoi comandare nulla
se non obbedendo.
La convinzione che per la prima volta nella storia con la bomba
atomica noi potremo distruggere il pianeta è miope benché fondata
su fatti a prima vista incontrovertibili. Noi potremo distruggere due
o tre generazioni. Una minima striscia di vita comunque, nella storia
neonata del genere umano.
Questa possibilità tuttavia, più dello sterminio ebraico, più di ogni
strage bellica, è la svolta più terrificante di tutta la breve ma lunga
storia dell’umanità. La semplice possibilità di farlo ci rende non
uomini, in modo più sottile e catastrofico di qualunque altra tragedia
sperimentata.
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Essa ci dice che il male non è l’effetto delle azioni coscienti e perfide
degli uomini ma che è una potenza sovrumana, un’anti creazione, un
anti Dio del caos, della frammentazione, del disguido, dell’equivoco,
dello sbaglio, dell’insensato, del pulviscolare, del disperso, del
disseminato, dominante in modo tale che nessuno la potrà mai
compattare e governare, se non ci fosse almeno la volontà di
sopravvivere della natura che, avendo partorito dal suo seno
l’uranio, non può che essere per una strategia sofisticata di vita che
ci sfugge.
Eccesso di aggettivi
Preporre sempre l’aggettivo al nome in una prosa è segno di
temperamento impulsivo, perché quando scriviamo sempre ci viene
in mente prima l’aggettivo e poi il nome, sia perché spesso è proprio
l’aggettivo a qualificare un nome, altrimenti neutro e polivalente,
come ad esempio “esistenza” o “natura”, sia perché spetta
all’aggettivo il carico emotivo con il quale investire il nome.
Anteporre l’aggettivo qualificativo vuol dire anteporre l’effetto alla
causa, l’impressione alla consistenza intrinseca della cosa. Se diciamo
“Un’irritante imprecisione”, mettiamo in primo piano la nostra
irritazione soggettiva rispetto al dato oggettivo dell’imprecisione, per
di più imponendola, quasi fosse tutt’uno con la cosa. Se invece
scriviamo “Un’imprecisione irritante” rimarchiamo prima il dato di
fatto per poi aggiungere che noi, e forse altri, siamo o possiamo
esserne irritati.
Non è il caso tuttavia di farne una regola, tanto più se l’aggettivo è
insolito rispetto al nome e azzeccato. Spesso un pensiero reale cerca
la sostanza sobria del nome come un ormeggio, cosicché l’aggettivo
può far fluttuare la nave nell’onda delle tue sensazioni soggettive
soltanto quando hai bene ancorato il nome al molo. In tal caso lo
possiamo preporre con tranquillità, anzi dobbiamo farlo.
Molti considerano l’eccesso di aggettivi un segno tipico di
dilettantismo letterario ma non si può fare una regola neanche di
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questo perché, come in ogni altro caso di lingua, quello che conta è
lo stile, e cioè la selezione, la forza inventiva, l’ordine, la gradazione,
il colore, il sound degli aggettivi.
Nello Zibaldone troviamo di continuo serie lunghissime di aggettivi,
come di nomi e di verbi, anche tredici o quattordici di fila, che
Leopardi dispone con maestria in sequenze sfumate di significati,
con variazioni avventurose ed esatte che arricchiscono la
conoscenza di un fenomeno e danno un effetto potente e gaio.
I flessibili
C’è sempre una ragione per la quale in un contesto storico un
aggettivo diventa magico. Pensiamo alla fascinazione collettiva e alla
altrettanto collettiva menzogna dell’aggettivo ‘flessibile’. Esso
scongiura il rischio mortale di essere rigidi e, appunto, inflessibili.
Chi è inflessibile oggi soccombe mentre il giunco che si piega,
moralmente meno prestigioso, sopravvive alle alluvioni quando le
querce crollano. Ma l’aggettivo non è privo di uno charme estetico,
confinando con flessuoso, e quindi agile, mobile, adattabile e perciò
idoneo alla sopravvivenza.
Flessibile nel lavoro vuol dire essere giocosamente disposto a
cambiarlo, essere plastico, mimetico e proteiforme, secondando le
esigenze del mercato, che invece impone regole economiche
inflessibili, inesorabili, immodificabili, rigidissime, proprio come una
catastrofe naturale, che però un giorno ridonderà al bene di tutti,
sempre che piegheremo il capo, sgusceremo tra le maglie, ci
mimetizzeremo per non essere colpiti o fuggiremo altrove subito
prima della mazzata.
Dovremo fare sacrifici virtuosi per sopravvivere, i quali impongono
un’inflessibile disciplina morale ma nel contempo dovremo essere
agili come gazzelle, saettanti come lucertole, pronti ad assottigliarci
per entrare negli interstizi per poi scattare come ghepardi quando la
preda di un lavoro è a portata delle nostre unghie.
Quando quest’uomo, questa donna dalla ferrea disciplina morale,
votata al sacrificio per il bene della nazione, e plastica come un
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Proteo, in grado di cogliere e di propiziare l’occasione in qualunque
momento, si sente rispondere di no dai mille datori di lavoro ai quali
ha felinamente spedito il suo curriculum on line, guardando prima
nello specchio il volto virtuoso e patriottico, siede sul divano e
guarda i suoi figli, d’improvviso le vele morali e civili si afflosciano.
Non può neanche considerarsi malato, la colpa è solo sua, qualcosa
non nei suoi modi di agire, impeccabili, ma nel suo modo d’essere
deve essere sbagliato. Qualcosa che non ha nome ma è più potente
di tutto il resto. Allora capisce la truffa e a questo punto non c’è più
stato, legge, bene comune, religione, civiltà, dibattito. Siamo nella
giungla ed entro sera dovrà trovare da mangiare ai suoi cuccioli, in
qualunque modo.
20 luglio
Due tigri che fanno sesso
Quando vedi due cavalli o due tigri fare sesso, in uno di quei
documentari balsamici sugli animali, ti colpisce l’austerità e la dignità
dell’atto, dal quale si rimuovono con sobrietà sdegnosa. Gli animali
dimostrano molto più buon senso e severità di noi in materia
sessuale e, a dire il vero, anche quando uccidono non sembrano
affatto compiacersene.
Nondimeno lo fanno. Mentre nel bene conta anche lo stile, nel male
contano i fatti.
Impasto umano
Una cena in compagnia, un gioco di carte, una partita di calcio vista
insieme crea un io collettivo, rompe la bolla della personalità e
impasta i conviventi, come se si formasse una sostanza vitale
comune e interpersonale con un cuore unisono, una pappa emotiva
che proprio fisicamente viene secreta ed impasta in un bozzolo
comune le persone, che da quel momento dicono cose sulle quali
sono automaticamente tutte d’accordo e vivono sensazioni
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intercambiabili che riconoscono a vicenda. Quasi si formasse una
squadra cerebrale.
Dire un pensiero a voce?
Potrei dire a un adulto uno solo dei pensieri che ho scritto,
conservando la naturalezza con la quale possono essere ascoltati
interiormente alla lettura? Certamente no. Le frasi dovrebbero essere
molto più corte, spezzate e isolate e mancherebbe comunque
l’elemento comune, non tanto il contesto specifico ma la postazione
comune, la decisione di pensare in modo scorporato dalla
personalità spicciola tua e mia e dalla storia dell’uno o dell’altro
com’è conosciuta.
Per dirla col Proust del Contre Sainte-Beuve, in essi è in gioco le moi
profonde, non le moi empirique, ciò che in noi c’è di tendenzialmente
universale e che nel contempo è il più identificante. In questo senso
Proust, ne Le temps retrouvé, scrive che lui non ha affatto cercato di
ripercorrere il fiume della sua vita bensì di cercarne la verità. E la
verità non segue la corrente cronologica, come un fiume parallelo o
un fiume dentro il fiume, bensì la taglia come una linea taglia una
circonferenza, anzi una serie di anelli concentrici che si muovono a
velocità diverse, sicché ogni punto di quella verità lambisce prima o
poi la retta. E allargando la visuale in un modo che non è concesso a
un umano, la linea d’acqua sinuosa e frastagliata della vita di Proust
si rivela una tra miliardi di correnti individuali dentro un mare
concentrico, che è l’insieme di ciascun fiume umano.
La grande letteratura è sempre filosofica. Come la grande filosofia è
sempre letteraria.
Scherzi dell’immediato
Più volte leggendo d’un tratto qualcosa e venendo a sapere di fresco
qualcosa che non avevo mai sentito nominare, o il nome di un
autore o una cognizione scientifica o il quadro di un artista, mi
scopro a fantasticare di parlarne ad altri come fosse per me e per
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loro una conoscenza naturale ed acquisita da sempre mentre ne ho
appena scoperto l’esistenza.
Per questo quando mi trovo a parlarne con qualcuno, sapendo che si
tratta di un effetto ottico della vanità, aggiungo sempre che l’ho
appena letto e dico magari anche dove, per una forma di onestà. Ma
per uno dei tanti giochi prospettici che viziano ogni conversazione,
questo viene visto come un’esibizione delle doti prensili del lettore,
mentre se mi fossi limitato a parlarne con scioltezza, come qualcosa
per me di comprovato, al punto da non essere tenuto a citare la
fonte, sarei passato per una persona molto colta e di nessuno
sfoggio.
Così proprio lo scrupolo di non millantare un sapere appena
accattato ti fa sembrare il contrario di quello che sei o che vuoi
essere, mentre la presunzione e l’inclinazione a spacciare quello che
non sai aumenta la tua autorevolezza e persino il riconoscimento
della tua umiltà.
Coloro che tappezzano i loro libri di autori appena assaggiati e di
citazioni sfiorate in una lettura frettolosa ma col tono di esserne
padroni e con la convinzione che tale padronanza li immette in un
circolo elitario, dove tutti gli altri condividono le stesse cognizioni,
gratifica i lettori, che a loro volta fingeranno a se stessi di sapere già
ciò di cui si parla, credendo che il saperlo sia d’obbligo, e a loro
volta passeranno la nozione superficiale appena acquisita ad altri,
con lo stesso tono di maturata conoscenza, guadagnando a buon
mercato una fama di persone colte e appartenenti a quel giro, nel
quale conoscere quel nome è indispensabile, o si presume sia
indispensabile, vista la ricorrenza della citazione, senza mai andare a
verificare se quel nome ha davvero il valore che gli si attribuisce, e
soprattutto se ha davvero detto quello che tutti d’accordo i membri
di quella élite gli fanno dire.
Io stesso, leggendo, sono risucchiato da questa tentazione, di
riciclare subito la scoperta allettante appena fatta, come se tutti nel
mondo l’avessero fatta all’unisono con me, ma un freno doloroso mi
blocca e mi costringe ad andare a verificare di persona, e ogni volta
trovo non solo che tale verifica è laboriosa ma che quasi sempre
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l’esito di uno studio attento dell’affermazione riportata spinge in
altra direzione.
E in una stessa pagina di tali citazioni disinvolte se ne trovano
magari cinque o sei, il che imporrebbe un lavoro improbo solo per
smascherare quella superficiale lettura. Così la contestazione dei
giudizi dati citando nomi dietro nomi è così sconfortante che non
resta che chiudere il libro.
Quanto del cosiddetto lavoro critico nei giornali non è che una
disseminazione di giudizi aleatori, di orecchiamenti casuali, di
architetture concettuali disorganiche, di citazioni di citazioni, di
pareri arrampicati sulla suggestione di un momento. E quanto
l’immaginazione, l’arbitrio, il fraintendimento, la lettura fantastica e
a ruota libera creano una cortina di miliardi di parole, cumuli e
montagne di frasi che costruiscono il loro senso nell’improbabile
trasfigurazione del senso di quelle degli altri.
Alla fine le parole sensate e le frasi che dicono qualcosa di provato si
perdono tra trucioli di alluminio come animali vivi piene di ferite e
soccombono gemendo vanamente nei libri fatti con gli scarti di
produzione. Per garantirne la sopravvivenza bisogna procurare loro
un ambiente vivibile, a cielo aperto, con un’aria fina e cibo di cui
nutrirsi: un libro vero.
Scherzi della fama
Ci sono autori conoscere i quali ci qualifica come persone colte,
ignorarli come ignoranti. E ci sono autori che possiamo
tranquillamente ignorare e sono nelle nostre mani. È in questi casi
che scatta la nostra responsabilità e la capacità di lusingare la nostra
vanità di conoscitori, fondandoci su un merito che dobbiamo essere
in grado di comprendere. In caso contrario saremo i servi della
fortuna altrui, cercando di galleggiare noi stessi sulla scia della fama
che non si sa chi, beatamente volando, ha lasciato nel cielo. Ma
quanti sono in grado di farlo con giudizio esatto e spassionato?
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Chi riesce a farsi nominare da molti è certo che sarà nominato da
moltissimi, veleggiando sulla pigrizia e sulla vanità umana senza mai
accendere il motore. Né c’è da sperare che i posteri ristabiliscano i
valori se non dopo lunghissimo e a volte plurisecolare passaggio di
tempo.
Ma coloro che sono famosi adesso non devono illudersi di essersi
salvati dal naufragio perché essi verranno comunque cancellati e
sostituiti da altri famosi a termine, con contratto di esistenza annuale
o semestrale.
La cella
Uno scrittore è famoso e venduto in tutto il mondo, un altro
sconosciuto e invenduto. Il novanta per cento della loro vita è
identico, se sono scrittori veraci, seduti o in piedi, a leggere e a
scrivere, casti e onesti, ricominciando ogni volta da zero.
Stratagemmi
È buona regola scrivendo su un autore grande, riportare moltissimi
passaggi delle sue opere, sia per avvalorare quanto ne scriviamo sia
perché la loro bellezza e valore si riverbererà sul nostro libro, che
non sembrerà mai vano a qualunque lettore.
Quando comincio a leggere qualunque libro e ad ascoltare
qualunque persona la mia prima attitudine è di diffidenza. Parto
sempre dall’idea che ciò che scrive e dice non ha valore e
costantemente rimango in questa posizione finché non mi convince
del contrario. E allora sono certo che effettivamente vale.
Non importa se perdo un pensiero perché prima o poi, tra un
giorno o dieci anni, lo ripenserò.
9 dicembre
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Pensieri submolecolari
Si possono paragonare i pensieri a quelle particelle submolecolari
che compaiono all’improvviso negli schermi dei computer del Cern
di Ginevra, quando fanno scontrare due particelle nell’anello
sotterraneo, e che i fisici dicono essersi create in virtù dell’energia,
per esistere un tempo infinitesimo e sparire con altrettanta velocità.
Possibile che un giorno venga messo il cervello al centro di un
anello e calcolata la velocità necessaria al pensiero per crearsi, per
una fortissima accelerazione delle sinapsi neuronali.
Non sparirà per questo meno velocemente e starà sempre a noi, non
all’anello, inseguirli e fissarli sulla carta.
Frustra
La frustrazione, il far qualcosa frusta, invano, la vanificazione degli
sforzi, è una delle esperienze più diffuse nel mondo contemporaneo,
nel quale troppi uomini e donne vogliono troppo, troppo spesso e
troppo velocemente.
Mancando la facoltà di assaporare il fatto, di degustare la
soddisfazione dopo un’attività frenetica della mente o del corpo, di
isolarsi dagli altri e dal contesto come un animale placido, un Nero
Wolfe che, qualunque cosa accada, e per quanto intricato sia un
problema, rispetta sempre i suoi bisogni di cibo e di sonno, tutto è
fatto vanamente, perché tendente all’infinito.
La frustrazione incombe in certe persone al punto che pensi che
quasi ne godano e che non riescano a liberarsene, e anelino a trovare
conferme alla convinzione di essere segnati e quasi condannati a
operare vanamente, al punto di incorporare in sé il vano, ad essere
appunto frustrati, frustati dal vano.
Con queste persone la delicatezza non è mai troppa, ma è sempre
troppo poca, perché anche le lodi verranno pensate vane, giacché
private e inefficaci. E anche il convinto riconoscimento sarà pensato
dovuto a motivi estranei al loro valore, o solo tangenti a esso, e
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quasi compenso affettuoso e pietoso di chi già sa che il loro bene
non verrà conseguito.
Tali persone arrivano a usare la frustrazione per agire e finiscono per
essere più laboriose e smaniose degli altri, fuggendo da quel
sentimento che li insegue e li incalza, e li incita a un moto amaro ma
non per questo meno rapinoso, anzi di più.
“Le dignità sono come le facce: non ne esistono due uguali” (Nero
Wolfe in Before Midnight). Ognuno deve cercare la sua specifica
forma, per non cadere nell’invano.
Una nevrosi romantica, combinata con un’isteria fisiologica, genera
il tipo umano oggi dominante, il quale o continuerà smaniosamente
a fare senza fermarsi mai a pensare o si fermerà tetro e rimuginante,
e allora comincerà ad avvelenare se stesso e gli altri, sperando
furiosamente che la stessa vanità sia sperimentata anche dagli altri, e
pasticciando tutto, sia quello che riguarda lui sia quello che riguarda
gli altri, le faccende dei quali per qualche ragione sono allacciate ai
casi suoi, procedendo con una strenua e confusionaria inerzia.
Neanche così il senso di vanità, di uno sforzo accanito e torbido che
non produce l’effetto, si placherà, anzi si accentuerà, perché l’uomo
frustrato continua a voler conseguire l’impossibile soddisfazione
proprio per mezzo di quegli stessi altri i casi dei quali imbroglia e
danneggia per non volerne l’esito.
La frustrazione, la delusione, l’avvilimento, lo scoraggiamento, la
sfiducia generano un orgasmo nero, un gorgo di dolore che si
scarica dentro come in una cloaca senza fondo. Si tratta di una
forma impropria di amor proprio, di un amore cioè che si nutre di
sé, che mangia sé, come noi fossimo di nostra proprietà.
Come il vero amore è quello corrisposto o, se non è così, di pura
donazione, così l’amor di sé è sano e vitale se corrisposto, se
corrispondente alla nostra natura, se non lo godiamo, se non ci
appropriamo gelosamente della vita in noi, quasi fossimo un tesoro
di carne che tutti, e noi prima di ogni altro, debbano pregiare. Noi
possiamo amarci soltanto senza possederci, come una creatura tra
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tante, che abbiamo la responsabilità di governare, di orientare e
rispettare, come facciamo con un figlio o una madre anziana,
assistendoci senza soffocarci con ciò che non siamo e vorremmo
essere.
L’orgasmo nero della frustrazione è un amore di sé impossibile, e
quindi infelice. L’unica soluzione, che è poi un rinvio all’infinito, ma
benigno, della soluzione, è dedicarsi a un altro, servire un altro.
Arduo da comprendere ma letteralmente vero è che dobbiamo
servire anche noi stessi come un altro, in quanto un altro.
Rottura tra fratelli
Quanti legami tra fratelli, tra generazioni e figli si corrompono e
devastano per denaro o per interessi al denaro connessi.
Guardandoti intorno troverai che alla morte dei genitori, almeno in
una famiglia su due, i fratelli guasteranno o romperanno i rapporti
quasi sempre in via definitiva.
Ma lo stesso accade anche in mancanza di interessi e quando la
morte dei genitori scatena una rivalità su un piano meramente
simbolico e spirituale, a tal punto la voce del sangue, in una società
quasi del tutto artificiale e convenzionale, è debole o afona.
E ciò accadrà non solo in fratelli giovani, che potrebbero pensare di
avere tanta vita davanti per riparare i danni e ricomporre l’amicizia,
ma anche tra quelli ottantenni e in odor di morte, i quali saranno
tanto più accaniti quanto più l’attaccamento alla roba, tipico dell’età,
la memoria dei torti subiti nell’infanzia, che torna vivida alla
memoria più dei decenni recenti di frequentazione serena e
composta, il bilancio scompensato della propria vita scatenerà un
odio tanto maggiore nei confronti dei più prossimi in quanto non
sono stati capaci di aiutarci in nessun modo a tamponarne il dolore.
Non soffrire per la morte dei cari
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I giovani si stupiscono di vedere i genitori non soffrire come
vorrebbero della morte dei nonni, che loro vivono acutamente e con
disperazione. E non sanno che è perché i genitori già si sentono alla
morte propria più vicini. La rassegnazione di fronte alla morte
propria fa sì che si soffra meno della morte degli altri.
