Palinsesto 2009
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Palinsesto 2009
Enrico Capodaglio Palinsesto 2009 188 La cacca Leopardi osserva con molta discrezione nello Zibaldone che l’odore della nostra cacca a noi fa piacere mentre gli altri li disgusta. Per questo parlarne è sconveniente: non solo perché ci associano per sempre a qualcosa di disgustoso ma perché sono i piaceri degli altri che ci disgustano. Si dice che per andare di corpo c’è bisogno di intimità, come per qualunque altro piacere. I rumori delle scoregge ci rendono ridicoli, gli odori della nostra cacca ci sviliscono profondamente agli occhi altrui. Un ragazzo mi disse sdegnato e sprezzante che era passato un uomo scoreggiando e si capiva che per lui aveva toccato il fondo dell’abiezione. Dicono che quando sei innamorato di una donna che non ti vuole e vuoi liberarti dalla fissazione basta pensarla mentre fa la cacca. L’esperienza dimostra che non sempre funziona. Se una persona ti è cara, ti immagini anche la sua cacca profumata e il suo culo pulito. Ogni senso ha la sua secrezione: gli occhi la cispa, le orecchie il cerume, il naso il moccolo, la bocca la saliva, la bava e il catarro. L’uomo solo se ne libera con le dita, ci si trastulla piacevolmente ma deve stare bene attento a non farlo sotto gli occhi degli altri. I bambini invece si ficcano le dita nel naso e poi lo inghiottono, leccano il cerume, giocano a schizzarsi il moccolo, parlano di continuo, fino alla maggiore età, delle scoregge, ruttano in continuazione e ridono, mettono tutto in bocca per saggiarlo, per farlo tornare nel corpo dal quale è uscito. Ma già alla loro età ogni secrezione degli altri ripugna per quanto più piacere dà a se stessi. Allora ne ridono svergognandoli. Le donne in genere parlano con molta disinvoltura della cacca e sono capaci, anche nell’intimità amorosa, di illustrarti con disinvoltura e umorismo le vicende delle loro sedute mentre noi uomini cominciamo a innervosirci per le associazioni impoetiche e deprimenti che ne provengono, prova del genere diverso della nostra immaginazione e del nostro diverso modo di amare. 189 8 gennaio Lingua nuova, vita nuova Quando vai in un nuovo Paese non lo abiti veramente se non ne conosci la lingua. E non basta neanche parlarla, devi proprio pensare in quella lingua, perché quello che vedi solo in apparenza è quello che vedono gli altri, finché non lo percepisci anche sensorialmente, fin negli odori e nei sapori, dentro quella lingua. Per questo cambiare paese ti ringiovanisce e rigenera. Tu metti in atto un azzeramento dei modi usurati della tua percezione e del tuo pensiero, che finiscono per avvitarsi e ripetersi, e ricominci da zero, rinasci. Tutto il mondo si rinfresca e si ossigena e tu ti senti come un bambino disposto a stupirsi di nuovo di tutto, con in più la tua sicurezza linguistica di origine. La neve infatti diventa la neige ma resta pur sempre la neve, il marciapiedi diventa le trottoir ma resta italiano quando serve. Acquisti così un secondo corpo e una seconda vita, come conferma la curiosità che si riaccende, il buonumore che ritrovi ad ogni risveglio, la sensibilità corporale al cambiamento di umidità e di luce. Non conoscendo poi tutte le parole della lingua che tutti parlano, tu resti di fronte alle cose e alle situazioni che non sai nominare ancora nel piacevole stato di un bambino che si diverte a restare sospeso tra la cosa e il nome, a giocare con la lingua, a dialogare con umiltà e gioia con le persone che, magari facendo i camerieri o i commessi, ne sanno nondimeno più di te, almeno per i termini quotidiani, che sono infiniti, e prendi a rispettarli di più, a temerli, a vederli come un piccolo vede i grandi. Quando, leggendo un libro in altra lingua, rispondi a chi te lo chiede che lo stai leggendo in italiano, contro l’evidenza dei fatti. E poi ti accorgi, stupito, che non è così, sei compiaciuto di aver letto il francese o il tedesco con la naturalezza del lettore della propria lingua. E ti viene la netta sensazione che esista una superlingua universale, che non è in forma di parole, come un’intelaiatura fittissima di pensieri-parola, indicibili e non scrivibili, che noi 190 riempiamo con le parole dette e scritte nelle lingue che parliamo abitualmente. Senza questa lingua universale, non in forma di parola, dalla quale traduciamo nelle lingue singole, questo fenomeno non sarebbe possibile. Ci sono due modi di pensare: pensare in forma di parole e pensare prima delle parole. La forma più vitale e forte è la seconda, mentre la prima è già una conversione a fini sociali. Io riporto su queste pagine solo i pensieri che non sono nati in forma di parole. E allora scriverli in francese o in tedesco non li cambierebbe. Se invece io li avessi pensati fin da subito in forma di parole, la lingua e lo stile nei quali sono nati sarebbe indispensabile. Da ciò si ricava che un poeta pensi già in forma di parole? Che quindi un poeta, contrariamente alla vulgata, è molto più razionale e cosciente di un prosatore? Sì. Leopardi scrive che, ormai disingannato, avrebbe potuto innamorarsi soltanto di una straniera. Infatti una straniera metterebbe in moto l’immaginazione e le illusioni in modo molto più vivace, ricordando a ogni parola pronunciata che non sarà mai del tutto nostra, pur sollecitando ad ogni passo il desiderio che lo sia. Innamorarsi di una donna è sempre innamorarsi di una storia, fin dalla prima infanzia di una persona. Gli innamorati sono interessatissimi alle prime parole pronunciate dalla donna amata, alla scuola elementare che frequentava, ai genitori e persino ai nonni. Con una straniera ci si innamora anche di una cultura, di una nazione che lei ingloba in un uovo armonico. Anche se la donna non ne sa nulla si proietta su di lei, si incorpora in lei tutto ciò che di quella nazione sappiamo, e la ragazza più semplice porta in seno la storia di Francia. Ogni donna ha le sue forme di governo, le sue trasgressioni, i suoi diseredati, i suoi potenti, i suoi giacimenti diamantiferi, i suoi sobborghi sciatti e disperati, i suoi odori inconfondibili, le sue pene di morte, le sue grazie presidenziali. 191 8 gennaio Shoah The show must go on? La Shoah trasformata in show, in rituale di massa in nome della memoria. Non solo milioni di studenti europei, cosa buona, li visitano ma le stesse agenzie turistiche, cosa meno buona, organizzano viaggi nei Lager tra una festa della birra e una pinacoteca. I turisti si vantano di averne visitati parecchi e li confrontano stabilendo la graduatoria del terrore. La memoria è diventata un valore morale assoluto, riferita in senso eminente proprio alla Shoah. Il diritto ti spinge a dimenticare, il dovere a ricordare. Gli assessori di tutta Italia, nel giorno della Memoria, convocano nei Palazzetti dello sport milioni di studenti ad ascoltare i sopravvissuti. Forse sono proprio loro i soli che possono capire dal di dentro e con limpidezza. Ne escono assorti, purificati, senza parlare. Non sono spaventati né sconvolti. Nelle loro fibre scende la cenere e la verità gigantesca della morte assurda, imposta da non uomini, scivola nel sangue di ragazzi allegri e incantati, rallentando il battito con lentezza solenne e pura, per cinque, dieci minuti. Liliana Segre, sopravvissuta al Lager, descrive la sua infanzia e la sua adolescenza. Si realizza nel suo racconto quella che Marcel Proust definisce nella Recherche “il misto della sopravvivenza e del nulla”, la deflagrazione del ricordo, soltanto che la perforazione del ricordo non avviene nella felicità, non si apre nell’estasi del transtemporale ma nell’orrore di un passato che non è mai passato, di un presente che non muore mai. Questo fa impazzire. È una forma allucinatoria di evidenza: si racconta nuda davanti ai nazisti che ne esaminano il corpo, la rasano, le tagliano tutti i peli, la tatuano. Assiste ora al cumulo dei documenti bruciati, alla morsa del numero sul braccio che sostituisce il nome. Guarda la neve grigia per le ceneri della ciminiera. Dorme vestita col capo sugli zoccoli. Si trova in uno spazio vasto e sadicamente tranquillo, in mezzo a 192 sconosciuti spietati. Va in fabbrica a fare bossoli di mitragliatrice con trinciatrici di ferro e si dice: “È sera, un altro giorno è passato e sono viva.” Soffre la fame e il freddo. Una mela, un biscotto, una sciarpa diventano sogni impossibili. Scrivo: “Soffre la fame e il freddo.” Ma che cosa significano per me queste due parole, se non le ho mai provate? Non sono due malattie, sono due forme di anti vita, due modi di non essere che ignoro. Dovrei scrivere: “Diventa fame e freddo.” Pur continuando a non poter capire che cosa voglia dire. Quando Mengele ha ispezionato, nel Lager di Auschwitz, la sua cicatrice malfatta dai medici che l’hanno operata di appendicite, dicendo: “Se la porterà dietro per tutta la vita ogni volta che si spoglierà”, lei ha sentito il cuore battere. Un segno di salvezza nella selezione periodica che condannava alla camera a gas tante ragazze per un difetto minimo. Come Justine, che si è tranciata due falangi, nella fabbrica di proiettili per mitragliatrice il giorno prima, e proprio per questo viene uccisa. Liliana, salva, non si volta più indietro, “in uno scoppio di felicità”. La volontà di vivere, quanto conta per sopravvivere? Certo, non è bastata per la maggioranza, ma neanche per te che sei sopravvissuta. Allora non pensavi che al passo seguente. Senza orologi, senza tempo, senza stagioni, in uno spazio chiuso all’aperto. E quando soffri freddo, fame, paura, quando sei uno scheletro di ragazza gonfio e nudo sotto gli occhi dei mostri, cosa fai? Ti guardi i piedi, risponde Liliana, e fai un altro passo, fino a sera. Diventi egoista e pensi a salvarti, non puoi essere generoso. L’amore è inaugurale. O nasce sempre per gratitudine di un bene che Dio o gli altri uomini ci hanno dato. Io sperimento l’amore dentro un sentimento di riconoscenza che mi spinge, una gioia che si espande verso gli altri come la luce, non come un merito personale. In questo senso è vero che Dio inaugura l’amore e tu lo trasmetti. E, comunque sia, rispondi, se vuoi, con amore a un bene che ti scalda. Nel Lager quindi l’amore era impossibile se non ai santi. Liliana Segre racconta di quegli ebrei che dondolandosi pregavano nel vagone e lodavano Dio. Gli altri vedevano il loro 193 organo dell’amore rimpiccolirsi, umiliarsi, rinchiudersi come un fiore all’approssimarsi della notte, i gambi piegarsi, i petali chiudersi. Difesa elementare dei fiori umani quando viene la notte, smettere di amare. Tre ragazzi parlano tra loro, i soli su duemila, e lei si ferma, li fissa: “Quando avrete smesso di parlare, ricomincerò”. Li umilia profondamente, ma è la sacerdotessa di un rito sacro. Eppure è stata una debolezza. Avrebbe dovuto ignorarli, non perché l’ascolto, tanto più se della tragedia della Shoah, non possa essere obbligatorio. Ma perché parlare è un buon inizio del silenzio. Alla fine un applauso, che è il modo universale di agire della massa e assume significati sempre diversi a seconda del contesto. Meglio sarebbe stato alzarsi e rimanere zitti ma qualcuno avrebbe dovuto ordinarlo, e non avrebbe avuto senso. In questo caso vuol dire rispetto, affetto, ammirazione. Ma sempre anche sollievo, liberazione, atto di chiusura di un flusso di emozioni dalle quali vogliamo staccarci per sempre. Rito anch’esso attraverso cui la folla si scioglie e respinge nel passato ciò che l’ha fatta fremere e commuovere. L’uomo solo sopporta giorni di silenzio, per la massa un solo minuto è un’esperienza estenuante. 10 gennaio Ripensando Il nazismo è terribile per gli uomini ebrei che ha ucciso e per quelli che ha lasciato sopravvivere, i quali sperimentano l’esperienza più cruda del passato che non passa, di un tempo inchiodato e conficcato nel flusso, per cui tutto ciò che è accaduto dopo non ha potuto in nessun modo scioglierlo e fluidificarlo. Per capire il nazismo bisogna osservare gli occhi innamorati di una contadina bionda e paffuta che porge il neonato a Hitler, in un film di propaganda della Riefenstahl, Il trionfo della volontà. Lo adora, è esaltata, gli occhi scintillano e tutto il busto è intriso di una passione 194 erotica e casta. Hitler prende in braccio il pargoletto con un sorriso umoristico e affettuoso. Il popolo tedesco ha amato sessualmente il suo tiranno. Una collettiva carica ormonale ha investito il dittatore, come un’immensa orgia di felicità popolare che si è scatenata nello stupro di altri popoli, suscitando una angoscia distruttiva che, finito l’amore del popolo per se stesso, non ha desiderato altro che morte e annullamento. Per capire l’immenso potere impersonale della dittatura televisiva oggi, Argo dai miliardi di occhi, il potere dell’automa infinito che ci governa tutti, compresi i potenti della terra, i quali non aspirano ad altro che alla verità televisiva, bisogna guardare attentamente gli occhi delle telespettatrici. Esse non vogliono la violenza e non vogliono neanche l’innamoramento, ma cercano la gioia primitiva della sparizione, del delegare ad altri la propria vita, di diventare occhi contemplativi della vita fatta, goduta e sofferta da altri. Pur credendo di vivere beatamente la propria. Questo movimento di annullamento, di regressione, di risacca mondiale, di bassa marea è la reazione a una società tempestosa che le sconvolge, le sfida, le stanca, le costringe all’azione in ogni momento della giornata. Mentre dovrebbero essere loro le contemplate, le ammirate, in un ovulo di noia e di armonia, e noi maschi corrotti non vogliamo capirlo. La televisione è per le donne un letargo, una scatola del disamore, dalla quale spetta a noi liberarle. I cantautori sono i poeti di oggi I cantautori sono i poeti delle masse, cioè per quasi tutti i soli poeti. Fabrizio De André, che pure non osava chiamarsi tale, è ricordato in tutta l’Italia commossa, a dieci anni dalla morte: concerti, trasmissioni, rievocazioni, filmati, special, tutto un epos di memorie e di solidali intenerimenti, rivolti da più generazioni a un uomo per fortuna onesto, profondo, dal talento musicale forse monocorde ma dall’ispirazione coerente e vera, fino a delineare una sintesi dei valori più umani, sentimentali, caldi e civili di una giovinezza moderna. Mario Luzi, che assai lo stimava, forse il poeta italiano più completo 195 del secondo Novecento, è già indebolito nella memoria comune, e quasi mai è presente nel cuore e nella mente della gioventù. E in ogni caso mai ci saranno letture pubbliche delle sue poesie in tutta Italia al cadere di un anniversario della sua morte. Semmai, giornate di studio. I poeti si studiano, i cantautori si ascoltano. I testi delle canzoni di De André li sanno tutti a memoria mentre a fatica troverai cento italiani che ti sappiano dire a memoria una sola poesia di Mario Luzi, pur avendone egli scritte più di mille, e spesso meravigliose. I cantautori sono personaggi. Cosa fanno, qual è la loro famiglia, dove vivono, cosa pensano, cosa mangiano, per quale squadra tifano, quali sono i loro amori, interessa la gran parte delle persone, soprattutto giovani. La loro vita è presa grandemente a cuore dagli italiani, soprattutto dalle ragazze, almeno fino ai quaranta, quarantacinque anni. Sono oggetto di un collettivo innamoramento contemplativo. Gli occhi delle donne brillano, e persino quelli degli uomini. Sicuramente c’è una vibrazione sessuale, e anche omosessuale, in questo fenomeno di sublimazione artistica. Tutti rivivono musicalmente la loro vita, assimilando i valori trasmessi dalla vita di un altro, fantasmatica. Il cantautore è soprattutto un vibratore delle emozioni collettive. Né vale dirle popolari. Tutte le emozioni lo sono. Mentre anche i nostri più bravi scrittori e poeti (di veramente grandi oggi o non ce ne sono o non possono essere percepiti come tali) restano anonimi nella loro vita. Non si intesse più una mitologia intorno a loro da parte dei giovani, come avveniva ancora in Italia fino agli anni 60. Pasolini, Pavese, Hemingway, Bassani. Quando l’epopea della propria vita interiore veniva proiettata su uno scrittore che ne possedeva la chiave magica e crudele, e realizzava ciò che noi febbrilmente soffrivamo, pur continuando a soffrire egli stesso, ma su un piano leggendario. 196 E tuttavia i cantautori non riescono a entrare veramente nella vita delle persone, se non nei momenti ludici, collettivi, emotivi, canori. Il poeta invece, che entra per le brecce nella coscienza, che dirompe, che fa ballare le immagini, che insinua un altro mondo, un’altra luce del mondo, all’inizio fa paura. E nello stesso tempo, nei momenti più seri e cruciali, più soli, vuoi sapere qualcosa della sua vita, perché ne va della tua. Ripugnante è il poeta che parla sempre di sé. Siccome la parola è la sua realtà, sarebbe come se un cantautore cantasse sempre. La poesia, tornata all’alleanza delle origini con la musica, muove gli animi di tutti, perché incarna il poetico corale della vita, il solo per il quale oggi si abbia una sensibilità. Così proprio il poeta è privato del poetico, e diventa oggetto di studio, di imitazione, di concorrenza nel successo, un agente e rappresentante di se stesso, che si costruisce una clientela esoterica ma che non diventa mai popolare. Il poetico nella poesia si stranisce, si stilizza, diventa cifrato e aristocratico, e soprattutto viene ad essere privato del tutto della sua cassa di risonanza: la vita interiore. I lettori infatti non ne hanno più una. Il percorso labirintico per arrivare al bene e al bello li disgusta e spaventa. Amano i labirinti finti e brevi di Gardaland e di Disneyland Paris, il gioco dei sentimenti che sbocca subito in una canzone cantata tutti assieme. Il cantautore è il poeta della vita esteriore, estroversa, condivisa, socializzata, del sentimento pubblico. Il luogo che per unanime consenso spetta alla vita interiore è quindi la solitudine, una raffinata e giusta punizione a se stessa, al proprio spirito antidemocratico e al proprio cattivo carattere non canoro, non musicale, non socievole. Il poetico oggi si trova nella canzone, nel cinema, nella religione, nei sentimenti provati dal vivo, soprattutto nell’amore, e nei paesaggi contemplati per due secondi, qualche volta nel romanzo e nel racconto. Ovunque tranne che nella poesia. 197 11 gennaio Solitudine dei poeti I poeti sopportano stoicamente la solitudine e il silenzio in cui sono relegati, interrotto solo dalle recensioni dei critici e degli studiosi, da incontri col pubblico, che va dalle dieci alle cento persone al massimo, pensando che i loro versi avranno il tempo dalla loro parte. Passano pochi anni dalla loro morte e vengono dimenticati: Caproni, Bertolucci, Sereni, Luzi sono oggi pressoché cancellati per quasi tutti, se non quando sono investiti dalla giostra accademica, dalle rievocazioni nelle città in cui sono vissuti, da cicliche lamentazioni sui quotidiani per l’ingiusto oblio che li ha colpiti. Ma tutti vengono dimenticati a turno e a turno si ricorda questa dimenticanza colpevole. Eppure di nascosto, e quasi con vergogna, ce ne nutriamo, ci confortano e spiegano quanto il mistero sia inespugnabile, e degno di essere vissuto, come un paesaggio fantastico che non ci rivela nulla ma nel quale è bello persino gelare. Oggi possiamo farne a meno quasi perfettamente, nessuno ci è indispensabile. E quando scopriamo che non li rileggiamo più, ci accorgiamo che oggi ciascuno, grande o piccolo, ha un solo turno di lettura, che colui che credeva di spiegarci il mondo non è che l’ennesimo uomo che al mondo per breve tempo si è aggiunto, prima di miscelarsi in esso e tornare una delle infinite voci nella crosta sonora. Non è da saggi allora sentirci fin da subito cellula infima del mondo? E questo capita a uomini straordinari, che hanno saputo e sanno imprimere il loro stigma al dolore e alla speranza comune e spostare la conoscenza della nostra ignoranza un millimetro più in là. Di tanto in tanto li incontra uno scienziato universitario dal camice immacolato, un animo raffinato e selvatico, un altro poeta che si volge a essi con ammirazione e pietà, una donna febbricitante e limpida. 198 Un lettore giovane sbircia i versi in libreria. Ma come si volge ai libri sul paranormale o sui vegetariani, con una sensazione di blando esotismo. La differenza tra un poeta e l’altro non sta nella profondità dell’effetto, ma nella frequenza della comparizione. Certi sono omaggiati per una volta sola, un minuto che vale per sempre, altri godendo più turni, ciascuno di un minuto. La democrazia mostruosa che viviamo dà a ciascuno lo stesso biglietto della lotteria, al massimo lo dà più di una volta. È vero che ci sono i festival, della poesia. Ma nota che essi moltiplicano il numero degli autori in proporzione. Se raccolgono anche cento persone a un incontro, ciò succede perché ci sono una cinquantina di poeti a leggere versi. Se compari in televisione, si parla di milioni di spettatori, una minima parte dei quali è sufficienti a decretare il successo di un libro. Se però in tal modo ti leggeranno decine di migliaia di persone, tendi a scomparire come autore e a trasformarti nel libro stesso, che una piccola parte di quelli che hanno comprato finiscono per leggere, anche per l’illusione di diventare riconoscibili come persone colte presso quelli che hanno visto la stessa trasmissione. Tanto più è letto il tuo libro tanto meno tu esisti. Il canto è nella canzone. Le poesie sembrano stonate. Esse vengono recepite nel migliore dei casi come vibrazioni sofisticate della lingua, che vien messa in tensione, come si dice di un arto (così ha scritto una volta Valerio Magrelli), come un elettromassaggio che rassoda i muscoli e allena i nervi da usare per le camminate serie della vita. La maggior parte degli italiani neanche le capisce. Per chi si azzarda, si rivelano sequenze lessicali dolorosamente indecifrabili, che mettono soggezione, e presto stancano. Le poesie restano in mano a club massonici, a confraternite esoteriche, a liturgie di sette, a collezionisti filologici, a giovani esploratori. 12 gennaio 199 Popolarità canora La canzone non potrà mai essere comparata, e tantomeno equiparata, a una poesia. Se noi leggiamo il testo che, cantato, ci pare più bello, suona quasi sempre o ridicolo o patetico o banale. E così deve essere. Se il testo di una canzone è leggibile come una poesia non è un buon testo. Infatti la musica e le parole devono essere indispensabili una all’altra, come due amanti, altrimenti sole e insoddisfatte. Nella canzone, melodica o rock o punkrock che sia, potremmo dire che la musica è parte del testo, o tingendo e sfumando il significato delle parole o variandolo, oppure capovolgendolo. E che il testo è parte della musica, indicando come interpretarla, come assecondarla ma anche come smentirla e sviarla. Anzi potremmo dire che la musica è testo vocale e le parole sono testo musicale, testo melodico. La melodia deve avere in sé qualcosa di verbale allo stato latente e tra le parole vanno scelte quelle umide di musica. Una canzone dura tre minuti e viene scritta quasi sempre di getto, per uno sgorgo di vena repentino, e rifinita e arrangiata in qualche giorno. E a volte viene cantata per decenni in tutto il mondo, nelle occasioni più impensate, tanto che l’autore con un unico sbocco ispirato di pochi minuti fa la sua fortuna per una vita. Scrivi una poesia quasi perfetta ed essa resta nascosta anche per sempre, o per secoli, e comunque viene riconosciuta da pochi intimi, tranne forse nella letteratura italiana soltanto L’infinito, e di altri componimenti diventa famoso un verso o un distico, il più delle volte sradicato a sproposito. E per quella sola poesia, scritta anch’essa magari di getto, hai studiato per anni, arando il terreno come un bue malinconico, perché nascesse. La letteratura non è più nei romanzi 200 Come la poesia non è più nei versi così la letteratura non è più nei romanzi. L’arte del racconto è nei serial televisivi, nei quali milioni di persone ogni giorni si immedesimano. Come il pubblico popolare dei giornali leggeva Dickens a puntate, oggi segue Un posto al sole o Beautiful e si immedesima nei personaggi con lo stesso spirito autoironico e sentimentale con il quale venivano letti un tempo gli scrittori dalle ragazze pratiche che sapevano benissimo che la vita è un’altra. Ai raccontatori non resta che o imitare i serial e gli sceneggiati televisivi, come i più fanno, o aspirare a una conoscenza aristocratica e profonda delle cose, che sarà sempre riservata a pochi, e quindi, non rivolgendosi più alla maggioranza, dirà poco anche della realtà, che dalla maggioranza è fatta. Il passo successivo, l’unico che può salvare uno scrittore di oggi, è quello di imitare gli antichi filosofi, che erano maestri di vita, che pensavano la loro stessa vita e vivevano il loro pensiero. Uno scrittore sempre più oggi è costretto, per sopravvivere, a vivere la letteratura, ad essere fino all’estremo un uomo vero. E forse avrà la sua scuola e la sua rete amicale di venti o duecento persone. Ma non è questo che importa. Allora che cosa? 13 gennaio Camaleonti Ci sono veri maestri nel provocare e indirizzare la volontà altrui, per esempio con atti di crudeltà immotivata rivolta agli amici più stretti, dopo una lunga stagione di affetto, con umiliazioni miste a complimenti, con provocazioni atte a ferire e a suscitare le tortuose reazioni dell’orgoglio, spesso incline all’autolesionismo, con promesse convinte misteriosamente tradite. Il modo manifesto col quale operano non rende meno efficace la loro azione, che essi hanno già sperimentato con successo più volte. Queste persone si dicono piccole e insignificanti e ottengono i riconoscimenti che vogliono, si dichiarano leali e rigorose e scartano 201 ogni patto e impegno come anguille, sembrano soffrire in modo maledetto e rovente e appena cambiano compagnia si dimenticano di tutto e ridono beate. Sono i camaleonti della società italiana, gli istrioni e i paraculi, simpatici e guizzanti, animaleschi e sottili, in grado di sventagliare tutti i sentimenti con la più gelida (ma calda all’aspetto) indifferenza nel giro di pochi minuti. Ti possono massacrare con il sorriso e pilotare per mesi, mostrando di essere i tuoi fedeli servitori. Ti usano senza mai farsi usare, ti succhiano senza sprecare per te che qualche romantica e gratuita lode. Se ne trovano in politica, nell’industria, nella letteratura, nelle società sportive, dovunque il gioco dei caratteri presume abilità mimetiche e istrioniche sofisticate. Vincono sempre perché non credono nella vittoria e sono capaci di descrivere il loro comportamento con perfetta precisione e una sincerità tanto più completa in quanto in nulla intacca il loro modo di comportarsi e diminuisce il loro potere. Ci sono uomini che nascono così, come animali che nascono tigri o caprioli. Lo sanno è combattono la loro disperazione rilanciando la posta. Retroscena Neanche gli autori di best sellers diventano personaggi: la loro vita privata lascia del tutto indifferente il pubblico, che pur legge tutti i loro libri. Come mai la stima che il gran pubblico ne ha si esaurisce nella lettura? Perché sente che hanno scritto i loro libri per lui e quindi non sono più irraggiungibili e leggendari. Mentre i veri scrittori scrivono un libro per se stessi e quindi sono sentiti come affascinanti nella loro misteriosa vita e verità indipendente. Nell’infinita chiacchierelleria televisiva, vero crogiuolo dei caratteri italici, nel vaniloquio e nel parlare a vanvera in stato di costante eccitazione e di euforia straordinariamente vivace e idiota, sia pure, ciò che resta di intelligente è il gioco spietato delle ambizioni, degli interessi, delle prevaricazioni, dei colpi bassi, delle strategie di 202 sopravvivenza. La lotta all’ultimo sangue mascherata con lo sgambettamento e col sorriso di plastica. La ballerina che vedi sventagliare le sue gambe ha dovuto inghiottire battute scandalose per anni, pur di restare a galla, il presentatore riccioluto che dà lezioni di vita è ancora pesto dalle umiliazioni, il lettore del telegiornale nasconde le cicatrici di una lotta aziendale feroce e il comico trae la sua vis dallo strazio di essersi sputtanato cento volte con persone molto più superficiali di lui. 14 gennaio Veleno della pigrizia Quando dormiamo troppo ci visitano incubi e sogni sgradevoli, come se la feccia, il deposito amaro, gli scarichi e i rifiuti psichici affiorassero galleggiando alla coscienza. Tutti i sogni hanno allora un tema comune: l’impotenza, l’insuccesso, l’incapacità di far fronte a un dovere, a un obbligo, perfino a un desiderio. Qualcuno potrebbe temere che un alieno diabolico si insinui nelle spire del nostro profondo desiderio di pace vegetale, otto ore vissute da pianta nutrendo le radici di fantasie cinematografiche, il mondo diventato un sogno fluttuante, e ci costringa alla veglia e ai suoi insanabili controsensi. Perciò la pigrizia è la madre dei vizi, la seduzione diabolica che ci vuol far restare nell’unico paradiso terrestre ancora possibile, un sonno senza fine. Mentre colui che malignamente sembra attentare al nostro sonno, scagliandoci incubi che ci inducono a svegliarci, in questo gioco di travestimenti in cui è caduto l’uomo contemporaneo, è invece l’angelo amaro che ci salva, che condanna il nostro nichilismo di dormiente e ci spinge a trovare combattendo, nelle contraddizioni del giorno, l’armonia che ci spetta. Andando avanti con gli anni si vanno sempre più stringendo i margini del gioco tra il sonno e la veglia, tra il riposo e il lavoro, tra l’appagamento e l’inquietudine, così che se dormi appena meno del solito sei disfatto e se dormi appena più sei stordito, se ti riposi 203 appena un’ora di più sei svuotato e se lavori appena mezz’ora in più sei stanco morto. La natura ti costringe a vigilare il doppio per avere la metà del meritato riposo e sonno del giusto come della agognata lucidità, ma non ci riesci se non a prezzo di duro sacrificio. La libertà, che ci fa uomini, e senza la quale ci degradiamo a transito del cibo che si fa cacca, come dice Leonardo da Vinci, a volte si dilata e si disperde nell’aria fino a vaporizzarsi in infinite astratte particelle di umida noluntas. La libertà diventa insensibilmente il suo contrario, se non c’e qualcuno o qualcosa che le resiste, la limita, la comprime, rilanciandola in un gesto più umano e concreto. Così nella vita pubblica, dove oggi possiamo dire tutto quello che vogliamo senza che abbia alcun effetto, come nella vita interiore dove dobbiamo essere noi stessi, nel soffice ambiente in cui sprofondiamo, e darci una disciplina, creare le leggi alle quali sottomettersi. Svegliarci alle sei, lavorare otto ore, governare i nostri impulsi, fare qualcosa di bene e utile a qualcuno, rispettare la creatura sotto la parvenza dei folli capricci in cui ognuno di noi si avviluppa. E da soli non possiamo farcela, siamo intermittenti, indulgiamo alle nostre debolezze, finché si fa chiaro che gli altri devono cooperare con noi nel sottometterci a una legge. L’umiltà è umiliazione Io voglio l’umiltà, non l’umiliazione, mi dici. Ed è senz’altro giusto, perché non va bene che un altro ci mortifichi, ma dobbiamo trovare liberamente in noi stessi le ragioni per scegliere l’umiltà. E tuttavia l’umiltà è quasi sempre umiliazione, e la mortificazione ci arriva sempre da altri, come spiega il più terribile e magnifico passo di san Francesco, rifiutato alle porte del convento con i suoi confratelli, mentre pendevano i ghiaccioli dalle tonache. E che ai confratelli, che gli chiedevano lumi sulla perfetta letizia, rispose che era proprio quella. Se ci umiliamo da soli è un trionfo sottile di superbia che si annida nelle pieghe della nostra rinuncia. Se ci umilia un altro, un qualunque 204 passante sulla terra, addirittura un uomo meschino e ingiusto, questa è vera letizia. O masochismo piuttosto? Certamente, se non vivi la vera fede. La cosa tremenda è che ogni virtù più alta confina pericolosamente col vizio più basso, e con il dolore più sgradevole. Dio sceglie per umiliarci gli uomini più stupidi, più calcolatori, più merdosi e le circostanze più infamanti, svergognanti, patetiche, grottesche, affinché ci tempriamo e ci volgiamo ai sentieri più utili e giusti. Vedi che o le cose stanno così o sarebbe un sadico, cosa improbabilissima, anche perché troppo buffa. “Iddio ci vuol troppo bene per lasciarci trovare la contentezza nel soddisfacimento delle nostre passioni” (A. Manzoni, lettera a M. Coen del 2 giugno 1832). Lessi l’Epistolario di Manzoni a vent’anni e lo trovai bellissimo, tanto da commuovermi a ogni passo. Lo sfoglio ora e mi lascia freddo. Poi diciamo che non è vero che con gli anni si perde la capacità di sentire. Virtù della pigrizia La pigrizia non è soltanto un vizio ma anche una virtù pratica, perché è la tendenza a conservare la propria natura, contro gli stimoli che ci vengono imposti dalla società e dalle ambizioni del nostro intelletto sociale. Si dice che si debba restare legati alla natura, ma ancora di più si deve restare legati alla propria natura, per sopravvivere comodamente, stando bene attenti ad ascoltare la sua voce, proprio come il corridore ausculta il suo corpo per sfruttarne al meglio la grazia e la potenza. Tutto ciò che facciamo contro la nostra natura è condannato a fallire e a lasciarci delusi e umiliati. Vera e sola libertà è seguirla. Benché povera e insufficiente. Ciò comporta sfrondare molti impegni e false ambizioni, rinunciare a molte amicizie fasulle, a carriere fantasmatiche, e ad esperienze che non potranno che ferirci e annoiarci. E siccome ogni natura ha i 205 suoi limiti, ciò vuol dire accettare il posto nel mondo che ci è stato assegnato non dal fato o dai rapporti di classe soltanto, ma dall’orchestrazione misteriosa dei caratteri, che li mette in gioco ben sapendo che nessuno sfugge mai al suo. Questo non vuol affatto dire che non si possa cambiare vita o condizione sociale, o religione, o moglie o marito, perché anzi la nostra natura stessa ce lo può in certi casi imporre. Ma mai cambiando carattere o inventandone uno per qualche settimana o mese. E sempre con un fondo di pigrizia, nella quale non a caso sono soprattutto esperti tutti coloro che galleggiano più a lungo in politica, e cioè i più conservatori, moderati, scettici, cinici, apatici fra tutti, nei volti dei quali leggi una noia antica e inesorabile, con la quale convivono da sempre e che li fa trionfare nei tempi lunghi, a patto di distillare il trionfo in dosi minime. Le persone di natura libera e onesta saranno destinate a soccombere, mentre quelle di natura corrotta e prepotente vinceranno. Ma così sarà in ogni caso, per cui almeno le prime avranno vissuto senza umiliare i loro talenti. Mai avrei pensato qualche anno fa di giungere a questa conclusione ripugnante ma essa nasce dall’esatta e sperimentata considerazione delle cose. Questo non vuol dire nemmeno che io sia pronto ad adeguarmi ad essa perché la mia natura (benché ai più non sembri) è ribelle e fiera, ma è cosa certa che ne subirò le conseguenze senza conseguire nulla di utile. 15 gennaio Sconosciuti Ci aggiriamo tra gli altri per decenni senza che intuiscano minimamente il nostro carattere. Ci dicono calmi e siamo nervosi, ci dicono buoni e siamo pungenti, ci dicono diplomatici e siamo intransigenti, ci dicono equilibrati e siamo estremisti, ci dicono 206 riservati e siamo appassionati. Alla fine, non potendo diventare come ci vedono e verificando che non dobbiamo cambiare nulla del nostro modo di essere per diventare quello che dentro di noi vorremmo effettivamente essere, perché tanto continueranno a vederci nel modo esattamente contrario a quello che siamo, disperiamo di potere sembrare agli altri quello che effettivamente siamo, per poter cambiare e magari migliorare. E con una vana vigliaccheria speriamo che il volto involontariamente falso che vedono susciti in loro l’affetto immeritato che la nostra natura non potrà mai risvegliare, non venendo affatto percepita. Scrivere per sé e per gli altri Ci sono scrittori molto amati dal pubblico ma che avendo scritto libri di testa, e quindi non rispondenti al loro vero essere, nella fama sono disperatamente soli e non provano nessuna soddisfazione nel mandare in giro un sosia e un attore col loro nome. Chi invece scrive secondo la sua personalità rischia di stilizzare se stesso per diventare originale, esprimendo pareri unici e sconvolgenti, sicché ciò che diremo e il modo in cui lo faremo verrà subito identificato come il nostro. Questo è il modo di operare di chi si fa sempre l’autoritratto. Esattamente il contrario è quello di chi cerca di dire le cose come esattamente e comunemente stanno, del tutto indipendentemente dal fatto che sia io a dirle. Ciò che conta è il gesto di dirle. A volte un poeta sembra orgoglioso, o presuntuoso, o vanitoso. Invece sta difendendo fino all’estremo soltanto la verità della sua poesia, il mondo che ha evocato e vuole sia condiviso, di cui si sente il semplice tramite, disponendosi perfino a fare il rappresentante commerciale e il galoppino elettorale di quelle verità, che sente sopra di sé. 16 gennaio La violenza della fotografia 207 Non si può più visitare una pinacoteca senza centinaia di fotografi e cineamatori dilettanti che riprendono tutto quello che vedono (e non guardano), incapaci di assaporare il momento presente e di trarne un cibo spirituale. Una volta i custodi scoraggiavano questa abitudine perversa ma ormai si sono arresi. Le gallerie del Louvre lampeggiano di continuo di centinaia di flash, come piccoli stupri di luce al mistero di un quadro. È come se davanti a un bicchiere di vino o un dolce di crema invece di bere e di mangiare uno li fotografasse. Ciò significa che non ne trae nessun cibo per la sua vita interiore, che non c’è nessuna sete di quel quadro di Tiziano o di Piero della Francesca, che non ce n’è un bisogno profondo per rilanciare la vita e sopportare con animo più leggero la banale bruttezza eccitante che titilla i cinque sensi, in mezzo alla folla dei fotografi. La foto e la ripresa filmata offendono la realtà vissuta in nome di una visione futura solitaria, libera e occasionale, come se nulla di quello che accade ora fosse decisivo, se non nella sua catalogazione e campionatura nel desktop di un computer. Conta più il documento del fatto, la foto del volto, la ripresa statica dell’attimo fuggente. Il mondo non diventa immobile perché nasce la fotografia, ma la fotografia nasce perché il mondo è diventato immobile. Una delle sensazioni più disagevoli, sgradevoli e tali da generare persino, specialmente in un ragazzo sgraziato che cambia di giorno in giorno, una crisi di identità, è il vedersi ritratto in una foto. E specialmente quando la posa, come si crede, è spontanea, cioè immediata e naturale, in virtù di uno scatto fatto a sorpresa e all’insaputa del ritratto. Non c’è infatti niente di meno naturale dello scatto fotografico, specialmente se manca una concertazione, o almeno qualche secondo di selezione e riflessione, prima di pigiare il pulsante. La vita è un flusso e il volto lo esprime con trascolorare di sfumature sempre nuove, nelle quali una posa è letta alla luce della 208 successiva e della seguente, sicché l’identità meramente fisica di un volto, nella sua realtà vivente, cioè nella sua vera realtà, non solo non è la somma delle singole pose, com’è evidente, ma non può essere neanche una posa particolarmente significativa isolata dal contesto, se non è un artista a fotografare, in grado di vedere, come un pittore, l’immagine spirituale impressa nel volto. Come questo possa accadere pigiando un pulsante non so spiegarlo, fatto sta che i risultati attestano che è possibile infondere nel soggetto lo sguardo di chi scatta. Quando invece il fotografo dilettante ti inchioda a una posa irreale, che di fatto non esiste, perché la vita reale del volto ne risulta tradita, il risultato è brutto fino ad essere doloroso, non solo perché non sei effettivamente così ma perché sei costretto a riconoscerti in un altro, perfettamente sconosciuto. Singolare però che questo perfetto sconosciuto stia in mezzo a persone che sono come esattamente sono. Ciò dipende dal fatto che vedendo la foto del volto di un altro la iscriviamo nella sequenza vivente della persona che ci è familiare e così essa viene risucchiata e sciolta nel flusso con naturalezza. Ciò che non possiamo fare per noi stessi, che ci vediamo solo allo specchio e ci formiamo così un’immagine idealizzante del nostro volto, visto come proiezione attoriale di una nostra regia espressiva intima, che non corrisponde quasi mai non solo a quello che gli altri distrattamente vedono ma neanche a quello che sarebbe per il più attento e costante degli osservatori. Questa crisi di identità che si è costretti a subire dal rituale fotografico si cerca di esorcizzarlo e scamparlo con un metodo semplice e preciso: il sorriso. Sorriso a chi? Al fotografo? Alla macchina fotografica? Ai posteri? A noi stessi che, temendo il momento della condanna, ci consoleremo con una nostra immagine almeno sorridente, almeno abbellita da una gioia fittizia? Il sorriso è una non espressione, una espressione da fuori della mischia, né reale né teatrale, che esprime una benevolenza a perdere, che renderà meno acuto il giudizio di coloro che, sfogliando l’album 209 elettronico un giorno e ingrandendo i particolari a piacimento, osserverà con comoda e spietata indulgenza i nostri difetti. Il filmino però non risolve il problema. Spesso vedersi di profilo o di spalle accentua la sensazione di un occupante del nostro corpo, di un alieno che ci ha inghiottiti. Chi è quell’essere strano che si muove tra i familiari in modo pretenzioso e goffo? Dovremmo allora arrenderci all’evidenza di questa esperienza che incrudelisce, attestando il furto che il film fa della nostra identità familiare? Ancora no, perché quell’essere è visto dagli altri alla luce della nostra personalità, della conoscenza fisica che hanno di noi, dei sentimenti e degli affetti che si irraggiano da dentro in quel volto, mentre proprio noi, che quei sentimenti e affetti li proviamo, mentre guardiamo il filmino li cancelliamo, come fosse un guscio vuoto, e non facciamo la minima concessione a quel corpo che più ci dovrebbe essere caro, collaudandolo con lo sguardo di quell’estraneo che noi stessi siamo diventati, finché non troviamo di meglio che dimenticare quello che abbiamo visto. E cioè cosa? Che per gli altri, se non lottiamo ogni giorno per farci conoscere e amare, momento per momento, non siamo che un corpo e un volto tra i tanti, e dobbiamo sudare ogni giorno la nostra parte per sembrare una persona. Non è vero che la donna bella e l’uomo bello sono esonerati da questo travaglio. Al massimo possono non soffrire per una ruga o un dente storto, anche se la persona bella è sensibilissima al minimo difetto e severissima con se stessa non appena lo scopre. Ma non possono sfuggire alla sensazione di essere un altro da colei o colui che si sentono e sono. Vero è, che condonati dalla bellezza, più dolcemente si dimenticano della pena, accettano il sosia fotografato, cosa che del resto fanno con la stessa rapidità coloro che belli non sono. I documenti dei volti delle vittime della Shoah servono a terrificare e suscitare pietà in coloro che dovranno impedire che la violenza si ripeta. Ma per coloro che sono stati fotografati essere colti nella inermità assoluta è un ennesimo acuto dolore, che ostacola la 210 rimozione e tortura con una sottigliezza invincibile perché a fin di bene. 17 gennaio La collera “En verité, celui qui ne connait pas la colère ne sait rien. Il ne connaît pas l’immédiat ». Così scrive Henri Michaux in Un certain plume del 1930, libro che avrà detto molto al Calvino di Palomar. E infatti il raptus della collera attinge la sua violenza dal rompere le catene con passato e col futuro prossimi e lontani. L’immediato è la forza che ogni società cerca di impigliare, nel bene e nel male, senza riuscirvi. Io stesso ho sperimentato in pochi giorni l’immediato almeno due volte, e sempre per cause futili e opinabili. Di fronte a un uomo senza volto che, sceso dal métro, mi impediva di salire per rimarcare il suo diritto di passare per primo. E per un secondo avrei potuto colpirlo con un pugno, non perché ostruiva a sua volta il mio passaggio ma per la certezza offensiva con cui rimarcava la sua ragione. La seconda volta grazie a un amico che mi ha provocato con una malizia improvvisa, alla quale stavo per rispondere con altrettanta malizia. Perché l’improvviso chiama l’improvviso, e ne nascono ferite che non rimarginano, polemiche sorde, faide e guerre di cui nessuno ricorda più l’origine. Singolare la benevolenza e indulgenza che si usa sempre verso chi si scatena in preda a un raptus mentre chi risponde in modo più calcolato viene accusato di maggiore crudezza, se non crudeltà. Come se nell’atto istantaneo non fosse condensato un lungo processo di pensieri freddi, che prima o poi sboccano a sorpresa in modo incontrollato. Per non leggere 211 Si va a un incontro letterario non per essere stimolati a leggere un libro ma per esserne esonerati. Colui che lo presenta diventa più importante dell’autore, perché tu potrai parlare ad altri del discorso che hai ascoltato ma a nessuno del libro dell’autore presentato, che leggerai in solitudine. Pur di non leggere, gli italiani sono capaci di seguire interi festival della filosofia o della letteratura, ascoltando con diligenza discorsi che capiscono in minima parte. Gli italiani in genere non fanno nulla di cui non possano parlare a qualcuno. Essi leggono sempre avendo in mente il dialogo che prima o poi, a una cena, a un incontro, passeggiando, in treno, potranno imbastire con qualcuno. Non pensano mai che un libro possa aprire loro gli occhi, confortarli in un dolore spirituale che non provano, insegnare come fronteggiare una situazione analoga a quella descritta che non vivono, essere pungolati a una visione di giustizia che non hanno nessuna intenzione di cambiare, essendo convinti di sapere già tutto per esperienza e per istinto. Gli stessi critici, professori e lettori professionisti che lamentano di continuo il basso livello della nostra letteratura e il diventare piano e denotativo della lingua della prosa, fino alla scomparsa dell’idea stessa di stile, censurano o ignorano i libri che alla loro idea di letteratura alta assomigliano, o tentano di assomigliare, essendo convinti, e anzi desiderando, che essa appartenga al passato e che il piacere di un lamento e di una negazione assoluta del presente vivo, che li conforta sinistramente, sarebbe guastato dalla comparsa di qualsivoglia eccezione. Ignorano così a bella posta che non sono gli scrittori a vendersi all’idea di una lineare e spiegata letteratura popolare, bensì gli editori, esercitando un controllo doganale ferreo. Da sempre chi vuole dominare e governare le masse si giustifica dicendo che viene incontro a ciò che esse vogliono. Come i dittatori così gli editori, che si scusano dicendo che fallirebbero in tre mesi se sfidassero i loro gusti. Ma come il dittatore mediatico plasma le 212 masse in modo da renderle docili ai suoi desideri e corrompendole al punto che non vedano nulla di meglio di lui nel mercato politico, così gli editori rovinano la bocca delle masse con un’immissione massiccia di cibi dozzinali, se non avariati, i più idonei a essere venduti, e ne inquinano in modo irreversibile la sensibilità per poi addebitare tutta ad esse la responsabilità delle scelte utili che compiono. La letteratura è sempre aristocratica e riservata a pochi, anche quando quei pochi sono centinaia di migliaia o milioni, con la differenza che mentre fino ai primi anni Ottanta, i libri migliori, benché letti quasi sempre da pochi, erano palesemente ai vertici dei valori, benché i più li accettassero senza sapere perché, adesso sono nelle ultime posizioni, e al massimo considerati con spirito archeologico. E vengono liquidati con la definizione di illeggibili, con la quale si intende un valore complesso, ormai non più consumabile, benché presente ed efficace simbolicamente su un piano alto di studio e di analisi, del tutto avulso dalla fruizione reale. Se un libro si definisce leggibile con degnazione, lo si chiama illeggibile con ironica complicità con i lettori di bocca buona, come quando uno stimato competente in un qualunque altro campo ammette di non capire la matematica per aristocratica solidarietà con coloro che non capirebbero neanche la sua disciplina superiore, benché in qualche meandro della sua testa la stimi cosa alta. Se un libro di valore non deve essere né leggibile né illeggibile, che cosa deve essere? Si fanno campagne di lettura come se leggere un libro fosse comunque un bene, indipendentemente dal libro. Si ripete che non c’è libro in cui non si trovi qualcosa di buono. Come non c’è uomo che non presenti qualche ragione di valore e riconoscimento. Così gli uomini e i libri pessimi vengono messi sempre sopra gli ottimi. Io credo invece che sia meglio essere analfabeti che mezzo colti. E che sia meglio non leggere affatto piuttosto che leggere i prodotti di fattura media, buona e artigianale che vanno per la maggiore. Ma siccome leggere è considerato democraticamente un bene, come la 213 camminata veloce, lo sport, la vita sociale, la partecipazione, il voto, ecco che la buona letteratura va sparendo, anzi è già sparita. E sempre più sarà così, fino alla totale indifferenza dei valori, ultimo atto della distruzione di un’espressione di verità odiata e temuta. Come si odia e si teme la nostra stessa salvezza, quando siamo incapaci di vedere una luce. Nel deserto brilleranno i libri del passato, che ormai sono scampati a un naufragio per definizione contemporaneo, e sopranuotano, dice Leopardi, visto che è contro i nostri stessi tempi che si scatenano quell’odio e quella paura dei quali puniamo i migliori, perché sono inetti a migliorarci. Quando penso che non ho nessun obbligo di leggere le opere di uno scrittore, anche il più rinomato, mi prende un umoristico senso di sollievo. Mitologia democratica È evidente che il suffragio universale, per il quale il voto di uno qualunque ha lo stesso peso di quello di chiunque altro, è una pura assurdità. Chi vota per il colore di una cravatta e per un sorriso di gomma, chi vota per difendere i suoi privilegi e perseverare nell’ingiustizia ha lo stesso peso di chi vota per intima riflessione e con cognizione di causa, per quanto è possibile in materia così ambigua e sporca. In democrazia vige la concezione miracolistica del voto: nel segreto dell’urna un raggio di ispirazione politica colpisce il cittadino più sprovveduto e indifferente, il nucleo profondo della sua cittadinanza mistica si risveglia ed egli sa, all’improvviso e in modo inconfutabile, qual è la sua verità politica. La democrazia odierna è così un sistema insanabile e sempre fuori squadra, perché basato su un’illuminazione estatica ed irrazionale. Ragione per cui si sono escogitate tecniche per vanificare il voto e costringere a votare coloro che i partiti vogliono. Così una oligarchia al potere, del tutto cinica e indifferente al bene comune, ma convinta di esserne la sola depositaria, governa oggi con una dittatura 214 poliedrica e plurale, mentre la democrazia è solo una costosa liturgia teatrale. Dal che consegue che è impossibile che una società funzioni bene, che sia realmente democratica, che i cittadini possano mai dirsi contenti. Proprio per questa coscienza sotterranea, condivisa più o meno da tutti, è indispensabile affidarsi al racconto magico della propria storia, alle illusioni miracolose, alle emozioni impulsive, al tifo politico, altrettanto cieco di quello calcistico, impedendo così, proprio col palliativo e il balsamo versato su un male immedicabile, di rendere più razionali le scelte e più civili i nostri comportamenti. Dirlo apertamente tuttavia è considerato un’imperdonabile espressione di malanimo e di sentimenti reazionari. Soltanto un intellettuale autorevole e universalmente stimato come Norberto Bobbio ha potuto affermare in età veneranda che la democrazia è il male minore. Lo si è tollerato come la debolezza di un vecchio saggio nel prologo di amarezza che prelude alla morte. Il fatto è che la democrazia è una fede, più che un’ideologia, che ha i suoi martiri, i suoi santi, che è costata lotte sanguinose e sacrifici disumani, di conquista difficilissima e impervia, tanto che sono occorsi millenni per agguantarla, e soltanto in un’area ristretta del mondo, e quindi ogni enunciato freddo e imparziale di critica non già della sua imperfezione ma della sua stessa natura, suona come una ritirata vergognosa e come un’apostasia, una fuga dall’esercito dei credenti durante un bivacco nell’accampamento tra una guerra e l’altra. Non soltanto dire che la democrazia è un male, benché minore, equivarrebbe perciò a dire che la vittoria è un male, benché minore della sconfitta, ma in politica ogni affermazione si giudica dagli effetti, per cui ogni critica alla democrazia incoraggia e potenzia coloro che la vogliono osteggiare e combattere oggi, giacché sempre ci sono forze contrarie alla democrazia, disposte a usare i mezzi più spregiudicati e violenti per abbatterla. Per questo si ripete che occorre una vigilanza continua, e soltanto per impedire un male molto maggiore (che è la nostra sorte abituale) ma troppo poco romantica enunciata così. 215 Ogni sistema diverso dalla democrazia sarebbe molto peggiore, perché quasi mai è capitato nella storia che andassero al potere i migliori, in forme assolutistiche o oligarchiche pure. I casi si contano sulle dita: Pericle, Cesare, la regina Tamara, Lorenzo il Magnifico, Federico duca di Montefeltro, F. D. Roosevelt... Spesso si mettono in luce le contraddizioni più violente della società come se denunciarla fosse il primo passo per sanarle. Ma l’esperienza mostra che i migliaia di casi denunciati dalla stampa più libera non sono mai stati risolti attraverso la pubblica rivelazione e il collettivo sdegno. E che non basta risolvere con i processi, seppure indispensabili, i mali nazionali. Esemplare il caso di Mani pulite, quando i giudici hanno operato in modo così energico e coraggioso, per poi ritrovarci dopo quasi vent’anni in una corruzione più grave della precedente. Né possiamo più cadere dalle nuvole, ma la coscienza della corruzione non ostacola in nessun modo il suo scatenamento, aumentando soltanto l’avvilimento e l’impotenza. Allo stesso modo molti pensano che criticare il capitalismo voglia dire essere nostalgici del comunismo. Come se non fosse possibile vedere chiaramente le contraddizioni feroci del capitalismo e nondimeno pensare che non ci sia alternativa possibile e che altri regimi economici sarebbero anche peggio. No, se c’è un male, esso deve essere per forza superabile, altrimenti vuol dire che non è veramente un male. Quindi, se le alternative non tengono o sono utopistiche, se ne ricava che il sistema che viviamo debba per forza essere un bene. Questo modo di ragionare ha fatto sì che ci si mettesse in braccio al fascismo e al nazismo per evitare il comunismo e che ci si mettesse in mano al comunismo per evitare il fascismo e il nazismo. La minaccia di un male terribile, a volte reale a volte puramente fantastico, ha fatto sempre sì che ci si cacciasse in un male maggiore, realissimo e per giunta sempre minimizzato, per non dover ammettere che la scelta è sempre in politica tra il male minore e quello maggiore. 18 gennaio 216 Destino e caso (Alessandro di Afrodisia) Quando le cose vanno male è colpa del destino, quando vanno bene il merito è tutto nostro, dice Alessandro di Afrodisia polemicamente nel suo trattato De fato. Mai pensiamo che il destino concorra al buon esito dei nostri desideri. E si spiega bene col fatto che il destino contiene un’idea di necessità, e la necessità un’idea di opposizione ai nostri desideri e voleri. Se inoltre abbiamo fatto tutto il possibile per condurre a buon fine un progetto, e non ci siamo riusciti, e siccome non possiamo pensare che la semplice volontà di chi lo ha ostacolato, o una diversa e maggiore cognizione delle cose, possa contrastare vittoriosamente la nostra, perché sarebbe come ammettere una nostra impotenza o incapacità, troviamo più semplice e meno doloroso pensare che una forza misteriosa, per motivi imperscrutabili, per un suo scopo segreto, lo abbia fatto fallire. Potremmo parlare di caso o di fortuna ma sarebbe per noi umiliante saperci esposti come una pianta o un animale al gioco senza un senso individuale degli avvenimenti. Affidarsi al destino allora, se in apparenza vuol dire legarci le mani e le gambe in ossequio a una potenza neutra e impersonale, è l’estrema difesa della nostra libertà, rivendicata, sia pure nella sconfitta, di fronte a un’altra libera volontà sovrumana, una specie di provvidenza nera e pacificata che ha i suoi scopi sopra le nostre teste. Alessandro stesso, che vuole dimostrare che destino non esiste, ammette infatti che se diciamo che qualcosa accade per destino intendiamo dire che accade comunque secondo uno scopo, sia pure segreto. E uno scopo segreto solo un ente libero e razionale può porselo. Quando si legge un libro sagomiamo l’aspetto fisico dell’autore sullo stile del suo pensiero, e ne immaginiamo le fattezze, lo sguardo, il timbro della voce, fino quasi a sentirne l’odore esistenziale, a provare la sensazione del suo personale e del suo alone corporale. 217 Ma ciò accade soltanto se l’autore è vivo, come nel caso del curatore del De fato. Se è morto, come Alessandro di Afrodisia, ne immaginiamo soltanto il carattere, in modo più astratto ma anche più spirituale. Ciò accade perché la morte ci ridà l’essere più profondo di una persona, libera dai suoi aromi esistenziali e dalle sue sagomature fisiche, come anche dall’età. Importa molto meno che uno lo abbia scritto a trenta o a settant’anni, se è morto, poiché affiora che la sua anima è sempre la stessa. Questo carattere, quest’anima, assume allora una sagoma fisica ideale. Chi scrive col metodo della coerenza argomentativa più lineare, passo passo, come Alessandro di Afrodisia, finisce per trattare il lettore sempre più da idiota a mano a mano che progredisce nel ragionamento, e aumenta la propria convinzione di essere chiaro e di riuscire a condurre in porto la sua dimostrazione. E così spiega in modo sempre più dettagliato ciò che è evidente, nel timore di perdere tutto sul più bello. E la sua argomentazione perde forza per eccesso di dimostrazioni secondarie, ramificate e scontate. Ma soprattutto perché da la sensazione di parlare a qualcuno che non è all’altezza di ragionare da solo, e quindi neanche di capire quello che dice. È segno di intelligenza avere fiducia nell’intelligenza degli altri. Del contrario non averla. Come nella vita pratica facciamo quasi sempre affidamento nell’intelligenza degli altri, per esempio quando guidiamo in autostrada o camminiamo in una piazza senza urtarci o parliamo con un passante sconosciuto, allo stesso modo quando scriviamo non dobbiamo mai dimenticare che chi legge è intelligente quanto noi, e che la sicurezza che ci proviene dal tenere noi la palla non deve indurci a presumere che è un bene anche per l’altro che noi non la lasciamo mai. Buon filosofo e buono scrittore è invece colui che di continuo passa la palla e la riceve dal lettore con scioltezza e senza presunzione di poter gettarla in rete da solo. Si dice che il buon scrittore è colui che scrive solo per sé e non per il lettore, ma questo è vero soltanto se dentro di lui il lettore c’è, se anzi c’è una moltitudine di uomini o, almeno, una doppia personalità. 218 Chi dice battute argute a uno sconosciuto sembra intelligente, anche se la battuta è modesta, proprio per questa sua coscienza disinvolta dell’intelligenza dell’altro. 19 gennaio Maschera Se ti fai crescere la barba o i baffi, come in un periodo lontano della tua vita avevi fatto, per prendere una vacanza dalla tua faccia, tu ti ritroverai la stessa sensibilità di allora, lo stesso modo di guardare, la stessa atmosfera intorno alla tua persona e sparsa sul mondo intorno a te. Con qualche pelo in più sulla faccia i tuoi pensieri lentamente diventeranno più severi e austeri, i tuoi gesti più lenti, i tuoi sguardi più pretenziosi. E alla fine ti ritroverai a vivere, come in un sogno transtemporale, intere sequenze vitali del tutto identiche a venti o trent’anni prima, indosserai il tuo stesso io di allora, anzi esso si compenetrerà in te con somma naturalezza. E quello che voleva essere un gioco con lo specchio si trasforma in un’esperienza inquietante di regressione e spaesamento nella rotta. La tua vita senza barba e baffi inoltre, come vestita di un altro volto, ti sembrerà quella di un altro, come se non fosse incisa in te così profondamente come credevi, come fosse, per quanto lunga, una parentesi. Pensa tu quello che potrebbe comportare il trasferimento nella città in cui ha vissuto un tempo, o una separazione dal letto coniugale, con il ritorno alle dormite e uscite da scapolo, o il rifrequentare i vecchi amici negli stessi vecchi luoghi. Se chi amava una donna era molto magro e poi ha preso a ingrassare negli anni, dimagrendo di nuovo, si ritroverà a pensare alla donna di una volta e quasi se ne innamorerà di nuovo, come se il suo corpo ritrovato spettasse di diritto a quella donna che in quel tempo ne aveva goduto. 219 Pensa come sia indispensabile per un attore, cambiando personaggio, tingersi o tagliarsi i capelli, truccarsi e mascherarsi, insomma cambiare faccia. Gli attori infatti di continuo si tagliano la barba e se la fanno ricrescere, si acconciano i capelli in modi sempre diversi, si tagliano i baffi, si fanno il pizzo, la mosca, le basette, in un’inquietudine identitaria che investe sempre anche il volto. Ed è per loro riposo e piacere continuare anche nella vita di tutti i giorni a ritoccare la loro immagine, più di fronte a se stessi che non di fronte agli altri. 20 gennaio La gente fuori del comune Frequentando molte persone al di fuori degli ambienti cosiddetti intellettuali si viene colpiti dalla loro semplicità nobile, dalla delicatezza, dall’equilibrio profondo e dall’acume dei giudizi, che sfrondano con naturalezza gli eccessi e le deformazioni ma senza diventare mediocri. È un tessuto fittissimo, profondamente sano e vitale, che tiene saldo il terreno italiano, come un’immensa foresta umana anonima che impedisce le frane. Gli uomini e le donnealbero salvano l’Italia dagli smottamenti e dai crolli. Andiamo a vedere coloro che hanno il potere in ogni campo, dalla politica all’industria, dal mondo dello spettacolo fino all’editoria e alla letteratura, cenerentola non per questo meno pretenziosa, e vedremo proliferare soltanto eccessi, deformazioni, menzogne, sofisticazioni, tranelli, tradimenti, imbrogli, crudeltà, violenze morali, arroganza e spavalderia da avventurieri, da paraculi, da sornioni, da maestri dell’invidia e della vendetta mascherata da abbracci, sorrisi, gentilezze gratuite e promesse inattendibili. In altre parole vedremo che regolarmente i vizi più disgustosi si accompagnano quasi sempre ai successi e alle fortune in qualunque campo, entrando in una giungla irrazionale nella quale la sola dea è la fortuna, e il talento, salvo miracolo (comunque propiziato con tenacia pluridecennale), si afferma o quando uno campa abbastanza da diventare ottuagenario o quando si accompagna a quel corredo di 220 doti che comunemente vengono considerate vizi o peccati o reati, benché nascoste e occultate con un’ascesi laboriosa. Non possiamo neanche tessere le lodi dell’insuccesso, che scatena vizi deformi e turbolenze conoscitive e produce saggi e romanzi che nascondono malamente l’ossessione che spinge fatalmente il respinto a non parlare di altri che di sé. Giacché l’insuccesso maschera e allontana la realtà più del successo. La prova del fuoco è allora di essere così forte da far sì che le virtù cavalchino i vizi, non potendo né cancellarli né smorzarli in questi due casi estremi, sia quando il cavallo galoppa sia quando si impunta. Una conseguenza del successo come dell’insuccesso è che l’artificiale, l’intossicazione egocentrica della psiche, guadagna tanta più fama quanto più l’essere naturale finisce nell’anonimato. Le canzoni d’amore Le canzoni d’amore degli anni sessanta e settanta sono molto più belle, forti e vere, di quelle scritte oggi, perché allora ci si innamorava in modo più forte e vero che non oggi. L’amore è un’ossessione che non bada a denaro, potere, classe sociale, a tutto ciò che è finto e superficiale, e punta dritto al nucleo, mentre oggi è evidente che per i ragazzi, e per tutti, è molto più difficile innamorarsi, perché le distrazioni, l’ironia, lo scetticismo, la natura poliedrica dell’esperienza, la continua eccitazione e allegria di superficie lo rendono quasi impossibile. Si dirà che quello che si afferma è un nuovo modo d’amare, più pratico e meno romantico, più espresso che non inabissato nella contemplazione disperata e folle. Ma allora l’innamorata aveva tutto l’uomo dentro e l’innamorato era del tutto pieno della donna, come centinaia di canzoni attestano. E ora no. La spada consuma la vagina 221 La spada consuma la vagina, cioè il fodero, scrive Leopardi nello Zibaldone. Il pensiero infatti consuma il corpo al punto che, fissandosi ad esempio sui piedi, potrai scaldarli o raffreddarli, fino a farli dolere. E fissandoti su una funzione naturale, come l’orinare o il respirare, potrai generare l’impulso coattivo, fino a infiammare un organo. Bisogna impedire che il pensiero si fissi su qualche membro del corpo e l’arte della salute sta proprio nel distrarlo continuamente, nel volgerlo ad altro, e soprattutto agli altri. Vi sono raffinati fustigatori, molto utili perché ridicolizzano con piglio autorevole, e anch’esso non privo di presunzione, la pletora di sofisticazioni, simulazioni, sovracostruzioni, velleità, nate dalla presunzione, inseparabile dall’atto di scrivere, soprattutto in quelli che, per troppa, se anche meritata fama, indulgono a un mito personale e si lanciano trionfalmente nel mercato delle lettere senza mai essere sfiorati da un dubbio. La presunzione contro la presunzione diventa una virtù. Giudicare attraverso il contesto Vi sono studiosi, come Alfonso Berardinelli, non inclini ad approfondire un autore dal di dentro, per chiudersi con lui nel proprio uovo critico, o a immedesimarsi in esso con empatia, ma danno il meglio nello snudare il contesto in cui un artista può nascere e prosperare, illuminandolo con la sua opera, oppure quando disistimano qualcuno, nel delineare prima un contesto per poi vederlo come effetto meccanico, come prodotto inconsapevole di quello, privandolo così della sua personalità, benché imponente. La sua non è una critica dei libri, isolatamente presi, ma una critica della realtà, della quale i libri fanno parte. Così facendo, egli dà ai libri un attestato di valore incomparabile, perché per lui essi non esistono in una dimensione a parte bensì agiscono, benché in misura minore e individuale, come una forza sociale, esprimendola, in modo più o meno conscio. 222 Saper giudicare in modo istintivo senza vergognarsi è un segno di valore. Come di fiducia nella natura sana propria e altrui. Sempre che si tratti, come in questo caso, di un istinto critico. Nella lotta tra te e il mondo vedi di parteggiare per il mondo Questa frase di Kafka non vuol dire affatto che lo scarafaggio sono io, ed è bene che sia così. Ma che Franz si rende conto di essere una parte minima del mondo, di essere una delle tante voci del mondo, e non già un titano fuori del mondo che lo giudica, abbraccia e definisce. In ogni momento dobbiamo ripeterci di essere un’infima particola del mondo, tanto più quando pensando e scrivendo siamo tentati dal costruirci la nostra nicchia di dei in esilio. Più cresco e più mi sento piccolo e, perché piccolo, perché leggero, sempre più ricco di significato e di valore. La saggezza solitaria non esiste “È grande follia voler essere saggio da solo” dice La Rochefaucauld. E si comprende perché. La nostra saggezza si nutre degli altri. Nessuno è cibo per se stesso. Come quando si isola un uomo in una camera anecoica per diversi giorni, finisce per cadere in allucinazioni e dopo una settimana non sa neanche fare due più due. Così cibandosi di se stessi ci si inaridisce e svuota. La famosa vita interiore non è che il pullulio degli altri dentro di noi, che noi assimiliamo e trasformiamo in sensazioni, emozioni, pensieri. Se non incontro nessuno e se non leggo un libro o non guardo un film io sono vuoto, sono non pensiero, non uomo. Se ogni forma di pensiero è misantropia quando giudica la società come un tutto. Se nell’atto di definire la società e di condannarla, ce ne tiriamo fuori, soffrendo con malinconia vigorosa i suoi vizi e la nostra esclusione, con lo stesso atto ci avviciniamo agli uomini che, nella solitudine del pensiero, ci diventano sempre più cari e indispensabili. 223 Un pensiero che ha espresso Leopardi proprio quando si è difeso dall’accusa di misantropia, dicendo appunto che la lunga solitudine gli ha sempre risvegliato l’amore per gli uomini, intorno ai quali ha intessuto fantastiche e potenti illusioni, mentre proprio frequentarli di continuo, senza volerli e poterli giudicare, è ciò che fa diventare misantropici. Per rendere la vita sopportabile devi frequentare una gran quantità di persone che, con la varietà dei loro volti, corpi, caratteri, comportamenti, timbri di voci, pose, movimenti arrivano a sorprenderti ed eccitarti, a distrarti e affascinarti, colmano uno il difetto dell’altro, e svagando uno dalla oppressione dell’altro, quel tanto che basta per non piombare in quella noia da ripetizione che arriva fino alla nausea di se stessi e quasi al turbamento e fastidio di convivere col proprio corpo. Senza contare che stando molto in mezzo agli altri amerai la solitudine e stando molto da solo amerai gli altri, e li cercherai. Ma essendo la solitudine lo scivolo naturale di chiunque pensa, dovrai forzarti a uscirne ogni giorno, risalendo la pendenza, impresa tanto più difficile quanto più una persona dispone liberamente del proprio tempo. Se vedi decine e decine di persone ogni giorno non sei più capace di provare veri sentimenti per nessuno. E non sai più cos’è amore, amicizia e neanche affetto, rimpianto, rimorso, gioia, paura e speranza. Senti che qualcuno muore e dici che ti dispiace, che qualcun altro si sposa e dici che sei contento. E lo sei davvero ma blandamente, in un’eco o memoria di verità di un passato dolore più forte e di una passata gioia sincera e viva. Così l’effervescenza della vita ne intacca la sostanza e l’uomo che offri agli altri non è tanto più di quello che gli altri offrono a te. Una cassa armonica, un trastullo, un giocattolo vivente, un attore e intrattenitore nello spettacolo convenuto della vita. Si dice della paura della morte ma si teme molto più l’amore, e si è codardi a non sperare. 224 Chi è giovane ha una lunga aspettativa di vita, il che lo inclina più facilmente alla noia ogni volta che si trova solo e senza un’attività eccitante, mancando il tirante temporale che ti fa apprezzare la vita che ti resta tanto meno ne hai a disposizione. 21 gennaio Leggere e scrivere Il tempo che ho passato a leggere è molto maggiore di quello che ho passato a scrivere. Leggere e scrivere sono due attività simmetriche, come ascoltare e parlare, e in realtà sfasate sempre da un sovrappiù e da un sovrammeno che le rende inventive. E spesso parli molto di più ascoltando e ascolti molto di più parlando. Le due attività hanno anche in comune che producono pensieri, emozioni e immaginazioni, in modo che mai prendi atto di qualcosa che già esiste ma sempre rigeneri e trasformi. È concepibile tuttavia uno scrittore che non abbia mai scritto ma sempre immaginato in sé le sue storie, coltivato in sé i suoi pensieri, mentre non è concepibile un poeta che non abbia mai scritto, perché la poesia, che passa per l’espressione più immediata e vissuta, ha più bisogno, rispetto alla filosofia e alla narrativa, della lingua e dello stile, sicché puoi covarla a lungo dentro di te ma sempre in forma di parole. Benché esistano figure di suono, pieghe tonali, parabole emozionali già segnate nell’animo di ciascuno fin dall’infanzia, che alla fine reclamano le loro parole almeno quanto le parole fanno curvare nella direzione da loro tracciata sentimenti e pensieri. Esistono le poesie di getto naturalmente ma reclamano di essere subito in pochi minuti scritte. Io ho scritto dentro di me un intero romanzo, vivendolo e rivivendolo, al punto che i personaggi si sono sempre più incarnati e articolati prendendo una vita che non potrò più cambiare, però non l’ho scritto fuori né è certo che un giorno o l’altro lo farò. Ma mai un’intera poesia, che in me viene sempre di getto, solo in certi 225 giorni, e mesi e anni, quasi tutta già formata, benché non saprei dirla finché non la scrivo, al punto che le piccole variazioni sono come pròtesi, bende e cerotti applicati in un corpo vivo, con pregi e difetti nativi e pressoché immodificabili. Io non pubblico poesie, pur avendone scritte per più di un libro, perché non trovo giusto affidarmi a getti alieni di una seconda persona dentro di me quando non ho fatto la scelta di diventare poeta, la quale sola mi autorizzerebbe. E dimostro così di essere sciocco, perché sarebbe come dire che non prego perché non ho fatto la scelta del monaco di clausura. Dalle prime poesie che scrivi sono già evidenti il tuo valore e i tuoi limiti. Avendo capito a quindici anni di non essere Rimbaud, ho giudicato più onesto strappare tutto. Ma l’errore profondo è stato di voler essere me stesso dentro un altro. Dopo ho scritto in diverse, e rare, stagioni, con repentini moti ma mi è stato sempre più chiaro, anzi altrettanto chiaro che all’inizio, che la mia poesia non dava le semplici verità ultime e prime per questa originaria viltà o per un diverso talento. Solo in un secondo tempo ho capito invece che era vero il contrario (a dimostrazione del fatto che cose evidenti possono essere false): dando le mie poesie invece proprio le prime e ultime verità, e semmai non quelle intermedie. Ma non avendo la mia vita la forma consona, era indispensabile che io non ne figurassi l’autore, che io sparissi come poeta, perché esse sono inconfutabili come un teorema, e tuttavia non è giusto che non sia un geometra colui che le ha scritte. Una poesia è vera se è vero l’autore, e io lo sono finché le scrivo. Ma subito dopo non lo sono più. Quindi mentre le scrivo ho altro per la testa che pubblicarle e dopo che le ho scritte non me ne sento più degno. 22 gennaio L’intelletto critico 226 Scrittori che hanno coltivato amicizie con critici affini, con i quali condividere i maestri e i compagni di strada, animati dalla stessa idea radicale e sanguinale della letteratura. E quando questi scrittori hanno pubblicato i loro libri, scritti in decenni e per i decenni, i loro amici critici hanno scritto loro lettere generose in modo imbarazzante, mentre si scusavano di non avere il tempo di scriverne in pubblico, perché troppo impegnati a stroncare i libri che entrambi non stimavano. Chi esercita soltanto l’intelletto critico preferisce attaccare i libri che non gli piacciono piuttosto che difendere quelli che gli piacciono, sia perché ne trae un maggiore sentimento di potenza, tanto più se il libro criticato è famoso, sperando di aggrapparsi al volo al successo del nome stroncato e viaggiare sulle vie della fama con quello, senza sminuirsi, anzi esaltandosi, nel proprio severo valore aristocratico. Sia perché la facoltà di ammirare si spegne quando si è convinti che ormai la letteratura è finita o in letargo. Al momento di parlare bene di un libro che piace, ma ignoto ai più, ci si accorge che è più gradevole e comodo non stimare nessuno piuttosto che difendere una causa che ci isola e che neppure noi siamo più capaci di sentire fino in fondo, essendoci guasta la bocca con troppi vini e offrendo il mercato infiniti casi di lodatori degli stessi libri che noi disprezziamo. Enfasi romanzesca Quando leggiamo un romanzo, le sensazioni che vi sono descritte sono sempre enfatizzate. Una pioggia battente per esempio è molto più intensa di qualunque pioggia che riusciamo a sperimentare dal vivo. Restiamo convinti che una volta anche per noi la pioggia era così tumultuosa e forte e ci svegliava sentimenti che oggi appena traspaiono, e quasi in forma di reminiscenza. Il romanzo diventa una forma di risveglio delle sensazioni morte o illanguidite, che riesce a rendere a costo di accentuarne sempre più la portata. I tramonti letterari hanno tinte sempre più vivide, la neve sul bavero del cappotto suscita sensazioni deliziose che nella realtà non proviamo, 227 una luce radente su un divano letterario suscita l’immaginazione di una felicità domestica, come di fatto non succede più. Ma è mai successo, è legittimo domandarci, o già nell’infanzia i sensi cominciano ad affievolirsi, a mano a mano che ci accorgiamo quanto poco servono nelle società artificiali in cui viviamo. E in realtà non ricordiamo le nostre potenti sensazioni di una volta, ma una nevicata in una pagina di Proust letta da ragazzi, la neve che brillava trent’anni fa in una passeggiata di Guerra e pace. Ogni sensazione forte contiene il ricordo di un’altra analoga dello stesso genere già vissuta, e risveglia quindi un’intera corrente di esperienza che come una saetta mette in sequenza acrobatica attimi lontani della nostra vita, elettrizzando il tempo vissuto. Enfasi cinematografica Il cinema fa leva sul potenziamento sensoriale. Ad esempio moltiplicando i suoni della vita quotidiana. Il respiro, l’ansimo, il fiatone diventano sonorissimi, il fruscio delle foglie impetuoso, la pioggia cade giù scrosciante come solo in certi remoti pomeriggi dell’infanzia, quando cadeva a secchie, battendo sulle finestre, o, più probabilmente, quando l’udito era più forte e l’olfatto più sensibile fino a cogliere l’odore dell’erba bagnata e dell’asfalto lustro stando a casa. O forse a essere più forte era l’immaginazione dei suoni e degli odori. Lo stesso avviene nel cinema con i sentimenti, moltiplicati per dieci ed enfatizzati, dandoci l’illusione di vivere più pienamente. Nel cinema, come nella vita, la ricerca della soddisfazione si è spostata dal piano morale a quello sensoriale, non comprendendo che i conflitti morali e le scelte etiche coraggiose danno un’eccitazione di tutti i sensi, un’energia fisica e una scossa corporale che nessuna sensazione puramente fisica potrà mai dare. 23 gennaio 228 Violenza occulta Io non ho mai visto uccidere un uomo né ho mai fatto violenza a nessuno, con l’eccezione delle lotte rituali da ragazzini, che non lasciavano alcuna scia d’odio e di risentimento, se non entrava in scena uno di quei ragazzi maligni e perversi, che poi lo restano per tutta la vita. Né mai ho subito una violenza fisica se non quando presi un pugno alle spalle da un neofascista, colpito dal colore rosso del mio giubbotto. A parte qualche rissa nelle manifestazioni sciolta coi lacrimogeni non ho mai assistito ad aggressioni crudeli, fatta eccezione per qualche decina di migliaia di omicidi in televisione, che non sono la stessa cosa. E lo stesso vale per la gran parte delle persone che conosco. E tuttavia la nostra società è molto violenta, anzi la violenza si è addentrata nelle anime, mascherandosi con le forme di educazione sociale e di civiltà del buongiorno e dello scusi e prego. Ma è la stessa, né più né meno, sperimentata durante le guerre mondiali. Il fatto che oggi restiamo in vita non ci rende integri e veramente in salvo. Basta guardare le nostre anime per restare di sasso. E questa violenza segreta impedisce l’affermarsi della democrazia in Italia, che resta in gran parte un gioco per adulti. Una violenza che si esprime nell’aridità, nell’omicidio più vile che ci sia, ogni giorno perpetuato con cattiveria pura e irriducibile, che nel corso di una vita compie una strage, di cui nessuno ci può imputare, e che non fa più danno solo per la pari aridità e indifferenza degli altri. Posso testimoniare che nei luoghi di lavoro esistono tra noi persone che possono non stabilire un contatto umano elementare con nessuno senza soffrirne minimamente, anzi con sostanziale gratificazione. E lo stesso ovunque: negli ospedali, nelle banche, nelle aziende. In queste ultime è vero che la competizione è maggiore e quindi le cattiverie sono più espresse e dure, ma almeno uno spettro di passioni, benché torbide, riesce a manifestarsi, tingendo di umano gli esseri più schivi e autocratici. 229 Ma dove tu puoi chiuderti in un’aula, dominando la platea, in un lavoro del tutto isolato e autoreferenziale, nutrendoti della polpa giovanile e governando la situazione a porte chiuse, la tendenza animalesca a rintanarti e cadere in letargo diventa anomala e penosa per la creatura. A questa guerra fredda, a questa pace fredda, bisogna rispondere con l’iniziativa amorosa. Un amore ironico e tagliente, se necessario. Con la provocazione, col tessuto pazienze di un’amicizia minimale, con l’interesse per la vita privata altrui, per quanto indifferente e faticoso ne sia l’ascolto. Pneuma Un amico disse, riferendosi a un ateo generoso: “Lo spirito soffia dove vuole.” Alludendo a un suo cristianesimo involontario. Il fatto è che il cristianesimo lo è sempre. Vizio prospettico Quando guardi balconi bui dalla tua stanza illuminata credi che gli altri non ti vedano, invece loro ti vedono e tu no. Quando guardi una finestra illuminata da una stanza buia, credi di essere visto, e non lo sei. Così quando gli altri sono in silenzio e tu fai molto rumore credi che non ti sentano e di essere tu cosciente del loro silenzio, mentre sono loro a soffrire del tuo rumore. L’animale del mondo Parliamo di Keplero come uno dei primi scienziati moderni e lui credeva che i monti fossero le vesciche della terra dalla quale sgorga la sua urina di fonte, che i vulcani fossero i suoi culi e che le cicale fossero squame staccate della sua pelle. Che la terra sia un immenso corpo vivente lo credevano anche Platone nel Timeo, Cicerone (De natura deorum, II, 8), Ovidio nelle Metamorfosi (XV, 342), Seneca 230 (Naturales quaestiones, VI, 16, 1) e tanti altri fino al nostro Rinascimento e all’apoteosi di Giordano Bruno. La teoria seducente e istintiva riaffiora in Schelling, occhieggia in Schopenhauer, si ripresenta con l’organicismo tedesco. Fechner trova naturale parlare di un’anima delle piante, e allora perché non dell’intera terra? L’anima mundi, l’anima terrae riaffiora col suo fascino antico ogni volta ci si accorge che abbattere la foresta amazzonica intacca il clima europeo e in mille altri casi. Non è una teoria scientifica ma è una convinzione istintiva poderosa. E noi oggi sappiamo fin troppo bene che la scienza non è tutto, ma ci dà soltanto una porzione della verità. E che tanto più sei scienziato, tanto più vuoi essere libero di ospitare nel tuo spirito il mistero di ciò che non sai e non potrai mai sapere per via empirica e dimostrativa. Tanto più sei scienziato, a dirla tutto, tanto più una parte del tuo cervello folleggia in modo incontenibile, oggi come ai tempi di Keplero. Di questo passo puoi farti una dea della natura. E sarebbe ridicolo. O no? Goethe scrive che siamo panteisti di fronte alla natura, politeisti in poesia e monoteisti nella morale. Vi sono tuttavia ecologisti peggiori dei musulmani più dogmatici, i quali ritengono la terra sacra e gli uomini profani. Manifestano un disprezzo cataro per ogni nostro intervento sul pianeta e sognano di impastarci con la materia oppure di trasformarci in spettatori invisibili e aerei che osservano la natura attraverso strumenti sofisticatissimi e delicatissimi, senza contaminarla. Ma Fechner potrebbe ricordare a questi imam della natura che è grazie al nostro respiro che le piante vivono. Noi uomini siamo indispensabili alla sopravvivenza del pianeta. Durante la prima guerra mondiale a Porto Maurizio hanno distrutto un milione e mezzo di olivi, perché il legname valeva più dell’olio. Anche le piante hanno dovuto dare il loro tributo alla patria. 231 Più ragionevole è pensare che noi uomini non possiamo andare contro la natura, neppure volendo e che forse ogni nostra violenza e trasgressione dell’equilibrio è già dalla natura stessa studiata per scopi che non possiamo conoscere. Parliamo di sete di potere, di cieca violenza, escogitiamo bombe nucleari e all’idrogeno, asfissiamo il cielo con gli ossidi e i carburi, e tutto questo rientra in un piano oscuro della natura per equilibri che ci sfuggono. Sessantacinque milioni di uomini vengono uccisi in due guerre mondiali. E anche questo rientra in un progetto arcano della natura. Terribile pensarlo. Non basta pensare che la terra abbia un’anima. C’è da sperare che sia buona, a noi benigna e favorevole. Ma potrà mai esserlo a ciascuno di noi? Penso proprio di no. Quello che intanto possiamo fare è ascoltare la natura dentro di noi, il conatus originario, e avere una grande pazienza. Tutti i nostri mali, come dice Kafka, provengono dall’impazienza. Quando sei in ritardo, rallenta il passo Così dice uno dei “pensieri improvvisi” di Andrej Sinjavskij, in altri casi troppo febbricitanti per me. Quando ascoltiamo una persona parlare lentamente, pensiamo che abbia una lunga vita davanti e un vasto spazio attorno. Rallentando, guadagniamo tempo. Quando siamo in autostrada e deceleriamo, impieghiamo più tempo ad arrivare, stando all’orologio, ma molto meno nella nostra percezione soggettiva, quella che conta in questo caso. Mentre più acceleriamo più accelera con noi anche il tempo, e pochi secondi diventano interminabili. La meta inoltre, accelerando, si carica si significati fasulli mentre il viaggio diventa un mero strumento, una vita cava e sorda senza senso se non nell’eccitazione. La velocità dei nostri tempi fa sì che ciò che verrà diventa lo scopo e ciò che è adesso il mezzo, mentre rallentando si inverte il rapporto ed è scopo quello che sto vivendo nel momento presente e mezzo ciò che dovrò fare o il luogo in cui dovrò arrivare. 232 Mistico è colui che inverte il mezzo e lo scopo. Qualità e quantità Volponi mi disse con un gesto largo di sgomento: “Ci sono troppi poeti oggi in Italia.” Lui in quei giorni leggeva Plutarco. Ci sono troppi contemporanei. Chi legge solo i contemporanei vive in una sola dimensione, in un paese più piatto di Fatlandia. Con mestizia dobbiamo dire che i migliori scrittori e i poeti di oggi sono mediamente meno potenti di quelli all’apice dieci anni prima, che erano un decimo; e questi di quelli di venti anni prima, che erano un ventesimo. In Italia la generazione dei romanzieri nati negli anni 30 del Novecento, raddoppiando di numero, già manifesta i primi segni di svigorimento. Che diventano più manifesti nei nati negli anni 40, quadruplicati di numero. Oggi il valore medio dei narratori è artigianalmente assai buono, tanto che fai fatica a trovare un libro indegno, ma la gran parte di loro è poco colta, poco profonda e poco onesta con se stessi e con gli altri. Ciò accade perché tutti concorrono a scoraggiarti dal diventare più colto, profondo e onesto. Tutti vogliono che tu non lo diventi. Tutti abbiamo paura che ci sia uno più bravo, perché nessuno sarà più vero di noi. Anche se tutti di nascosto ci consideriamo dei geni in potenza. Ciò che vince oggi in letteratura è la capacità di trovare una nicchia di mercato, come nella vendita dei mobili o dei frigoriferi. Questo è normale in una economia capitalistica. Quello che non è normale è il consenso, la volontà generale che sia così. Il capitalismo naturale Il capitalismo, come ogni altra forma economica, è un fenomeno naturale, che prosegue l’opera della natura con lo stesso cinismo e indifferenza al singolo. Da qui la sua potenza e capacità di rinascita. 233 La politica dovrebbe tamponare le ingiustizie e le violenze che l’economia, come prosecuzione della natura dentro la civiltà, produce sempre di nuovo, invece ce la fa sempre meno, si piega, si inchina, diventa anch’essa natura. Presto intorno al Parlamento cresceranno le erbe selvatiche, le radici spaccheranno le pietre, le scimmie salteranno sugli scanni, i boa stringeranno le gambe dei deputati in una morsa. Il soffitto scoperchiato, la pioggia battente farà marcire i banchi. Al freddo e senza mangiare che bacche i deputati voteranno le decisioni prese nei grattacieli di cristallo delle multinazionali, delle grandi compagnie finanziarie, delle cupole mafiose. 24 gennaio La forza dell’immaginazione La forza dell’immaginazione, Einbildungkraft dicono i tedeschi, cioè la capacità di immaginare. Che cosa? Un’altra vita, un’altra società, un altro mondo. Tutto il contrario di quel sogno a occhi aperti, coatto, indotto dalla televisione e dal cinema. Un sogno collettivo nel quale già i ragazzi si sentono rassicurati leggendo tutti insieme lo stesso libro, Twilight, guardando lo stesso film, cantando le stesse canzoni. E i loro padri vedendo la stessa partita, comprando la stessa auto, sognando la stessa pensione. Non esiste neanche l’immaginazione di una società diversa e migliore della presente, mentre negli anni 60 e 70 di continuo la città presente era messa in gara con la città immaginaria, la società presente con la società immaginaria, la donna o l’uomo presenti con quelli assenti e immaginari. Oggi nel letargo dell’immaginazione si aggirano i fantasmi innocui indotti da un mercato i professionisti bravissimi e spregiudicati, che passano per i soli democratici, perché rispettano e amano il pubblico che compra i loro prodotti e non direbbero mai che l’uomo-massa non capisce niente, come fanno coloro che vogliono educare un gusto, un giudizio, l’energia di immaginare. Ognuno vive soltanto la 234 sua città, la sua società, la sua donna o il suo uomo, e vi sprofonda dentro pacifico e sorridente, turbato da allarmi incomprensibili. Aporie italiane Il modo migliore per fare accettare il mondo come è, è di far sussultare con paure continue, che si rivelano falsi allarmi, per far continuare a godere, o a sopportare, la vita com’è. La nevicata scatena l’allarme rosso, l’epidemia un panico effimero. Gli alpinisti muoiono con ritmo regolare, come cadono le valanghe, a conforto di chi sprofonda in poltrona. Milioni di italiani non arrivano alla fine del mese, e non hanno bisogno della televisione per saperlo. La notizia serve a coloro che ci arrivano, si confortano e non chiedono nulla di più. Sulle strade incidenti quotidiani, contro i quali non si fa nulla, perché nei tempi di crisi e di paura, i sopravvissuti si stringano ai loro cari. In ogni città assassinii sempre misteriosi, che vengono analizzati, seguiti e coccolati per mesi e mesi perché chi ancora non ha ucciso o non è stato ucciso mediti sulla sua fortuna I quotidiani incidenti sul lavoro ci riportano ai tempi pioneristici e crudeli del capitalismo, che in realtà non sono mai passati. Si tranquillizza il mostro che non rischia, non uccide, non fa lavori pericolosi. Gli ospedali, le scuole, le aziende, le amministrazioni che funzionano non vengono mai nominate perché i più non sopportano qualcosa che vada bene. Non potrebbero più lamentarsi, deplorare, sdegnarsi, accettare quello che ogni giorno va male. I mediocri vogliono che le cose vadano male. Di scienziati, artisti, scrittori, architetti, pittori, poeti non si parla mai, se non di quegli attori, rappresentanti di se stessi, Cagliostri, paraninfi, e imbonitori che sanno eccitare un pubblico televisivo con dichiarazioni drastiche e brillanti. Gli italiani odiano chi eccelle o chi fa serenamente bene il suo lavoro. Le profonde verità delle vita vanno dette per scherzo, con aneddoti gustosi e preferibilmente da comici, uomini di spettacolo, cantautori 235 profetici. Molto pregiati i calciatori quando sono in momento meditativo e pronti a darci semplici moniti per il popolo contrito e solidale. Le parole degli arbitri sono molto meno gradite di quelle degli allenatori, epici Ahab ritratti nel loro sguardo sprezzante a comando della baleniera, o quando pronunciano poche ruvide parole che toccano i cuori pazzi della ciurma. Intanto nell’ombra, a luci spente, nei laboratori, negli atelier, nelle palestre, nelle fabbriche, nella camera solitaria, milioni di anonimi banditi dalla piccola scatola colorata lavorano perché la mongolfiera dell’Italia non vada a picco. Non sanno neanche loro perché lo fanno, sono fatti così e non hanno neanche voglia che se ne parli. Sanno che devono restare nascosti perché l’odio sociale, il rancore dell’uomo massa è peggio dello tsunami. L’animale strano L’uomo: un animale nato per fare qualcosa che non sa fare. Epistolario Scorrendo le lettere che ho ricevuto noto che le stesse persone scrivono, col passare degli anni, con caratteri sempre più piccoli. Raggiungono una misura giusta nella mezza età e, soprattutto se diventano vecchi gloriosi, usano una grafia minutissima, quasi microscopica. Per scomparire o per rendere il loro tesoro sempre più inaccessibile, nel gesto di offrirne qualche moneta a un altro? O per un crescente senso di insicurezza, di parsimonia, di insufficienza dei detti? Alcuni scrivono in modo indecifrabile, quasi a preda a raptus, nella foga di bruciare in pochi secondi un messaggio. Oppure buttano giù segni inesistenti nell’alfabeto italiano come se fossero clandestini in regime totalitario. Ciò che conta è lo stigma della loro firma. Si crea così una piccola leggenda e, mentre l’uomo vorrebbe sparire, il personaggio cresce. 236 Quando sei al buio tu scrivi con caratteri più grandi. Ci sono quelli che prendono in mano la lettera che hai scritto loro e rispondono punto per punto educatamente, dicendo quello che chiunque potrebbe già sapere, concludendo con un saluto cordiale e misurato. Ti hanno risposto per buona educazione. E io li apprezzo. E ci sono quelli che ti mandano sette o otto pagine di riflessioni articolate, di fronte alle quali diventi un pubblico lettore. E in fondo queste sono le vere lettere. Per il resto si procede con gli email, ora ridotti a mail. Nessuno potrà mai raccoglierle in un volume, magari un giorno potrà metterle on line. E vagheranno anch’esse, come milioni di Ufo in orbita intorno alla terra, nella navigazione aerea e cosmica delle nostre parole dilapidate. Anzi, lapidate, nell’atmosfera. Paradossi oggettivi Avremmo bisogno di un nemico, possibilmente di un grande nemico, per migliorare e crescere. La fama non spetta ai migliori, il successo cade sempre nelle mani sbagliate. Ma se questo lamento nasconde un desiderio di fama frustrato, una speranza di successo mortificata, l’autore diventa ridicolo e patetico. Tu potrai ascoltare soltanto la critica di chi la fama e il successo rifiuta. Ma allora potrà essere soltanto il libro di un morto. Volevano fare di Cristo un Re, scrive Kierkegaard, e lui scelse di essere crocifisso. Non fu crocifisso contro la sua volontà mentre avrebbe voluto diventare re. Se tu, uomo piccolo che hai preso Cristo a modello non scegli, ma ti farai trascinare dal bene, non sarai nessuno. Se tu pensi che un tuo libro possa giovare agli altri, mettiti alla prova. Pagane tu la stampa. Se ci tieni più a qualche migliaia di euro in tasca, vuol dire che credi che giovi soprattutto a te. 237 Diffusa invece è la mentalità opposta: un vero scrittore non paga i suoi libri. In realtà quasi tutti lo fanno ma, d’accordo con l’editore, non lo direbbero mai. Altri, pochissimi, vengono pagati, e allora diventa una professione. E, se sei cosciente dei tuoi mezzi e dei tuoi scopi, ti vergogni che altri trovino tanto bravo un così piccolo scrittore. Per questo Kierkegaard voleva pagarsi i libri che pubblicava e giudicava disonorevole che ci pensasse l’editore. Tanto più è letto il tuo libro tanto meno tu esisti. Se vendi un milione di libri, non per questo sei un piccolo scrittore. Non sei neanche però un grande. Piccolo o grande lo eri già prima e lo resti anche dopo. Se vendi molto vuol dire soltanto che hai soddisfatto i bisogni dell’animale massa per due o tre ore. Ma quello stesso animale, tornando uomo, ti possiede interamente. E sei nelle sue mani comunque. Diventando stupido mentre legge, torna intelligente quando smette. Così idiota da diventare un genio. Così genio da diventare un idiota. Scrivere è prendere al volo i pensieri mentre stanno per annegare. O sono loro che salvano te? Il diritto che Dio ci ami Quanta disperazione, solitudine, paura per avere il diritto di pensare che un essere onnipotente e perfetto ci possa amare. E quanta fatica per ottenere che nel momento decisivo ci dia la mano, ci scorti dove nessuno sa se esiste qualcosa. Salvarsi soltanto se se ne è degni, questo nessuno vuole accettarlo. Dio ci dovrebbe salvare perché è buono, perché esistiamo, perché soffriamo, perché siamo fragili e insicuri. Sicuro che basti? Non è più bello, umano e giusto tentare di meritare la mano che ci potrebbe venire dall’alto? 238 Ma noi oggi ci sentiamo troppo indegni, ci vergogniamo di noi stessi e allora facciamo la voce grossa, imprechiamo, ridiamo, rivendichiamo mentre dovremmo agire nel bene e scegliere. La persona che ho mai trovato più affine a me, benché la cosa non mi faccia troppo piacere, è Kierkegaard. Quando leggo i suoi pensieri, essi sgorgano dalle mie vene. E non mi fa piacere perché non mi fa piacere essere io, essere responsabile, dover scegliere io. Perché ci hai creato così: un essere fortunato e sfigato, disperato e soddisfatto, geniale e idiota, amante del piacere e del dolore, forte e tremante, spregiudicato e vile. Perché ci hai creato così? Per divertirti a vederci vivere? Non credo proprio, perché siamo tutti così, e Dio certo si accorge come nell’infinita diversità noi siamo nel profondo tutti uguali e sempre gli stessi. Che sei il sommo artista, lo vediamo. Che sei il sommo scienziato è evidente. Ma c’è un bel contrasto col male che viviamo. Valeva la pena fare miliardi di galassie perché un operaio di trent’anni con un bambino piccolo precipitasse da un’impalcatura? È terribile questo contrasto e il fatto stesso di averlo pensato fa male. Per il bene di Dio e nostro, devo scegliere. Se infatti non ci fosse un altro mondo Tu non saresti buono. Quindi deve esserci. Non si può bruciare tutto qui, nella lotteria universale. Non posso essere neutro, non posso essere agnostico, per questa esatta ragione. Io devo credere, altrimenti sono complice. Eppure sono così piccolo, così ambiguo, così furbo. È sicuro che io possa scegliere? È Dio che sceglie dentro la tua scelta. Non puoi farcela da solo, se sei onesto. Uno viene chiamato, questo è evidente. Sorridendo paterno un amico mi dice: Io sono ateo e non riesco neanche a concepire questa problematica, piuttosto malsana secondo me.” Confesso che coloro che si dichiarano atei io non li stimo molto intelligenti, però riconosco che hanno fegato e sono ben costruiti. Inoltre sono migliori di me in quanto la possibilità oscena di un dio cattivo non passa loro neanche per la testa. 239 E tuttavia come fanno ad accettare un mondo assurdo e ingiusto? Questo il mio amico me lo spiega alzando le spalle e dicendo: “Tanto”. È un fatto che esistano però atei geniali, come Philip Roth. Bisogna rassegnarsi al fatto che esistano forme concorrenti e contrastanti di intelligenza o che, quando abbiamo la sensazione che qualcuno non sia intelligente, se è vero che il simile conosce il simile, essa è prodotta da un deficit dell’intelligenza nostra. L’ateismo è una condizione naturale, come essere maschio o femmina, alto o basso. Che senso ha dichiararlo? Come se uno dicesse: “Ho due gambe e due braccia.” Il problema è cosa farne. Altri lo spiegano uccidendosi. Per me è evidente che saranno tra i primi a salvarsi. E tuttavia può uccidersi solo chi non è amato da nessuno, perché altrimenti il suicidio è sempre anche un omicidio. Esiste chi non è amato da nessuno? L’ateismo oggi dominante è quello pratico. Non già il sostenere con qualsivoglia argomento che Dio non esiste ma credere e comportarsi in base alla convinzione tenace che questo sia l’unico mondo, stringendo la radice di una pianta che sembra il mondo e invece è la nostra vita; non soltanto, che conti solo l’ora presente, il trionfo attuale. Ma attenti, ogni istante in cui vivo trionfo sulla morte. Ma è trionfo illusorio, non solo perché perderò la guerra sicuramente, così ragionando, ma perché anche il dolore, l’angoscia, la solitudine trionferanno così in questo preciso istante. Della nostra cattiveria più profonda non ci accorgiamo mai. Non puoi scrivere se non sei cattivo, e non sai di esserlo. Ma dentro una più profonda bontà, altrimenti non è il tuo mestiere. 240 La mia fede è morale e kantiana: Dio deve esistere ed essere giusto e buono. È un postulato pratico. Una fede morale tuttavia è forse un antidoto all’amore? La sentinella che guarda il nemico fuori e dentro. La sposa rifiutata per sempre. Il capolavoro rifiutato per sempre. La creatura rifiutata per sempre. Kierkegaard non filosofava soltanto sulla scelta, sceglieva pure. Non si è fatto prete, non ha sposato Regine. Queste sue scelte tuttavia sono negative. Ha scelto la fede: questo è in positivo. L’ha scelta come scrittore e uomo solo: questo è impressionante, perché uno deve scegliere esattamente in quello che è. Ha dato del tu a Dio: sarebbe sfrontato se non fosse ridicolo. La sproporzione lo fa scoppiare. Può farlo soltanto chi ama. È talmente stravolto d’amore che non s’accorge della spavalderia. Con i miei studenti ragioniamo spesso, attraverso lo studio dei filosofi, di questi problemi, con somma naturalezza, e a nessuno di noi pare strano. Perché allora quando lo faccio da solo mi vergogno, mi sento losco e arrivo a temere misteriose rappresaglie. La colpa non è nel pensarle e nel dirle ma nel farlo da solo. C’è una persona cara di là e tu invece di correrle incontro ti trastulli con pensieri solitari. Il pensiero, come l’amore, si dovrebbe fare in due. L’uomo solo non è mai degno di pronunciare il nome di Dio, a meno che non preghi o non ami. L’uomo solo è un altro, proprio perché è universale. Il pensiero si impossessa di lui. E il pensiero è una strada tra le più importanti, ma da percorrere sempre insieme alle altre, altrimenti ti percorre essa. Camminare su due strade opposte nello stesso tempo: questa è la differenza dell’anima rispetto al corpo. 25 gennaio 241 Intermezzo Si svegliò nel solito paese mostruoso, già deluso da amici e sconosciuti, che continuamente tradivano e mentivano, raccolse le sue ossa e le mise sotto la doccia. Era chiaro che tutto sarebbe stato per sempre lo stesso, che gli stessi amici avrebbero tradito nello stesso modo e gli stessi sconosciuti avrebbero mentito nello stesso modo. Come lui. Che dopo la sua morte sarebbe stato come prima, che durante la sua vita sarebbe stato come dopo. La pioggia che cadeva da settimane avrebbe continuato a cadere per millenni e un altro scrittore con un diverso nome, ma sempre lui stesso, avrebbe ricominciato l’apprendistato del dolore, cambiando soltanto il paesaggio. Mancava sempre meno al momento in cui sarebbe dovuto andare a lavorare, venti minuti, quindici, dieci. Si asciugò i capelli senza pettinarsi. Mise il portafoglio nella tasca della giacca. Sotto casa scambiò un saluto col commerciante di abbigliamento sportivo, un tempo calciatore del Bologna. Erano due uomini molto gentili e sorridenti. Avrebbero sorriso per tutto il giorno, facendosi la fama di persone calme. Quando girò la chiave nel cruscotto l’evidenza del dolore nel mondo assunse un’aria agonistica e prese l’odore di radica del cruscotto. Mise un cd di Paul e guardò i moti finalistici degli abitanti della piazza. Per qualche secondo uscì dal tempo. Quando vi fece rientro lasciò che la testa andasse in letargo. Gli succedeva così, si lasciava infeltrire dal torpore, diventava arido perché il minimo gesto di generosità e di gratitudine verso qualcuno lo feriva. Avrebbe vissuto la mattina col pilota automatico. Il negoziante gli faceva provare una felpa in sconto pensando le stesse cose, ma con le braccia e la schiena, che gli doleva, come a molti calciatori con l’età. La pioggia era eguale. A sera questa eguaglianza si rivelò dolce e piena di stupore. 242 Mondanità letteraria Anche scrivere un saggio su uno scrittore o un poeta è un gesto di generosità e gratitudine, prima di tutto verso colui sul quale si scrive. È un gesto che dura mesi ed esige o una soddisfazione recente, che fai rilucere su un altro, o un forte dolore dal quale stai guarendo. Questa condizione alcuni la chiamano ispirazione. Ed a ragione, perché sei così libero da te in quel periodo da poter ospitare un altro. Non pensare è il primo requisito richiesto a un narratore di oggi. E possibilmente aver fatto lo scaricatore di porto a San Francisco o il camionista per un’agenzia di Liverpool. Se donna, va bene la giornalista ma, mi raccomando, freelance. Se lo scrittore ha studiato per gran parte della sua vita è per quasi tutti una sicura minaccia di noia e deve stare bene attento a non farlo sapere a nessuno, pena l’embargo nazionale. Si legge nei risguardi dei romanzi: vive tra Parigi e Nizza, tra Torino e New York, tra Londra e Firenze. Uno scrittore che si rispetti vive sempre tra due città. L’immaginazione è la prima cosa che si corrompe. Quella degli italiani è devastata, per questo non riescono a leggere buoni libri e soprattutto a vivere una buona vita. L’ultima salvezza sta nel pensare. Ma ci si arriva quando tutto è perduto. Egocentrismo Ogni italiano, e forse ogni occidentale, è avvitato oggi nel più sfrenato egocentrismo, del tutto indipendentemente dal valore della persona, dalla gravità dei suoi problemi, dagli ostacoli delle sue giornate. Se un uomo ne uccide un altro pretende pietà per sé, per quanto la sua vita se ne è fatta complicata. Se un grossista imbroglia un commerciante non si preoccupa del danno che ha inferto ma della propria miseria che non è riuscito in nessun modo a risanare con 243 tutte le sue truffe. Le quali se avessero avuto successo l’avreste visto tutto pimpante, spavaldo e del tutto privo di rimorsi. Se una donna tradisce un uomo si compatisce per la propria vita dilapidata e gli rinfaccia l’agitazione nella quale il tradimento l’ha messa. La morale, anche la più stupida, ha da sempre esercitato un freno salutare all’egocentrismo, come il pudore, anche il più ridicolo, ha spinto a interrogarsi sulle proprie mancanze, aprendo gli occhi sul male che facciamo ad altri senza più neanche accorgerci. Ma la morale e il pudore suonano come anticaglie insufficienti per calmare un’infiammazione impossibile ormai da lenire. Così il dolore e l’angoscia che si provano nel fare il male vengono addebitate ad entità misteriose e a volte alle stesse vittime. Giacché se abbiamo fatto del male a qualcuno, se l’abbiamo ucciso, tradito, imbrogliato, vuol dire che abbiamo visto in lui una minaccia, una deficienza, una colpevole debolezza che poi non è giusto ricada su di noi, che abbiamo agito col nostro infallibile istinto, per tentare di risolvere il problema. L’istinto è la forza misteriosa e infallibile nella quale gli italiani credono ciecamente, fermo restando che un genio misterioso li ha favoriti tutti, tanto riccamente dotandoli. Così in tutti gli sceneggiati televisivi è un dogma che si debba agire in ogni situazione per istinto. E se qualche personaggio prova a riflettere su qualcosa, subito tutti gli si avventano contro spiegandogli che sbaglia e deve abbandonarsi al suo mirabolante intuito, alla sua intuizione geniale, al genio amico che madre natura ha fornito a lui e a tutti per destreggiarsi negli imbrogli che il vizio del pensiero continua ostinatamente a provocare. Questa fiducia nel proprio genio è una delle cause che rende qualsiasi decisione politica arbitraria e dannosa e qualunque tentativo di organizzazione sensata della vita pubblica una mera chimera. Di istinto in istinto, una famiglia animale in cui ciascuno forma l’esemplare unico di un genere, l’infinita varietà della natura si dispiega, trasformando la società in una giungla e la famiglia in una voliera. 244 Kierkegaard dice giustamente nei Diari (X, 1853-54) che la morale dell’ascesi di Schopenhauer è una forma geniale di autodifesa. Ma essa esclude dall’orizzonte tutti quegli uomini per i quali lui stesso diceva si debba provare compassione. E compassione, o simpatia, la puoi provare soltanto provandone le stesse passioni. Ma se nell’acesi non le provi più bruci ogni compassione per il genere umano. Se una morale è geniale, conclude Kierkegaard, come lo è quella di Schopenhauer, allora è amorale. Il consiglio Spesso qualcuno ti chiede un consiglio, mostrando una sincera considerazione del tuo parere. Ma il più delle volte desidera soltanto un conforto a una decisione già presa. Prova infatti a dire qualcosa in contrasto con quello che l’amico ha deciso e lo vedrai non soltanto fare l’esatto contrario ma provare verso di te l’irritazione e la delusione per il fatto che non hai saputo capirlo. Infine tu gli diventerai nemico in ogni caso perché, andandogli bene le cose nel modo da lui scelto, figurerai come colui che osteggiava di nascosto il suo vantaggio. Andandogli male, non penserà che tu avresti voluto salvarlo dal danno ma ti assocerà agli effetti sgradevoli della scelta come se fosse colpa tua. Se infine asseconderai quello che ti sembra il suo desiderio, come da qualche segno potrai tentare di capire, passerai per uno che in fondo non si interessa della sua sorte e che non si investe dal di dentro delle sue preoccupazioni. L’amico del negoziante Quando diventi amico di qualcuno che ha un negozio che vende qualcosa che compri abitualmente, per esempio cibi o vestiti, tutti i vostri rapporti si svolgeranno nel negozio e, benché tu non te accorga, saranno regolati dall’entità degli acquisti che compi. Un periodo di pure conversazioni, ma senza acquisti, verrà letto come 245 una deplorevole freddezza e una fase di spese vigorose come un gesto di fraterna amicizia. Questo effetto si produce, ben più gravemente, ogni volta che un’amicizia è sbilanciata, il che occorre abitualmente, con uno che chiede sempre e con l’altro che dà sempre, finché il non dare una volta dopo aver dato novantanove suona imperdonabile, e il dare una volta dopo aver chiesto novantanove, sembrerà un gesto che vale per cento, benché compiuto una sola. E a fatica verrai accontentato. Smetti di dare e vedrai sparire colui che chiedeva. Smetti di chiedere e vedrai sparire colui che dava. Questo dipende, oltre che dall’interesse, dal bisogno di ruoli fissi e ricorrenti che ricerchiamo nelle nostre relazioni, dal che si induce che è bene definire sempre e fin dall’inizio il ruolo in cui vuoi sperare di essere considerato, perché dopo non ti riuscirà più di cambiarlo. Quando chiedi un favore a qualcuno, tu lo costringi non solo a rivelarsi ma anche a dare il meglio di sé, a concentrarsi per radunare le sue qualità migliori quando lo decidi tu, e a tuo favore. Ecco che colui o colei che ti deve favorire viene stretto istintivamente nella morsa di un tuo giudizio severo e disincantato, sia per proteggerti dal rifiuto, sia e soprattutto perché soltanto quando gli chiedi qualcosa ti comparirà davanti nudo e crudo. Mentre la nudità di chi chiede è sempre vestita dal bisogno e dall’umiltà, anche forzata. Il modo migliore per verificare se sei amico di qualcuno è se lo cerchi anche quando non ti serve a niente. Se parli con lui oziosamente. Segna i gesti di amicizia che hai ricevuto perché tendiamo sempre a ricordare i nostri crediti. 246 Non è vero che gli altri non fanno nulla per noi. Non fanno quello che esattamente vogliamo nel momento preciso in cui lo vogliamo. Chi chiede sempre qualcosa agli altri ha sempre una profonda scusa da far valere: o l’età avanzata o l’infanzia infelice, o i rovesci economici o uno stato di malinconia che specialmente dagli scrittori e poeti, essendo il combustibile naturale della loro attività, quando non è sovrastante e genuino, è sempre usato per ottenere favori, consensi, o almeno un semplice ascolto. Per questo rispetto le persone limpide che non simulano una depressione che scompare appena ottenuto lo scopo e fingono semmai un’allegria che non provano e una scioltezza che non posseggono, soltanto per non sembrare di ricattare gli altri con le loro pene. Quando proprio non ce la fai più, quando proprio sei disperato, è allora che perdi il tuo pudore e ti offri inerme e nudo con la bandiera bianca, affinché il cuore indurito di chi pensi ti possa aiutare si sciolga allo spettacolo della tua sconfitta. E dopo è tuo dovere continuare ad essere dolente, affinché non si pensi che sia stato tutto un teatro, e continuare a essere sconfitto, per non parere di voler vincere di nascosto. Così dei dolori veri provati da una persona, solo una minima parte è sincera, la gran parte servendo a non farsi invidiare, odiare, colpire dagli altri oppure a impietosirli, muoverli verso di noi, ottenere dei favori, farci perdonare un torto, millantare una grandezza d’animo di fronte al dolore del mondo di cui possediamo solo un’ombra. 28 gennaio Maratona morale Nella media alternanza di aridità e chiusura in se stessi e contro tutti, e di apertura e generosa domanda e pazienza verso il prossimo, qualcuno si distingue per una maggiore costanza nel compiere azioni che si rivolgano ad altri. Magari con una vaga malinconia e 247 rassegnazione dell’amor proprio, nutriti tuttavia da un sincero moto del cuore o da un persistente senso del dovere. E questo viene dagli altri riconosciuto, con stima e con un filo di tristezza, sia verso di loro, che figurano leggermente patetici, perché il loro impegno riesce a spostare appena di un milligrammo la bilancia morale verso la fiducia nella capacità di bene dei nostri simili, sia perché nulla cambia della propria sorte quando è un altro ad essere beneficiato. E neanche quando lo sei tu stesso. Per raggiungere un rispetto completo e duraturo bisogna resistere per anni, per decenni, e stare molto attenti verso il crepuscolo della propria vita perché basterà un solo gesto difforme, un solo periodo critico, sia pure di dolore e di indifferenza riflessa, per pregiudicare l’immagine di sé con tanta fatica, granello su granello, e con tante rinunce, edificata. I più infatti aspettano al varco l’uomo presunto retto e si placano soltanto quando lo vedono cadere, benché ne restino intristiti e delusi, o se non cade mai. Pulsione vegetale C’è nel genere umano una profonda pulsione vegetale: verso il vuoto, il sonno, il silenzio, l’annullamento, l’inerzia, la inazione, l’inattività fisica e mentale, che genera un impasto sociale torpido, una sabbiatura invisibile che rallenta il passo, che frena i moti dell’animo, che paralizza i gesti, come fossimo animali nello zoo, che non saprebbero più guadagnarsi da vivere in libertà ma non si trovano bene nelle gabbie. Il più potente glorifica sempre il presente Un governo contribuisce a distruggere ogni speranza nell’avvenire, glorificando il presente e deridendo con la sua ottusità brillante ogni immaginazione di un’altra società e di un altro mondo. Il governo che esalta il presente si rivela quello di un carnefice delle anime, di un gasatore della vita spirituale, che ha trovato una falange 248 di seguaci in uomini e donne allegramente morti, che scambiano l’eccitazione e l’euforia con la felicità, e l’ottimismo dell’interesse che difendono con quello della volontà. Già malmessa, l’Italia ne ha ricevuto il colpo definitivo nelle sue antiche radici e la quercia sta morendo mentre viene prontamente sostituita da una copia in plastica illuminata dal vuoto dentro. La malizia Gli uomini amano in una certa misura sentirsi strapazzare, accusare della loro malizia e debolezza, perché vi trovano le ragioni, visto come è fatto il mondo, di avervi qualche speranza di forza, nel primo caso, e di umana comprensione nel secondo. Ma a condizione che siano mali ritrovati in tutti. Se anche giudicheranno l’autore un pessimista, un misantropo o un piantagrane, saranno sottilmente gratificati perché sarà rispettata la più rassicurante delle idee sbagliate: che siamo tutti uguali. Vi sono quegli esperti segugi, abilissimi nel rinvenire il germe della malizia in ogni azione e pensiero umano e che, ragionando a freddo, sulle nostre parole, anche buone e favorevoli, finiscono per trovare prima o poi il filamento di male nascosto. Ma sbagliano se credono che la malizia sia la molla segreta e vergognosa di tutti i comportamenti umani, mentre invece l’arte della conoscenza degli uomini consiste proprio nell’identificare il dosaggio del bene e del male. Impresa prosaica e meno eclatante di chi dichiara che siamo tutte belve addomesticate e meno esaltante di chi esprime una fiducia incondizionata nella natura buona. Così chi vede tutto malizioso sarà anche il più maligno e il più inetto a giudicare i comportamenti mentre la persona clemente sarà anche la più imparziale e giusta nel valutare la natura umana, avendo fatto la paziente fatica di considerare che, sì, è vero, quella punta ironica c’era, quel guizzo di invidia non mancava, quel pizzico di gioia del nostro male era scappato al controllo, ma non svelava nessuna marea di ostilità, nessun abisso di odio, nessuna infezione profonda. 249 Anzi la corrente principale ed espressa era tutta di bene, benché trascinasse, come sempre, le nostre impurità. Tanto più teniamo segrete certe spinte e ci idealizziamo, tanto più troveremo persone inclini a giudicarci ipocriti e a vederci tutti al nero. Arrendersi al misto, rassegnarsi al tessuto di bene e di male, sapere imperfetti noi stessi come gli altri, è la prima condizione per riconoscere il bene che ci fanno e che noi facciamo. Ha ragione Leopardi nel dire che la gran parte delle azioni malvagie e indegne non sono compiute con animo malvagio. Ma con l’indifferenza, il torpore del cuore, la storditezza della mente. E che la persona che ci ferisce e ci danneggia il più delle volte neanche se ne accorge, o minimizza le conseguenze del suo gesto, sia per ignavia, sia perché subito distratta da un’altra circostanza in cui si comporterà con la stessa beata leggerezza che nella prima. O si potrebbe dire che qualcuno diventa stupido al solo scopo di poter colpire con cattiveria senza pagarne tutte le conseguenze’ Fumo e alcool Se in un film, specialmente americano, un personaggio fuma è molto facile che sia il cattivo, o comunque uno additato al disprezzo degli spettatori. Ma se beve risulta essere un uomo forte, misterioso e affascinante. Più o meno come figuravano fumando nei film di qualche decennio fa i vari Bogart, Cooper, Gable, Grant. Tutti fumavano e questo era un segno di una vita interiore complicata e superiore. Così molte malattie tumorali vengono sventate mentre le epatiti e i disturbi coronarici salgono alle stelle. Infatti quando si attua una censura morale ed educativa in un campo bisogna sempre lasciar scatenare un qualche altro vizio. Di qui discende anche la tolleranza americana verso la obesità che pure è un lento suicidio (quando non è metabolica), ma è rappresentata comicamente oppure difesa come un diritto democratico. La censura è connaturata a qualunque società. È facile dire che si tratti del controllo esercitato dal potere per ribadire il morso della 250 sua autorità. E spesso è verissimo. Ma nelle società cosiddette democratiche la censura è voluta dalla maggioranza della popolazione che cerca compenso nelle sue frustrazioni dalle privazioni inflitte a categorie di volta in volta scelte con qualche legittimazione fondata o fittizia. 29 gennaio Solitudine letteraria La ricerca letteraria, come quella mistica, si svolge in solitudine. E anche colui che ha fama, è visibile, riconosciuto, ammirato, deve sempre tornare alla dura e amara sferza della sua anonima libertà di pensiero se vuol dire qualcosa che sia un cibo naturale per gli altri. Ma come la suora di clausura è sempre protesa verso gli altri nella sua vita romita, altrimenti verrebbe meno la dialettica dell’amore, e diventerebbe solo un’egocentrica viziata, così lo scrittore solitario deve sempre popolare la sua mente e il suo stesso corpo con la vita degli altri, altrimenti sarebbe un’anima secca che si compatisce senza meritare né dare vera pietà. In questa dialettica estrema non solo si deve chinare il capo più di una volta ma non si può mai dimenticare che tu sei fatto con i tuoi simili, e stai solo affilando le frecce perché un altro le scocchi. Il fatto che non ci sia altra strada posso dire di averlo sperimentato sulla mia pelle, essendo pieno dei lividi e degli ematomi per aver voluto cozzare contro i muri invisibili che giustamente recludono colui che ritenta i passaggi che per millenni hanno respinto gli uomini e che per millenni li respingeranno. Così che tutto ciò che non raggiungiamo, tutto ciò che non conquistiamo, e il prezzo di dolore che ne deriva, è solo un sacrificio umano a un bene che ci oltrepassa ma che ci attraversa in ogni goccia di sangue. In questo cammino non dimenticare di sorridere, e senza ironia. La malinconia d’amore che ne nasce verrà compresa, se non ti ci specchi. 251 Essendo per molti la soluzione del senso della vita impossibile, ecco che viene spregiato tutto ciò che è difficile, doloroso, faticoso, nella società, come nella vita privata, nella letteratura come nella morale. Se invece fosse sentito come possibile, proprio tutto ciò sarebbe pregiato al grado massimo. Da ciò si comprende il profondo ateismo e il profondo impossibilismo della società occidentale. Gli uomini sono, gli uomini fanno… Quando scrivi: Gli uomini sono, gli uomini fanno... credi forse di non essere un uomo? Credi forse che pensando e scrivendo tu sia un osservatore alieno del genere umano? Sottile ricompensa di orgoglio con la quale attingi una serenità che non ti spetta. Non sai quale più profondo bene avresti dicendo: Noi uomini siamo, noi uomini facciamo... Ma perché dovrei anch’io riconoscere in me ciò che combatto, ciò che mi sdegna e mi ripugna? Non c’è la sublime ipocrisia di chi non vuole cambiare nulla, non vuole combattere in questo riconoscere ogni male in sé? Certo che c’è. In questo modo tu ti riconcili comodamente, vuoi smorzare il colpo che arriva su di te dai malvagi, ti prepari il terreno per quando sarai tu a infliggerlo. Se anche non lo farai mai, resterai in un limbo, nella sospensione in cui è più facile affidare la vittoria ai peggiori, che nel frattempo agiscono, e con straordinaria rapidità. È da questo che nasce la straordinaria viltà del presunto cristiano che compatisce l’assassino e non la vittima. E allora? Allora la conoscenza, il pensiero, la scrittura vedi che non bastano. Ci vogliono gli atti. Non puoi non compiere atti umani e sociali e considerare soltanto lo scrivere e il pensare la tua azione. Devi saltare dalla sedia, e subito! Gli altri ti insegneranno come fare. 30 gennaio La scuola fuori della scuola 252 Si sa che gli italiani hanno difficoltà con la scuola, non dico a riconoscere che, volenti o nolenti, è al centro della società, ma anche ad ammetterne la funzione salutare, di rassodamento e disciplina sportiva dei caratteri nazionali votati alla dispersione e all’impulso, all’exploit ciarlatanesco e alla parlantina tanto più sciolta quanto meno si sa di cosa si parla. I professori, quando non sono romantiche macchiette, vengono visti con prudente stima o aperta ostilità, e tollerati lo stretto necessario, finché ci se ne libera allegramente. E tuttavia è sorprendente come non vi sia trasmissione televisiva nella quale non figuri un qualche docente mascherato. Nei quiz a premi disinvolti intrattenitori, che fanno finta spudoratamente di conoscere le risposte delle domande che pongono, godono nel bacchettare paternamente gli ignoranti e nel premiare i meritevoli con gongolanti sorrisi e fior di denaro, che sostituisce la pagella. Attempati studenti di ogni ceto sociale, dall’analfabeta al plurilaureato, si concentrano spasmodicamente e profondamente riflettono, tentando di cavare da buchi ragni che non hanno mai visto. E quando non giungono a nulla, malinconicamente ammettono: Non ricordo. Infatti tutti sappiamo tutto dalla nascita, come voleva Platone, e se non sappiamo rispondere a qualcosa non è perché non ne abbiamo mai saputo nulla, non avendolo mai studiato, ma perché il processo della reminiscenza non si è attivato, naturalmente a causa dell’emozione. Che è sempre tanta e soffoca la nostra sterminata cultura naturale e inconscia, che da casa facilmente si potrebbe esprimere. Non basta: in televisione ci sono continue gare di danza, di canto e persino di portamento e buone maniere, sempre con regolare giuria provvista di palette, formata da professori del nulla e del tutto, fierissimi di assegnare i loro voti, con sicurezza assoluta nella propria competenza, disposti a difendere con le unghie e i denti la loro decisione, basata su sensazioni naturalmente infallibili, perché ispirate direttamente dalla più generosa delle muse, quella televisiva. 253 Sono scherzosi e conversevoli, se nessuno li contesta. Ma provate a contraddirli e diventano furie scatenate. Il pubblico, ormai ridotto a battitore di mani professionista, ride tutto contento. Semplicità meravigliosa degli italiani. Quando assisti a uno spettacolo, batti le mani anche tu con la massima naturalezza. Quando da casa vedi in televisione battere le mani ti sembrano tutti burattini sempliciotti. Queste trasmissioni nelle quali gli italiani si fanno esaminare pubblicamente, di fronte a milioni di connazionali, saranno il segno del merito che si fa strada in una società dove la piattezza è stata finora l’unica bandiera condivisa da tutti? Dobbiamo salutare con ammirazione il sacrificio di dirigenti e portantini, di ingegneri e commercianti che manifestano apertamente la propria intermittente ignoranza con luminosi sorrisi e qualche deliziosa lacrima di commozione? Lo si fa a maggior gloria del sapere e in segno di sottomissione al fascino delle enciclopedie? Può darsi, ma a condizione che questo merito si esprima in campi sostanzialmente innocui per tutti, o abilmente mescolando l’alto e il basso, le rivelazioni sulle moglie dei calciatori con l’inventore della prima filatrice meccanica. E venga sottoposto a giudici dal manifesto animo bonario, o così furbo da sembrarlo, in modo che pubblico e professori di quiz enciclopedici, studenti di ballo e di canto e docenti cantanti e ballerini in proprio, siano alla fine tutti sullo stesso piano, del più cameratesco e indifferente divertimento. Tanto, si sa, tutti sappiamo tutto, e se non figura è perché non vogliamo sentirci né da più né da meno degli altri. Ma esattamente altrettanto geniali come ogni altro italiano. La casa poetica Se si fa il poeta vivere a Milano non è lo stesso che vivere a Fossombrone. La città in cui si vive infatti acquista un plus valore straordinario, perché tutto quello che vi succede diventa automaticamente il sotto testo, il mondo segreto alluso dal verso più 254 elementare. Se uno scrive “Si aprono le edicole a Milano” ammetterete che non è lo stesso che “Si chiudono i forni a Tolentino”. I sogni di milioni di italiani, di svegliarsi in una chiara mattina milanese e andando a fare un lavoro di prestigio, concedendosi un giornale in una poetica edicola lombarda ne vengono elettrizzati con minimo dispendio ed effetti sorprendenti. Provate a scrivere “Si aprono le edicole a Camerino”. Alla fine la cosa è quasi patetica, e immaginiamo il deprimente elogio della vita provinciale. Così molti poeti si trasferiscono a Milano o a Roma solo perché i critici possano rovesciare sulle esili trame dei loro versi storie millenarie e metamorfosi antropologiche delle quali i poeti stessi non avrebbero il minimo sospetto se non le scoprissero nero su bianco sulle pagine dei loro interpreti. Dal che si ricava un consiglio: scrivete pure i versi come volete ma badate di costruirvi una biografia nel posto giusto, e possibilmente quando ci capita qualcosa di importante. Ti chiedono: come ti trovi a Pesaro? Città in cui vivo da vent’anni. Ed è come chiedermi: Come ti trovi al mondo? È impossibile dire come stai in una città perché essa condensa tutte le tue esperienze, le sintetizza in un nome nel quale tutto quello che hai vissuto si concentra vertiginosamente. E tu come farai a dire quello che spetta a te e quello che spetta alla città, quello che avresti vissuto identico altrove e quello che avresti potuto vivere solo lì. O ti trasformi in un reporter della tua vita, un osservatore disincantato, e disincarnato, o finirai per dire di te molto di più di quello che vuoi e che sai, soltanto descrivendo il posto nel quale vivi. “Io non abito in una città, abito nella mia anima.” A. Jodorowski 31 gennaio L’edera privata della luce 255 Un mio amico amante delle piante mi ha mostrato un esperimento fatto con un’edera, privandola della luce. Ha messo sopra alle foglie una tavola di legno, sulla quale ha praticato dei fori. In breve tempo l’edera ha infilato i suoi giovani steli nei fori e ha trovato la luce per continuare a crescere. Non dovremmo farlo noi? Se tu segui la tua natura incontrerai ostacoli infiniti e tuttavia essi potranno soltanto farti accrescere la spinta a seguirla, anche se non ne avrai fortuna e guadagno. Sempre che tu abbia una natura. Un aforisma di Kafka Kafka scrive negli aforismi di Zürkau, la cittadina della Boemia dove era andato a curarsi per la tubercolosi che “il male è il cielo stellato del bene”. Lungi da essere un’espressione atea o una folgore demonica, un disvangelo, come è stato scritto, questo pensiero è un invito a comprendere il male come completamento notturno dell’armonia dei contrari, in senso eracliteo. Il male è indispensabile al bene e, come tale, ha un suo fascino necessario da contemplare, e soprattutto una potenza da considerare e vivere. Intendendo per male la malattia, non la cattiveria. Che si combatte nell’azione e basta. Non combattere la malattia: questo è stato un segreto mistico di Kafka? Il sollievo che ne ha provato, il modo docile e con dolore quasi festoso con cui ha reagito, mi fa riflettere di continuo. Lo capisco ma non lo intuisco, come capita con i santi. Ma lui si è mosso sempre a pochi decisivi millimetri dalla santità, oltre una religione codificata, illuminato dalla disperazione priva di sentimentalismo. Questa disciplina lo ha fortificato. 1 febbraio Dormiveglia Quando scendi nel dormiveglia nel primo pomeriggio è una sensazione deliziosa, specialmente quando le giornate si allungano, e 256 scivoli sulla linea, oscillante come un’elitra, tra il sonno e la veglia, mentre senti intorno a te le auto che scorrono, le voci di casa, una televisione felpata. Allora la luce diventa un nutrimento che risveglia scene simili vissute da ragazzo o da giovane uomo, in un simile stato di sopore. La dolcezza e la calma che ti prende, nella memoria involontaria, più che una discesa verso il sonno, è un’ascesa verso un risveglio. Un rinascere svanendo, un rigenerarsi sfumando. La stessa meraviglia della vita ti richiama alla veglia mentre la nuca si fa calda e grave e tu sorgi perdendo i sensi nella tiepida vita pomeridiana. Tu svanendo rinasci. Il gusto di dormire come gusto di simulare la morte essendo vivo, nel sollievo di una vita finalmente irresponsabile. Lo stesso non può accadere la sera o la notte perché il tuo svanire è congenere a quello della natura e non si genera l’indispensabile contrasto eracliteo. Mia figlia, quando era piccola, vicina a notte, diceva sempre che aveva fame, e invece aveva sonno. Si addormentava di colpo dopo aver gridato “Ho fame! Ho fame!” Perché il sonno è un cibo nutriente, specialmente se incede molto lentamente e nella coscienza ondeggiante. E la fame di sonno è la più dolce ma la più terribile se non puoi appagarla. 