Il modo di affrontare le situazioni cambia in base all’aspettativa che
ti trovi davanti. Difficile che un giovane pensi che la persona
anziana con la quale sta combattendo senza esclusione di colpi in
una disputa professionale o in una competizione economica che può
rovinare i beni dell’uno o dell’altro, possa venirgli sfilata dalle mani
all’improvviso ad opera della morte. E dovremmo trovare più
audace il vecchio, che avrebbe meno da perdere, mentre invece più
facilmente lo sarà il giovane, che è vero che ha più vita da perdere,
ma solo se consideriamo il futuro, mentre ne ha molta di meno
considerando il passato, quando il vecchio, morendo o perdendo i
beni, ha la sensazione di perdere anche tutta quella vita già vissuta
che in realtà non è già più sua.
Benefici per poveri di spirito
Che si abbiano pochissimi amici è che i conoscenti si vedano non
troppo assiduamente è un bene. Solo così gusteremo il meglio
dell’amicizia e della vita sociale. Non solo perché i difetti si terranno
nascosti ma perché la gioia di rivedersi sarà più sincera, avendo
avuto il tempo di dimenticare i torti e di idealizzare le qualità di
coloro che ricerchiamo soltanto quando ci sono mancati.
Tratta con freddezza i nostri mali. Meglio, così non diventerà
ipocrita. Mette sempre se stesso al centro. Meglio, così non frugherà
in modo indiscreto e invadente nella nostra vita. Parla sempre dei
suoi casi. Meglio, così si scoprirà, facendoci capire la natura umana
molto meglio che se parlassimo noi.
Ma a che ci servirà scoprirla se tanto non riusciremo in nessun
modo a cambiarla? A non perdere la pazienza nei casi particolari.
Arrabbiarsi con qualcuno perché è meschino, sfogarsi contro di lui
rinfacciandogli i suoi torti, soffrire per un’offesa subita, per una
624
promessa smentita, per una doppiezza di comportamento nei casi
singoli, è dolorosamente vano.
Non solo perché, come scrive Leopardi, gli uomini sono tanto
cattivi quanto loro bisogna, ma perché mostreremo di non capire
che sono meschini anche quelli presso cui ci lamentiamo, che
abbiamo noi stessi tradito una promessa, che siamo doppi ogni
giorno per sopravvivere in mezzo a esseri tanto diversi e
incompatibili.
Ogni giorno offendiamo qualcuno che ci odia, senza che noi ce ne
accorgiamo, tanto più oggi in cui i parametri di valore sono tanto
vari e non esistono più leggi morali condivise, per cui davanti a noi
c’è uno che ha abitato vent’anni nel nostro stesso quartiere e crede
nei valori esattamente contrari ai nostri, conformando la propria vita
in modo da odiare noi molto prima che abbiamo cominciato ad
accorgerci della sua presenza.
Se noi ci immedesimassimo in un altro, studiandone letteralmente la
vita e forzandoci a ragionare dal di dentro nella sua testa conformata
dalle esperienze che, documentandoci, abbiamo raccolto su di lui,
noi capiremo la sua ostinata volontà di aver ragione e la necessaria
sequenza delle sue azioni, sia pur compiute nella perfetta cecità su
qualunque punto di vista esterno.
Vivi come visto dagli altri, dai più puri degli altri. Leggi nello
sguardo dei puri, e soprattutto delle donne, e capirai da quello come
sei.
Se abbiamo la fama di uno che pesa le parole ed evita di mordere gli
altri non per questo saremo esenti dall’offendere, perché se lo
faremo senza accorgercene, ed essendo chiaro che sarà stato
involontario, feriremo la persona molto di più, e non per una
volontà cattiva emendabile ma per la nostra stessa natura profonda e
inconsapevole, che verrà trovata incompatibile in modo crudo e
inesorabile.
Gli studenti televisivi
625
Insegnando da trent’anni, ma mai per trent’anni, bensì sempre oggi,
ho conosciuto migliaia di studenti per nome e cognome, in varie
regioni italiane, e mai ho provato per loro un moto di repulsione, di
antipatia, di malanimo, di risentimento, anzi il contrario, come se,
nel mistero della pedagogia, una luce illuminasse ogni incontro e
fosse per me naturale vedere ciascuno nel suo evidente mistero
creaturale.
Studiasse o no un ragazzo, fosse malleabile o coriaceo, impossibile o
conciliante, sempre è stata in essi evidente non solo la sincerità,
anche delle loro menzogne, ma la serietà con la quale vivevano il
passaggio cruento dell’adolescenza.
Ogni volta che guardo invece uno sceneggiato televisivo ambientato
in una scuola, i ragazzi che vedo rappresentati sono tutti
regolarmente nauseanti e, se dovessi giudicare i giovani da quelli,
non avendone un’esperienza diretta e quotidiana, penserei che stia
correndo oggi la generazione più disgustosa e repellente che sia mai
esistita.
Sempre affettati, grondanti sensazioni false ed emozioni tanto
irruente quanto irresolute, finti in ogni espressione, sgangherati e
impolpettati nel modo di parlare, o bulli, muscolosi e torvi oppure
eterei, inciuffettati e sempre sull’orlo dell’idiozia sentimentale; o
impulsivi o imbevuti di passioni infantili e millantate. Sempre somari
o banalmente sgobboni, vitali e smaniosi quanto irragionevoli e
sconclusionati.
Le ragazze maliziose fino al veleno o candide e con la bocca
spampanata come rose bianche, scontrose fino alla cafoneria e
spocchiose e piene di capricci incomprensibili o dedite a un
volontariato idealista con occhioni tra l’ebete e il mammolone.
L’ambientazione è regolarmente romana ma essendo impossibile
che la capitale abbia sui ragazzi questo potere di rimbambimento
collettivo, per cui vagano tutti tra una sbronza, una scuffia,
un’ignoranza sfottente e una spavalderia nevrastenica, deve esserci
qualcosa che non va nella percezione che sceneggiatori e registi
hanno delle generazioni più giovani, in sintonia con la gran parte
626
degli adulti che non li frequentano e traggono informazioni soltanto
dalla stampa, dal cinema e dalla televisione, che congiura a
deformare l’età più severa, radicale e degna di rispetto della parabola
umana con caricature beffarde e parodie patetiche.
Gli insegnanti dipinti in televisione passano gran parte del tempo ad
affrontare con un sentimentalismo ridicolo le relazioni amorose tra i
ragazzi, a salvarli dal suicidio e a confortarli nei traumi per le
separazioni dei genitori. Non sono mai colti nel trasmettere in una
lezione un tema culturale che abbia un senso ma sempre nel vibrare
come libellule, con antenne sensibilissime alla minima turba
dell’animo perennemente innamorato dei loro protetti. O sono
assistenti sociali o psicologi selvaggi, o detective o preti mancati
oppure sadici e ottusi persecutori.
Ficcano il naso nei fatti personali delle famiglie ricevendo porte
sbattute in faccia o patetici ringraziamenti di madri impotenti. Agli
esami di maturità passano la soluzione dei problemi ai loro allievi,
convinti di dimostrare una profonda comprensione umana, mentre
chi cerca di salvare una regola elementare è una macchietta sulla
quale riversare il sarcasmo collettivo. Oppure una canaglia.
Quando ero giovane la cosa che più mi disgustava e segnalava
l’ottusità adulta era che parlassero sempre dei giovani come di una
categoria. In nessun’altra età della vita si deve subire la stessa
condanna di essere incasellati e schedati nella propria condizione
anagrafica e di dover subire sulle proprie spalle il comportamento di
qualunque coetaneo, come un addebito obbligatorio. Il razzismo
anagrafico è seducente e pericoloso.
Un giovane invece deve appartenere alla classe dei giovani come un
extraterrestre, non è una persona con nome e cognome, non è
maschio o femmina, non è intelligente o ottuso, non è generoso e
avaro, non è rivoluzionario o conformista. È giovane. Tutto il resto
è un’appendice e una tinta secondaria. Passa il tempo o a essere
lusingato e vezzeggiato per la fortuna immeritata che gode,
incedendo sulla passerella biologica, o a essere stroncato e dileggiato
per l’idiozia irresoluta che la massa giovanile stampa
irrevocabilmente sulla sua esistenza personale.
627
11 dicembre
O la stima o il vantaggio
Le persone che assillano gli altri per conseguire quello che vogliono
risultano insopportabili ma riescono quasi sempre a farsi aiutare,
mentre quelle che non chiedono per una loro etica elementare, o
dignità od orgoglio, non ottengono nulla, pur meritando più dei
primi.
Ma siccome i primi, che hanno avuto il bene desiderato, per il modo
con cui l’hanno raggiunto non vengono stimati, è necessario che i
secondi, per continuare ad avere il bene della stima, devono
rinunciare a quello del vantaggio pratico.
Così viene riconosciuto pubblicamente un valore che non esiste e
coltivato privatamente un valore che esiste, per fare in modo che la
somma dei beni e dei mali sia equamente distribuita.
Se scrive così male, che perlomeno venda tanti libri. Se scrive così
bene, non può pretendere anche di venderli. Se è molto intelligente,
questo è già un tale dono che non gli si può dare anche una cattedra
universitaria. Se è così sciocco abbia almeno un qualche compenso
nel vano mondo delle cariche, dei titoli e del prestigio. Se è così
brutto e solo, diamogli almeno un incarico di medico mentre la bella
ragazza troverà la sua strada anche senza una nomina al concorso.
E così via, questo modo di far giustizia da soli, per risarcimento di
un equilibrio che in natura non esiste, finisce per far proliferare una
selva intricata di privilegi, ingiustizie folli e incomprensibili,
corruzioni e anomalie senza rimedio, ottenendo l’esatto contrario
rispetto a quello, nei casi migliori, illusoriamente perseguito, e cioè
emendare le brutali e secche disparità della natura, mentre non si fa
che aggiungere crudeltà sociali a crudeltà naturali.
Da Hawthorne a Stevenson
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In La lettera scarlatta di Hawthorne c’è un’arte straordinaria nel
persuaderci come proprio l’innocenza sia perversa e come per essere
solidali e capire gli uomini sia necessaria una colpa.
Un tendenza al male latente può sempre affiorare all’improvviso
quando la situazione la risveglia. Proprio come in Stevenson, nei
Weir di Hermiston (Una famiglia di frontiera), che scrive: “in ciascuno di
noi dorme, finché un’occasione propizia non lo desta chiamandolo
all’azione, un nostro remoto antenato: un Barbarossa, un antico
Adamo.”
La natura di un uomo è in gran parte letargica e segreta finché
un’occasione non la risveglia e soltanto in quel caso (una violenza,
un rischio mortale, una scelta che mette in gioco tutto) scopri chi
sei. Ma è raro che accada, fuori dei romanzi, e per qualcuno non
giunge mai il momento della verità e così ci contentiamo di sospetti,
di tratti crudeli o pazzamente generosi che tralucono da spiragli e
restano opinabili e incerti.
Il che è quasi sempre un bene, se pensiamo come potremmo
scoprirci diversi e ingovernabili in una guerra o nella disoccupazione
o abbandonati da un giorno all’altro dalla donna che amiamo.
In Stevenson però, a differenza che in Hawthorne, sotto l’ala fatale e
grandiosa di un male intessuto nelle fibre di ciascuno, il coraggio,
l’onore, la lealtà imprimono una rotta nitida e innocente alle azioni
di coloro che sono dotati di una natura sincera e nobile, i quali
nettamente si staccano in qualunque circostanza dagli altri e
generosamente spandono la luce aristocratica della loro purezza,
sopra le onde del male e delle morbosità calviniste.
Non c’è un piano di bene, un finalismo provvidenziale che ci
garantisca ma proprio per questo non è né la religione né la morale
convenzionale bensì l’onore quella virtù anarchica e nativa che si
impone col suo candore avventuroso. Proprio perché: “Il mondo
non è fatto per noi, è stato creato per milioni di persone, tutte
diverse l’una dall’altra; e da noi; non c’è strada maestra, siamo
629
costretti a inerpicarci e a muoverci alla cieca.” (Weir di Hermiston,
Opinioni in tribunale)
Non vi si può certo parlare di allegoria, perché il senso palese è già
morale. Il male è del tutto immanente, al punto che si scopre una
strana relazione tra anima e corpo, nella quale non solo le malattie
fisiche dipendono dallo stato psichico ma addirittura rivelano qual è
lo stato degli organi psichici: “Infatti dovunque siano un cuore e un
intelletto, le malattie dell’organismo ne rispecchiano sempre lo stato
particolare” (La lettera scarlatta, IX, Il cerusico).
Hawthorne sa bene, e non si stupisce, che “molti personaggi di
eccezionale santità in ogni epoca del mondo cristiano, fossero
perseguitati o da Satana in persona o da qualche suo emissario” (IX).
Agenti diabolici che col permesso divino potevano tramare
nell’intimità di una persona.
I poteri del diavolo
È singolare però che molti uomini che non vanno mai a messa,
perché non sono credenti fin dall’adolescenza, avendo rimosso e
distaccato da sé il mondo religioso, continuino a sentire con
vividezza angosciante la presenza diabolica. Un mio amico incredulo
mi ha detto di aver patito un incubo in cui subiva il demonio e un
altro, che si tiene ben lontano dalle chiese, mi ha addirittura
confidato in tono cospirativo che secondo lui un suo amico è stato
ucciso dal diavolo.
E francamente non si comprende perché allora non si difendano
con la fede da un male che alla fede è simmetrico e opposto e che
solo per il credente ha senso.
Il diavolo esige una fede robusta.
Io non nomino mai il diavolo e già questa breve eccezione mi mette
a disagio. E questo grazie a un prete della mia infanzia, poi scappato
con gli arredi religiosi, che ci perseguitava con racconti di
scatenamenti diabolici ed esorcismi. Non so quante notti ho faticato
630
ad addormentarmi per paura che la mano del diavolo sfiorasse le
lenzuola e che un solo secondo di cedimento, tanto più facile a
occorrere nell’inermità prossima al sonno di un bambino, nel
dormiveglia in cui affiorano pensieri ingovernabili, mi consegnasse
a lui. E questo proprio in virtù della mia innocenza.
Da allora ho avuto talmente in odio la follia di una tentazione che
colpisce l’innocente, di una persecuzione che offende il santo, di una
macchia che ti imbratta per puro arbitrio, ho trovato talmente
morboso l’indugiare nei meandri di una superstizione feroce che
colpisce solo o di più le anime più sensibili, da credere le più ispirate
le parole di Francesco di Sales, il quale diceva che il diavolo non va
combattuto se non dimenticandosi che esiste.
Nel Padrenostro c’è una frase: “E non ci indurre in tentazione ma
liberaci dal male” che alcuni teologi vorrebbero tradurre in modo
più blando e rassicurante: “E non lasciare che il diavolo ci induca in
tentazione”. Quando invece è chiaro dai Vangeli che i diavoli, non
essendo divinità di pari grado vòlte al male, bensì rigorosamente
subordinate a Dio, non hanno mai facoltà d’intervento se non con il
lasciapassare di Dio il quale, per sue ragioni imperscrutabili, mette
alla prova i suoi prediletti.
Se il diavolo fosse indipendente da Dio, sarebbe invincibile e
scatenerebbe una guerra perenne e manichea, male ben peggiore di
quel minimo male a fin di bene nominato dai Vangeli, che invece
rende a Dio tutto il suo potere invincibile, tale da orientare il diavolo
soltanto contro uno che può reggerne la tentazione.
Il diavolo dipende sempre da Dio. Ma molti abbandonano Dio e
credono solo nel diavolo, nel senso che lo temono a ogni passo, e
finiscono così per servirlo a causa del terrore che ispira loro. E pur
non facendo un male grosso si corrompono per viltà e passività.
Che è la sciocchezza più grave che si possa fare.
Ma il Novecento ha scatenato un male così micidiale e così
palesemente nato dalla libertà umana che perfino alla chiesa è
sembrato francamente troppo sovraccaricare uomini così fragili,
provati, prostrati, sovraccaricati già in terra di mali di ogni genere
631
con uno specialista professionista del male sguinzagliato contro
credenti così deboli e malsicuri, che di sicuro li avrebbe volti, se
agitato come minaccia, verso sponde ancora più lontane dalla parola
di Dio. Ed è per questo che chi tutte le domeniche va a messa mi
riferisce che quasi mai si nomina questo nemico che Dio invia
soltanto, come dice Hawthorne in La lettera scarlatta, a “personaggi di
eccezionale santità,” che si fa fatica a trovare.
Il sentimento dell’onore
Il sentimento dell’onore non è legato solo ad una arcaica
antropologia mafiosa o camorrista ma neanche solo a una visione
aristocratica della vita, o a una borghesia imprenditoriale e
commerciale calvinista, ormai scomparsa ai livelli massimi della
ricchezza e del potere. Esiste anche un onore letterario, non certo
nel senso che i poeti sono stati costretti fino a qualche decennio fa a
duellare, e a giocarvisi, come nel caso di Puškin, la vita.
Intendo un onore che si misura e si esprime nell’opera, come in
Stevenson e in Conrad, sentimento che nel Novecento italiano
sopravvive più che in altri in Italo Calvino, autore da molti e
assurdamente giudicato freddo e inidoneo a cedere a qualunque
passione espressa, fin quasi a una cancellazione di tutto il corredo
romantico, dalla nostalgia al desiderio infinito, dal rimpianto al
rimorso, dalla paura alla passione amorosa sfrenata.
Ma se uno guarda dentro Calvino trova una parete di sesto grado
mentre a prima vista nei suoi romanzi e racconti compare una piana
stilistica e umana. Ma è appunto questa la parete di sesto grado e ci
vuole una chiara idea dell’onore sportivo, della letteratura come
scuola e autoscuola di vita alpinistica, per capirlo.
Da Stevenson a Conrad
Lo sguardo dal basso, fisicamente dal basso, del ragazzo dell’Isola del
tesoro è in realtà uno sguardo dall’alto, spiritualmente ispirato, se è
vero che soltanto chi è fisicamente pronto, agile, svelto, coraggioso,
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lo è anche in spirito, soprattutto perché il bene viene dal male, la
salvezza dalla disperazione e dalla follia, se sai fare la capriola al
momento giusto:
“A quelle parole provai un senso di disperazione perché mi sentivo
del tutto impotente. Eppure, per una strana concatenazione di
circostanze, proprio per mezzo mio venne la salvezza” (p. 84).
Oppure: “Non pensai, in quel momento, che nel frontino restavano
soltanto due uomini in grado di combattere; e questa fu la mia
seconda follia, di gran lunga peggiore alla prima; eppure, come la
prima, contribuì a salvare la spedizione anziché perderla” (p. 145).
La vitalità, la ferocia improvvisa, la simpatia, la forte doppiezza dei
pirati, trovano il loro effetto ma soprattutto il loro senso in virtù
della mancanza di ironia e di malignità, non solo della franchezza ma
proprio delle virtù messe in gioco.
Non c’è morale senza avventura, e quindi senza coraggio. Non c’è
morale se non agendo, rischiando, nell’aria viva.
Nei versi corali dedicati “All’incerto acquirente” Stevenson si rivolge
al “giovane che studia” e lo richiama agli antichi desideri avventurosi
della sua infanzia, confidando che le sue passioni non siano spente.
E altrimenti lasciamo pure i pirati riposare nelle fosse.
I termini tecnici nautici e gergali (castello di prua, acquata, mettersi
alla cappa, abbattere in carena, abbasso e arriva, ombrinali, boma,
bozzelli, paterazzi) e infiniti altri sono parte integrante della morale
concreta messa in atto. Tu devi sapere i nomi esatti degli strumenti
che usi, perché nominandoli li possiedi, e delle operazioni che devi
compiere, perché il tuo lavoro si lega a quello degli altri.
Vero è che Conrad non è così nitido come Stevenson nella coerente
difesa dell’onore, che sintetizza nello scrittore scozzese tutte le virtù
e le gioie della vita. Ma non è neanche, come Hawthorne, così
terribilmente e cupamente democratico nell’accomunarci in un male
dal quale solo, con uno sforzo morale e intellettuale senza pari,
possiamo sollevarci.
633
Se leggiamo infatti Al limite estremo ci imbattiamo nel capitano
Whalley che ha “una illimitata fiducia in una divina giustizia resa in
terra ai sentimenti degli uomini” (XIV). Sopporta un rovescio
economico del quale non è responsabile con dignità, dedicando ogni
sua energia ad aiutare la figlia indigente. Ma proprio per far questo
rinuncia all’onore pubblico, quello che spinge al duello o alla
camorra, perché il mitico comandante che ha dato il suo nome a
un’isola, si degrada fino a pilotare una imbarcazione miserabile di
proprietà di un ex macchinista, astioso e inaffidabile.
Diventa cieco e, proprio quando sta per compiere l’ultimo viaggio,
che gli consentirà di dare alla figlia cinquecento sterline, l’armatore,
non avendo i soldi per cambiare le caldaie marce, provoca un
naufragio, deformando la bussola con un pezzo di ferro dolce.
L’uomo d’onore, proprio mentre la cecità si fa totale, vede la realtà
delle cose e, mentre tutti si salvano, si lascia morire con la nave.
Attraverso Conrad
Nell’aristocratico Stevenson l’onore è vittorioso, nel democratico
Conrad si paga con la morte. Ma cosa vuol dire, di fronte al male,
aristocratico o democratico? L’ho già detto. Aristocratico vuol dire
che l’onore può vincere, democratico che può soltanto perdere.
L’antica teoria socratica del male fatto per ignoranza, confliggente
con la visione cristiana per la quale si fa per cattiva volontà, percorre
tutta la letteratura anglosassone e americana dalle origini del
romanzo. Non è un caso che Socrate sia un personaggio familiare da
Fielding fino al platonista biblico nel Pequod, Melville. E infatti
Whalley è sicuro “che gli uomini si facevano del male a vicenda
soprattutto per ignoranza” (Al limite estremo, XII) e tuttavia,
soluzione da narratore, è altrettanto cosciente che sviluppare il
senno è un’impresa improba.
Di volontà cattiva non si parla ma per cadere in un vicolo cieco
perché l’ignoranza, che a prima vista sembra la più emendabile, è
invece la condizione più inestirpabile e invincibile, dal che si evince
la sapienza del cristianesimo nel puntare sulla volontà e il carattere
634
aristocratico della teoria socratica, fatta per spiriti liberi, per antichi
greci, o per quegli scrittori, come Stevenson, che sono greci dell’età
moderna.
Si potrebbe dire che il capitano, non dicendo a nessuno di essere
cieco, ha contravvenuto all’etica marinara e all’obbligo morale della
sincerità, ma l’ha fatto per il bene della figlia. L’onore di Conrad non
nasce dal conflitto tra egoismo e giustizia, come in Stevenson, ma da
quello tra giustizia e amore, ben più terribile.
Cuore di tenebra è un romanzo breve che ha avuto una gran fortuna,
grazie anche al film di Frank Coppola, ma non è dei migliori di
Conrad. Questo viaggio all’indietro verso i primordi della natura è
l’intuizione potente che regge la storia. Tutto è come dovrebbe
essere eppure l’effetto è manierato.
Ciò che non va è il rapporto tra l’autore e il suo protagonista.
Conrad non riesce a renderlo non dico simpatico ma pronto al
travaso nel suo corpo del lettore. Ne mette in luce la resistenza
passiva, che dovrebbe renderlo umano, lo fa aspirare a una
conoscenza della vita, che sublima in lui ogni ambizione di azione e
di forza, ma cade nel paradosso di doverlo rendere invulnerabile
quanto l’autore stesso, mentre è in mezzo a una foresta e minacciato
da uomini violenti. Deve costringerlo all’azione per non farlo
diventare insignificante ma senza mai lesionarlo, perché possa
continuare la storia.
Se il narratore è uno spettatore imparziale al sicuro, come in Con gli
occhi dell’occidente (1911) tutto fila splendidamente ma se è cacciato egli
stesso dentro i rischi di una natura primordiale fa la figura del pesce
in barile.
Come fargli fare una bella figura? Rendendolo all’improvviso un
eroe, come quando gli indigeni attaccano il battello, ma la
metamorfosi suona improbabile.
Rendendolo il corifeo di una visione etica, un testimone di giustizia.
Ma allora dovrà sopravvivere per forza, essere invulnerabile, senza
però poter vincere, perché il tutto non diventi edificante, diventando
635
così un testimone secondario. Nel mondo vincono il caos e
l’ingiustizia, come nella grande letteratura, ma la fiammella della
giustizia deve sopravvivere in qualche animo.
Kartz, lo spregiudicato cercatore d’avorio, viene adorato dai
selvaggi; egli incarna l’azione pura, un misto indistricabile di bene e
di male, perché la distinzione è possibile solo a chi guarda e non
agisce. Figura troppo carica di una vitalità sfrenata e tormentosa, che
regge quella che un tempo si chiamava la struttura, l’architettura, del
libro. Ma è costruzione ingegneristica: si è messo un peso proprio al
bordo del braccio di una leva quindi se ne deve mettere un altro
all’opposto. C’è un equilibrio di estremi, perciò poco verosimile.
Il narratore deve al contempo reggere il peso immane di Kartz e
tenersi indietro. Non rimpiange mai egli la precedente vita, immerso
nel campo d’azione assoluto di un altro, di un uomo primordiale
tornato alla natura nuda e cruda? Gli basta soltanto conoscere,
nonostante i continui pericoli di morte e di malattia?
Se ne ricava che l’uomo della conoscenza sia costretto a starsene a
casa o a contemplare la battaglia dall’alto di un poggio perché,
entrato nel campo magnetico di Kartz, non durerebbe un giorno. E
se vuole tuffarsi nei terribili primordi deve perlomeno trovarsi un
autore che lo renda invulnerabile.
Dopo aver letto Linea d’ombra bisogna inchinarsi tre volte e non c’è
nessuna voglia di studiarlo e articolare un discorso esplicativo. Ci
sono romanzi che si vivono e basta, che continuano ad agire in noi
come persone decisive, come incontri illuminanti. Libri sui quali
sarebbe offensivo scrivere un saggio critico.
Mi limito a citare con riverenza una sola frase, leggendo la quale
qualunque editore che abbia un po’ di sale dovrebbe dire: Lo
pubblico, qualunque cosa abbia scritto dopo:
“Il caldo dell’Oriente tropicale calava di tra i rami fronzuti,
avvolgendomisi al corpo, sotto gli abiti leggeri, e aderendo alla mia
ribelle insoddisfazione, come a frodarla della sua libertà” (I).
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Con gli occhi dell’Occidente, nonostante si imbarchi nel mezzo come
capita in quasi tutti i romanzi, anche di legno buono come questo, è
ricco di queste frasi che ci sussurrano: Sceglilo!
“Le cose più improbabili hanno un potere segreto sui pensieri di un
individuo – le fedine grigie di un certo individuo – gli occhi
sporgenti di un altro” (II, p. 58).
E notiamo la finezza di questa osservazione, che trova la sua
efficacia nel gioco tra il tono da cronaca e la carica poetante
dell’immaginazione: “La luce che entrava dalla finestra pareva
stranamente tetra, sprovvista di promesse come invece dovrebbe
essere per un giovane la luce d’ogni nuovo giorno” (p. 65).
Il fatto caratteristico è che questo fenomeno non è proprio soltanto
dell’infanzia, in cui si scatena in modo irresistibile e, più che adulti,
uomini e donne siamo colpiti da occhi, mani, capelli, nei, ginocchi.
Ma perdura con gli anni, benché più celato, e per questo forse
ancora più forte e influente.
Se vogliamo definire la differenza principale tra il romanzo
contemporaneo e quello dell’Ottocento, è la scomparsa completa
della drammaturgia morale e legata all’onore come molla potente
della narrazione. Ma in questo modo si cade o nel minimalismo
sensoriale e quotidiano o nel truculento scatenarsi di perversioni. O
nel raccontare per raccontare, cioè per incantare, cioè per
imbambolare.
Lo dice chiaramente Conrad, sempre in Under Western Eyes: “Il
compito in verità non consiste nello scrivere in forma narrativa il
précis di uno strano documento umano, ma nel rendere – me ne
accorgo ora chiaramente – le condizioni morali che dominano una
vasta porzione della superficie di questa terra;” (III, p. 64).
Per questo scopo bisogna trovare una parola chiave, “per
contribuire a quella scoperta morale che dovrebbe essere l’obiettivo
di ogni racconto”. E questa parola è: cinismo. Senza questa parolachiave non si scrive un romanzo e non si contribuisce in modo
efficace alla conoscenza degli uomini.
637
C’è un’altra parola chiave però nella sua opera, che si chiama destino,
che diventa imbattibile quando si incorpora in qualcuno. Allora “gli
avvenimenti mossi dall’umana follia si congiungono in una sequela
che nessuna sagacia può prevedere e nessun coraggio infrangere. Il
destino vi entra in camera mentre la padrona di casa volta le spalle;
voi rincasate e lo trovate insediato con un nome d’uomo, con un
involucro di carne – con indosso un cappotto di panno marrone e
gli stivaloni – appoggiato contro la stufa. Vi chiede: È chiusa la
porta d’ingresso? – e voi non avete l’accortezza di prenderlo per la
gola e scaraventarlo giù per le scale” (p. 78).
Può un essere umano essere per noi irreversibile, incarnare un
destino?
Secondo Conrad c’è una “logica secolare dello sviluppo umano”,
che viene disprezzata dagli utopisti violenti, dai terroristi (p. 88).
E cosa ci dice questa logica? “Nulla si cambia in questo mondo
d’uomini – né la felicità né la sventura. Le quali si possono solo
mutar di posto a prezzo di coscienze corrotte e di vite spezzate –
futile gioco di filosofi arroganti e di sanguinari perdigiorno” (p. 230).
“Ricordate, Razumov, che le donne, i bambini e i rivoluzionari
odiano l’ironia, che è la negazione d’ogni istinto redentore, d’ogni
fede, d’ogni dedizione, d’ogni azione” (p. 245).
Come sono i russi per Conrad? “Questa tendenza a togliere ogni
problema dal piano del comprensibile per mezzo d’una qualche
formulazione mistica, è molto russa.”
E ancora: “È peculiare della natura dei russi che, per quanto
fortemente impegnati nel dramma di un’azione, non cessano di
tendere l’orecchio al mormorio delle idee astratte” (p. 258).
Henry James
638
Henry James invece scrive in uno dei suo racconti migliori di una
donna: “è irritante come un racconto morale” (L’allievo, o Il pupillo,
p. 86).
I suoi libri sono raffinati trattati di psicologia (come Piazza
Washington, col personaggio riuscito di Caterina), e da vero amico
delle donne, ma questo dogma della sensibilità, questa fluttuazione
ambigua che coinvolge anche il narratore, che è anche e sempre
personaggio, lo fa restare sulla soglia di tutto, per esempio del sesso.
“Quella dote che hanno le donne, quando le appassiona qualcosa, di
scoprire negli altri cose che essi stessi non riescono a scoprire. I
nervi, i sensi, la fantasia delle donne sono autentici organi conduttori
e rivelatori” (La bestia nella giungla, p. 163).
La donna in lui è Sibilla, come in Kafka, sa ciò che gli uomini non
sanno (La bestia nella giungla), mentre gli uomini vedono compiersi il
destino nel mentre lo si cerca.
Per i maschi il presagio insorge quando il fatto c’è già.
La discrezione è il deus ex machina di Henry James. Tutto questo
riserbo è il suo codice retorico, il suo autoritratto e il suo limite
letterario, anch’esso vibrante.
Proprio degli autori anglosassoni, da Edward Morgan Forster a
Virginia Woolf, è proprio questo uso sovversivo della discrezione,
dell’ironia, del sottotono, della compostezza, tipiche della loro
cultura e classe, in modo che detti e temi spregiudicati e
anticonformisti vengono pronunciati e svolti con lo stile della
reticenza aristocratica e salottiera.
Le convenzioni angloamericane di fine Ottocento coincidono, per
esempio nel Roderick Hudson di Henry James, con la tecnica del
romanzo: il ritegno, il non detto, il rimando, l’allusione, il non far
dramma. L’ironia wasp è un sovratono extraletterario, come una
frigidezza colta nei personaggi femminili, come Cecilia. La stessa
auto repressione sessuale diventa una tecnica per creare suspense.
639
Gli inglesi di fine Ottocento si eccitavano con la frigidezza, in
quanto tesoro di calma in grado di nascondere e contenere l’eros,
senza rinunciare a godere ma senza neanche creare disordine.
Le inglesi, come tutte le donne, ma ancora di più, sanno già molto
degli altri prima di incontrali. I rapporti con le persone preesistono
all’incontro. Ciò che si dice allude a ciò che chi si incontra sa già da
sempre dell’altro.
Se dicessimo che Henry James risente del formalismo del suo ceto e
del suo tempo saremmo del tutto fuori strada. Il suo modo di
raccontare libera i possibili, con un genio, cioè un ingenium,
psicologico originale.
Perché il terribile gioco riesca bisogna reggere la parte fino in fondo,
con una parodia così seria da rendere l’aria satura di tensione e di
allarme, perché i toni e i modi candidati alla pace e alla sicurezza
nella conversazione borghese sprigionano una carica rivoluzionaria o
una violenza critica inaudita e insopportabile nel loro mimetismo
con le forme della buona e pudica società.
Per quanto voglia restare distaccato il narratore, l’io narrante,
insomma Henry James diventa imbarazzato, inibito e snob,
soprattutto in Greville Fane nel quale la perplessità infinita delle
emozioni, la vibrazione a oltranza dei sentimenti fa l’effetto di
irresolutezza.
L’indecidibilità della vita rende indeciso il protagonista, che diventa
comico o patetico.
La natura per Henry James non esiste e le cose non le vede neanche.
Tutto è psichico.
Camera con vista
In Camera con vista (1908) una comitiva di inglesi snob viene in
un’Italia dove esiste una povera gente stereotipata, in uno scenario
640
senza società dove ammirano opere d’arte nate dal nulla. E siamo a
Firenze!
Il pellicolare nichilismo combinato con la soda abitudine del
comfort e la rendita vissuta passivamente della civiltà inglese rende i
loro commenti sempre oscillanti tra profonde attitudini
all’ambivalenza delle cose umane, nel solito gioco tra Nord europeo
e mediterraneo italico, del tutto frainteso e incompreso, e luoghi
comuni da vecchie zitelle ottuse, per le quali Forster ha un’attrazione
perversa.
L’Italia esercita naturalmente una malia perniciosa per la sua bellezza
artistica e naturale e per i suoi contrasti, se a Santa Croce tre papisti,
come li chiama lo scrittore riformato, si aspersero le dita con l’acqua
benedetta per poi andare a salutare Machiavelli nel monumento
funebre.
Naturalmente Henry James gli è di molto superiore, anche nel
comprendere, e nel generare, la polarità tra Nord e Sud, se questa è
l’Italia di Forster: “la vita intera del Sud era sconvolta e la nazione
più amena d’Europa si era trasformata in un’informe congerie di
tinte. La strada e il fiume erano d’un giallo sporco, il ponte d’un
grigio sporco e le colline di un purpureo (!) sporco”.
L’occhio fotografico di Forster sulla Firenze del primo Novecento è
praticamente inutilizzabile, benché non manchino flash: La sua
cronaca di costume ristagna. Scrive sdraiato e ogni tanto si eccita
parlando di cose che vede solo lui: “Firenze, una città magica, dove
la gente faceva e pensava le cose più stravaganti”. E addirittura dice
che “in Italia chiunque ne abbia voglia può godersi il tepore
dell’uguaglianza come quello del sole”.
Come questi libri sono fuori tempo massimo, perché non hanno
voluto mai veramente gareggiare, convinti di aver già vinto prima. E
parliamo di uno scrittore vero e proprio, di uno stilista e acrobata
del giudizio sornione e articolato in una ragna, in passaggi intramati
di scale di coscienza e di gradini, vero romanziere dei luoghi comuni,
di idee e sentimenti, sofisticatamente sfaccettati e orchestrati.
641
Allontanàti da noi anche dalla fine della cotta dei critici, dei
traduttori e dei lettori italici, degli anni Settanta e Ottanta, per lo
spirito aristocratico e, più che morboso, parassitario, fungaceo,
soprofitico, degli anglosassoni “ricchi, affabili, con identici interessi
e identiche inimicizie”, formanti una cerchia eletta che si difende
dalla “miseria e dalla volgarità che tentavano perennemente
d’invaderla”, polarizzati dal Sud.
Per capire una città, una nazione, giova essere straniero, ma a
condizione di non portarti sempre dietro e sopra la tua come un
guscio di tartaruga di lusso alla Forster, troppo lento per capire
l’Italia di allora.
A lui infatti interessa in realtà capire l’Inghilterra e usa l’Italia come
strumento. Vuole sprofondare fino in fondo nella potenza e nella
superiorità civile dell’Inghilterra e nella sua impotenza e inferiorità,
incorporando fino all’ultima stilla, comprese le gloriose e disperanti
zitelle inglesi (ottimo personaggio la signorina Bartlett), l’anima
antropologica del suo popolo. Con una punta di masochismo, molta
fierezza mista a disincanto, e comunque con un’attitudine virile e
sportiva molto meno decadente e snob che non a prima vista,
molto più risoluta e determinata a capire, come si vede quando il
romanzo, dopo le prime sbarellanti ottanta pagine, entra nella
partita.
La camera è fiorentina ma la vista è dall’Inghilterra.
Il limite di Forster, che è anche la sua grandezza, è che pretende di
giocare tutta la partita da solo, senza l’avversario reale. È uno dei
primi scrittori da videogioco, da gioco di ruolo. Ma la partita la gioca
tutta fino in fondo.
Ed ecco un passo che potrebbe essere nel Gattopardo: “Il sole
continuava a salire nel suo itinerario, non guidato da Fetonte ma da
Apollo, competente, indefettibile, divino” (p. 187), tranne per quel
“competente” che dice tutto sull’ironia con ferita della sua prosa. E
del resto Forster amò Tomasi di Lampedusa, condividendo con lui
anche la passione per la sirena, alla quale entrambi dedicarono un
omaggio.
642
Contadini di Volponi e di Steinbeck
Quando Paolo Volponi decide di raccontare la visione filosofica di
un contadino marchigiano negli anni Cinquanta, nel romanzo La
macchina mondiale, egli dà per scontato che venga visto da tutti come
un matto. La sua donna, il proprietario terreno, la chiesa, tutte le
istituzioni con le quali ha a che fare non considerano la possibilità
che un contadino pensi, se non con l’astuzia di chi sa fare i suoi
piccoli affari.
E la sua rovina, ostinandosi a pensare a oltranza e de-lirando, cioè
uscendo dalla lira, cioè dal solco tracciato dall’aratro, è certa e atroce.
Quando John Steinbeck decide di raccontare la storia di un
contadino americano degli anni Trenta, in Al dio sconosciuto, invece
può dipingerlo come un gigante spirituale, con una visione panica e
poderosa della natura, un suo Dio personale altrettanto vigoroso e
poetico, un’energia mitologica da far rabbrividire dalla vergogna
qualunque accartocciato fumatore all’ultimo piano di un grattacielo
di New York.
La potenza del contadino epico sta nel non pensiero: “La vita
tornava a fluire nella campagna, e il movimento, non più frenato dal
pensiero, tornò a risorgere” (175). Nella capacità di comprendere il
dolore nel piacere: “Il lungo fiume del dolore è stato sviato e
assorbito da me, il dolore che è soltanto un pallido piacere è
estirpato in un attimo” (p. 176); nella percezione delle forze
telluriche: “Un solido ronzio usciva dalla terra, e pareva una protesta
contro l’intollerabile sole” (p.184), con toni che sembrano rubati a
Nietzsche: “Al diavolo la mia anima! Vi dico che la terra sta
morendo. Pregate per la terra!” (p. 222), fino al sacrificio pagano:
“poi il suo corpo si fece pioggia torrenziale (p. 230).
Il risultato è un libro di gran potenza, scritto con la capacità di
godere con forza proprio immaginando e scrivendo. Quello che da
noi sarebbe diventato dannunziano, da loro diventa sano, vitale ed
epico.
643
Uno scrittore italiano è costretto a immaginarsi il ghigno ironico e
la smorfia scettica del supponente lettore colto, sfaccendato,
sarcastico, pigro e sterile, pronto a deridere, a irridere, a offendere.