3 febbraio Dio è adesso Attenzione: Dio è adesso, e meno nel futuro, ancora meno nel passato. Infatti Dio dobbiamo comprenderlo non al di fuori del tempo, che per noi è impossibile, né stirando all’infinito il tempo, né saltando in un tutt’altro del tutto eterogeneo, ma capovolgendo il tempo. Esso viene dal futuro verso di noi, come un bolide, come una saetta di luce. E non significa niente tutta la miscredenza di cui siamo impastati, non significano niente tutte le parole già dette e pensate, e le interpretazioni sempre controvertibili, la tradizione sempre ossificata. Il tempo di Dio viaggia al contrario, e se non 257 comprendi questo non cominci neanche ad aprire gli occhi. E irrompe in noi, non ci oltrepassa, ci colpisce ora dal futuro come una saetta, come una fucilata! Così almeno credo che debba accadere agli illuminati. Un rumore lontano di auto che va dal futuro al passato. Questo il nucleo fisico della mia intuizione. Così gli antichi, come racconta Maurizio Bettini, dopo aver sussurrato alle orecchie del busto di Hermes, si tappavano le orecchie nella piazza del mercato, e quando d’un colpo aprivano le mani, le prime parole che sentivano avevano un valore profetico. Il caso, l’involontario, diventa il veicolo di una rivelazione. Nel Vangelo di Tommaso Cristo è chiamato “la forma umana della luce divina.” L’antropologia storica del cristianesimo, lo studio di Gesù nel suo contesto, è ricco di spunti interessanti ma il nucleo rovente è che Gesù elettrizza una catena di ispirazioni divine che ti fanno parlare da illuminato. La fede non è una teoria, né un’opinione, la fede non è neanche una fede. Essa è l’ispirazione che hai ora, che vivi dal di dentro ora o mai più. Come fai a non credere in Uno che ha fatto tanto per te, al punto di farsi uccidere. Glielo devi, è una questione di giustizia. Possiamo dire quello che vogliamo ma io non l’ho fatto, tu non l’hai fatto. Non potremmo continuare a vivere se Dio non venisse dal futuro. Finché vivi non puoi dirti né ateo né agnostico né credente se, come me, non sei un illuminato. Possiamo soltanto vigilare che la luce arrivi dal futuro. Ma essa ti prenderà di sorpresa e tu non la vedrai perché ci sarai dentro. Non serve ragionare sul pro e il contro della fede. Il fatto è che vi sono tra noi gli illuminati e che questi cambiano la loro vita ora in nome di questa fede. Anzi la loro vita è la loro fede. E cosa vuoi che 258 importi a loro che altri ragionino sulla sua necessità o sulla sua logica, se la vivono? Ogni uomo dà il suo contributo affinché Dio esista. Dicono che lo abbiamo inventato noi, per scoraggiarci dal continuare nella falsa impresa. È vero, l’abbiamo inventato. Ma ciò non conta nulla rispetto al momento presente in cui viviamo la nostra invenzione. Se lo inventiamo, se facciamo del bene, collaboriamo alla sua esistenza. L’assurdo male presente nel mondo non è giustificabile con una teodicea né è comprensibile razionalmente né si può temperare, umanizzare, ammorbidire. L’assurdo negativo è talmente sproporzionato, grandioso, vertiginoso che non puoi affrontarlo se non con l’assurdo positivo, cioè, pensando che Dio si è incarnato in un uomo ed è stato crocifisso per salvarci, che i nostri corpi risorgeranno e se faremo il bene vivremo nel bene. Ogni altra visione meno assurda sarebbe stata troppo debole. Ciò che conta è nondimeno non già che i corpi risorgeranno ma che stai risorgendo ora pensandolo. Perché tanti bambini sono stati torturati e uccisi nei Lager? La risposta è: Aiuta ora un bambino che soffre. Se non lo fai ogni tuo lamento, ogni tua rivolta, ogni tua recriminazione, ogni tuo compianto del male sarà subdolo e interessato o vano. Subdolo, perché nell’intimo ti domandi come mai tu possa sperare che Dio, non avendo aiutato i bambini nei Lager, possa aiutare te. Interessato per lo stesso motivo. E vano perché quando ti interroghi filosoficamente sul male non hai nessuna voglia di fare del bene a nessuno ma soltanto di gustare la voluttà del dolore degli altri. Per questo a Giobbe viene detto che accusa Dio per crearsi un alibi delle sue colpe. Fare il bene vuol dire essere più veloci del male già fatto? No, ciò è impossibile. Vuol dire essere più veloci del male che si sta facendo ora. Il male infatti è come una fiumana continua, da combattere ora 259 per ora. Non c’è tempo per il rimorso perché il male ti sta sommergendo adesso. È possibile che Cristo a un certo punto abbia sentito che Dio parlava attraverso di lui e con stupore si accorgesse della sua capacità di fare miracoli? E da allora sempre più si sia sentito il figlio prediletto di Dio? Perché effettivamente lo aveva scelto. 6 febbraio Verifica dello scrittore È vero che uno scrittore non è un santo e che spesso un mostro di qualità letterarie si rivela un uomo di valore intermittente, o una vera e propria canaglia, e perfino un mediocre. Ma quando conosciamo uno scrittore e verifichiamo in lui comportamenti ambigui, gesti volubili e capricciosi, parole inattendibili, sfoghi contraddittori, non riusciamo a prendere sul serio neanche quello che scrive e ci troviamo ovunque astuzie di bassa lega, meandri stilistici falsati e trovate a freddo per ingannare il pubblico e avvalorarsi come anima ricca e sensibile a tutti i costi, caricando le situazioni con la stessa spudoratezza con la quale trucca i casi della vita. È vero tuttavia che uno può dare il meglio di sé quando scrive anche dal punto di vista morale, e dopo ha un crollo di energie tale che lo infiacchisce anche moralmente. Via Lattea Nella Via Lattea, una striscia di miliardi di stelle, vive in un pianeta strapiccolissimo, visibile soltanto ai microscopi degli dei, un popolo coi corpi pensanti. Metti che siamo i soli. Che questa unicità non abbia nessun significato e non sia stata voluta mai da nessuno. Non è lo stesso incredibile? Protetta da un’atmosfera che è come una membrana uterina, questo feto di miliardi di viventi ruota e viaggia a migliaia di chilometri all’ora, e nessuno lo sa mentre intorno miliardi di stelle, ciascuna un sole, tempesta il vuoto siderale con sputi di 260 fuoco dentro cui la nostra terra avvamperebbe, senza che nessuno se ne accorga, come una minuscola favilla nell’incendio di una foresta. Non è inverosimile? Metti invece che esistano miliardi di pianeti abitati, come il nostro, diversi dal nostro, ciascuno all’oscuro per sempre di tutti gli altri, e che noi uomini non solo moriremo per sempre ma non sapremo nulla per sempre, non soltanto del senso di essere vissuti un breve tratto, ma neanche del modo, e non potremo mai non soltanto sapere chi ha costruito la casa che da sempre abitiamo, l’unica che conosciamo, ma neanche conoscere la casa stessa e le ragioni prime che la tengono in piedi. E tutta questa verità è evidente mentre ora un bambino keniota (e tra non molto, italiano) si arrampica su una discarica per trovare una banana per sopravvivere e un barbone di Milano si sveglia tra cartoni umidi. Nell’ospedale di Pesaro una donna giovane ha appena saputo che dovrà subire un’operazione da cui potrà non salvarsi. Intanto un televisore è acceso e mostra gente del tutto ignara e indifferente a questa evidenza, presa dall’acquisto di un paio di pantaloni o ferma al casello di un’autostrada. Gente che per tutta la vita sarà tuffata nella vita quotidiana, a cucinare un piatto di pasta o a dirigere un’azienda, ad accomodare un lavandino o a fare una lezione di lingua inglese. Tutto ciò, se non fosse reale, non sarebbe impossibile? Pensa allora a miliardi di galassie come la nostra e diversa dalla nostra, con miliardi di stelle e con miliardi di miliardi di pianeti abitati. Pensa poi alla nostra piccola cara e vecchia terra, così tenera di memorie familiari, col suo odore di stalla, di rose e di letame, di grembi d’agnello e di sangue, di carburi e ossidi. Infine ripensa a quegli spazi di uno sfarzo che fa girare la testa, che non potresti percorrere che per pochi mesi in una navicella mentre ci vorrebbero miliardi di anni luce solo per esplorarne una piccola parte. E ora pensa a Dio. Che è Dio di tutti questi miliardi di miliardi di galassie con miliardi di miliardi di stelle. E ora pensa a Cristo, nato in una stalla, in questo strapiccolissimo pianeta che gira, in un paese sperduto tra i deserti. E dimmi se non senti che questo è il massimo dell’audacia geniale che il Figlio dell’Uomo possa concepire. 261 E ora pensa se un’audacia del genere sarebbe stata possibile senza chinarsi agli umili, alle prostitute, ai poveri, ai malati, ai bambini, addirittura ai neonati. L’evidenza stessa della verità, non di ciò che è dietro le cose, ma di ciò che è le cose stesse, fa scoppiare il nostro piccolo cervello. Assistiamo allo scoppio e continuiamo a vivere. Domande in Cristo Perché Cristo non ha scritto? Qualcuno si è posto questa domanda che mi arrovella? Per lui la Scrittura era già completa nella lettera e bisognava solo realizzarla, portarla a compimento dal vivo e nei fatti? È perché si rivolgeva agli umili e agli analfabeti? Ma gli apostoli sapevano leggere e scrivere. Perché il Regno di Dio era prossimo e non ci sarebbero state nuove generazioni a cui rivolgersi? No, perché il Regno di Dio è ora, è sempre ora! Perché la verità unisce dal vivo due persone e non esiste da sola? Perché Cristo non ha scritto? Perché scrivere vuol dire aver paura, non avere fede, non amare abbastanza, conservare e accumulare i beni materiali, illudersi di salvare la propria mente, proteggersi dalla vita nuda e arrischiata in una partita simulata, sfuggire alla luce e all’aria, rintanarsi, accasarsi. Scrivere è una forma di ateismo? Penso che sia indispensabile che non abbia scritto, c’è una ragione profonda, intoccabile e non aggirabile. Qual è? Una voce mi dice: è la preghiera. La preghiera precede la parola. E io mi trovo sbalzato con le spalle al muro, pur restando immobile sulla sedia, perché non so pregare. Prima della preghiera nell’orto degli Ulivi, Cristo non ha mai parlato del proprio dolore. Le prove che ha superato sono state il digiuno, la sete, la solitudine nel deserto. Quando dice “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è lo stesso verso di un salmo, e ciò significa che la volontà di Dio si compie. Nell’abisso della disperazione c’è l’abisso 262 della speranza e dell’abbandono nella volontà del Padre, annegando nella infinitade, come scrive leopardianamente Bianco da Siena. E tuttavia la religiosità popolare si è incentrata sulla Passione, durata un solo giorno, sulla quale Matteo è molto scarno, e si è incentrata sul dolore di Cristo, inserendo anche le tre cadute non riportate dai Vangeli, e rallentando all’infinito il calvario come stampo di tutti i nostri dolori futuri. È naturale che sia così, visto che il dolore è ciò che così tanto ci assomiglia a lui e ci fa sentire della stessa pasta umana. Ma il cristianesimo dolente confina sempre paurosamente con la malinconia degli ipocriti, che spesso Cristo accusa con durezza. L’esibizione del dolore, se guardi bene, ha sempre uno scopo molto meno nobile di quello che speri, soffrendo, che abbia. Tu ti adagi come su un letto immobile e ti contempli mentre esso è pochissima cosa per gli altri, se non addirittura un difetto. L’autocreazione è impossibile Di una cosa siamo certi: che l’autocreazione è impossibile. Come potrebbe infatti ciò che non esiste crearsi dal nulla, se non c’è. Un nulla assoluto ed eterno è a suo modo rassicurante, come un profondo letargo. Confessiamo che per la nostra ragione, desiderosa di coerenza, un nulla così sarebbe il massimo. Non avremmo nulla da chiedere e buonanotte. Ma un nulla del genere non è mai esistito e mai esisterà, visto che il mondo c’è e ci sarà stato. Restano soltanto due possibilità: o una materia eterna o un Dio creatore. Un nucleo di energia concentratissimo scoppia una quindicina di miliardi di anni fa e genera lo spazio insieme a tutte le belle cose che vediamo. Prima non c’era il tempo e quindi è vano chiedersi cosa ci fosse prima. Sì, ma da dove è nato questo nucleo? La scienza non risponde e qualcuno vorrebbe che non ci ponessimo nemmeno la domanda, neanche in termini puramente fisici. Mi sembra troppo. 263 La materia è tenuta insieme non solo dalla sua struttura atomica ma anche dalla sua sostanza logica. Una sostanza che non è astratta, visto che il mondo c’è, e sta in piedi. Per quanto mirabolanti le possibilità che si aprono, non si potrà mai andare contro i principi fondamentali della logica. Da solo infatti il nucleo di energia non può essersi creato, perché l’autocreazione è impossibile, e allora, se non vogliamo pensare a un Dio creatore, dobbiamo per forza ammettere che, se prima non c’erano né il tempo né lo spazio, generatisi col Big Bang, e non c’era neanche il prima, tuttavia il nucleo di energia deve essere per forza derivato da qualcos’altro. Ora, il divenire può essere soltanto nel tempo, un divenire fuori del tempo è una mostruosità. E, per quanto piccolo, il nucleo primordiale, che è differenziato, deve avere un interno spazio, sia pure inteso in senso energetico. Dovremo distinguere allora due tipi diversi di spazio e di tempo, uno interno e l’altro esterno? Uno esclusivo del nucleo, l’altro esclusivo dell’universo, dal Big Bang in poi. Molto probabilmente tra cinquant’anni il problema sarà ozioso perché si scoprirà che non quello è stato l’inizio del nostro universo ma che ce n’e stato prima un altro e un altro ancora. Ma intanto il mistero resta, e non è per niente piacevole, benché eccitante, giacché all’origine di tutto, allo stato delle cose, c’è una contraddizione logica reale. Si potrebbe dire che la logica incontrovertibile con la quale diciamo impossibile il nulla assoluto o l’autocreazione, sia la nostra logica, e che la logica sia la rete di cristallo in cui si regge l’universo ma che un colpo divino possa mandarla in mille pezzi con tale precisione e delicatezza da lasciare intatto l’universo, facendolo continuare a stare in piedi mentre Dio gli tesse intorno un’altra logica, come un malato al quale sostituiscono il cuore mentre continua a vivere. Un astronomo tuttavia potrà studiare il cielo tutta la vita, riempiendola nel modo più ricco. Ciò che possiamo sapere è allora commisurato alle conoscenze che siamo in grado di mangiare giorno per giorno. Tante verità come tanti cibi, quelli che ci bastano per arrivare al giorno dopo, dentro un paradigma dietetico coerente. 264 Una materia eterna, che è esistita da sempre e per sempre dà la sensazione di uno che arrivi al traguardo prima di essere partito. Anche un Dio che esiste da sempre e per sempre, sempre perfetto e identico, dà la sensazione che tutto sia sparato al massimo eternamente in modo troppo glorioso e strepitoso per i nostri piccoli cervelli, abituati a nascite e crescite lentissime e a un decadere altrettanto lento. Il perfetto che esiste da sempre, il massimo del massimo del massimo già bello e fatto da sempre! Posso forse concepire Dio, ma non il sempre. E la vita cosciente, come è nata? Che sia possibile che essa nasca dalla materia, è evidente, perché noi pensiamo e di materia siamo fatti. Ma può la vita inventarsi da sola, se non è già vita? O la materia è essa stessa vita in ogni sua particola da sempre o è dura pensare che la molecola inerte, sorda e cieca, si metta un bel giorno in viaggio fino a produrre Michelangelo Buonarroti. Perché? La sua produzione di un minus habens, di uno stordito suonerebbe più verosimile? Proprio no. Forse il tempo è un anello che noi crediamo di percorrere in avanti, condizionati dalla nostra parabola corporale. Invece il tempo va al contrario e il Big Bang è la fine del mondo. Noi stanno rinculando, credendo di progredire, verso tempi sempre più arcaici e arretrati, giacché la tecnologia è l’antefatto della vita. Stiamo allontanandoci sempre più dalla fine del mondo, che è già accaduta, stiamo riavvolgendo il nastro verso l’origine. La creazione e la fine del mondo sarebbero la stessa cosa da due punti di vista diversi. L’intuizione cristiana è che spiritualmente andiamo verso l’inizio. Non sarà anche un’intuizione cosmologica? I nostri cervelli sono veramente troppo piccoli anche per goderci la sensazione di sublime che deriva dalla sproporzione tra l’infinita materia e il nostro corpicino, con la rivalsa però che siamo noi e soltanto noi che pensiamo il tutto. Kant viveva ancora in un mondo chiuso, benché copernicano. 265 9 febbraio Dopo la Shoah Dicono molti che dopo la Shoah non si possa più dire che Dio è buono. “Non mi dire buono,” dice Cristo, “soltanto Dio è buono”. E non potendo dire che è buono si debba dire che non esiste. Ripiegare col dire che è assente equivale a dire che non è buono. La cosiddetta teologia negativa nasce da una superba vibrazione del dolore che non vuole andare incontro alle sue responsabilità. L’ateismo è la scusa suprema del disamore. Dicano allora che è cattivo, e buonanotte. Te lo immagini un padre che non ti cerca mai per decenni e quando chiedi a tua madre perché è così cattivo, lei ti risponde: “Non è cattivo, è assente.” Brutto dichiararsi atei come un altro si dichiara orfano, anche se non sa se il padre è veramente morto. Degno di rispetto invece professarsi atei nel modo in cui lo fa Primo Levi, cioè per esperienza diretta e sperimentale, nel non dolore, nella non vita. Ciò che hanno fatto i nazisti è conseguenza, e non causa, della morte di Dio nei loro cuori. Concludere invece che Dio non c’è perché loro hanno sterminato sei milioni di uomini ebrei, vuol dire dare ai nazisti il potere di uccidere Dio, il che mi sembra un atto di servilismo nascosto. Il problema teologico è il seguente: concordiamo che Dio debba lasciarci liberi ma ci domandiamo “Fino a che punto?”. Deve esserci una soglia in cui Dio interviene nella storia per dire “Adesso basta!”? Nell’Antico Testamento succedeva così, ed era molto ragionevole. Se guardiamo bene era un Dio molto umano, molto preso dalle nostre vicende, che non ammetteva tutto, e interveniva di continuo. In apparenza più amabile e moderno il Dio che ci dà libertà 266 completa, finché non ci accorgiamo di cosa voglia dire lasciare senza museruola la belva umana. O la vita o il male Ci sono situazioni in cui devi essere pronto a morire nel corpo per vivere nell’anima. Dobbiamo sperare di non trovarci mai in una distretta in cui non c’è scelta. Quando cioè il male consiste nell’anteporre la nostra vita al bene. Come dire, speriamo di non trovarci mai in guerra, un regime in cui puoi sopravvivere soltanto facendo il male. Quando conosci chi ha compiuto un atto terribile, per esempio un omicidio, ti stupisci di trovarlo nella sua più stordita quotidianità, con le stesse fisime, gesti confidenziali, bonaria banalità degli innocenti. Come orsi che hanno sventrato un alce e giocano con i cuccioli. Gli assassini continuano a considerarsi innocenti per il semplice fatto di esistere. Quando si accorgono di essere restati gli stessi di prima del loro omicidio, esso assomiglia sempre più a una fatalità naturale. Il giudice Antonino Caponnetto raccontò in un suo scritto il pentimento di un mafioso, che aveva ucciso decine di persone, compresi bambini sciolti nell’acido, il quale cominciò a battere la testa contro il muro davanti al giudice Falcone. E si sarebbe ammazzato se non l’avessero fermato. Ma si tratta di casi straordinari. I più chiamano rimorso la loro sofferenza per essere chiusi tra quattro muri. Il rimorso, è vero, lo provano ma nei confronti di se stessi. La morbosità con la quale un popolo inquinato segue la cronaca nera è giunta oggi al diapason. Mostruose forze nella coscienza tifano per gli assassini, come coloro che hanno portato all’estremo l’iniziativa umana e ne contemplano le conseguenze con apatia feroce, nascosti dietro lo schermo del televisore 267 La mancanza di pudore colpisce oggi davanti alla ragazza in coma da diciassette anni, che hanno smesso di tenere in vita. Tutti hanno qualcosa da dire in pubblico. Non capiscono che già esprimendo un qualunque parere dimostrano di essere infetti. Figuriamoci esaltando in Parlamento il loro amore per la vita sacra con gesti e urla bestiali e barbari. Perché il male affascina? Perché il bene è noioso? Dovrebbe essere il contrario, quando la gente è sana. La vittima ci sembra colpita da una maledizione fatale. Per questo non ci interessiamo a lei, non ne ricostruiamo la vita, le amicizia, le passioni? Fare questo ci sembra morboso mentre non si sente tale la curiosità sfrenata su ogni gesto e pensiero dell’assassino, che invece non solo non dovrebbe suscitare alcun interesse, almeno finché non comincia a scontare la sua pena, ma dovrebbe suscitare egli nelle anime sane un sentimento di pudore, di fronte a qualcuno che vive al di là di una linea di fuoco, e, qualunque cosa dica o faccia, non potrà mai tornare indietro. 10 febbraio Selva morale Una delle abilità più sfrenate è quella di far passare le virtù degli altri per vizi e i vizi propri per virtù. Troverai infatti che se qualcuno non mantiene una promessa nei tuoi confronti, ti sarà impossibile farglielo notare, sia perché chi fa rimarcare a un altro una mancanza verrà associato a una sensazione sgradevole, che appannerà il senso di giustizia di colui che l’ha commessa, sia perché diventerai subito responsabile nei suoi confronti di un vizio simmetrico e opposto rispetto a quello di cui accusi l’altro. In questo caso passerai per malfidato e sarà proprio questa tua mancanza offensiva di fiducia a essere considerata la causa dell’inadempimento della promessa. È questa la ragione sostanziale della moltitudine di leggi che c’è in Italia, giacché nell’impossibilità di una presa di coscienza dei propri difetti e delle proprie inadempienze, gli altri sono costretti a ricorrere 268 alla magistratura, che ha stabilito una rete di regole minuziose, per tener conto degli innumerevoli cavilli ai quali la persona che ha torto è sempre disposta ad appigliarsi pur di convincersi di aver ragione. A tal punto nessuno si fida di un qualunque giudice in qualunque campo che se un recensore letterario sarà il titolare di una rubrica di stroncature dovrà continuare a stroncare per sempre, perché tutti l’attenderanno al primo varco di lode che si sentirà di tributare a qualcuno. E si noterà che nove volte su dieci, forse per un bisogno di autopunizione o per una febbre dell’originalità a tutti i costi, andrà a esaltare un mediocre, che ne riceverà un danno, perché tutte le sue debolezze saranno moltiplicate per cento dal confronto con coloro che sono stati stroncati, in questo o in quello superiori a lui. Se dieci persone ti chiedono di parlare o di scrivere di loro e a nove dirai di no, ti farai nove nemici e nessun amico. Perché la persona alla quale esprimerai la tua stima riterrà il tuo gesto dovuto al suo valore e non al tuo favore. L’Italia vicina alla natura Che l’Italia sia lo stato europeo più vicino alla natura si vede anche da questi due fattori. Come la natura si nutre di letame per rendere fertile la terra, trasforma l’anidride carbonica in ossigeno, ricicla i nostri corpi se non li sottraiamo nei cimiteri al suo perpetuo processo di distruzione e generazione, così la società italiana si nutre di mafia e camorra, di corruzione politica, imbroglio, slealtà e menzogna, come di ogni altro male, per consentire alla società dei potenti, dei ricchi, degli animali vincenti e dei loro parassiti, servi e dipendenti, di prosperare e rigogliare. Il secondo fattore è il talento gastronomico nazionale, che vale non soltanto in cucina ma nel rimpasto che ogni giorno avviene nell’immenso calderone in cui tragedia e commedia, sangue e latte, sperma e feci vengono miscelati con il tuorlo e l’albume, con la farina di grano e quantità industriali di zucchero e di sale, preparando una pozione magica con la quale veniamo nutriti e 269 drogati, temprando uno stomaco nazionale che oramai è di ferro, e può trangugiare e digerire migliaia di omicidi, incidenti, drammi estremi tra battute di comici, abbuffate di truffe, pubblicità e scherzi pesanti e banali. Il tutto senza fare una piega. La natura però volge il cibo e il letame all’armonia e alla bellezza, e lenta trasforma tutto per un piano, che forse non ha un fine, ma almeno sapientemente costruisce una società animale mondiale, destinata a sopravvivere. Mentre nell’Italia di oggi, almeno in quella pubblica e potente, non c’è traccia né di armonia né di bellezza. Quello che Vico ha scritto, che possiamo conoscere la storia perché l’abbiamo fatta noi mentre non possiamo conoscere la natura per la ragione opposta, ha una sua profonda veridicità. A noi piacerebbe trovare il nostro mondo umano infinito e misterioso, pieno di un mare inconscio di motivazioni sconosciute e ramificato vertiginosamente ma alla fine, se siamo onesti, possiamo sempre arrivare a una sintesi delle cause dei comportamenti umani nella storia e nella società. Mentre la natura ci fa conoscere quasi alla perfezione la sua pelle e soltanto per una porzione minuscola, benché basti per colmare la sete di conoscenza di cento vite. Buona morte e vita cattiva In occasione della morte di Eluana, una ragazza in coma da diciassette anni, che hanno smesso di nutrire e dissetare, è scoppiata una rissa nel parlamento italiano, nella quale dalla destra gridavano assassini alla sinistra e dalla sinistra ipocriti alla destra. Sono scesi alle mani, coi volti deformi, urlando insulti e scatenando tutto il loro amore per la sacralità della vita con versi bestiali e gesti barbari. Un brivido gelato è sceso lungo la schiena di noi che abbiamo votato uomini che, gettando la loro maschera pacata di intervistati, sono comparsi nella loro matta bestialità. In tanti si sono sdegnati per la sarabanda ma sono le stesse persone che inconsciamente li stimano per la brutale irruenza delle loro emozioni e che torneranno anche per questo a votarli. 270 L’Italia terrorizzata dalla morte, perché morta dentro: il caso di Eluana. Gli italiani necrofori che fanno gli spacconi e dicono di staccare la spina, oppure fingono di trepidare per una ragazza che non hanno mai visto e conosciuto, quando i genitori hanno contato milioni di minuti nel dolore. I difensori della vita sacra, della biologia pagana e i pezzi di ghiaccio che parlano di libertà della morte come diritto legale. Lo stato guardone e padrone delle creature e i solitari anarchici, che vogliono essere padroni della morte più che della vita. Gli atei credenti, che vorrebbero prolungare questa vita ancora di un altro minuto, anche senza coscienza, anche senza volontà, perché non credono nel regno di Dio. Un padre che beve il calice fino alla feccia, con dignità e fermezza. Una madre riservata, un tempo anche lei in fiore. E una ragazza sola, nel suo mondo labirintico da diciassette anni, che non emette suono quando tagli lo stelo. Esperienze che non puoi legiferare. Uno dei casi in cui, se resti in silenzio, il pensiero assomiglia a una preghiera. 12 febbraio I geni tra noi Tra me e Dante c’è un abisso, tra me e Dio ci sono centomila abissi, tra Dante e Dio sempre centomila abissi. Nel dire che Dio, il genio dei geni, ci ama, c’è un vertiginoso controsenso. I geni tra gli uomini fanno molta fatica ad amare gli altri. C’è un modo per svilire i geni presenti tra noi, sottolineando la distanza abissale che ci rende tutti minimi di fronte a Dio. C’è un modo opposto di idolatrare alcuni individui disgustosi tra noi, sostituendoli a Dio e creandosi degli idoli che prima o poi si rivelano ridicoli. Pio XI accusò Mussolini di essere diventato un idolo così tracotante da sostituirsi a Dio, e gli ha ricordato come sempre gli idoli sono finiti nella storia. Mussolini ha risposto con una campagna anticlericale furiosa, ammonendolo che, se avesse voluto, avrebbe trasformato gli italiani in una massa di anticlericali. E io ci credo. 271 Un amico scrittore mi ha detto che se gli offrissero la scelta tra il premio Nobel e che suo figlio non si ammalasse, sceglierebbe la salute del figlio. Che è un buon ragionare. Ma la sorte è obliqua: non glielo danno e il figlio si ammala. Glielo danno e il figlio sta benissimo. Napoleone Non ho mai capito l’ode Il Cinque Maggio di Manzoni, con la sua visione di Napoleone voluto da Dio per incidere la storia con la sua impronta gigantesca, anche se è di gran lunga la sua poesia più profonda. Anzi, l’ho capito troppo. Per fortuna non è venuto fuori un poeta cattolico a scrivere che Dio ha lasciato più larga orma di sé in Mussolini. Ma se si fosse pentito in punto di morte e convertito? Napoleone ha cannoneggiato la folla a Parigi, ha sterminato la popolazione di Lugo, compresi i bambini, ha incendiato, saccheggiato, sterminato, ogni volta che gli è sembrato necessario o semplicemente utile, ha fatto fucilare quattromila turchi perché lo infastidiva doverli nutrire. Preferiva condannare a morte cento innocenti che far scampare alla forca un colpevole. Ed era adorato da tutti coloro che non ne erano terrorizzati, e anzi anche da quelli, perché una forte paura si trasforma facilmente in una forte ammirazione, se ve ne sono le ragioni. E nel catechismo francese, dopo il Concordato con Pio VII, cosa leggiamo? Che Dio ha impresso in lui la sua immagine e che chi si ribella a lui si ribella a Dio. E vescovi e arcivescovi francesi cosa insegnavano? Che lo Spirito Santo si era provvisoriamente incarnato in lui. Napoleone ha subito un attentato il 3 nevoso del 1800 ed è sfuggito a un secondo, ordito dall’Inghilterra. Anche Hitler e Mussolini sono sfuggiti a numerosi attentati. Questi dittatori, benché l’ultimo molto meno crudele degli altri, hanno goduto di una incolumità che se uno 272 credesse a piani segreti dello spirito del mondo, a piedi o a cavallo, insomma alla Lust der Vernunft, all’astuzia della Ragione di cui parla Hegel, farebbe pensare a una speciale protezione ultraterrena. Demoniaco è il crederci, e appunto demoniaci erano vescovi e cardinali. Il diavolo è sempre in chi primo lo inventa. Napoleone che sterminò crudelmente prigionieri inermi in Egitto, protesse l’Islam nel modo più risoluto e categorico. Bush invece ha scatenato una guerra santa contro l’Islam nel XXI secolo. Se davvero gli stavano a cuore gli interessi economici degli Stati Uniti avrebbe dovuto invece, more napoleonico, occupare l’Iraq in nome di quelli e al contempo farsi paladino del diritto dell’Islam all’assoluto rispetto della sua religione, contro il processo laico e modernizzante imposto da Sadam Hussein per i propri interessi. Ma la retorica della democrazia glielo impediva, col risultato che facendo guerre in nome dei valori propri e cosiddetti occidentali, si offendono mortalmente quelli degli altri e si coagula un’opposizione che prima era sparsa e litigiosa al suo interno. Senza mai scacciare il sospetto che in realtà si fa guerra soltanto per questioni di potere e di interessi economici esclusivi, che pure con la democrazia fanno a pugni, ma almeno sarebbero stati comprensibili a tutti, non suscitando lo stesso odio mortale. Niente è peggiore che far violenza, sterminare, massacrare in nome di nobili ideali e di valori democratici condivisi. Si accetta molto di più il bruto strapotere di chi vuole soltanto il dominio, che non l’ipocrita e crudele sottigliezza di chi ti vuole anche catechizzare, convertire, educare, far diventare democratico a modo suo e con le sue armi. Leopardi parla di Napoleone soltanto in quattro luoghi dello Zibaldone, approvando il modo in cui sconfisse il brigantaggio, popolando le terre infestate, mentre Pio VII, davvero pio, fece distruggere Sonnino. Egli scrive che è il migliore comandante ma pensa che due secoli dopo il suo nome sarebbe stato oscurato da quello di Achille. Il che 273 non è accaduto, ma di certo Achille non è stato messo in ombra e ci muove e commuove molto più di lui, con tutta la sua scienza militare e sterminatoria. Si è sempre preso in giro il padre Monaldo che, come racconta nella sua Autobiografia, quando Napoleone passò a Recanati, si chiuse nel circolo dei nobili e gli volse le spalle. Non aveva capito il corso trionfante della storia, da reazionario incartapecorito, o aveva capito il corso delirante della violenza, da cattolico sensibile e sobrio? Che Verlaine fosse un uomo con il quale era difficile fare un discorso serio lo temevamo in molti ma, nel leggere Les mémoires d’un veuf, la sua prosa diventa un’acrobazia musicale tra umori femminei (femminei in un uomo) e governabili solo per via artistica, che lo portano a scrivere un pezzo sconcertante, L’autre un peu, dedicato a Napoleone come homme privé, che si conclude con un invito a provare pietà per lui, anche lui veuf, vedovo, come l’autore. Che vedovo non era affatto perché anzi nello stesso anno di uscita del suo libro, il 1886, sua moglie Mathilde, viva e vegeta, offesa in tanti modi, si risposava. Quelle delicatesse… Tanto è forte il bisogno di provare pietà per il più potente da intenerirsi per la sua vita privata, la sua solitudine, addirittura la sua sincera fede cattolica, attestata dal Memoriale di Sant’Elena, che credeva di sua mano. La Vie de Napoléon di Stendhal, scritta a Milano nel 1817-18 è un gran bel libro. Un succedersi di intuizioni che si sciolgono con tale naturalezza e mancanza di prosopopea e con un tale ardimentoso realismo, se non cinismo, in una prosa in cui la lingua è sorella gemella del pensiero, al punto che non puoi distinguere l’uno dall’altra. E veramente non vorresti dirne niente: godere quasi come pensa e scrive, sapendo di non poterlo imparare. E capire la storia da lui, e cioè che essa fluttua inafferrabile come un perenne campo di battaglia, finché un Napoleone non la impugna e la fa convergere in sé. Trovato il sole, tutti i pianeti possono orbitargli intorno o cozzargli contro. Non possono più esistere altri 274 sistemi solari, mondi paralleli. La storia si semplifica, consentendo una trama romanzesca, che in Stendhal è semmai una vela sempre leggera, gonfia o svolazzante, tesa verso un’impresa alla quale tutti concorrono, finché dura. Stendhal è più libero di me, perché considera la storia come teatro tragico e amorale, benché egli sia ferreamente morale e fortemente gaio e amante della vita, nel quale anche il popolo è un personaggio, come lo sono le centinaia di migliaia di morti. Essere cristiano sarebbe allora come essere sentimentale, se si pensa alle vittime, se ci si immedesima nei morti, se si guarda la storia con i loro occhi vitrei e per niente artistici? Vorrebbe dire essere infantili, ingenui, moralisti, non voler capire la natura umana e la storia? Stendhal disprezzava l’aristocrazia reazionaria, le monarchie assolute ereditarie e il cattolicesimo ipocrita dei potenti. Confrontando Napoleone ad essi, egli lo trova un genio moderno e progressivo. E aveva pienamente ragione. Ma un genio che uccide e fa uccidere, che fonda la sua gloria e potenza sulla guerra, come lo chiami? Pensando alle stragi napoleoniche dobbiamo sempre pensare alle stragi dell’assolutismo, alleato delle gerarchie religiose. Assolutismo che, quando Stendhal scrive, si richiude come una tomba sull’Europa, anche grazie a Napoleone. Eppure io non riesco ad ammirare un comandante di eserciti, sia pure uno dei due o tre più geniali della storia. La cosa non mi esalta, non mi scalda. Anzi, mi farebbe sentire servo. Se fossi vissuto ai tempi di Napoleone e avessi contato qualcosa mi avrebbe fatto uccidere, né più né meno come la chiesa medioevale. Nessuno ha mai parlato veramente di Cristo a Napoleone. Nessuno ha avuto il coraggio, ha osato? Napoleone è stato il più potente, un mortale come me, benché io non abbia alcun potere. Non ha alcuna influenza il fatto che lui sia morto e io sia vivo. Lui, nella condizione del più potente e io del 275 meno, abbiamo da rendere conto, nel contesto, a Uno che è fuori del contesto, il che vuol dire che in qualunque contesto devi essere giudicato in base a leggi valide in tutti i contesti. Erano tutti monarchi assoluti, violenti, cinici e ottusi. Rispetto a loro Napoleone è per Stendhal il genio moderno, come è vero. Stendhal, nel suo La vie de Napoléon, scrive invece un libro al solito meraviglioso, giudicandolo. Come fa sempre lui, dentro il contesto. Stendhal il genio del contesto. 13 febbraio Tutti artisti per Freud Freud ci ha illuso di avere un inconscio poderoso, un mondo sconfinato, un oceano pieno di flora e di fauna misteriosa dentro di noi. In questo modo ha offerto ai più sensibili una compensazione libidica senza pari. Ha detto a chi più soffre: Voi non lo sapete ma siete tutti artisti geniali come me. Efficacia del senso Quando facciamo qualcosa che ha senso e che ci piace viene spontaneo pensare che una potenza benigna soffia sulla nostra vela e, calmi e fiduciosi, le diciamo: Decidi tu se posso portare l’impresa a termine. Quando facciamo qualcosa che non ha senso e non ci piace, allora temiamo di morire e che la nostra opera sia spezzata, perché in realtà non era mai nata. Quando stiamo male e non quando stiamo bene abbiamo paura di morire. Se non arriviamo nel mare ghiacciato dell’indifferenza. 14 febbraio Braci 276 Sto su una zattera in mezzo al mare e cammino sul lungomare di Pesaro con mia moglie. Il mio consueto sdoppiamento. Soffro e sono sereno. Hai mai provato questa condizione? Stai con tutto te stesso dentro le cose e ti guardi con fermezza dall’esterno, come se la tua vita fosse un’altra. Ma quale? L’importante è che con gli anni questo io secondo non si slabbri, perché è lui che ti impedisce di franare. Non avrei mai capito fino a qualche anno fa qualcuno che mi dicesse che per una saturazione di esperienza la fine della tua vita potesse non essere drammatica. Vedersi dall’esterno, vedersi come postumi, vedere il mondo senza di te e non tremare, semmai con una ferma desolazione, quasi con sollievo. Gentilezza della morte, chiama Leopardi, che ha bruciato le tappe, questa condizione. Nel Vangelo di Matteo e in quello di Luca c’è la sorprendente espressione “gustare la morte”. Ciò che ti tiene stretto al timone è il pensiero dei tuoi figli, di tua moglie, dei tuoi familiari, delle persone care, l’amore dei quali vale molto più della tua vita. Ciò che ti fa resistere è invece che hai letto i greci e i latini da ragazzo. Avrei voluto avere il coraggio di Walter Bonatti, di Ambrogio Fogar, di Rudolf Messner. Il genio impersonale di Enrico Fermi e quello personale di Albert Einstein. Restando esattamente me stesso. Avrei voluto essere San Francesco. Di Kafka avrei voluto essere amico. I personaggi di Kafka vivono tutti con la loro anima morta al fianco. Nei racconti di Kafka, Franz si trova sempre dentro la scena, in carne ed ossa, invisibile, e tutti si comportano come se lo vedessero. Cavalli e scarafaggi Gulliver compie il suo quattro viaggio nel paese degli Houyhnhnm e scopre che si tratta di una società di cavalli pieni di sussiego verso gli umani, considerati animali inferiori. Forse che il potere sociale della 277 specie basta a decidere qual è il più razionale e civile tra gli animali? Allevati dagli animali della foresta, come pare che a qualcuno sia accaduto, avremmo la convinzione che gli esseri civili sono loro e noi degli animali selvatici da educare? Gregor Samsa si sveglia una mattina, nella sua camera da a letto, a casa sua, e si accorge d’essere diventato uno scarafaggio. Nella Metamorfosi di Kafka la società degli umani osserva lo scarafaggio con compatimento, come i cavalli guardavano Gulliver. Il quale lascia la sua casa tranquilla per quattro viaggi in mondi fantastici che rendono relativo il suo, mentre Gregor si sveglia scarafaggio nella sua camera. E non avrà più un luogo in cui tornare, neanche il suo corpo. Ha perso tutto per sempre, mentre Gulliver, benché turbato per la prima volta, tornerà in quella casa inglese in cui si troverà spaesato. Per Gregor invece non si tratta più soltanto di scoprire la prospettiva di uno sguardo straniero, ma di cacciarsi in una condizione irreversibile. E non è un’avventura sconcertante quella che si conclude con la morte. In bilico Dio, o chi per lui, mi ha reso così intelligente da capire chi non sono e così stupido da non capire chi sono. Dio, o chi per lui, mi ha reso così stupido da non capire chi non sono e così intelligente da capire chi sono: uno stupido. Dio ha lasciato la sua immensa opera con l’ultima pagina bianca e ci chiede di completarla. Così scoprirà chi siamo. “Dio non ti fa soffrire mai oltre quello che puoi sopportare”. E mai meno? Non regala niente? “Ha una soglia del dolore molto alta,” mi ha detto la dentista, curandomi un dente senza anestesia. “È un bene, no?” ho chiesto. Lei è rimasta perplessa. Così lungo l’inamore, così breve l’amore, del cristiano. 278 Voluttà dell’impossibile, amore immaturo, unico amore? 15 febbraio I miei pensieri sono in sogno. Se non li scrivo o li fisso finché sono vivi, in pochissimi minuti, muoiono. Sembrano morire. In realtà conservano la facoltà di rinascere. Ma chissà se e quando. Etimologie sapienziali Oggi c’è un investimento ermeneutico straordinario nei confronti della filosofia e della poesia, soprattutto tedesca, complicato da una spremitura delle parole, nel sentimento filologicamente mistico di poterne estrarre succhi etimologici rivelatori. Ma come un ragazzo non è più un bambino così una parola adulta non assorbe in sé tutti i significati del suo sviluppo storico nei secoli o nei millenni, e molto se ne perde del tutto e seccamente. Questa arrampicatura a ritroso lungo i rami di una parola, in tenaci analisi linguistiche, caricano il verso o il concetto di una pregnanza polimorfa che ne accresce in modo esorbitante il senso e ne moltiplica la ricchezza, il più delle volte involontaria, come se il poeta come una spugna si intridesse di tutta la storia delle parole che usa, senza volerlo né saperlo. Ci sono interpreti così raffinati e acuti che le loro indagini sono spesso più interessanti dei versi esaminati e costituiscono una nuova fronda fastosa e pregna di valore che inombra e addirittura surclassa il ramo del testo che viene studiato. Questo esercizio avviene anche in filosofia, soprattutto con Heidegger, che non è stato il primo ma il più tenace a incoraggiarlo, lavorando lui stesso con geniale follia concettuale sul potere evocativo sprigionato dal termine più semplice e pretendendo che nella parola viaggiasse, come in ovulo fecondato e surgelato, una verità altrimenti inattingibile e comunque essa stessa produttiva di concetti. 279 Vi sono pensatori che ti richiamano all’etimologia di una parola come se in essa fosse contenuta la sua verità prima e perenne. Criticano per esempio che “religione” sia da intendersi come legame tra gli uomini perché la etimologia di religio porta in altra direzione o dicono che “persona” all’origine significava maschera teatrale, personaggio, e quindi ne concludono che non può designare ciò che di intimo e proprio vive in noi. Ma le parole nascono, vagiscono e crescono, finché maturano e decadano e in ogni stagione della loro vita cambiano volto secondo l’uso che ne facciamo, non hanno una natura originaria conferita dall’onomaturgo e poi più o meno nascosta e deformata da dissotterrare e rilucidare. Le etimologie sapienziali servono a scrivere pagine suggestive e a far perdere la cognizione delle cose. Esse partono dalla idea che esista una storia della lingua dotata di una sua intelligenza autonoma dagli uomini stessi, intelligenza che svela e nasconde, rivela e tiene in letargo un significato per secoli finché lo dischiude per conto suo. Se aletheia deriva da lanthano, ciò non significa che la verità sia nella sua essenza dis-velamento, dis-occultamento, e quindi riposi nel gesto soggettivo di chi scopre qualcosa. E neanche significa, questo è il bello, che alle sue origini venisse intesa così. Il significante etimologico delle parole invece non può arrivare neanche nel tempo in cui la parola è stata coniata al suo senso pubblico, custodendo nell’etimo un significato congeniale, consimile e parallelo fin dalla nascita. Persona come maschera, ad esempio, può voler dire che ogni personaggio ha una sua maschera, non intesa come guscio impersonale ma, al contrario, perché ha quella personalità, quella identità, quel carattere. E aletheia vuol dire verità nel senso che è alla luce, nell’evidenza, di per sé, giacché il falso puoi nasconderlo ma la verità mai, proprio perché appartenente, nel suo fulgore evidente, al mondo, noi compresi. 280 L’ipocrisia L’ipocrisia non consiste soltanto nel simulare un affetto che non si prova, nell’assecondare coloro che ostacoleremo in ogni modo, nel compiacere coloro che colpiremo di nascosto, nel mostrarsi benevoli verso coloro che siamo pronti a deridere, non appena volteranno le spalle, ma anche e soprattutto nel pretendere che gli uomini che così trattiamo, non soltanto non se ne abbiano a male ma ci siano addirittura riconoscenti per le professioni false e le parole menzognere che ascoltano da noi e che dovrebbero anche fingere di considerare veritiere, pena la nostra accusa di malizia. L’intermittenza cronica e la volubilità perenne dei comportamenti e delle azioni fanno sì che per un periodo dimostriamo il più vivo interesse per la stessa persona che ci diventa del tutto indifferente nel tempo successivo, verso la quale, passati anni, o soltanto mesi, torniamo a provare attrattiva e desiderio di corrispondere. L’oggetto di tanto variegato trattamento, volubile come noi, ma senza accorgersene, come noi non ci accorgiamo, presi da altri incontri, di esserlo altrettanto, giudicherà falso il nostro rinnovato interesse e troverà la nostra amabilità e partecipazione alle sue cose come un’ipocrisia, avendo avuto a saggiare la nostra indifferenza. Mentre tutti veri sono stati sia l’interesse sia l’indifferenza. Chi frequenta molti uomini finisce però per stabilire come norma naturale questa continua sauna alla quale sottopone i suoi conoscenti, e persino gli amici, immergendoli ora in vasche d’acqua calda ora in vasche gelate e, seguendo il ritmo della volubilità universale, giudica ingenuo o permaloso chi non sia disposto ad accettare il procedimento. E questi parrà a tutti degno di solitudine e di misconoscenza, e meritevole di restare in permanenza, non sopportando gli sbalzi di temperatura, in acqua fredda. Aggiungi che arrivando a un grado di sorte giudicato gratificante, a un traguardo stabile di considerazione, a un conveniente tasso di fama e di rispetto, il beniamino presunto degli dei sfoggerà verso tutti una clemenza benigna, un distacco sereno, una padronanza della fortuna, ormai al sicuro nel proprio carniere, che lo indurrà ad essere amabile con tutti, a lodare e riconoscere valori anche minimi, 281 a contemplare con sufficienza tacita, sparsa su tutte le cose umane, gli insuccessi altrui, rinunciando a selezionare e a distinguere, come deve fare chi si sente ancora a mezzo la scala, e si comporterà in modo da risultare a tutti il tipo del perfetto ipocrita, non accorgendosene egli. Vero è che, vivendo a lungo, se non gli amici, i conoscenti si moltiplicano mentre si diradano, proprio per la varietà dei candidati, i turni che a ciascuno di noi spettano nella considerazione degli altri. Embrioni di amicizie, rampolli di confidenza, getti di intimità crescono veementi per essere dimenticati nel giro di una settimana, sbocciano per essere congelati in breve spazio. E a nulla vale esagerare in professioni di stima e di affetto, che non proviamo intere, ma che sono veraci almeno in senso potenziale, come intuizioni di una possibile amicizia, come prefigurazioni di una solidarietà più profonda. Ma, non seguendo gli atti e i fatti, non curando insieme un campo comune, ecco che giudichiamo e veniamo giudicati incostanti, ipocriti, opportunisti, mentre le troppe relazioni, tutte promettenti per un verso o per l’altro, ci impediscono di coltivarne ciascuna come merita, finendo per diventare gli eclettici dell’amicizia, i velleitari dell’affetto, i millantatori della stima che pretendiamo di dare a troppi e di ricevere da troppi. Gli uomini insistono a restare se stessi Una delle scoperte più stupefacenti sulla natura umana e che si può compiere soltanto dopo aver vissuto parecchi decenni, se non si ha la sintesi preveggente e fulminante di Leopardi, è che gli uomini insistono a restare se stessi, non soltanto nelle loro passioni, interessi, monomanie intellettuali, ma anche nei tic, nei capricci, nelle finzioni, nei minimi gesti e comportamenti. Un principio di arteriosclerosi si innesta fin dalla gioventù nella natura di un uomo, se non ha il dono e la condanna di un esercizio spietato di autocritica, che soffre in prima persona e senza frutto. Così troverai che lo stesso studioso, anche se pieno di talento e di lucidità, pubblica dopo trent’anni un libro sostanzialmente identico al precedente. E che lo stesso amico, incontrandoti dopo trent’anni, 282 farà lo stesso commento sul governo, pur essendo di parte opposta a quella di un tempo, e la stessa battuta sul tuo carattere presunto che ti aveva fatto trent’anni prima. Politeismo italico Gli italiani credono tuttora negli dei dell’Olimpo: il dio del calcio, il dio della canzone, il dio del cinema, la dea della fortuna, il dio del potere, il dio del successo, il dio della bellezza, il dio del denaro, il dio dei vestiti, il dio dei motori, il dio dei telefoni, il dio delle televisioni, il dio della vacanza, il dio del corpo, il dio del divertimento. Solo che non ne sanno i nomi o li cambiano di continuo. Tra gli altri c’ anche il dio della religione. Che però non è Dio. L’intuizione Quando ti interroghi sull’origine del mondo, l’immaginazione è anche più potente del pensiero e anzi ne costituisce la condizione. Prova infatti a immaginare il nucleo sfolgorante di energia che gli ha dato inizio. Puoi pensare che lo spazio e il tempo, come dicono i fisici, siano nati con esso? Proprio no. Allora i fisici ti dicono che devi scavalcare la tua intuizione e la tua immaginazione e prendere atto che invece è proprio così. Ma la tua intuizione non è una qualità soggettiva, bensì è la realtà stessa dentro di noi, che si conosce per mezzo di essa. Quindi non puoi né devi scavalcarla. Essa ti porterà a chiedere: Da dove proviene questa energia? Se i fisici ti dicono: Non ha senso pensarci perché prima non c’era niente, dovrai ribattere che non si è potuta creare da sola e quindi doveva esistere da sempre. Ma il sempre è un concetto astratto, che non nasce dall’intuizione, la quale ti dice invece che quel nucleo doveva essere diverso e che un prima doveva esserci per forza come anche uno spazio, che precedesse quel nucleo. Dire che spazio e tempo sono intuizioni soggettive e forme organizzative è funzionale al bisogno di darci una sintesi ragionata 283 del mondo. E quindi è bene pensarlo se si vuole che vi sia scienza. Ma essi potrebbero essere cornici oggettive della realtà. Più importante della scienza è la realtà compresa dall’immaginazione. La quale ci dice che qualcosa che esiste per sempre e da sempre non soltanto non è spiegabile e comprensibile ma non può nemmeno esistere. Non perché ci costringe a un regresso all’infinito e a una derisoria rinuncia, come nel gioco del perché. Tante impotenze infatti sperimentiamo, e tante assurdità. Ma perché il sempre non è fondato nella realtà stessa, giacché abolisce la causa, che è una necessità fisica (nella realtà, se anche nella scienza può essere una convenzione). Quindi per forza deve esserci stato un salto da un altro universo fisico con altre leggi ignote o da una dimensione non fisica, di cui non sappiamo nulla ma della quale sappiamo che è altra ma giammai totalmente altra, giacché deve essere in ogni caso in grado di spiegare, di comprendere, di sussumere in sé (come le teorie di Einstein abbracciano quelle di Newton) la realtà di questo universo, che non può essere abolita da una verità metafisica altra, bensì comunque ricompresa come sottospecie o sottocaso in essa. L’eterno non può più esistere, visto che ormai c’è il tempo. Il carattere effimero del mondo ha un effetto retroattivo. Bisognava pensarci prima. Esperimento per strada L’universo è così ampio che ci si domanda se un Dio da solo possa governarlo tutto. Non è più verosimile che vi siano degli dei locali, legati alla terra e altri miliardi di dei legati ad altri miliardi di terre? Magari un dio supremo che li guidi e organizzi tutti. Per noi piccoli uomini è già moltissimo un dio locale , un viceré terrestre, delegato del Dio supremo. Mentre immagino galassie che fondono ed esplodono a miliardi di anni luce, una badante rumena guida la carrozzella con un’anziana donna, con i sacchi della spessa appesa al manubrio della sedia. E forse non hanno mai pensato in tutta la loro vita a questa vertigine, che pure è la evidenza realissima dentro cui viviamo, anche se non la vediamo. Stanno andando a messa e io 284 sono più simile a loro che a ogni altro essere che possa trovarsi in una qualunque galassia, qualunque cosa abbiamo nella testa. La differenza tra noi si assottiglia fino quasi a sparire e io provo sollievo nell’incontrarle e parlare con una di loro di qualunque cosa sarebbe per me un conforto mille volte maggiore che continuare a pensare all’universo. Attacco discorso Così attacco discorso, con la donna giovane che non pensa che io la voglia abbordare, ma mi tratta con prudenza materna. “Fa bene un po’ di sole. Anche se fa freddo.” “In Moldovia meno venti,” dice con orgoglio. La vecchia non parla e sta stranamente intenta, col profilo aguzzo e bianco, sotto la coperta di lana. “Si è fissata,” fa la donna. “Con che cosa?” “Con l’origine dell’universo. È tutto il giorno che ci pensa. Era una scienziata al Cern.” La vecchia, senza neanche voltarsi, si mette a parlare, con una voce asciutta e acuta: “Ho poco tempo per risolvere il problema. Sembra insolubile perché è stato posto male.” “Era candidata al Nobel ma siccome è una donna...” “La soluzione forse sta proprio in quello che è impossibile. Il nucleo d’energia è Dio e si è creato da solo. Oppure in realtà il Big Bang è la fine e noi lo crediamo l’inizio.” La badante rumena mi fa cenno che ormai non ci sta più con la testa. La vecchia non accenna a guardarmi, e la giovane badante continua a spingerla, così ci troviamo vicino alla chiesa di Madonna di Loreto. “I problemi in realtà sono due,” continua la vecchia, “uno è l’inizio e l’altro è il sempre. Un inizio infatti non può esserci, è un assurdo. E neanche un sempre può esserci, è un altro assurdo. Niente può esistere da sempre e niente può cominciare dal nulla. È un vero rompicapo e io ho pochi mesi di vita.” 285 Mi accorsi di essere ormai di fianco alla chiesa e mentre la badante la spingeva lungo lo scivolo per i disabili, per niente stupita che io li avessi accompagnati fino a lì, la vecchia disse: “E che c’entro io, povera vecchia? Questa mi porta a messa e io non voglio. Ma non si sa mai.” Solo allora mi guardò. La badante, visto che non me ne andavo, ed era finalmente al sicuro, mi guardò e disse: “So che lei ha una moglie e dei figli. Perché viene dietro alle donne sole? Non sembra cattivo.” Solo allora mi scossi, le salutai e continuai a camminare, ripensando a quell’incontro che continua a sembrarmi un sogno. I giallisti (Per Edgar Wallace) Nei giallisti, specialmente quelli più artigianali, è singolare la disposizione a descrivere il paesaggio, per la quale è difficile trovarne uno, anche tra i meno noti, che non lo sappia fare. Jonathan Latimer scrive: “Sotto la luna il giardino sembrava una pellicola in negativo, tutta neri e grigi e bianchi, senza alcuno spessore: come se dei piccoli disegni di carta fossero stati incollati su una lavagna”. E la coppia francese Boileau-Narcejac, esperta di pioggia, scrive: “La pioggia stendeva davanti alla finestra una livida grata. Il castagno pareva fumare.” E ancora: “Una pioggia fredda che sapeva di bassa marea”. E infine: “Era una pioggerella errante, che sapeva dell’interno verdastro di una nube” Proverbiali gli incipit di Mike Spillane, con paesaggi urbani dentro cui piombi in poche righe scintillanti. Ciò dipende dal fatto che, essendo l’enigma tutto riverso nella trama del poliziesco, il paesaggio viene liberato da compiti evocativi, analogici e metaforici, che tanto lo gravano e lo spengono nella prosa volutamente letteraria, e riluce a sorpresa nella sua nuda evidenza, proprio come quando ci dà le sensazioni più forti dal vivo. Vale a dire nei casi in cui qualche problema assillante ci preme e un qualsiasi sguardo gettato su di esso è tagliente e lucido come una lama. 286 Gli scrittori di polizieschi non indugiano mai sulla natura, perché essa è secondaria e non si lega mai alla trama. Ma proprio per questo essa acquista una forza nitida. Lo stesso fenomeno si produce quando uno scrittore di polizieschi fa un affondo psicologico, svelando un tratto della natura umana, in virtù della sua acutezza nell’osservazione, a condizione che sia raro. E proprio perché non ce l’aspettiamo, in quanto ogni indizio, anche psicologico, deve convergere a uno scopo, e cioè a caricare o a sollevare il sospetto da un personaggio, tanto più è forte l’effetto quando la forza di verità oltrepassa la situazione. Un esempio decisivo lo troviamo in Edgar Wallace, il più dickensiano degli scrittori di libri noir, capace di allocare ogni storia in un ambiente diverso, ora una nave in crociera, ora i docks tenebrosi del Tamigi, ora il mondo claustrofobico dei fumatori d’oppio, e ogni volta costruendo una trama con un palese piacere architettonico e atmosferico. Ora, questo maestro del genere, a un passo dall’essere uno straordinario scrittore toto genere, che si fa prediligere anche per come sa tratteggiare personaggi femminili deliziosi per fermezza e grazia, influenzando palesemente tutto il cinema di Hitchcock, a un certo punto, in The Square Emerald, parla di una madre che ballava in un locale mentre suo figlio stava morendo in clinica poche strade più in là. Le madri che hanno cancellato i figli dalla memoria, che non hanno mai voluto sapere niente, che non provano per loro nessun sentimento sono numerose in ogni società ma non ne ho quasi mai sentito nessuno scrivere o parlare al di fuori di lui. E non importa che alla fine si scopra che quella donna non era la madre naturale. Lo stigma dell’osservazione resta. E sentite quest’altra affermazione: “Le scuole private e pubbliche sono piene di giovani, maschi e femmine, che conoscono le discipline più oscure, ma non hanno mai conosciuto le arti elementari.” Poco vero? 287 Vi sono tantissimi casi di semianalfabeti con un talento spropositato in qualche campo, del tutto ignoranti in quasi tutti i campi dello scibile, e in uno solo eccellenti. Io stesso potrei fare più di un nome ma anche in questo caso lo schema adombra la realtà. Terzo esempio, tratto anch’esso dallo stesso libro di Wallace: “Si paga più cara la debolezza di carattere che non la cattiveria.” Sulle donne, che conosce meglio di molti per averle lungamente studiate e amate, dice in un racconto che esse sanno separare la realtà dal suo involucro. E infatti la loro capacità naturale è proprio questa, tanto più quando al guscio danno un’importanza marcata e costante ma, mentre ti danno un tuffo al cuore sorridendo smaglianti, esse sanno l’effetto, lo mettono in gioco e lo disistimano, come l’uomo che se ne fa ammaliare. Il problema cosmogonico come un poliziesco in cui noi siamo il detective, l’assassino e la vittima. 17 febbraio “Perché mi dici buono?” “Perché mi dici buono? Io non sono buono. Buono è solo Dio.” Così Gesù risponde, con la sua caratteristica prontezza di battuta e completa mancanza di opportunismo e di gentilezza formale. Essere buoni vuol dire indulgere e compiacere. Gesù non è buono, anzi è asciutto, duro, senza mezze misure. Quando un discepolo, pronto a seguirlo, gli chiede solo di aspettare che seppellisca il padre, gli risponde: “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”. Osa dire che dovremo odiare il padre, la madre, la sorella. Se tu leggi i Vangeli e dimentichi la immensa elaborazione sentimentale fatta in due millenni sulla sua figura, ti accorgi che in Cristo spira l’aria tagliente dell’amore vero e divino, che risulta impietoso. Difficile permanere a lungo in questa coscienza, eppure soltanto così è salutare. 288 Verità nell’assurdo Quando una tesi risulta palesemente assurda e contraria alla logica, è probabile che proprio lì si annidi una verità. Non qualunque assurdità, ad esempio che l’universo stia tutto nell’utero di una femmina immensa, gode di questa forza scandalosa, ma soltanto l’assurdo che capovolge grazie alla scelta del punto esatto della leva la più logica delle teorie. Immaginiamo un nulla nero, cieco e totale e senza Dio, ad esempio. Noi sappiamo che è impossibile che ci sia mai stato, giacché il primo essere avrebbe dovuto crearsi da solo non essendo, il che è contraddittorio. Eppure questo nulla impossibile la nostra immaginazione è pronta a giurare che sia un tempo esistito e che da esso Dio, Dio che se può l’impossibile, deve poter compiere l’impossibile supremo, si sia creato da solo, senza essere mai esistito prima, da quel nulla, con un guizzo di amore che ha generato anche se stesso. Insensato non dico pensare, ma proprio immaginare, che l’universo si autodistrugga, si annichilisca, giacché l’amore ha il potere dell’impossibile e il disamore non può nulla che sia fuori delle leggi della materia. Miracoli È possibile che Gesù, scoprendo il suo potere di fare miracoli la prima volta, abbia compreso di essere l’eletto e che ogni miracolo che lui compiva rafforzasse la sua fede nel Padre. Se non avesse compiuto miracoli chi gli avrebbe dato il coraggio di credersi l’eletto? Pare strano che compisse tanti miracoli. Tutto frutto di suggestione? E come mai Pilato, i romani, i giudei, non ne hanno tramandato notizia? E come mai chi ha assistito continuava a non credere? Eppure senza miracoli non c’è Cristo. C’è solo il migliore degli uomini. 289 Non c’è santo senza miracolo. Un prete mi ha raccontato della fondatrice del suo ordine, che saliva le scale senza toccare i piedi, che ha tagliato una porchetta all’infinito per sfamare duemila persone ed era dotata del potere della bilocazione, tant’è che una volta apparve a Mussolini, il quale se la fece sotto per la paura. È singolare che i miracoli dei santi, o candidati alla santità, ricalchino sempre quelli di Gesù. Ha aggiunto che i membri del suo ordine non ne hanno mai diffuso la notizia per evitare che intorno a lei nascesse un culto come quello rivolto a padre Pio. Perché i miracoli non compiuti da Cristo mi sembrano comici? Io non ho mai assistito a un miracolo nell’ordine fisico, quindi non posso dire né di crederci né di non crederci, giacché lo può dire solo colui che ha assistito. Ma è possibile, assistendo, non crederci? È impossibile che io abbia assistito a un miracolo e non me ne sia accorto? Avvengono milioni di miracoli, anche a noi stessi, senza che noi ne sappiamo nulla, la gran parte nell’ordine spirituale ma, essendo questo tessuto con il corpo, anche in quello fisico. Questo mi sembra più verosimile, nell’esatto ordine della fede. Cristo non voleva che si propagandassero i suoi miracoli e ha detto che la destra non deve sapere ciò che fa la sinistra. E volete che si faccia propaganda da solo? Ma perché certi miracoli affiorano pubblicamente? E perché a certi è negato fruirne? C’è nel miracolo pubblico una violenza verso coloro che non ne hanno goduto, pur avendo fede. Vedi il racconto di una mia amica che facendo la risonanza in ospedale ha pregato tutto il tempo e poi le hanno scoperto un tumore. Io penso con dolore alla sua solitudine disperata e immeritata. Allora non è vero che sei hai fede otterrai l’impossibile. Per questo non amo i miracoli pubblici, perché nascondono i miracoli segreti, veri, che nessuno conosce e che Dio da sempre 290 compie di nascosto. E, concedendolo a uno, li negano a milioni di persone. Le masse non odiano e non amano Le masse in realtà non sono capaci né di odiare né di amare. Si eccitano e distruggono, si eccitano e adorano. Ma non odiano né amano, come immensi animali. Per questo è così facile pilotarle, se ti limiti a eccitarle, e perderle se le vuoi portare a un’azione costruttiva, o anche distruttiva. Se amassero o odiassero veramente non riusciresti a spostarle di un millimetro. Per questo i raduni mondiali della gioventù intorno al papa non hanno niente a che fare con Cristo. Per questo persino le folle che, come ci narrano i Vangeli, seguivano Cristo in persona, si sono disperse tutte nel momento del giudizio di Pilato. Il campionato nazionale Il campionato nazionale italiano con la squadra dei giudici, dei governanti, dei parlamentari, del centro destra, del centro sinistra, dei bancari, dei finanzieri, dei tifosi di calcio, dei giornalisti, degli stilisti, dei cantanti, degli attori, dei comici, dei sudisti, dei nordisti, dei medici, dei professori, degli impiegati, degli operai. Le squadre più ricche e potenti lo vincono sempre e le altre fanno l’altalena tra la A e la B. Si va avanti all’infinito. La super verità A qualunque religione si appartenga o qualunque credo si neghi, c’è sempre il problema della verità, della super verità. Problema che possiamo ignorare ma c’è. Non sappiamo né sapremo mai qual è la verità ma sappiamo che una verità deve esserci, benché le forze superne ci devono stimare ben poco per tenercene all’oscuro. O amarci troppo. 291 24 febbraio L’allegria ci rende unici Ciascuno ha delle fonti di allegria segrete e del tutto personali, che si rivelano a sorpresa, in una battuta, un gesto, un controsenso che fa ridere. L’inventiva dell’allegria è almeno pari a quella del dolore ma, mentre soffriamo tutti allo stesso modo, benché per ragioni del tutto diverse, gli scoppi d’allegria hanno modi talmente personali e nascono per sequenze di emozioni così proprie, da stampare il ritratto di una persona in modo unico, meglio delle impronte digitali. Un ringiovanimento frenetico, fittizio, truccato e un improvviso invecchiamento, come una saetta. Italiani Nella società corre un lamento continuo contro gli stranieri che intaccano le nostre culture e invadono la casa nazionale. Ma in realtà le nostre culture erano già degradate e rese insulse da una catastrofe tutta nazionale e gli stranieri non possono che ridare vitalità a un popolo che ha perso la sua personalità, guadagnando pochissimo sul piano economico e dimenticando che l’importante non è la meta ma il viaggio. In ogni cultura che si rispetti infatti quello che conta non è la quantità ma il timbro umano, non è il numerico ma il modo e la grazia artistica con cui si vive la stessa crisi economica. Gli italiani si sono sempre distinti per l’invenzione di una natura propria, restia alle tappe meccaniche del progresso. Hanno vissuto in passato meno comodamente di altri popoli occidentali ma con più candore affettivo e più ironia e scioltezza. Se ogni popolo ha un suo genio, c’era in questo un’intelligenza collettiva che rendeva le nostre terre più abitabili di quelle più efficienti, sicure e moderne. Così R. Barthes, nei suoi Scritti, parlando di Stendhal, dice che per lui l’Italia era “il luogo della vita vera” e aggiunge: “Si deve intendere 292 con ciò che quanto non è italiano ha un certo carattere di inesistenza. L’Italia è il reale allo stato puro, dunque intensivo, maggiore.” “Luogo della vita vera” può voler dire che la cultura cresce in modo collettivo rigogliosa dentro la natura umana. Ciò genera l’effetto allucinatorio, forse, ma potente, di una realtà illuminata a pieno giorno. Con il terrorismo è cominciata invece la subordinazione del presente a un fine assoluto, assurdo e meccanico. La palla dell’assolutismo è stata presa poi dal trionfo dell’economia numerica, che ha trasformato gli italiani in cialtroni scontenti, in avventurieri infelici e corrotti. La poesia della geniale stupidità italiana, che ha affascinato mezzo mondo, si è andata spegnendo e ora The Economist compiange la nazione triste e arida, ossessionata dai conti della spesa che non tornano. È brutale ma vero che i conti non sono mai tornati per milioni di italiani, ma adesso abbiamo perso il genio della povertà, l’allegria dei naufragi. Memoria degli italiani innamorati I film e le canzoni fino agli anni 60 ci dicono dell’importanza centrale che gli italiani davano al sesso, ma soprattutto il desiderio di innamorarsi, di sfiorare la donna dei desideri, le giornate inoperose a fantasticare uno sguardo ricambiato. Le donne gareggiavano in questo con noi uomini, facendoci sentire più uomini e noi le facevamo sentire più donne, benché fossero di continuo assillate e molestate dai corteggiamenti imbarazzanti. Il comico schizzava dalle figure patetiche che l’eccesso emotivo in amore causava nelle persone più composte. Ora si dice di continuo che i maschi non reggono il nuovo ruolo assunto dalle donne, che consiste nello spoetizzare la vita per una rivalsa in prosa nell’azione sociale. I maschi tendono così a 293 poetizzare sempre più il potere, il successo, il denaro, cose prosaiche e artefatte per eccellenza, al massimo eccitanti, come può eccitarsi un guardone che poi non riesce a concludere l’atto, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Le donne invece si sarebbero aspettate da parte nostra l’invenzione di un comportamento poetico maschile, che sarebbe stato possibile soltanto con qualche impresa da compiere nella società, al quale dedicare tutto, con una morale ferrea, con una passione convinta, e ingenua, sia pure, in qualche impegno radicale, in una fede politica o pedagogica o imprenditoriale. Di uomini così le donne si potrebbero innamorare, ma sono troppo rari oggi in Italia. Da ciò il gran numero di donne di valore che non si sposano. Quasi sempre sono quelle che hanno un ideale alto degli uomini, che hanno un equilibrio, che non conoscono trucchi e sotterfugi. Le donne di Svevo Quando un ragazzo incontra per strada due ragazze, guarda la più bella e appariscente e l’altra, che è sempre la migliore, anche fisicamente, se ne accorge, soffre e si tempra in silenzio. Di qui nasce l’educazione sentimentale femminile. La coscienza di Zeno insegna a scegliere la meno appariscente e comunque non quella che più istintivamente ci attrae, non solo per pragmatismo ma soprattutto per una superiore coscienza delle donne e una singolare attenzione ad esse, pregio primo della Coscienza, che dà equilibrio ritmico e charme continuo al romanzo. Nel suo romanzo si prova il sollievo straordinario di vedere finalmente distinti gli uomini e le donne, e soprattutto comprese queste nella loro musica, fermezza e grazia concrete e vere. Me ne sono accorto soltanto adesso, pur avendolo letto tante volte, a conferma che gli influssi più profondi, perché è proprio Svevo che mi ha insegnato che è più bello, scrivendo, aprire gli occhi sulle donne che non sugli uomini, sono quelli che più profondamente e inconsciamente covano in noi. 294 Fidanzate e sposate La donna fidanzata è vista dagli uomini come pur sempre libera e sul mercato, e hai meno scrupolo di rompere il patto altrui o minacciarlo. Anche i più libertini onorano il matrimonio, se non altro per la gran paura che ne hanno, non già in sé ma come baluardo sociale e giuridico. Chi ama una fidanzata altrui può irrompere mosso da amore senza alcun ritegno, senza curarsi dei turbamenti della donna o solo sulla carta e, in un angolo secondario di colpa, della slealtà verso l’uomo. In fondo il fidanzamento è reversibile e l’amore lo spazza via come una forza naturale, senza porsi il tema morale (proprietà, rispetto, onestà), ma al massimo quello sentimentale. Se ami invece una donna o un uomo sposati il tuo amore combatte contro l’irreversibile e lo vuole revertere, rovesciare, con tutt’altra attitudine, anche tragica. L’amante illegale sente infatti molto più del legale la potenza della legge. Paranoie politiche I nostri politici hanno la specialità di fissarsi su un tema di dibattito e di concentrarsi retoricamente su quello, dando il peggio in esternazioni emotive e dispute polemiche su ragioni di principio. Abbiamo visto trascinare in Parlamento e sulle prime pagine dei quotidiani una ragazza in coma da affidare all’amore dei cari e alla preghiera. Di colpo si passerà ora a lotte infernali pro e contro il nucleare, che dureranno mesi e mesi con strascichi infiniti. Subito dopo la costruzione del ponte di Messina occuperà di nuovo le due tifoserie, fino a diventare una materia metafisica. Parlamentari, giornalisti e altri cittadini, altrettanto comuni (perché siamo tutti comuni), si eserciteranno in orazioni e in conflitti retorici, pronti a spolpare l’osso retorico che di volta in volta verrà gettato tra gli scanni. 295 Nel frattempo la politica reale si farà fuori del Parlamento e a nessuno verrà in mente che questi temi grandiosi siano dati ad esso in pasto, a decisioni già prese, solo per tenerlo occupato, visto che gli stessi deputati e senatori, non potendo avere la più pallida idea delle azioni economiche concrete da fare per temperare la crisi, giacché nessuno le conosce, preferiscono di gran lunga fronteggiarsi su questioni morali supreme e vacue, su ideologie e valori alti e di principio, che non sentono e neanche vivono. L’arte nel governo sta in gran parte nel fare le cose ottime come le pessime in segreto. Le ottime, perché altrimenti saranno osteggiate da tutti, per mille ragioni, le più delle quali basse. Le pessime ugualmente, soltanto sostenute dalle persone più oneste, e per ragioni alte. Ma questo nelle democrazie è impossibile. Dovrai quindi sempre stornare l’attenzione con grandiosi temi di interesse pubblico fittizio sia per portare a compimento un’intuizione positiva sia per distruggere a tuo vantaggio il bene altrui. Militanti e reduci del ’68 Il 1968 è un anno, che riassume in realtà un periodo di almeno sei, sette anni, per come in Italia i movimenti che altrove, come in Francia, si risolvono in pochi mesi, da noi durano una vita, nutriti con flebo giornalistiche e televisive finché non si estinguono naturalmente. In fondo l’idea che uno debba essere curato all’infinito, per seguire la natura, è la stessa dei giornalisti per i quali devono riparlare delle stesse cose fino allo sfinimento finché la natura, cioè la nausea dei lettori e degli spettatori, non li costringa a cambiare tema. Per certi fedeli invecchiati di sinistra, la storia è finita con il ’68 e dopo si è caduti in un presente permanente, un precipizio di banalità e cinismo in cui le cose accadono senza lasciare traccia. Un’isola temporale, in cui si è svolta la loro vera vita, che ricordano da reduci con tenerezza mista a rancore, mitizzando ogni sguardo e ogni gesto, rifiutando ogni passaggio tecnologico, indossando le stesse giacche e sciarpe dell’epoca della gioventù, rileggendo gli stessi libri ingialliti. 296 Il fenomeno si sta accentuando oggi che i sessantottini si avvicinano a diventare sessantottenni e, mentre la generazione precedente riscopriva nel cassetto un foulard di seta e una pipa, un biglietto del night o una fiche di Montecarlo, loro ci ritrovano il volantino di una manifestazione, il sacco a pelo di un’occupazione, la cartina per gli spinelli, un pamphlet di Cohn-Bendit, la foto sbiadita di una compagna russa con cui sono andati a letto grazie a Lenin. 27 febbraio Omaggio a De Chirico Giorgio De Chirico, uno dei pochi uomini liberi e pittori pensanti che abbia avuto l’Italia, parla della “Stimmung del sentimento d’autunno in Nietzsche, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, poiché il sole comincia ad essere più basso”, che per lui è la tonalità di tutto il suo pensiero. Naturalmente è vero, anzi è questo l’unico modo in cui Nietzsche possa concepire e sentire la felicità e la conoscenza. Felicità che anch’io ho provato, secondo me tipica dei trent’anni, e che non potrò mai più dimenticare. Si tratta della maturità dell’anno, un senso di pienezza e di sazietà come se la tua stagione fosse una donna incinta. E insieme il senso sereno di declinare, di decadere, giacché la donna incinta in fondo sta veramente bene solo quando è incinta e, se desidera che il figlio nasca, desidera altrettanto che duri il periodo della sua matura attesa di felicità. La primavera è verde, l’autunno di tutti i colori, dice Madame de Sevigné. L’autunno è soprattutto tutte le stagioni, tutti i tempi in uno. L’autunno è l’avvenire. Gli occhi della materia Col metodo dell’immaginazione pensante risulta evidente che la materia deve da sempre aver avuto occhi, naturalmente di genere speciale, ben prima del primo animale vivente. Come avrebbe 297 potuto organizzarsi senza cozzare a casaccio, distribuendosi nello spazio o, se si preferisce, espandendo con sé lo spazio, ma comunque in modo da non disturbare l’altra materia ed energia, e soprattutto da consentirsi lo sviluppo che poi ha avuto? Dire che è accaduto per caso non significa nulla. Equivale infatti a dire che non c’è stato un Dio, una mente sovrastante che abbia pilotato il processo verso un fine. Ma deve comunque esserci stata una Mente Prima concentrata nel cervello del primo nucleo di energia tredici o quattordici miliardi di anni fa, e poi disseminata ovunque nelle cose. E questa Mente deve aver avuto un suo occhio per vederci chiaro e non far casino, in qualunque modo conformato. Il metodo dell’immaginazione pensante è empirico, perché consiste nel pensare intensamente fino a vederlo, ma sempre come eidos, come forma intellettuale, un passaggio della storia dell’universo, alla luce di ciò che sappiamo dalla scienza ma, se necessario, anche oltre e in contrasto. Arrivati ad esempio al famoso nucleo di energia, come ho detto altrove, non possiamo certo accettare i tabù dei dogmi attuali degli scienziati, per cui tutto è cominciato da lì, e zitti tutti. Prima non c’era un prima, e il dove e il quando, lo spaziotempo, se l’è fatto da solo la bollente e densissima energia neonata, scoppiando come un pallone colpito da una pistola. Per farsi lo spazio da sola l’energia infatti doveva poterlo distendere da qualche parte, su uno sfondo che già c’era, il vuoto cioè, tanto più che non puoi dire che lo spazio sia il vuoto. E per poter distendere il suo tempo, che non è uno sfondo metafisico, ma una forza attiva in costante legame con lo spazio, tanto che senza di quello non potrebbe esistere, avrebbe avuto bisogno di un tempo anch’esso vuoto, di una conca del tempo, di un palcoscenico di tempo già esistente. Infatti un’esplosione presuppone un ambiente già formato, che deve precedere sempre di una frazione infinitesima ma decisiva, di un tempo di Planck, la espansione della materia su di essa. L’energia ha un suo spaziotempo interno, ma che non può che espandersi in uno spaziotempo esterno, oggettivo preesistente, anche se in apparenza inerte. 298 Come fai correndo a creare lo spazio della corsa? La spinta che ti dai per procedere devi esercitarla su qualcosa che già esiste. Creare lo spazio e il tempo con l’energia in modo del tutto autarchico è altrettanto impossibile che l’autocreazione. Ma attenti: ciò che è assolutamente impossibile logicamente, è proprio ciò che può nascondere meglio di tutto il resto una verità sconosciuta. Io non amo una cosa perché impossibile, anzi la odio. Ma fiuto nell’impossibile più alto un terribile trabocchetto di verità. C’è un teatro vuoto, che ha un suo tempo e un suo spazio. Entra una band che suona il jazz e fa esplodere il tempo e lo spazio. Di chi? Del teatro o della band? Lo spaziotempo è della band che suona e, benché si sovrapponga, allo spaziotempo del teatro, dando l’illusione che sia il teatro a esplodere, in realtà lo spaziotempo del teatro resta identico e inerte, benché non si percepisca per la durata del concerto. Immanuel Kant ha naturalmente ragione nel pensare che tempo e spazio siano forme conoscitive a priori, dalle quali è impossibile uscire. E tuttavia ciò non preclude che siano anche forme oggettive a priori, benché non lo possiamo dimostrare. Gli italiani sono tutti dei A seconda dei casi Dio si vede come un giudice esatto e come un padre buono. Quando un delinquente della peggiore specie si pente in punta di morte i suoi familiari invocano il Padre buono, convinti che, se è infinito amore, dovrà perdonarlo. Quando i familiari delle vittime del delinquente della peggiore specie chiedono a Dio giustizia, intendono invece che gli dia una punizione cruda ed esemplare e si appellano al Giudice esatto. Gli italiani sono tutti degli dei in miniatura e a seconda del loro interesse e di come riescono a sistemare le cose nel modo più 299 gradevole e gratificante, pregano Dio di venire incontro ai loro desideri. Il desiderio come diritto universale e innato. Il delirio di onnipotenza virtuale. I calciatori pregano dio che faccia loro segnare un goal, i ragazzi al mare si fanno il segno della croce prima di una nuotata, prima di un concorso pubblico, di una notte d’amore. Pregano Dio che il compito di matematica vada bene, che la holding in cui hanno investito il santo denaro abbia successo. Il killer prega Dio che lo ispiri al momento giusto, per non sbagliare il colpo, e il boss della cupola mafiosa non prende una decisione senza prima aver letto qualche pagina della Bibbia. L’uomo che tradisce la moglie prega Dio che non lo scopra e l’amante prega Dio che lo faccia, sempre con gran passione, dolore ed emozione, per convincere Dio, o almeno se stessi, della nobiltà dei propri sentimenti. La madre prega Dio che la raccomandazione per la figlia abbia successo e la figlia prega Dio che convinca la madre a farsi i fatti suoi. Le madri italiane notoriamente pregano Dio o perché le figlie trovino l’uomo giusto o perché buttino a mare quello sbagliato. I padri, nei pomeriggi domenicali, ascoltando lo schiamazzo della partita, che è godimento viscerale per chi ama il calcio e strazio di malinconia per chi non lo ama, prega Dio che la sua squadra vinca e che vinca pure lui qualche piccolo milione di euro. Prima di farsi esplodere con le cartucce di plastico addosso il kamikaze prega Dio che sia così veloce da non sentire nulla, e sia quel che sia. Esperimento sul campo “Noi uomini stiriamo il mantello di Dio come un elastico di gomma ma bisogna ammettere che Dio non faccia molto perché la situazione sia chiara. C’è senz’altro in questo una strategia provvidenziale, o almeno geniale, ma perché rendere felici esseri che hanno costruito il potere, la ricchezza, il successo sulla violenza, l’umiliazione, il soffocamento di centinaia di migliaia di persone. E 300 perché colpire chi è già colpito, infierire su chi è già a terra, martoriare chi già è nato nella parte più dura del mondo?” disse il marito. “Se lo preghiamo per le cose più assurde forse non dipende un po’ anche da Lui, che non mostra un piano educativo chiaro? Non può sempre trincerarsi dietro imperscrutabili ragioni superiori. Qualche volta bisogna pure che la giustizia cominci da qui. O no? Attenzione che se perdiamo la stima, se il tutto diventa inattendibile in modo umiliante e leggermente sadico, per dirla tutta, l’incenso potrebbe diminuire,” disse la moglie “Non credo gli importi molto. Tanto ha tutto il potere da sempre. Non ci sono elezioni,” rispose il marito. “Cos’è? Il fascismo?” disse lei. “Noi non abbiano nessun potere. Ci conviene tenerlo buono,” disse il marito. “Forse hai ragione,” disse la moglie, “è per questo che non posso più mentire. Io ho un amante. E niente al mondo detesto come mentire. Io voglio dirti la verità, come piace a Dio.” “Anch’io voglio dirti la verità: lo sapevo già. Ti ho fatto seguire e nel cassetto puoi trovare le foto del tuo sesso selvaggio.” E le dette uno schiaffo che le gonfiò la faccia. “Ho pregato a lungo perché tu fossi illuminata. E una voce mi ha detto che dovevi essere tu a dirmelo. Per questo ho aspettato.” La moglie non si arrese e gli dette un pugno sul naso e, mentre lo vide sanguinare, unì le mani in preghiera dicendo: “Signore, aiutami in questo momento terribile della mia vita e proteggimi da questo violento.” Il marito, perché entrambi erano cattolici praticanti, con contratto a progetto, si mise anche lui a pregare Dio che gli dicesse cosa fare. E, sicuro del suo perdono, prese a picchiarla con tutte e due le mani mentre lei rispondeva come poteva col posacenere di cristallo. Fu l’amante, nascosto dietro la tenda, a intervenire, puntando una pistola contro l’uomo e, dopo essersi fatto il segno della croce, perché non aveva mai ucciso, sparò un colpo. Che andò a vuoto. I due uomini e la donna rimasero attoniti. Lui era ferito sulla fronte e perdeva sangue che colava sui peli neri del petto. Lei aveva la faccia come un melone e un livido sul fianco. Erano nudi di fronte all’amante col giaccone, che aveva fatto cadere la pistola e aspettava 301 inerme le manette. La donna chiuse la porta a chiave senza preoccuparsi del seno che ballava e delle cosce nude fino ai fianchi. Il marito ostentava il suo sangue con orgoglio imbronciato. L’amante si inginocchiò con la testa tra le mani e scoppiò a piangere. Era poco più di un ragazzo, carabiniere da sei mesi ed era dispiaciuto, più della carriera stroncata, del male che stava per fare. La donna tumefatta lo riscosse insieme al marito, che aveva tra i peli del sesso ancora qualche grumo di sperma. Riuscirono a farlo sedere sul letto, a prendergli la pistola di mano e cercarono di fargli capire che non era successo niente. Lui batteva i denti e tremava. Il marito allora gli dette uno schiaffone che lo riportò tra i vivi. La moglie, sempre nuda, gli prese la faccia tra le mani, senza nessuna tenerezza, e gli disse: “Non è successo niente. Hai capito? Adesso tu riprendi la pistola d’ordinanza e ti siedi in salotto a guardare la televisione a tutto volume, hai capito bene. Cerca un film d’azione con la prima sparatoria e piazzati lì con un bicchiere di cognac.” Con la vestaglia bene stretta in vita la donna provvide a sistemarlo e aggiunse, dandogli un bacio in fronte: “Aspettaci qui.” Poi si mise a cercare il proiettile, senza trovarlo, e a risistemare il letto, mentre il marito in bagno si lavava il sangue sotto la doccia. Già si sentiva bussare alla porta e premere le voci concitate di molte persone. Lei guardò dallo spioncino e vide che erano in quattro. “Che succede?” dicevano. “C’è bisogno d’aiuto?” Lei pregò intensamente, raccolse le forze e disse: “Scusate, la televisione è troppo alta. La abbasso subito.” “Abbiamo sentito uno sparo. Sta bene?” “Benissimo, c’è qua anche mio marito che si sta facendo la doccia. Io ho preso la rosolia, alla mia età, e preferisco non aprire.” I vicini non ci credettero per niente ma cosa potevano fare? Uno di loro disse: “Possiamo vedere suo marito?” Ma la moglie rispose: “Grazie di tutto ma adesso state esagerando. Ho detto che abbasso subito.” E mentre così diceva la televisione tacque. Il silenzio tornò nel condominio e, scuotendo la testa, i vicini se ne tornarono in camera, decisi ad approfondire il giorno dopo. Il marito si era lavato, curato la ferita alla meglio e rivestito di tutto punto. Il carabiniere stava sul divano sempre con la testa tra le mani. 302 La donna non era andata a rivestirsi ma stava bene attenta che non sbucasse il seno o il pelo dalla vestaglia. Del resto guardava il ragazzo in modo molto duro e gli disse: “Non ti farai più vedere. E non parlerai mai a nessuno di quello che è successo. Se no ti ammazziamo.” Il ragazzo era distrutto, neanche pensava che non sapeva come uscire. Riaccesero la televisione e si misero a seguire una partita di coppa per distrarre l’attenzione dei vicini e aspettare che si addormentassero. Solo dopo un’ora i due uomini uscirono sul pianerottolo e il ragazzo si accorse che c’era una telecamera puntata su di loro, montata sopra la porta del vicino. Ebbe la tentazione di fracassarla. Ma il marito, facendo finta di niente, si mise a ringraziarlo per come era venuto di notte a visitare la moglie, anche se lo aveva tirato fuori da una festa. E senza aspettare una reazione lo cacciò nell’ascensore e lo ringrazio sorridendo, e facendogli persino un inchino. Quando tornò nell’appartamento c’era uno strano silenzio. La moglie venne fuori dalla camera da letto con il proiettile in mano, che gli mostrò senza badare più a tenere stretta la veste. “Questa è la nostra garanzia,” disse. E vide che la fronte del marito aveva ripreso a sanguinare. Lui pensò a come sarebbe stato disgustoso fingere con tutti, inventandosi una caduta per la ferita che gli aveva fatto lei, e riprese a odiare la moglie, che decise che non avrebbe lasciato subito. Ma solo dopo averle fatto scontare tutto. Lei ne era sicura e studiava il modo di lasciare la casa prima che diventasse un inferno. E mentre sedettero di fianco sul divano a pensare la strategia per i giorni successivi, lei disse a capo chino “Prego il Signore che mi perdoni e sono pronta a soffrire tutto quello che c’è da soffrire. Ma per favore non mi lasciare.” Lui la guardò senza riuscire ad odiarla, perché le era del tutto indifferente come moglie, benché non ancora come femmina, e disse con disprezzo: “Intanto siamo vivi. Cosa vuoi che sia un po’ di sesso?” Lei era perfettamente d’accordo ma non poteva dirlo. Tra l’altro dopo il sesso col carabiniere aveva rivalutato parecchio il marito. E avrebbe fatto volentieri una certa cosa, peccato che non fosse il caso. 303 Il marito decise di andare al Pronto soccorso verso le tre del mattino a farsi curare e per strada ringraziò Dio che gli aveva salvato la vita. Lei rimase a letto a occhi aperti, rivide la scena, e anche lei ringraziò Dio, che l’aveva perdonata, visto che era ancora viva. Il carabiniere era troppo giovane per questi ringraziamenti e non ci voleva credere che tutto si fosse risolto tra loro, quando si vedeva già in galera per qualche anno. Si coprivano a vicenda e dovevano solo stare attenti che la coscienza non si ribellasse e uno di loro non dicesse di colpo la verità. 2 marzo Paradossi dell’arte contemporanea Marcel Duchamp nel 1917 ha comprato un orinatoio e lo ha esposto alla Società degli artisti indipendenti di New York, oggi al centro Pompidou di Parigi, e un uomo qualche anno fa ci ha pisciato dentro, per poi venire condannato a pagare una somma enorme che non possedeva. Nel suo trittico Phaedrus l’artista americano Twombly ha esposto una tela bianca, quotata due milioni di dollari. Una donna l’ha baciata, imprimendovi il suo rossetto, ed è stata condannata a pagare 4.500 euro. Perché, però? Loro magari hanno capito lo spirito degli artisti più degli altri. Soltanto che le opere non sono più loro, ma di proprietà dei musei. Le tele di Cy Twombly consistono in genere in apparenti scarabocchi graziosi e spruzzi di colore, disposti sulle tele musicalmente, quasi sempre piacevoli a guardarsi, perché dotati di una ritmica e di una percezione assai raffinata dello spazio. Il titolo può essere Apollo e l’artista o, più pudicamente, Senza titolo, ed è fuori di dubbio che lui si diverta molto e che forse, pur soffrendo per il rischio della sua avventura, è un uomo felice, nel senso che ha un buon demone. La sua non è affatto una ricerca gratuita e incolta, se è vero che Mallarmé è una delle sue fonti ispiratrici. E tuttavia, se guardiamo le cose in panoramica, è irresistibile la sensazione che, leggendo le sue opere come segni di un’epoca, tra 304 trecento anni verremo considerati preda di un’epidemia internazionale di bambineria. Bambineria ludica, bambineria raffinata, bambineria aristocratica e quasi geniale. È una lezione liberatoria, sia perché sdrammatizza il peso del denaro sia perché sdrammatizza il valore dell’arte. Ed è anche una lezione democratica, perché riabilita il genio dei bambini, che tutti lodiamo senza capirlo a fondo. Giacché tendere con tutte le forze artistiche e intellettive a diventare bambini, visto che non si torna mai indietro, da adulti, è impresa titanica. E tuttavia è anche una lezione angosciante, ed è ipocrita non volerlo ammettere. Non soltanto perché la tecnica è ridicolizzata, mentre essa è bene che resti il baluardo minimo in tempi di confusione, ma anche perché ci scopriamo ancora una volta preda del doppio terrorismo, del mercato e dei critici d’arte, che giudicano uomo del passato chiunque osi svalutare opere di questo genere. Il gioco, la provocazione, l’irrisione, il gesto libertario sono quotati alle stelle nel mercato internazionale e si avvalgono della stessa potenza che vorrebbero ridicolizzare, e che è la principale causa della completa separazione tra l’arte contemporanea e i cittadini del globo nei nostri tempi. Il diritto di giocare con costosi e complicati giocattoli, giacché una mostra dell’arte degli ultimi decenni non è che un immenso bazar pieno di giocattoli ingegnosi, in cui anche a me piace aggirarmi con una catarsi ludica, si è assicurato però tutta la solennità dell’arte degli antichi maestri. E i miliardari di tutto il mondo si divertono a spendere somme favolose per una tela bianca o un aereo fatto con le canne, per il teschio di diamanti di Damien Hirst (75 milioni di dollari) o per una mucca sezionata e conservata in formalina, in teche di cristallo. Sempre che prometta di rendere un giorno dieci volte l’investimento. Fatti salvi i conti in banca e il divertimento impareggiabile di rilanciare la posta contro un mondo banale, sordomuto e cieco, con sorprese sempre più eclatanti per un pubblico ormai inerte e sottomesso, alcuni artisti di questo genere vorrebbero anche dirci qualcosa di indispensabile sui nostri tempi e passare per profeti, 305 rivelandoci ciò che in realtà tutti sappiamo, che la nostra è una civiltà necrofila di guardoni e di cinici disincantati che non si stupiscono più di niente. Lo choc non colpisce che per qualche secondo la gente già fin troppo eccitata, che fa un sorriso di finto scandalo e di compatimento e passa oltre, ammirando la furberia dell’autore e scherzando piacevolmente per le scale. Dici di essere un artista, dimostraci che sai disegnare e poi fai quello che vuoi, come Picasso. Dici di essere un musicista, dimostraci che conosci l’armonia e la storia della musica e poi rifai tutto a modo tuo, come ha fatto Schönberg. Dici di essere un poeta, dimostra che sai cos’è la metrica e la storia della poesia. E poi fai quello che vuoi, come ha fatto Zanzotto. Siamo stufi di geni che non sanno la grammatica e la sintassi, l’anatomia del corpo umano e non hanno mai ascoltato il Clavicembalo ben temperato o Modern Times di Bob Dylan. Siamo stanchi di gente che non apre mai un libro e ne pubblica uno all’anno. All’inizio poteva andarci bene ma adesso siete troppi, e avete preso tutta la piazza. E siete brutti. Dentro il pulviscolo democratico in cui ogni granello di polvere brilla e scompare persiste una cerchia di uomini semplici e aristocratici, ormai disperati di poter diffondere i valori presso le masse, ma che non hanno rinunciato a riconoscerli e difenderli. Una cerchia più chiusa che nel Rinascimento, chiusa dentro dall’esterno, di solitari che quasi nessuno conosce, e che tessono la tela della scienza, della filosofia, della letteratura, facendo sì che le masse non cadranno nel vuoto quando d’un colpo si risveglieranno dall’incubo variopinto. Faccio un nome per tutti: Giacometti. Sulla zattera della crisi Siamo sulla zattera della crisi, una zattera di migliaia di chilometri quadrati. Nessuno riuscirà a portarci in salvo da una crisi economica mondiale, nemmeno i governanti e gli economisti. Scegliamo allora personaggi di valore, almeno, condannati come siamo a restare in alto mare, sentiremo discorsi brillanti di gente seria, che ci conforteranno nella deriva invincibile della sorte. Invece siano costretti a subire gente che non solo non può fare nulla, ma non 306 capisce neanche nulla, e che e che in più non sa l’italiano, non sa ragionare, ci riempie la testa di false promesse, pretende di farci credere vicini al porto, e ha persino una voce stridula e fastidiosa. L’analisi giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto. Siamo vittime di un eccesso di analisi e manca del tutto lo sguardo panoramico. Chi lo possiede viene indicato come una Cassandra o come un perdigiorno. Cose sensate Le donne posseggono un punto di rovesciamento dell’amore in odio, nel quale ritirano in modo irreversibile la femminilità. Io ho i figli migliori che si possano immaginare. Per qualità intrinseche e per come li amo. L’amore vede il valore, quando c’è. Nietzsche irride gli storicisti i quali pensano che “il senso della vita venga alla luce nel corso del suo processo”. Pensa che sia ridicolo pensare che i prossimi dieci anni siano migliori di quelli che abbiamo vissuto. E che, comprendendo questo, cercheremo di vivere a pieno il presente. Ma ciò accade lo stesso se non abbiamo mai fatto nulla di buono? Perché non possiamo abbandonarci al mistero come ci si abbandona alla fede? Pensare che sia un bene che ci sia, e accettare con naturalezza, senza smaniare e senza cercare verità impossibili, il fatto che c’è. È pessimo scienziato colui che, avendo fissato i limiti della conoscenza, vuole abolire il fatto incontrovertibile e sperimentale che il mistero c’è, qualunque cosa lui pensi. Il mistero, dico, non il segreto, che infatti Vladimir Jankélévitch distingue molto bene. Il segreto infatti, per esempio la combinazione di una cassaforte, qualcuno lo conosce. Il mistero invece non lo conosce nessuno ma gli effetti del mistero sono sotto gli occhi di 307 tutti. Il mistero consiste nel vedere il fiume e sapere che deve esserci una sorgente, che però è impossibile per sempre trovare. Una donna giovane cammina storta sotto il mio balcone con i sacchi della spesa, spingendo una carrozzina con due gemelli. Non pensa che siamo su un pianeta perso tra miliardi di galassie. Ha altro per la testa, ed è bene così. Ma è legata a quelle galassie, come tutti noi, ben più strettamente di quanto riusciamo soltanto a immaginare. Ha diritto di non pensarci perché ha una famiglia da tenere in piedi, ma l’astrofisico no. Ha voluto lui mettere mano all’universo e allora deve farlo fino in fondo. Anche lui però ha una famiglia. Se collegasse questo fatto alle sue osservazioni diventerebbe un filosofo. 4 marzo Esiste il sadico invisibile? Se ragionando escludiamo tutto ciò che è impossibile, perdiamo gran parte delle possibilità di capire. Il possibile infatti è stato definito a posteriori, e di fatto esso è sempre un compossibile. Ma non sappiamo, nel primo lancio di dadi, quali sono state le cause prime che hanno reso impossibili miliardi di effetti. Non sappiamo quindi cosa era impossibile prima che la maglia dei possibili si formasse. Appostato dietro le tue spalle, con un mira infallibile, un essere ti colpisce dove sa il tuo punto debole e lascia che l’effetto spunti mesi o anni dopo, sicché tu non sai nemmeno perché muori. Esiste qualcuno così? L’immaginazione di un essere del genere è segno di gran presunzione e di tendenza monomaniacale. Per fortuna non siamo così importanti da minacciare esseri superiori per i quali diventerebbe per loro necessario eliminarci. Avendo noi stessi un nemico dentro, vedere che un altro essere, uno come noi, che non abbiamo mai colpito, e anzi beneficato, a questo 308 nemico si allea, ci dà il preciso sentimento che chi vuole il nostro male, non immaginando niente delle nostre pene, non concependo come siano sempre sproporzionate al risultato raggiunto, sia anche un po’ coglione. Il male che ciascuno soffre infatti, se anche non offeso da nessuno, è già troppo per noi. Ed è proprio questo eccesso, questo sovraccarico, anche piccolo, che giunge da un altro a farci soffrire sempre più di quanto meriterebbe. Se esistono potenze sadiche, il loro attacco dovrà essere casuale, perché non è concepibile che diano tanta importanza a un uomo da voler colpire proprio lui. Tuttavia la cosa migliore non è nascondersi bensì vivere coraggiosamente. Tali potenze, se anche esistono, sono incenerite da un comportamento disinvolto e smemorato. Dio, ti prego, se non sei buono, non essere malvagio! Pregandoti possiamo rabbonirti, possiamo dolcificarti e umanizzarti? Non essere neanche neutro però, se no sarebbe come se fossi malvagio, visto che la partita è truccata e noi siamo destinati comunque a perderla. Sii soltanto buono allora. Amaci ancora di più. Dici che non è possibile perché il tuo amore è già perfetto? Non sembra, però. Se sei Dio, se sei veramente Dio, amaci di più. Amaci fino all’impossibile. Ci ami già da morire? Non basta, amaci da vivere. Un dio malvagio sarebbe banale. E di Dio puoi dire tutto tranne questo. 5 marzo La sindrome del casellante Il casellante era molto educato il primo giorno di lavoro e salutava sempre tutti ma già a sera aveva conosciuto la natura umana nelle sue forme più sconcertanti. Due su tre non rispondevano ai suoi saluti perché li ritenevano compresi nel prezzo del biglietto. Ma lui resistette in nome di quel terzo che rispondeva. Il secondo giorno l’irritazione per chi non lo ricambiava si fece sempre più forte e il piacere di essere corrisposto da una minoranza sempre meno consolante. In fondo rispondevano alla sua gentilezza senza mai 309 prendere l’iniziativa. Il terzo giorno smise di salutare per primo, limitandosi a rispondere ai più gentili, circa uno sui dieci, che gli rivolgevano un buongiorno. Ma a che serviva che loro si salutassero se tutti gli altri non lo facevano? Non sarebbero riusciti a cambiare mai niente, anche perché gli altri non assistevano allo scambio cortese. Cominciò così a non salutare nessuno, neanche quando erano gli automobilisti i primi a farlo, e a provarci persino un certo gusto. Si sentiva più forte, più importante, persino più autorevole. Anche l’automobilista il primo giorno salutava per primo, il secondo solo per corrispondere e il terzo non salutava più. E la colpa era tutta di quei nove casellanti su dieci che non salutavano e neanche rispondevano più al saluto. Il fatto è che in Italia erano tutti maleducati ormai ed era ora di far capire a questa massa di cafoni che la gentilezza non è segno di debolezza. Ogni tanto qualche casellante e qualche automobilista continua a salutare, ma così in astratto, simbolicamente, e senza neanche guardare in faccia l’interlocutore. La catena dei comportamenti disonesti è così diffusa che è impossibile risalire a ritroso identificando l’origine e il primo anello. Chi ruba è stato derubato, chi non paga il lavoro non è stato pagato, chi mente ha subito la menzogna, chi è sleale ha subito la slealtà, chi usa violenza l’ha sofferta, chi si fa raccomandare è stato escluso da un raccomandato, chi mette le corna alle moglie è già stato cornificato, chi tradisce è stato prima tradito. Non si può srotolare la catena e rimettere le cose a posto né si può, comportandosi bene, sperare di migliorare un altro o di ricevere un trattamento migliore perché, non conoscendo i rari onesti, tutti li tratteranno come nel novantanove per cento dei casi, pensando che pure loro siano della stessa pasta. E quando si accorgeranno che non è così avranno già fatto il male. Quando si comincia a inasprire il rapporto con qualcuno è quasi sempre anche perché si comincia a inasprire il rapporto con tutti. Facile quindi che quando ci si è sfogati e ancora tremano i nervi per la tensione contro qualcuno, la stessa tensione ciecamente possa riversarsi sul primo che ci capita, che nulla sa del nostro terremoto psichico, i difetti e le mancanze del quale, che abbiamo sempre 310 sopportato, di colpo si manifestano insopportabili, e noi lo trattiamo come se lui o lei sappia della nostra insofferenza infiammata. A tal punto il nostro modo di trattare uno dipende dal nostro modo di trattare tutti, cioè dal nostro stato e attitudine e modo di sentire di quel momento le cose della vita. Non si può insegnare Scopriamo la natura umana sempre più con gli anni ma quello che sappiamo non possiamo insegnarlo a nessuno, o perché non saremmo creduti, o perché dovremmo disingannare troppo precocemente giovani pieni di fiducia. Insegnando loro d’altro canto a fare solo ciò che è giusto, potremmo depistarli dalla sopravvivenza, essendo la strada della giustizia diventata rischiosa e solitaria. Infine non serve a niente neanche a noi sapere come la natura sia, perché non possiamo cambiarla. Ecco che descriverla per iscritto è diventata l’unica efficace espressione di libertà, perché almeno mostreremo di non esserne inconsapevoli e di non aver rinunciato ad esporre in piena luce ciò che ogni giorno in mille modi viene dissimulato. Riposiamo con lo zaino dietro un muretto prima di riprendere la battaglia, e lasciamo una traccia del fatto che se non siamo stati abbastanza forti da combattere la menzogna efficacemente, lo siamo stati abbastanza da descriverla con spirito di verità. Il mediatore Chiunque si tuffa in un lavoro comune, in un progetto che coinvolge più uomini, in un’impresa che richiede la mediazione tra caratteri diversi, arriva regolarmente ad un punto cruciale in cui un impeto di distruzione si impossessa di tutti coloro che dovrebbero cooperare. Per un bisogno irresistibile, in modo conscio o inconscio, ciascuno mette in atto i capricci, le provocazioni, le trappole, i doppi giochi che hanno come unico scopo di far fallire il progetto e di mandare a monte l’impresa, pur di sfogare su uno degli uomini in 311 gioco la propria insoddisfazione o il proprio odio latente o manifesto, o di rivendicare la propria autonomia. Allora o c’è qualcuno che ritesse la rete con pazienza infinita, a dispetto delle prove contrarie e dell’evidente malanimo reciproco o tutto va a monte. Il mediatore procede ormai per inerzia, essendo fallito comunque il piano originario, cioè quello di stringere un patto d’amicizia e di costruire una microsocietà attraverso il progetto, e persegue la nuda risoluzione della cosa. Una volta conseguita, essa non è più importante per nessuno, ciascuno ritrova la sua indifferenza o il suo astio e azzarda nuove alleanze altrettanto labili, ma che all’esterno sembrano solide e armoniche. Come se un qualunque progetto non potesse realizzarsi che a dispetto dell’amicizia e attentando alle sue fonti. Idea romantica dell’amicizia Ciò dipende anche dal fatto che gli italiani conservano un’idea romantica dell’amicizia, al punto che il fatto stesso di perseguire uno scopo comune, in cui ciascuno si avvantaggia, fosse un modo per sminuirla e infangarla. Per questo a gesti di stoicismo e di rinuncia fanno riscontro slealtà clamorose e l’ago dell’amicizia impazzito non trova più la rotta, se appena si tratta di collaborare. E la ritrova solo in una passeggiata disinteressata, in una gita di piacere, in una cena conviviale. La prova più ardua dell’amicizia è riconoscere che essa non può emendare la comune natura umana, cioè l’inclinazione all’invidia, il piacere del dolore altrui, come ogni altro vizio, che non viene sanato ma, al massimo, di volta in volta disinfettato e cicatrizzato, da un legame di solidarietà profondo e costante. Che l’amico non diventi migliore più di tanto per opera nostra e che noi non riusciamo a oltrepassare noi stessi, grazie all’amicizia, è un’esperienza forse anche più bruciante di quella analoga fatta 312 nell’amore, giacché nell’amicizia il disinteresse è più accessibile, e quasi costitutivo. Aggiungi il fatto che gli amici si snudano a vicenda, confessandosi in modo esclusivo pensieri, desideri, sentimenti, ciò che non fanno con altri, di modo che tu conoscerai anche il peggio dell’animo dell’amico e tu lo metterai a parte di quegli sfoghi che ti permetti perché sei sicuro della sua discrezione, ma che intanto quegli saprà, non potendo più considerarti così puro e integro come ciascuno cerca di sembrare con gli altri. A quel punto, non puoi che sperare nella clemenza, tanto più che tu non vedi i tuoi difetti, e quindi immagini alla cieca che l’amico li abbia visti, non sapendo bene quali siano. Ma sei sicuro che così sia successo perché tu vedi con evidenza i suoi. Amici alle prime armi e negli anni giovani possono permettersi di rinfacciarsi i difetti, per uno scopo terapeutico ed educativo, benché non serva a nulla se non a sdrammatizzarli. Ma amici di lunga data ed esperti della vita, non potendo illudersi di poter cambiare o far cambiare, finiscono per sopportarli in silenzio, ciò che non fa diminuire la stima, soltanto perché altrimenti non stimeremmo nessuno e non saremmo stimati da nessuno. Anche la stima comporta così fede e amore verso un altro, perché la pura, esatta, valutazione di una persona, inclinerà a vederne i difetti, sempre più vistosi dei pregi, com’è naturale, dovendo agire noi su questi, se vogliamo migliorare l’amico, e non sui pregi, che sono fatti da sé e non ci comportano interventi, mentre la fede e l’amore in un altro essere, bilanciando il freddo giustizio, ci rendono anche la pienezza più giusta dell’altrui persona. Da ciò consegue che non giudicare un amico è il miglior modo per giudicarlo in modo onesto e completo. 7 marzo Miracoli e doni soprannaturali 313 Parlando con un amico, sul Ponte dei Cocci di Urbania, mentre il Metauro scorreva lento e malioso, mi ha raccontato di un sacerdote, suo amico, al quale appariva il sacro cuore di Gesù. Gli dava un indirizzo in una città e lo invitava ad andarvi, per dire una parola di pace a una coppia che stava per separarsi o nella quale una donna stava per abortire. Il prete partiva, suonava al campanello all’indirizzo indicato dal sacro cuore e riferiva il messaggio alle persone stupefatte che un estraneo conoscesse i fatti loro. Di queste cose non accadono nei paesi protestanti, dove non credono nei santi e dubitano dei miracoli non fatti da Cristo. Come mai? Perché i cattolici si suggestionano da soli, visto che ci credono. O perché accadono solo a quelli che ci credono? Se io non ho assistito a un miracolo devo credere al testimone che ha assistito o a colui che se ne è giovato. Ma come posso aver fede in un uomo qualunque? Come posso aver fede nella fede di un altro? O posso? Un prete, parroco di una chiesa nel quartiere della Magliana, mi ha raccontato che un capo zingaro gli ha chiesto di aprire la chiesa e ha fatto entrare una ventina di uomini e donne che, uno alla volta, hanno giurato davanti al tabernacolo la fedeltà a lui. Gli zingari sono capaci di essere musulmani e inginocchiarsi di fronte a una foto di padre Pio. Nel loro sincretismo ci sono più porte di accesso all’invisibile e non vanno molto per il sottile. Il problema dell’invisibile e del suo rapporto con il visibile va molto al di là del miracolo eclatante e investe una fitta e misteriosa rete, percepita solo dalle persone più semplici e meno colte o riguadagnata solo con sforzi teologici intellettuali. Questo mondo di influssi benigni e maligni è frutto soltanto dell’immaginazione umana, che proietta i propri fantasmi nella scena reale o è una dimensione, destinata a restare nel crepuscolo, inattingibile alla scienza, ma verso la quale non si può chiudere la mente in modo categorico? 314 La credenza cristiana che Dio veda e ascolti tutto ci fa capire che essere osservati in ogni nostro gesto e spiati in ogni nostro pensiero non è necessariamente un’esperienza inquietante e negativa. Essa è invece per molti una necessità morale ed esistenziale, che li fa sentire protetti, li frena negli eccessi e nelle violenze, li fa confidare in un tribunale d’amore sempre aperto, giorno e notte. La crudeltà Bisogna arrivare in là con gli anni per scoprire gli uomini e sperimentare la ferocia e la doppiezza di cui siamo capaci senza versare una goccia di sangue e senza smettere un sorriso benevolo in ogni parola falsa che pronunciamo. Questa profonda violenza immorale sfugge ai codici e alle carceri e guasta per sempre una o più vite senza che il colpevole manifesti mai il più piccolo segno di rimorso e pensi mai di riparare i danni irreversibili che ha inferto. Una madre mi racconta che il marito, quando il loro bambino aveva sei mesi, abbandonò la casa e sparì senza dare più notizie. Dopo tre mesi arrivò una videocassetta in regalo al bambino. Sono passati quindici anni e quest’uomo si fa vivo una volta l’anno col figlio, per il quale versa duecento euro al mese, e non ha più motivato la sua fuga in nessun modo, né ha mai cercato di parlare con la madre, né ha mai manifestato il minimo pentimento, considerandosi un uomo libero. Rovinando due vite, e specialmente quella innocente del figlio, ha continuato a difendere la sua libertà minacciata, incapace di immedesimarsi in un’altra creatura, neanche se la più vicina a lui. Questa incapacità di mettersi dal punto di vista di un altro, di immedesimarsi nella condizione di un altro, è mille volte più diffusa di quanto non traspaia nei romanzi, nei quali ogni personaggio alla fine si mette in rapporto con tutti gli altri nel bene o nel male, pena l’uscita dalla storia. Ed è la crudeltà quotidiana. Per questa ragione i romanzi, anche più crudi, educano sempre alla relazione e al riconoscimento del punto di vista altrui, anche se si tratta di un assassino o di una canaglia, e svolgono un effetto sociale 315 molto forte in chi li legge, anche se non si parla di altro che di indifferenza, di violenza e di cattiveria. Nella realtà invece gli uomini, molto più delle donne, che pure sanno essere in questo crudeli, tagliano i rapporti per sempre, anche con coloro con cui hanno convissuto per decenni, persino con i propri figli, con una facilità e una brutalità che rende la vita molto più violenta e spietata di quanto non appaia dalle più compiaciute e morbose cronache nere dei giornali e dai romanzi più cinici. Difesa della libertà Io sono stato quasi un artista nella difesa della mia libertà, e questo ha avuto un prezzo molto alto che non sono riuscito a pagare fino in fondo, per cui sono sempre indebitato. Ma questo mi ha salvato dalla cattiveria che gli uomini avrebbero esercitato su di me, se mi fossi attentato a dipendere da qualcuno che nel fatto che io desideravo qualcosa poteva trovare la ragione per godere di negarmela. E insieme finora mi ha salvato dalla mia cattiveria inferta agli altri, che è peggiore, anche da un punto di vista egocentrico. Quando un amore finisce Quando una storia d’amore finisce la persona amata non solo non è più amata ma non è neanche più una persona. E d’improvviso scopre che a nulla valgono mesi o anni o decenni di convivenza e che per l’altro, diventato per lei un mostro senza accorgersene, tu non respiri più, non senti più, sei diventato una statua la cui esistenza le è indifferente proprio come se non ti avesse mai conosciuto. Almeno tre gli esempi tra i miei amici. Ciò getta una luce retroattiva sull’amore? Non potendo tollerare questa domanda, preferiamo pensare che questo comportamento faccia parte della natura generativa dell’amore, che crea una persona la quale, alla fine dell’amore, muore con l’amore stesso. 316 Non puoi amare senza voler toccare: un polso, il mento, un piede. Toccare il polso a una donna che ami ti fa cento volte più effetto che far sesso con quella che non ami. Ora e sempre Ogni giorno è il primo, perché è l’ultimo. Leggere un pensiero è diverso da scrivere un pensiero, a meno che non lo ripensi e rivivi dall’interno. Quello che abbiamo pensato una volta, anche dieci o vent’anni prima, se aveva un senso, prima o poi riaffiorerà identico, all’occasione scatenante. E avrà lo stesso senso. I significati cambiano, è il senso che resta. 10 marzo Pensieri fatti in Grecia Leggo i Diari di Kafka nella nave che da Ancona ci porta a Igomenitza. Per capire Kafka devi entrare in lui ma non per capire lui, ma il mondo lui compreso. Le studentesse ridono giocando a Tabou. Se entri in gioco erompe la tua natura in pubblico in modo irreversibile, come credi, ma invece si cicatrizza. Ogni esperienza collettiva richiede di non tornare più indietro. Soltanto dopo ti accorgi che in fondo era solo una prova. Perché puoi sempre tornare a colui che sei, se gli altri ti hanno sdoganato. Altrimenti ti sequestrano nei tuoi gesti e si basano su quelli. Il mare è di fuoco bianco, un ghiaccio bruciato dal sole. La vibrazione continua sotto la pianta dei piedi e, se ti stendi, sul dorso. 317 Le mani tremano e battono di continuo. Come un secondo cuore meccanico. Il mare vive tempi ondulanti, tu convivi per un po’ il suo tempo e ritorni al tuo battente, ed è questo che ti dà uno sfasamento della percezione. Esiste un rumore di fondo della natura, la madre di tutti i rumori, il rumore termico, che si potrebbe sfruttare per produrre energia, come alcuni scienziati stanno pensando di fare. Ci sono rumori che disturbano e basta, e altri che vanno studiati e adoperati a fin di bene. La natura non è vuoto di civiltà ma la civiltà stessa incorporata nell’anima vegetale di un luogo. L’orizzonte è tagliato. Il mare è disponibile e aperto al nostro passaggio. Non soffre mal di uomini. Quando non sei libero e non disponi di te, l’anima ti resta impigliata in una rete da cui cerchi di districarti. Un’esperienza salutare. Se navighi nel mare, il mare ti cresce dentro e, se dura vent’anni, ti crescono vent’anni. Ma la fortuna del tempo è che è sempre il primo giorno, e sei nell’avventura come fossi un neonato ma con tutte le capacità fisiche e morali di un adulto. Vi sono in Grecia luoghi (le Meteore, l’Olimpo, Delfi) che ispirano poeticamente e religiosamente. La loro forza ispirativa non deriva soltanto dalla storia di cui sono intrisi ma da una loro potenza e verità primigenia. Il poetico, il profetico, l’erotico, il religioso vi sono legati da prima che esistessero gli uomini. Merito degli uomini è di aver saputo ascoltare. La potenza del Mediterraneo nessun capitalismo potrà piegarla. La nuova economia rinascerà da qui. Incontro una donna seguace di Apollo che tutti gli anni a marzo viene a Delfi a pregare il dio. Non è la sola, fa parte di un movimento sincretico, che cerca i varchi del divino tra la Grecia e l’oriente. Letta dall’occidente, è la solita quieta follia che serpeggia 318 nelle menti deboli e generose. Tuttavia è evidente che gli dei non sono morti, se cammini dentro questa conca mistica a cielo aperto tra monti verdi e dentro un cielo sereno e perturbante. Non è per niente strano che questo luogo isolato e maestoso fosse detto l’omphalos, l’ombelico, del mondo. È l’esatta sensazione che provi oggi standoci dentro. Parlano di esalazioni chimiche, di gas allucinogeni che cominciano a sboccare fuori a marzo, da una frattura sotto il santuario, proprio sotto il tripode davanti al quale la Pizia profetava. Era il metano che la stordiva. Ingenui. La sacerdotessa aveva cinquant’anni e parlava in prima persona, bocca di Apollo, con il quale la notte giaceva. Ma poi era il sacerdote, il maschio, a comunicare ai fedeli le frasi oscure che con voce roca lei aveva emesso. Il potere politico della profezia lo gestiva lui. Come il prete maschio cristiano confessa le suore visionarie e profetiche, e decide se e come trasmetterne il messaggio, se permettere a santa Teresa d’Avila o santa Chiara di trasmettere al popolo la voce di Dio, secondo la volontà del potere maschile della chiesa. 12 marzo La lingua della donna mistica (santa Chiara) Il luogo comune psicoanalitico è che il linguaggio e la passione amorosa della donna mistica sia una sublimazione erotica. Mi domando invece se sia così naturale porre come sostanza della vita amorosa l’eros, adducendo a ragione che esso è indispensabile alla propagazione della specie. Può esserlo, però in completa indipendenza dall’amore. Perché non pensare allora che anche l’amore mistico sia in completa indipendenza dall’eros? Sia non già esso trasformazione di energie erotiche in energie spirituali, ma semmai qualcosa di più originario dell’eros, di non derivato, almeno nelle donne illuminate, come santa Chiara. 319 Chiara, in una lettera a Agnese, figlia del re di Boemia Ottocaro I, che rifiutò i pretendenti, tra i quali Federico II, e si ritirò in convento, scrive: “Quia cum amaveritis, casta estis, cum tetigeritis mundior efficemini, cum acceperitis virgo estis.” Ciò che mi colpisce in questa frase non è il ricorso al linguaggio erotico ma il suo capovolgimento: è proprio amando che diventerai casta, è proprio toccando che diventerai più pura, è proprio accogliendo, venendo posseduta, che diventerai vergine. L’amore spirituale verso Dio, superpotente, è il contrario dell’atto erotico, non una sua sublimazione. Un atto erotico infatti non si sublima, è quello che è, punto. In un’altra lettera ad Agnese Chiara parla di Dio che “in ethereo thalamo (…) sedet stellato solio gloriosus”. Il talamo di Dio! E parla dell’amplesso della virgo pauper con il Christus pauper: tu non concepisci, donna, di abbracciare fortemente, fisicamente, Cristo, senza che ti passi per la mente uno scandaloso o imbarazzante risvolto erotico? Allora non sei un’illuminata. Chiara, che è un’illuminata, dice che c’è un tesoro nascosto “in agro mundi et cordium humanorum”: visto che lo dice lei ci crediamo. Di Maria, Chiara scrive: “parvulo claustro sacri uteri contulit et gremio puellari gestavit”. Il piccolo chiostro dell’utero di Maria, il suo grembo di puella: il genio mistico è sempre genio poetico. Nella Visione dello specchio Chiara si vede succhiare il latte dalla “mammilla” di san Francesco, latte aureo e lucido nel quale si specchia. Maschile e femminile nell’amore mistico e spirituale si scambiano le parti, non si annullano. Chiara era una disobbediente, considerata una ribelle da chi non sopportò la sua inesorabile fermezza, capace di fare lo sciopero della fame. Nella fede c’è sempre la disobbedienza. 320 Topi di biblioteca, topi di chiesa, anche in voi c’è un tesoro nascosto, ma come bene, come profondamente. Chiara aveva quattordici anni quando incontrò Francesco, di ventisei anni, e per cinque anni colloquiò con lui, finché fu lui, contro ogni regola, a tagliarle i capelli. Noi non possiamo capire. “Vestitus cum nudo certare non posset”. Un uomo vestito non può combattere con uno nudo, perché perderebbe, in quanto offre la presa per essere scaraventato a terra mentre il nudo no. Spogliamoci per essere più forti. Velocità spirituali La gioia è dolore accelerato. Almeno ci si può provare. Resistere alla velocità della gioia. La poesia non è prosa eccitata, come la profezia non è un sapere entusiasmato, ma quando un uomo reprime e soffre a lungo ogni suo sentimento per una disciplina dolorosa che la vita gli impone, e per un dovere di conoscenza onesta, che però lo fa penare e lo umilia, e proprio non ne può più, e potrebbe morire, spegnersi dentro, ecco allora che può sboccare la poesia, come vampa di vita da disperati, come estremo guizzo per sopravvivere. Casomai è la buona prosa ad essere poesia rallentata. Il massimo rallentamento è l’amore, fino alla completa immobilità. Il sogno dell’amante è contemplare per sempre la persona amata. Dico persona, perché uomo o donna, essa è sempre persona quando è amata. Chi guarda gli amanti da fuori invece li vede muoversi incessantemente. La poesia può sembrare rallentamento, simile all’amore, in certi casi, come ne L’infinito, ma non lo è mai. Essa va sempre ad altissime 321 velocità, soltanto che ti dà punti di riferimento così lontani e vasti da farti sembrare che si sta muovendo piano. Essa invece è sempre transoceanica, e se ti senti sempre sullo stesso punto, è perché ha già fatto il giro del mondo. Noi non riusciamo a reggere la velocità, il ritmo, della verità. Oppure non andiamo a tempo. Perché abbiamo un corpo? O perché non abbiamo orecchio? Il viaggio è parabola dalla nascita alla morte. Lo choc però non è nella nascita ma nel ritorno. Non è naturale tornare indietro, come non è normale perdere anni vivendo. Delfi Lasciamo Delfi e ci troviamo dopo un’ora in una coda interminata di automobili che tornano dopo il week-end ad Atene. Dalla conca mistica con l’ombelico materno della Terra all’ingolfamento, al caos, alla sciatteria della periferia ateniese. Ci sono voluti 2500 anni per partire da Delfi ed arrivare ad Atene, da un paesaggio splendido e civile a una sporca autostrada con migliaia di scatole metalliche colorate nelle quali non respiriamo. Chiamalo progresso. Non sarebbe stato meglio il contrario? Nel 500 a.C. questo traffico deprimente e infernale e oggi l’arrivo a Delfi, l’abbraccio dell’ombelico del mondo, la parola ispirata, la comunità esilarata e in preda ai fumi di Apollo. Immaginiamo che a un greco dei tempi di Platone venisse mostrato il film del rientro ad Atene 2500 anni dopo e qualcuno gli dicesse: “Ecco come andrete a finire! Contenti?” Lasciano stare tutte le ideologie sul progresso e il regresso. Esaminiamo soltanto questo tratto: Delfi-Atene. Pensate che ci potrà mai credere? E come descriverà ai suoi contemporanei la sorte futura della sua civiltà così arretrata nella tecnologia, così scomoda e priva di complessità? Il cuore gli verrà meno. Immaginiamo ora che a un greco del 5028 venisse mostrato il filmato del nostro rientro, che stiamo girando in corriera per questo 322 scopo, attoniti dalla bruttezza della scena che ci ferisce. A cosa penserà? A un sacrificio barbaro per qualche dea meccanica, a un’espiazione per colpe orrende, a un esodo di massa da una catastrofe inimmaginabile? O si dirà soltanto: Poveri sfigati? Prima di entrare nel bunker sotto il deserto in cui vivrà. Stare con i ragazzi: rientrare alla sorgente. Tempi paralleli, nastri di vita simultanei: vivere la stessa situazione da prospettive anagrafiche lontane. L’ironia le fa entrare in gioco, tremando ai bordi. È un ottovolante che ti eccita con un misto di paura e piacere. Non è ancora un racconto, è un resoconto. Beh? Un racconto scientifico. Ci sono tanti sentimenti tra un uomo e una donna, che si declinano comunque al maschile e al femminile, senza poter essere, o voler essere, amore. Desideri il bene dell’altro con la serenità di chi ha scalato le cime e ha le dita dei piedi tagliati dal gelo. Non ti stupisci della tua fortuna e coltivi il giardino con le unghie. Tutto è perfettamente naturale. Ma non è naturale che lo sia. “È naturale ciò che succede sempre, o quasi sempre” (Aristotele, De partibus animalium, 633, B 27). Oggi è naturale ciò che succede di rado, quasi mai. Essendoci meno natura, essa è diventata un valore e, come tutti i valori umani, deve essere continuamente distrutta per essere continuamente rigenerata. Invecchio biologicamente e spiritualmente ringiovanisco. Ha ragione sant’Agostino. Però il contrasto brucia. Ci sono amicizie forti come amori. 13 marzo 323 Luoghi mistici Quello che ti dà il viaggio nella comunità non può dartelo ciò che leggi nella cabina. Il mondo si schiude come un fiore di magnolia macchiato e col suo profumo esige che lo visitiamo per diffonderne il polline. Le api oggi sono mondiali e il polline è globale: evoluzione della tecnica o della natura? Mentre a Berlino si sperimenta l’incontro dell’Ovest capitalistico e dell’Est consumista, si celebra con decenza la vittoria della democrazia sul totalitarismo, grazie alla comune umanità tedesca, l’esperienza della Grecia è l’incontro, dopo uno scontro ormai remoto di cui non rimane più traccia, degli dei dell’Olimpo e del Dio unico solo del cristianesimo ortodosso. Gli dei non sono scomparsi e abitano il loro soffio direttamente dalla terra e dal paesaggio mistico e ispirato. Delfi resta l’omphalos non perché sai che 2500 anni fa lo era. Ma lo era e lo è perché ispirato negli dei. Come una volta innamorati di una persona lo si resta sempre, in letargo finché il cuore non si risveglia, così una volta vissuti nei cuori, gli dei non spariranno mai più del tutto. Li sentivo respirare con naturalezza lungo la costa sotto l’Olimpo, a Delfi, a Micene, persino ad Epidauro, dove il teatro è soprattutto religioso, anche se già in forma razionale, in virtù dell’applicazione matematica dei tre fuochi acustici di Policleto il giovane. Un caso lampante di matematica votata alla religione, giacché essa non fa che potenziare, con una gran coscienza dell’intelligenza ordinatrice degli uomini, l’apertura della conca mistica. Non è più esattamente lo stesso però: Epidauro è già la fase rinascimentale della religione greca. Quando un popolo ha investito i suoi dolori, le sue speranze, è vissuto, morto e risorto dentro un mondo mitico, chiamato da presenze che nemmeno si è inventato, esse potranno ancora assisterti, se te lo meriti, e resteranno ad abitare nei luoghi in cui per 324 la prima volta sono state ascoltate, riconosciute e riverite. Ecco perché chi fa un viaggio in altre terre non può continuare ad adorarle mentalmente ma deve costruire un tempio, erigere un altare, segnare il nuovo paesaggio con la loro presenza. Le civiltà rispondono alle chiamate dei loro dei molto più di quanto non li inventino. Pensa a quanto Gerusalemme resti la piana mistica dentro cui la fede è nata. Ed è nata lì perché il suo luogo di civiltà solo lì poteva ascoltarla. Ecco perché una fede ha non soltanto una data di nascita ma anche un luogo, da cui nessuno potrà mai sradicarla. E non c’è cristiano che non senta che viene chiamato lì, non per commemorare ma per stare più vicino alla fonte. La fede in Gesù non sarebbe mai potuta nascere a Roma ma lì è stata trapiantata, col risultato che è stata asservita al potere istituzionale. E questa macchia imperiale, di essere romana, resta impressa nella chiesa ancora oggi. La terra è già ispirata dal divino, già ubriaca di dei, prima che i primi uomini si siano messi a credere in una religione. La terra aveva già una fede, era profetica. Oppure era prosaica, giuridica, pratica. Quando l’occidente sta contando tutte le sue ricchezze e vuole farle fruttare, in questo tempo di crisi economica disastrosa, persino l’oro della povertà nelle sue mani rapaci diventa la preda da spolpare. Allora il viaggio, con pochi mezzi, se possibile, e pochi vestiti, non è né fuga né soltanto esplorazione ma libertà di riscoprire le difese mistiche e potenti della terra. La terra datrice di frutti è da sempre civiltà, da molto prima che l’uomo comparisse sulla terra, e molto più ampia di quella umana, che essa stessa ha ispirato e prodotto, abbracciandola e facendola sgorgare da sé. Tutto è dentro la natura. Paure 325 La paura di soffrire è molto peggio del dolore, non solo perché è paura di non riuscire ad affrontarlo ma perché dà per scontato che è contro di esso la battaglia da fare. Tra le vite umane c’è una sfasatura temporale e anagrafica, per cui una donna si ritrova matura nel momento sbagliato, quando incontra magari un ragazzo che, in un’altra vita possibile, ormai impossibile, potrebbe diventare il suo amante, il suo compagno di viaggio. Si sta dentro lo stesso film soltanto per un momento perché si tratta in realtà di due film diversi che combaciano brevemente per poi continuare a sviluppare la loro pellicola Allora vedi con evidenza che hai una vita sola mentre avresti le energie per almeno una decina e conosci segreti che sarebbero preziosi inseriti nel film che non sta a te vivere. Eppure c’è un lampo di agnizione, di riconoscimento, nel senso che al volo la donna riesce a passare da un film all’altro l’anello d’oro che il ragazzo seppellirà, dimenticandoselo dopo pochi giorni, e in un momento imprevisto si accorgerà che pagliuzze d’oro sono sparse nel mattino e ricorderà d’improvviso perché. Il sadismo intrinseco alla vita, la sua asincronia, è la condizione per sognare la felicità. Dialogo sul sesso a tradimento “Le cose stanno così,” disse, “una donna può sopportare che il suo uomo faccia sesso con un’altra donna ma non il desiderio mentale.” “Sì,” rispose lui, “ma se un uomo si ferma per tempo e rinuncia, pur desiderando, non compie un atto d’amore?” “Per quale delle due donne?” disse lei. “Per entrambe,” ammise l’uomo. “E appunto questo è il tradimento,” disse la donna. Dialogo sulla rinuncia a tradire 326 L’uomo non disse che quando poi compì quest’atto di rinuncia, si trovò solo davanti alla morte. La sua. “Bene,” aggiunse la donna, che aveva capito dal suo sguardo, “la donna allora viene tradita perché rivela all’uomo la morte.” “Sì,” disse l’uomo, “prima gli rivela la vita, e poi gli rivela la morte, così l’uomo tenta di scappare.” “E cosa gli rivela l’altra?” aggiunse lei, ben sapendo la risposta. “Con l’altra mi sento immortale,” disse lui. La donna nascose il suo disprezzo, ricordando la ragione per la quale gli uomini restano infantili, e si convinse ancora di più che il desiderio mentale è molto peggio. Almeno col sesso finisce tutto lì. Non sapeva che per l’uomo il sesso è talmente diverso che nella donna da preferire di essere immortale per un minuto secondo, e il restante tempo sognarlo. Non sapeva che l’uomo fa sesso coi sogni. Erano in fondo due religioni che continuavano a combattersi: la donna credeva nel dio della terra, cristiana o no che fosse, e l’uomo negli dei del cielo. Postilla Ogni donna e ogni uomo essendo unici, a rigore il tradimento non è possibile, perché colei che ami, la ami nella sua forma unica, inconfondibile con quella di un’altra qualunque donna. E in più ogni amore è completamente diverso dall’altro perché è l’amore che inventa e genera la donna, o l’uomo amanti. Si possono così amare due donne o due uomini senza nessuna difficoltà, anzi è una condizione che, se accade, è a tal punto naturale che non ti senti in colpa e non ti vergogni, non perché sei uno spudorato ma perché i due amori non si assomigliano minimamente, non hanno nulla in comune, non interferiscono in nessun punto nel piano spirituale mentre in quello affettivo, sociale, pratico si fanno guerra mortale e senza scampo. Stando così le cose, il conflitto nasce dal fatto che tu generi un secondo amore, come fosse una moglie o un marito illegittimi fuori del matrimonio o del patto di coppia. Essendo così complicato e 327 quasi sovrumano che due esseri convivano a lungo insieme, il minimo che si può chiedere e di non andare ad aggravare le complicazioni sempre presenti e delicate con un altro amore, visto che ci si sopporta già con gran fatica, pur nella convivenza più armonica, nata dall’amore e in esso proseguente e si è entrambi di continuo tentati da evasioni e compensi esterni alle pene e ai fastidi inevitabili in ogni unione di lunga durata. La freccia Dio gli ha detto: tu sei la mia freccia. Naturale che tu debba soffrire molto, religiosamente, profeticamente, eroticamente, poeticamente. Non sei tu che la scagli ma essa ti attraversa per diventare parola di vita per gli altri. 