Mentre lo scrittore americano può ancora attendersi l’ingenuo,
vigoroso, solidale ascolto di un lettore capace di immaginare ed
emozionarsi insieme a lui.
Montale ha davvero tradotto Al dio sconosciuto? O lo ha solo
disseminato di montalismi, come i seguenti: “la vita di un uomo è
come il commuoversi di uno stagno tranquillo, a piccole onde,
prima di placarsi nell’ultimo riposo” (p. 173) (che rimanda al
“commuoversi dell’eterno grembo”): “Gli arsi alberi dell’alloro
viziavano l’aria, stille di dolce e pesante sugo ribollivano dagli
spinosi sacròbati” (p. 183); si spingeva a cavallo sulle “colline
abbrustolite” (p. 208).
Tra i tanti accademici detective si potrebbe lanciare un concorso: a)
cercate tutti i montalismi nella traduzione di Steinbeck; b)
dimostrare che la Rodocanachi, o chi per lei, non li ha introdotti per
costruire un falso più attendibile; c) fare dell’ironia sulle abitudini
corrotte dei letterati del tempo, che davano il nome per traduzioni
fatte da altri e prendevano i soldi loro, ma senza infierire con toni
sdegnati (che segnalano il dilettante); d) dopo aver fatto esercitare le
migliori menti filologiche su un esame agguerrito dei testi, tirate
fuori l’originale della traduzione manoscritta dalla vera traduttrice,
con gli interventi a penna di Montale; e) non deridere le numerose
sciocchezze dette dai più illustri letterati per esercizio intellettuale,
bensì scherzarci sopra, con colpi di fioretto che segnalino la vostra
conoscenza della scherma senza ferire nessuno, e comunque non i
più potenti.
Nel mondo accademico fino a qualche decennio fa si dava ancora a
qualcuno del coglione o almeno le sciocchezze venivano chiamate
sciocchezze. Adesso se uno scrive dell’influsso di uno scrittore su un
altro che non soltanto non l’ha mai letto ma è vissuto un secolo
prima, si parla di citazione raffinata di Borges.
Le lettrici
644
Il pubblico femminile è quello che decreta la classifica dei libri più
venduti, un pubblico che è attentissimo alle molestie sessuali anche
minime e virtuali, come nel caso recente di un giudice che si è vista
rovinata la carriera perché si è sistemato il fagotto a causa di un
erpes in presenza di due donne, che l’hanno immediatamente
denunciato.
Ma è disponibilissimo a frasi abbindolare da scrittori compiacenti e
adulatori, che la corteggiano nel modo più falso e smaccato, per un
profondo e latente e soffocato desiderio di certe donne di essere
lusingate, sedotte e perfino clamorosamente ingannate nell’intimità
della loro camera, lontano dagli sguardi di tutti e senza pagarne
nessuna conseguenza sociale.
Ci vuole coraggio per essere una buona lettrice. E parlo delle donne
perché soltanto da loro potrà nascere un pubblico nuovo: gli uomini
cambiamo con molta maggiore lentezza.
L’asceta mortifica la donna
È esperienza comune che quando hai un desiderio di purezza,
accentuato per esempio dall’amore per una persona, per cui vorresti
essere sempre nobile, casto, immacolato per offrirti a lei nella
disposizione migliore, sei perseguitato, quando esageri fino alla
mania, da pensieri aggressivi o morbosi o dissacratori, e sei visitato
dal bisogno compulsivo di trovare stupida o brutta o cattiva, o di
colpire, ferire, immaginare morta, proprio la donna che ami.
Allo stesso modo capita a chi procede per un cammino di ascesi,
mortificazione, umiltà, verginità, che è perseguitato da desideri di
piacere, anche trasgressivi, oltranzisti, violenti, superbi, fino a
pulsioni contronatura, a blasfemie, a immaginazioni maligne.
È naturale quindi, perché inevitabile, che i religiosi, soprattutto le
donne, ossesse dalla purezza, siano tormentate da visitazioni
diaboliche immaginarie.
645
Se le stesse donne amassero in modo esagerato la ricerca scientifica,
passando giorni e notti in laboratorio, sarebbero perseguitate dalla
pulsione a infettarsi, a truccare i processi chimici, ad avvelenare
qualcuno.
La psicoanalisi ha messo in luce in modo talmente chiaro lo
scatenarsi crudelmente ironico di una natura repressa che ogni
fantasia demoniaca ci appare forte nella suora solo perché è immersa
in un contesto religioso mentre, se quella donna fosse una sportiva
che ammira il suo allenatore, sarebbe perseguitata da fantasie
distruttive, atte a intaccare l’oggetto della sua devozione, giocando
male a posta e boicottando la squadra, non perché perda ma per
scatenare la pulsione opposta a quella sua dominante.
Cristo viene tentato non già a Gerusalemme bensì nel deserto, nel
corso del suo lungo digiuno, cioè nel suo cammino più arduo di
purificazione, nel suo sacrificio più duro e severo.
L’amore va educato fino a che l’incidenza del male diventa innocua.
Troppo amore è un amore falsato e deformante, che la natura ci
segnala con i suoi efficaci sistemi immunitari.
Un bel viaggio all’estero
Il viaggio all’estero fa quasi sempre l’effetto di riaffezionarci ai nostri
connazionali e di prendere a riamare la nostra nazione d’origine, sia
col confronto dei mali delle altre che, vedendo da vicino, smettiamo
di minimizzare, idealizzandone i pregi, sia per una naturale nostalgia
sensoriale che ci fa desiderare il ritorno perché le abitudini, anche
dei mali, sono dolci. All’estero la nostra patria sembra sempre
chissacché.
Jonathan Swift nei Viaggi di Gulliver non si fa per niente corrompere
da questa reazione istintiva e spoetizza con secchezza il mito del
ritorno sentimentale. Lascia infatti che un personaggio di
Brobdigngnag, nel secondo viaggio (VI), tragga questa idea dalle
parole e dai comportamenti di Gulliver: “Non posso far altro che
considerare la maggior parte dei tuoi compatrioti la razza più
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perniciosa di vermiciattoli detestabili a cui la natura abbia permesso
di strisciare sulla faccia della terra”. Gente che, con la scusa di
portare “la nostra religione e la nostra civiltà ad un popolo barbaro e
idolatra”, impiega per la missione “una banda di macellai”.
Ecco in che modo la letteratura tiene salda la sua forza morale
spregiudicata. Leggo nelle ultime pagine di uno dei libri di più
rigorosa e ricca immaginazione: “Scrivo per il più nobile degli scopi,
che è quello di informare e istruire il prossimo”. Il che benissimo si
concilia col divertimento avventuroso perché un uomo sincero,
coraggioso ed equo se lo merita.
Ci possono essere tanti motori narrativi in un romanzo. Nel Joseph
Andrews di Fielding è il denaro, ovvero la sua mancanza, che mette
in moto l’azione.
Fessure di Eden
I ragazzi hanno gli stessi sentimenti di invidia, gelosia, ambizione,
competizione, paura, aggressività che abbiamo noi ma, essendo la
loro natura più trasparente, essi affiorano facilmente e li rendono
più spontanei e perdonabili. Non solo, li denudano e li espongono
sotto gli occhi di tutti, non avendo ancora imparato a mascherarli, e
quindi più facilmente saranno inclini a vergognarsi di questo
continuo denudamento emotivo, che non sanno governare, e
dell’esposizione pubblica di emozioni e stati che disapprovano ma
che insorgono contro la loro volontà. Mentre noi adulti, sapendo
come occultarli, anche in virtù della loro forza minore o più voluta,
più fredda e calcolata, ci abbandoniamo nel segreto più lungamente
e ostinatamente a essi, tradendoci solo e infallibilmente quando
perdurano molto a lungo dentro di noi.
Essendo impossibile non provarli, siamo costretti a troncarli con
distrazioni, ad alternarli, a distrarci da un vizio con un altro, in modo
che, provandoli tutti a turno, non lasceremo che sgorghino a
tradimento con un lapsus o una frase sintomatica.
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Io credo ci sia un paradiso degli animali e che forse convivremo
insieme, finalmente riuscendo a parlarci con i loro e i nostri versi,
con i loro e i nostri sguardi e gesti, e persino le piante potranno
dialogare non già soltanto tra loro, come già fanno, ma anche con
noi, che intuiamo solo la loro ricchezza, forse chissà, più viva della
nostra, e capiremo la loro decisione di radicarsi e frondeggiare come
capiremo la scioltezza con la quale i gatti snobbano i nostri spesso
vani ansie e capricci.
Di questo paradiso animale possiamo cogliere già qualche spiraglio,
momenti di armonia brevissimi ma che possono reggere giorni e
mesi di tensioni stonate e di rumori affannosi.
15 dicembre
Meno abbiamo le parole più viviamo
Quando viviamo più intensamente, cioè da bambini, da ragazzi, da
giovani non abbiamo le parole per pensare e per dire a noi stessi
quello che stiamo vivendo, sicché il sangue non coagula e
spumeggiando ci porta a mescolare realtà e sentimento, mondo
fisico e mondo visionario. Proviamo qualcosa di forte che non ha
nome e che non usa il nostro linguaggio, col quale non si può
interloquire né trasporre su un piano verbale e ragionato. Le
esperienze si scatenano e si smorzano senza che possiamo trarne un
succo vitale, sballottati dalle acque e tranquillati quando esse
decidono di calmarsi, per ragioni altrettanto misteriose.
Amiamo una donna che non conosciamo minimamente e ci
mettiamo in sua balia, ed è un puro caso che non si riveli per noi
una calamità. Ci inoltriamo in una città che ci succhia tutte le
emozioni, in un trapasso di immagini e di forme che ci scuotono e ci
scuotono. Frequentiamo persone che ci travolgono a onde violente
e innominabili.
Quando finalmente abbiamo le parole e sappiamo cosa sta
accadendo nella testa degli altri, sappiamo, dico, quasi
statisticamente, più che per una penetrazione individuale, ecco che
l’impeto dei sentimenti e delle emozioni si è spento e il governo
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della situazione felpa e insonorizza la vita fino a renderla
insignificante.
Gli atti di fiducia sono allora i gesti più incoscienti che possiamo
compiere e, appunto statisticamente, avventurosi, ma sono i soli che
possano rimettere in moto la vita.
16 dicembre
Gli auguri natalizi
Gli auguri natalizi, per essere non dico sentiti, ma effettivi, devono
essere scomodi: scrivere un biglietto, imbucare una busta, telefonare
spezzando il filo dei tuoi pensieri o non pensieri. Sempre più è
invalsa la moda invece di spedire gli stessi auguri a una mailing list.
Così tu compi un unico gesto per riceverne cento. Le istituzioni
gettano un’esca collettiva per raccogliere qualche pesce più ingenuo.
Ma auguri fatti a tutti sono fatti a nessuno e alla fine accentuano il
senso di impersonalità dell’affetto natalizio.
17 dicembre
Il romanzo giornalistico mondiale
Apri un giornale e ti affacci da un pozzo a guardare l’acqua
profonda e iridescente dove eventi e fatterelli di tutto il mondo
ruotano in un caleidoscopio. Devi tenerti stretto per non caderci
dentro e, quando sollevi la testa e rimetti la tavola sulla vèra, tiri un
sospiro di sollievo: Sono salvo, era tutto un incubo.
Il romanzo giornalistico mondiale, scritto ogni giorno, un film
globale raccontato da milioni di giornalisti, un’unica opera in cui
tutte le vicende umane considerate importanti si susseguono a
vicenda velocemente, cancellandosi a vicenda, accelerando durante
le feste natalizie, attraversando il Natale con un surfing ambiguo tra
bontà improvvisata, disperazione celata e piacere depurato e
dolcificato, per culminare nell’orgasmo dell’ultimo-primo dell’anno,
649
spruzzato di tutti i colori e i desideri morti, verniciato con smalti
lucenti, riempito di smanie e di convulsioni di euforie video-giocate,
e infine stuprato pubblicamente e festosamente in un oceano di
spuma e cioccolata, tra risate, abbracci, eccitazioni e picchi glicemici
che si spengono in dormite grasse e di colpo silenziose di miliardi di
umani in metà del globo mentre l’altra metà impazza, per risorgere
tutti a questa stessa vita, esattamente identica a come l’abbiamo
lasciata l’anno precedente, ma con i files della noia e della
disperazione resettati per qualche ora o giorno.
I giornalisti hanno il compito di cercare le notizie, verificarle,
selezionarle e comunicarle, stabilendo una gerarchia d’importanza e
di valore. Così in astratto. Nella realtà essi ci raccontano la vita che
conoscono di seconda e terza mano, esonerandosi da ogni criterio
rigoroso di rispondenza ai fatti, trasfigurando, intrattenendo,
eccitando le emozioni, stuzzicando gli appetiti, pilotando le reazioni,
indirizzando l’opinione pubblica, servendo un uomo o un’idea di
potere, comunque trasfigurando la realtà con l’arte giornalistica, con
l’affabulazione indefinita. Come esistono le parafarmacie, cioè le
farmacie per le persone sane, così esiste la paraletteratura, cioè la
letteratura per le persone malate.
Se qualcuno obietta che quanto dicono loro giornalisti non è vero,
rispondono che loro ci raccontano una storia giorno per giorno e
che ci vuole troppo tempo per la verità. I quotidiani dovrebbero
allora uscire una volta l’anno, e ciascuno vede come ciò sia
impossibile.
In luogo di un’impossibile verità sintetica annuale, nei rari casi in cui
si riesce a perseguirla, dobbiamo contentarci di una verità analitica
quotidiana spezzettata e frammentata all’infinito, che verrà
contraddetta da altre verità del giorno dopo, altrettanto spezzettate e
parziali, ciascun frammento essendo vero finché non viene ancora
scomposto o incollato a un altro, il che farà variare la sua verità, in
combinazioni infinite che rendono possibile la stampa di centinaia di
pagine ogni giorno, che la sera finiscono nella raccolta di carta
differenziata, in una miniaturizzazione della vita mondiale e della
morte mondiale nell’arco di ventiquattro ore.
650
Perché non pubblicare in un quotidiano la sintesi ragionata di una
vicenda che si snoda nei giorni o nei mesi, la conferenza di
Copenhagen per disinquinare l’atmosfera o la guerra in Afghanistan,
per far capire ciò che accade giorno per giorno? Risposta: perché
sarebbe come stampare una dieta nel menù di un ristorante.
Il mondo ogni giorno nasce matura invecchia e muore nel giornale,
dando spettacolo di sé ad ogni fase, per rinascere da capo il giorno
dopo e intatto, in un rito laico, in cui non conta nulla il contenuto
effimero delle notizie ma solo il gesto vitale di inghiottire,
consumare, cacare e ricominciare a mangiare il giorno dopo il
mondo.
Il quotidiano come alimento cartaceo e parolaceo naturale. Proteine,
vitamine, carboidrati e parole costituiscono una dieta indispensabile
per essere ogni giorno al mondo.
La televisione non solo ha i suoi tribunali con le sue leggi, la sua
costituzione non scritta, il suo governo non eletto, non solo è uno
stato a sé, non solo ha anche una sua logica, con una sua tavola del
vero e del falso, una sua retorica, col suo linguaggio, con le sue
regole della menzogna e della sincerità, del tutto diverse da quelle del
mondo di fuori, ma ha anche i suoi tempi, i suoi spazi, le sue leggi
fisiche, con le sue trasformazioni del tridimensionale nel piatto. La
televisione non solo è uno stato a sé, è anche un mondo fisico a sé.
Gulliver oggi farebbe un viaggio nell’isola della televisione.
In Cristo
Il Natale non è la commemorazione annuale della nascita di Cristo
ma una scossa augurale, una festa propiziatoria perché Cristo nasca
oggi nel cuore degli uomini.
Ogni giorno è Natale. Che si fissi il 25 dicembre, come nel culto di
Mitra, viene incontro alla grande passione collettiva per il ciclo, che
trasforma il tempo in una circonferenza che ritorna sempre al punto
651
di partenza, attingendo al paganesimo antico. Versione umana,
troppo umana.
La circonferenza non è un punto ingrandito al microscopio e il
punto non è una circonferenza rimpicciolita al minimo grado
possibile. Ma siccome viviamo nel tempo e siamo tempo questa
illusione e sensazione, assurda in geometria ma naturale in biologia,
gratifica i nostri deboli mezzi.
Cristo è morto in un giorno per rinascere ogni giorno. E rinasceva
ogni giorno prima di morire.
La morte di Cristo è l’atto attraverso cui risorge, diventa uomo fino
in fondo, perché l’uomo non può, al massimo, che risorgere,
dovendo morire. Prima di morire però Cristo è vivo ora. Non ogni
suo minuto di vita è un morire e un risorgere come per noi.
Dio non nasce e non muore perché senza tempo e senza corpo. Un
uomo chiamato Cristo è nato e morto, nel tempo e nel corpo.
Un uomo chiamato Cristo nasce ogni giorno nel cuore degli uomini,
e trascina il padre nella follia d’amore di morire e rinascere. Se infatti
Cristo è figlio di Dio, anche Dio è figlio di Cristo, e dopo la sua
nascita non può che unirsi nella sua sorte, visto che lo ama. Ed
entrambi sono fratelli nello Spirito Santo. Ciascuno è il padre, il
figlio, il fratello dell’altro, perché se fosse unico e identico non
potrebbe amarsi, e se fosse soltanto padre non potrebbe essere
amato.
Se tanta eresia ripugna, anche se l’unico modo di contrastare la
violenza dell’ortodossia non è contrapporsi alla sua logica
frontalmente ma metterla a testa in giù, ci si contenti di pensare che
un padre genera un figlio almeno quanto un figlio genera un padre.
E che quindi prima che nascesse Cristo Dio non poteva essere suo
padre; e che prima che nascesse Cristo non poteva esistere la Trinità.
E che se Dio non è mai nato, Cristo però sì, e quindi la Trinità non
può essere eterna perché ha bisogno della nascita di Cristo per
esistere.
652
L’amore è al di là dell’essere, niente di che stupirsi se per amore può
accadere ciò che per l’essere è contraddittorio.
La Trinità divina è la più folle intuizione che mente umana possa
concepire, soltanto che la chiesa, istituzione che deve conservarsi e
fruttificare biologicamente, immettendo lo spirituale nel corporale, a
un certo punto, dopo l’exploit ispirato che ha gettato la geniale follia
della fede nel mondo, ha cercato di addomesticarne le conseguenze
ai fini di una agricoltura compatibile con lo sviluppo religioso delle
moltitudini.
Come reggere altrimenti che Dio, Cristo e Spirito Santo sono la
stessa sostanza e che quindi Dio padre stesso si è incarnato e morto
per noi almeno quanto Cristo si è incarnato nella volontà del padre,
indiandosi.
Le tre persone si diramano dall’atto folle e fondativo dell’amore, in
quanto configurazione della prudente logica numerica umana che
non può reggere l’exploit senza tornare nel regime ordinario,
cristallizzato in dogma e in una contro ragione, sia pure in quanto
super ragione.
Per la mente umana è più facile dire che l’uno e il tre coincidono,
piuttosto che riconoscere che c’è qualcosa al di là del numero.
Dio non può essere uno perché l’uno è il principio matematico della
logica umana, che non può intrappolare Dio.
Contro ragione, super ragione, sotto ragione, pro ragione, sono tutti
modi per distinguere non solo le tre persone ma anche per dividere
in tre una sostanza, preferendo creare tre personaggi che
vertiginosamente convivano in uno, e miracolosamente
scambiandosi i ruoli si identificano, piuttosto che pensare oltre il tre
e l’uno e l’amore prima dell’essere.
Se definisci i limiti della ragione definisci pure quelli della fede.
La vera eresia sta nel pensare l’amore conseguente all’essere e quindi
tripartirlo in figure o persone, mettendo in gioco un triangolo di
653
esseri saettanti, saliscendenti, in un tempo e in uno spazio
propriamente umani e logici, come è logico e interno alla logica un
paradosso.
Così si è trasformato uno scandalo amoroso in un paradosso logico,
rinunciando a capire che quando l’uno si fa trino è una sorgente che
sgorga nella debole mente umana, perché un segreto invincibile
dell’amore è che esso non è numerico.
Cristo non ama uno, due, tre, uomini, non ama l’umanità, non ama
in modo specifico e non ama in modo collettivo. Ama tutti in uno e
uno in tutti.
Dio, fattosi uno e fattosi tre restando uno, non è che un gioco
aritmetico, una folle geometria, che dà la scossa.
L’amore non viene prima di Dio e prima dell’eternità ma viene
mentre va, è prima mentre è dopo, è eterno mentre è temporale.
L’eternità nuda e sola è fuori dall’amore. Ciò che è atemporale è
inscritto in un mondo che limita questo mondo e ne è limitato.
L’amore non può essere limitato è inscatolato. Non può essere
soltanto eterno, essendo l’eterno una declinazione del tempo come
sua assenza. È può essere soltanto mortale perché costretto in una
parabola biologica. Può essere solo le due cose insieme.
L’eterno è fuori del tempo ma in tutti i punti del tempo, se no non
è incarnato. Ma intersecando il tempo la scossa elettrica percorre
tutta l’eternità come un fulmine.
Nel tempo e nell’eterno c’è il non definibile temporalmente, ma che
definisce tempo ed eterno: l’amore. L’amore noi non sappiamo cosa
sia finché non lo mettiamo in atto.
L’amore è rarissimo e insorge misteriosamente, anche mentre si
scrive un trattato di teologia, quindi in mille pagine di una summa
trovi tre o quattro verità d’amore sgorgate qua e là di colpo, quando
San Tommaso si innamorava di Dio, e per trovare quelle devi
leggere tutto.
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Questi pensieri non sono miei ma scritti attraverso di me.
Attraversandomi però diventano miei per non essere più miei una
volta scritti.
Vuoi dire che non te ne senti responsabile? O vuoi dire che non te li
meriti?
L’amore è sempre visibile e sempre invisibile in tutto ciò che esiste,
nella stessa cosa che esiste.
La religione della famiglia
È evidente che il modello intuitivo per comprendere la Trinità non è
abbordabile con la teologia ma con la famiglia. La composizione
come sacra famiglia rende la fede appunto familiare e condivisibile.
C’è un padre, c’è un figlio e c’è un amore fraterno tra loro. C’è
naturalmente anche una madre, inseminata da Dio, una ragazza di
sedici anni che diventa la protagonista del miracolo cristiano.
Il cristianesimo, benché Cristo l’abbia dovuta abbandonare, è
diventato una religione della famiglia che, proprio in quanto valore
assoluto, deve essere negata a una categoria di persone che rinuncia
ad essa, almeno nel cattolicesimo, e la valorizza in virtù del suo
sacrificio.
Questo è un segno di grande indulgenza e rassicurazione. La
famigliola di Nola o di Predazzo viaggia al calduccio della religione
tra galassie trascoloranti, sicura che anche in cielo la assista il suo
modello divino abbracciante il cosmo.
E le donne nubili? Vivranno la famiglia degli altri, o almeno la sacra
famiglia.
Il matrimonio dei preti
655
Ma se il modello divino è la famiglia, come sarebbe più armonica la
vita di un prete con una famiglia sua, da avviare ai misteri triangolari
dell’amore? Non significa questo che diventi obbligatorio sposarsi.
Possono esserci preti celibi e preti sposati. Magari vescovi e
cardinali, come nella chiesa ortodossa, potrebbero dare un segno più
incisivo non sposandosi.
Dire che un prete può sposarsi vuol dire anche precedere che debba
avere figli. E questi figli di prete della prima generazione cattolica
come vivranno la loro sorte? Nel modo più sereno e inventivo,
come sanno fare i figli, sempre molto divertiti dalle consuetudini
sociali che, uscendo dalla natura, vengono scoprendo di volta in
volta.
E il padre prete potrà amarli più degli altri suoi figli del gregge
cristiano? L’ostacolo per la chiesa consiste nel fatto che un prete
non può amare un singolo individuo più di un altro, altrimenti non è
ecumenico. Ma comunque amerà sempre qualcuno più di un altro. E
Cristo stesso non aveva discepoli prediletti?
A quel punto, pensano i prelati cattolici, addestrati alla lentezza di
una civiltà bimillenaria, che conoscono l’ulcera bruciante dell’invidia
e della gelosia in campo sessuale, come sopporterebbe un prete
celibe la vicinanza del prete sposato? E come reagirebbero i fedeli, di
fronte a una varietà di scelte che li sconcerterebbero?
Non si potrà infatti costringere un prete a sposarsi.
E molti vescovi e cardinali, non intiepiditi dall’età, ma inabilitati
ormai a sposarsi, quanto dovrebbero soffrire per l’occasione storica
perduta?
Ecco che la chiesa dovrebbe introdurre per i preti l’obbligo di
sposarsi, per spianare l’invidia, la gelosia e la confusione. Ed ecco
che nascerebbero matrimoni falliti o tristi o disperanti per le povere
donne.
E se un prete si intiepidisse verso sua moglie? E se la moglie lo
tradisse? E se litigassero in sacrestia? E se andasse a dir messa subito
656
dopo una notte di fuoco? E se tutti i fedeli sapessero che i coniugi
non vanno d’accordo?
Affascinante è poi pensare come e dove un prete potrebbe cercarsi
moglie. Va da sé che dovrebbe essere una cattolica come lui, e
quindi nell’ambiente della parrocchia e nelle attività chiesastiche.
Siamo sicuri che le donne italiane vogliano sposarsi un prete? E
come potrebbero essere le donne che sposano un prete cattolico?
E come crescerebbero i primi figli in Italia di un prete, non appena
introdotta quella libertà che il vescovo di Vienna ha appena chiesto
al papa, con una mozione firmata da migliaia di persone?
Immaginiamo le televisioni di tutto il mondo all’ospedale ad
abbagliare di flash il primo bebé del mondo nato da un prete
cattolico con l’approvazione della chiesa.
In altre parole la chiesa non introduce il celibato più per conoscenza
profonda e diretta degli italiani e dei popoli mediterranei in genere
che non per riserve teologiche, non essendo il celibato verità di fede,
ma consuetudine storica affermatasi dal dodicesimo secolo e ribadita
dal Concilio di Trento, indetto da Paolo III, che aveva più di un
figlio, legittimo e no.
E nei paesi protestanti, anglicani, greco-ortodossi come fanno? Non
sembra proprio ci siano tutti questi problemi. Non sono italiani,
amico mio.
Perché non far dir messa alle donne e non far loro somministrare i
sacramenti? Questo è semplice e pura misoginia e volontà di
dominio maschile.
Forse i preti maschi hanno paura a convivere con sacerdoti
femmine.
Il clero povero tra montagne di denaro
657
Una spiegazione attendibile del rifiuto della chiesa cattolica di fare
sposare i suoi preti e vescovi ce la dà Max Weber in Economia e società
(I, p. 589). Essa vuole che, morendo, il clero le doni tutti i beni, che
altrimenti passerebbero alle mogli e ai figli. Bene, preti e vescovi
potrebbero sposare una suora e scegliere la castità matrimoniale. O
la chiesa teme tanto la donna e stima tanto poco l’uomo da non
concepire che i due possano amarsi senza toccarsi?
Amoreggiare senza arrivare all’atto sembra però alla chiesa qualcosa
di morboso, o almeno poco sano, giacché essa, esperta per le tante
confessioni ascoltate, e soprattutto per la privazione alla quale si è
condannata, vuole che le cose in questo campo siano fatte per bene,
massimamente perché nascano dei figli che, provocati da tali
genitori, molto più facilmente diventerebbero atei e ribelli. Che
problema c’è? Rinunci allora alle eredità.
Molti genitori, disinteressati per sé, avendo dei figli obiettano alla
richiesta di povertà o di beneficenza, che non possono beneficare
estranei, privando di beni i propri figli. Così la chiesa, che figli non
ha, obietta alle sue elargizioni che deve mantenere la propria famiglia
ecclesiale, sicché nessuno gode la proprietà dell’immenso capitale,
giacché nessuno è proprietario, ma ne gusta i frutti con abbondanza,
abitando in ville storiche e palazzi nobiliari, in case comode e sicure,
non per sé, sia chiaro, ma per chi prenderà un giorno il loro posto.
Ecco che la chiesa cattolica, anche per questa via, è essa stessa
l’ostacolo a essere cristiano per il suo clero, che si trova sempre a
gestire, usare, praticare, amministrare montagne o collinette di
denaro, vivendo, nei casi migliori, da poveri in un mare di ricchezza.
19 dicembre
Una striatura nera
Straordinario, nelle amicizie consolidate e che non si vogliono
compromettere, l’assottigliamento dei pensieri opposti e concorrenti
di invidia, gelosia e vendetta nelle pieghe di un discorso
sinceramente benevolo e affettuoso finché, all’insaputa di chi parla
658
ma non di chi ascolta, affiorerà, mimetizzata, una stilla di veleno in
forma di rosa che bisognerà accettare come un colpo di coda
dell’inconscio. Ma che col tempo tingerà l’amicizia di una striatura
nera che tanto più colpirà l’occhio e il cuore quanto maggiore il
contrasto col candore della pelle, come un neo benigno.
Se è impossibile per una persona essere sempre retta, nel corso di
un’intera vita, specialmente se media o lunga, ancora di più lo è, in
una amicizia durevole e profonda, essere sempre impeccabile e non
demeritare per una negligenza, una malizia, una debolezza, giacché si
tratta di mantenere una specie di etica a due, non diversamente che
nella fedeltà di un legame matrimoniale, che non potrà mai arrivare a
coprire e spegnere tutto il pullulio dei desideri, specialmente se nel
corso dei decenni.
Ecco che gli amici, non potendo promettersi un’indulgenza a priori
né un consenso indiscriminato in ogni loro comportamento ed
espressione, né potendo essere forzati ad assentire ad ogni loro atto,
come capita negli innamoramenti, ma soltanto nello stato nascente,
dovranno imparare a riconoscere l’uno nella natura nell’altro
l’esistenza di difetti o eccessi, che si sentiranno anche in dovere di
segnalare. Ma essendo questi sempre commisurati al proprio sentire
e pensare, la stessa segnalazione indicherà una discrasia, una
sfasatura, un’asimmetria, idonea a minacciare l’amicizia.
Si preferirà allora la soluzione più cicatrizzante, quella di tacere,
affidandosi al tempo, il che è comunque un segno di rispetto, ma
che lascia nell’amicizia, invece di quella striatura di nero di cui
dicevo, un mancamento, un vuoto, un prato libero dentro cui si può
pensare di tutto, facendo scorazzare le speculazioni. Mentre l’ideale
sarebbe ricomprendere la critica dentro la stima più ampia, quasi tale
da abbracciare il difetto o l’eccesso nel suo manto sincero.
Impresa questa la più coraggiosa e quasi ideale, possibile soltanto
qualche volta, ma non sempre, perché accettare un altro in toto ci
sembra quasi un rinunciare ad accettare allo stesso modo noi stessi.
Il silenzio dell’amico, del resto, è quasi sempre segno negativo, come
quello del nemico, al quale finisce per assomigliare
involontariamente, non prendendosi più egli la responsabilità di noi
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e diffidando che noi possiamo reggere un giudizio con purezza e
disinteresse, oltre a far presumere il peggio, nel confronto con i tanti
casi in cui ne abbiamo ricevuto una parola soccorrevole ed
estimativa.
Quante volte, o sconcertato o dissidente, o semplicemente perché
ho sentito emergere una personalità diversa dalla mia, e in certi casi
anche per ammirazione invidiosa, e perciò sporca, per la sensazione
che se vale l’altro allora valgo meno io, ho taciuto. E mi è sembrato
di compiere uno sforzo su me stesso nel tacere quello che pensavo,
uno sforzo, intendo, anche di amicizia. E invece esso è stato
recepito come una svalutazione e un disdegno, sicché ci siamo creati
tacendo, e quindi proprio restando neutrali, molti più nemici e
antagonisti offesi e rancorosi che dicendo apertamente il nostro
pensiero, anche critico, anche difforme dalle attese.
E procediamo così, col silenzio, perché una volta che cominciamo a
dire nettamente tutto quello che pensiamo, dovremo farlo sempre,
perché ogni nostro giudizio sarà commisurato e confrontato, e
questo ci farà camminare su un tappeto di spine ogni giorno, senza
contare che, avendo profuso ogni energia nel valutare l’opera di
alcuni, mai ce ne resteranno abbastanza per soppesare con equità
quella di altri e, presi dal vortice degli interventi pubblici, faremo
saltare tutti i pesi, ora giudicando di getto ora ponderando
lungamente, col risultato che le nostre parole verranno tenute per
ciance e sfoghi impulsivi, anche quando sono l’esatto contrario.
Se conclusione c’è, è che alla fine, secondo un motto di Salvator
Rosa, è meglio tacere o, parlando, dire cosa migliore del silenzio.
Il potere mi guasta
Non solo io non ho mai cercato il potere ma ho cercato di non
averlo, e questo per aver sperimentato i guasti che nel mio carattere
subito produce. Mi è bastato assaggiarne una piccola porzione per
cominciare a vedere gli altri come più sciocchi e incapaci, come
rallentati di comprendonio per la loro stessa dipendenza, senza che
in nulla fossero cambiati. Ma il loro semplice dipendere da me e
660
seguire se non le mie direttive anche solo le mie indicazioni, li sviliva
automaticamente ai miei occhi, tanto che cominciavo a pronunciare
quei giudizi netti e definitori che non mi sarei mai permesso, non
avendo quel poco di potere. E alla loro mancanza di reazione si
generava in me una voglia di incrudire e di infierire che me li
deformava, benché essi in nulla fossero peggiorati, anzi mi
ascoltavano e giovavano.
Un uomo che è al governo di una azienda, di un comune, di una
provincia, o addirittura di una nazione, non può che maturare la
convinzione che tutti gli altri che gli sono sottoposti non solo
manchino delle sue qualità ma siano anche torpidi nel difendere le
proprie e provino il bisogno di dipendere da qualcuno per far cadere
le loro responsabilità. Per questa delega per inerzia e volontà di
sottomissione il leader non solo li disistima ma pretende che essi ne
paghino il prezzo, che è appunto la loro sottomissione.
Basta avere un ruolo di comando per vedere gli uomini in modo
diverso e peggiore, disperare della loro autonomia e convincersi che
solo un capo li possa guidare. Persone adulte le vedi trasformarsi in
bambini capricciosi, attenti solo al loro interesse, e non sai più se la
metamorfosi è avvenuta in loro o in te. Allora o insisti per la tua
strada, diventando un illusionista e un manipolatore degli interessi,
reali o presunti, o ti ritrai dal potere come da un sortilegio.
Esiste però il potere di cui ci si investe a fin di bene, il potere di
operare nell’interesse comune, proprio di pochissimi, giacché
dovrebbe verificarsi la miracolosa coincidenza di una postazione
elevata nella società e di una sincera e quasi santa volontà di giovare,
perdurante ai filtri e ai tossici che l’esercizio del tuo ruolo ti schizza
ogni giorno nel sangue.
Tanto più che devi concertare ogni tua decisione, perché
l’intenzione produca qualche effetto, sempre meno possibile in una
società in cui la linea politica non è il risultato delle spinte opposte di
due tendenze ma il risultato magico e a priori dell’obbedienza a quel
fantasma potentissimo che è l’economia globale, e cioè gli interessi
dell’internazionale industriale e finanziaria, alleata misteriosamente
con la volontà della natura di sopravvivere su questa terra.
661
La satira ha la funzione di ridicolizzare i potenti, dando loro una
scossa di umiliazione che opponga resistenza all’onnipotenza che
sentono. E loro la impastano e la riciclano nel mito narcisistico del
loro potere tuttora divino. Perché ci sarà una ragione profonda se
loro sono stati scelti come oggetto di derisione!
Ci sono persone che meritano uno sputo negli occhi. Li aiuterebbe a
cambiare. Ma la legge proibisce anche di alitare sul naso di un
potente.
Psicopolitica
Come la natura non sopporta il vuoto così neanche la politica, e
come la natura non sopporta un albero sempre spoglio e una pioggia
perenne così neanche la politica. Il vuoto della sinistra è stato
colmato dal troppo pieno della destra, la perenne pioggia della
sinistra ha fatto scappare gli italiani in faccia al re sole. Sole
artificiale, sole radioattivo ma non tutti ne muoiono subito.
Qualcuno se ne è già ammalato, ma i più non se ne accorgono
finché non sarà tardi.
Perché tanti italiani votano il più potente? Le spinte profonde e
istintive, oltre agli interessi evidentissimi, ma che non gli darebbero
mai e poi mai la maggioranza, non sono soltanto ideologiche e legate
alla voluttà e al veleno del potere. Quali sono? Il bisogno italico di
ottimismo, di un sentimento di fiducia nell’avvenire, la sensazione di
un talento che si manifesta prima fuori della politica e solo in un
secondo tempo nella politica stessa, di una cultura del fare, anche
industriale e commerciale, dell’organizzare, del mobilitare,
dell’attivare, senza cura per il senso, il verso e lo scopo di ciò che si
fa.
Aggiungi il fatto che il più potente d’Italia è milanese, lombardo,
nordico e riscatta tutti i nordici operosi che non potevano soffrire
Roma, per ciò che significa e comporta politicamente, e ancor più
antropologicamente.
662
Altre ragioni del voto italico sono il gusto per le feste, magari anche
orgiastiche purché piccolo borghesi, dell’allegria a oltranza, della
simpatia malandrina, della voglia guascona di ridere e di scherzare a
dritto e a rovescio; l’ammirazione per chi dà la sensazione di
formare una squadra concorde con un capo o almeno uno che
prenda le decisioni e le porti a effetto simbolicamente; una mitologia
della salute, della giovinezza, della partita sempre aperta; la passione
delle donne, anche semplici e del popolo anziano, per un buon
partito simbolicamente matrimoniabile.
Viene prediletta dagli italiani un’esuberanza di parole, di gesti, di
azioni, anche a prezzo di menzogne, illusioni, trucchi, imbrogli,
inganni, che vengono tollerati, simpatizzando anche con essi, in
nome di questo profondo bisogno di vitalità, di coralità, di dedizione
ingenua e fanatica a una causa, di tifoseria anche scema ma
prorompente, istintiva, cieca ma eccitante; il bisogno di
entusiasmarsi collettivo e sfrenato per qualcosa che si brucia sul
momento, godendolo in modo cieco e ingenuo.
Il più potente soddisfa il bisogno delle donne di un investimento
ormonale candido e primordiale, l’omosessualità latente nei maschi
servi che vogliono porgere il culo rosa da babbuino al capobranco; il
fanatismo dei milanisti, la gioia perversa di una prepotenza grandiosa
fatta a cielo aperto; il bisogno di stuprare la democrazia con il suo
consenso, e tutto il corredo dei noiosi diritti e dei doveri con un
bello sfogo di passione primordiale e simbolicamente omicida, ma
senza morti certificati e senza galera.
Egli consegue la vittoria simbolica sulla paura atavica da parte degli
italiani della galera, disseminata in tutti i ceti sociali e annidata
nell’inconscio per il terrore della magistratura e dei carabinieri di
Pinocchio.
Tristezza della sinistra
Guardiamo ora la sinistra italiana: una nuvola di malinconia ci copre,
soffia un vento freddo, i volti sono tristi e risentiti, i gesti lenti e
professorali, gli occhi burocratici, la pelle smorta. Diritti e doveri
663
assumono un’aria mestamente scolastica. Il rispetto delle leggi evoca
una frustrazione morale e contrita, una penitenza rancorosa senza
fede. Essa indossa quello che David Hume chiama l’abito a lutto
della morale. Sotto questa cappa penitenziale si annida l’ansia di
proteggere i propri privilegi legali con accanimento piccoloborghese.
Nei leader della sinistra è radicata un’abitudine alla critica e alla
polemica spicce, senza gli strumenti intellettuali per sostenerla, che
investe tutte le manifestazioni non solo della società ma anche della
vita e della cultura, generando uno sconforto impotente di fronte ai
mali perenni. Sono qualità che possono attrarre sempre meno quelle
minoranze intellettuali che fanno della critica il loro rovello e della
libertà di giudizio sull’operato degli altri il senso stesso della loro
esistenza. Questi leader sono veramente troppo piccoli per
riconoscere in essi guide o compagni di strada.