20 marzo Smacco del desiderio Se confrontiamo situazioni diverse nelle quali è in gioco il desiderio, ci accorgiamo che agisce sempre nella natura umana una specie di smacco, di disviamento, di trappola, di deviazione, per cui ciò che desideriamo è reso impossibile il più delle volte non dai fatti e dalle circostanze ma dallo stesso desiderio. Così quando crediamo profondamente nel bene che ci verrà da qualcuno o da una certa situazione, tutto concorrerà perché non riusciamo a realizzarlo. Mentre appena siamo disincantati, il bene un tempo sperato, e oggi indifferente, ci viene incontro con le sue gambette disadorne e ci si offre spoglio di fascino e banale, al punto che subito pensiamo ad altro. Donne vincenti e castratrici È presto per studiare come nell’animo femminile, dopo quel salto della siepe che molte donne hanno compiuto, i tratti del carattere antico e naturale continuino ad agire nella nuova sagoma 328 indipendente, pragmatica e dinamica, che molte di loro stanno assumendo, con la stessa energia e diligenza con le quali si votavano un tempo a un uomo totale o a un mestiere anonimo. La passione per la forma, la serenità di un compito, svolto indipendentemente dagli scopi e soltanto per il ginnico benessere che trasmette, si rinviene in molte direttrici di scuole, di poste, di industrie, di uffici. Esse non hanno più padri, patrocinanti, protettori, santi in paradiso, padroni, ma non vogliono diventare a loro volta le matrone, le dispensatrici di cariche, le badesse, le baronesse. Soltanto agire, come frecce e caricatori ben oliati, nei loro tailleur tesi, nelle loro plastiche facciali, nei loro sorrisi calmi e vincenti. È la forma armata, aggressiva della verginità, giacché le donne non conquistano il potere per portare a letto i dipendenti ma per castrare i sogni melmosi degli uomini. L’impotenza degli uomini, che tante volte oggi si riscontra, si lega al desiderio di verginità armata delle donne, trapiantato nella società civile e fine a se stesso. Rapporti di potere omosessuali Nel rapporto di potere personale maschile, invece, per esempio nell’università o nell’esercito o nella chiesa, noi troviamo quasi sempre una componente omosessuale, che è secreta dalla stessa dipendenza totale di un uomo verso il suo superiore, che viene adulato, blandito, corteggiato. Ricordo compagni di università che aspettavano ansiosamente alla stazione l’arrivo del loro professore, quello cioè che avrebbe procurato loro il posto, e un colonnello dell’esercito che passeggiava nervosamente sul piazzale della caserma, profumato di lavanda, aspettando il generale con l’emozione e l’insicurezza di un appuntamento amoroso. Ciò dipende dal fatto che, mettendosi nelle mani di un altro e sotto i suoi piedi, si compie un rituale di sottomissione che svirilisce del tutto l’uomo, lo rende eunuco finché la carica conquistata non gli 329 consentirà di esercitare la sua violenza sessuale simbolica su un altro sfortunato pretendente. La salute sociale e democratica di una repubblica dipende strettamente dalla sua salute erotica, cioè dalla limpida vitalità dei moti del corpo, del cuore e della mente. Soltanto allora sopravvive un popolo. Confessionale Uno studente mi mostra i documenti che attestano tutte le coperture esercitate dalla chiesa per proteggere i pedofili dalla giustizia civile. Con la scusa del segreto confessionale, essi impediscono che coloro che si macchiano di una violenza imperdonabile vengano punti come meritano. Vedendo i reati come peccati si toglie a Cesare ciò che è di Cesare e soprattutto si toglie a Dio ciò che è di Dio. Chi sei tu infatti per decidere chi deve essere privilegiato di fronte alla legge comune? Il segreto del confessionale, questa invenzione della chiesa cattolica, dà al prete un potere straordinario sulle anime ma anche sui corpi civili dei fedeli. I politici, i furfanti della finanza e delle banche, i potenti della terra, che lo sanno benissimo, si guardano bene dal confessare loro altro da desideri sessuali adulterini o vaghe menzogne ed egoismi generici. Coraggio da Cristo Io leggo i Vangeli di continuo e me ne viene un gran coraggio, di fronte al quale criticare i mali della chiesa è così naturale che non si risveglia neanche un’ombra del senso di colpa infantile. Perché Cristo dà coraggio? Tutta la sua vita, i suoi atti e le sue parole sono all’insegna dell’audacia. Disciplina dello scopo 330 Uno scopo dal quale ci ripromettiamo un piacere e una gratificazione nasce dal lavoro paziente e ingrato, da migliaia di ore nelle quali soffriamo in solitudine e senza nessun appagamento, anzi odiando quello che facciamo. Mettendo in atto cioè, in modo sistematico e disciplinato, gli stati contrari rispetto a quello che desideriamo. Oltre al fatto che non è detto che, così facendo, conseguiremo quello che ci attendiamo, il conseguimento dello scopo ci soddisfa in modo breve e peregrino, cosicché alla fine le ore più belle sono state esattamente quelle in cui più abbiamo penato nell’anonimato. Mentre il piacere finale si capovolge nel vuoto, il dolore passato rinasce al ricordo come piacere, in un inganno incrociato da cui non riusciamo a liberarci. Entriamo così nell’abbraccio del pensiero di Schopenhauer, che tuttavia era Schopenhauer, cioè colui che ha stampato il suo nome nei secoli a venire e ha compiuto un’opera grandiosa di filtraggio e strecciamento della vita, che ha riversato in modo organico nel suo condensato filosofico. Ma un normale passeggero della terra, il quale sperimenta la stessa fatica, lo stesso disinganno senza che nessuno lo sappia non dovrebbe a maggior ragione lamentarsene? Per una strana meccanica delle cose, no, non dovrà. Egli sarà addirittura più felice. Infatti la sua dignità sarà maggiore perché non peserà su di lui il sospetto di aver caricato le tinte e montato il palcoscenico per dare il suo nome alla verità. Soldato nudo della vita, dalla vita stessa sarà ricompensato con i suoi doni più segreti. Rivelazione sociale Sebbene si resti convinti che solo nella solitudine e nella meditazione si scopra il proprio animo, le nostre qualità e i nostri vizi vengono fuori davvero soltanto quando siamo dentro fino al collo nel commercio sociale, in un lavoro, in uno sport, in un gioco. Quando conviviamo a lungo, per mesi, per anni, con persone dalle quali non ci possiamo disimpegnare. Solo così viene fuori, a nostro dispetto, la nostra natura. Ciò che noi siamo, senza volerlo e senza 331 poterlo cambiare. Non il nostro io voluto, ma il nostro io avuto in sorte. 27 marzo Rinuncia Qual è la differenza tra una suora e una donna sposata? La suora ha rinunciato a tutti gli uomini, la donna sposata a tutti tranne uno. Non so quale prova sia più dura. Racconto del Volto che trascolora Un giorno viaggiava in autostrada di notte, sorpassando una lunga serie di autotreni. Il cielo era stellato, benché sempre opaco per l’inquinamento industriale, e lui di colpo si sentì pronunciare la frase: “Dio mi odia.” Una sensazione netta, disgustosa, che aveva i crismi dell’autenticità come un incubo che ci stacca del tutto dalla veglia reale. Lo spavento che lo prese ad ascoltare questa frase durò come un lungo momento di panico, quando sei sprofondato in una seconda visione, che sai assurda, e che tuttavia ti prende per il collo e ti costringe con prepotenza a dirti: Tu sei vera. Piano piano si riprese, anche perché si disse che non era possibile, aveva pur sempre una certa stima di sé ed era poco incline ai sensi di colpa da quando aveva quarant’anni. Prima ne aveva nutriti a sufficienza e, avendo verificato che non solo questa costante umiltà è apprezzata dagli altri uomini con scetticismo ma lascia anche in apparenza del tutto indifferenti le forze superne, ne concluse che doveva essere una forma superstite di ipocrisia, di cui non si accorgeva fino in fondo. Soltanto al casello di Rimini si riprese del tutto, pur non perdendo mai la lucidità per guidare. Mai aveva dimenticato di avere cinque 332 figli e una moglie amatissimi e che, comunque la pensassero in cielo, ere legato a loro in modo indissolubile. Guidava lungo l’Adriatica quando gli furono chiare le seguenti cose: 1) Dio ha sempre taciuto e tacerà per sempre, anche quando ne avrebbe avuto estremo bisogno. Casomai interverrà quando e come lo deciderà lui, se esiste. 2) Non c’è alcuna ragione che un Essere superiore odi un singolo mortale. 3) Più desideri qualcosa e più ti viene negato. In questo Dio si comporta come la natura. Contento di queste riflessioni tornò a casa, del tutto rasserenato, maledicendo le autostrade italiane, strade di guerra troppo pericolose per un uomo solo. Già sotto casa, e pregustando le gioie della famiglia, gli venne da dire: Dio mi ama. Il gran Volto invisibile trascolorava in base alle situazioni che viveva, del tutto autosufficiente rispetto a lui e, nello stesso tempo, del tutto dipendente da lui. Magia verbale Amicizia, amore, ammirazione: c’è qualche ragione per cui queste tre parole siano legate dall’avere le stesse due prime lettere? Non bisogna eccedere in bontà Non bisogna essere troppo buoni, troppo onesti, troppo corretti, troppo ineccepibili, non soltanto perché l’eccesso, persino del bene, perturba le relazioni umane, creando negli altri sensi di colpa e invidie violente, ma anche perché, così procedendo, benché in perfetta sincerità, e anzi proprio per questo, si esaspera la sproporzione tra la virtù e il compenso, tra il merito e la retribuzione, e si finisce per nutrire una visione delusa e amara delle cose, nella quale ci sentiamo sempre creditori. Anche per questo, se fai il bene, non devi aspettarti niente. 333 Non c’è il vuoto tra il bene e il male. Per questo Cristo Dice: O con me o contro di me. Perché se non sei con Lui diventi violento contro qualcuno. È meglio attenersi a un grado medio di generosità e di rinuncia del bene proprio, perché così si ristabilisce una giustizia approssimativa e aggiustata alla meglio, sia pure, ma meno dissonante con la natura umana, e in fondo possiamo dirci che se non abbiamo conseguito qualcosa e perché non ne siamo degni. Se invece forzi la natura, ecco dal bene scoppiano violenze ingovernabili. Sorrido sempre per scusarmi di quello di male che sono sul punto di pensare degli altri. 29 marzo La costruzione della mente nel volto Mentre guardo persone e cose me le immagino di continuo. E alla fine la mia immaginazione definisce il cuore di una persona più che se mi attenessi ai suoi fatti e ai suoi detti. Guardo le foto di un viaggio in cui mi trovo in mezzo a una compagnia di studenti. Non mi riconosco. Non mi sono mai riconosciuto nelle foto fin da quando ero bambino. Col tempo ha maturato la capacità di fingere di riconoscermi e di nascondere il mio imbarazzo, che un tempo era addirittura panico, la scoperta dell’evidente mancanza di corrispondenza tra il volto e l’anima. Non è questione di bellezza e di bruttezza. È che la situazione descritta dall’esterno, e persino fotografata o filmata, non corrisponde mai a quella vissuta dall’interno. Molti sono capaci di andare dal fuori al dentro, ma molti altri sono come me, vanno dal dentro al fuori e pretendono che la realtà si lasci plasmare dai nostri sentimenti e dalla nostra prospettiva interiore. 334 Quando ti specchi da ragazzo ti trovi sempre brutto perché pretendi di vedere allo specchio la tua anima. Shakespeare scrive nel Macbeth, I: “There’s no art to find the mind’s construction in the face”. Non c’è modo di scoprire la costruzione della mente nel volto. Esso nasconde quanto esprime non solo agli occhi degli altri ma anche davanti a noi stessi che guardiamo il volto irradiato dal sentimento che proviamo, dalla costruzione della mente che conosciamo, mentre molto più difficile, per non dire impossibile, è per l’altro passare dal volto a ciò che significa. Accettare il proprio volto vuol dire accettare di essere visti, e di essere reali nella misura in cui gli altri ci perpecipiscono, e nei modi con i quali ci guardano e ci conoscono. È un atteggiamento sano ma che rinuncia a tener viva la tensione tra la vera onesta natura e la sua espressione. Non parlo di apparenze, perché ciò che sembriamo agli altri è reale, realissimo, mentre ciò che non appare è, sì, vero ma sempre aspira a candidarsi alla realtà con un moto che tende all’infinito e di cui dobbiamo accettare le povere e provvisorie tappe di foto in foto, di percezione in percezione. Da ragazzi ci si senti guardati da tutti. Perdendo il pudore, da persone mature, si guardano tutti in faccia e non ci si cura di come gli altri ci vedono, sapendo con quale spirito noi guardiamo gli altri. Guardo le foto che mi ritraggono e vedo centinaia di facce diverse, nessuna delle quali sono io. Vedere che le persone più care invece mi riconoscono facilmente in ognuna mi conforta e mi preoccupa allo stesso tempo. Se penso che un giorno saremo ricordati attraverso delle foto vorrei buttarle via tutte. Tuttavia quelle immagini sono nostre senza che lo vogliamo e lo sappiamo, come la voce, lo sguardo, il sogno. E quindi più intimamente parlano di noi. Di un noi che ci è ignoto. Ma ciò che davvero preoccupa è che lo stesso avviene per la nostra anima. Tutti conservano un’immagine della nostra anima, scattata in 335 un incontro fuggevole o in una lunga dimestichezza, e anche quella immagine non corrisponde affatto alla nostra? Giovanni Giudici scrive, nell’Agenda del 1960, che il nostro errore di superbia è di volere il mondo a nostra immagine e somiglianza. Questo è un pensiero da cui non puoi né vuoi più liberarti, pieno di conseguenze gravi e necessarie, anche in vista dell’azione. L’altra faccia di questo errore è quello di pretendere di conoscere quale è la nostra immagine di anima, mentre noi stessi non lo sappiamo, e forse proprio chi ci ama è in grado di salvarci perché sa chi siamo più di noi. Ne consegue che la superbia è pretendere di sapere chi siamo, e il desiderio di volere il mondo a nostra immagine è già una superbia seconda e di riflesso. Benjamin scrive che soltanto chi ci ama in modo impossibile ci conosce veramente. Ma allora non può salvarci, anche se è solo questo che lo interessa. 30 marzo Non ci sarà mai risposta. Ma tu sei in grado di tenere in tensione lo stesso la domanda? 1 aprile Arriva un giorno l’età in cui essere giovani diventa un merito. 6 aprile La legge e l’amore Se Dio è la Legge, Cristo ha cercato di ammorbidire il Padre con l’amore, senza oltrepassare la Legge. Se Dio si sente amato fino all’ultimo, allora forse imparerà ad amare, prendendo ad esempio il 336 Figlio. E che c’entra allora lo Spirito Santo? Chiunque ama sa che tra lui (o lei) e la persona amata esiste sempre un terzo, presente in entrambi, l’amore stesso. Guarda il padre che ha avuto in sorte un uomo e ne ricaverai l’idea che ha di Dio. Questo luogo comune della vulgata psicoanalitica è del tutto infondato. Basta vedere il mio caso: ho avuto un padre stupendo, che ho sempre ammirato e che non ha mai esercitato alcuna violenza fisica o morale su di me, pur avendo una personalità forte ed esuberante, capacissima, volendo, di dominarmi negli anni cruciali. Mi ha sempre rispettato con una delicatezza persino esagerata, e quasi con riverenza, costruendo la mia personalità sopra un amore di fondo solido e puro. E io non ho mai visto Dio in questo modo, semmai come una figura autoritaria, veterotestamentaria e comunque poco amabile (in senso mondano). Siamo tutti due. L’importante è armonizzare le due personalità che ci troviamo. E farle convergere verso il terzo, che in realtà è il primo: l’anima. Per questo l’intuizione del mito del Fedro è folgorante. L’auriga guida un carro con due cavalli alati, uno nero e uno bianco. Entrambi hanno ragioni profonde di galoppare, l’uno verso il basso e l’altro verso l’alto. Non rappresentano il male e il bene, ma due forze dell’anima indispensabili alla vita. Chi è allora l’auriga? Sono io che devo giostrare tra l’anima bassa (concupiscibile e irascibile) e l’anima alta (razionale)? Ma allora io non sarei l’anima stessa, mentre proprio Platone per primo ci ha identificati nel Fedone, pur oscillando in questo mistero evidente, perché nello stesso dialogo ha detto che noi dobbiamo scollare, schiodare, spiccicare l’anima dal corpo. E quindi io non sarei più la mia anima, ma il suo liberatore. L’auriga, e soltanto lui, è allora l’anima stessa? No, perché c’è l’anima anche nel cavallo nero, oltreché nel cavallo bianco. Allora non siamo due, siamo tre. Per questo è così difficile la corsa: siamo chi guida e chi è guidato. L’antipatico e severo T.S. Eliot conosce i misteri orfici quanto gli adolescenti. Il suo verso su aprile, “il più crudele dei mesi”, benché ripetuto ben oltre il lecito, non si logora e non disgusta, ogni volta che torna primavera, e mescola memoria e desiderio, esattamente come dice lui. E vorrei avere vent’anni e mi fa spavento non godere 337 la giovinezza che non ho più e che quando avevo soffrivo come una malattia, mentre tutto si impollina e noi uomini non riusciamo a essere mai più pienamente né l’ape né il fiore. 6 aprile Microgravità Si sperimentano dei vuoti dentro cui veniamo risucchiati all’improvviso, senza dolore e in un stato superficiale e tranquillo, addirittura spensierato, mentre in realtà il gorgo del non senso, il mulinello del vuoto già ci sta prendendo per le gambe. Siamo seduti in punta a una sedia e precipitiamo, senza opporci e senza neanche stare male, mentre un panico troppo leggero per metterci davvero in crisi ci corre per la schiena come una promessa di morte finta. Finta come è la nostra vita. Allora vorremmo un’unione spirituale profonda con qualcuno, un libro importante su cui passare il pomeriggio con stoicismo convinto, un’invenzione qualsiasi che abbia un senso. Ma il fatto stesso che ci rendiamo conto che sarebbe appunto un’invenzione nostra ci paralizza. Pian piano ci abituiamo alla microgravità e impariamo a muoverci, con un lento e innaturale dolore, anch’esso leggero quanto basta per non reagire come si dovrebbe, e cerchiamo di pensare a una strategia di salvezza, benché nessuno attenti alla nostra vita come tante, né piacevole né angosciante. Ci torna in mente la vanità nostra e degli amici, e non troviamo di meglio che sentire sporca l’anima nostra, ambigua la nostra natura, piuttosto che lamentarci come sempre sull’indifferenza altrui. E pian piano ci rianimiamo al pensiero che non subito, ma tra non molto, potremo cercare al telefono un amico vero. Così, pensare a un altro diventa un aiuto concreto per noi. E non è la mano nostra a salvarci, ma la mano che diamo a colui che non si protende verso di noi, perché non sa cosa stiamo vivendo, a salvarci entrambi, o almeno a darci la sensazione di un possibile tema della salvezza. Meline Haushofer 338 Ho cominciato a leggere La parete di Meline Haushofer e ho pensato che in certi anni (’50, ’60) per certe donne, e in certi ambiti mitteleuropei era diventato obbligatorio uno stile disadorno, spoglio e denotativo, sia per la vita al grado zero al quale l’animo di molte di loro, dopo il nazismo, si era ridotto sia nella convinzione che una donna scrittrice potesse affermarsi soltanto essendo più coerentemente inesorabile di qualunque scrittore maschio. Lo scrittore maschio raccontava le sue terribili angosce, il gorgo del suo nichilismo, la tremenda assenza di Dio e, con lui o senza lui, di ogni speranza e possibile gioia e riscatto? Bene, lo scrittore femmina avrebbe attinto alla capacità delle donne di tenere ferma la posizione all’infinito, senza mai cedere, e di raccontare una vita assolutamente priva di senso senza alcun coinvolgimento emotivo e passionale. La donna arida, algida, senza più sangue, la donna elementare che si sveglia, si lava, cammina, cucina, pulisce i piatti, guarda il gatto, sistema la concimaia, taglia la legna, guarda, senza che questo abbia senso. E senza che anche il dolore, la malattia, la disperazione, la noia, il non senso abbiano un senso. La Hausofer ha creato così l’anti donna, prima o poi oggetto di culto esoterico presso quei lettori disposti ad ammirare ogni estremismo, anche il più prosaico. Alla fine il libro si carica di un fascino anch’esso normale e insensato e tutto finisce come è cominciato, con la stessa crudele e anestetica determinazione, mentre la sua vita vera di certo è stata ben diversa. Una scrittura del cilicio laico, della mortificazione senza fede, dell’ascesi senza speranza. Una religione di se stessa, egocentrica e neutra, nella cella solitaria, divisa dal mondo da una parete invisibile e invalicabile. Per me è questa anche l’anti letteratura. Regressione Troppi uomini, per quanto bravi e competenti nella loro professione, quando diventano lettori regrediscono all’infanzia. 339 Bevono tutto a bocca aperta e si lasciano ingannare nei modi più squallidi. Perché? La questione va al di là della letteratura: sotto sotto amano essere imbrogliati e presi in giro, su un piano simbolico e senza danno economico, e con il libro credono di poterlo fare senza conseguenze. Essi pensano: Guarda quanto si dà da fare questo burattino per farmi passare due ore senza pensieri. Sono anch’io un re col suo giullare. Rimbaud in Bonnefoy Yves Bonnefoy ha pubblicato un libro su Rimbaud, nel quale raccoglie gli scritti di cinquant’anni. La sua non è un’esplorazione articolata delle passioni dell’anima, benché possa sembrarlo, perché le passioni hanno un carattere universale, benché nella diversa intensità e nei più vari intrecci. Invece la sua ricerca di senso investe l’essere individuale, la natura unica dello scrittore indagato e rivissuto, il suo volto essenziale nella sua finitudine, ciò che ha di veramente proprio. Questo vuol dire forse andare oltre la gloriosa tradizione francese dei cosiddetti moralisti, e semmai verso l’incontro con il Je che io non sono. Non già attratto dalla ipostasi dell’Altro, seduzione di tanta filosofia illuminante ma legata, contro i propri programmi, al genere e alla specie, da Buber a Lévinas, bensì ascoltando un essere del tutto concreto: Rimbaud e nessun altro, Verlaine e nessun altro. Attraverso la conoscenza individuale dell’immaginazione poetica persino l’impossibile Madame Rimbaud acquista un’importanza creaturale che in tanti le hanno negato. Con questa alienazione amorosa il suo libro dice tutto anche di Bonnefoy. L’amour est à réinventer, scrive Rimbaud, con la sua consueta audacia. Ma l’amore può essere conforme solo alla nostra natura. La nostra natura allora è da reinventare. 340 Rimbaud chiama Cristo “le voleur des énergies”, eppure alla audacia di chi assomiglia la sua più che a quella di chiunque altro? In Bonnefoy la poesia prende il posto della religione, ma al modo del vero credente, mai di una chiesa al potere. Inseguire le evocazioni d’armonia “c’est manquer la raison la plus haute du poème, qui est de changer la vie, concrètement, et non d’imaginer l’irréalisable.” Lo scopo della poesia è sempre stato per Rimbaud quello di cambiare vita e la sorgente della sua ispirazione più nativa è stata la carità, come si vede dal suo tentativo fallito di cambiare la vita del debole e ambiguo Verlaine, che è stato per altro lui a voler sedurre. Il fallimento di questi due scopi ha generato la sua indifferenza verso la sua propria opera e la scelta di una vita concreta, nel commercio, nel viaggio, lontano dai balconi d’Europa. Tutte le critiche rivolte al cristianesimo si rivolgono alla sua mancanza d’amore e tutta la sua passione per la lumière Nature si affidano alla sua spontanea carica amorosa. Così scrive Bonnefoy e io sono d’accordo. Per tutta la poesia vera è così. Rimbaud, scrive Bonnefoy, ha spesso provocato Dio, incontrando sempre il suo silenzio. Sei stato ben duro, con lui. Va bene, lo hai fatto diventare Rimbaud, ma lui non lo sapeva. Verlaine fa dire a Rimbaud, in Crimen amoris: “Je serai celui-là qui créera Dieu.” 15 aprile Il canonico Harold Bloom Harold Bloom, amato dalle masse colte per le sue classifiche letterarie mondiali, delle quali è stato costretto a pentirsi, dice in un’intervista di preferire gli scrittori che “espandono la nostra 341 coscienza senza deformarla”, come Omero, Dante, Cervantes, Shakespeare, fino a Proust e Oscar Wilde. L’espressione è potente nella sua semplicità. Ci sono scrittori che rimandano alle passioni, alle idee e ai fatti che chiunque può condividere, e che può apprezzare anche meglio oltre l’orizzonte dei loro tempi e della loro cultura, e scrittori che stilizzano la vita, imprimono su di essa un marchio fortemente personale, le impediscono di espandersi a modo suo, perché sempre costretta dentro la loro personalità prepotente. Joyce ad esempio torna alla freschezza della vita com’è, ma facendo un’ampia circonferenza e sottoponendola a un ciclo di lavanderia così sofisticato che essa riconquista una freschezza di secondo grado, sdoppiata e quasi maniacale, eppure viva. Kafka imprime il suo sigillo su ogni fatto e detto della realtà che sperimenta ed è molto difficile che qualcuno possa dire: “È esattamente quello che è capitato anche a me.” E tuttavia Kafka ti cambia e in certi casi diventa addirittura indispensabile a vivere. Peccato che Bloom, che considera Leopardi “grandissimo” non conosca lo Zibaldone, in corso di traduzione in inglese, perché vi troverebbe l’esempio perfetto in prosa filosofica delle sue predilezioni. Crede di fargli un gran complimento paragonandolo a Keats, a Shelley, a Woordswoth, perché non lo conosce abbastanza. Una classifica di valore è una delle offerte più allettanti al bisogno di entusiasmarsi degli esseri umani, perché ne viene legittimato e rassicurato matematicamente. Non intendo parlare della funzione commerciale delle classifiche dei libri più venduti, che sortiscono appunto l’effetto di farli vendere ancora di più, ma della gratificazione intima che dà la possibilità di stabilire una gerarchia di grandezze, dalla stima all’ammirazione, fino a toccare il culmine dell’adorazione beata. Nello stesso ridicolo difetto sono caduto anch’io poco fa. Il malcostume di definire grandi o massimi tutti i poeti italiani contemporanei che abbiano raggiunto una dignità artistica difendibile esprime l’ingenuo desiderio dello studioso di un 342 abbandono a un fervore ingenuo e liberatorio, dopo la continua autocensura filologica e prudenza acrobatica alle quali si dispone per timore di critiche e attacchi. Si può dire che un poeta è più o altrettanto o meno grande di un altro? Sì, ma soltanto quando uno dei due vale poco o nulla e lo si confronta solo per lasciarlo soccombere in modo palese nella sfida. Ma diventa impossibile quando tutti e due valgono e ciascuno persegue una rotta veritiera e profonda. Attaccamento alle cose In questi giorni ho dovuto liberare con mia sorella l’appartamento di Recanati dei nonni, che mia madre è stata costretta a mettere in vendita, nella malinconia generale, ed è stato fatale riconoscere il mio peccaminoso attaccamento alle cose: libri, quadri, foto, lettere, persino mozziconi di sharpnel, veli ricamati da messa, casi clinici di mio nonno medico, tessere fasciste e della croce rossa, cartoline di persone scomparse. Ancora una volta sono stato messo alla prova: liberarmi di tutto o conservare e trasmettere ai figli, ai futuri, ai posteri? Disseminare radio dell’inizio del Novecento e almanacchi, riviste francesi per farsi un vestito da sola e centrini di pizzo nelle bancarelle, bussare alla porta di istituzioni che non sanno dove mettere i libri e cercare archivi della memoria dove nascondere in faldoni i documenti di una vita? Ho deciso alla fine che io posso liberarmi delle mie robe ma non di quelle di un altro, che per giunta non esiste più su questa terra. E così ho chiuso tutto in scatoloni che ho messo in garage perché, come mi ha detto Eugenio De Signoribus una volta, non possiamo “decretare la scomparsa definitiva di una persona sulla terra”. Tanto più che i miei nonni, medico lui e insegnante di storia dell’arte lei, che molti scritti familiari e privati ci ha lasciato, non hanno mai pubblicato. È il dovere dei vivi perpetuare la vita dei morti, perché, non potendo noi sapere con assoluta certezza se Dio esiste, essi scomparirebbero per sempre. 343 Dio è assolutamente certo che noi esistiamo, il che è un fatto incontrovertibile, noi invece non sappiamo se esiste lui. Ma come potrebbe essere Dio se fosse addirittura meno certo di noi? Se non esistesse, non potrebbe comunque essere Dio a non esistere. Vedi com’è profonda la fede razionale di Anselmo: dicendo Dio tu dici per forza che esiste. Allora non dire mai Dio se ci riesci. Vedi che non te lo puoi levare dalla mente. Perché? Il problema di liberarmi dalla roba mia tuttavia sussiste. Semplificare la vita, ridurla al minimo per essere libero. Lasciare scritto che quando non ci sarò più potranno, se vorranno, liberarsi di tutto ciò che mi riguarda per restare solo con me, perché io considero tutto come un fascio di feticci che mi nascondono. Ma gli uomini devono toccare, guardare, odorare. Perché all’Aquila, dopo il terremoto, qualche giovane donna ha raccolto in una tenda tutte le reliquie, le statue amputate, i quadri sventrati, i turiboli ammaccati, i paramenti sacri? Vogliamo dire forse che sono tutti idolatri e feticisti, che avrebbero dovuto rivolgersi al Dio invisibile e approfittare della distruzione di tutti i loro beni, anche di quelli chiesastici, per confidare finalmente solo in Lui? Come è lontano dal sentire comune chi pretendesse questo. Noi trasmettiamo agli altri gli infiniti oggetti della nostra tenera idolatria e perpetuiamo sulla terra che balla il culto che il genere umano nutre per i suoi sogni e le sue illusioni. Perché si tratta dei sogni e delle illusioni dei nostri avi, di chi è vissuto un tempo sulla terra e noi dobbiamo loro il rispetto che un giorno una foto, un documento, uno scialle, un anello, come un talismano, risveglierà in una persona che scoprirà di amarci ancora. Con il terremoto dell’Aquila migliaia di persone si sono trovate all’improvviso senza niente. Ripartire da zero è difficile a vent’anni come a settanta. Eppure quei volti fermi e onesti, quelle donne dignitose, di una sensualità severa, quegli uomini pacati con una asciutta forza misteriosa nelle vene, ci dicono che esiste ancora un’Italia antica e vera, che il dolore collettivo è un materiale ben più duro del cemento, armato o, come spesso si è rivelato, disarmato. E 344 che non basta neanche un terremoto a incrinare l’anima resistente di persone che posseggono la forza elementare dell’umano, la quale invece rivela in questi casi la sua potenza amara e ferrea. In questo gli abruzzesi sembrano provenire dal nucleo stesso della terra e stanno rigenerando gli italiani di Bolzano o di Palermo con la loro semplice resistenza operosa. La crudele verità che il dolore, tanto più è forte, tanto più avvicina a quel Cristo che il piacere e la vittoria rendono un amico nobile, ammirato e lontano. Cremazione Una persona cara ripete che vorrà essere cremata. In questo desiderio nasce un conflitto tra la libertà della sua scelta e la sensibilità dei sopravvissuti. Come puoi sopportare che la persona amata più di te stesso entri in un vaso di cenere? Il contrasto è mostruoso e rischia di far cadere in una depressione disumana chi resta in vita. In questo il pragmatismo degli americani ci dice quanto siano diversi da noi. Credo, contro le apparenze, che per chi ha fede il dilemma sia meno drammatico, eppure essendo così povera la mia fede, trovo che la sepoltura assecondi più pietosamente la natura, affidi tutto a Dio il compito di provvedere e disporre, in alleanza con la natura, e ci esoneri da una volontà di accelerazione e risoluzione del processo che può scatenare i sospetti più torbidi contro noi stessi, oltre a costringerci a una presa d’atto lancinante. Confesso in questo modo che io non sono rassegnato a morire. Non mi dispiace solo per me, e soprattutto per le persone care alle quali posso dare ancora molto, anzi sempre di più con gli anni, mi dispiace anche per il mondo. Povero mondo, come farà senza l’allegria che in tutti i modi cerco di trasmettergli, senza i doni disinteressati che cerco di dargli, senza le mie invenzioni continue che lo abbelliscono, senza il mio dolore che, salendo al diapason, si trasforma in una gioia selvatica di esistere, di guardare, di amare? 345 Ciascuno di noi è dio, e non lo saprà mai. Slalom femminile Non c’è donna talmente depressa che non sia disposta ad andare dalla parrucchiera. Per fortuna. L’umorismo delle donne si esprime molto più con i comportamenti che non con le battute di spirito. Il loro modo di sdrammatizzare i massimi problemi comprando un chilo di mele o dimenticando il mondo davanti a uno sceneggiato televisivo o a una partita di burraco è una delle facoltà più ammirevoli del loro sesso. In ogni conversazione si può sperimentare il loro caratteristico procedere a slalom. Non c’è argomento dal quale non divaghino con osservazioni sulla tua pettinatura o sul foruncolo che hai sul collo, mentre una spia del loro cervello tiene costantemente fisso il tema del dialogo, solo che non ritengono opportuno svilupparlo in ogni passaggio. Quando qualcosa non aggrada loro non rispondono o fingono di non averlo ascoltato, costringendoti a ripeterlo due o tre volte. Cerchi di metterle all’angolo per arrivare a una conclusione e loro ti guardano sconsolate e ti chiedono: “Sei nervoso?” Ed effettivamente lo sei, però magari lo saresti meno avendo l’illusione di concludere almeno un ragionamento. Allora ti rispondono che loro sanno benissimo che cosa tu volessi dire ed è per questo che hanno fatto un salto da un’altra parte. La natura procede così, reggendo i fili di tante situazioni contemporaneamente, e alla finché ti accorgi che se il mondo sta in piedi e proprio in virtù di questa perenne divagazione. Questo genio della natura noi uomini lo possediamo in più piccola parte e forse l’immane elaborazione di opere filosofiche e letterarie serve a compensare questo nostro difetto di base. Le donne sono imbattibili nel trovare i punti deboli di un uomo per, nel caso, stuzzicarlo, pungolarlo, provocarlo, costringerlo a smuoversi dai rari momenti di pace, insidiare le sue sicurezze, contraddire le sue vanità, ridicolizzare le sue più serie prese di 346 posizione, disorientarlo con bruschi e scherzosi passaggi dal vero al finto. E in questo modo concorrono alla grande opera della natura che è quella di contraddire stimolando, di contrastare di continuo ogni desiderio di ozio, di quiete, di spensieratezza, di agiatezza del sentire e del semplice esistere, che finirebbe per essere contraria alla sua opera e in casi estremi mortale. Amore passionale e matrimoniale Ti amo da morire: l’amore passionale. Ti amo da vivere: l’amore matrimoniale. Eppure l’amore matrimoniale, basato sulla durata e sull’inarcarsi combaciante dell’amore con la parabola della vita, inclina per sua natura alla morte, e a essa si arrende come fenomeno naturale che chiude il cerchio. Mentre l’amore passione, che sente la morte non già alla fine della circonferenza, per quanto breve, ma ora, subito, in atto, col suo stilo acuminato, non ama che la vita e per troppa vita sente così la morte. Quando un uomo sposato si innamora di un’altra donna le dice sempre che il suo matrimonio è in crisi, anche se non è vero, benché quasi sempre in questi casi lo sia. Eppure un matrimonio può essere in piena salute e uno innamorarsi di un’altra (che poi non è un’altra, è se stessa) restando in amore con la propria moglie, se si tratta di legame di lunga data. Non puoi innamorarti di due donne, che è mostruoso, ma puoi innamorarti di una mentre continui a voler bene da anni o da decenni a un’altra. Se però fosse la donna a rivelarti questo suo doppio amore tu penseresti che è finita, perché il matrimonio si regge sul patto di lealtà, cioè sull’accordo pubblico di non innamorarsi mai di un’altra persona, cosa che è palesemente assurda e tale da riuscire soltanto per i pur numerosi individui privi di immaginazione amorosa, i quali 347 non trovano alcuna fatica a farlo, il problema risolvendosi per loro nel non fare sesso con un altro, cosa alla quale si rassegnano o provvedono di nascosto. Sbocchi Dio, siamo stanchi di amare. Amaci tu adesso! Le parole sono le cicatrici del silenzio Come ti senti? I momenti migliori della giornata sono quando dormo. Allora è segno che cominci a star bene. Quando la persona amata scopre una sua debolezza apertamente davanti ai tuoi occhi è segno che ti ama. Essere morti è molto più comodo che essere vivi. Ma io detesto le comodità. 16 aprile Ambienti letterari È stupefacente ma del tutto normale che negli ambienti letterari si riproducano gli stessi vizi e difetti della società italiana in ogni suo comparto, come in ogni altra delle mille e mille tribù incomunicabili che convivono in questo stato cosmopolita dalle mille nazioni, intendendo anche soltanto gli stessi italiani. Ma come negli ambienti religiosi, i vizi correnti e comuni sono sfigurati da un supplemento di male, non solo per il contrasto col bene predicato, ma per una deformazione dell’animo conseguente alle pretese troppo alte sulla natura umana che si esercitano. Così negli ambienti letterari i vizi correnti si fanno più grevi e disgustosi perché scrivere, immaginare, pensare, poetare piegano controvento la natura spontanea per riguadagnare una luce più chiara o più alta. Ma i più restano in trappola a mezza strada e 348 schizzano su se stessi e sugli altri il veleno dell’invidia, della superbia, della menzogna, della slealtà, dell’acidità, della malinconia morbosa, della depressione, della rabbia, della furia impotente. Materiali grezzi che non hanno fatto in tempo, o non sono riusciti per mancanza di talento e carità divina, a lavorare e a raffinare fino in fondo, sicché diventano peggiori degli altri, tanto più in quanto non ne hanno nessuna coscienza, e anzi si sentono vittime. Non stuzzicare forze oscure Se anche non credi in un Dio, scatenare risentimenti e rancori contro fantasmi di nemici superni o inferi nell’aria può essere comunque pericoloso. Chissà quali forze andiamo a risvegliare che non si sarebbero mai accorte di noi? Come in una giungla non è prudente parlare a voce troppo alta e mettersi troppo in mostra, così, pur nell’epoca più scientifica e pragmatica della storia, non possiamo essere del tutto sicuri che forze irrazionali non aleggino intorno a noi. Se mostrerai il sorriso agli altri e reggerai con pazienza benevola il tuo fascio di spine ogni giorno assegnato, probabilmente non te ne verrà nulla di buono, ma non rischierai di scatenare contro di te le potenze sulle quali non abbiamo nessuna cognizione e delle quali sarebbe persino ridicolo parlare in pubblico. Proporzione del bene fatto e avuto Mi domando se il bene che ci viene dalla vita non corrisponda esattamente al bene che abbiamo fatto. Chi può dire infatti se una malattia non ci cada addosso vent’anni dopo che abbiamo negato un’elemosina a uno zingaro. O che un infortunio professionale non consegua al tradimento di una ragazza che frequentavamo all’università. Chissà che un riconoscimento non derivi dalle parole buone che abbiamo detto a una vecchia quando eravamo bambini o l’amore di una donna non ci derivi all’assistenza fatta a una sconosciuta malata. Quando il conto del male e del bene risulta passivo ecco la bronchite, ecco il licenziamento, ecco la condanna di un cuore arido 349 che guarda la parete con più interesse del televisore, dove ridono gli spettri di quello che un tempo si chiamava il popolo italiano. Se uno dicesse: “Enrico crede in quello che ha appena scritto” non mi capirebbe. Non vi sono prove né per negarlo né per affermarlo. E io non credo a qualunque cosa indimostrata che mi suggestiona. Io sto solo ponendo domande e facendo ipotesi che non posso escludere, a condizione che abbiano un senso. La teoria secondo cui male e bene ci cadono addosso con indifferenza completa ai nostri meriti e ai nostri vizi è del tutto diversa dalla prima, perché a volte è smentita e a volte è confermata. Per esempio un bambino muore in un terremoto, e quindi la teoria sarebbe smentita. Oppure, al contrario, vince un concorso il più bravo, ed è confermata. Mentre la prima teoria non è smentibile né confermabile in nessun modo. È del tutto indecidibile, perché cause ed effetti sono troppo remoti e intrecciati con migliaia di altri e noi non sappiamo tutto il bene e tutto il male che abbiamo fatto. Se mi credo privo di colpe il mondo è stato immensamente ingiusto con me. Ma se appena considero una mia colpa, esso è stato fin troppo magnanimo. Non potremo mai apprezzare i beni che abbiamo avuto perché siamo convinti che ci spettino e siano comunque inferiori ai nostri meriti, mentre un già piccolo bene negato ci mortifica. Evidentemente pensiamo di avere un’origine divina e che, rispettando la nostra natura regale, ci spetterebbe tutto. Il dono di ridere di noi stessi Mai ci offende la maestà perfetta di Dio come quando ci mettiamo una maglia al rovescio o quando ci macchiamo la camicia in una cena pubblica, quando ci tagliamo distrattamente con un coltello sbucciando una mela o quando un coperchio ci cade sul naso. Dio non ha mai avuto questi problemi, non è mai dovuto passare dalla Metafisica di Aristotele al pronto soccorso con un naso sanguinante. 350 In questi casi manchiamo di umorismo. E infatti i grandi comici, da Chaplin a Stanlio e Olio, da Buster Keaton a Jacques Tati, hanno sempre riso proprio di queste goffaggini, ridicole miserie e buffonesche disarticolazioni, sentendoci dentro una grandezza liberatoria e semidivina. Aristotele dice che Dio non ci conosce né ci ama perché è perfetto, e quindi può conoscere soltanto se stesso e dedicare tutto il suo non tempo soltanto a se stesso. Per amare bisogna sentire una mancanza bruciante, una deficienza profonda del proprio essere. Il filosofo aggiunge che l’uomo che più assomiglia a Dio si realizza nel filosofare, perché è il pensiero disinteressato ciò che più ci perfeziona e ci assimila ad Esso. Ma pensare, anche se la molla scatta per amore della perfezione divina, sempre meno è amare Dio, e tanto meno gli uomini, perché tanto più siamo perfetti e simili a Dio tanto meno amiamo. Dio stesso infatti non ama se stesso, si pensa solamente. Il fatto che un essere imperfetto per due o tre ore consecutive pensi filosoficamente deriva dal suo amore intellettuale ma lo scopo ultimo del suo pensare è cessare di amare, cioè di essere imperfetto. Aristotele pensa per non amare. Potrà diventare lui semmai oggetto di amore? Di chi? Dei suoi discepoli? Ma chi non ama non desidera neanche essere amato. Aristotele è uno degli uomini più ammirati di tutti i tempi, ma di certo non il più amato. Platone ha rilanciato l’amore in ogni possibile modo, senza essere meno lucido e geniale, mentre Aristotele ha cercato tutta la vita di renderlo inutile per sfuggire al morso della sua theia mania. E chi sei tu per criticare Aristotele? Il bambino dice che il re è nudo. Non dice mica che non è un re. 18 aprile Grafomania nazionale 351 Ci sono troppe righe stampate per poter leggere tra le righe e si scrivono troppi versi per leggere tra i versi. Interi magazzini di decine di migliaia di libri mandati al macero, cimiteri di carta più vasti delle città, le parole diventate una razza barbara e autonoma che uccide la civiltà dei pensieri, delle immagini, delle emozioni. Il pudore come paura non di denudare i propri segreti ma di diventare l’oggetto dello sguardo altrui. Quando si comincia a leggere un buon libro capita come quando si incontra una buona persona. Si sopravvaluta, lo si immagina, lo si sogna. Meno si approfondisce e più si loda. Quando lo si legge per intero pian piano se ne vedono i difetti, si diventa più esigenti, nella misura in cui, spendendo il nostro tempo, pretendiamo un compenso di valore sempre più alto al nostro sacrificio. Perché leggere qualunque libro è comunque un sacrificio. Gran parte della critica giornalistica oggi è elogiativa proprio perché nessuno legge i libri fino in fondo, ma li tasta, li assaggia, li pilucca, quindi la facoltà di immaginare è molto più spigliata e incline al bello e, avendo dato così poco del proprio tempo, resta un vago rimorso che si placa lodando l’autore, sia perché non possa controbattere (cosa peraltro rara e giudicata inopportuna), conoscendo il proprio libro molto meglio del critico, sia perché oggi l’inclinazione a lodare rende molto popolari, perché vuol dire che si è privi di invidia, soddisfatti di sé e democratici. Cose tutte e tre false. Aggiungi che, avendo letto e conosciuto poco un libro, cosa che non ti costringere ad attenerti a quello reale, tu hai campo più libero per crearti un libro fantastico, e cioè per far emergere i pensieri e i sentimenti che ti ha ispirato, e puoi esporli così con disinvoltura e brillantezza, la tua sembrando una critica tanto più originale quanto più coglie un’angolatura mai sperimentata, cosa molto più difficile se avessi letto il libro fino in fondo. Quando studi un autore che ami per scrivere intorno a lui, o dentro di lui, un saggio, tu passi mesi e mesi con le sue opere, e quei libri che ti sembravano eccelsi si costellano di lamenti, proteste e stroncature ai margini che, col passare del tempo e l’aggravarsi della 352 convivenza, finiscono per coprire quasi ogni pagina. Eppure i suoi libri continuano a piacerti molto. Cosa che non direbbe mai chi si limitasse a sfogliarne le stesse pagine, tempestate di critiche spietate, dopo di te. Il risultato è che il saggio, di giusto apprezzamento e non privo di critiche, è finalmente equo e rispondente ai valori effettivi dell’opera, ma in te matura un odio per l’autore, pur sempre tanto stimato, e forse ancora di più dopo lo studio, che ti porta a non aprirne più nessun libro e a non sentirne pronunciare il nome senza un moto di paura. A tal punto il fatto che esista un altro io pari o superiore a te nel mondo ti è insopportabile? Non credo si tratti solo di questo. Percorrere per intero quasi ogni scrittore contemporaneo, benché degnissimo, genera una delusione che si converte in ostilità e rancore perché la vita non ne risulta affatto cambiata, e anzi la sproporzione tra la bellezza del mondo immaginato e l’asprezza di quello reale si fa maggiore e più insopportabile. Ricade sullo scrittore la rabbia per il mondo che non è cambiato. Coloro che sopravvivono a questa prova del fuoco e sui quali puoi riscrivere dopo anni e decenni sono gli autori che non scrivono affinché tutti li ammirino, ma che danno qualcosa di decisivo di sé al mondo, che resta nutriente e indispensabile. Così Bonnefoy ha potuto scrivere di Rimbaud nel corso di cinquant’anni. E io potrò sempre scrivere ancora di Leopardi. Giovanni Giudici scrive, nella sua agenda del 1960, che Carlo Bo al solito non indaga le cause dei mali ma riflette sconsolato sugli effetti. Oggi sono ancora numerosi i devoti di questo realismo degli effetti, ma per piegarli con forza ai propri valori, senza badare alle cause che ispirano i comportamenti buoni. Una forma di ipocrisia sublime, la più antica arte del cattolicesimo al potere, degna di rispetto ma non di stima. Antipatie a pelle 353 Ci sono persone che ci sono antipatiche istintivamente, a pelle. Il fenomeno da bambini è travolgente e si placa molto lentamente negli anni. Resta indeciso se vi siano delle ragioni inconsce o delle semplici allergie fisiche a un modo di muoversi, di ridere, di girare la testa. Con gli anni le antipatie si spiritualizzano e consistono sempre più nel riconoscere in un uomo o in una donna un membro della comune umanità. Mentre da ragazzini sentiamo il bisogno irresistibile di dimostrare l’antipatia, da adulti è ragionevole limitarci a non frequentare le persone oggetto dei nostri ingiusti sentimenti ma, essendovi costretti, difficilmente potremo trattenerci dal provocarli, dallo sbeffeggiarli, dall’esibire la nostra ostilità e ironia, spesso con loro sommo stupore. Il fenomeno molto di rado infatti è simmetrico. Il Libro di Ezechiele Leggendo il Libro di Ezechiele, come spesso capita con l’Antico Testamento si rimane annebbiati, e quasi inebetiti e scandalizzati, dal modo in cui gli autori si rappresentano Dio. Ezechiele che, come molti profeti, parla addirittura come fosse il portavoce di Dio, citandone alla lettera le parole, lo mostra adirato e vendicativo, in preda a un furore distruttivo. Questa immagine di Dio è ben più nemica del vero Dio di qualunque immaginazione del politeismo. Non si può non prendere il toro per le corna una volta per tutte. Vi sono stati decine e decine di profeti convinti di parlare per bocca di Dio. Un cristiano o un ebreo dovrebbe quindi non solo credere in Dio ma credere anche in ciascuno di essi, oltre a credere che tutti gli autori della Bibbia siano da Dio stesso ispirati. La pretesa non solo è inaccettabile ma è prepotente e superba rispetto al vero Dio, che nessun uomo semplice e amoroso pretenderebbe di far parlare in sé come un ventriloquo. Senza contare che non sarebbe più un cristianesimo ma un panprofetismo, visto che tanta gente mette tra virgolette le parole di 354 Dio da lui stesso escogitate, senza contare centinaia di santi, migliaia di beati e servi di Dio che hanno osato fare lo stesso. Con questo non voglio togliere valore al profetismo o alla santità, perché anzi credo che esistano persone illuminate e mi spingo persino a pensare che esistano veicoli privilegiati della parola divina. E tuttavia non ogni loro parola è ispirata. La visione profetica, theia mania anche secondo Platone, ha infatti il carattere di una portentosa lucidità, alternata a una ricaduta nel proprio essere secondo e mortale, con un’intermittenza rapida di squarci, subito intorbidati da pesanti ricadute nella propria cultura e nella mentalità dominante. La profezia va colta soltanto in quei brevissimi passaggi di rivelazione e non presa per buona con tutto il carico ideologico e storico di cui è gravata. Il profeta Ezechiele è un poeta di valore. Basti pensare a questo incipit: “Tutte le mani cadranno / e tutte le ginocchia si scioglieranno come acqua”, oppure al verso “Getteranno l’argento per le strade”, eppure la sua vena poetica e profetica è intossicata da una violenza selvaggia, tanto più torbida in quanto è comunque un uomo che pretende di parlare per bocca di Dio. In questo modo compie un’operazione scandalosa in quanto insinua il male nel bene, il demonico nel divino. Egli manca del tutto di pedagogia mentre Dio dovrebbe essere prima di tutto un educatore nell’amore. È segno di estrema violenza infierire sul più debole ed è certo che noi uomini siamo piccoli, inermi, vulnerabili. Ề giusto che Dio sia giusto e infligga castighi come impartisce premi ma scatenarsi contro di noi sarebbe indegno per lui. Inoltre non può essere un uomo a immedesimarsi in Lui, giudice e vendicatore, perché altrimenti si trasforma in un mostro. Leggendo queste pagine di aggressività sboccata e disumana viene da pensare che abbia ragione Aasmann quando scrive che la violenza è intrinseca al monoteismo. E che molti cattolici chiamano amore lo sforzo sovrumano che fanno per contenerla dentro di loro e per nasconderla agli altri. La luce di Cristo si irraggia non solo verso il futuro ma anche verso il passato ebraico, educando e raddolcendo, senza perdere in nulla la 355 severità della legge, la violenza inaudita che aveva alle spalle, non meno losca pensando, come lo stesso Aasman spiega in modo convincente, di una violenza soprattutto verbale e letteraria, di una rielaborazione che aveva ben poco a che fare con i fatti reali, che si sono svolti in modo del tutto difforme, visto che gli ebrei sono stati già allora quasi sempre vittime e che nella Bibbia vengono glorificate vittorie inesistenti nella storia e tutte plananti su di un piano simbolico e spirituale. Non credi che Dio inspiri le donne e gli uomini? Sì, ma non credo che siano profeti tutti quelli che si dicono profeti e non credo che non lo siano quelli che neanche sanno di esserlo. Anzi, mi fido molto di più dei profeti che non lo sanno. 19 aprile Vivrai se il mondo sparisse Se uno qualunque di noi si sentisse dire: Tu puoi continuare a vivere a una sola condizione, che il resto del mondo sparisse nel nulla, in quanti si sacrificherebbero? Pur sapendo che da soli non potranno mai sopravvivere per più di qualche ora? Ciascuno di noi non solo si sente indispensabile all’esistenza del mondo ma arriva a credersi il mondo stesso, senza pensare che il mondo è tutto intero nella coscienza di qualunque altro essere vivente, secondo il grado di esperienza, di intelligenza e di sensibilità. Il colpo di genio di far sì che ogni uomo sia il mondo, possieda gratis l’universo nella sua mente indica una natura profondamente democratica della divinità. L’astuzia della natura consiste nel far sentire ciascuno il dittatore del mondo mentre conta meno che niente. Il mondo è aperto, come voragine ma anche come panorama. Questa reggia sconfinata è stata donata a ciascun uomo, che potrebbe percorrerla in lungo e in argo, anche a piedi, ma che poi magari vive in una baracca e non ha mai messo il naso fuori del suo villaggio. 356 Il poeta, non importa se di talento attuale o potenziale, anzi molto di più tanto meno talento ha, vive in modo esasperato questo diritto naturale di tutti gli uomini e condivide con Nerone il delirio di lasciare nel lutto il mondo senza lui: Qualis artifex pereo. Solo se è un genio, o un uomo ipersensibile si rende conto che i suoi libri di versi si aggiungono ad altri milioni di libri, raccolti in biblioteche che sono istituzioni tra altre milioni di istituzioni e che non si troverà neanche un essere umano che farebbe una vita radicalmente diversa avendolo conosciuto. 20 aprile Benjamin alle prese con Adorno Benjamin è stato parecchio maltrattato da Adorno, come si legge nel carteggio che si sono scambiati, nel mentre ne veniva sostenuto, riconosciuto e ammirato. E ha sopportato con pazienza le tante critiche severe che quell’intelletto iperlucido, aristocratico e devoto della dialettica negativa, al punto da scatenare il suo genio solo all’interno di essa, ha mosso a quasi tutto ciò che Benjamin gli ha fatto leggere, spesso costretto a motivarlo, a ritoccarlo, a espungerlo, o a rinunciare a uno sviluppo promettente, o anche a vedersi un suo saggio rifiutato. Questo continuo parlare dell’Istituto, vegliato da Horkheimer e vigilato da Adorno, come del resto era giusto che fosse, ha reso possibile un’esperienza intellettuale fuori del comune, ma al prezzo di attentare alla salute e alla libertà di un uomo dotato di emozioni, immaginazione, sentire mistico, organi percettivi ben desti, curiosità da ragazzo, genio ingovernabile, benché disciplinatissimo, come Walter Benjamin. Aperta è la questione se così facendo gli abbiano fatto del bene. Perché trovare resistenza è spesso un bene, anche se non puoi resistere a un più profondo, e per questo anche ingenuo, sapere. Per Adorno contava molto che un saggio fosse progressivo o reazionario e la distinzione era acrobatica e complessa, al punto che 357 si ha la sensazione che a volte bastasse un grammo in più da una parte o dall’altra per capovolgerne il giudizio. Che un perpetuo allarme corresse per la schiena di fronte all’imprevedibile condanna o assoluzione. Che misteriose colpe insondabili si celassero nelle pieghe del discorso, tutto teso alla difesa cosciente del proletariato, o che un attacco alla classe in lotta per la liberazione suonasse il più rivoluzionario. Questo è proprio di chi arriva sempre dopo l’arte e la giudica, pur avendo una natura da artista filosofico, tutto però riversato nel dialettico e nel concettuale. Il che produce lo spirito che sempre nega, una forma di demonismo. L’arte è già conoscenza, è già azione, benché legata a pochi. E non è cercando di diventare a tutti costi progressivi che ci si accosta di un passo al proletariato e alla sua causa. L’arte ha una sua realtà. Ora, che il pensiero sia fatto di immagini dialettiche, come avviene nei saggi di Benjamin, che possano viaggiare da sole senza alcuna teoria, Adorno non lo poteva ammettere, al massimo concedendo forse che sia fatto di figure, come nella Fenomenologia dello spirito. Ma che un’attitudine verso la vita: il flâneur, la prostituta, lo spettatore cinematografico potesse essere una forma immanente del pensiero, indipendentemente dal contenuto, questo era per lui incomprensibile e insopportabile. La dialettica del servo-padrone di Hegel porta all’emancipazione degli schiavi e alla rivoluzione borghese basata sul lavoro. O almeno alle teorie di Marx. Ma il flâneur, la prostituta, lo spettatore cinematografico dove portano? Questa è la domanda di Adorno. Da nessuna parte. E allora sono figure reazionarie. Sì, ma siamo noi oggi. Non siamo tutti flâneur nella rete del Web (un mare pieno di scie senza le navi), non siamo tutte prostitute, non siamo tutti spettatori? Che gli stessi proletari sarebbero diventati flâneur, spettatori di film, lettori di polizieschi e prostitute del consumo era la verità cifrata del dialogo, nel quale aveva ragione Benjamin. 358 Il mito del proletariato è il tabù di quel carteggio dove si discute pro o contro il mito, si definisce un senso del mito, senza mai mettere in discussione il più potente di tutti i miti intellettuali: il proletariato. Un mito che ha agito nella storia, anche se non abbastanza, perché è servito a sorreggere e far progredire una classe massacrata, rendendola ora solamente sfruttata e alienata, alienata anche dalla sua figura di classe. Il che è un passo avanti e un passo indietro nello stesso tempo. Ma un passo nella realtà. La dialettica, positiva o negativa, è una teoria del tutto, del legame di tutto con tutto, mentre proprio dell’epoca è invece quello che Benjamin chiama “l’allentamento solidale”, forse con implicito invito rivolto ad Adorno di allentare le sue tese relazioni di tutto con tutto, compreso lo stesso Benjamin, di pensare in modo più allentato, cioè più recettivo, sciolto, curioso, da ascoltatore, da flâneur, da spettatore. La dialettica dell’illuminismo è un libro che è stato eccitante nella mia gioventù. Ma ora mi domando se l’illuminismo sia dialettico o possa rientrare in una dialettica. Penso invece che esso abbia come proprio carattere portante di non esserlo, di volgersi alla vita concreta e pratica della società per intervenire su di essa volta per volta, caso per caso, formando una mentalità razionale e benigna idonea per questa impresa. Il fatto che esso sia governato da una ragione strumentale non autorizza affatto a scorporarla dalla sua azione concreta e benigna, che ne è parte costitutiva, facendola diventare una potenza astratta, che si può volgere anche alla distruzione e allo sterminio. Dialettico è semmai il romanticismo, che molto di più si presta a quei rovesciamenti e superamenti conservativi, puntando a un assoluto globale che, finché perseguito dal singolo, ha un senso, ma quando diventa l’orgasmo di una massa diventa pericoloso e letale. La gran parte dei nostri comportamenti e delle nostre attitudini non sono né reazionarie né progressiste, ed è proprio per ciò che vanno comprese, con un giudizio interno e attuale. 359 Arte auratica e riproducibile Non vale domandarsi se un’arte riproducibile, che ha perso l’aura, sia o no da sostenere. Vale capire il fatto che l’ha persa e che un’arte auratica noi la leggiamo come opera grandiosa del passato. E vale capire che tale arte tecnica, la fotografia o il cinema, sono il modo in cui ciascun individuo percepisce la realtà, si voglia o no. E se ciascuno vale, se ciascuno vive oggi, che la percepisca così non è un male, non è un errore. Preferisco La ricerca del tempo perduto al miglior film ma La ricerca la commemoro in solitudine, il film lo guardo oggi. Non accettare questo, sì, vuol dire essere mitologici, perché ci nutriamo soltanto della grande arte, nel mentre ne mettiamo in luce le contraddizioni ideologiche. Adorno, nel carteggio, oppone che bisogna essere dialettici con l’arte auratica ma allora lo si dovrebbe essere anche con l’arte riproducibile e tecnica, senza credere che essa sia destinata a valere di più. Ma la seconda vige oggi, vale perché vive, pensa Benjamin, e mio dovere è sempre capire l’oggi. Lanciare il passato dell’arte auratica contro il presente dell’arte riproducibile vuol dire rinunciare ai segni della vita, ridurli a decadenza di massa, a fine del mondo nella massa. Benjamin resta un ragazzo pieno di voglia mistica di comprendere il presente, costi quel che costi. Adorno è un erede dei tempi grandi, come György Lukács, un resistente e un lottatore che vuol dare un futuro al passato, attraverso la fiducia in una rivoluzione proletaria, dalla quale era lontanissimo per cultura, tradizione, aristocrazia intellettuale. Entrambi, Adorno e Lukács, saltano il presente, vedono solo il passato e il futuro. Il che è moltissimo e dato a pochissimi, però 360 manca quel quasi nulla, che però è un fuoco che brucia, il nucleo di tutto. Proletariato e massa La dialettica è per Adorno l’arma progressista con la quale contare ancora qualcosa nel presente, da intellettuale che condivide l’idea di Lenin in Stato e rivoluzione, secondo la quale sono gli intellettuali che devono guidare il proletariato, sicché molte delle critiche a Benjamin discendono proprio dal fatto che lui non accetterebbe in modo abbastanza attrezzato questo compito. Facile è per noi rimarcare l’ingenuità di questa fiducia in un uomo di tanto smaliziato, sferzante e possente intelletto, quando il proletariato non solo ha fallito ma si è disintegrato come classe, benché non come complesso di lavoratori, sempre sfruttati. Più difficile ammirare la dedizione di allora, sia pure tutta mentale, all’emancipazione della classe più debole e oppressa, che però da Adorno veniva disprezzata come massa, mentre è evidente che una classe non possa che far massa, se vuole contare. Il nucleo del problema sta nel rispetto creaturale verso ciascun individuo, diventi egli proletario o borghese, nel rispetto verso ciascuno, il che solo può essere teologicamente fondato. Perché se noi non pensiamo che ciascuno possa accedere al nucleo di verità e giustizia della vita, come potremo mai pensare che una classe magicamente generi una compagine di giusti e di veridici lottatori per il bene comune? Se crediamo che una massa di insipienti, drogati dalle arti di massa e dal mercato, possa distruggere ogni suo singolo componente, non dovrebbe forse ciascuno, in quanto individuo proletario, generare una massa buona, cioè una classe che lotta per il bene? Che questa seconda possibilità, cioè che l’individuo agisca sulla massa, ci suoni da sempre remota, anzi fantastica, avrebbe dovuto rendere da sempre anche irrealizzabile la prima, che cioè una classe 361 magicamente trasformi gli individui che la compongono, orientandoli al bene, tanto più sotto la guida di intellettuali. Bisogna pensare che in ogni massa resista sempre qualcosa dell’individuo, un suo nucleo di verità. Se non si pensa questo crolla tutto. Se allora, teologia e marxismo devono cooperare, come voleva Benjamin, ciò può accadere soltanto, in modo mistico e filosoficoletterario, attraverso scritti che riconoscano i flâneur, le prostitute, gli spettatori del cinema, i lettori di romanzi polizieschi, i passeggiatori nei passages parigini, che rendano giustizia a ciascuno. Minima moralia Minima moralia è un gran libro, perché in esso l’intelletto iperlucido giudica il mondo soccombendo, esso stesso offeso dal mondo. E così in nessun’altra opera Adorno è stato vicino a quel proletario che mai l’ha letto e che non lo leggerà mai, ma che gli è simile in questo libro, perché ciò che c’è di più umano nell’aristocratico Adorno brucia come ciò che c’è di più umano nel proletario. Il movimento del ’68 non ha trovato in Adorno o in Horkheimer figure di riferimento, perché la loro vita era un mondo totalmente altro rispetto a quello degli studenti. Nel Senso unico di Walter Benjamin Imbattersi lungo la strada nel Senso unico (Einbahnstrasse) di Benjamin è una delle fortune più grandi che possano capitare. Non vi è nulla di bizzarro in questo libro, come dice invece un suo curatore. Al contrario, la fortuna consiste nell’incontrare per caso in mezzo alla folla un amico naturale in carne ed ossa, una personalità che ama come un ragazzo e inventa audacemente la forma della sua opera, senza tradire l’innocente spirito di rivolta e di conoscenza del più scalzo e precario camminatore di questo mondo. 