Per giunta questo legame storico con gli intellettuali in ogni campo,
dal letterario allo scientifico, dal filosofico all’economico, si è rotto,
perché l’élite di sinistra oggi al potere non solo è infinitamente meno
colta, oculata, scaltra e avveduta delle precedenti, ma anzi ha
maturato una sottile antipatia, un risentimento, un odio per quelle
figure intellettuali, Pasolini, Calvino, Sciascia, Moravia, che un
tempo li coonestavano, spronandoli col semplice spettacolo
dell’intelligenza messa in gioco nella politica, e consentivano loro
perlomeno una dignità egemonica riconosciuta.
I leader della sinistra sono figure antiquate, monocordi, schematiche
che continuano a vivere nell’immenso condominio piccolo borghese
e astorico del loro partito, espressione fossile di un’Italia burocratica,
ragionieristica, che la sera legge Tex o guarda le commedie
all’italiana degli anni 70, che tocca severamente il cielo quando
partecipa a una regata o va al mare nelle spiagge alla moda.
Sono figli di maestri, insegnanti, impiegati degli anni cinquanta,
molto migliori di loro, che si sentono socialmente promossi. Gente
modestamente vanitosa e presuntuosamente umile, con completi
patetici e cravatte sconfortanti, che o scrive romanzi noiosi o saggi
anacronistici, con una sua tifoseria di partito blanda e datata.
664
Una classe incapace di parlare ai giovani, rancorosa, polemica,
inabile a capire le trasformazioni sociali e troppo occupata ad
ascoltare se stessa e a fare la ronda intorno alle cittadelle fortificate
del loro consenso, distribuito a chiazze e a regioni, come nelle città
fortificate dei calvinisti ai tempi del re Sole. Solo che i calvinisti
lottavano come leoni per la loro fede.
Stanno invecchiando male, ci stanno invecchiando addosso, e i soli
giovani che riescono a concepire sono boy scout candidi e fervorosi
volontari della loro causa che, con le guance rosee e un italiano di
trecento parole, scalano le cariche politiche locali dopo immersioni
strazianti in riunioni di partito dove consumano la loro gioventù
asettica.
Se il più potente perdesse il potere, un’ondata di tristezza
pervaderebbe l’Italia televedente e televivente e si stamperebbero
decine di volumi in omaggio al re sole, costruendo una mitologia del
rimpianto. Non subito ma dopo un periodo di oblio e decantazione.
È meno peggio che la destra resti al potere, così stando le cose, in
modo che sia essa a compiere le scelte più impopolari che negli
ultimi venti anni sono state messe in atto, in pochissimi anni
risolutivi ed efficaci, dalla sinistra, col risultato che si sono fatti
odiare da tutti, ed è stata la destra a raccogliere i frutti dell’irrazionale
amore prodotto dall’odio italico per il sacrificio e la penitenza.
È molto dubbio tuttavia che gli uomini della destra si facciano carico
di scelte draconiane, visto che il loro potere è costruito sulle illusioni
e sull’indifferenza al bene collettivo, sicché si può prevedere che essi
lasceranno che la distruzione delle energie nazionali diventi
irreversibile, costringendo forze opposte o diverse a fronteggiarle, in
modo da serbare nella memoria degli italiani il sembiante fantastico
e romantico di uomini generosamente incapaci, che hanno fallito
perché non hanno voluto infierire sui più deboli.
Non avendo la sinistra idee da far valere, proprio come la destra,
una strategia pragmatica vorrebbe che si lasci il potere a essa e che il
mito salvifico del più potente conosca tutta la sua parabola
665
discendente, fino all’inesorabile e spietata distruzione dei beni
comuni, non per cause esterne, ed essendo lui al potere, in modo
che gli italiani abbiano tutto il tempo e il modo di cominciare a
odiarlo e a non poter soffrire più, come hanno sempre fatto, colui al
quale hanno prima inneggiato. E che la sinistra arrivi al momento
giusto per coglierne il frutto, anche se tutto fa pensare che non
sapranno più mangiarlo né farlo mangiare. Perché non ci sarà più
nulla da raccogliere.
Come i politici di destra si riuniscono per concertare una strategia di
propaganda e di retorica sofistica onde pilotare gli italiani, così i
politici di sinistra si dovrebbero riunire per elaborare idee e progetti.
Ma non lo fanno perché hanno paura dell’irruzione dell’intelligenza
imprevedibile del singolo, che quasi sempre non è colui che sta ai
vertici del loro potere.
La destra italiana è sinistra, la sinistra italiana maldestra.
Il brainstorming, il mettersi tutti insieme per tirar fuori delle idee, non
funziona, non tanto perché che il cervello di uno sia stimolato da
quello di un altro dal vivo e in simultanea concentrazione è cosa
rarissima, ma piuttosto perché tutti dovrebbero essere
implicitamente d’accordo nel concertare un’accoglienza e un rispetto
per quello solo che in una riunione ha l’idea decisiva. Cosa questa
impossibile anche nella sinistra italiana. La mitologia del leader
salvifico è entrata nelle vene dell’opposizione.
La paura di un’idea imprevista è la paura della storia in atto. Il tratto
piccolo borghese degli italiani.
L’archivio divino dell’umanità
Un creatore ama la sua opera fino nei suoi difetti e volete che Dio
non desideri conservare tutta la vita vissuta da tutte le sue creature?
Ecco che di necessità deve esserci un archivio celeste di tutta la vita
sulla terra nei suoi quattro, cinque miliardi. Un archivio dal vivo
perché, in virtù della propagazione della luce, è concepibile che
esistano nell’universo degli osservatori che percepiscano ogni istante
666
vissuto e, dosando e proporzionando la distanza dal pianeta terra, se
ne ricaveranno le immagini in sequenza cronologica di tutto ciò che
è successo a tutti, animali e piante compresi.
Per questi osservatori divini, anzi, opportunamente distribuiti nello
spazio, sta accadendo ora la lotta tra due tirannosauri, la costruzione
delle piramidi, la guerra contro i goti, ora la costruzione del
campanile di Giotto, la guerra dei Trent’anni. Basta trovarsi con gli
strumenti giusti alla distanza giusta. Le immagini di quelle vicende,
che stanno viaggiando con la luce nell’universo, se c’è un occhio,
verranno percepite come presenti.
Se la luce impiega circa otto minuti per arrivare dal sole alla terra
impiegherà qualche secolo o millennio per arrivare da qualche
galassia. Se lì ci fosse un occhio vedrebbe la Firenze medicea?
La filosofia dialogica è un’illusione
Chiunque abbia dimestichezza con un filosofo vivente, che abbia
elaborato un suo pensiero, sa che i dialoghi con lui sono del tutto
apparenti e comunque inutili. Anche nel passato, del resto, fin dalle
scuole presocratiche, vediamo che esse andavano per conto loro in
completo isolamento, e quando Platone e Aristotele hanno
cominciato a criticarne il pensiero, sempre però con profondo
rispetto e volontà di spiegarlo, anche a se stessi, nel modo più
chiaro, tutto ciò non avveniva certo dal vivo, in dialoghi e
contenziosi diretti, in incontri preposti allo scopo di confrontarsi e
stabilire un vincitore.
La stessa sofistica, che si pensa più incline al contenzioso, specie nel
suo filone eristico, metteva in scena una disputa tra argomenti
opposti senza sognarsi di farne vincere uno per sempre, perché essa
traeva la propria forza proprio dall’opposizione dialogica.
Ci sono pensieri che hanno un’intima forza dialogica, che anzi
costituiscono un continuo e problematico dibattito con se stessi,
mettendo in luce tutte le obiezioni e i pareri diversi e contrari alle
proprie tesi, lasciandoli a volte convivere, a volte smantellandoli in
667
virtù della propria posizione. In questo modo l’autore si sceglie i
propri interlocutori mentali, escludendo al contempo tutti quelli in
carne e ossa.
Quando si pensa allora di intervenire con obiezioni nuove e
differenti o in un incontro pubblico o in una recensione critica, si
scopre un autore suscettibilissimo e insofferente di quello stesso
dialogare che, finché è pilotato da lui, scorre benissimo, ma quando
diventa imprevisto ed esterno non riesce neanche sopportabile,
tanto che capita che l’autore si spazientisca, insulti, o rifiuti di
rispondere.
Vi sono infatti obiezioni che egli stesso ha selezionato e scartato,
perché indegne, e che pure richiederebbero lunghi e faticosi
ragionamenti per essere smontate, perché proprio le idee del tutto
sbagliate sono le più difficile da correggere e riportare sulla retta
strada. E vi sono obiezioni che colpiscono i fondamenti, il metodo o
contestano il dosaggio dei pro e dei contro, spesso di un pelo, di un
filo, che si rivela risolutivo.
Di fronte alle obiezioni più fondate, un filosofo non può che
rispondere: Dovrei scrivere un altro libro per contrastarle. Che però
non scriverà mai, perché non ha senso difendersi da un attacco
soltanto orale, benché veridico per chi ormai ha assimilato il
feticismo della scrittura o almeno pensa che un duello vada fatto ad
armi pari.
Quando Michel Foucault ha tenuto i suoi corsi al Collège de France
negli anni settanta e ottanta, ascoltavano ogni lezione cinquecento
persone ma non erano previsti interventi del pubblico, tanto che lo
stesso filosofo ne sentiva la mancanza, osservando che, quando la
lezione non riesce, basta una critica fondata per rimetterla in sesto,
e lamentando la solitudine e il vuoto disperato che lo coglieva dopo
la performance, come fosse un attore o un acrobata (vedi il corso
intitolato Gli anormali).
E tuttavia basta un breve intervento a farti prendere tutt’altra strada
e a farti ripensare tutta quella percorsa, così alla fine Foucault
doveva recitare più parti, come in un seminario in cui lui fosse
668
docente e discente, parlatore e ascoltatore di se stesso, mettendo in
scena da solo un pensiero di sua natura dialogico, critico e
autocritico, sempre problematico, e sempre oltre ogni meta
acquisita.
Si potrebbe dire che allora è meglio leggere il libro. Ma non c’è
confronto tra le idee tue che possono venirti in mente quando
ascolti, scosso dall’emozione di un’audizione pubblica.
Criticare un pensiero filosofico senza costruirne un altro è del resto
perfettamente sterile e fin troppo facile, come fanno fatica a capire
molti critici accademici, che mettono in luce tutte le debolezze di
un’opera classica in interi libri, come se questo significasse la sua
demolizione o la sua rottamazione.
Un vero filosofo infatti è un artista che usa il rigore logico come il
poeta usa la metrica, attenendosi a una disciplina formale, spesso
posteriore, ma troverai sempre che i gangli decisivi sono frutto di
intuizioni folgoranti a priori, del tutto simili a quelle del poeta.
Quelli che sono i postulati e gli assiomi per il matematico sono le
intuizioni fondanti per il filosofo. Intuizioni che qualcuno più scaltro
fa trovare dopo, presenta in mezzo al libro come risultati del
processo dialettico dispiegato, mentre non avrebbe mai scritto un
rigo se non le avesse avute prima di prendere la penna in mano.
Questa non è una debolezza del pensiero filosofico ma il suo genio.
Se uno scrittore leggesse in pubblico il suo romanzo, potresti
interromperlo per dire: Qui sarebbe meglio che succedesse
qualcos’altro? Oppure: Questo l’avrei detto in modo diverso?
Ecco che allora il pensiero filosofico è diverso dal pensiero
letterario, essendo a esso simile per quello che ho detto, proprio
perché può essere interrotto e criticato da un altro.
Un pensiero interrotto però non è un pensiero. Ecco che allora o la
filosofia diventa tutta orale, seminariale, socratica, e si costituiscono
scuole e comunità come nel mondo antico, ma con uno spirito
669
democratico moderno, o l’autore stesso introduce il dialogo nelle
fibre del suo pensare. Ma allora tende inesorabilmente verso
l’artistico e ciascun filosofo diventa un romanziere di idee, un
narratore di concetti, un drammaturgo di pensieri, come infatti in
molti stanno diventando. E così tanto più intolleranti a ogni ritocco
e modifica dall’esterno.
23 dicembre
Messa di mezzanotte
Messa di mezzanotte, il calore umano non è un’invenzione. Si
ritorna nelle case solitarie, a vegliare mentre tutti dormono. All’una
di notte sono venti gradi e il mare è caldo mentre una settimana fa
su quel mare caldo nevicava mentre la temperatura a quest’ora
scendeva a meno dieci.
Nessuno fa una piega. Passiamo dall’oceano alla goccia d’acqua
santa. Dal gelo all’incendio. Siamo animali che si abituano a tutto
con gran rapidità.
Il nulla della gente anonima
Spaventoso che tutti saremo tuffati nel “nulla della gente anonima”,
come lo chiama Shakespeare nel Riccardo III, e stupefacente che
finché viviamo ciascuno è un tutto, un mondo con due gambe e due
braccia che vive tutta la vita di tutti in sé e tutti i tempi in questo
stesso secondo.
La pensione rovescia il gioco dell’anonimato ma non lo rende meno
duro. Diventando nudo il mestiere di vivere, non esisterà più un
tempo libero, e tutto sarà lavoro di vivere.
Questo vorrei dire agli amici che fin dai quarant’anni sognano una
pensione che altrimenti li trasformerà in larve in una città limbica:
ogni lavoro è sempre un secondo lavoro, il primo essendo quello di
vivere.
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Non si va in pensione dalla vita, non si va in pensione dal mestiere
di vivere, l’unico lavoro che non finisce mai perché anche morendo
lavori.
Il pensionato che non ha più orari di lavoro deve comunque dare un
ordine militare alla sua giornata, una disciplina, un’abitudine da
rispettare se non vuole deperire o impazzire. Segno che il vero
lavoro non è lavorare, è vivere, e li precede tutti con le sue leggi e i
suoi rischi mortali di licenziamento e di vanificazione.
Pilotare le masse è cosa ardua
Una tecnica molto studiata è quella di pilotare le masse. Nelle
democrazie occidentali più potenti stuoli di esperti del marketing e
dell’imbonimento politico lavorano da decenni per consigliare i
leader, raggiungendo negli Stati Uniti un’efficienza altamente
specializzata e organizzata come una macchina da guerra. E tuttavia i
risultati spesso non vengono o sono contrari alle aspettative, perché
chiunque studia razionalmente un fenomeno irrazionale e che
ancora non esiste, perché le masse sono prevedibili in tutto tranne
che in quel guizzo storico che poi si rivela il fenomeno decisivo,
tende a orientare secondo una logica, per quanto pragmatica, ciò che
è sempre più spaventosamente rozzo, sproporzionato all’esame,
rapidissimo, nuovissimo e violentissimo, riuscendo solo a inseguire
da lontano la valanga senza poterla pilotare e limitandosi a orientare
le reazioni di coloro che ne vengono travolti e colpiti.
Chi aveva previsto lo scatenamento dagli anni ottanta delle masse
avide di shopping e di cocaina televisiva? E chi aveva previsto la
vittoria delle masse naviganti in Internet? E chi aveva previsto
l’affermazione delle masse cinesi? E chi sa mai quale nuova valanga
si scatenerà?
Già solo scegliere la direzione dell’inseguimento quando il
fenomeno si sta già sviluppando da anni richiede uno spirito
pioneristico e una buona dose di vaneggiamento fantastorico.
Figuriamoci quale potere di governo e previsione possono aver
avuto i capolavori di studio delle masse, come La psicologia delle folle di
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Gustave Le Bon, La ribellione delle masse di Ortega Y Gasset, per tanti
versi illuminante, Massa e potere di Elias Canetti, uno dei libri più
importanti e ricchi di intuizione del Novecento, che pure
approfondisce con intuizione potente un fenomeno che pochi anni
dopo la sua apparizione era già profondamente diverso.
Essi, è vero, non avevano questo scopo ma quale effetto possono
avere capolavori sullo sviluppo delle valanghe se già sappiamo che
neanche un piccolo villaggio in più se ne potrà salvare?
Pilotare una sola persona è anche peggio
Ma non esiste solo lo studio delle molle del potere sulle masse, o per
comprenderlo, come nel caso di Canetti, o per pilotarle come in
quello dei migliaia di libri e di consulti dei cortigiani dei potenti. Ben
più difficile è la strategia per esercitare il potere su una solo persona,
nella quale sono stati maestri i gesuiti, quando educavano i figli dei
potenti della terra, e nella quale sono maestre le donne, che pilotano
da millenni i mariti e gli amanti di miliardi di famiglie, affinando una
tecnica che non si risolve di certo nella messa in gioco istintiva dei
caratteri ma punta a uno scopo di dominio tanto più sofisticato
quanto meno apparente.
Si pensi alle strategie dei figli per dominare i genitori, più raffinate di
quelle dei genitori per dominare i figli, perché l’impotenza
economica affina in modo straordinario l’intelligenza della
sopravvivenza.
E si pensi all’arte di chi, in un’azienda, in un’associazione, in una
comunità, in un circolo, in un ambiente, nel mentre in tutto e per
tutto è sincero, dedito al bene comune, disposto all’impegno
personale, nel contempo pensa sempre all’effetto delle azioni
proprie e altrui e riesce a volgerle al proprio interesse, magari non
danneggiando quello altrui, e anzi riuscendo a farli procedere di
conserva. Oppure convincendo gli altri per anni di aver fatto per il
bene loro quello che ha fatto per il proprio.
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È questa un’arte che richiede una concentrazione straordinaria sulla
psicologia dell’altro, un esame gelido del suo carattere. Ma ciò non
basta. Bisogna avere anche il talento di pilotarlo, una volta
compreso, aderendo ad esso come il tennista che studia i filmini
dell’avversario prima di giocare con lui e, rispettando le regole di
gioco e mettendo in atto il fair play, riesce a vincerlo senza
stroncarlo, ma facendolo giocare la sua partita fino all’ultimo. Con il
che quello è quasi contento di perdere e si convince della sua giusta
inferiorità. Mentre l’altro, magari più debole, ha vinto perché ha
giocato la partita basandosi su di lui.
La rinuncia delle donne all’arte del potere
Le donne che stanno andando al potere o che l’hanno già
conquistato hanno abdicato però in gran parte alla loro arte prima e
sono diventate frontali, emotive e meccaniche come gli uomini
mentre, se avessero semplicemente proiettato in politica e in
economia le tecniche millenarie della vita domestica, avrebbero
guadagnato in efficacia e in stile.
Ma questa impresa potenzialmente grandiosa sta fallendo proprio
perché le donne hanno abbandonato la forza della loro tradizione,
svilendola e disprezzando coloro che sono rimaste in casa, mentre il
patrimonio di ironia critica, di sdrammatizzazione, di capacità di
orientare al bene una famiglia sembrando distratte, disincantate e
persino smorfiose e un po’ tonte, avrebbe trasformato i compagni di
partito politici in burattini nelle loro mani.
Dismettendo il fascino femminile, il doppio gioco, l’apparente
arrendersi, per poi spiazzare l’avversario colpendolo nelle sue vanità,
insomma la psicopolitica femminile, arte antichissima e quasi
imbattibile, il ricordarsi sempre che l’uomo è cosa fragile, volubile,
adulabile, facilmente dominabile, facendo leva sul suo narcisismo e il
suo infantilismo cronico, mascherato da pose composte e da serietà
di intenti, il più delle volte superficiale e scolastica, avrebbe dato alle
donne un potere anche pubblico e tenacissimo.
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Il terribile Talbot che terrorizza i francesi nel Riccardo III appare alla
contessa d’Alvernia “un insignificante granchiolino” (II, 3). Intendo
questo quando dico del potere di ridicolizzare che la donna
potrebbe avere nel Parlamento italiano e di ogni altra nazione.
Eccole invece prendere sul serio gli uomini pubblici, cosa che nella
vita privata non si sognano di fare, prendere alla lettera tutto ciò che
dicono, senza studiare più il basso motivo per cui lo dicono, alzare la
voce sopra la loro, nascondere minacciosamente l’estro femminile,
cancellare ogni capriccio geniale, parlare la lingua morta e meccanica
dei pedanti, gareggiare con gli uomini in sicurezza aggressiva,
importarne tutta la logica rituale e la retorica falsamente seria, eccole
diventare uomini, rivendicando una superiorità femminile che
proprio nelle donne politiche è meno visibile.
Si riscattano, o ci provano, dedicandosi all’assistenza sociale, alla
scuola, alla salute, in questo almeno immettendo una sensibilità che
nei maschi è debolissima, non sempre perché non tengano a questi
valori ma perché sono abituati a farci pensare le donne.
E tuttavia nei ministeri a loro affidati in questo campo non riescono
mai a orientare una politica governativa, si limitano a gestire fondi
decisi da altri e mettere in atto processi altrove definiti.
25 dicembre
Unus christianus, nullus christianus
Unus christianus, nullus christianus: il cristiano non può vivere fuori
della chiesa, della comunità dei credenti. Eppure questo continuo
vivere tra cristiani, confermandosi a vicenda, rassicurandosi a
vicenda, confidando a vicenda genera raptus di aggressività
spaventosi, paure che si infiltrano subdole, chiusure feroci.
“Mi sono fatto tutto a tutti” (1, Cor., 9-22) dice Paolo di Tarso, il
che non credo voglia dire che è diventato tutta la vita per tutti, che
sarebbe presuntuoso e improbabile, ma che si è immedesimato in
ciascuno, si è alienato nell’ascolto di tutti, si è metamorfosato
amorosamente in ciascuno per portargli qualcosa.
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Christianus semper in ecclesia, nullus christianus: il cristiano si riversa nel
prossimo alieno, nello straniero, in colui che non crede, nel nemico.
Nemico di cosa? Ma della sua fede naturalmente. E se la sua fede è
la sua vita, nemico anche della sua vita. E versandosi, si aliena, perde
la stessa identità cristiana e così perdendola la ritrova.
Chi fa del cristianesimo una sua proprietà deve dilapidarla, perché
tutto il suo cristianesimo donato, cioè perduto, gli verrà reso mille
volte di più.
Chi è ricco di cristianesimo non passerà per la cruna dell’ago.
Non puoi essere discepolo di Cristo diventando schiavo di Cristo.
Non puoi testimoniare la fede se non ti metti dalla parte del
miscredente.
Per essere un vero cristiano non devi essere cristiano.
26 dicembre
Cambiare città
Cambiando vita e andando a vivere in una nuova città è come se una
vita intera fosse conclusa, circoscritta e definita entro quelle mura
che ne diventano così anche le mura estreme, e tu puoi giudicare gli
altri e te stesso per intero e con distacco, essendo quella partita
conclusa e un bilancio di umanità possibile. Se infatti tornerai, quella
città non sarà più da giocatore interno ma da spettatore e al massimo
da dilettante di quella vita che chi vi resta invece svolge quasi
professionalmente.
E ciò che vedi è spaventoso, perché lo spettacolo dell’aridità, della
inerzia, della pigrizia, del disamore è così nudo e spoglio di quel
rilancio illusorio di chi s’aspetta, vivendoci dentro, che il bello e il
giusto vengano all’aurora nuova, e così concluso e messo agli atti,
anche se chi ci vive non se ne avvede più, che tu quasi tremi a
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vedere la potenza della pietra, la mutezza degli affetti, la naturalezza
del disamore spalancarsi impudicamente davanti a te come se
neanche importasse più di nascondersi ai tuoi occhi, e fosse
indifferente che tu lo sappia o no, il che è una specie di lento e nudo
morire sotto gli occhi altrui, che si accetta alla sola condizione di
non dover soffrire.
Guerre, violenze, spietati conflitti tra fratelli, rancori, risentimenti,
rimpianti sono tuttavia scosse salutari, finché non irrompe la
tragedia, affinché la lenta, inesorabile opera del disamore tranquillo,
dell’indifferenza senza sussulti, dell’opacità dei sentimenti più cari
non vinca, calcificando un cuore al punto che neanche più se ne
accorga.
Davvero c’è da sperare la tempesta negli affetti, che è l’unico modo
per ridare loro vita. E nessuno meno merita di coltivarli e scambiarli
di chi vuole restarsene sordo e pacifico a sopravvivere secondo la
sua natura.
Donne che abbracciano e dimenticano
Vi sono persone, soprattutto donne, che, se le vedi, si profondono
in atti d’affetto, di sollecitudine, di generosità, e quando non le vedi
più, anche solo per un giorno o per poche ore, non ti cercano più né
ti pensano, si dimenticano completamente di te, e quando un giorno
tu le richiami, sperando quasi di aver commesso qualche torto che
giustifichi il silenzio, esse restano naturali e senza sospetto e ti
riservano le stesse gentilezze e amenità che quando tu le avevi
lasciate.
Così ti fanno sentire altrettanto naturale che tu esista e che tu non
esista, e alla fine con esse la presenza e l’assenza, la vita e la morte,
sono disposte piane sui due piatti della bilancia senza che nessuna
prevalga. E benché i sentimenti siano mortalmente offesi, l’effetto
sull’umore è salutare.
Il bisogno di tornare animali
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E se ci fosse, come ho detto altrove, un bisogno degli uomini di
rientrare nel regno animale a più pieno diritto, e non per un generico
dispiegamento degli istinti, ma proprio per diventare chi un orsetto
lavatore nella sua tana, chi un’allodola che fa il nido, chi il cane che
porta a spasso e al quale sempre più assomiglia. Non ha quella
donna l’operosità caotica della mosca e quell’altra il pungiglione
sempre pronto per chi la infastidisce? Non è quella ragazza un felino
e quell’artigiano un castoro puzzolente e simpatico? Nell’occhio
materno e gigantesco della natura noi uomini non siamo che animali
più diversificati, che hanno voluto rendersi inutilmente complicata
una vita che non riesce a essere troppo diversa da quella degli
animali che le sono rimasti in grembo.
Non si sa però fino a quando. Prevedo che nei prossimi decenni ci
sarà una ribellione degli animali, nel senso che ciascuno di loro vorrà
rivendicare la sua personalità, oltre i confini della loro specie e
famiglia. Qualche cavallo si innamorerà di una mucca e il serpente
sedurrà una cagna, l’aquila scenderà all’improvviso in città
innamorata di un piccione e i gabbiani inseguiranno i cani lungo la
spiaggia, decisi a beccarli fino a farli sanguinare. I gatti faranno le
fusa ai cinghiali e i cerbiatti cercheranno tra le ragazze più graziose
tra gli umani. Prevedo grosse sorprese quando non sapremo più
come potrà comportarsi questo dalmata, quel piccione torraiolo,
quel cavallo nero, questo umano.
Moto perenne degli animali
Gli animali sono in movimento perenne. Non soltanto gli uccelli che
fanno migliaia di chilometri nelle migrazioni, ma i cani che vagano
per le città, i gatti che spariscono per intere giornate, i felini in
perpetua caccia e le gazzelle in perpetua fuga. Api, mosche, zanzare
si posano solo per pochi secondi, e insomma tutti gli animali, anche
i più lenti e tardi, tuttavia si muovono incessantemente. E non
dovemmo muoverci noi, che soffriamo stando lungamente seduti e
inerti?
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Il pensiero statico, seduto, quello che Nietzsche chiama dal sedere di
pietra, è sempre più grave di quello che irrompe camminando e
muovendosi. E tuttavia pensare è di per sé un moto perenne,
frenetico, spasmodico se non lo accompagna un moto del corpo, se
anche mai lo può raggiungere e confinare.
Stupefacente l’anima o il pensiero, o quello che sia, che non fa una
piega nello spostarsi anche in un’auto a duecento chilometri all’ora,
in un aereo a ottocento, mentre chi ci osservasse circumnavigare il
globo con un jet rimarrebbe stupefatto molto più che del salto della
cimice del volo di un simile animaletto.
Questo moto tecnologico, che non dipende dal nostro corpo, ci
provocherebbe una vertigine snaturante se non ci fosse un animo
saldo e insensibile, un secondo io pilota mentale dentro di noi,
indifferente come l’intelletto attivo aristotelico.
Sto non pensando così fortemente, così intensamente, che più non
potrei.
28 dicembre
Comicità nell’amore femminile
Difficile provare affetto verso chi non troviamo comico. Questa
sensibilità è spiccata specialmente nelle donne, che trovano sempre
comico l’uomo di cui si innamorano, nei momenti in cui la passione
è meno violenta. Se anche le donne sono sempre meno capaci di
passioni violente, ed è questa una ragione per la quale attraggono
meno gli uomini, riconosci che ciò accade dalla voglia irresistibile di
prendere in giro la persona che amano, di scherzare sui loro difetti,
soprattutto fisici, di metterne in luce le pecche, i tratti buffi e
divertenti.
Perché? Ci sarà sempre una punta del sadismo candido che è
connaturato a gran parte delle donne, che infatti ridicolizzano anche
i propri figli senza accorgersi di essere offensive, e proprio nel
momento in cui li amano di più. Ci sarà la gelosia tipica di quelle
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donne che vogliono rendere meno appetibile agli occhi degli altri la
persona che hanno scelto di amare, e per questo ne mettono in luce
affettuosamente in pubblico manchevolezze private, comportamenti
ridicoli, debolezze inconfessabili. Ci sarà la gioia di amare che rende
liberi, sinceri e disinvolti quando si sa di essere ricambiati e al sicuro
da sorprese.
Ci sarà il senso materno che si scatena in certe donne che adottano il
loro uomo, facendolo regredire con vezzeggiativi, tenerezze e
bamboleggiamenti allo stadio infantile.
Ma tutto ciò non basta. Quando una donna ama molto e
serenamente si accende in lei una conoscenza superiore: la vita è
comica. Perché spendiamo energie straordinarie per minimi risultati,
fatichiamo per decenni dietro una meta quando la morte ci sfila dal
mondo in un attimo, come un ladro ci sfila il portafoglio,
consumiamo idee, energie, emozioni per uno scopo che si rovescia
nel suo contrario, ci prendiamo terribilmente sul serio e ci
disperiamo se non si avvera quello che lascia del tutto indifferente il
nostro vicino di casa, mentre lui dedica la vita a un obiettivo di cui
facciamo fatica a comprendere anche il senso.
E in un momento tutto si volatilizza, svapora e scompare come se
non fosse mai esistito per un cambio repentino dei nostri desideri e
capricci, che prendono un’altra piega da un giorno all’altro.
Chi ama sa benissimo tutto ciò e scoprendo che ciò che fa soffrire,
pesa, fa faticare e mordere i guanciali per una volta gioca a suo
favore, che non solo si può ridere della vita senza far danno a
nessuno, senza deridere, senza compiacersi del male altrui, dei difetti
e delle goffaggini di estranei, ma si può addirittura ridere con chi si
ama, oltre a dare un brivido di insicurezza a un amore sicuro, libera
il cuore.
Una palla comica
La stessa terra è una palla comica nell’universo, se pensiamo alla sua
piccolezza insignificante, rapportata ai dolori e alle fatiche di miliardi
di persone che si sforzano al massimo per conseguire una
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sopravvivenza e uno stato di benessere elementare senza che
nessuno al di fuori se ne avveda, e soprattutto costruendo noi
castelli vertiginosi sulla sabbia e piramidi, torri di babele, grattacieli
su una bolla delicata che il minimo granello celeste potrebbe
distruggere.
Come quando vediamo l’indaffararsi frenetico in un termitaio o in
un formicaio e ci viene da ridere ma anche da rispettare questa
ostinazione incrollabile, perché è vero che un formicaio, ci sia o non
ci sia, non cambia di una virgola la compagine del mondo ma è
altrettanto vero che si potrebbero scrivere volumi e volumi sulla
intelligenza sociale delle termiti e delle formiche, animaletti
insignificanti e meravigliosi, debolissimi esseri che consociati
aumentano però il loro potere, e soprattutto hanno una dignità per
come continuano la loro opera come fossero i soli al mondo.
Un vicino di casa
Parlo della comicità della terra nel pianeta, nell’euforia del passaggio
dell’anno, contagiato dal solstizio d’inverno e del prolungarsi della
luce quando vengo a sapere che un mio vicino di casa è morto,
lasciando due figli ragazzi e una giovane moglie.
Un uomo taciturno e imponente dagli occhi azzurri seri e
malinconici che la moglie amava con tenerezza, con gli occhi che
ridevano per il contrasto tra la figura pubblica di sindacalista severo
e scontroso e l’uomo che solo lei a casa conosceva.
E penso che noi uomini dobbiamo prenderci molto più sul serio a
vicenda, rispettarci molto di più da vivi.
Disciplina
Io non vivo se non mi do una disciplina, come quella di scrivere
ogni giorno o, in altri tempi, di correre ogni giorno, di scrivere una
lettera ogni giorno, di leggere ogni giorno, di non mangiare dolci, di
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non bere caffè, di non offendere mai nessuno, o quello che sia,
perché altrimenti divento aggressivo.
Io mi sono dato la regola di scrivere ogni giorno ma al conteggio dei
giorni a dicembre ho trovato che sono sotto di venti pagine. La mia
regola è ridicola e io sono diventato un personaggio comico. Ma se
la rispetto, scrivendo nell’ultimo giorno le venti pagine mancanti, io
sono nello stesso tempo da rispettare, perché faccio un sacrificio
gratuito e ridicolo da un verso ma ferreo e degno di rispetto
dall’altro.
Per essere rispettati dobbiamo attraversare la nostra comicità con
disciplina.
Ogni indulgenza ai miei piaceri, ogni compiacimento nelle mie doti,
ogni esercizio di una sicura spensieratezza mi fa diventare violento
in modo incontrollabile a parole e a pensieri. Ma se fossi un militare,
un pugile, un buttafuori, una guardia del corpo, certamente lo
diventerai anche con le mani.
La disciplina militare, tanto vituperata, è invece una delle forme più
energiche di dignità, a condizione che non sia volta all’espressione di
un sadismo, al rovesciamento contro un altro di una frustrazione, a
una vendetta delle proprie debolezze contro la forza morale di un
sottoposto.
Sottoporsi a privazioni, come veglie, digiuni, mortificazioni,
astinenze è indispensabile alla vita spirituale. Non c’è purezza se non
c’è sacrificio, privazione, rinuncia, non c’è neanche amore degli altri.
Il fatto che nel clero dilaghi il piacere della gola e che certi preti
siano buone forchette, che certi frati siano obesi, non è per questo
un buon segno. Ricordo lo scandalo e il disprezzo di un monaco
buddista quando, essendo ricevuto in Vaticano, notò che i cardinali
erano quasi tutti grassi. Come puoi coltivare l’anima, pensò, se non
coltivi il corpo?
Ma soprattutto l’indulgere alla gola è un indulgere alla propria
autonomia corporale, quindi spirituale, e rende la nostra capacità di
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amare effusiva e impersonale, idealistica e vuota, perché l’amore per
tutti è infinitamente più debole dell’amore per ciascuno. E soltanto
nel sacrificio puoi amare ciascuno.
Amare tutti è estenuante
Amare tutti è piacevole, amare ciascuno è estenuante. Il vero amore
è il secondo.
Ne ami uno e ce n’è un altro. Ce n’è sempre un altro. E non
arriverai mai alla fine.
Non puoi amare tutti ma puoi tenere aperta verso tutti la possibilità
di amare. Se tagli un ramo nel tuo cuore, quella donna o quell’uomo
con i quali hai scambiato due parole moriranno, e tu ne sarai
corresponsabile, anche se non hai fatto loro nulla di male.
Quando muore una persona che conosciamo, e non amiamo,
possiamo provare un dolore sincero ma solo nella misura in cui
pensiamo che la sua morte non interferisca con la nostra vita, il che
ci metterebbe subito in posizione difensiva e incapace di provare
quei sentimenti che è giusto e umano provare.
Per questo istintivamente le donne e i ragazzi, che più sinceramente
soffrono, continuano le opere della loro vita in completa libertà, mai
pensando che quella morte potrebbe condizionare la loro.
L’amore di sé e quello degli altri sono altrettanto onesti e sinceri,
quando sono affidamento alla volontà di Dio o accettazione
dell’opera della natura. Se invece uno più acutamente soffrisse della
morte di una persona conosciuta ma non amata, imponendosi quasi
un dovere di compassione non nativo, gli altri lo vedrebbero come
timoroso al fondo di sé, pensoso che anche a lui capiti la stessa
sorte, e quindi egoista. Mentre invece voleva esserlo di meno.
Par délicatesse j’ai perdue ma vie
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Quando ero ragazzo e giovane maturo ero dotato di una ultra
delicatezza verso gli altri, fino al punto di cercare di pisciare senza
far rumore a notte fonda per non svegliare i familiari e di scaricare
l’acqua mentre cacavo per non far sentire le scoregge. Quando c’era
una tavola imbandita aspettavo di sedere per ultimo, cedevo i posti a
sedere a ogni riunione e convito, non solo alle donne ma anche a
uomini, e perfino a bambini. Finivo per ritrovarmi sempre in fondo
alla sala, sugli usci, in piedi, agli angoli, perché di rado qualcuno
gareggiava con me in questa ultra sensibilità.
Questa estrema delicatezza, segno di umiltà mescolata a orgoglio, e
giudizio severo su tutti, me compreso, mischiato a un estremo
rispetto per tutti, con gli anni mi è venuta meno, quasi per noia e
nausea nel verificare che la stragrande maggioranza delle persone,
non per questo peggiore di me, di tali delicatezze non solo non fa
conto ma neanche se ne accorge, salvo tenerti per meno potente
quando ti vede in quelle posizioni defilate.
Tanto umile da servire Renzo e Lucia a tavola, ma non abbastanza
da sedere con loro al desco, così il successore di don Rodrigo nei
Promessi sposi. Così io tanto umile da mettermi all’ultimo posto ma
non abbastanza da mettermi in una fila intermedia. Umiltà sì, ma
anonimato no, grazie.
Il permaloso in genere è attentissimo a non offendere per non essere
offeso. E attentissimo a non farsi offendere per non offendere.
Par delicatesse j’ai perdue ma vie. Molti di noi potrebbero ripetere la
frase di Rimbaud. Ma infinitamente di più sono coloro che l’hanno
persa per mancanza di delicatezza.
Rinunciare all’ironia
Chi frequenta gli uomini sa che deve ascoltare sempre molto
seriamente gli altri, rinunciando alle ironie, perché non sa mai a che
cosa siano sensibili e in che cosa siano vulnerabili. Quasi sempre,
quando mi faccio prendere da un’ironia che credo affettuosa e
giocata insieme a un altro, per un comune sorridere sulle vanità che
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secondo me staremmo mettendo in atto concordemente, vedo
l’altro sbiancare o scurirsi, tacere e mettersi sulla difensiva o
progettare un contrattacco.
A tal punto la coda di paglia è lunga e delicata e a tal punto il nostro
egocentrismo è ossessivo che tutto quello che si dice ci pare sempre
detto a noi, per noi e contro di noi.
Il geocentrismo come egocentrismo. L’eliocentrismo come ascesi
scientifica. Il relativismo del moto tra sole e terra, nel senso che
ciascuno gira intorno all’altro, a seconda del punto di vista, come
compromesso dell’età democratica e conciliativa.
L’albergo come porto franco, zona neutra internazionale, esentasse
morali, consolato del cosmopolita, piccola arca degli apolidi. Luogo
fuori del sistema solare.
A volte basta trovarsi in mano un foglio bianco per avere qualcosa
da dire: l’occasione ironica fa l’uomo scrittore.
Lo schema
Lo schema domina ogni cultura. Le cittadine dell’Italia centrale si
assomigliano tutte: le mura, le torri, la piazza, il corso, il comune, il
fiume. Differenziandosi come nella pittura rinascimentale per cifre
stilistiche.
In ogni paese dolomitico troverai un campanile a forma di pennino,
case in legno con viole ai balconi, bar e generi alimentari fatti in
serie, scultori del legno, negozi di articoli sportivi, case con
tavernetta, alberghi, parchi gioco.
Lo schema domina ogni personalità. Il guizzo è estremamente
allarmante, nella città come nella persona, e tanto più in montagna,
dove gli istinti sono censurati e ovattati con tale concorde volontà
silenziatrice che la pioggia cade timidamente, chiede scusa alla terra e
persino agli asfalti, sempre incatramati di fresco.