362 Leggendolo, ti spazzi la polvere dalla pelle e confidi di riconoscere anche te stesso come uno capace ancora di amare, di poetare e di conoscere con curiosità tutto il circo del mondo, con la massima serietà e senza nessuna solennità. Mi spiego con qualche passo: “Lei poteva appunto uscire dal portone, girare l’angolo e stare sul tram: ma dei due dovevo essere io, a ogni costo, il primo a vedere l’altro. Perché se lei mi avesse sfiorato con la miccia del suo sguardo, io sarei volato in aria come un deposito di munizioni.” E ancora: “Un quartiere quanto mai caotico, un intrico di strade da me evitato per anni, mi apparve di colpo dotato di un suo ordine quando un giorno vi si trasferì una persona amata. Fu come se alla sua finestra avessero installato un riflettore e questo fendesse la zona con fasci di luce.” Il talento di titolista di Benjamin non è da meno dell’originalità del suo modo di pensare dal vivo, basti dire che il primo passo si intitola Armi e munizioni e il secondo Pronto soccorso. Il titolo non è né una sintesi né una spiegazione del brano ma taglia la strada al testo come un passante che ci ricorda che stiamo camminando in mezzo agli altri. La frase che più mi ha colpito in Senso unico è la seguente: “A una cosa non si potrà più porre rimedio: non essere scappati di casa. Da quarantotto ore trascorse abbandonati a se stessi a quell’età (a 15 anni) prende forma, come in una soluzione salina, il cristallo della fortuna di tutta la vita”. Neanch’io sono stato capace di farlo, tanto più me ne pento in quanto amavo la mia famiglia. Leopardi l’ha fatto, Rimbaud l’ha fatto, e non per caso. “Non c’è nulla di più misero di una verità espressa così come la si è pensata”, scrive Benjamin e fa l’esempio di uno che pretenda di fotografare un’odalisca immobile e sorridente, la quale invece indossa il primo straccio che le capita a tiro e fugge nuda tra la gente. E, còlta in questa fuga, sarebbe davvero lei, amabile benché trafelata e sconvolta. 363 Questo pensiero di Benjamin segnala il suo valore insieme al suo glorioso difetto. Non tutti infatti pensano allo stesso modo e c’è chi con gli anni riesce a pensare in modo libero e semplice, e a quel punto non si vede perché truccare il pensiero stilisticamente o renderlo eccitante con una foto a effetto. Forse non è diventato mai abbastanza vecchio per apprezzare la verità che sta ferma e si fa guardare nuda e senza desiderio? Vero è che esprimere un pensiero non solo è tradurlo ma farlo sbocciare, processo che deve avere un suo impeto naturale anch’esso. “Il dire infatti non è solo la manifestazione, ma la realizzazione del pensiero”. E Benjamin stesso aggiunge in un altro passo che “il buon scrittore non dice mai più di quanto abbia pensato.” E tuttavia nei suoi scritti a volte si nota un pensiero naturale e poi il lavoro secondo di espressione, con analogie ardite, immagini succose, trovate diabolicamente sottili, sarcasmi dolorosi, tenerezze di secondo letto, come se un’intelligenza prima fosse cavalcata da un’intelligenza seconda. Egli non ha scritto poesie memorabili, ma il segreto rapporto tra le sue due intelligenze è poetico. Lo vediamo in questo passo, nel quale i pregi straordinari e gli eccessi connaturati al suo genio sono evidenti: “L’appagamento sessuale sgrava l’uomo del suo mistero, che non sta nel sesso ma nel suo appagamento, nel quale solo forse il suo mistero non viene sciolto, ma reciso. È paragonabile al vincolo che unisce l’uomo alla vita. La donna lo recide, all’uomo si libera la vita della morte perché la sua vita ha perduto il mistero. In tal modo egli rinasce e, come l’amata lo affranca dall’incantesimo della madre, così, più letteralmente, la donna lo stacca dalla madre terra, è la levatrice cui spetta recidere il cordone ombelicale che il mistero della natura ha intrecciato.” Cosa ci trovo in tutto ciò di poetico? La densità e la pregnanza delle idee vibranti tutte insieme, con variazioni musicali e timbriche. Il carattere illogico, dal punto di vista della sintassi logica, dei 364 collegamenti, soprattutto pensando a quello “è paragonabile”, mentre si tratta in realtà letteralmente, e non per via di paragone, della rescissione del vincolo, visto che l’uomo insemina la donna e fa un figlio che si sostituirà a lui nel cuore di lei, rinascendo il padre in lui, ma perdendo, come sapeva Platone, la sua sognante immortalità. L’uomo infatti si libera della madre diventando padre. Sono poetiche le analogie sfrenate (la madre, la madre terra, la natura), per non dire del suo carattere manifesto di pensiero di getto, di pensiero ispirato. E non importa se si trovano varianti, versioni diverse e segni di lavoro insonne su poche righe. Infine il fermare il pensiero sul più bello, perché non è l’orgasmo a essere decisivo ma la esitazione procreativa, processo tipico della buona poesia, che scarta un jolly. Scrive ancora Benjamin: “Una metà dell’arte del narrare consiste infatti nel mantenere libera da spiegazioni una storia mentre la si racconta.” Lui si è dedicato all’altra metà, al narrare che, proprio perché spiegato di continuo, ma mai in modo definitivo, diventa affascinante. Fingendo di essere un detective letterario a caccia di spie rivelative, citerò quest’altro passo: “Una frase che, concepita in forma metrica, venga in seguito scompaginata nel ritmo in un solo punto, crea il miglior periodo in prosa che si possa pensare.” Ề quello che Benjamin fa nella prosa sorprendente di Pensiero e cura, dove prende le mosse dal potere magico di una madre che fa addormentare il suo bambino malato, raccontandogli una storia con movimenti espressivi delle mani. Con follia ispirata, cioè con la sua tipica disarticolata sintassi logica: 1) dice che si sa che il racconto fatto al malato dal medico è l’inizio della guarigione; 365 2) si domanda se il racconto non crei il clima giusto e le condizioni favorevoli più della guarigione stessa (manch einer Heilung). Si domanda insomma se non vi sia qualcosa di più importante che guarire; 3) si chiede se tutte le malattie non possano essere inguaribili, pur facendosi trascinare dal fiume del racconto fino alla foce; 4) riflette sul fatto che il dolore è una diga al flusso del racconto; 5) aggiunge che tale flusso si interrompe da sé quando la pendenza è così forte da trascinare nel mare del felice oblio tutto ciò che incontra nel suo passaggio; 6) conclude che “la mano che carezza disegna un letto a questo fiume.” Il testo è perfettamente chiaro poeticamente e del tutto disarticolato logicamente, e ciascuno di noi può vedere tutta la ragna di interpretazioni che possono tessersi a ogni passaggio mentre, anche non capendolo fino in fondo, esso è perspicuo come la più ispirata delle poesie. Il fatto che scriva in prosa potenzia addirittura l’effetto, perché sei disposto a una lettura eccentrica e difforme da quella che ti viene richiesta. Se volessi spegnerne il senso potrei tradurre Heilung con cura e dire: Nulla di strano. Un racconto lenisce il male piccolo ma non cura una malattia inguaribile. Io però voglio accenderlo. Soltanto a un essere ispirato verrebbe in mente di dire che il fiume del racconto apre a un bene superiore, non tanto quando il dolore lo spezza ma quando la sua pendenza è così forte che precipiti, dentro l’alveo delle carezze, nel mare del felice oblio. Nel sonno. Oppure nella morte? Benjamin ha mantenuto tutta la vita l’aria da liceale ammirato dai compagni e inafferrabile per i professori. 366 Ci sono uomini in grado di avere una bellezza fisica derivante tutta da quella spirituale. Così Benjamin, uomo non bello che si intuisce fascinoso per le donne, grazie a quei suoi modi puramente mentali e spirituali da ragazzo ribelle, allarmato e irriverente, un tipo con addosso l’aria della strada e delle passioni improvvise. Ci sono uomini nei quali i capelli fanno parte integrante del volto. Zeus che si lima le unghie L’intenerimento che prende gli scrittori tedeschi più liberi e spregiudicati quando parlano di Goethe, compreso lo stesso Benjamin, anche per le sue poesie minori o minime, è così sorprendente da far pensare a una omosessualità latente riservata solo al genio. Se Goethe scrive delle cose leziose loro ci trovano sofisticate finezze, se butta giù di getto un madrigale in un momento d’ozio per loro è Zeus che si lima le unghie. Questo infantilismo è simpatico ma fa sorridere chi non è tedesco. Da quando ho capito che anche gli uomini più geniali o coraggiosi o forti hanno di continuo infantilismi ridicoli o patetici ho preso a stimarli di più e a prenderli più sul serio. Io sono capacissimo di ammirare ma incapacissimo di ammirare un uomo o una donna in modo assoluto. Penso anzi che la cosa sia fortemente sospetta e poco lusinghiera per chi ne è l’oggetto. Persino ciò che chiamiamo Dio, queste tre lettere di marmo, di avorio, di osso, che dovremo imparare a dimenticare (proprio come dice Andrea Zanzotto) se vogliamo vivere nel divino, possono diventare un bluff. Figurati il genio umano. Ma dalla corazza teatrale dell’uomo d’ingegno, per quanto ciarlatano debba essere, traspira comunque il genio autentico della natura, che ha baciato in bocca quell’uomo o quella donna. Se il vero uomo che indossa l’armatura di scena è così sciolto da abbandonarsi ad essa. 21 aprile 367 In Cristo Cristo, stanco di un padre che martirizza i poveri e adula i ricchi, che nega e dà colpi di grazia, e che neanche si diverte, perché si sente troppo superiore, a veder soffrire gli uomini, tanto più perché soffrire è l’effetto del loro nullo valore, Cristo, stanco di questo padre, si ribella e vivendo e morendo, con la sua vita, col suo esempio, la parola e la morte, a dispetto anche degli uomini servi del padre, capovolge tutti i valori paterni, squarcia l’immorale grandiosa bellezza del creato e, contestando l’opera paterna, dice che sono i poveri che vanno aiutati e i ricchi mortificati, che sono i deboli che vanno amati e i potenti non odiati ma ammoniti, rimpiccoliti, tenuti sotto scorta e avviliti. Così facendo, anche se non ha nessun potere, essendo figlio, povero, inerme, insegna agli uomini ma nello stesso tempo anche al padre che è nei cieli ciò che d’ora in poi anche lui dovrà pensare e quale rapporto più puro dovrà avere con gli uomini. Parla agli uomini, perché Dio intenda. E Dio è costretto dall’amore del figlio a intendere, per l’autorità straordinaria di questo piccolo, indifeso ebreo, un vero artista dell’amore che ha inventato la dolcezza, il perdono, la severità buona, la forza della debolezza, la bellezza del dolore sensato, l’audacia del gesto e della replica, col suo genio rivoluzionario. Ma Cristo è un uomo e Dio è eterno. Cristo l’educatore di Dio? E col tempo la sua eternità, la sua totale indifferenza al dolore, potrebbe avere la meglio. E allora noi uomini dovremo invocarlo, pregarlo, chiamarlo di continuo perché non si dimentichi di noi, perché una timida brace resti accesa nel vuoto siderale. Ma con orgoglio diverso, grazie a Cristo. Un uomo infatti ha inventato l’amore. E qualunque dio esista nei miliardi di miliardi di miliardi di galassie e di millenni non potrà mai scoprire niente di meglio. Non gli resta che far sua l’invenzione, rubare l’amore agli uomini e restituirlo al suo trono. Quindi davvero Cristo ci ha salvato. 368 22 aprile Uomo: “Signore, non facciamoci più la guerra. Ognuno per la sua strada, d’accordo?” Dio: “Ma se sei tu che mi stai sempre appiccicato!” Si vive troppo. È impossibile mantenere una coerenza di vita e di pensiero in così tanto tempo. I veri coerenti hanno vissuto sempre poco. 23 aprile Fino a prova contraria Quando si convive con altre persone o ci si frequenta spesso, ogni giudizio è sempre espresso fino a prova contraria. E basta che qualcuno che ci è sempre stato ostile o indifferente manifesti all’improvviso un segno di benevolenza nei nostri confronti perché anche noi cambiamo radicalmente atteggiamento verso di lui, e non solo cambiamo parere su colui che giudicavamo in modo tanto negativo, ma comunichiamo anche agli altri la nostra nuova prospettiva come se lo avessimo pensato da sempre. E così chi cercava di temperare la nostra severità, giustificando e motivando le azioni di chi era caduto in disgrazia presso di noi, si troverà a non potergli più neanche trovare quei piccoli difetti, un tempo da noi ingigantiti, che ora non siamo più disposti non solo a condannare ma neanche ad ammettere. 24 aprile Partita di dilettanti Una compagnia di amici ogni settimana si riunisce per giocare a pallavolo. Si va dai dilettanti, più o meno goffi, agli ex giocatori dotati di memoria tecnica, con lo scopo di esercitare il corpo e di 369 divertirsi. L’agonismo è indispensabile per raggiungere i due scopi ma a condizione di continue smentite, di ironie, risate e scherzi, volti a ridimensionare l’accanimento, tanto più pressante quanto meno si sa giocare. La partita diventa un esercizio di convivenza sociale, nel clima fluttuante delle pulsioni di vittoria, temperate dal bisogno di non mortificare nessuno, di permettersi un guizzo di gioco anarchico per poi concentrarsi a dovere per fare la propria parte nella squadra. Tutto ciò è per me molto istruttivo, tanto più che non bisogna dimenticare che di gioco si tratta, e che c’è la volontà salda e comune di farlo restare tale. Ma il punto è che l’intera società nazionale è basata sul gioco, e non c’è quindi una differenza reale con le altre attività. L’intera società potrebbe nutrirsi dello stesso spirito degli sportivi dilettanti, che danno il meglio con leggerezza e dedizione. Posto che nessuno oggi, nelle partite globali dell’umanità, sa giocare. Ognuno si concentra nella sua orbita d’azione e fa il suo dovere in ogni caso, vada come vada, pensando di giovare alla squadra più di quanto la squadra non giovi a me. Ciascuno così pensando, la squadra gioverà sempre anche a te. 26 aprile In questo progresso scorsoio Diffidente verso i libri formati da un’intervista e timoroso del discorso apocalittico verso cui inclinano i vegliardi gloriosi, ho aperto con prudenza In questo progresso scorsoio di Andrea Zanzotto. Invece ho trovato un discorso profondamente chiaro e semplice, la messa in atto con naturalezza di una conoscenza poetica della realtà, in modo che sei spinto a ripetere nella mente e a voce sommessa le sue espressioni, tutte pertinenti e dentro una misura aurea di giudizio, come fossero versi veridici in prosa. Mentre ragioni su quel distillato di sapienza sobria che riesce a versarti su ogni tema che tocca la sua bocca, dalla teologia alla psicoanalisi, dalla poesia alla 370 storia d’Italia, ti senti liberato e sollevato, anche da quell’inquieta ricerca nel mondo fisico della lingua, quasi un mondo artificiale germogliante in parallelo alla natura, in cui ti immettono i suoi versi. 28 aprile Vizi e pregi nativi Da sempre in Italia si associa una città a un vizio o a una virtù dominante, fino al pregiudizio più usurato, come quello che vuole i genovesi avari, i milanesi affaristi, i veneziani gran signori, i padovani gran dottori, i fiorentini spocchiosi, i napoletani inaffidabili, i romani di volta in volta bonari, sciatti, fannulloni, scettici, ironici, i palermitani omertosi, i torinesi cortesi e freddi, i marchigiani furbi. C’è un fondamento in queste nomee plurisecolari, che puoi criticare ma dalle quali non puoi prescindere, perché a ogni giudizio rinnovato che tenti su questi cittadini ti rinfacciano sempre l’antico luogo comune, per richiamarti alle tavole dei giudizi perenni. Quello che mi interessa, vere o non vere che siano, è che quando tu ti trovi a nascere o a vivere in una di queste regioni e città, erediti il vizio o la virtù come un peccato originale o un merito innato e, anche se non fai niente in quello stesso senso, anzi ti muovi nel contrario per indole e per scelta, ti troverai sempre ad annaspare in quel vizio o a navigare in quella virtù, diventati non più frutto della tua responsabilità, ma portato genetico della storia della tua città o regione. Vivendo a lungo, o sempre, in un luogo, finirai per riconoscere che il luogo comune era vero, che non si trattava affatto di un pregiudizio, e che tu stesso, con gli anni e con l’accettazione della tua natura, devi riconoscere di avere sempre avuto il vizio, soltanto che nascosto, e, molto più di rado, la virtù che veniva da sempre attribuita ai tuoi concittadini. 371 Se resisti invece ad essere diverso con ostinazione, nel bene o nel male non importa, questo vorrà dire che non sei un vero genovese o un vero napoletano. E dovrai cavartela da solo. Ma allora chi sei? Amori incrociati Un uomo e una donna si amano ma i loro amori incrociati non riescono a compenetrarsi. Ognuno sogna l’altro, lo idealizza, ne immagina le giornate, lo fila come un fantasma più reale delle persone che incontra e con cui lavora. Ciascuno ama l’altro come feticcio, idolo dell’immaginazione ma in tempi e modi diversi, senza una musica concorde, e così senza nessun conforto. Amori che non si amalgamano, oggi diffusi soprattutto tra i giovani, che spesso si lasciano dopo pochi mesi di matrimonio non perché non si amino a vicenda, ma perché non hanno mai imparato ad accordare gli strumenti, a sintonizzare i loro sentimenti almeno quando è il momento del ritornello e del canto a due voci. Dipendenza nel bene Chi viene lungamente ignorato e ferito con l’indifferenza quando soffre, appena sta bene assapora la sua indipendenza e gode il semplice non aver bisogno di nessuno come un piacere supplementare della sua guarigione. Se invece è stato assistito e aiutato godrà meno della guarigione, perché non è più merito solo suo, ma serberà il desiderio di rendersi utile o di giovare a chi lo ha sostenuto. Così, stando male, è meglio vincere l’orgoglio e affidarsi agli altri, perché ciò svilupperà la dipendenza reciproca nel bene. La stiva Per l’uomo in pensione il mondo diventa tutto contemporaneo e un evento accaduto decenni prima viene rianimato come successo il giorno prima. 372 L’ho sperimentato quando mi è arrivata la lettera di un amico, che mi spiega dopo venticinque anni perché una recensione che avevo fatto a un suo libro gli era piaciuta. Prima non aveva mai sentito l’esigenza di dirmelo, sentendosi in posizione di maggiore potere e, ora che la pensione l’ha fatto scendere nella stiva, vorrebbe riannodare i legami che aveva ignorato. Ma soprattutto la ragione è che egli, tornato un essere naturale, con la sincerità morale propria di chi non ha una trama da tessere, tutto gli torna contemporaneo, nel bilancio del giusto e dell’ingiusto. Questa è la conferma che viviamo sempre in realtà nella stiva, che ci sembra molto più reale e nostra dei piani alti del transatlantico o, in questo caso, di una semplice cuccetta accademica, anche se aboliamo la realtà più profonda per tutto il tempo che possiamo. 1 maggio Mia natura comune Sperimento nella mia natura un’oscillazione tra la ragione più lucida e indifferente a me stesso e la più sfrenata sentimentosità (non sentimentalità), la più scaramantica e indisciplinata emotività, tanto che più volte mi è occorso di perdere la testa e assistere al mio sconvolgimento realissimo con un freddo spirito da disincantato reporter. Come anche di sviluppare una ricerca concettuale, soprattutto di carattere filosofico, serrata e imparziale, tra il continuo vocio delle mie sensazioni che nei momenti critici finivano per rendere impossibile la continuazione del lavoro. Dico questo non solo senza nessun compiacimento, perché alla fine ciò mi rende sacrificato quando penso e indifeso quando sento, con la sola superficiale soddisfazione di avere una personalità non banale, ma nemmeno con una intenzione autobiografica, perché invece penso che siamo tutti così, soltanto che alcuni sono esageratamente sviluppati nell’uno e nell’altro campo, cosicché non c’è mai un ragionamento che li possa appagare e una qualunque teoria in storia dell’arte o in poetica o in biologia o in qualunque 373 campo che plachi per sempre, almeno in una piccola porzione, il loro intelletto. E non c’è nessun sentimento che li possa soddisfare, sempre aspirando, non appena lasciano briglia sciolta al flusso emotivo, a qualcosa di irraggiungibile e impossibile, non per vocazione al martirio dei desideri, ma perché la scarica investita è troppo cieca, pretenziosa e irragionata, e quasi si merita il suo insuccesso. Neanche è detto che chi vive questo doppio eccesso sia superiore agli altri, insinuando chissà quale genialità sotto il mantello del penitente, perché persone siffatte sono invece palesemente “di razza inferiore”, come dice persino Rimbaud, e in qualche modo segnati alla nascita, al punto che l’unico conforto e rimedio consiste nel dedicarsi al bene di qualche altro. E l’inferno della vita degli uomini cosiffatti sono appunto i periodi nei quali non si ama. Credevo di averlo già capito e invece devo ricapirlo ogni volta: o segui Cristo o segui il suo nemico. Che non ci sono vie di mezzo ti è confermato mille volte dall’esperienza, eppure non faccio che cercare la terza via, nonostante le infinite e cocenti delusioni, la via dell’io, la mia via. Pur sapendo che è questo il modo migliore per non trovarla. Ritorno alla natura (Piero di Cosimo) Da tantissimi segni, sebbene non tutti confortanti e molti contrastanti, mi accorgo che si sta avviando anche tra le persone colte un ritorno alla natura. Non è vero che tutto è interpretazione, che tutto è storico e culturale. Non è vero che tutto è ideologico e relativo. Del resto gli artisti più vibranti e profetanti lo sanno da sempre. Basti pensare a Piero di Cosimo, come ci viene presentato da Panofsky, nei suoi Studi di iconologia: “Per lui la civiltà significava un regno di bellezza e di felicità, finché l’uomo restasse in stretto contatto con la natura; ma un incubo di oppressione, bruttezza e miseria non appena l’uomo se ne fosse estraniato.” 374 Lasciamo stare le invenzioni pittoresche di Vasari, che raccontava che Piero non si facesse ripulire la bottega né potare gli alberi in giardino né cogliere i frutti, perché detestava interferire con la natura, in una vita “da uomo piuttosto bestiale che umano”. Il suo sentimento della natura non è da uomo selvatico ma da filosofo poetico, combinando un “atavismo emotivo” col “più alto grado di raffinatezza estetica ed intellettuale” (Panofsky). Mi è venuto in mente questo esempio perché in Piero di Cosimo i due estremi, di una lucidità estrema del progetto pittorico e di una emotività scomposta e riottosa, ha generato opere così originali e intense che ancora oggi non si lasciano placare in un’analisi o comprendere da un intelletto paterno. Che tutto sia storico è un’affermazione politica che è stata indispensabile quando i potenti volevano paralizzare la società e congelare i ceti e le classi, facendo un uso sporco e interessato della natura universale. Karl Marx è stato colui che più potentemente ha denunciato quel processo secondo il quale si attribuisce a una natura universale ciò che invece dipende dagli interessi della classe dominante. Ma questo essendo stato acclarato, benché in nessun modo intaccato, resta da dire che una natura c’è, a ciascuno di noi propria, e che le società si organizzano in base a caratteri naturali almeno quanto in base a leggi, a esclusioni e a privilegi, politici ed economici. E tuttavia Marx stesso parla del lavoro come di una condizione naturale eterna, di una necessità propria di ogni forma sociale (Il Capitale, I, 1), e il suo concetto di alienazione dell’operaio in fabbrica sarebbe incomprensibile se una natura non esistesse. E non si tratta di una natura animale, che l’operaio soddisfa, quando e come può, nel poco tempo libero, ma di una natura umana specifica, che appunto dovrebbe realizzarsi nelle ore di lavoro, in modo conforme al nostro carattere progettuale e inventivo, che ci distingue dalle api, che producono i loro alveari meravigliosamente per un’intelligenza collettiva e predisposta al di là della loro iniziativa individuale, almeno per quanto ne sappiamo finora. 375 Qualcuno ha detto che Marx sarebbe stato un grande romanziere, caratteristica del quale è però quella di riuscire a combinare l’individuale, il capriccioso, l’irregolare, il bizzarro con il tipico, il generale, l’universale, come in Balzac, proprio come fa la natura, che ti fa vedere tutti diversi, pur essendo noi tutti uguali. Mentre Marx era fortemente portato a pensare che tutti gli uomini e le donne fossero sostanzialmente e anche individualmente uguali, al punto di immaginare una società che andasse bene per tutti. Il bisogno religioso per lui sarebbe scomparso ma dal suo amato Balzac non ha voluto accettare che mai e poi mai sarebbero scomparse le ostinate bizzarrie, incoerenze, contraddizioni, superstizioni, credulonerie, ostinazioni folli di ciascuno di noi, e in qualunque società. Gombrich e Panofsky Nella prospettiva lineare fiorentina, o “artificiale”, come la chiama Panofsky, soltanto la distanza dall’osservatore e non l’angolo visivo determina la sagoma dell’oggetto rappresentato. L’arte inventa la realtà più verosimile con una magia ottica alla quale non si pensa mai. Le magie efficaci sono quelle impercettibili. Gombrich dice in un’intervista che non ha mai condiviso la tendenza di Panofsky a interpretare le opere secondo un modello filosofico unitario o in base a un contesto culturale e storico stretto. Michelangelo ad esempio sarebbe stato un neoplatonico esemplare, che nei suoi Prigioni ha espresso il carcere del corpo dal quale l’anima, come nel Fedone o nelle Enneadi, aspira a liberarsi. Una full immersion di Buonarroti nel neoplatonismo sembra molto improbabile allo studioso viennese, che resta convinto che gli artisti si formino soprattutto sulle spalle di altri artisti. Il suo contro esempio è disarmante e getta acqua sulle fiamme dell’iconologia: Leonardo ha dipinto Sant’Anna perché gli era stata commissionata, dopo il ritiro di Filippino Lippi, punto e basta. Tutto il discorso di Freud sulla doppia madre ne risulta sgonfiato fino a 376 sfiorare placidamente il ridicolo. E tuttavia, accettata la commissione, in Leonardo non può che essere scattato il suo modo di vedere la doppia maternità. Oppure anche si può dire che l’abbia accettata perché lo sollecitava inconsciamente il tema. I fatti sono determinanti ma soltanto di altri fatti. L’interpretazione freudiana delle opere di Michelangelo in realtà è la traduzione libera in un’altra lingua inventata da Freud, come un esperanto. Sono due metodi opposti, quello di Panofsky, carico dell’energia dello spirito del tempo, quello di Gombrich, ispirato al metodo per conoscenza ed errore, che punta a falsificare e mai a dimostrare, mediato dal suo amico Karl Popper. Anzi Gombrich afferma di avere per metodo quello di non averlo, valutando caso per caso e affondando il naso negli archivi col semplice buon senso. Si tratta di due modelli anche politici, il primo aristocratico, fiammeggiante e proprio di una società chiusa. Il secondo liberale (se anche non meno aristocratico), raffreddante, e proprio di una società aperta. Il primo aspira a trasformare la critica stessa in opera letteraria, dove la ricchezza dei documenti concorre come materia grezza alla fiammata dell’intuizione, il secondo spezzetta di continuo ogni sistema e modello, cammina a piedi sbriciolando ogni visione panoramica, con una curiosità becchettante e spigliata, indifferente a lasciare il segno in modo evidente e memorabile. Mi domando se il modo di procedere scientifico, nell’un caso come nell’altro, c’entri veramente qualcosa. Noi non sapremo mai infatti perché Botticelli ha dipinto La Primavera con quella disposizione di personaggi o chi Piero della Francesca abbia rappresentato nella Flagellazione. Ma se potessimo intervistarli il problema sarebbe risolto. In altre parole ci troviamo di fronte a una detection puramente congetturale, che al massimo definisce una soglia di probabilità e che alla fine, lungi dal poter diventare scientifica, si risolve in un esercizio di intelligenza e di erudizione. Questa messa in moto di informazioni, cognizioni, legami tra le discipline, sottolineatura di dettagli, intreccio di riflessioni filosofiche 377 e caccia di fonti letterarie è ciò che chiamiamo oggi cultura umanistica, che finisce per aver un valore in sé, per generare il modello di vita, in questo caso, dello storico dell’arte, che diventa ammirevole e confortante per molti di noi che annaspiamo sfuggendo a una sagomatura disciplinare precisa. Oltre a farci guardare il quadro con una vista seconda, che non si compenetra mai con la prima, infatti lo godiamo come se non ne sapessimo nulla, anche dopo la lettura di ponderosi volumi, quali quelli scritti sulla Flagellazione, ma ne alterniamo la pura visione, che resta vergine, con una lettura dotta che ci permette di parlarne con altri, mentre la prima visione è solitaria, ineffabile e incomunicabile. Lo scopo dello storico dell’arte è perciò soprattutto sociale e comunicativo. La differenza sta allora tra lo storico didattico e divulgativo, fino al livello alto di Gombrich, che potrebbe anche sparire dietro le cognizioni da lui conquistate, da condividere o respingere, e lo storico scrittore, come Roberto Longhi, il quale pure ci insegna moltissimo, ma ogni suo giudizio reca il suo marchio ed è inscindibile da lui, sicché anche le sue tesi meno accreditate (non parlo di expertise, ma di giudizi sintetici e folgoranti) restano pregne di valore e significano comunque qualcosa. Mentre Gombrich scarta gli errori, altrui e propri, senza rimpianti e per sempre. Giudica tanti libri, perfino suoi, superati senza versare una lacrima. Mao-tze-tung Ieri incontro Alexander Makhov con una delegazione culturale russa, ma privata, di poeti e musicisti, e mi racconta la seguente storia da lui vissuta. Al Kremlino c’è una riunione dei partiti comunisti di tutto il mondo e lui fa da traduttore per i comunisti italiani. C’è un tavolo lunghissimo intorno al quale vengono disposti, dopo studi infiniti, i vari capi dei partiti, badando per esempio a tenere lontani israeliani e libanesi. Quando arriva Mao-tze-tung (allora si traslitterava così) tutti gli fanno strada, pieni di paura e di soggezione. È alto più di due metri, massiccio, e incede come un dio in terra. Si siede di fianco a 378 Krusciov, fumando la sigaretta con un bocchino d’avorio, mentre i valletti, senza che faccia un gesto, gli tolgono la cicca per mettergli in bocca una nuova sigaretta. I traduttori cinesi, col cuore che batte per la paura di sbagliare, ne traducono in russo le parole tra le volute di fumo: “Compagno Krusciov, di cosa ci preoccupiamo? Noi abbiamo la bomba atomica.” “Ma avrebbe conseguenze terribili per tutti,” rispose Krusciov. “Sì, i due terzi morirebbero. Ma resterebbe un terzo. E saremmo noi.” Alexander, che allora aveva un bambino piccolo, tradusse impressionato il dialogo ai compagni italiani, che non fecero motto. Lapsus Il lapsus per eccellenza: dimenticare il nome di Freud (per inciso: avevo scritto palpus). Pensiero e poesia Alcuni pensieri li hai scritti in poesia. Cosa accade in questi casi? L’intuizione è velocissima e subito dopo puoi scegliere, se articolarla in modo sensato e riportando tutti i passaggi o lasciarla ruscellare in una sequenza di versi a te stesso semichiari, che scrivi in dieci minuti e forse meno. Ma è solo questione di una diversa velocità? No, perché, quando scrivi versi, tu ascolti una voce che ti guida senza sapere cosa verrà fuori, cavalchi un cavallo che non sai dove ti porterà, anche se devi stare bene attento a non farti disarcionare, invece quando scrivi in forma di prosa non hai sotto le reni un animale ma guidi un’automobile o pedali o pattini, comunque con un mezzo artificiale, delle capacità del quale devi tener conto, ma sei tu che lo piloti. Questa è la differenza. Ma in che modo e in che senso quello che scrivi è sostanzialmente lo stesso? Se confronti le frasi con i versi non c’è quasi nessuna somiglianza se non in qualche espressione 379 spia, eppure hai la certezza che si tratti esattamente della stessa cosa. Vediamo un esempio dal vivo? La presente luce Sole tinto dei nostri balconi, delle case chiuse della civiltà, delle tende femminee gocciolanti lo sperma degli avi dei pini rassegnati a una fruibile gioia, luce storica della lussuria democratica quando la torta degli affetti cuoce nel forno popolare dei paesaggi Nell’oro evirato e canoro le piume dei vecchi fibrillano, mareggia la ragazza incinta e tu ci gonfi di seme spirituale luce bianca dell’astro che testimoniò il grido neonato all’ospedale di Pesaro, ardendo il matrimonio benedetto e la mia doppia maternità Sole scottato dai tanti corpi nudi quando uscimmo scappando dalla peste a bagnarci nella marina fidanzata come bambini che lavò la madre nel confessionale della vasca e qualcosa non ci basta chiamando la presente luce “Sole tinto dei nostri balconi”... Il sole non è esso a tingere ma è tinto dalla nostra civiltà. La qualità della sua luce infatti è storica e dipinta dagli interni, perché la civiltà è fatta di case chiuse, di forme geometriche inclusive ed esclusive, dentro cui si snodano le generazioni, serbando memoria dello sperma, e cioè dei caratteri, degli avi. Anche la natura è rassegnata a godere con noi di una gioia convenzionale, “fruibile”, data dalle condizioni ferree 380 dell’architettura urbana che ingloba le piante. Anche la natura, parca e severa, è ingoiata dalla nostra “lussuria democratica”, al punto che i nostri affetti diventano qualcosa da gustare, dopo averli infornati nel paesaggio, popolare perché alla portata di tutti. “Nell’oro evirato e canoro…” L’oro del sole viene così evirato dalla civiltà umana e il suo canto diventa musica adatta alle nostre orecchie, scandisce liturgicamente la vecchiaia e il concepimento e illumina il parto della donna che parla, ricordando la benedizione del sole alla nascita dei suoi due figli. “Sole scottato dai tanti corpi nudi…” Ancora una volta non è il sole che scotta ma è esso a essere scottato, dai bagnanti nudi che lo usano come un prodotto della civiltà dell’ozio e dello svago, ma anche come uno scampo dalla peste del dolore e dell’ingiustizia, che ci fa rintanare nelle case chiuse, ritrovando un sentimento della natura, non più basato sull’uso e sul consumo, bensì sull’innamoramento (“a bagnarci nella marina fidanzata”) e sulla memoria di un’educazione spirituale, simboleggiata dalla vasca in cui la madre lavava la bambina, per un auspicio di pulizia dell’anima, come in un confessionale domestico. “e qualcosa non ci basta / chiamando la presente luce”. E anche ritrovando il sole come potenza spirituale, che ha vegliato paternamente sul parto, sull’infanzia e continua a farlo, benché incompreso e addomesticato, pure sulla civiltà, anche chiamandolo e riconoscendo, qualcosa non ci basta. Perché? Questo sta a ognuno accettarlo, se non vuol tentare di rispondere. In questi due brani, il primo cavalcando senza sella, in forma di poesia, dico lo stesso che nella prosa seguente, ma con quale differenza? Il ritmo, il tempo, il tono, la melodia sono diversi, va da sé, ma soprattutto nel primo caso, nei versi, io faccio intendere subito al lettore che non ho intenzione di spiegare niente, che tutto deve spiegarsi da sé, che è chiamato a condividerne l’evidenza che è così, anche se non sappiamo nessuno dei due come e perché. Egli potrà entrerà con me in una corsa, lenta nel ritmo, ma velocissima nel significato. Mentre nel secondo caso, cavalcando con la sella dietro di lui e tenendo le briglie del mio cavallo, gli dico subito che si 381 può mettere calmo, perché motiverò ogni passo senza correre. E indagando i significati, il cammino gli sembrerà di certo molto più lungo. Inoltre in versi dirò solo gli effetti, in prosa dirò le cause, almeno dando un contesto descrittivo, indicando la pista dentro cui si svolgerà il piccolo trotto della prosa. Il lettore avrà tutto il tempo di verificare se è d’accordo o no con me, e di scendere in qualunque momento. In poesia, il lettore non vorrà scendere di cavallo fino alla fine, pur senza sapere dove si andrà, preso dalla curiosità e dall’eccitazione della corsa, che al momento varrà più della meta, riservandosi il giudizio a quando scenderà di sella. La prosa permette una concentrazione continua su di sé e sul paesaggio, attraverso una cavalcatura affidabile, mentre la poesia una cavalcata emozionante, anche perché rischiosa. Ma se la poesia ti darà anche una vista inedita su di te e sul paesaggio sarà meglio, anche se non te ne accorgerai subito. 7 maggio La donna nell’arte (Federico Zeri) Federico Zeri, nel suo saggio La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, osserva come Leonardo da Vinci abbia finalmente ritratto la donna liberandola dai suoi connotati tradizionali, opposti e complementari, di sex object e di dolente imitatrice della Madonna, dolce, malinconica e gravata di spaventose responsabilità materne. Nella Belle Ferronière del Louvre o nella Dama dell’Ermellino di Cracovia sono lampanti i segni di una condizione femminile aperta, “di una fioritura senza vincoli” che splende nei due dipinti come mai è stato prima e mai sarà dopo. Non importa che fossero le amanti di Ludovico il Moro, non importa che fossero espressione di una élite ristretta. Finalmente vediamo due donne stupende, ma né erotiche né materne. Due donne che fioriscono nella loro personalità, al di là del ceto sociale, del legame amoroso, del richiamo sessuale, delle virtù 382 religiose, del significato allegorico. Fioriscono non come agavi femminili e magnolie umane ma come persone, così pure da non simboleggiare altro che il loro vertiginoso e fermo essere al mondo. Caricandosi di quel sentimento transessuale (come si dice transoceanico) della vita che era proprio di Leonardo. Questo equilibrio si perde, spiega Federico Zeri, con la intellettuale cinquecentesca, “la superciliosa, sensitiva Laura Battiferri, moglie dello scultore Bartolomeo Ammannati, ‘tutta dentro di ferro fuori di ghiaccio’, come la cantava il Bronzino, che l’ha fissata in atto di ostentare, tra le mani eburnee, il Canzoniere di Petrarca, nume tutelare dell’alienazione italiana.” E arriviamo così al terzo tipo di donna italica: l’insegnante, la direttrice delle poste, la capoufficio, la preside, la diligente, virginea, rigorosa, morale, cadenzata, regolata, illuminata od oscurata, la parrocchiana, la madre matrona, che differisce il piacere all’infinito e lo spia sospettosa negli altri, disprezzandolo, che tiene in ordine la casa della vita e sferza la propria mente, la disseccatrice di verghe maschili, la moglie dell’uomo potente, nella perenne Controriforma italiana. La matrice di ogni controriforma sta nel Concilio di Trento, che si basava sulla severità e sul rigore verso gli altri, e non verso se stessi. Il vero inquisitore inquisisce se stesso, il vero censore censura se stesso, il vero fustigatore dei costumi, fustiga se stesso. Invece papi, cardinali, vescovi esercitavano una severità letale contro gli altri, impedivano altri di leggere quei libri che tutti assaporavano di nascosto, frustavano sempre gli altri e mai se stessi. Per questo è da temere ogni orgasmo di severità, ogni eccesso di rigore punitivo nei singoli e nelle collettività, perché esso verrà esercitato sempre e infallibilmente contro gli altri, tanto più che non sentiamo il dolore se non nel nostro corpo e l’umiliazione se non nel nostro animo. E così pensiamo che sia salutare ed energetico infliggerli ad altri corpi e ad altri animi. Talento e genio delle donne 383 Oggi alle donne è richiesto non più talento, che hanno sempre avuto, ma genio. Devono essere dolcissime come ballerine egiziane ed efficienti come manager londinesi, eleganti come attrici parigine e oneste come maestre abruzzesi. Devono cambiare continuamente stile con figli, figlie, mariti, padri, madri, colleghi, colleghe, passando dallo scherzo più pazzerello alla drammatica mansione di responsabile della famiglia. Devono insomma alternare di continuo la razionalità indispensabile per governare tutti coloro che a una donna sono sempre e comunque affidati e l’irrazionalità necessaria per essere seducenti, folli e libertarie. Non c’è da stupirsi che in molte cedano le armi e finiscano per rinunciare agli istinti più consolidati, reggano i ruoli delle commedie e dei drammi che devono recitare ogni giorno, mischiandoli di continuo insieme, e in realtà non desiderino altro che star da sole e fare qualcosa di stupido in santa pace. Se tanti ragazzi e ragazze non si sposano e cercano di protrarre fino al limite massimo qualunque responsabilità matrimoniale e autonomia, dipende sì dalle difficoltà economiche, che più o meno ci sono sempre state, almeno da quando l’Italia è diventata una repubblica, tanto che fatico a ricordare un periodo che non sia stato detto di crisi, ma soprattutto consegue allo spettacolo che offrono i loro genitori, ai quali in nessun modo vogliono assomigliare, senza saper trovare una qualunque alternativa verosimile. Il fatto è che sono esattamente come i loro genitori e non hanno voglia di ripetere la loro stessa vita ma per la prima volta sanno che non ne esiste un’altra. L’etica del giusto mezzo Aristotele definisce l’etica come arte del giusto mezzo, della mesotes, che non va confusa con la mediocrità, trattandosi invece di mirare il bersaglio nel suo centro perfetto. E per giunta di corsa, nel continuo cambiare delle situazioni. La mesotes è in realtà un’eccellenza, un esercizio acrobatico che richiede straordinaria prontezza ed agilità. 384 Ma per quanto uno possa perseguirla e trovarvi una relativa gratificazione, sempre intorno a lui gli altri contesteranno che abbia fatto centro, e quando lui si sentirà coraggioso, lo troveranno spericolato oppure pauroso, se visto da un altro punto di vista. Quando gli sembrerà di essere generoso lo troveranno uno sprecone, quando crederà di dare il giusto peso ai soldi e al successo lo troveranno avido, vanitoso ed egocentrico. Impossibile è misurare la quantità di virtù o di vizio, di eccesso o di difetto. E giacché soltanto l’intuizione potrà soccorrerci al momento di mirare il bersaglio, troverai sempre un altro che avrà avuto un’intuizione diversa dalla tua, o che non ne avrà avuta nessuna, e quindi troverà comodo spregiare la tua. Un’etica come quella di Aristotele ha bisogno di una società giovane, non solo in cui pochissimi erano i vecchi, e quindi avevano molta più autorità, ma in cui l’epoca stessa era giovane, all’aurora della filosofia, della letteratura, della musica, dell’arte, della politica. E soprattutto dell’etica. Ora noi siamo giunti da più di un decennio in una fase di giovinezza artefatta del mondo, tra legioni di anziani, in cui palesemente la storia della civiltà è ormai troppo lunga per poter più sperare di governarla in qualsiasi campo. Ci sono decine di morali, di religioni, centinaia di forme artistiche e musicali, migliaia di filoni letterari e poetici, milioni di film, miliardi di visioni della vita. La maionese è impazzita in tutti i campi, perché troppi ingredienti vengono messi dentro il pastone mondiale, che deve contenere tutto per tutti. Per questo nei giornali non c’è opinione che non trovi il suo contraddittore, in economia non c’è modello che non conviva col suo opposto, spesso nello stesso cervello, in letteratura non c’è dilettante che non venga stimato e recensito da altri dilettanti, in arte non c’è capriccio o scherzo della fantasia che non goda di rispetto incondizionato da parte di altri capricciosi. 385 Il crepuscolo che stiamo vivendo è all’insegna del troppo pieno in tutti i campi ed è un miracolo che in qualche modo il mondo tenga, e forse perché in realtà, sotto la crosta vociferante, sotto i fiumi di bava e il torrente psichedelico di immagini, resiste una natura che non riusciamo ad intaccare, che ignora tutta la carnevalata, che non si fa tingere dai mille coloranti tossici e riporta ciascuno al suo vero incolore sé. Cambiamento e movimento Si dice che gli uomini cambino continuamente e su questo dogma si basano tutti i settimanali in cui vengono registrati i vertiginosi mutamenti di mentalità che intervengono ogni mese e quasi ogni settimana. La nascita di nuove categorie di lavoratori, di nuove abitudini sessuali, alimentari, di modi inediti di divertirsi e passare la notte, di nuovi rapporti con i figli, di nuovi modi di innamorarsi, di nuovi modi di trattare i genitori, di nuove abitudini religiose, di nuove fogge di abbigliamento, di nuovi mezzi di trasporto, di nuovi gusti televisivi, di nuovi modi di andare in vacanza, di nuovi modi di fare sport e ginnastica, di nuovi, nuovissimi modi di raccontare le favole agli ingenui. In realtà non bisogna confondere il cambiamento con il movimento. È vero verissimo che gli uomini si spostano di continuo, nella stessa casa, nella stessa città, nella stessa nazione e nello stesso mondo ma è altrettanto vero che la gran parte di questi movimenti sono circolari. Uno per esempio non mangia più carne per rispetto verso gli animali e dopo un mese mangia solo carne perché si sente fiacco. Veste solo in jeans perché vuole la semplicità e poi veste solo firmato perché si deve consolare e poi veste di nuovo solo jeans quando ha un’altra storia che fila bene. Uno va in vacanza solo per una settimana e l’anno dopo per un mese e poi di nuovo per una settimana. Il carattere ciclico della moda poi è evidente, tant’è che conservando i vestiti dei decenni passati tu troverai che saranno di nuovo di gran moda ogni qualche stagione. 386 Il continuo affannarsi è sempre più avvitato su se stesso, mentre i cambiamenti sono del tutto superficiali. Se tu ti innamori, cosa importa mai che conosci la tua donna in Internet o in un bar, che le mandi sms o lettere scritte con la penna d’oca, se ci fai l’amore dopo il matrimonio o prima? La sostanza sta nell’amore, che è sempre quello, un genio transtemporale. Se tu vivi in un paese sperduto e passi le giornate a lavorare in un ospedale, dedito alla cura dei tuoi pazienti e invece vivi a Tokio con attrezzature sofisticate, che orami si trovano del resto quasi ovunque, e la tua giornata ha il suo cuore nel tuo appassionato lavoro, cosa importa se poi ti fai due ore di metro o una passeggiata fino a casa? Le tue condizioni sono diversissime ma la sostanza della tua vita non cambierà di un millimetro, perché, messo al sicuro ciò che veramente conta, troverai facilmente il modo di adattarti alle circostanze, trovandovi qualcosa di buono relativamente a te, a Tokio come a Monte Ciccardo. Ecco che però molti, non avendo capito questo, non sono più in grado di innamorarsi, di fare bene il loro lavoro, di seguire una rotta morale, di coltivare un’amicizia sincera. La differenza tra le condizioni esteriori della vita li fa impazzire e distrugge la calma che presiede a tutto ciò che conta profondamente nella vita. 15 maggio Dante (Canto XXX del Paradiso) Lasciata la bicicletta dal bagnino Leonardo, ho preso a camminare lungo il mare con la Divina Commedia nella tasca del giubbotto. È una copia che posseggo da quindici anni, pagata mille lire, di cento pagine fittissime e che porta i segni di tutte le camminate e le soste in cui ho letto, mormorando o mandando a memoria, i versi di Dante. Macchie di terra, tinture di petali, chiazze di tabacco, persino 387 i segni del copertone di un’auto che ci è passata sopra quando mi è caduta in un sottopasso. Sperimento ogni volta la tolleranza dei camminatori come me, chi ascolta musica con l’iPod, chi mi sorpassa chiacchierando, chi corre, chi marcia con disciplina per dimagrire e rassodare. Nessuno che si stupisca se mi vede leggere. Leggo un canto ogni volta e me lo rigiro in bocca verso per verso e ogni volta ritrovo quel pensiero vergognoso e realissimo, secondo cui Dante non è un essere umano come noi, pur essendo un essere umano più di tutti noi. Morto a cinquantasei anni, come ha potuto nello stesso tempo progredire così pazzescamente nella lingua, che ha lui stesso reinventato e arricchito di centinaia di vocaboli, oppure usando nomi, veri e aggettivi in modo traslato o slittato o trasmodato? Come ha potuto caricare ogni verso di un’idea poetica o filosofica o tattile, ottica, gustativa? Percorrere tutto l’arco del più raffinato artificio poetico e linguistico per chiuderlo nella naturalezza del dire più sensato e, non dico già immediato, ma universalmente riconoscibile e godibile. In tal modo che, pur essendovi moltissimo di strapensato, di lambiccato, di allegorizzato, di artato, di sofisticato, tutto ricada come una musica di neve, di sangue e di luce, riconoscibile e familiare quanto il verso della marina o lo stormire del vento o il suono di una scossa di terra. Ruvida e spedita come la natura, lenta e austera, come la natura. Guizzante e geniale come la natura. Come se la voce umana e poetica sua si fosse nutrita di tutti i suoni e rumori della natura. Di continuo è necessario un commento per la sua comprensione eppure, tradotti e spiegati i passaggi pregni di erudizione o di dimenticati fatti storici o di perduti sensi lessicali, tutto ritorna cerchiato, chiaro e completo, come eravamo certi che fosse all’origine, non cogliendolo noi solo per nostro difetto. Penso ai primi quindici versi del canto XXX del Paradiso, nei quali, tra le tante trovate eccitanti, come quella di definire l’orizzonte, il “letto piano” e la corona degli angeli “ il trïunfo che lude”, perché è 388 un’esplosione di gioia vittoriosa che gioca nel piacere disinteressato e privo di violenza, c’è la visione geniale di Dio, il “punto che mi vinse” che pare “inchiuso da quel ch’elli ‘nchiude”, come il sole, che abbraccia tutto nella sua luce, ci appare come un punto abbracciato dal mondo. La verità, straordinariamente concentrata, diventa puntiforme, tanto che Dio lo nominiamo e pensiamo come un ente tra gli infiniti enti del mondo, e invece tutto è soltanto dentro la sua luce onniabbracciante. Il che mette in moto pensieri a non finire e, tra tutti, quello che riguarda proprio il modo generale del pensiero stesso, che non può fissare qualcosa se non riducendolo a suo oggetto puntiforme, mentre invece deve riconoscere che è esso un punto tra i miliardi che quella luce illumina e rende vivo. La bellezza di Beatrice “si trasmoda / non pur di là da noi, ma certo io credo / che solo il suo fattor tutta la goda” (XXX, 19- 21). Beatrice è così bella che non solo nessuna voce terrena saprebbe lodarla ma neanche gli angeli e gli arcangeli. Soltanto Dio potrà goderla tutta. Questa è la vera innocenza perduta da noi occidentali troppo invecchiati. Dante non si vergogna verso il culmine della visione beatifica di esaltarsi per la bellezza della sua donna, che non vede per niente come peccaminosa, benché sappia benissimo che ogni contemplazione della bellezza è sempre erotica, in tutte le sue trasmodazioni. Ma è la sua coscienza purificata dalla gioia, così forte, del bene, che lo autorizza, con una fiducia sovrumana nella sintesi di giustizia e felicità nell’amore, che lo porta addirittura a dipingerci un Dio innamorato di Beatrice. Idea per noi, sfortunati contemporanei, sospetta e spavaldamente maliziosa, e per Dante stupendamente ingenua, vera e potente, perché egli era giovane, e la purezza tiene sempre della gioventù di spirito, del forte godere il quale, in virtù della sua forza, sempre purifica. Mentre il debole godere, l’eccitabile e fiacco godere contemporaneo, ricade nel pensiero morboso e 389 sospettoso, nel ridicolo, nel timoroso. La malizia infatti è sempre segno di debolezza e di fiacco sentire, se si ferma a metà. Ma se è così vigorosa ridà in innocenza. Dante può dire “vinto mi concedo” (v. 22) perché vittoria e sconfitta nell’amore si identificano, e perdere la sfida con Beatrice, rinunciare a resistere al suo fulgore, è andare al di là della vittoria. E perdere la sfida con Dio è godere tutta la luce possibile a un umano. Dante, notiamo bene, perde, sì, la vista ma non chiude per questo gli occhi, anzi li tiene bene aperti, bene abbagliati davanti “al ciel ch’è pura luce”: Luce intellettüal, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogni dolzore. La “luce viva” di Dio non è piena d’amore perché intellettuale, come potrebbe parere in un’ottica filosofica greca, ma è in tutt’uno e dall’inizio amore e conoscenza, giacché l’amore non consegue né segue, bensì crea, inaugura, genera, tutto con la stessa conoscenza. Così come la letizia, la beatitudine creativa, non vince il dolzore dopo lunga lotta ma lo trascende, lo precede da sempre, non essendo mai stata minacciata da esso. Come mai si è visto un “sùbito lampo” minacciato dall’ombra. Prima luce puntiforme nello spazio, ora Dio è luce puntiforme nel tempo, lampo, ma lampo che abbraccia tutto il tempo. Grazie a questa apertura tenace dello sguardo, Dante si riaccende “di novella vista”, e ora non c’è luce che non possa più sopportare: si spande la fiumana di luce dalla quale angeli, come api e farfalle, escono e nella quale si risprofondano. Che in questa apoteosi di luce Beatrice continui a parlare è un’altra prova, ce ne fosse bisogno, della sorgente potentissima dell’amore di Dante, e di come tale potenza abbia purificato e reso innocente l’inserzione di una dea pagana, perché tale è in realtà Beatrice, molto più simile alla Venere-natura di Lucrezio che non a un’ancella della Madonna, nell’Empireo. Perché anzi Beatrice è la natura stessa, e 390 non ci vuole un freudiano, anzi in questo caso sarebbe puro masochismo invitarlo, per leggere nel giusto senso le parole dell’amata: L’alto disio che mo t’infiamma e urge, d’aver notizia di ciò che tu vei, tanto mi piace più quanto più turge; Lasciando stare l’infernale gaffe di quel punto e virgola dopo turge, che non so quando e da chi sia stato aggiunto, è deliziosa la sincerità di Beatrice che gode di vedere inturgidirsi il desiderio di Dante e che tarda a soddisfarlo perché è troppo bello vederlo crescere. Turgida è infatti la verga, come non può non venire in mente a noi maliziosi, nello sprofondo dell’amore incorporeo. E subito dopo lei legittima il suo piacere di vederlo teso sulla corda del bene felice, dicendo che “convien” che Dante beva prima l’acqua della Rivelazione. Prima però è il piacere a muoverla, e solo dopo il conveniente. Così, in mezzo alla fiumana di luce che tutto inonda, nello svolazzare inebriante degli angeli, Beatrice riesce a mettersi al centro di tutto e a governare saldamente il cuore del suo amante mai toccato, perché alla fine sa che lui non avrebbe mai potuto cogliere e capire l’amore di Dio se non avesse prima e insieme assaggiato del suo. E allora ridi! Ridiamo anche noi! Dio non è stampato nei libri di teologia e di filosofia, Dio non è pensiero o pensato filosofico, Dio è riso di luce, di felicità femminile, Beatrice “il sol de li occhi miei”, e se non lo capiamo è perché non abbiamo “viste ancor tanto superbe” (v. 81). Oggi appunto non siamo abbastanza superbi, abbiamo paura, siamo timidi tanto più siamo arroganti e impuri. Tutt’uno è il riso di Dio, della donna amata e della natura! Osi spingerti a questo? O hai paura? E allora tieniti i tuoi sospetti, le tue ortodossie ed eresie, i tuoi sottili distinguo ermeneutici e le tue colpe sofisticate. Dante non ha paura del bene e vedi come è in grado di rigenerarlo. 391 Segue un’immagine che dice tutto e che ho più volte sperimentato con i miei figli. Quando un neonato si sveglia tardi, oltre il tempo abituale della poppata, ancora a occhi chiusi fa uno scarto con la testa e volge la bocca dove si aspetta il seno. E ha delle scosse di desiderio, succhia a vuoto, agita le braccia e, se non trova subito la tetta, si mette a urlare e a piangere finché non succhia il capezzolo che la madre, già timorosa che muoia di fame, con movimenti convulsi sfodera per porgergli: Non è fantin che sì sùbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato dall’usanza sua, come fec’io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l’onda che si deriva perché vi s’immegli; Un amico dantista mi fa notare che si tratta di un fantin, non di un in-fante, di un neonato che non parla. E in effetti allora le donne allattavano per anni. Ecco detta l’innocenza del fantino verso cui punta il massimo sapere, da cui sfugge ghignando la mezza cultura, il mezzo sapere. La stessa innocenza che noi vediamo con sospetto quando lambisce la massima potenza. Il delirio di potenza di Dante che, dopo Mosè e San Paolo, è il solo a poter mirare questa luce. Ma chi si credeva di essere? Sapeva, d’accordo, di essere un poeta sommo ma possibile che pensasse davvero di essere il prescelto di Dio in virtù delle sue leggendarie qualità poetiche? È possibile una presunzione sfrenata del tutto pura nella sua innocenza, è possibile un’elezione della quale uno non goda neanche per un millesimo di secondo per basse ragioni venali e vanesie? A quanto pare, sì. In questo passaggio Dante ci affascina per la sua pazzesca e delirante pretesa, tanto più in quanto ci sembra credibile e innocente. Chi ama Dio in questo modo è il solo, è l’eccezionale, è l’eletto. Chiunque lo ama in questo modo è Mosè e San Paolo. Ma noi che ne veniamo a conoscenza scopriamo nella nostra privazione, benché faville di quella luce solo grazie a Dante ci brucino felicemente gli occhi, che pensare così equivale a considerare geloso e selettivo l’amore divino, 392 aristocratico ed esclusivo. Non sapeva Dante tutto ciò? O pensava davvero di essere il nuovo Cristo, il Cristo poetico? Pensava davvero di poterci salvare col suo poema? Io credo che lui lo pensasse. E credo anche che aveva ragione a pensarlo. E che pure questa capacità di delirio sproporzionato, questa theia mania fosse parte integrante del suo talento. Un talento di straordinaria innocente superbia in grado di toccare, percorrendo il cerchio vertiginoso, l’inerme innocenza del “fantino”, del fantolino. E così mi domando, non è che dovremmo anche noi diventare più superbi? Avere pretese più alte, rilanciare la posta, osare? E se davvero Dio l’avesse scelto? Se Dio abbaglia con la sua luce le anime dei beati si vedono riflesse a migliaia, le “vidi specchiarsi in più di mille soglie”. Capovolgendo la percezione comune, secondo cui è evidente ciò che ho sotto gli occhi ma remoto e astratto ciò che è metafisico e divino, Dio si vede molto meglio, con gli occhi abbagliati, è molto più evidente di ogni altro essere, visto che le anime sono solo riflesse, come un colle si specchia in acqua per rimirarsi. Eppur sono lucentissime. Ma quello che più mi sorprende è l’affermazione che segue: La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e ’l quale di quella allegrezza. Presso e lontano, lì, né pon né leva: ché dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. Dante può vedere tutto nel nitore più completo e con precisione estrema, indipendentemente dal fatto che sia vicino o lontano. Senza più i vincoli del cono prospettico o con una vista talmente acuta da cogliere i dettagli di un beato lontanissimo? È una di quelle percezioni impossibili e paradossali che pur aprono all’intuizione che la visione prospettica del cono visivo è interamente umana, e valida soltanto quando abbiamo a che fare con i corpi nello spazio 393 terrestre. Se Dio guardasse Pesaro, in una cella di una casa della quale città sto scrivendo, non la vedrebbe certo come noi, non avendo occhioni dotati di retina, fovea e bastoncini. Ma come la vedrebbe? Caduti i vincoli della sopravvivenza darwiniana che struttura i nostri occhi come le gambe e i piedi per poterla sfangare? Dante ce ne dà una visione impossibile, spiegando che “dove Dio sanza mezzo governa / la legge natural nulla rileva”. Non si rende conto Dante che la natura non si può scavalcare? Che la natura è la stessa creazione di Dio? Che non la si può contraddire? O se ne rende conto fin troppo, visto che non vi sono più in gioco corpi ma anime di beati ed angeli. Ma il corpo di Dante resta vivo o no? E allora questa nuova vista è un dono indotto dalla grazia divina. Eppure il nitore con cui Dante vede tutto tranne Dio non vuol dire che il nitore stesso, l’evidenza fotica stessa non è il valore assoluto, che Dio non è né può essere luce, bensì oltreluce? Quando Dante si inoltra nella luce profumata della rosa divina, “nel giallo della rosa sempiterna”, vede, a quanto pare, che i colori almeno restano tali e quali a come noi li percepiamo e che le regole della riflessione e della rifrazione della luce non cessano di valere, tanto più che Beatrice, la quale non perde mai il controllo dei nervi e delle estasi, lo invita a mirare le bianche stole e a individuare il seggio vuoto di Arrigo VII di Lussemburgo. Davvero Beatrice è donna di ferro e di petalo, “dittatore spedito” e nobile guida turistica del paradiso, che non le fa più quel grande effetto, essendone abitante privilegiata. Anche quando si starebbe per sprofondare nella luce divina, senza fare una piega, lei gli profetizza la discesa imperiale e, come una madre adirata, strapazza lui e tutti i “fantini” italiani che, in preda alla “cieca cupidigia” muoiono di fame e cacciano via la balia, cioè l’imperatore. Dando così un solenne liscio e busso anche a Dante, che non viene risparmiato dall’accusa, in un passaggio involontariamente comico della Commedia. Il quale Dante ci aspetteremmo si svegliasse dall’incubo della metamorfosi di Beatrice con un sussulto d’angoscia, visto che l’amata salvifica si trasforma in un’energica matrona sermocinante, pronta ad annunciare la spedizione di un 394 altro papa, Clemente V, nel fondo dell’inferno. Invece Dante non fa una piega neanche lui e comincia il nuovo canto come nulla fosse successo. Si sa che le donne hanno di questi scatti, per il loro famigerato senso di giustizia che strabocca. E tuttavia queste docce fredde sono indispensabili perché l’orgasmo mistico non arda dentro di sé e non lasci svuotati a sorpresa. 16 maggio Dante (Canto XXXI del Paradiso) “In forma dunque di candida rosa” gli si mostrava la chiesa che “nel suo sangue Cristo fece sposa”. Sangue che non macchia affatto la rosa con le sue gocce perché anzi è proprio il rosso che metamorfosa in bianco, mentre gli angeli cantano la gloria di Dio che, facendoli innamorare di lui, ispira la loro ugola, e vanno e vengono tra lui e la chiesa. Sono essi a mellificare in Dio col polline della chiesa ed è Dio a conferire loro la virtù di mellificare grazie al polline umano. Per trasformare il polline in miele ci vuole questo amore scambievole, occorre la virtù delle api angeliche, della fioritura ecclesiale e del potere mellificante di innamorare da parte di Dio. I colori, come gradazioni ed espressioni dello spettro della luce divina sono le qualità più oggettive che ci siano, ma oggettive in virtù dello scambio amoroso. Per cui si può dire che senza amore non ci potrebbero essere i colori. Né il color di “fiamma viva” delle facce, né l’oro delle ali né il bianco della figura. E quando gli angeli “scendean nel fior” non è per depredare e per succhiare il polline ma per porgere “de la pace e de l’ardore”. I fiori godono del succhio delle api che si sono caricate dell’amore divino “ventilando il fianco”. Il bello è che la luce non è metafora, la luce è emanazione divina fisica e ultrafisica, è il ponte tra il corporale e lo spiritale, essendo entrambi decisivi, e penetra “per l’universo secondo ch’è degno”. È la “trina luce” scintillante in una “unica stella” che Dante invoca: 395 “guarda qua giuso alla nostra procella!”, in una delle sue frequenti ricadute a piombo nel mondo terreno, quando la corrente della sua esaltazione ha un black out, con una brutale mancanza di riguardi verso di sé e verso di noi che ci troviamo tutti a precipitare con lui, a una velocità ben maggiore di quella che possa sopportare il nostro invecchiato corpo artificiale. E dopo una picchiata vertiginosa verso terra, ecco una nuova rapidissima risalita che, quasi giunto al suolo, porta l’aereo mistico del corpo di Dante a risalire grazie a un paragone così coerente con la dinamica spaziale da rendere l’impennata, che lo riporta su, del tutto naturale: Se i barbari, venendo di tal plaga che ciascun giorno d’Elice si cuopra, rotante col suo figlio ond’ella è vaga veggendo Roma e l’ardua sua opra, stupefaciensi, quando Laterano a le cose mortali andò di sopra; ïo, che al divino da l’umano, a l’etterno del tempo era venuto, e di Fiorenza in popol giusto e sano, di che stupor dovea esser compiuto! Se i barbari, i peggiori responsabili della procella, venuti dal Nord rimasero a bocca aperta quando videro a Roma il palazzo imperiale del Laterano, io che “era venuto” da Fiorenza, quella feccia di città, “in popol giusto e sano” di quale stupore dovevo essere colmo! Dai barbari a Roma e da Firenze alla “milizia santa”, alla comunità dei giusti e dei sani. Dante riesce a dare a Fiorenza un fendente tanto più efficace quanto più la inserisce come secondo termine di paragone, cioè quello che in genere è universalmente e per antonomasia condiviso da tutti, e così fa slittare come la cosa più pacifica del mondo che la sua città sia la più ingiusta dell’universo. E non per un odio e un risentimento suo, che si scatenano incongrui quando più il suo animo dovrebbe essere purificato e deliziato, e che hanno invece su di lui una potenza tale da proiettarlo violentemente fuori della rosa mistica, come ci segnala quell’espressione “era 396 venuto”, come se la sua visita paradisiaca fosse avvenuta ormai così tanto tempo prima da essere persa e da conservare soltanto un’evidenza logica e dimostrativa ai fini dell’argomentazione. Straordinaria evidenza di un odio oggettivato che noi non riusciamo più a capire né a sentire, convinti come siamo, per eccesso di ripartizione e compartimentazione intellettuale e artificiale, che ogni passione, dall’estasi all’odio, debba avere la sua aula e il suo reparto nell’animo umano. Cosa che Dante, che ci viene a dire molto della forza passionale dei suoi tempi, smentisce senza farsene un problema. Potessimo anche noi, quando odiamo e disprezziamo un male in un uomo o in una città avere la certezza che meritino un qualche girone infernale, dove certamente andranno a cadere, senza mai pensare che invece potremmo essere noi, per ragioni subdole e inconsce, comunque ambigue, a rivelarci ingiusti e a nutrire in noi lo stesso male che condanniamo, o un male diverso che preferisce mimetizzarsi attaccandone un altro di altri. E soprattutto senza dover pensare che quel male non riceverà nessuna punizione e che quell’uomo, o quella città ingiusta, continueranno beatamente e senza neanche accorgersene la loro opera corruttiva, e sarà più facile che ci rimetteremo noi denunciandoli. Dante invece, lo vediamo ancora una volta, credeva nella forza politica e morale della poesia, e infatti ha consegnato uomini e intere città a un inferno poetico perenne, ancora bollente dopo millesettecento anni. Ed è un inferno così naturalmente giusto che il sentimento che prova è lo stupore, tra i più ingenui che esistano, e più idonei ad addossare tutto il male alla cosa, senza nessun intervento polemico di colui che la condanna. E già si scorda di Firenze e dei barbari, che in fondo gli servivano solo a ritornare, e precisa che, se restava zitto, era anche per il gaudio che provava, che gli dava piacere nel silenzio. 18 maggio 397 Un pensiero superstizioso Mi visita più volte un pensiero irrazionale e superstizioso, che gli stati d’animo che viviamo oggi siano determinati dalla sorte che avremo domani. Quando un bambino soffre una misteriosa malinconia è il presentimento di un licenziamento a quarant’anni. Quando una bambina non gioca più con gli altri è perché a trent’anni verrà lasciata dal marito. Ma non è certo più né irrazionale né superstizioso se pensiamo non a fatti locali, a occasioni precise ma alla morte, l’evento che sappiamo con certezza che accadrà, benché, stando alle teorie di Hume, esso stesso non è una verità di ragione ma soltanto un caso altamente probabile, una possibile verità di fatto tutta da verificare. Ci ripenso osservando come gli stessi casi si ripetono alle stesse persone, fausti e infausti, come se non promanassero dalle fontane esterne della sorte ma da una fonte interna che srotola il suo getto. Dal tuo cavalluccio della giostra o dalla tua auto biposto puoi tentare di catturare a ogni giro i premi appesi, ma dalla stessa posizione e con le stesse possibilità. Così quando sei diventato adulto e concorri a un incarico di manager hai le stesse probabilità di vincerlo di quando da piccolo tentavi di prendere il premio volando nel seggiolino. Nella misura in cui questo è vero, dipende dalla statica società italiana, dalla ciclica mentalità dei peninsulari, coloro che amavano un tempo la commedia all’italiana, con i caratteri tutti fissi, ma allegra, esuberante e guascona, e amano oggi gli sceneggiati, molto più tristi e sibilanti, sussurrati e medianici, recitando come sacerdotesse in trance, dove tutti non solo soffrono di continuo con il pilota automatico, esperienza impossibile nella realtà se non per un forte dolore fisico, ma vivono sempre le stesse esperienze: la donna lasciata dall’amante, se la serie dura, viene lasciata da cinque amanti. Il capitano d’industria, se truffa i concorrenti, li truffa per cinque volte, il ragazzo inaffidabile invecchia tradendo le stesse persone nello stesso modo. 398 La commedia di caratteri è il modo più efficace per cogliere gli italiani nei tempi grassi e proiettati verso il futuro, per ignoranza ed innocenza. Per i tempi magri, nervosi e scontenti come i nostri invece non c’è genere letterario che possa diventare popolare, perché gli italiani non amano essere colti nei momenti di debolezza, se non col riso. La poesia del tranfsuga La poesia, essendo espressione del sentire di uno che esce dalla società, sarà sempre occasione di letture svagate e distratte per i più. E per i meno segno che qualcosa è fin dall’infanzia incrinato e impedisce di salire su quel palcoscenico. Sebbene ci sono molti che con la poesia sul palcoscenico tornano, in recital per un pubblico scelto. Ma il poeta non sarà mai personaggio di commedia o di film drammatico se non in forma svisata, o ridicola o sentimentale oppure in un flusso liricheggiante che intride tutto. Se la lingua sociale è ormai finta, menzognera, fasulla, ciò dipende non solo dal fatto che si dice il contrario di quello che si pensa, che si dice il contrario di quello che si fa, ma anche dal fatto che si fa finta di conoscere verità che si ignorano e di avere certezze che non si hanno. La parola è un’arma di nascondimento, difesa e attacco che puoi usare per confondere le acque, confondere gli altri, illuderli, emozionarli verso false mete, depistarli, coonestare le tue malefatte. Poesia tra il dire e il fare Quando scrivi poesie manca il ponte tra il dire e il fare, perché dire è lo stesso fare. Se non conosci la vita del poeta te ne crei un’immagine tutta dipendente da ciò che scrive. Diventa patetico o ridicolo scoprire il più delle volte che la mammola tutto sentimenti delicati è un cinico profittatore e imbonitore sociale. La poesia tuttavia conserva non solo la sua aura ma anche il suo valore, poiché scrivere è appunto già un fare, anche se molti non riescono più a prendere sul serio il poeta che hanno visto impegnato 399 in una sua volgare e selvaggia autopromozione. Il suo atteggiarsi ripugnante non intacca più, dopo la sua morte, la sua opera. E per i più equanimi neanche prima. Il poeta può essere una canaglia nella vita e uno stinco di santo in poesia. Non perché canta i sentimenti nobili ma perché, mentre mente artisticamente, non dice mai bugie, non trucca mai i dadi e non tira mai colpi bassi. Quest’impresa lo sfianca al punto che dopo vuole godersi una sana cialtroneria. Quando scrivi manca anche la verifica sul ponte tra il dire e il sapere perché in una forma traslata, metaforica, obliqua non puoi risalire sempre al significato del detto, e così il poeta ti può far presumere di conoscere verità che non conosce affatto e che, risalendo per i palchi dei rami, potresti scoprire in quei versi, sebbene in certi casi non ci sia un significato né un senso preciso. E togliendo tu la polvere dalle ali dei versi la farfalla non vola più. Ma ciò non significa che non volasse prima, grazie proprio alla magica polvere poetica che hai soffiato via. Ci sono farfalle che continuano a volare, forse erano in realtà altri insetti. Ecco perché il poeta non può dire la sua verità direttamente, pena il sembrare retorico, ingenuo o utopistico, né denunciare direttamente l’altrui menzogna, perché sarebbe oratorio e tribunizio. Deve allora trasporre tutto con figure retoriche, scene svisate, anamorfosi ingegnose in un piano teatrale, nel quale incorporare il male stesso del mondo, la sua mascheratura sociale, come se si muovesse ancora in quella situazione pericolosa che sempre la convivenza con gli altri ci dispiega, e solo raramente può aprire un varco di dire diretto. Pensieri questi che mi sono suscitati dalla lettura di Ronda dei conversi di Eugenio De Signoribus. Poetare è spiazzare il nemico, costringendolo a combattere nel tuo terreno. Il più delle volte il nemico lo fiuta e rifiuta la lotta. Poetare è attivare un’amicizia possibile. Ecco perché alla poesia ti devi affidare, del poeta ti devi fidare, perché solo allora ti elettrizza il transito verso verità che puoi immaginare vive e reali con lui. E finché dura la poesia. 400 Oggi la poesia da vivere in flagrante è di gran lunga più diffusa di quella da rimeditare dopo. Mentre è poesia vera quella che ha entrambe le qualità. Una studentessa mi dice, dopo aver letto una poesia italiana contemporanea: “Sembra scritta in un’altra lingua.” Nella Piazza del Popolo Nella piazza del Popolo di una qualunque città, in una notte di maggio ancora calda, attorno a tavoli pieni di birre e caffè, da una solitudine senza sponde, proiettati in un fitto vociare euforico e spaurito, rivedendo per un’ora amici che non vedi mai. Tra le voci, le invocazioni: “Quando scrivi di me?” che osano i più navigati o più sicuri. Oppure: “Hai letto il mio libro?” Le persone più libere, pur desiderando le stesse risposte, se ne guardano bene e scambiano battute, spiando l’interesse che da te possono trarre, e tu fai lo stesso con loro. Di certo una tua mancanza è stata soppesata col bilancino del rancore, e tu magari non ne ricordi nulla, e un’omissione dell’amico ha spruzzato l’amaro sul tuo spontaneo abbraccio, senza che tu metta a fuoco più bene il motivo. In pochi minuti sintetizzi un ricordo, ribilanci un rapporto, cerchi di farti tornare in mente a che punto sta la partita del dare e dell’avere, in un desiderio di amicizia struggente che presto sarà tradito dalla lontananza. Quando sospetti un’insincerità nelle parole affettuose che ricevi, una doppia e opposta via del sentire, devi rispondere con parole ancora più affettuose, con espressioni ancora più calorose, per neutralizzare il male latente o soltanto per spingerlo più a fondo. Gli altri sentono in te la stessa insincerità. Siamo troppo onesti quando scriviamo per riuscire a esserlo quando ci incontriamo. I nostri libri sopportano la solitudine, noi no, e abbiamo bisogno gli uni degli altri, con tutti i nostri difetti insopportabili, indispensabili per amarci. 401 Le omissioni Le relazioni tra gli uomini vengono stabilite in base alle parole che si dicono e agli atti che si compiono. Ma sarebbe istruttivo, forse più efficace, anche se più duro a sopportarsi, indagarle in base ai silenzi e alle omissioni. In ogni scambio di lettere già possiamo accorgerci che non corrispondiamo mai interamente a tutto quello che ci viene detto ma tacciamo proprio sui punti che o non ci garbano o vogliamo lasciar cadere, o ci toccano troppo profondamente o in modo troppo malaccorto. Quando rispondiamo rilanciamo con questioni che l’altro non ha mai sollevato e sono precisamente quelle che ci stanno più a cuore e che non riceveranno risposta. Riprendendo in mano le lettere che ci siamo scambiati potremo definire con gran precisione le strade che non potremo mai percorrere in comune, potremo misurare la distanza tra noi, al punto di accorgerci che la strada comune è ben stretta e che molto spesso l’abbiamo già percorsa insieme. È elementare l’accortezza di chi risponde a una lettera punto per punto, credendo in questo modo di mascherare bene i suoi desideri e le sue delusioni e di continuare il cammino a due virtualmente, tenendolo a disposizione al bisogno. Ma questo stesso modo di rispondere segnala che non c’è un interesse nativo ma soltanto di riflesso e che non c’è nessuna intenzione sostanziale di uno scambio concreto né, molto probabilmente, ci sarà mai. Ma hanno risposto per buona educazione. E io li apprezzo. E ci sono quelli che ti mandano sette o otto pagine di riflessioni articolate di fronte alle quali diventi un pubblico lettore. E in fondo queste sono le vere lettere. Lo stesso capita quando si conversa. Straordinario è il caso di un ascoltatore sincero, che comunque sarà relegato in quel ruolo per sempre. Altrettanto infrequente è colui che, tenendosi a quello che dici, adduce esempi e situazioni simili a lui capitate, non per cancellare l’esistenza dei tuoi e sostituirli con i propri, ma per capire 402 insieme qualche tratto della sorte. E ciò deriva dal fatto che sono rarissime le persone congeniali e così disinteressate da nutrirsi di tutto in vista di una loro comprensione più completa della vita, o almeno della propria natura. Più unico che raro infine il caso in cui quello che dici interessa un altro in modo decisivo per la propria vita e quello che dice lui interessa te per la stessa ragione. Black out creativi C’è in ogni argomentazione, fatta eccezione per il discorso di pura logica deduttiva, una sequenza di vuoti impercettibili, di appuntamenti mancati con il senso, di black out ragionativi, di perdite secche di coerenza, mascherate dall’ordine sintattico e dalla precisione della lingua. Ogni discorso in prosa sopravvive lungo ponti aerei, compromessi arrischiati, scuse mancate, analogie improbabili, condoni edilizi e sanatorie, per cui il fantastico, il poetico, l’immaginativo, l’opinabile, il fascinoso e il drammatico costruiscono di fatto quel ragionamento che sembra filare per ragioni esatte che in realtà sono di superficie. Se questo è evidente nella psicologia, nella sociologia e nella stessa storiografia, non è meno insinuante nella filosofia. La potenza di voce del depositario della parola crea un’unità timbrica che si fa seguire in modo del tutto indipendente dalla veridicità dei significati. Non faccio esempi perché basta aprire qualunque libro. Con un esame meticoloso ci fermeremmo alla prima pagina, riempiendola di dubbi, di controprove, di ipotesi opposte, di obiezioni decisive, che restano tali finché si perde la sintesi di pensiero che soltanto autorizza questa marea di singole proposizioni inattendibili e inverificabili. Si scrive un saggio perché in esso la sintesi è più importante dei singoli elementi. Grande saggista è appunto chi è capace con queste sintesi poderose di far dimenticare le mille opinioni controvertibili, come Panowski, come Debenedetti, come Bonnefoy. 403 Le loro sintesi sono anch’esse controvertibili ma hanno una potenza artistica. Nella conversazione invece ogni frase viene discussa dall’interlocutore e non si arriverebbe da nessuna parte, perché ogni singola cosa che dici è controvertibile, isolata dal contesto. Ogni uomo è una selva di filoni discorsivi che puoi potare soltanto in un saggio. Non per questo diventi un uomo-saggio. È il saggio scritto semmai che assomiglia a un uomo tutto di un pezzo. Hai scordato un appuntamento. Come è potuto accadere? Un vuoto assoluto ti ha colpito e per giunta non avevi niente da fare. Una cancellazione, la morte di un secondo. Allora ti appigli a Sigmund Freud, il baluardo degli smemorati, che scopre universi di senso nel black out dello stordito. Peccato che le scoperte dell’indagine siano piuttosto amare. Confidi allora nel condono, nella grazia di chi ti dica: Non fa niente. E comprende il tuo dolore misto al suo, senza andare a cercare pulsioni sotterranee e ostili. È rarissimo però trovare una persona che conosca i punti ciechi, le perdite secche, e le accetti, in sé e negli altri, senza ricordarsene al momento opportuno per deprezzare, per far vendetta. L’uomo della grazia gratuita nei piccoli fatti della vita, che si esercita in vista del perdono globale di una vita intera. Velocità poetica La poesia come alternanza di mancanze e di abbondanze (avevo scritto: abbandonanze), di sviste e di perdoni, di risarcimenti e di saccheggi, di avventatezze e di ritorni nel branco. Un insieme di furti e di regali, di insufficienze clamorose e di scariche d’oro immeritate, che si susseguono a gran velocità, in modo che le colpe non stagnino e i colpi di fortuna non suscitino invidia. Come quando vedi correre un uomo sui sassi lungo un guado e sospendi ogni giudizio sulla sua anatomia finché non rimette piede a riva, perché speri che si salvi. Ma allora la poesia è finita. 404 Un conto, la poesia, che va in rosso e in bianco a gran velocità, e i cassieri della lingua rinunciano a farle il saldo. Doni e furti poetici fatti a chi? Al lettore o a se stessi? È la stessa cosa: un lettore è un autore che vuole arrivare sul fatto quando accade la seconda volta. Per questo si sente sempre più potente dell’autore. La poesia di scambio, col conto esatto e leggibile del dare e dell’avere: la cattiva poesia. 6 giugno Giuda Giuda abbraccio Cristo che non lo rifiutò. Tu, piccolo uomo, quando sei preso nell’abbraccio di un giuda cosa fai? Nessuno ti considera tanto importante da tradirti, allora stringilo ancora più forte, non perché senta la morsa che lo faccia temere, quando passa la misura, ma perché, andando più a fondo, senta vanificarsi le ragioni dell’odio, forse rinsavendo. Quanto dell’odio e del rancore rivolto contro di noi o che noi rivolgiamo ad altri è rancore e odio per la propria sorte, che va a caccia di un colpevole quasi per caso, o ingigantendo un piccolo torto, per riversare in quel forellino un fiumana di risentimento volta al tutto, a quello che per noi in quel momento è il tutto. 27 maggio Trinità Un giorno qualcuno dovrà fare giustizia di tutta la violenza in nome del divino. E non sarà certo un uomo. Dio che ci hai amato da morire, amaci ora da vivere. 405 Eppure chi ama non dice mai: Amami! Né dice mai: Ti amo. Ama di fatto. Invocando l’amore Suo o dicendo l’amore tuo, non sei degno. Sogno di una città del Nord Stanotte ho sognato una città del Nord Italia percorsa da un fiume di lava che passava sotto i ponti e che si accendeva all’improvviso, illuminando a giorno la gente che guardava dalle finestre rapita, o che scappava e forse moriva. Non posso dirlo perché correvo in un dedalo di vie verso un appuntamento con amici di cui non riuscivo a ricordare i nomi, i quali sarebbero dovuti tornare in auto a Pesaro con me. Ma ormai erano le otto e venti e come aspettarsi il rispetto di un impegno da parte di persone di cui non riesci a ricordare neanche il nome. Una bambina vicino a me, vedendo il fiume accendersi di colpo, lo guardò dicendo: “Che bello!” Il male Due amici che si sono ammalati, hanno attribuito tutti e due il male a un grave dolore che li ha colpiti. Non ci sono prove ma è evidente che coloro che fanno il male agli altri sono responsabili anche delle loro malattie. Il male ha una forza esponenziale mentre il bene soltanto aritmetica. Là c’è l’effetto valanga qua la ricostruzione paziente mattone per mattone. Il male morale è il modo in cui la natura selvaggia scatena la sua potenza dentro di noi. Quanta umiliazione, amarezza, violenza subita, quanta mancanza d’amore, quanto accanimento contro noi piccoli mortali per poter rilanciare un po’ di vita, per poter reagire e resistere in vita agli stessi nemici senza i quali resteremmo in vita molto meglio, e senza una perpetua guerra. 406 Forse la natura ci sveglia così dal sonno pastorale che ci vedrebbe inerti? Perché non escogita invece una felicità positiva? Non è vero allora che è così geniale. Si dice che gli animali siano amorali perché seguono l’istinto. Ma oggi che si scoprono in loro sfaccettature complesse, che essi si rivelano per la loro ricchezza intellettiva e sensitiva anche individuale, non potrebbero essere così furbi da nascondersi nella specie e addebitare agli istinti il loro personale piacere di uccidere. La tigre che ti sbrana sta godendo? 7 giugno Sesso selvatico Si contrappone l’omosessuale all’eterosessuale. Ma in realtà all’interno di queste due categorie, in certi casi sfumate e graduate, per cui si può riconoscere a volte solo una dominanza, esistono sottospecie altrettanto costrittive della tendenza primaria. C’è quello che a qualunque età è eccitato esclusivamente da ragazze giovanissime, chi è attratto solo dalle coetanee, chi cerca donne più anziane, chi è sedotto solo dai caratteri forti e allegri chi dagli introversi e malinconici. Chi può far sesso solo se ama, chi può farlo solo se non ama. Con l’affermarsi di una civiltà sempre più artificiale i primi istinti a essere colpiti sono quelli sessuali, che trovano strade sempre più tortuose e compulsive. Con la solita larghezza di manica ben tre milioni di uomini sono classificati in Italia come impotenti e una selva di perversioni, manie, complessi, complicazioni, inibizioni e aggrovigliati rituali sono diventati indispensabili per quell’atto che ancora quando ero ragazzo io si compiva con molto maggiore semplicità. Non che oggi non accada esattamente lo stesso tra i ragazzi, che si dimenticano il resto del mondo, ma con questo consenso appiccicoso e nauseante del mercato universale del piacere, che rende l’atmosfera meno intima e più imbarazzante. 407 La fine del senso del peccato, la mollezza della chiesa nell’escogitare proibizioni e vincoli che scatenavano l’istinto e lo arricchivano di spezie voluttuose, la familiarità sportiva con corpi nudi, la rinuncia di molte donne a caricare i gesti di una sensualità allusiva, poetica e sofisticata, nell’illusione che sbattere in faccia la nudità sia un segno di libertà, la passione per il proprio corpo considerato un tesoro inestimabile da offrire alla pubblica ammirazione, la palese predilezione delle donne di farsi contemplare nude o spogliate da tutti piuttosto che da uno solo, ha trasformato il sesso in una ginnastica impoetica, dove è sempre troppo caldo o troppo freddo, troppo presto o troppo tardi, troppo strano o troppo banale, finché la coppia compie il suo dovere di performance nella società del piacere legittimato e benedetto, non vedendo l’ora di tornare alle sue occupazioni. Nei costumi dei giovani la rivoluzione è iniziata quando gli adolescenti hanno cominciato a far sesso nella casa di famiglia, con la piena conoscenza, se non il consenso, dei genitori, spaventati dall’idea che in luoghi appartati le loro creature possano essere minacciate da malintenzionati. Mentre fino a vent’anni fa si cercavano piazzali di fabbrica notturni, boschetti rischiosi, si parcheggiavano le auto in aperta campagna, si amoreggiava negli androni di chiusi palazzi o sulla spiaggia non illuminata ancora dai faretti dei bagnini. Chiuse la case chiuse si sono aperte le case di famiglia e la mamma si vede venire incontro nel corridoio il ragazzo della figlia ancora ubriaco da un’ora di sesso e non sa dire nulla. Questo sesso casalingo e legittimato ha qualcosa di così perverso e strano che da solo spiega come si sia potuto spegnere l’istinto di rivolta in un’intera generazione. L’anima gemella (un apologo) Mettiamoci nei panni di un ragazzo di vent’anni vergine, con una mentalità metodica, che voglia cercare una ragazza congeniale. È riservato e di poche parole con chi conosce ma molto aperto e 408 buono con gli amici. Frequenta l’università e a un certo punto ha deciso che deve cercare la donna giusta, non affidandosi al caso e alla fortuna, alle emozioni e alle atmosfere, all’intuito e all’istinto, ma con la stessa mentalità scientifica con la quale studia la chimica farmaceutica. Dicono che in tutto il mondo c’è una sola anima gemella ma come fare per incontrarla? Le probabilità, ha calcolato, sono una su diversi trilioni, visto che non basta incrociare una donna ma bisogna scambiare con lei almeno qualche parola sensata. Né può mettersi a viaggiare selvaggiamente per l’Italia per poi passeggiare in ogni città più popolata, non soltanto perché ha un solo mese di tempo prima di rimettersi a studiare, ma perché dopo un po’ che guarda le donne che incrocia ne trae un senso di vanità e inquietudine, se non di ridicolo. È deciso a circoscrivere la ricerca alla sola città di Torino, dove vive, scartando l’ambiente universitario che frequenta, perché ha già conosciuto tutte le ragazze del suo corso e quella giusta gli sembra non ci sia. Non che confidi sul colpo di fulmine ma insomma cercarla nel suo ambiente sotto sotto gli dà un senso di disagio e preferisce scartare l’ipotesi. L’impossibilità manifesta di una ricerca scientifica non lo scoraggia. Si contenterà di un metodo sistematico. È evidente che dovrà cercare di incontrare il maggior numero di ragazze, perché altrimenti con un confronto tra poche donne quella che gli sembrerà giusta sarà la prescelta, ammesso che lei scelga lui, in un campione troppo piccolo. E, una volta unitosi a lei, la probabilità che ne scappi fuori a sorpresa una ancora più giusta sarà elevatissima. Ecco perché molti matrimoni falliscono entro il primo anno: le scelte sono state troppo istintive. Se lasci prevalere la parte animale, è possibile che su dieci donne che conosci tu abbia voglia di fare sesso con almeno due o tre di esse. Ed ecco che hai già una buona ragione per stare con una di loro. Se poi viene il desiderio di una vita regolare, e magari di un figlio, le ragioni per rimanere insieme aumentano e tu hai rinunciato per sempre alla donna giusta. 409 Il ragazzo vergine si mette a camminare per le strade e le piazze centrali di Torino e attacca discorso al bar, in un supermercato e in autobus con tre donne diverse, due delle quali lo degnano appena mentre la terza, più disponibile, è sposata. Mentre rientra a casa dopo tre ore in giro per la città, e centinaia di volti e di corpi guardati e subito cancellati, si rende conto che l’impresa è disperata. Non solo non poteva scegliere tra tutte le donne del mondo ma neanche tra un gruppetto di nove o dieci, perché poteva dire di conoscerne piuttosto bene soltanto due o tre. In novantanove casi su cento uomini e donne si accoppiavano in una rosa così ristretta di persone che era praticamente escluso che due esseri congeniali, nati per essere l’uno dell’altra, potessero conoscersi in questo mondo. La situazione gli sembrò finalmente assurda e crudele: l’anima gemella doveva esistere ma maschi e femmine erano distribuiti con causalità vertiginosa, che impediva loro di incontrarsi per sempre. Allora andò su Facebook e, cliccando il nome di un’amica, da lì andò a visitare le pagine delle amiche dell’amica, per guardarle almeno in faccia. Guardò migliaia di volti fino a notte inoltrata senza risultato. Non aveva mai riflettuto su quest’altra perfidia nella distribuzione della sorte, su questo tesoro di amori possibili, che avrebbero reso felice una proporzione altissima degli abitanti della terra, resa però impossibile dalla sconfinata estensione del pianeta e dal fatto che quasi tutte le abitanti hanno un palazzo, una casa o almeno una capanna dove nessun altro può entrare. Era naturale che tutti si affidassero al caso, all’occasione fortuita, cercando di dare qualche cauta spintarella alla sorte, uscendo spesso di casa e assumendo un’aria aperta e interessata a quello che si muoveva loro intorno. Un fatto incontrovertibile era anche però che uomini e donne si mettevano insieme di continuo, che le coppie erano almeno quante le persone sole e che molte ne conosceva che si dimostravano soddisfatte. Doveva forse pensare che un dio provvidente curava gli 410 incontri senza che nessuno se ne rendesse conto? In tal caso erano davvero ingrati verso quest’opera segreta della provvidenza. Considerato pure che quando uno incontrava la donna giusta aveva la sensazione di conoscerla da sempre e la riteneva l’unica, almeno per qualche mese. Non restava che ammettere che ogni uomo può disporre in una città di un milione di abitanti almeno di un migliaio di donne congeniali, come una donna può incontrare qualche migliaio di uomini che facciano al caso suo, e che quella con cui ci si mette, non potendo andare con più donne insieme, è una intercambiabile ma degna e sufficiente rappresentante della categoria. Almeno all’inizio, perché dopo ti affezioni a lei e non accetteresti più, salvo eccezioni, di andare di punto in bianco con una sconosciuta solo altrettanto congeniale. Restava aperto il problema della verginità, perché intanto era diventato un problema, e quando a mezzanotte aprì la porta una delle ragazze che viveva nel suo appartamento misto di studenti, il ragazzo vergine considerò che era intelligente, aveva un viso delizioso e le braccia nude. Per fortuna lui era un bel ragazzo e d’improvviso si accorse del modo in cui lei lo guardava. Delle due o tre ragazze che conosceva un po’ di più, era l’unica libera. Così finirono a letto e lui stupì della rapidità dell’iniziativa della ragazza e ancora di più nel sentirsi dire che l’amava ed era stupenda. Non avrebbe mai pensato a una soluzione del genere, fatto sta che lei aveva risolto il suo problema in un battibaleno. Anzi ora esso gli si mostrava in tutta la sua paranoia. Dopo tre mesi di un idillio di poche parole e molti fatti, la ragazza tornò a casa nervosa con un ragazzo americano che gli presentò, dicendogli che sarebbe andata a vivere con lui nel Nevada. Il ragazzo ne aveva visto la foto nel suo profilo, dopo una capillare esplorazione nei cinque continenti. Era partito col primo aereo, si 411 era presentato a lei, dichiarandosi sfacciatamente, e così l’aveva conquistata. Venne a sapere due mesi dopo dalla mail di un’amica comune che la ragazza aveva lasciato anche lui e che ora si era unita a un professore di contrabbasso di Barcellona. Il ragazzo aveva ormai ripreso a studiare e, gettando gli appunti su una poltrona, si disse che finalmente aveva capito e poteva smetterla di interrogarsi sull’animo femminile. Ripensando a situazioni parallele e perpendicolari alla sua, comprese finalmente che poteva rilassarsi e aspettare il momento giusto con tranquillità. Non stava a lui infatti la ricerca. Sono le donne che sanno come cercare e come trovare. E soprattutto sono loro a scegliere. Fece la doccia, si specchiò, si trovò bello. Avrebbe avuto una buona professione, benché all’estero. Non gli restava che mettersi in piazza, ostentando autonomia e sicurezza, e soprattutto senza nessun bisogno di correre dietro a qualche femmina. Tanto sono le donne a scegliere. E l’uomo fa prestissimo a innamorarsi di chi si innamora di lui. Sempre che gli piaccia? Neanche questo è un problema: la donna non si innamora mai di un uomo al quale sa di non piacere. 8 giugno Lo spazio immenso rende così difficile che due anime gemelle si incontrino. Ma che dire del tempo? Quarant’anni dopo di te nasce la donna o l’uomo che è la tua verità, e non c’è più niente da fare, perché l’abisso degli anni che vi separa è riempito dalla valanga della società, con l’urto delle sue mille convenzioni, che travolge ogni sentimento il più puro. Oppure l’uomo per te è vissuto nell’Ottocento e la donna di cui potresti innamorarti vivrà nel 2300. Lamenti con gli inferiori 412 Tu troverai sempre che il ricco si lamenta col povero, il bello con il brutto, la madre con la donna sterile, il vincente con il perdente, il famoso con l’ignoto e mai con qualcuno pari o superiore a lui o a lei in quel campo, perché si aggraverebbe la competizione frustrante, mentre crede di poter godere al contempo l’inferiorità dell’altro, mostrandosi dolente e inerme, e quindi in apparenza sicuro dai morsi dell’invidia. Mentre proprio così facendo la susciterà, insieme al disprezzo per la sua ottusità nella sensibilità e cecità nella strategia sociale. Col risultato che non solo non potrà effettualmente godere in modo mascherato la sua superiorità sul più debole, che non lo ammirerà né consolerà, anzi lo odierà, ma non potrà nemmeno trovare lenimento al suo dolore, che anzi si inasprirà per la manifesta confessione di debolezza morale, che all’altro sembrerà ben più grave dell’incomprensione da parte degli altri del suo supposto valore. Cerchiamo chi sta peggio di noi non per consolare, per farci consolare. 10 giugno Pro e contro Ceronetti Mi uniscono a Ceronetti, che ammiro come ogni raro uomo fortemente individualizzato, il quale abbia inventato la sua vita, sintonie radicali e antagonismi profondi, come ad esempio quando parla malamente dei bambini, che proprio uno spirito giocoso come il suo, crudele, tenero e guizzante come quello di un bambino, non riesce a capire. È troppo bambino anche lui, perciò gli ripugna il sentimentalismo verso di loro. “(I ragazzini) liberàti da scuola e famiglia ritroveranno le ali angeliche che gli furono tagliate insieme al cordone materno” (Insetti senza frontiere, 237) “Se sei amico della vita devi essere nemico della riproduzione umana, Se ami gli esseri umani, guardati dal riprodurne la specie.” (ivi, 260) 413 Queste due insensate affermazioni di Guido Ceronetti mostrano come l’audacia del ribelle, chiudendo il cerchio, si congiunga con il luogo comune più imbarazzante, mettendo in luce una viltà deludente di fronte alle tre attività che richiedono più coraggio: generare, formare una famiglia e insegnare (o imparare, che è lo stesso). Prendersela con la scuola oggi, quando tutti si sentono onniscienti e padroni del mondo e i soli angeli feriti sono proprio quelli che studiano e prendono la scuola seriamente. Accusare la famiglia di tagliare le ali mentre per molti è l’unico modo per levarsi mezzo metro da terra con un barlume d’amore. Scoraggiare la riproduzione quando le coppie negano ai figli di nascere e il popolo europeo sbianca in un inverno senza primavera, vuol dire giocare a fare le veillard terrible. Quando puoi, per diventare un angelo ferito, le ali qualcuno te le deve pur tagliare, e allora siano almeno la scuola e la famiglia. Il punto iniziale dell’innamoramento Leggo un pensiero di Guido Ceronetti: “Possiamo vivere a lungo, ma di tutti gli amori che abbiamo avuto e vissuto nessuno riuscirà ad apparirci reale. Tanto accedere e abitare in corpi di materia svela alla fine la sua immaterialità di sogno, si perde il convincimento che quel che abbiamo perduto ci sia mai stato realmente dato” (Insetti senza frontiere, p. 76). È un bel pensiero, è anche vero? Più volte ho cercato di risalire al punto iniziale dell’innamoramento, che è quello che decide tutto. Se infatti quello è reale tutto il seguito dell’amore lo è. E ho trovato che non sono riuscito a identificarlo, benché una certezza atmosferica vibra in tutto il primo tempo dell’amore. C’è stato e poi lo abbiamo dimenticato? Oppure non è un punto bensì una scia, una vena, un campo amoroso (come un campo elettromagnetico). Così la domanda: “Ho veramente amato?” fa tremare perché partecipa della realtà e dell’irrealtà del fenomeno allo stesso tempo. E la domanda: “Sono stato veramente amato?” fa 414 anche disperare, perché ci arrovella il dubbio che tutta la costruzione affettiva abbia seguito un punto cieco, un Big Bang individuale opinabile, una creazione inesplicabile e mai verificabile, perfino nel fatto che ci sia veramente stata. Potremmo fare l’inno alla creazione amatoria ma non saremmo onesti, anche se magari saremmo innamorati. Potremmo dire che solo chi ama ora sa se ha amato all’inizio. E che il nostro interrogarci è segno espresso di disamore. Ma la cosa è molto più delicata e complessa. Pause d’amore ci sono anche nei primissimi giorni d’innamoramento e una lucidità analitica può congiungersi benissimo con la passione più forte. Basti pensare al Diario del primo amore di Giacomo Leopardi, al saggio sull’amore di Stendhal o alle lettere di Eloisa e a tanti altri evidenti esempi. Quello che a posteriori si può senz’altro dire è che prima di innamorarsi si deve creare una mancanza, una situazione di fertilità nella quale più o meno inconsciamente senti che innamorarti sarà per te l’unica salvezza, un evento indispensabile, benché senza ancora un volto preciso. E soltanto allora, se incontri la persona giusta, ti innamori. Più ancora della persona giusta quel che conta è il tempo giusto, perché la cosiddetta persona giusta la incontri più di una volta senza accorgertene, e senza una voglia speciale di continuare a vederla, come capita a quelli che si frequentano da anni e solo un certo giorno si innamorano. L’irrealtà dell’amore, irrealtà che divora tutta la tua vita, cerca di placarsi nell’evidenza sperimentale dell’atto sessuale. Ma questa “prova d’amore”, questa prova che l’amore esiste e non ce lo siamo inventati noi, è ingannevole. Dopo fatto, torna più bruciante di prima la domanda se ami, se sei amato. E la gelosia rende l’interrogativo ossessivo. È possibile che una persona ne ami un’altra? Questa è la domanda del geloso, filosofo dell’amore, scettico sull’esistenza dell’amore, e insieme smanioso di credere che l’amore sia vero. 415 Io so di essere, o essere stato innamorato, se nessuno me lo domanda. Ma se me lo domanda non lo so più. Non è che avevo semplicemente il bisogno disperato di una donna? Non è che volevo che la mia vista si semplificasse? Non è che godevo all’idea di essere ammirato dagli altri in sua compagnia? Non è che la solitudine mi era diventata insopportabile? Non è che mi piaceva soltanto farci sesso? Se sei innamorato tutto ciò non ti importa, perché non t’importa sapere se ami veramente, visto che ameresti comunque. Simultaneità in amore Venire insieme durante l’atto sessuale è considerato il culmine del piacere e il segno dell’armonia amorosa della coppia. Questo perché è la simultaneità dell’innamorarsi, la reciprocità folgorante del riconoscimento a essere garanzia di realtà dell’amore che, disfasico e anacronico, potrebbe suscitare dubbi sulla sua natura genuina. Il vero amore infatti non solo è sempre reciproco ma sempre simultaneo. Visto che ci siamo innamorati insieme, è naturale anche venire insieme facendo l’amore. Far durare l’amore vuol dire accettarne le sfasature, le diacronie, le intermittenze, i gesti mancati, i silenzi, i vuoti: inglobare il disamore nell’amore. Se invece intendi amare nel senso più profondo come desiderio del bene di un altro e, fra tutti, di quell’altro che hai eletto, o dal quale sei stato eletto, desiderarne o averne desiderato il bene è una certezza che puoi garantire anche a distanza di anni. Anche se desiderarlo non vuol dire agire per conseguirlo, né tanto meno averlo di fatto conseguito. Noi infatti non sappiamo quale sia questo bene e perciò riteniamo vero amore quello che lascia libero l’altro di intuirlo e perseguirlo a modo suo, anche contro il nostro interesse. Se non si arriva almeno 416 una volta a questo, al massimo si scrivono paradossi brillanti ma non si attinge l’amore. Attingerlo del resto non migliora le cose. È anzi addirittura un modo di arrendersi all’evidenza. Amare è arrendersi mentre combatti per sopravvivere. Le donne sono più capaci degli uomini di questo puro dono. Per questo credono più di noi che l’amore esista, perché lo fanno loro. Se sono io a fare qualcosa, questo non vuol dire che sia irreale e soggettivo. Il tavolo l’hai fatto tu, non esisteva in natura, quindi non è un vero tavolo. Questo discorso sarebbe assurdo. Vuol dire allora che l’amore appartiene all’artificiale? Lo spirituale ha infatti in comune con l’artificiale che non esiste in natura. Ma noi siamo in grado di far diventare natura anche l’artificiale e lo spirituale. Se non pensiamo questo dobbiamo arrenderci ad abitare da profanatori un mondo sacro. Pensare in questo modo semplifica le cose e dà un amaro senso di potenza intellettuale, ma ci deforma. Il problema è definire il limite del sacro. Tutto è sacro ma ciascun ente in modo limitato. E anche il tutto, in modo limitato. Se no facciamo del mondo un assoluto e non ne usciamo più. Ricordiamoci l’arte di recintare il sacro. Quando hai una pena d’amore condivisa con una donna devi cercare di far esporre lei e puntare sulla sua metà del dolore comune per tirarti su tu. Giocare d’attesa, addossare sull’altra il dolore. Strategie che già segnalano che soffri meno, che ami meno. Cose che una donna non potrebbe neanche concepire. In amore non è tanto la telepatia che sorprende ma il fatto che due persone che non si vedono per un’intera giornata quando si incontrano si ritrovano nello stesso stato d’animo, non perché si specchiano l’una nell’altra ma perché la parabola del loro amore, come nei tuffi sincronizzati, si è svolta, anche in solitudine, nello stesso modo. E uno sa da sé come sta l’altra né per questo può 417 cambiare il modo di atteggiarsi, se non è finto, quasi l’amore imponesse le sue curve Si innamorano tra loro le persone che amano nello stesso modo? L’amore fa saltare i soliti discorsi sull’identità e la diversità, perché tu diventi l’altro diventando te stesso, quindi ti identifichi con colei che si identifica in te, formando insieme un cerchio di identificazione in cui vortichi, diventando te da donna mentre lei diventa te da uomo. Ma inoltrando gli sguardi in questo moto rapinoso tu vedi che invece lei è diventata più donna che mai mentre tu sei più uomo che mai. L’amore ti inabissa in un essere lei con dentro un’altra lei, perché ogni volta che la vedi è diversa. Lo stesso capita alla donna, sicché si può dire che soltanto nell’amore c’è l’uguaglianza perfetta dei diversi. Lutto per amore è come lutto per morte, giacché come l’amore è la nascita di un essere nuovo, così la separazione ne è la fine. Ma è un sentimento ingiusto, benché letteralmente vero, perché, mentre morendo una persona cara, tu la rigeneri dentro di te ma non puoi farle alcun bene più in questa vita, continuando a vivere la persona cara, tu puoi sempre confidare nel suo bene terreno, anche in tua assenza. E soltanto allora si vedrà se la ami davvero, e non solo come fonte di piacere. Sopporta una donna che altri godano il bene che scintilla dall’uomo amato, in sua assenza? Dovrebbe essere una santa. O innamorata tremendamente, continuando così a morire in vita. Sopporta un uomo di amare una donna morta? Dovrebbe avere in lei una fede pari all’amore per Dio. Cosa non affatto impossibile. Numerare i pensieri 418 Numerare gli aforismi, come si vede nelle opere di Nietzsche (per mano sua? Ne dubito), vuol dire appigliarsi a un ordine aritmetico formale, ben sapendo che questo modo di scrivere e pensare è sempre minacciato da un intrinseco disordine benché alla fine, se uno riesce a resistere in mare aperto, scopre di aver navigato dentro un lago. E tuttavia la numerazione progressiva, segnatempo della successione dei pensieri, calendario di una quinta stagione mentale, inganna ironicamente sulle relazioni numeriche interne di quello che si è detto, le quali molto meglio sarebbero chiare in una mappa lungo la quale si tendano tracciati in tutte le direzioni. Ma allora verrebbe meno la sensazione mimetica del pensare in un corpo che vive minuto per minuto e può saltare dall’Islanda al deserto africano, dall’antica Grecia all’America di Obama, sempre seguendo la sua sicura passeggiata di essere pensante qui e ora. Apertura agnostica di Leopardi Leopardi invece non numerava i pensieri ma, oltre alla data, riportava la festa religiosa del giorno, il santo che veniva onorato. E dicono che fosse ateo… In tutta l’opera di Leopardi non c’è una professione di ateismo. Molte di sperimentale apertura agnostica, di fronte alle possibilità inimmaginabili che si aprono, e molte chiusure gnostiche, pur nella pudica e delicata astensione dal nominare Dio quando attacca la natura o “il brutto poter che ascoso a comun danno impera” oppure nell’abbozzo dell’Inno ad Arimane. Che non diventa comunque mai teoria filosofica globale. Come può essere globale il cervello di un uomo con due braccia e due gambe? L’anonimo 419 Miliardi di uomini sono vissuti e morti senza aver lasciato neanche il più piccolo segno della loro esistenza, che sia sopravvissuto ai nostri tempi. Dovremmo sempre tenerli presenti prima di pensare e scrivere. Essi in realtà ci si presentano da soli, ma restando anonimi. Allora cerca tu di diventare così anonimo quando pensi e scrivi da poter fare in modo di essere degno di convivere con loro, che ti ascoltino, che possano pensare che parli per loro, a nome loro. Libri che danno la voglia di scrivere Se avessi l’energia e la pazienza, dopo aver letto Insetti senza frontiere di Ceronetti, potrei scrivere un libro altrettale non già di commento, di critica e consenso, a quanto scrive ma fatto dei pensieri miei, che lui ha messo in moto e da immaginazioni che ha risvegliato. Da questo si può capire se un libro è buono: se ci dà voglia di scrivere, se ci ridà la spinta a pensare in proprio. Si può dire che questo può capitare anche con un libro brutto e scritto male ma non è lo stesso, perché la nostra sarebbe una sequela di critiche astiose, di correzioni risentite, di idee contrarie e sferzanti, di recriminazioni per le torsioni utili a rimettere in squadra un problema, o di fastidi per mettere colore sopra a colore, perché sarebbe vano tentare di migliorarlo, e non avrebbe alcun senso dimostrare che un quadro è brutto, pasticciandoci sopra, quando puoi dipingerne uno migliore. Per la poesia invece la regola non vale. Ci sono poeti che ti danno la voglia di scrivere, come Rimbaud e poeti che te la fanno passare, come Eliot. Ci sono anche narratori sommi che ti fanno passare la voglia di scrivere, come Proust, e altri che te la fanno venire, come Cechov. Allora non è vero quello che ho detto sopra. Non è vero sempre. Non è che qualcosa che è tutto vero debba anche essere vero sempre. Ci sono poeti su cui puoi scrivere all’infinito, come Montale, e poeti su cui c’è poco da dire, come Umberto Saba, perché ha già detto 420 tutto lui. Per lui il poetico è nel suo dire stesso, è lui che compone e suona. Montale invece scrive le partiture in modo che vibrino all’ascolto, ma non le esegue per intero. Così la musica che ne esce puoi eseguirla all’infinito, e ti sembra sempre diversa, anche se è sempre uguale. 11 giugno Torbidi nell’amicizia L’amicizia più profonda e ferrea non è esente da violenti desideri che la fortuna dell’altro si ridimensioni, ma soltanto quando supera il livello che è considerato aureo per l’amicizia, non per cattiveria ma per il sentimento di una sproporzione che potrebbe spingere l’altro verso una perdita e una svalutazione del sentimento stesso dell’amicizia. E come dall’amore sboccia sempre la gelosia che sta in guardia per intervenire ogni volta che l’altro è distratto da altre cure, non per forza sentimentali, ma pure in campi all’amore aliene e inoffensive, così nell’amicizia, specialmente tra affini, e cioè proprio nella specie più alta, subentra una gelosia che fa salutare gli infortuni, qualora non ledano l’acquisita solidità di un bene o di una fortuna dell’altro, come salutari per un riequilibrio. Ma la persona che li subisce ne ingigantisce sempre la portata, tanto più si sente sicuro in quel campo, perché sappiamo che un insuccesso ci ferisce più di quanto novantanove conseguimenti di bene ci compiacciano, e si sente abbandonata proprio nel momento del bisogno, mentre chi vive da amico la situazione ha sempre presente la sintesi di fortuna dell’altro e la giudica nella sua completezza, sicché sempre un singolo caso, se non incrina quel tondo potere di bene che vede nell’amico, gli sembrerà abbastanza secondario da poter richiamare all’altro la benefica necessità di una sconfitta. Guardati però dal dirlo espressamente all’amico, perché non c’è amore, amicizia, sodalizio, fratellanza, comunanza, per quanto 421 duratura e idilliaca, che non possa venir stravolta da una sola parola che traversi la sorte altrui con la disinvoltura di un detto giusto ma anaffettivo. Verrà vista come lo spiraglio di infinite, inconsce, riserve e di retropensieri coltivati nel tempo e infine traditi da quel giudizio. Come ho più di una volta sperimentato in me stesso. E questo a ragione, perché il potere di una singola delusione, tanto meno siamo abituati ad essa, può gettarci in alto mare in un momento, tanto poco crediamo nel nostro valore, benché tante volte assicurato, e soprattutto nella nostra capacità di giovare ad altri, il che soltanto ci darebbe la vera certezza di aver fatto qualcosa di bene che conta. Se infatti qualcuno ci dicesse: “Così operando hai fatto il mio bene” ecco che finalmente ci placheremmo, mentre se il nostro valore è soltanto apprezzato e ammirato, resta sempre un bene che si specchia in sé, e già per questo da sé si svaluta e sminuisce. Paradigmi nella scienza Nella scienza, secondo le teorie di Kuhn, si tenta di insaccare tutto ciò che si scopre in un paradigma scientifico, finché non si genera un nuovo paradigma in grado di far tornare i conti e di spiegare un maggior numero di fenomeni. La comunità monastica degli scienziati che aveva difeso unanime una ortodossia, respingendo e ridicolizzando ogni attacco ereticale, si converte alla nuova dogmatica, promossa dai quei pionieri coraggiosi che si sono esposti per affermarla. I dogmi scientifici però hanno il pregio di richiamarsi sempre alla realtà, che aspetta l’occasione di smentirli e, domani o dopo un millennio, la trova. I dogmi delle consorterie artistiche, mai. Ed ecco che il mercato, ecco che la nauseante parola successo risolve il loro piccolo problema. Cosa vuol dire che nella scienza ci sono paradigmi, codici linguistici e convenzioni? Mentre infatti le lingue del mondo sono migliaia e nominano quasi sempre le stesse cose, dove si presentino, riferendosi a esse, i paradigmi nominano le cose e diventano essi stessi le cose, si sostituiscono ad esse, organizzandole, ma anche rielaborandole e rigenerandole all’interno di un sistema di teorie. 422 Essere convenzionalisti, sempre considerano che una sola convenzione, quella cioè non smentita e falsificata, resta valida, vuol dire comunque, pur riconoscendo che la realtà è inattingibile nella sua sostanza ultima, che è sempre essa a farla da padrona, vuol dire ribattere e rimarcare che c’è una realtà in sé, sia pure come calco negativo, senza la quale non potremmo mai decidere quale convenzione è più funzionale e più adattabile ad essa, che resta la sagoma vivente ineludibile della nostra sartoria convenzionalistica. Storicismo poetico Qualcuno pensa che anche per la storia della poesia debba accadere la stessa cosa, che cioè vi sia una realtà ineludibile e una poesia più o meno funzionale a essa. E in molti vanno ripetendo che un modo di concepire la poesia è finito, che un modo di scrivere romanzi è defunto, e si allega che i narratori di oggi si sono formati coi fumetti, con la televisione, coi cartoni animati giapponesi, col cinema di massa, con Internet, mentre prima ci si formava leggendo Goethe e Leopardi, studiando Nietzsche o Sartre. Questo effetto di modernariato patetico sta investendo anche generazioni recenti di poeti e scrittori, come Mario Luzi, come Paolo Volponi, che pure non hanno ignorato i tempi in cui vivevano, anzi li hanno interpretati dal di dentro con coscienza e con furia. Solo gli oggi viventi sono vivi, energici, smaglianti. Ma siamo sicuri che l’arte poetica e letteraria invecchi col ritmo delle teorie scientifiche sorpassate? E siamo sicuri soprattutto che il nuovo paradigma sia già pronto ed efficace mentre dismettiamo il vecchio? Potrebbe essere un semplice periodo di letteratura fiacca, come ce ne sono stati tanti, da Omero in poi, senza paradigmi all’altezza delle cose nuove. Letteratura che si distingue per l’inseguimento smanioso della cronaca, senza una luce di sintesi sulla natura umana, fosse pure questa natura in realtà una conformazione storica di lunga durata. E nessuno ci costringe ad abitare soltanto i nostri tempi. Ma in tutti gli altri ci troveremmo tra pochissimi solitari. 423 La cronaca accieca la storia. Il mondo è diventato troppo artificiale per la letteratura, che è sempre stata alleata della natura, non solo di quella verde ma soprattutto di quella color carne, e che si è sempre tenuta lontano dall’eccesso di informazione e di interpretazione che confonde e soffoca quella decina di caratteri costanti che hanno distinto la letteratura di ogni tempo. Vera arte è infatti variare e articolare sempre gli stessi temi in modo nuovo, dialettica del perenne e dell’attuale. Senza questa coscienza della durata millenaria della natura umana non c’è arte. Come non c’è senza la coscienza del modo tutto odierno di essere perenne. Nessun artista reggerebbe a tanta spericolata inquietudine nel cambiamento vorticoso senza sentire di appartenere al “sempre” poetico e storico, di essere un figlio bastardo di Omero. L’ironia di Sanguineti Edoardo Sanguineti non perde occasione di ridicolizzare il dolore lirico, il canto dei sentimenti, l’amore impossibile, l’invocazione mistica, la contemplazione del paesaggio, la rivelazione poetante della donna, il lutto in versi, e poi nelle sue poesie nasconde abilmente quegli stessi temi che deride in prosa tra applausi e risate di un pubblico ammaliato dalla sua arte recitativa e dal suo montaggio avanguardistico, e che sono proprio quelli che garantiscono anche ai suoi versi, nell’intreccio dei suoi giochi ironici e linguistici, una vita credibile e intensa. Amicizia tra libri Frequento poeti e scrittori come fossero alieni, e mi domando: Chi siete? Lo stesso si domandano loro di me. Nei momenti lugubri mi sento alieno io e mi domando: Chi sono? Poi ci mettiamo a scrivere e ce lo ricordiamo. 424 Questo non capita quando sono amici, non perché sono amici i nostri libri, perché siamo amici noi. Un libro non è amico di nessun altro. 12 giugno Patto d’amore Come venne in mente a Dio, che non l’aveva mai fatto, di creare il mondo? E di creare insieme la creazione, perché non puoi inventare il mondo senza inventare insieme la creazione. E di inventare il tempo e lo spazio che, birbanti, hanno un valore retroattivo, e va a finire che anche Dio, dopo averli creati, si ritrovò allibito a scoprire la distesa infinita che aveva preceduto la creazione della sua creazione del mondo. In questi casi va da sé che l’impossibile è anche quello che è più probabile che sia stato. Non capendoci niente andando per diritto con la logica, per forza dovremo camminare con le braccia. Dio allora non solo ha creato la creazione del mondo ma ha creato anche se stesso. Quale Dio è mai infatti uno che se ne sta lì e non crea niente, beato negli intermundia o cogitante se stesso felicemente? Dio si autocrea e boom, ecco che nasce il mondo, un uovo di energia, di luce, di calore, un embrione poderoso che scoppia e con tale spaventosa potenza da creare a sua volta altri embrioni di universi, che scoppiano anch’essi, e in un battibaleno ci sono miliardi di universi, ciascuno con miliardi di galassie, ciascuno con miliardi di stelle. L’avesse saputo prima l’avrebbe fatto prima. Del resto che si aspettava? Basta un solo clic a Dio, un accenno del dito e si spalanca una distesa di miliardi di anni luce, una espansione esplosiva di spazio, tempo, luce, calore, energia, intelligenza. E in effetti era davvero troppo, se continuava così in dieci minuti di universi ne esplodevano talmente tanti che Dio poteva pure cominciare a sentirsi un po’ solo. Aveva sottovalutato la sua potenza, forse perché 425 essendo uno non aveva confronti e, essendo perfetto, non aveva mai sentito il bisogno di vedere cosa c’era sotto la sua perfezione. Così gli venne un’altra idea. Scelse uno di questi miliardi di universi che nessuno poteva contare, perché si moltiplicavano come le cavallette, e dentro di esso una dei miliardi di galassie e dentro di essa una dei miliardi di stelle e le mise di fronte un pianeta, un puntino infinitesimale, che lui stesso faceva fatica a vedere aguzzando lo sguardo e dentro quel pianetino, il più piccolo che riuscisse a concepire, all’opposto di quella sconfinata estensione di materia, come un miniaturista geniale, lo popolò di milioni di ometti microscopici e articolò meravigliosamente la vita in ogni sua forma, non trascurando di trasformare la natura con tale finezza e ingegnosità da farla diventare un’opera d’arte a cielo aperto. Trasse più soddisfazione da questo lavoro di altissima arte miniaturistica sull’infinitamente piccolo che non con la gettata dell’infinitamente grande, così che decise di completare l’opera con un tocco di ironia geniale: questi microscopici ometti sarebbero stati i soli a poter conoscere la sua opera, sia pure di riflesso, in parte e nei suoi effetti fisici più prossimi, e rendersi conto almeno di una minima porzione di uno degli universi in cui erano collocati. E quale fu la sua gioia quando vide che questi ometti, spuntati fuori dalle scimmie e da altri animali che gli era venuto il vezzo di animare si misero a trasformare loro stessi il pianetino, riuscendo a dipingere opere d’arte e scolpire statue che in nessuna altra parte dell’universo neanche lontanamente si potevano immaginare. E si mettevano a pensare anche a Lui, in un modo infantile e ridicolo che lo riempiva di tenerezza. Scatenavano guerre atomiche, non rendendosi conto che si uccidevano tra loro e fuori dell’atmosfera del loro atomo nessuno se ne accorgeva, e costringevano miliardi di persone a morire di fame e altri miliardi a lavorare tutto il giorno per sopravvivere. E alcuni di loro, pochissimi e buffissimi, si credevano potenti e si pavoneggiavano con ville e auto di lusso, di un milionesimo di millimetro più grandi e più lunghe delle altre. 426 E in mezzo a quella baraonda divertente e tremenda di ometti indaffarati, con un ingegno che rilanciava nell’infinitamente piccolo il genio del loro creatore, un giorno vide una ragazza sola che dalla finestra guardava il cielo notturno a mani giunte pregando e, per un momento, si senti anche più piccolo di lei, vertiginò dentro di lei e credette per la prima volta di capire qualcosa della sua solitudine e del perché aveva creato se stesso e quei miliardi di universi. Fu un secondo, pauroso o meraviglioso, entrò nella verità, sorrise, e se ne dimenticò. Ma non fu più lo stesso. E neanche la ragazza. E neanche il piccolissimo mondo. Quel patto d’amore fu irreversibile. 12 giugno Tre inchini per Kant Kant si è premurato di rendere la filosofia scientifica come la matematica e la fisica e ci è riuscito, al prezzo di renderla del tutto formale: lo spazio e il tempo sono nostre intuizioni, i concetti sono nostre forme organizzative. l’Io penso perfino è un modo di funzionare del nostro pensiero. Soltanto il combustile deriva dall’esperienza ma siamo noi a mettere in moto l’automobile filosofica. E chiederci come sarebbe il mondo indipendentemente da noi sarebbe come chiederci com’è la notte al buio assoluto. Per saperlo dobbiamo accendere i nostri fari ma, accendendoli, illuminiamo la notte della nostra luce. O notte assoluta o filosofia relativa al soggetto. Né possiamo puntare i fari verso l’auto stessa e il suo motore, se non con un’altra auto, facendoli diventare oggetti sensibili, cosa che non sono e non possono essere Viaggiamo allora con un’auto invisibile oppure la illuminiamo come fosse una cosa fatta di materia. Tre inchini a Kant per ogni sua Critica e per la qualità stupenda della sua intelligenza civile ma la filosofia conoscitiva allora che cosa aggiunge a quanto del mondo già ci dicono la fisica, la matematica, la biologia? 427 Ci spiega essa soltanto come funzionano e su quale intelaiatura stanno in piedi: è allora una filosofia della scienza? Della filosofia ancilla scientiae? La filosofia della scienza non è vero che non serve a niente. Essa fa ribollire la testa dei fisici, in modo da invogliarli a rompere i loro schemi. Il vero scopo della Critica della ragion pura non è di conoscere una qualsiasi cosa prima ignota ma di definire il campo del conoscibile, una preoccupazione eminentemente giuridica e da legislatore. Kant è come Montesquieu, che ha distinto i tre poteri e, definendo i limiti della ragione conoscitiva, ha aperto la strada a una società liberale. Il primato della ragion pratica, il valore assoluto della morale infatti non è mai discinto, benché si debba fare ciò che è giusto soltanto perché è giusto, e benché si consideri un qualunque scopo già condizionante della purezza della volontà morale, da una qualche idea di bene sociale e comunitario. Lo stesso imperativo categorico: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa agire come fondamento di una legislazione universale” presuppone una lunga serie di valori e di contenuti morali impliciti: il valore della vita, l’uguaglianza tra gli uomini, l’ordine sociale, la pace, la sicurezza. Tutti contenuti questi, e non forme a priori della giustizia. Il che rafforza la convinzione che Kant elabori una morale assoluta essa stessa funzionale, nel suo candore geniale, a una società pacifica e prospera, profondamente umana e serena, visto che il fondo del suo animo non è né quello dell’uomo della conoscenza né quello dell’alfiere della morale intransigente e pura del singolo individuo, bensì quello del legislatore attento alla vita comunitaria e socievole. Kant è soprattutto un casto ed equo magistrato del genere umano, che distingue i poteri giuridicamente e sentenzia con benevolenza e onestà, dando a ciascuno il suo. Magistrato di cause civili, anzi civilissime, vista la fiducia ferma e costante, pedagogicamente incrollabile, benché amara, in noi animali salati. 428 Essere salati o zuccherati: due tipologie umane. Non solo Kant, tutti i filosofi sono salati. Come i poeti. I narratori invece sono salati o zuccherini. Geografia kantiana Kant ha insegnato geografia fisica per trent’anni, nei semestri estivi, che oggi si fanno al mare, considerando anche una geografia matematica, morale e addirittura geologica. Non c’è da stupirsi allora che abbia voluto darci, nella Critica della ragion pura, una mappa del conoscibile. E ha definito che das Land des reinen Verstandes, la terra dell’intelletto puro, è un’isola: das Land der Wahrheit, la terra della verità. Intorno a essa l’oceano tempestoso dell’apparenza dove nebbie fitte e ghiacci in liquefazione “danno a ogni istante l’illusione di nuove terre e, incessanti ingannando con speranze vane il navigante che erra in cerca di scoperte, lo trascinano in avventure alle quali non saprà mai sottrarsi e che non avranno mai fine”. Anche in questo caso è evidente il primato della ragion pratica, cioè della morale, sulla ragion pura, sulla conoscenza, giacché il monito è quello di restare sull’isola e qui costruire edifici stabili e abitabili, mentre l’umanità non ha fatto altro che avventurarsi per mari insicuri, esplorando tutto il globo e così facendo però delle terre le ha ben trovate. Anzi si può dire che questa metafora continua di Kant finisca per attestare in piena coscienza che la terra della verità, nel globo vastissimo, non è che un’isola che la gran parte degli uomini ha abbandonato, per esplorare tra ghiacci e nebbie, salvo farvi ritorno dopo millenni per scoprire che appunto era quella la terra tanto cercata ovunque e senza requie. Una volta fatta la scoperta, come Kant stesso era sicuro che sarebbe accaduto anche dopo la sua attestazione, essi sono ripartiti, non trovandola sufficiente ai loro mezzi e desideri, e tanto più è rimasta 429 un’isola abitata da pochissimi, per giunta lontanissimi tra loro, giacché si tratta di un’isola filosofica i cui abitanti sono sparsi nel mondo. O si tratta anche di un’isola politica, di una società fondata sui sensi e sull’intelletto puro, ormeggiata al mondo fenomenico, volta alla edificazione di una vita attiva e pacifica in essa? Questo Kant si è messo a immaginarlo, votandosi al progetto della pace perpetua, attestando così, da uomo buono e onesto (caso rarissimo in un genio) che anche restando nell’isola l’immaginazione galoppa, i sogni si accavallano, le illusioni politiche e morali si sfrenano. L‘analogia geografica, estesa alle tre Critiche, per cui la conoscenza, la morale e il sentimento sarebbero tre terre, con sopra il cielo inattingibile della metafisica, non soddisfa come non poteva soddisfare Freud la struttura della psiche vista come una topica, con l’isola dell’io cosciente al centro e intorno l’oceano impersonale dell’inconscio da bonificare metro per metro. Conoscenza, morale, sentimento sono tre forze, tre potenze, tre energie, non tre terre o tre città nelle quali entrare o dalle quali uscire, lasciandole per forza alle spalle quando si va in un’altra. Da tempo ci accorgiamo che c’è una sola immensa metropoli, conoscitiva, morale, sentimentale, un solo paesaggio globale dentro il quale costruire isole e isolette sparse, conoscitive, morali, sentimentali. E che l’oceano avanza. 