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Codice evolutivo
I ragazzi sono profondi e morali per natura senza che abbiano
ricevuto un insegnamento espresso. Dobbiamo ipotizzare una
trasmissione genetica non soltanto somatica, ma anche morale e
spirituale. Dobbiamo pensare che la natura inscrive un codice
genetico morale nella specie, ancora da scoprire e da localizzare,
attraverso il quale pilota ogni individuo nella sua morale di
sopravvivenza evolutiva.
La religione è sempre naturale?
Il cristianesimo, come le altre religioni creazioniste, e la natura, nella
sua forma evoluzionistica, non sono incompatibili. Se infatti l’uomo
si sviluppa dalle scimmie antropoidi nel corso di trenta milioni
d’anni, quando compaiono i primi mammiferi, quasi interamente
ignoti per il momento e senza tracce intermedie di nessun tipo, nulla
impedisce che Dio abbia deciso nell’istante x, in tal caso la sua
creazione, di infondere l’anima in queste semiscimmie e semiuomini.
La creazione che conta è infatti quella dell’anima.
Ma c’è un’altra ragione di somiglianza: le religioni della creazione
puntano, come la natura, sulla vita, sulla sua moltiplicazione e
sopravvivenza, esortando le coppie a fare figli, tanti figli quanta la
loro salute, generosità, voglia di vivere e fede consente loro, e
soprattutto a lei, di farne.
Dove il progetto si distingue è nella cura dei vecchi, dei malati, dei
deboli, visto che la natura mostra la minima sensibilità per queste
condizioni e le religioni della creazione invece la massima.
Ma nella guerra, alla quale esse hanno sempre aderito, compreso il
sedicente cristianesimo fino a pochi decenni fa, col più sfrenato
entusiasmo, esse si incontrano di nuovo con la natura.
Qual è allora la differenza che resta invincibile: la natura elimina i
vecchi, i malati, i deboli e le religioni i giovani, i sani, i forti,
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mandandoli a morire a posto loro nelle guerre. Il che è molto più
contronaturale che inquinare l’atmosfera e depositare uranio e
plastica sottoterra.
Gli stati democratici, curando i vecchi e facendoli vivere fino
all’estremo limite oggi consentito, cooperano con le religioni, col
risultato che le specie si infiacchiscono, diventano più intellettuali,
sofisticate, individualiste e deboli, generando un mondo di vecchi
potenti e avidi e di giovani impotenti e nomadi.
E tuttavia la civiltà non ha il compito di spiritualizzare la natura, di
tamponarne la brutalità, di attenuarne la violenza, di ammortizzarne
le disparità, di correggerne la legge del più forte corporalmente con
quella del più disposto a considerare il concittadino un altro se
medesimo?
E allora? Allora la natura è insieme provvida e maligna e la società lo
stesso. Nell’illuminismo ragionavano tanto su quale fosse il modello
di natura sul quale costruire una società e oggi ci avvediamo che è
impossibile costruire una società che non sia naturale, e che, se non
puoi comandare alla natura se non obbedendole, la natura finge di
farsi dominare, e arretra di qualche posizione, ma sempre e solo per
trionfare.
E per forza questo accade, essendo l’unica sul campo, in entrambi
gli schieramenti, pur cambiando il colore delle maglie.
San Tommaso parla di diritti di natura derivanti dalla creazione
divina, John Locke scrive che la vita, la libertà e la proprietà privata
sono diritti di natura, anch’essi di origine divina. Rousseau esalta il
bon sauvage e Hobbes dipinge l’uomo naturale come un lupo.
In ogni caso si tratta di un andirivieni dalla prima partenza, cioè
quella avvenuta in realtà nei propri tempi, abilmente nascosta, e cioè
dai valori che oggi si vogliono sostenere o dai terrori che oggi si
vogliono bandire. Il paradigma della natura, nel quale natura diventa
sinonimo di assoluto, di assoluta verità, non serve che a legittimare
le proprie odierne posizioni di valore e a giustificare un progetto di
società, come quando nella Costituzione italiana leggiamo che la
famiglia è “una società naturale”.
686
Il fatto è che naturale è la violenza micidiale del più forte sul più
debole come la cura amorosa dei cuccioli, l’omicidio dei propri figli
come il sacrificio della vita per la collettività, l’autorità del più
anziano come la sua eliminazione. La natura ha tante contraddizioni
quante ne ha qualunque società mai costituita dagli uomini.
Coloro che difendono la natura ad oltranza si accecano
volontariamente, ignorandone lo scannatoio. E soprattutto si
sbagliano quando presumono che ogni singolo animale (tranne
l’uomo, sempre colpevole) vada salvato mentre se c’è nella natura un
tratto evidentissimo, nel bene come nel male, è che l’individuo è
sempre subordinato alla specie e vale di per sé solo nei
comportamenti che non ne intaccano le ragioni.
Un uomo vale per sé, come individuus, come non divisibile, come
unicum assoluto ma tutti sappiamo che questo è vero solo
simbolicamente. In realtà, come la natura, anche la società può
sopportare la perdita di chiunque.
Con Cristo
Alla fine l’unico uomo della quale l’umanità non avrebbe potuto fare
a meno è Cristo. Questo lo divinizza per meriti umani?
Immaginare l’umanità senza Cristo mette il gelo. Egli sta lì, per
credenti e non credenti, come un riscaldatore dei cuori, attuale o
potenziale.
Come si è incarnato e fatto uomo sulla croce, così si deve
umanizzare fino in fondo dentro di noi, farsi interamente uomo
dentro di noi, farsi solo uomo dentro di noi. Per risultarne Dio?
Se tuttavia Cristo non fosse Dio, cosa penserebbe Dio di questi
uomini che dicono di Lui che si è incarnato in uno di loro, senza
neanche dubitarne mai? A cosa li condannerebbe per la loro
presunzione? Per salvarsi bisogna dubitare anche di Cristo.
Questa riflessione ci dice quanto abbiamo ingabbiato Dio nei nostri
parametri culturali e storici, pretendendo di imporgli i nostri canoni
687
di valore. La possibilità che Dio punisca coloro che credono che
Cristo sia Dio, che Dio si incarni in un uomo, non suscita la minima
reazione perché è fuori da qualunque contesto religioso
storicamente dato.
Dio potrebbe perdere coloro che si credono immortali e salvare
coloro che si credono mortali. Eppure questo farebbe saltare tutti i
legami tra questo mondo e Dio, lo renderebbe del tutto eterogeneo,
incomprensibile e misterioso. Noi ci convinceremmo che Dio ci
tradisca, trattandoci, così e non ci sarebbe nessun merito e gusto a
essere immortali, essendolo per qualcosa e in un modo del tutto
imprevedibile ed eterogeneo rispetto ai nostri parametri di valore.
Dal che consegue che non solo l’uomo adamitico e la donna evale
sono stati fatti a immagine e somiglianza di Dio ma anche l’uomo e
la donna storici, come esattamente si sono configurati nei millenni,
perché se non fosse così, se l’altro mondo non fosse la prosecuzione
di questo, pur nel capovolgimento, non ci sarebbe nessun senso
nella sopravvivenza ultraterrena, e neanche desiderio di quella. Dal
che si comprende che noi comunque vogliamo l’aldilà conforme ai
nostri desideri e alle nostre immaginazioni, ai nostri progetti e alle
nostre volontà, e quindi non è affatto vero che ci abbandoneremmo
totalmente alla volontà di Dio, giacché non conoscendola non
potremmo neanche farlo, ed essendo essa totalmente altra rispetto ai
nostri schemi non ci sarebbe alcun sapore in una nuova vita che non
dipendesse in nessun modo da questa.
Questo mondo è il primo tempo di una partita che si può vincere o
perdere, il primo atto di un dramma che può diventare tragedia o
commedia.
Se così non fosse, se i due tempi e i due atti fossero irrelati ed
eterogenei del tutto, in virtù di un salto in una dimensione solo
metafisica e spirituale, noi non saremmo a immagine di Dio, il
cerchio dall’origine alla fine si romperebbe e coloro che noi
saremmo nell’aldilà sarebbero così lontani da noi da non serbare la
più lontana memoria della prima spoglia.
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Questo ci dice Dante nella Divina Commedia e del tutto fuori luogo
sono i sorrisetti per la sua rappresentazione fisica dell’aldilà, che
sarebbe legata alle esigenze artistiche. C’è una ragione filosofica
profonda in questa rappresentazione, basata sulla memoria
dell’aldiquà, primo fondamento della morale, della religione e di
qualunque esistenza si voglia immaginare in un altro mondo.
Il dubbio è intrinseco alla fede, come scrive Sant’Agostino ma Cristo
dice che chi dubita di lui lo tradisce. Pietro non ha dubitato tre volte,
lo ha tradito tre volte. Di Dio si dubita, Cristo lo si tradisce.
Fa paura il pensiero che non essendo Dio Cristo, come non lo è per
miliardi di persone, anche i cristiani finiscano per idolatrare un
uomo, che almeno però è il migliore.
Può essere buono un Dio che ha creato noi uomini? A fare il male e
a soffrire? Perché sia buono Dio dobbiamo anche noi tentare di
avere un senso.
Maometto
Maometto non è considerato dio dai musulmani, come Cristo lo è
dai cristiani, e allora insistere a metterlo su un piano così superiore a
ogni altro uomo è più un segno di perseveranza e di fedeltà a un
fondatore, ai nostri occhi occidentali, che non di un suo carattere
interamente religioso. Maometto lo ammiriamo, perché ha unificato
un popolo, è un fondatore religioso di potenza immane e un
personaggio storico decisivo; lo rispettiamo, anche per rispetto verso
i suoi fedeli, nonché forse per paura di reazioni aggressive, ma non
lo amiamo perché ci sembra non insegni prima di tutto ad amare.
Soltanto Allah insegna ad amare.
Maometto è il vaso profetico del dettato di Allah. Il credente
islamico, in nome di ciò, mette tra parentesi una quantità di sue
azioni violente come condottiero di popoli geniale, sanguigno e
pragmatico. Né più né meno come hanno fatto gli ebrei con i loro
patriarchi e condottieri. E come fanno quei cristiani che vogliono a
tutti i costi armonizzare la verità di Cristo con la storia della chiesa.
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Pare che Maometto diffidasse della poesia ma questo non vuol dire
che non la sentisse. Anche Platone ne diffidava ma aveva una
sensibilità artistica acutissima, e proprio per questo nutriva sospetti
sulla sua efficacia pedagogica.
Il Corano non è abbastanza poetico per essere vero? È lecito nutrire
dei dubbi. Sia perché ciascuno sente il poetico secondo la sua
tradizione sia perché non è il poetico la misura del vero, se anche le
parole di Gesù sono poetiche in massimo grado nel vero. Se la
Bibbia è molto più poetica nel racconto, nelle immagini e nello stile,
tuttavia il vero poetico di una religione sta nelle esperienze radicali
che milioni di uomini vi hanno vissuto, leggendo quel Libro in
modo del tutto diverso e più profondo da quegli occidentali che
l’hanno sfogliato o studiato come opera letteraria e storica.
Il fatto che più di un miliardo di persone sia musulmano e
rigorosamente monoteista, vivendo una religione assai diversa dal
cristianesimo, benché nata da un ceppo comune, eppure
profondamente sentita e indispensabile a vivere per tutti loro, è un
segno che può essere educativo per i cristiani e per tutti. Perché
nettamente insegna a guardare in alto, a sfrondare le differenze, a
riconciliarci tra donne e uomini di ogni religione, ad accettare il
sacrificio del godimento storico ed estetico di una storia millenaria di
cui siamo compiaciuti, perché ne siamo gli eredi, per accettare il
fatto brutale e secco che bisogna liberarsi anche della propria storia,
del familiare dolore e del familiare amore intessuti nella nostra
famiglia occidentale, e perfino dei capolavori dell’arte e della poesia,
quando si ha a che fare con Dio e col suo aut aut. La religione infatti
dà la gioia del vero se non si gode.
30 dicembre
La pittura di Alberto Burri
Il fatto che non si riesca a distinguere esattamente l’artista dal
ciarlatano è una caratteristica di quasi tutta l’arte degli ultimi
sessant’anni, che si muove appunto su quel crinale, e riesce meglio
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proprio quando vi resta tenacemente, senza cadere nella buffoneria
palese ma senza neanche ricadere nell’arte come veniva concepita
prima che gli artisti percepissero che un’umanità sul crinale poteva
essere provocata solo da un’arte sul crinale. Ma Alberto Burri non è
un bluff.
Quando sono i sacchi a essere incollati, cuciti e pittati sulla tela,
quando le ferite mangiano il quadro, la carne francescana e ribelle
dell’autore ci parla con onesto dolore artistico. La tela a volte è
cadaverica, tra il somatico e l’anatomico, tra l’organico e
l’inorganico, e le cuciture sembrano quelle dei cadaveri in autopsia.
È la guerra che continua nelle sue opere, nei sacchi di iuta come
sudari, veroniche, sindoni del soldato anonimo. Il rosso di cadmio è
sangue umano che inzuppa i panni, le lamine sono quelle dei carri
armati, dei cannoni, delle mitragliatrici, l’odore è quello del metallo
incandescente e tagliente. Con le plastiche comincia il morbo
radioattivo a manifestarsi, con le crette, sono le crepature delle
coscienze e dei corpi. Nel ciclo dei neri, perché tanti e diversi sono i
neri, più o meno lucidi o opachi, più o meno fondi e riflettenti, Burri
ci invita a guardare il giorno nella notte, e non dopo o prima.
Tristemente giocoso il tentativo che fa, negli ultimi anni, di parlare
con i colori perché sono invece i colori con la loro chimica bellezza
che gli prendono la mano e cantano la loro canzone indifferente agli
uomini e scorporata dalla natura come una danza chimica artificiale
e impersonale.
Si parla di arte astratta ma si dovrebbe chiamare arte scorporata,
perché essa esprime o stimola o risveglia sensazioni, emozioni, idee
senza passare attraverso i corpi. Dalle emozioni dell’artista a quelle
dello spettatore senza passare per il volto e per la sagoma umana. Si
abbandona il corpo come canale, come veicolo identificativo e si
fanno trapassare flussi di pensieri materiali dall’artista allo spettatore
attraverso la materia.
Alberto Burri dice che “la pittura è un’irriducibile presenza che
rifiuta di essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione: una
presenza nello stesso tempo immanente e attiva.”
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Nessuno come un artista vero è terrorizzato dal vaniloquio della
critica d’arte contemporanea e abbastanza megalomane dal puntare,
anche se non lo dice, a una verità assoluta della sua opera.
Ho detto dell’artista contemporaneo che, se reale, è sempre sul
crinale tra arte e ciarlataneria e devo dire che è anche su quello tra
umiltà e megalomania. Un’arte che non si fa tradurre, non diciamo
spiegare, non diciamo interpretare, ma tradurre in parole è una verità
ineffabile e quasi divina. Ogni opera d’arte è piena di parole e
pensieri disseccati e morti nascosti dentro, a meno che l’autore non
sia figlio di dei.
È singolare perciò che il massimo del disincanto artistico coincida
col massimo del misticismo artistico, in quanto la verità di un
quadro, che comprende tutto il suo sviluppo e il processo di
composizione, starebbe davanti a noi come “presenza irriducibile”,
come una parete scrostata, come una muffa su un tronco, come
un’arma marcita. In modo ancora più mistico anzi, in quanto quei
fenomeni e oggetti possiamo descriverli e collegarli a tantissimi altri
fenomeni e oggetti e la singola opera solo con le sue consorelle della
sequenza.
Per l’artista è naturale che sia così ma dal momento che espone le
sue opere, e negli spazi immensi dei Seccatoi del tabacco di Città di
Castello, egli cerca lo sguardo degli umani, di fronte ai quali queste
“irriducibili presenze” devono trasmettere sensazioni, emozioni,
pensieri. Rivelazioni, forse? Reazioni di qualche genere in ogni caso.
E reazioni che si bruciano nella contemplazione o nel semplice
guardare prolungato o che producano degli effetti anche dopo?
Reazioni non traducibili in parola e traducibili allora in che cosa? In
sensazioni altrettanto ineffabili?
Noi che assistiamo solo alla striscia, all’effetto, alla scia dell’arte,
bava mistica sulla tela o guardiamo le venature dei legni, le plastiche
bruciate, le iute spiaccicate non potremo né spalancare la bocca e
dire “bello” né potremo spiegare ma potremo solo respirare
quest’arte senza commentare tra noi o con altri?
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Di fatto però lo facciamo. Un mio amico ha detto: “Certo non è
Picasso”, un altro: “Non capisci se ci fa o è proprio così.” Un terzo
ha notato una virtù più di arredatore che di artista nelle grandi opere
in cellotex, che potrebbero fare effetto nella hall di un grande
albergo, in un atrio immenso, in un salone. Un effetto del tipo
mordi e fuggi. E a patto di essere sole e improvvise.
Eppure siamo usciti emozionati e contenti dall’esposizione, con
molto rispetto.
Il passaggio della verità da materia a materia, dal cervello artistico
alla materia dell’opera al cervello dello spettatore fa rientrare l’arte
nella natura, una natura vista come rivelazione dell’uomo naturale
Burri o come rivelazione della natura comune, secondo me, del
dopoguerra?
Avventurare il caso, il caso che fa sì che l’intonaco di una casa si
gonfi per la pioggia, che sul muro si formino delle macchie o delle
muffe, che il metallo di un mezzo militare si ossidi in modo
irregolare. Dove per caso intendo non già che non esistano leggi
fisiche necessarie all’opera ma che non vi sia una volontà finalistica
vòlta alla vita come nel formarsi dei polmoni e del cuore in un
neonato.
Da notare che le materie di Burri sono, a parte i legni, tutte artificiali:
iuta, catrame, plastica, lamiere cellotex, colori chimici. Burri vuole
rubare il caso alla natura e creare quadri di natura artificiale e umana.
Vuole omaggiare la bellezza casuale della natura necessaria,
pilotando l’involontario: l’ossidazione di una lamiera, l’imbrunirsi di
un sacco di iuta.
L’arte come accettazione del caso nella materia, come comprensione
dell’umano nel gran mondo della materia, nel concerto involontario
e disseminato delle materie che attraversano la vita umana,
comprendendole al loro interno.
Il suo gesto demiurgico sta nel riquadro geometrico al quale non
rinuncia mai, dentro il quale avviene la traslazione della natura, e
della natura artificiale, in arte.
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Secondo me Burri si è trovato a un punto in cui avrebbe dovuto
cominciare a lavorare col sangue, con lo sperma, con la piscia e con
la cacca, col muco e col sudore, col siero e con la pelle, con la cispa
e col cerume, col fiato e con il siero, avrebbe dovuto approfondire la
ricerca arrivando al corpo non per rappresentarlo ma per farne agire
i liquidi, le secrezioni, le deiezioni, esito coerente di tutta la sua
storia. Arrivare cioè all’incarnazione della materia.
Invece si è affidato ai colori, il che è stato una fuga decorativa e un
tradimento, un tradimento che lo umanizza e ci fa comprendere la
sua natura buona e pura. Questa sua ritirata in una vecchiaia
piacevole è stato un gesto di pazienza e di umiltà, molto umbro e
molto radicato nella nostra cultura dell’Italia centrale.
Ma poi si è riscattato con i neri, da vero dialettico, che tornano a
emozionare col loro mistero evidente, con la loro notte artistica e
piena di vita.
L’effetto della sua opera è profondo e non lo dimentico, e le sue
“presenze irriducibili”, se sono filosoficamente deboli e negli effetti
emotivi e sensitivi discontinue, sono anche però un fatto
dell’esistenza oltre che un fatto della visione. Da figlio illegittimo
della guerra e figlio del francescanesimo umbro, il megalomane
Alberto Burri continua misteriosamente a far respirare una verità
artistica irriducibile, stranamente sorella a quella naturale.
L’incompiuto
Mi fermo poche pagine prima del compito che mi ero posto
liberamente, di scrivere tante pagine quanti i giorni dell’anno. Vedi
come affiora sempre e comunque il carattere dell’autore, il mio
desiderio di incompiuto, il mio spirito di iniziatore e non di
terminatore, talvolta persino il bisogno di fermarmi a un passo dal
traguardo e dalla vittoria, e mettermi a passeggiare come se la strada
fosse infinita. Per poi irritarmi se gli altri, continuando a correre, mi
sorpassano. Volete forse lasciarmi solo?
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