16 ottobre Tu devi quindi tu puoi Il primato della libertà sussiste per Kant nell’ordo essendi, che precede per importanza l’ordo cognoscendi, e tuttavia Kant non scrive: “Tu puoi quindi tu devi”. E cioè che, visto che sei libero, allora è tuo dovere obbedire alla legge morale. Egli considera infatti che molto spesso ci accorgiamo di essere stati liberi a cose fatte, attraverso il rimorso. Denunciamo un compagno sotto tortura, perché ci sembrava di non poter fare altrimenti e, ritornati in cella, ci accorgiamo di averlo 430 liberamente tradito, avendo anteposto la nostra vita alla sua. Ed entrambe alla legge morale. Ci si domanda allora quale libertà sia quella di cui non riusciamo neanche ad accorgerci al momento giusto. Ma il punto è che Kant formula il comando dicendo: “Tu devi quindi tu puoi”, perché è grazie al comando etico che scopri quando serve che sei libero. Un imperativo che Schopenhauer ha trovato un ferro fatto di legno, giacché o devi necessariamente o liberamente puoi. Soltanto che non devi nell’ordine della necessità fisica ma in quello della necessità morale. E tuttavia tale necessità viene percepita dall’uomo torturato tutta al contrario, come necessità fatale di tradire per salvare la pelle, tanto che il rimorso stesso, quando incorre, si presenta anch’esso come un sentimento nobile, lancinante, sia pure, ma astratto. Giacché quell’uomo, di nuovo torturato, di nuovo avrebbe tradito. Altri invece hanno resistito a bocca chiusa fino alla morte. Ma come sapere mai se lo hanno fatto per una scelta morale? C’è chi semplicemente ha più fegato, più carattere, è più ostinato o troppo sensibile per fare danno a un altro. Ci sono uomini infatti che il comando etico lo sentono e altri che non colgono per niente la sua voce. Anche per il dovere morale vale allora il discorso che puoi accorgertene soltanto dopo la prova, oppure mai. Senza ignorare il fatto che un comando del genere non dovrebbe in alcun modo presumere la conoscenza delle opere di Kant, che ce lo insegna, ma essere inscritto nella natura. Cosa che non è. Sappiamo tuttavia di eroi della resistenza che proprio grazie allo studio di Kant hanno trovato la forza di essere morali a sacrificio della vita e di altri, analfabeti, che hanno dimostrato una tempra anche più salda. Il comando kantiano “Tu devi quindi tu puoi” pertiene allora molto di più alla dimensione dell’amore, del quale possiede tutta la spinta paradossale e irresistibile, quando si manifesta. Non un ferro fatto di legno, bensì un sangue fatto d’oro. 431 Motore immobile Nella attuale e grave crisi economica non si rallenta in nessun modo né si pensa di cambiare strada. Si manda solo il motore al massimo dei giri mentre sta immobile sul cavalletto. La trappola del generoso Un amico mi dice che è stanco di andare sempre incontro agli altri, prendendo l’iniziativa di telefonare, di salutare, di ascoltare e risolvere i loro problemi. Quando lui si sente solo invece nessuno lo chiama e lo cerca perché li ha abituati male. Se tu sei più vivo, gli rispondo, è giusto che continui ad essere tu a risvegliare i sentimenti e le coscienze degli altri. Mi ascolta sconsolato, il punto è che ha finito lo energie ma la produzione del film della vita lo cerca soltanto in quel ruolo in cui tutto lo conoscono. L’uomo generoso che entra in crisi è il più noioso che esista e io cerco di disimpegnarmi quando lui mi dice: “Dammi una mano tu, usciamo insieme.” E io scopro che non ne ho nessuna voglia. Lui è sopportabile solo in quanto generoso. Il generoso è colui che è abbastanza forte da esserlo, e perciò viene invidiato per questa forza, che è giusto che paghi, quando non ne è più all’altezza, non sovvenendo ai suoi bisogni. Il massacro delle illusioni Leopardi parla del massacro delle illusioni in un’epoca troppo razionale e civilizzata, che oggi stanno rinascendo selvagge in una società tornata irrazionale nel modo più caotico ed egocentrico, mentre si sta sterminando la sensibilità. Oggi le illusioni non sono più massacrate ma ci massacrano esse, perché vengono usate dai potenti. 432 Col vecchio muore più vita Quando muore un bambino una breve storia se ne va con lui, quando muore un vecchio una lunghissima vita, e quindi pietà e dolore dovrebbero essere più forti. Così sentivo anch’io con naturalezza quando ero giovane. E ora invece sento il contrario, come quasi tutti, forse perché stimo meno la mia stessa vita invecchiante? O perché, conoscendone il valore terribile, compiango chi non l’ha vissuta? È l’oblio il nazismo più crudele Quando scrissi il verso: È l’oblio il nazista più crudele, mi riferivo più di vent’anni fa a quello che adesso sta accadendo in modo massiccio senza che nessuno se ne turbi. Ogni disposizione memoriale viene vista come malata e senile, come una forma di debolezza e di isolamento, come se i vivi potessero attingere la loro energia soltanto ad altri vivi, come se fossimo tutti in gara tra noi, nel campionato mondiale di vita, e tutti i record stabiliti in passato dagli oggi morti, benché largamente superiori a quelli dei vivi, fossero comunque decaduti una volta entrati nel cimitero. Malinconia dei libri Basti vedere l’atteggiamento indotto nei più giovani verso i libri. Soltanto alla vista li coglie un’indefinibile malinconia, la sensazione che siano oggetti passati, a meno che non li abbia scritti qualcuno che sia vivo, di cui tutti parlano e che trasmetta loro la sensazione di essere al centro di un campo energetico attuale. Tabù della morte Si dice che oggi c’è il tabù della morte, che invece è un pensiero continuo e assillante, esorcizzato di continuo, osteggiato con analisi e cure diuturne. Il tabù reale è invece quello dei morti, ed è segno di 433 energia vitale minima non essere capaci di rivolgersi ad essi, chiedendo soccorso e offrendosi di darlo. Memoria madre dell’etica Se proprio insisti per la tua strada, se ti incaponisci nella memoria, che è la madre dell’etica, perché mette in relazione i comportamenti nel tempo e non soltanto nello spazio, costringendoti a una scelta coerente, allora che tu muoia in pace da solo. Così sentenziano gli immemori. Tolleranza senile Cioran dice che la tolleranza è un segno di senilità, perché chiunque ama e odia è vigoroso e non è tollerante. La democrazia stessa allora è un fenomeno senile, come si vede anche dal fatto che si perde la forza di approfondirla nel tempo, nella sua storia e nelle conquiste faticose e sanguinose che ha imposto e la si sviluppa soltanto nello spazio, nel confronto tra regimi contemporanei, nella tolleranza per tutti gli oggi viventi. La democrazia diventa così l’alibi per tollerare tutti coloro che vivono e operano al suo interno, mentre odiosi sarebbero soltanto i servi dei regimi assolutistici e soprattutto i loro padroni. Ciò che equivale a compiangere l’assassino e non la vittima, soltanto perché ormai è morta. Ma quanta violenza, ingiustizia, spietatezza, aridità, indifferenza subumana c’è nelle democrazie? Bene, dobbiamo tenercela tutta, perché almeno abbiamo il governo del popolo, cioè il governo dei vivi. Dovremmo invece imparare a farci governare dai morti. L’individuo assoluto L’individuo che nelle democrazie non conta niente adora il leader carismatico, il tiranno mediatico, il padrone del suo stato, esprimendo così, per interposta persona, la sua fede cieca nel valore 434 assoluto dell’individuo. Io non conto niente ma lui che comanda tutti e tutto mi dà almeno la soddisfazione di vedere un individuo sopra ciascuno di noi. È vero che gli italiani pensano soprattutto al loro particulare, come scriveva Guicciardini nei Ricordi, con parole che valgono tutte per oggi, come quando definisce la folla un animale pazzo, ma questo è anche una reazione all’assoluta impotenza che viviamo, al nessun conto che il nostro voto, parere, la nostra idea della vita e della società può detenere. E questo vale anche per i leader politici che, come individui, non contano niente tranne uno. Apocalisse C’è un ciclo delle forme di governo, come diceva Tucidide, una anakylosis, come scriveva Polibio, che però è diventata lentissima, bimillenaria, per questo non ce ne accorgiamo. La democrazia nei prossimi cinquant’anni sarà spazzata via, pur restando nelle forme, in tutto il mondo occidentale. Non andrà a votare quasi nessuno e l’autorità di pochissimi uomini deciderà il destino di tutti. Le violente sommosse, le rivolte, le bombe terroristiche si moltiplicheranno in modo aritmico e verranno stroncate con eserciti di professionisti, non appena l’acqua, il petrolio, il gas, tutte le forme di energia verranno meno ma, nessuno cedendo o rallentando, solo con lotte cruente ci si disputerà il diritto di illuminare a giorno un pianeta in guerra perenne. Le guerre più sanguinarie saranno trasparenti e la maggior parte degli abitanti ne negherà l’esistenza, finché l’apocalisse invisibile non avrà deformato tutti i cuori che non si riconosceranno nella condanna, sentendosi innocenti. Allora pian piano, tra sole e sterco, nel sonno, nella fame, nella sete, nel pianto, feriti e mutilati, pesti e sfiancati, i sopravvissuti ricominceranno a spingere la ruota. Il sole continuerà a brillare e le donne salveranno la specie, alleate di una natura che, benché essa stessa presa soltanto dalla volontà di sopravvivere, mentre troppi vorranno distruggere, proprio per questo solo tornerà nostra madre. 435 Essere apocalittici è gratificante ma rivelare un terribile futuro, che in realtà è un terribile presente, è lecito soltanto con estrema purezza e limpido desiderio di bene. Tu ne sei posseduto? Pensieri firmati e non Ci sono pensieri firmati, di marca, e pensieri di buon tessuto ma anonimi che può indossare chiunque sia onesto e abbia uno stile. Coi primi ti senti sempre l’autore addosso, coi secondi cammini sciolto e non importa più chi ha fatto la maglia. Io preferisco i secondi. Con i pensieri firmati, sia pure da uno scrittore e pensatore di valore, la responsabilità dell’autore diminuisce di molto, è lui che ci si rivela, che esprime i suoi umori, i suoi paradossi, le sue iperboli, nel modo più colto, brillante, veemente. E quando lo incontri a tu per tu troverai facilmente un uomo di poche parole, che eviterà il confronto. Se ti attenterai a dissentire in pubblico, tutti ti guarderanno con un sorriso indulgente, perché non hai capito in quale senso lo diceva, e in quale clima stilistico, e per reagire a quale opposta tendenza. Non hai capito che fuori di quello stile il pensiero è tutt’altro, che esso cadeva in quel punto, prima di questo pensiero e dopo quell’altro, che c’era una luce particolare, una temperie esistenziale speciale, che rientrava in una tradizione dissacratoria, che spesso in lui una parola vuol dire il suo contrario. Insomma non ne caverai un ragno dal buco perché chi scrive pensieri firmati ne è geloso come di un distillato tutto suo, e troverai che disprezza sia chi è d’accordo con lui sia chi è contrario. La verità Gadda Si dirà che proprio questo, se non è filosofia, è letteratura; che c’è la verità Gadda o la verità Montale. Ed è vero, ma soprattutto c’è la verità detta da Gadda, detta da Montale. La partenza è firmata ma l’arrivo è anonimo. 436 Come quando si leggono testi di canzoni senza la musica, le parole perdono senso, così certe frasi poetanti, fuori del ritmo della prosa di Gadda, diventerebbero banali: “Oh! vi doveva pur essere, sulla terra di tutti i dolori, un giardino profondo, lontano, silente, dove solo fossero sognanti alberi in un loro comune pensiero e lucidissime stelle!” (La meccanica, p. 36) Oltre al ritmo, ciò che conta è il suo particolarissimo pensiero libero indiretto, attraverso cui ghermisce la mente di un personaggio sviluppandone i meandri segreti e creando un effetto parodico, come quando qualcuno ci cammina alle spalle, facendo aderire le sue gambe alle nostre e camminandoci appiccicato esattamente come facciamo noi. E così fa con il semicolto, con lo sboccato alla moda, col meridionale che vuole fingersi milanese, con chi parla per eufemismi. E tutto questo ghermire, questo immedesimarsi, questo ricalcare la camminata, appiccicandosi alla vittima, gli costa tanta fatica che non ci vedi nessuna protervia ma un maledetto involontario dolore fraterno. Chi scrive pensieri del secondo tipo, non firmati, invece è in grado di dialogare e di difenderli, di argomentare ramificandoli, di soppesare le obiezioni, di spiegare da quale prospettiva l’ha detto, anche se nell’intimo si stupisce che ci sia bisogno di articolare ancora quello che gli sembra del tutto chiaro. Anche per lui (o per lei) va da sé, lo stile è decisivo ma incorpora carnalmente, organicamente o, almeno, in modo vegetale e floreale il significato, e persino il senso. Perché in entrambi i casi i pensieri, benché rotti, staccati e smembrati, hanno sempre un senso di marcia, circolare o lineare che sia. Aforismi Non si può contraddire un aforisma: prendere o lasciare. Per questo io non li amo, neanche quando li scrivo io, in specie quando sono uno dietro l’altro, battenti e sentenziosi. Essi usano 437 frecce false per colpire il vero o frecce vere per colpire il falso. Hanno una loro utilità perché ci scuotono ripetutamente, rimettendoci in moto dalle nostre ipnosi e dai torpori ma non possiamo dire che non siano antipatici. A volte, neanche l’autore sa esattamente come, centrano perfettamente il bersaglio. Il gesto rimane impuro, troppo goduto, aristocratico, violento, benché indispensabile a sopravvivere, e resta al suolo come un bossolo fumante, ma la preda ce la mangiamo volentieri a casa. Uno scrittore di aforismi infatti è un cacciatore di prede quali che siano, perché ha paura di morir di fame. Mentre leggi vedi il suo carniere. Hai voglia poi a voler essere vegetariano. Si colpiscono e mangiano pensieri come se fossero uomini in carne ed ossa, si è logocidi e logofaci. Tifo passivo Nella politica italiana si sperimenta un’anomalia: il tifo passivo. È vero che la democrazia italiana ci ha profondamente deluso. In realtà c’è un’oligarchia al potere, con il consenso passivo dell’uomo massa e il dissenso passivo di una minoranza dei due terzi della popolazione, molti dei quali sarebbero pronti a tifare passivamente per un’oligarchia opposta. Ma la democrazia è come la medicina preventiva, ci mantiene in uno stato di salute approssimativa, che ci sembra scontato e insufficiente, perché non riusciamo neanche a immaginare le malattie terribili in cui cadremmo se non ci fosse. Il chirurgo che ci salva la vita con un’operazione in extremis è di certo più ammirevole e salvifico ma la prosaica tutela da terribili disgrazie dittatoriali, di prepotenze e umiliazioni mostruose che oggi neanche concepiamo è dovuta al modesto medico della mutua democratica, che con ostinazione pedante impedisce che saggiamo i grandi mali, romantici a immaginarli, e desolanti e tenebrosi a viverli. Vero è che nessuno sano si è mai contentato di essere sano se non è vecchio dentro e fuori, e noi indubbiamente in Italia siamo vecchi. 438 Ecco che il dittatore mediatico eccita gli animi, facendo balenare sullo schermo le voluttà eccitanti della dittatura, che tengono desto il corpo senile dell’Italia con continue minacce e prepotenze, suscitando la gratitudine dei cittadini che vivono in una democrazia, pur saggiando i piaceri morbosi di essere ingannati, truffati, comandati, asserviti, tipici delle dittature. Quando il più potente non servirà più per questo teatro della dittatura così profondamente terapeutico per chi non sa più sognare neanche un simulacro di società alternativa, verrà gettato via come uno straccio. Rischioso sentenziare sui grandi Rischioso sentenziare in modo lapidario e apodittico su Pascal e Leopardi, come fa Ceronetti. Non è il mio un semplice monito di non giudicare per non essere giudicato, perché altrimenti nessuno di noi penserebbe, anche se quell’esortazione è indispensabile nel modo più sottile anche al fine di ben pensare. Ma è la coscienza del rischio smaccato, che anch’io corro di continuo con leggerezza, di sedersi su un piatto della bilancia quando dall’altra c’è un pensatore non solo tanto più ricco e sfaccettato, per cui puoi sempre trovarci affermazioni contrarie, o che temperano e correggono quel detto che tu critichi, in modo più maestoso e illuminante. Ma anche perché tanto più visceralmente cosciente del doppio e triplo salto mortale della coscienza, della doppia e tripla lama di ogni detto. L’incomprensione di un paesaggio vastissimo, nelle sue quattro e più stagioni, che si pretende di comprendere con una sintesi meteorologica artificiale, come quando Ceronetti scrive che Leopardi culmina in una quiete altissima e sepolcrale, mentre invece ovunque guizza la sua malinconia ribelle, come la definì Walter Benjamin, in una recensione ai Pensieri; o quando imprende una difesa strenua della filosofia contro Pascal, che invita a s’en moquer, quando proprio questo gesto, essendone l’apice Zen, è filosofico, è un falso movimento del pensiero che ci deve incoraggiare alla prudenza, a placare la nostra sete fittizia di onnipotenza quando si pensa all’arma bianca. 439 A me stesso: Il pensare breve scatena le endorfine come una gara di velocità. Ma le endorfine, godendo, non per questo hanno ragione. Scrivere non letto La condizione perché io possa scrivere questi pensieri è che nessuno li legga. Basta che immagini un lettore senza volto perché già mi pieghi il braccio contro il suo gesto naturale. Se penso poi a un nome preciso, esso mi compare come un giudice straniero o come un amico troppo fedele. E sarebbe come se un bambino riuscisse a crescere già sapendo quando verrà potato o sradicato. E tuttavia il bambino nel suo istinto solitario non crescerebbe mai se non sapesse che darà gioia a chi lo guarda o l’ombra fresca di un conforto o la compagnia della sapienza naturale, benché in nulla potrà cambiare la sua vita. Per gli esseri reali Difendere la filosofia, vivere per la poesia, esaltare la conoscenza, cantare l’amore, votarsi alla fede, sono tutti falsi movimenti. Esistono solo filosofi, poeti, scienziati, la donna o l’uomo amati, il Dio persona. Non scambiamo la freccia con la preda. Piuttosto diventiamo noi preda. Amare la carta, le sillabe, le impressioni d’inchiostro carnale, la sacertà del libro, tutti modi sensuali per traviare il diritto, o sinuoso che sia, amore per gli esseri reali. Contro il nominalismo e contro il realismo: la realtà non esiste, esistono i reali. Ogni donna è una rivelazione, gli uomini lo sono solo ogni tanto. 15 giugno 440 Genio dell’adolescenza Insegnando da trent’anni, anzi, per trent’anni, perché finché faccio questa esperienza essa mi è tutta contemporanea, mi accorgo di come a sorpresa, per due o tre anni, si formino generazioni superiori, quasi perfette, dotate di uno stile raffinato. Ragazze e ragazzi delicati e ironici, responsabili e assolutamente seri. Si disperderanno nella società, serbando sempre il loro timbro di onestà, finezza e senso dei valori. Sono gocce d’oro che la natura secerne perché abbia sempre un senso scavare nelle miniere. Esistono mesi o anni geniali nella vita di ogni uomo, tra i quindici e i vent’anni. E fortunato chi li può scoprire in sé e negli altri, e chi impara dalla bocca e dallo sguardo di quei ragazzi qualcosa che non trovi in nessun libro e in nessun’altra esperienza delle donne e degli uomini. Benedetto Croce ha scritto che chi continua a scrivere poesie dopo i diciott’anni è un grande poeta o un grande cretino. La realtà lo smentisce. Eguaglianza delle vittime Dire, come è giusto, che la Shoah è toto coelo diversa da qualunque altro genocidio non vuol dire che gli ebrei siano morti più morti, vittime più vittime di tutte le altre. Altrimenti anche questa sarebbe una forma di razzismo. Dolori fisici e spirituali Coloro che non vogliono fare figli sono milioni e le ragioni sono talmente tante che addurre egoismo e paura non basta. Ma dire che uno non procrea perché non vuole far soffrire un’altra persona come succede a lui, o a lei, è da cialtroni allo stato puro. La sofferenza è tanto maggiore quanto più viene negata la nostra libertà, di vivere, di muoverci, di parlare, di pensare, e quindi è ovvio 441 che sono i dolori fisici quelli più gravi (anche se un dolore solo fisico non esiste), i dolori per cause fisiche. I dolori spirituali e morali, quelli filosofici e letterari, nella misura in cui restiamo liberi di vivere, muoverci, parlare, pensare, lo sono molto meno, così tanto meno che un grande sofferente, un sofferente professionista, un retore del proprio dolore è sempre leggermente inattendibile e ridicolo, è palese che “ci sta marciando”, che “la sa raccontare”, che sta tentando la metamorfosi di dolore in piacere attraverso la filosofia e la letteratura. Cosa per niente facile, ma che non ci commuove, semmai strappa un silenzioso applauso. Certe cose non le diremmo mai in pubblico, in un’aula, in un’assemblea, a una platea televisiva o radiofonica e nemmeno tra conoscenti a una cena o durante una passeggiata. Non le diremmo neanche ad amici e parenti o alla moglie, al marito, ai nostri sodali e compagni di vizio o di partito. A chi le diremmo? Ai lettori. La libertà di parola sta diventando la libertà di sussurrare segreti perturbanti e di confidare terribili verità all’orecchio che cerca il brivido della trasgressione e il piacere dell’intimità intellettuale. In questo campo ci sono alcuni maestri sussurratori, nemici della democrazia, dissuasori di vita, persuasori di astinenza sessuale, esaltatori dell’immorale vigore della natura banditesca, dispregiatori della specie umana. I pudichi e ipocriti perbenisti della democrazia di massa leccano di nascosto idee che sarebbero corrompitrici in una scuola, fasciste in un’assemblea e demoniache in una parrocchia e ti porterebbero al linciaggio mediatico, e invece diventano eccitanti e titillanti nella solitudine in cui l’uomo massa va in cerca dei suoi antenati aristocratici. Dice che non si dovrebbero mai far figli. Esiste al mondo un solo uomo e una sola donna che non li abbia fatti perché ha letto il suo libro? No. E allora a che serve dirlo? Perché non si limita a non procreare senza il bisogno di una propaganda che non prenderà un solo voto? Il fatto è che discorsi apocalittici, negatori del genere umano, scandalosi, distruttivi, o che la distruzione in atto svestono e 442 smascherano, ci sono indispensabili. Non solo per tenerci giovani: non dimentichiamo che i ragazzi di continuo dissacrano e sputtanano a parole tutto ciò che la società inclina a imporre o a consigliare. Non solo per tenerci liberi, perché a furia di indulgere gli uni agli altri finiamo per essere banali mammiferi spelati, brutti, malinconici e fessi. Ma proprio per ricordarci che siamo uomini, gente che un giorno (perché non è stato Prometeo) rubò il fuoco agli dei, che morì perché altri fossero liberi, che costruì il Tempio Malatestiano, che resistette contro il nazismo, che sputò sulla scuola dei padroni, gente che insomma aveva un fegato, un cuore e un cervello, e che oggi vedi passeggiare in questo ospizio di superstiti che è diventata l’Italia, affondati in una melma di bugie, terrificati dalla voragine che buca il cemento armato e l’asfalto, e ci risucchia come una pompa aspirante dei rifiuti umani. Sveglia. Per questo spiriti di robustezza selvatica, sotto la pelliccia culturale folta e morbida, pieni di aculei e scattanti, come Cioran, uno che è sempre scoppiato di vitalità, nutrendosi allegramente e acrobaticamente del terribile, sono indispensabili, come uno schiaffo dato da uno che ti vuole bene, come la lotta tra ragazzi, come la crudeltà condivisa a turno, se il branco degli amici resta alla fine alleato e leale. Ci svegliano il sangue nelle vene. Poi ciascuno ne farà ciò che può, generalmente molto poco. Il campione della sofferenza Se soffro, allora che io sia almeno il campione della sofferenza, non dico mondiale ma almeno locale, regionale, stagionale. Che gli altri sappiano che nessuno soffre come me, che nessuno ha ragioni così profonde come le mie per soffrire, che fin da piccolo soffrivo, e non per ragioni occasionali ma che precedevano ogni caso che mi capitasse, per la forza stessa della mia sensibilità, che mi rendeva scontento di tutto, e sempre più ho sofferto e soffro, per qualcosa di universale, di radicale, di incurabile, tanto che ogni giorno vorrei morire ma non mi uccido perché la mia stessa sofferenza me lo impedisce. E costruisco un grandioso sistema di sofferenza con il quale dominerò il mondo soffrendo, e voi non potrete farmi niente, se non riuscirete a convincere tutti che soffrite più di me. Cosa 443 impossibile perché io, da quando sono nato, sono specialista del dolore e conosco tutte le pieghe della recitazioni e le sfumature dell’arte. E se voi invece ve la godete, almeno statemi sotto e abbiate paura di me. Gente che non soffre mai Schopenhauer scrive che la sorte di tutti è la stessa, oscillando tra il dolore e la noia, e che, così stando le cose, nascere re o essere mendicante è lo stesso. Straordinaria terapia dell’eguaglianza, le sue parole ci consolano e ci calmano: non vale la pena allora scaldarsi tanto. E tuttavia, frequentando poco troppe persone, mi avvedo che esistono creature che non soffrono mai, salvi i casi in cui capita loro qualche brutto guaio o lutto o disdetta, cosa che magari per venti, trent’anni non capita, e quando accade, comunque la fronteggiano, se ne rialzano senza fare troppe scene, perché hanno una soglia del dolore morale molto alta. Ho visto persone restare le stesse attraverso la morte del padre nel giro di pochi giorni o dimenticare la moglie che li ha traditi nello spazio di una settimana, come niente fosse. Ho visto persone durevolmente contente e soddisfatte, che non si sono mai annoiate né deluse, di invidiabile buonumore e compattezza, che digeriscono anche i sassi. Per loro le teorie di Schopenhauer sarebbero incomprensibili. Esse servono a un tipo umano molto circoscritto, incline a soffrire neanche sa bene per cosa, sprofondante facilmente ma anche ribelle e orgogliosa, per la quale Il mondo come volontà e rappresentazione è come un farmaco, un rosario laico, un rituale magico, una psicoterapia. Ma non raccontiamoci favole, tra un re e un mendicante nessuno ha mai scelto: il primo ha ereditato, il secondo è stato eletto. Una rivelazione sconcertante: la volontà di vita cosmica di Schopenhauer non puoi che chiamarla amore. Ne ha gli stessi caratteri terribili. Arthur non scrive in cifra, ascolta il demone che gli guida la mano. 444 Soldati Se rinascessi mai più vorrei tornare ad essere io. Se rinascessi vorrei rifare la mia vita esattamente identica. Chi vi pare qui l’uomo forte? Chi sposereste, donne? Soldato della vita, te la consegnerò dentro la bandiera ripiegata, così come me l’hai data, non macchiata, inconsumata. Comunque ti tratteranno, amica, qualunque cosa penseranno di te, tu starai sempre dentro la tua vita, dentro il tuo cuore, dentro la tua intelligenza, potrai nutrirti di te, contemplarti, soffrirti, goderti. No, non dire che per tutti è così. Nonostante Dio in persona abbia mandato satana per tentarmi, io ho chinato il capo e resto una persona integra e buona: così un amico serenamente mi dice. Che terribile presunzione, come si frega da solo. Sì, che coraggio però, che franchezza. C’è nel metodo nella mia bontà. Un poeta ottantenne mi disse: “Non dimenticatemi”. E da allora non ho più letto un suo verso. Avesse detto: “Non ti dimenticherò,” ora starei col suo libro in mano. Gli antichi erano molto più forti e vitali di noi, perché erano più giovani, scrive Leopardi. E infatti anche oggi i ragazzi sono incomparabilmente migliori di noi, anche i peggiori di loro. 16 giugno Prospettive dell’amore e dell’odio L’amore opera da sé la distinzione tra il peccato e il peccatore, odiando il peccato al massimo, perché ha colpito malignamente l’amato peccatore. La donna che vuol bene a un ladro o a un dipendente da droghe odia con tutta l’anima il suo vizio 445 personificato e attentatore dell’anima pura dell’amato. Chi odia invece distingue anch’essa peccato e peccatore, vedendo il peccato così in astratto che gli sarebbe inconcepibile anche considerarlo esistente e odiando invece appunto il peccatore, che quel peccato fa esistere in sé, che diventa quel peccato in forma mostruosa e irredimibile. Odiando proprio lui fino alla morte, cioè finché non muoia o al punto da ucciderlo, non si pensa di combattere il male che lui incarna, di contribuire a una pulizia morale della società ma di annientare la singola persona, in modo del tutto indipendente dal problema morale. Proprio come l’amore, l’odio, arriva a un eccesso oltremorale, e come l’amante vuole che colui che ama sia così l’odiante vuole che colui che odia non sia. Antologia liturgica Qualche anno fa è uscita un’antologia in cui si parlava della poesia come di una religione, e ogni testo presentato, senza distinzione di fama ma soltanto di intimo valore, diventava come l’offerta di un’ostia. Gli officianti erano i curatori e non i poeti, come in ogni antologia, che è sempre liturgica e istituzionale, ma allora, se sono loro a dare le ostie ai poeti, non si dovrebbero negare a nessuno, e fare un’antologia di centinaia di migliaia di pagine, tanti sono oggi gli scriventi che vanno a capo liberamente. Se sono invece i poeti a dare la loro ostia di una religione che li vede come unici rappresentanti, siamo sicuri che la loro poesia sia profumo formato dalla stessa Poesia, la quintessenza simile alla religione, di cui si parla nell’introduzione? Potrebbe essere una soluzione, a patto sempre di essere esonerati dal culto: migliaia di poesie, migliaia di religioni, migliaia di devoti. Come mai altrimenti a certi incontri letterari si forma questo clima liturgico, si distribuiscono ostie invisibili, la voce si fa tremula alla lettura quando non proviene da orchi dell’Acheronte, un imbarazzante clima adolescenziale, con un vago odore si sperma e di vagina commossa, turba anche gli attempati ascoltatori. E si rievocano sogni e desideri falliti, gioventù abortite, i pallori 446 parabolici della seconda vita sotto la quale si sono fatti figli, comprate case, aggiustate tende, guadagnati soldi, goduti risotti nell’unico ristorante della città che li abbina con i vini giusti. I poeti non dovrebbero curare antologie, a parte l’imbarazzo di includersi e la castrazione di escludersi. Come i pittori non curano libri d’arte, i musicisti non curano compilation, per la ragione elementare che un artista non potrà uscire dalla sua idea di letteratura o di musica che a prezzo di una cancellazione temporanea della propria arte, di una rinuncia a essere se stesso, o altrimenti trasformerà l’antologia nel libro che avrebbe voluto scrivere, avesse avuto cinquanta personalità e cinquanta teste sotto il suo comando di direttore d’orchestra poetante, creando un libro di poesia collettivo. Un’antologia non si misura in base a coloro che include ma in virtù delle sue esclusioni. Devi leggerne mille per sceglierne venti, trenta, quaranta. E se l’inclusione viene sempre argomentata e salvata spesso con riserva o dubitando o temperando il valore, l’esclusione è sempre secca, tagliente, senza appello e muta. Logico che il critico autorevole o spericolato che si imbarca in un’impresa del genere, se non gode di un sadismo sottile, stia sulle spine mentre lavora, soprattutto se vive in una società di scambi, conoscenze nell’orto, battute e ammicchi con amici e sodali, e diventa un bersaglio immobile dopo, a meno che non sia così tanto rispettato da essere odiato ma senza avere i mezzi per nuocergli. L’incluso avanza dubbi cauti o sferzanti sulla compagnia, all’escluso restano due strade. O dirsi: Sono l’unico, inidoneo a qualunque comitiva poetica. Oppure: Sono l’appartato, l’outsider, il selvatico che non entra nei palazzi editoriali. Anche il giudice letterario deve essere giudicato e dimostrare di avere il valore per svolgere il suo ruolo. Altrimenti chi non sa far nulla e non ha mai dato prova di nulla avrebbe facile gioco a scatenarsi contro o a favore di coloro che qualcosa hanno provato a fare. 447 In Italia i poeti giudicano i critici come gli imputati vogliono giudicare i giudici? Non è la stessa cosa, tranne quando, cosa non rara, una poesia è palesemente un reato, o come tale ravvisabile. 19 giugno Italiani multietnici In Italia ci sono tanti popoli ed etnie: gli appassionati di calcio, di moto, di automobilismo, i patiti di musica pop. I tifosi del Partito democratico, i tifosi dell’Italia dei valori, i tifosi del Popolo delle libertà, i cacciatori, i vegetariani, i macrobiotici. Anche tra i cattolici ci sono tanti popoli: i parrocchiani di stretta osservanza, i neocatecumenali, i ciellini, ciascuno con proprie usanze, riti, convinzioni, caratteri. Sono etnie così definite culturalmente e con tratti psicologici così ricorrenti che al confronto le differenze degli italiani rispetto ai peruviani, ai rumeni, agli slavi, agli africani sono molto minori. E questo perché l’immigrato già cambiando patria si apre al cambiamento, è disposto a mettersi in gioco con una cultura nuova, automaticamente si confronta, perché è una necessità, mentre il tifoso del Milan non passerà mai all’Inter, il ciellino non diventerà mai neocatecumenale, il fan di Vasco Rossi non ascolterà mai Gigi D’Alessio, perché non ne ha e non ne avrà mai nessun bisogno. Stagioni senza casa Ogni stagione ci richiede un faticoso accasamento e, quando ci siamo finalmente ambientati, si passa già alla stagione successiva. Quando viene l’inverno, le giornate si accorciano e la luce si fa nera, il cuore si stringe e la nebbia fa paura, finché piano piano vi si trova un senso di intimità, si fa una vita più ritirata e il venir della sera acquista un raccoglimento che dà calma e serenità. Ma già urge la primavera tanto attesa, che promette gioia solo con lo spianarsi della luce, eppure quando incombe si diventa nervosi e irrequieti, e la casa, faticosamente costruita, trema alle esigenze 448 indeterminate di uscite e di avventure che mettono ansia e restano il più delle volte appena abbozzate, finché finalmente, dopo il primo colpo di ambigua vitalità, che dà un languore indecente e ingovernabile, come si entrasse indebitamente in calore, si impara a cogliere la sua promettente poesia non già in vista di uno scopo che sfugge, ma di per se stessa, e ci si accasa nella nuova stagione e nella sua giovinezza involontaria, della quale non ci sentiamo mai più davvero all’altezza. Siamo grati al sole tiepido e ai paesaggi incerti tra nubi ventilate e varchi di sereno e già arriva l’estate. Subito troppo calda e troppo umida, con una luce violenta che ci costringe di nuovo a scasare. Dovremmo uscire più spesso e progettare viaggi proprio quando avevamo cominciato ad apprezzare gli ozi banali di una passeggiata senza pretese nel profumo dei tigli. Cominciamo a rimpiangere la severa intimità dell’inverno e le sue giornate laboriose di rinuncia ma il sole ci chiama fuori, ci ordina di vivere più fortemente e di affrettarci a godere quello che durerà così poco, perché già scrosci improvvisi e giornate temporalesche, come squarci di inverno dentro l’estate, ci ammoniscono che ogni lasciata è persa e bisogna cogliere l’occasione al volo per una nuotata o una gita fuori porta. È appena cominciato agosto che già tutti dicono, con un sottile piacere masochistico, che l’estate è finita, che è vicino l’autunno, che tutto già sta decadendo. Già ad agosto i campi di girasole, sbocciati appena le ginestre perdono a giugno i loro fiori gialli, bruciano e anneriscono come un cadavere dell’estate, che minaccia i ritardatari appena partiti per il viaggio. E ci si dispone all’autunno e all’inizio del lavoro con un misto di desiderio e di paura. Così ogni anno traslochiamo quattro volte da case che abitiamo troppo brevemente, migranti del tempo e del meteo che sognano la casa perfetta della quinta stagione, della casa della salute che non esiste. Le donne sensibili al clima 449 Le donne sono in genere molto più sensibili degli uomini al clima e più inclini a percepirne gli effetti, anche minuti, sul loro corpo, e a descriverli in modo analitico. È impossibile per molte di loro che il clima sia mai quello giusto. Anche se dichiarano generalmente di preferire il freddo al caldo, d’inverno si lamentano di continuo perché non è mai il tipo di freddo da loro prediletto. Comunque trovano sempre la stagione più fredda o meno fredda del giusto e, se proprio non trovano una causa precisa del loro malessere meteorologico, preferiscono tacere. Il vento le fa innervosire, non solo per il suo comportamento irriverente verso i loro capelli, e se viene da terra dà mal di testa, se viene da marina è gelido e fa venire il mal d’orecchi. Con l’umido le chiome si rovinano e tutto il corpo diventa appiccicoso. Troppa luce dà fastidio agli occhi ed esporsi ai raggi fa male alla pelle. La penombra però è cimiteriale e in casa manca l’aria. Aprire le finestre fa entrare l’aria calda ma tenerle chiuse la rende guasta. Questa sensibilità spiccatissima per ogni minima sfumatura della temperatura, della luce, dell’umidità dipende forse nelle madri dalla assistenza dei figli neonati, esseri delicatissimi da proteggere e salvaguardare da ogni sbalzo traumatico, ma perdura poi tutta la vita, al punto che fa strano che le donne, considerate istintivamente dai più molto più vicine alla natura di noi, siano poi così straordinariamente protese a difendersi dalla madre comune e vivano in perpetuo allarme contro ogni disposizione ed effetto climatico. Le donne non sposate o che vivono sole sono molto più asciutte, sbrigative e meno sensibili a tutti questi effetti. Le ragazze scrutano il loro corpo alla ricerca di foruncoli, macchie, arrossamenti. Sondano la diversa levigatezza della loro pelle, individuando i punti più teneri: l’interno del polso e dell’avambraccio, l’incavo dei ginocchi, il collo. Si tastano dietro l’orecchio e tra il mento e il labbro, sotto gli occhi e sulla punta del naso, sapendo alla perfezione dove la pelle è più o meno grassa, dove più sensibile e più sorda. 450 Questa confidenza col corpo le diverte e le fa scherzare tra loro e con i ragazzi, che imparano da loro a scoprire il proprio corpo, e restano sorpresi da un’infinità di veridici segreti che non avevano mai considerato. Per esempio di avere anche loro dei capezzoli o un ombelico diverso da quello di tutti gli altri o una forma delle unghie, giudicata insolita, e a loro vedere normalissima. Questa attitudine però non è espressamente erotica e può diventarlo solo in certi casi, e come preambolo agli atti amorosi, essendo la sensualità femminile più duttile e liberamente distinta da quella erotica, cosa che molto più difficilmente si riscontra nei ragazzi. Signore Signore, fai il bene delle persone care. Signore, fai il bene. Signore, fai il Signore! Ma dovrei io invitare Dio a essere Dio? Non è meglio allora chiedere: Signore fa’ che io faccia il bene degli altri, cioè intervieni sulla mia libertà, orientala, spingila! Ogni preghiera è una libera rinuncia alla propria libertà. Questa espressione - Signore - è molto singolare. Vuol dire padrone signorile? Vuol dire sire, regnante? Non è bello allora che ci si rivolga a Dio come al nostro Signore. Non ci sarà nascosta dentro l’eredità dello schiavo che supplica il proprio padrone? Di certo sì. Ma c’è anche la rivolta libera dello schiavo che dice: Io ho un unico Signore, e non è il mio latifondista, non è il mio capo terreno. Quello non lo pregherei mai. Che ci sia un capo più alto di ogni capo terreno diventa così liberatorio. Rinuncia cattolica alla felicità Il cattolicesimo è rinuncia alla felicità. Dico alla felicità, non all’allegria. Se non si comprende questo non si comprende nulla. E neanche il carattere ruvido di molti credenti giovani e la severità rugosa di molti credenti vecchi. Il dolore, considerato sempre al 451 culmine della sua violenza, al parossismo, è sempre ricorrente nelle confessioni delle mistiche, che si fanno un punto d’onore nel sopportarlo fino alle estreme conseguenze. E l’estasi, l’esaltazione, la gioia furibonda che provano, altrettanto forti, non hanno niente a che vedere con la felicità, e sono il dolore stesso sfoderato, svaginato, sbucciato. Forte dolore e forte godere sono l’opposto dell’atarassia, della felicità possibile in terra. Ma anche e soprattutto nella media la rinuncia alla felicità e la conseguente sobrietà, misura, medietà, lo scetticismo, a volte il sadismo, più o meno manifesto, sono tutte conseguenze di questa innaturale rinuncia. Le cattoliche non credono all’aldilà Rivelazione sconcertante: la gran parte delle donne cattoliche praticanti credono in Dio, credono in Cristo, credono nella Chiesa, credono che sia bene credere ma non credono affatto che esista una vita dopo la morte. Esse hanno capito che essere cattoliche è per loro il modo migliore di vivere in questa. La prova? Chiedi a una di loro se una persona cara a entrambi, morta, continua a vivere, parla di paradiso o della vita serena che adesso fa, le vedrai tacere in imbarazzo e guardarti con aria vagamente compassionevole, e insieme indispettita. Non si fa, non si dice, sono cose di cui non si parla. È evidente che non ci credono. Un tempo le donne cattoliche erano molto più sensuali, perché vivevano il contrasto peccaminoso nella loro carne. Oggi di carne non si parla più. Le cattoliche sono diventate più intellettuali e astratte, e la vicenda drammatica della lotta dell’anima e del corpo, che vedeva vincere entrambi con buona coscienza, in un pareggio eccitante, è diventata una faccenda pratica, psicologica, e a volte farmacologica, che non interessa più nessuno. 22 giugno 452 Tre parti dell’anima Nella Repubblica di Platone si identificano tre parti dell’anima: irascibile o ardimentosa, concupiscibile o passionale e razionale, che è la più alta e propria dei filosofi. Ciascuno di noi possiede tutte e tre le componenti ma in base a quella che domina saremo destinati a una delle tre classi: soldati, mercanti e governanti filosofi. Nel Politico i caratteri diventano due: quello attivo, pratico, combattivo e quello conoscitivo e contemplativo. Lo stato può essere giusto soltanto grazie al bilanciamento oculato dei due caratteri, nell’arte della giusta misura, detta metretrica. Questa riflessione sui tipi umani, intesi come caratteri definiti alla nascita, è diventata secondaria nella teoria politica, convinti come si sono detti tanti pensatori che negli stati artificiali la natura nativa e innata degli uomini finisse per contare poco, di fronte al dispiegamento massiccio dell’educazione istituzionale, scolastica, familiare, religiosa, politica, lavorativa, e insomma si piegasse facilmente travolta dalla falange sociale. Ma l’osservazione quotidiana degli uomini ci dimostra tutto il contrario, che il carattere di una persona, non solo è immutabile nel novantanove per cento dei casi, ma si trasfonde nel ruolo sociale, imprimendogli una direzione precisa e oltrepassante valori, dogmi, finalità ed esigenze della sua funzione. Scienza dei caratteri: questo è un corso di studi universitari indispensabile. C’è un tipo umano destinato alla vita parrocchiale, pastorale e addirittura a un filone ben determinato di cattolicesimo. Ce n’è un altro comunista già dai primi anni, c’è il dipendente aziendale e il commerciante, c’è l’insegnante e il medico. E tutti sono già definiti a due, tre anni, già alla scuola materna, come se esistesse un piano sociale, attuato dalla natura, che programma i caratteri a seconda delle esigenze per ricoprire le varie mansioni. In questo progetto a priori alcune figure sono più mobili in apparenza: musicisti, artisti, scrittori, attori, registi, saggisti, grafici. Ma se andiamo a guardare più attentamente, anche essi sono 453 preordinati a un qualche ruolo sociale indispensabile e predefinito, a meno che non vogliano proprio sfuggire loro al destino segnato, trovandosi così ad essere persone oneste, sincere, drammatiche e prive di una funzione precisa. Governo segreto della natura Non possiamo pensare che la natura, con l’affermarsi delle civiltà, abbia abbandonato il compito evolutivo che continua a svolgere pienamente nel conservare e distruggere le specie animali e sarebbe davvero sorprendente, se si potesse accertare (cosa purtroppo impossibile) qual è la sua incidenza nel far sì che nel mondo nascono, che so io?, centomila banchieri, qualche centinaia di geni dell’informatica, un paio di milioni di delinquenti e qualche decina di milioni di donne destinate a ridare vigore e fiducia al genere umano. Persone oneste e disoneste, talentuose e ottuse, sarebbero così distribuite in ogni campo perché la specie non si estingua, mentre ciascuno di noi crede di aver scelto la sua professione e il suo ruolo in modo del tutto libero. Mia madre mi disse: “Noi apparteniamo a una razza di insegnanti.” E questo dopo soltanto due generazioni di donne, essendo io il primo uomo. Eppure io mi dimentico del tutto del mio lavoro non appena esco di scuola. Infatti la natura mi ha orientato per farlo e quindi ho rispettato il compito evolutivo, o il dovere sociale, ma senza immergervi tutta l’anima. Questo compito infatti mi ha risucchiato con insolita violenza, anche se io non ho mai voluto farlo. La natura mi ha reso impossibile vivere da scrittore perché a quel punto gli serviva un insegnante. In modo magnanimo poi mi ha consentito di essere scrittore nelle ore libere dall’insegnamento, stando soltanto attenta che non guadagnassi abbastanza da smettere di insegnare. 24 giugno Non puoi andare d’accordo con tutti 454 Questo è un modo onesto di ragionare: Io vado avanti per la mia strada, voi andate avanti per la vostra: dubito che ci incontreremo mai. È ora di finirla con il bluff scandaloso per cui tutti possono e debbono andare d’accordo con tutti, che tutti si possano mettere in rete e che tutte le donne e gli uomini possano convivere in una festa universale. Ci sono persone che spero di non vedere mai più neanche da lontano e capisco bene, anzi desidero, che per altri sia io l’indesiderato. Incontrare certe persone in un libro è già abbastanza ripugnante, ma abbattersi in loro dal vivo è peggio di un pugno sul naso. Se uno pensasse questo di me e mi evitasse potrei essergli soltanto grato. Se mi impegno a non fare male a nessuno di costoro, cosa che mi è imposta da un dovere morale al di sopra dei miei impulsi più bassi e violenti, mi ritengo libero di pensare di loro liberamente il male possibile, senza che possa essere accusato di cattiveria. Io non solo non faccio nulla per perseguire il loro male infatti, ma non lo desidero né lo auguro. Cerco soltanto di tenerli lontani il più possibile da me. Non è molto? Gli insulti Desueto è definire qualcuno “ignorante” nel senso di volgare, arrogante, prepotente, rozzo, tutti vizi giustamente, nella sapienza popolare, associati all’ignoranza. Quello che ad esempio nell’italiano popolare classico suonerebbe: “Quanto sei ignorante!” oggi universalmente suona: “Quanto sei stronzo!” L’espressione del disprezzo più profondo consiste oggi in questa parola, che ha sostituito “testa di cazzo”, nella quale si può percepire ancora un residuo di considerazione, una complice indulgenza, almeno per la vitalità rozza, e il riconoscimento della qualità robusta e primigenia del carattere dell’insultato. “Testa di cazzo” è un insulto che si può pronunciare anche con disprezzo malinconico, con un sibilo, quasi assaporandolo tra i denti, senza nessun compiacimento o inconfessabile apprezzamento 455 per la vitalità animalesca messa in atto in modo perverso. In questo caso denota un misto di energica stupidità e di furbizia selvatica, che arrivano a un amalgama particolare, a quel dosaggio quasi da manuale esattamente combaciante con la definizione, al punto da attrarla e da esigerla in modo automatico, ma sussurrato. Stupefacente che il cazzo, da noi maschi tanto tenuto in pregio e ritenuto blasone di potenza e di prestigio, venga usato come l’insulto più sprezzante. “Stronzo” denota invece colui che fa del male con ottusità e arroganza, se ne accorge, e nonostante questo continua a farlo, per un’esuberanza incontenibile e immedicabile dei suoi vizi, ormai tutt’uno con lui al punto da diventarne la sostanza più propria. Questo processo è proprio del resto di tutti gli insulti, che addebitano una qualità dell’azione a sostanza e natura dell’agente, metamorfosi giudicata così irreversibile da sboccare nella condanna a morte dell’insulto. “Tu sei tutto scemo”, in luogo di “Tu hai fatto una grossa scemenza”. Una frequenza, o una ricorrenza persistente, dell’agire viene percepita come l’essere stesso. “Stronzo” è l’insulto che i giovani scagliano addosso più spesso. Se colpiti, del resto, essi lo fronteggiano con la massima disinvoltura, curandosi più dei fatti contestati che non della magia nera e fecale della parola, tenendo a freno l’immaginazione. Tornano a usarla donne e uomini di età matura e avanzata, che invece però, se colpiti, barcollano seriamente, e lo vedono come un segno di rottura irreversibile o di umiliazione viscerale, dando essi più peso alle parole che non ai fatti, o forse essendo dotati, per ragioni storiche, di un’immaginazione più vivida, quasi precipitando nel gorgo cloacale, anche per ragioni superstiziose e feticistiche. Mentre corre nell’arco di una vita circa un ventennio di pudicizia, dai trenta ai cinquanta, in cui tale uso appare disdicevole e sminuente la sintassi purista delle illusioni. Dal che ricavo che si vive circa un 456 ventennio in cui ci si illude di poter vivere in un mondo che le buone maniere e il fair play riusciranno efficacemente prima o poi ad addomesticare. I vecchi non usano dire “stronzo”, perché si sentono troppo umiliati nel fisico e trovano più gentile, anche verso se stessi, rivolgere soltanto insulti che puntino al morale e allo spirituale, essendo tutto ciò che è anatomico un monito alla loro decadenza. Ma perché questa parola ha raggiunto tale fortuna? La cacca in sé non è meritevole di un disprezzo così violento, che segnalerebbe semmai la persona fobica e pericolosamente incline a purezze immacolate, visto che per ore ed ore, o per giorni e giorni, la cacca può stazionare dentro di noi grazie alla morsa del retto e, quando scappa, imbratta e appuzza il corpo di barboni e di papi. Una buona relazione, anche verbale, con la cacca, è indizio semmai di persona sana, concreta ed equilibrata. Italo Calvino ad esempio la pensava in questo modo. A parte l’ovvio fendente metonimico che riduce un uomo ai suoi escrementi, c’è qualcosa di ancora più offensivo, in questo come in qualunque oltraggio: è la sintesi vergognosa che viene compiuta di un uomo con una sola parola. Con tutta la tua storia e il tuo infinito affannarti, tu rientri tutto in una breve parola che finisce nel cesso: morte da vivo ingloriosa. Questa tristezza della sintesi intacca anche la lode che, per quanto ci compiaccia, ci immalinconisce sempre, anche perché una vita ricca di opere, una sequenza di attitudini messa alle prove migliaia di volte non produce altro che un solo aggettivo o nome, benché azzeccato o benigno. Anche le donne si incazzano, non si “inficano”, che suona deforme, e, specialmente le ragazze, usano “cazzo” come intercalare. Ma ciò non significa che esse facciano proprio un modello maschile di reazione, come se la rabbia, la volgarità rude ma efficace, la secchezza nell’esprimersi vengano assimilate e accettate dalle donne perché esse adottino, quando ci vuole, il modo di fronteggiare le 457 avversità dei maschi. Semmai esse si appropriano, senza nessuna malizia, ma in uno stato di coscienza neutro, di una reazione aggressiva maschile, in loro più asciutta e meno torbida, accettandone il codice solo sul piano linguistico, per svuotarlo del carattere istintivo e cieco di legame tra aggressività e istinto sessuale. Uno sciocco è un “cazzone” nell’uso nazionale, uno che dice “minchiate”, in siciliano (da minchia: sesso maschile), ma è un mona in veneto, parola che indica il sesso femminile. Una bella donna è “una gran figa” ma un bell’uomo non è “un gran cazzo” bensì “un gran figo”, e non per pudore femminile ma per dire: “Guarda che quello che provate noi maschi per noi, lo proviamo noi femmine per voi”. “Bono”,”bona” alludono all’impulso gastronomico del sesso, al mordere, gustare, leccare, assaporare. A me non piace usare il verbo “incazzare” come segnale che la mia rabbia va oltre lo sdegno medio. Molti lo usano infatti non perché siano fisiologicamente arrabbiati, e infatti lo dicono in modo sciolto e disinvolto: “Non sono arrabbiato, sono proprio incazzato.” Perché non va bene usare le parole più volgari e istintive come segni. Si dovrebbe dirlo solo nel pieno di una rabbia reale, come sfogo, altrimenti fai teatro. Gi altri intendono infatti: “Sono così arrabbiato che arrivo a dire le parolacce.” E diventa così qualcosa di snob e di poco credibile. 27 giugno Pensieri pensati e vissuti I pensieri si distinguono in pensieri pensati e pensieri vissuti. Ecco un esempio del primo tipo: Quando sei giovane gli impulsi buoni sono molto più veloci di quelli cattivi, che invece nascono proprio da un rallentamento artificiale e ragionato, indotto da altri o dalla situazione minacciosa, della prima spinta naturale. Il contrario capita quando sei dalla banda simmetrica e opposta alla giovinezza, quando gli impulsi cattivi sono diventati immediati e naturali e per pensare il bene di qualcuno devi rallentare, 458 fermarti ragionando e imboccare la strada opposta a quella del tuo giudizio istintivo. Ciò dipende dall’aver troppo spesso visto il male premiato e il bene offeso e dal dubitare sempre più che venga in un giorno al di là dei giorni fatta giustizia. Questo pensiero pensato è ragionevole e corrisponde a gran parte delle esperienze mie e di tanti altri, possiamo consentirvi, eppure gli manca qualcosa di decisivo, che non lo rende meno vero, eppure gli toglie forza: il fatto che non è stato vissuto, come invece accade al pensiero che segue: Quando qualcuno si comporta stupidamente lo fa sempre non perché non è in grado di capire ma per qualche vizio morale: prepotenza, testardaggine, volontà di far male, invidia, rancore diffidenza, paura. È tutta la vita marcia e corrotta che ha dentro da tempo a renderlo stupido. Quando invece uno si comporta immoralmente, e fa del male o omette di fare del bene ad altri, sempre si scopre, anche a un’osservazione superficiale, qualcosa di ottuso, di irragionato, di meccanico e bestiale nel suo agire. La disputa classica se il male si faccia per ignoranza del vero bene (Socrate) o per volontà maligna (il cristianesimo) si risolve nel senso che hanno ragione sempre tutti e due, perché ignoranza e cattiva volontà si avvinghiano e si rilanciano a vicenda, moltiplicando la loro potenza distruttiva, creandosi continui alibi solo per affondare di più i colpi e affondando di più i colpi solo per nascondere la propria colpevole ignoranza del male. Noi uomini abbiamo la volontà maligna di essere ignoranti e l’ignoranza della nostra volontà maligna, e in questo modo combiniamo i guai peggiori. Idea e passione Spinoza sostiene nell’Ethica che idea e passione sono sempre collegate, sicché avendo un’idea adeguata sarà impossibile fare il male e necessario fare il bene. Stupenda visione ma per avere un’idea 459 adeguata bisogna già avere una volontà buona, non basta ascoltare la semplice comunicazione filosofica di questa idea, per esempio attraverso la lettura dell’Ethica. Coloro che sono incapaci di fare il male perché hanno un’idea adeguata di bene, sono così dalla nascita e non in virtù della lettura di qualche opera filosofica che li educhi. Al contrario, Spinoza ha scritto l’Ethica appunto in virtù della sua natura buona. Una natura buona dalla nascita è tale perché ha una forza sovrabbondante, talmente ricca che uno può concedersi di essere più buono di altri senza soffrirne conseguenze drammatiche per la sua sopravvivenza e per la sua salute spirituale. Tale eccesso di qualità non lo proteggerà affatto però dalla cattiveria, che sarà intermittente e poco crudele. Spinoza stesso, quando non scriveva nell’Ethica ciò che è bene pensare, vivere e dire, non era esente da tutti i vizi che così precisamente enuncia e descrive, ma li teneva cuciti sotto pelle. Cos’è la cattiveria? Puoi fare mali terribili in perfetta mancanza di cattiveria e coltivare una sottile cattiveria nei comportamenti più innocui. La cattiveria è qualcosa di legato all’immaginazione. È più un’intenzione del cuore, un sentimento che un atto e una decisione. È difficilissimo che un filosofo sia un santo perché pensare è una forma di egoismo molto radicata. Può essere un uomo profondamente sincero, come Wittgenstein, o un santo del tutto involontario e inconsapevole di esserlo, come Leopardi, o un santo, nell’ipotesi più superficiale, canonizzato dalla chiesa per meriti intellettuali speciali, come Agostino, Tommaso, Anselmo. Ci vuole una certa santità infatti per pensare tutta la vita, visto il poco bene che se ne trae, il molto male, e gli infiniti svantaggi pratici. Il santo è un atleta che fa una maratona lunga tutta la vita. La sua grandezza sta nella continuità, giacché molti di noi potrebbero correre per dieci o anche cento chilometri o fare scatti improvvisi e correre a gran velocità, a trenta o perfino a quarantacinque chilometri all’ora, come il campione del mondo giamaicano Usain Bolt, almeno per dieci metri... Logico che mentre corre, fatica e 460 soffre il santo le pensa di tutti i colori come tutti noi. Ma non è questo il punto. Il punto è che non si ferma. 5 luglio Blitz Sono saturo, devo al più presto diventare un altro. Nessuno che già esiste. Gli uomini rifuggono dalle complicazioni, che le donne adorano. E viceversa. Il mondo di Alice nel Paese delle meraviglie racconta fatti che non possono verificarsi in realtà. Questo non basta per definirlo un mondo assurdo. Sia perché il mondo dei fatti che si verificano non è logico sia perché il mondo di Alice ha una logica profonda. La trasformazione della donna in bocca parlante, in cervello parlante si sperimenta agli esami di stato e poi si placa, a meno che una non diventi giornalista televisiva, preside, direttrice di qualcosa. In questi casi lei diventa molto più asettica, anemotiva, chiusa linguisticamente dell’uomo. Colloquio di maturità Amore e Pische apparvero a Schopenhauer in pieno sciame sismico, mentre stava cercando la derivata prima di x e Verga, travolto da una nube di elettroni, si rifugiò nell’ideale dell’ostrica. Degas dipinse L’assenzio anche se era astemio e Baudelaire era un poeta maledetto, anche se nessuno sa da chi. Svevo non riusciva a smettere di fumare e Kierkegaard tifava per Abramo, giacché le rocce del sacrificio si dividono in metamorfiche e sedimentarie. D’Annunzio aveva un temperamento effusivo e Montale intrusivo. E tu ripensa bene a quello che stai dicendo, indaga dentro di te come Seneca e, mi raccomando, non venirmi a dire che Tacito era un precursore del nazismo perché esaltava i germani. Ormoni, endorfine, matite, 461 penne, pelli professorali, gomme, caffè, occhiali, stress, le fasi psicosessuali di Freud, il circuito elettrico, le paste, il collo che suda, il rito di iniziazione, le mamme commosse, la paralisi di Joyce non va confusa con l’epifania. Ha detto tutto però non ha spirito critico. Ha dimostrato spirito critico però non ha detto niente. Se continua così collassiamo. A proposito, parlaci del collasso dell’universo. Che farai da grande? Buone vacanze. Il corpo per i greci antichi “Veramente in Omero non troviamo nemmeno un vocabolo che corrisponda a braccio o gamba ma semmai per indicare la mano, l’avambraccio, il braccio superiore, il piede, la parte inferiore e la parte superiore della gamba” (Bruno Snell, La cultura greca, p. 28). E neanche una parola per il tronco, anzi addirittura per il corpo, giacché soma significa ancora corpo morto, cadavere, corpo esposto all’insulto delle fiere e violato dai nemici, se non viene sepolto. Ancora in Platone, nel Fedone, l’espressione orfica soma-sema, allude al doppio significato del corpo come tomba e come segno dell’anima, in quanto la copre, seppellendola quasi, e la indica, la attesta e la rivela, attraverso le espressioni del volto. È naturale che ciò avvenga quando si parla di combattenti, di uomini d’azione, immessi in una corrente di eventi che li attraversa e trapassa, di rado rivolti alla meditazione solitaria, alla concentrazione unitaria del sé. Non so se davvero sia il caso di pensare questo modo di nominare il corpo come rivelazione di una visione toto genere diversa rispetto a noi. Paul Feyerabend, che commenta il passo, ammette: “Ciò non significa che il corpo umano non sia concepito come unità. Tuttavia, ha l’unità di un aggregato, non quella di un intero che trascenda e modifichi le sue parti” (Conquista dell’abbondanza, p. 29). Secondo me è questo un esempio illuminante di come ogni indagine filologica,storica, antropologica, filosofica abbia sempre bisogno di un forte connotato inventivo e romanzesco, indimostrabile e contestabile all’infinito. 462 Il fatto che non ci sia una parola per il corpo vivo potrebbe infatti voler dire l’esatto contrario: che ciascuno è talmente tutt’uno col suo corpo (“E il corpo è l’uomo” scrive Leopardi nel Dialogo di Tristano e un amico) che non c’è alcun bisogno di una parola per dirlo. Proprio il fatto che ci sia la parola attesta invece una separazione da sé del corpo, un distacco da marionetta. Proprio in virtù di una interpretazione in gran parte fantastica, a condizione che l’impianto retorico sia di buon livello, come nel caso degli studi pioneristici di Bruno Snell, si ottiene un successo rilevante di comprensione. In questo caso ad esempio si può concludere che i greci omerici, essendo più votati all’azione e al pensiero corporale piuttosto che a quello riflesso vivessero più avventurosamente di noi l’appartenenza al corpo, provando anche i terribili morsi delle ferite come eventi dell’avambraccio o del petto da vivere con un sentimento epico, non essendo il corpo loro, una proprietà da tesaurizzare, difendere e custodire ma la forma dentro cui erano destinati a vivere la loro esperienza. Non già quasi bambole di pezza o marionette, come scrive Feyerabend, senza per questo crederci lui stesso, ma con il rispetto quasi impersonale e collettivo per il piede non proprio, per l’avambraccio non più solo strumento di un io ma arto epico vivente. Grandiosità nello scandalo Giovanni Burcardo, maestro di cerimonie del papa Alessandro VI, così racconta nel suo diario (in Antonio Forcellino, Raffaello. Una vita felice, p. 64): “La sera si è svolto nel palazzo apostolico, nella camera del duca Valentino, un banchetto cui hanno preso parte cinquanta meretrici oneste, quelle dette cortigiane. Finito di cenare, hanno danzato con i servitori e con altre persone che si trovavano lì: da principio vestite, poi nude. Sempre dopo cena i candelabri con le candele accese che illuminavano, la mensa sono stati posati per terra: dove sono state sparse delle castagne che le meretrici, nude, hanno raccolto passando fra i candelabri sulle mani o sui piedi. Questo alla 463 presenza e sotto lo sguardo del Papa, del duca e di sua sorella Lucrezia. (...) Infine sono stati mostrati mantelli di seta, sandali, berretti e altri doni che sarebbero stati assegnati a quanti avessero avuto il maggior numero di rapporti carnali con queste meretrici.” La pazzia italica allora era grandiosa, sfrenata e sfacciata, nelle teste di pochi potenti. Oggi è sbriciolata e moltiplicata per qualche milione. Veramente il più potente ha tutto da imparare da Alessandro VI anche nella lussuria del potere. Al confronto i suoi giri di ballo dopo aver fatto contemplare alle donzelle le sue glorie mondiali sul maxischermo, con una notte ad alto rischio cardiaco, sanno di dancing patetico degli anni ’50 e di performance da ricchi milanesi imbrillantinati sulla Costa azzurra per un giorno da vecchi leoni. A dispetto della pompa, del fasto e dei milioni di milioni di euro, i suoi gusti musicali come le sue idee di trasgressione si muovono tra le macchiette di Carlo Dapporto e i personaggi di Alberto Sordi al casinò di Montecarlo. I giornalisti che frugano dappertutto rendono impossibili del resto quelle perversioni leggendarie, quando comandare e fottere venivano goduti insieme. Anche le cortigiane di oggi sono attrezzate di registratore e cellulare per filmare e fotografare le scene che vivono, preparando ricatti e interviste a pagamento. E ti presentano il prezzo con la stessa freddezza e lo stesso annoiato disgusto con i quali si fanno pomiciare, palpare o fottere. Ma era molto più eccitante farlo davanti al papa? E cosa faceva la chiesa allora? Possibile che non ci fosse nessun coraggioso neanche allora? Se la prendevano con gli eretici e adoravano il papa assatanato? Dal racconto di questa festa vedi benissimo il carattere degli italiani, e probabilmente di tutti i popoli: se fa il male chi ha il massimo del potere lo adorano, se fa il bene uno che non conta niente lo demonizzano. Solo che certi popoli non danno il potere a chi fa il male, onde evitare di questi rischi. E altri sì. 464 Esercizi matematici Se gli studi matematici sono condotti con la più completa consapevolezza, essi costituiscono un esercizio dell’intelligenza serrato e costruttivo. Ma nella straordinaria maggioranza dei casi gli studenti e i professori di matematica sono abituati a compiere esercizi a velocità più o meno elevata senza pensare mai non solo a cosa serve ciò che fanno, intendo a cosa serve rispetto al sistema di concetti dentro il quale si muovono, ma neanche se ha un senso quello che fanno al di fuori di un mero allenamento della mente. Senza poi parlare della totale acquiescenza che i matematici hanno rispetto alla lingua che essi usano, la lingua che sopravvive alla formalizzazione crescente alla quale il loro operare è di necessità sottoposto. Termini come integrale o derivata, e centinaia di altri, come punto angoloso ad esempio, vengono trascinati senza che mai qualcuno tenti non dico di difenderne l’uso ma anche soltanto si periti di spiegare perché è quello più giusto e chiaro in quel caso. Uno studente che è arrivato alla laurea in matematica ha già bevuto una tale quantità di affermazioni e pratiche operative senza mai ragionare che è ormai disposto ad accettare il mondo com’è ed è convinto che, se qualcosa esiste e accade in un certo modo piuttosto che in un altro, vuol dire che una ragione c’è. Questo modo di concludere l’ho saggiato infinite volte in professori di fisica e di matematica che avviano la loro intelligenza solo a posteriori, a cose fatte, e da quel punto in poi procedono speditissimi, anche in virtù del fatto che non guardano né a destra né a sinistra. La matematica diventa così il modo migliore per esercitare il cervello a non ragionare. Verifico tante volte con i miei studenti che essi non hanno la più pallida idea, quando studiano matematica, né del senso né del significato né dello scopo né della logica che sovrintende al loro lavoro, e magari scrivono compiti perfetti e prendono dieci. 7 luglio 465 La Resurrezione di Piero La Resurrezione di Piero della Francesca viene interpretata da Massimo Cacciari (Il risorto di Sansepolcro, in Tre icone), in uno dei suoi saggi ispirati. Dio è risorto e sa, e vede, la sua solitudine tragica, oltre la speranza e la disperazione, la sua libertà assoluta di martire per nessuno. Con la resurrezione non c’è il superamento dialettico della morte ma convivenza con la Passione. In effetti Dio è risorto e ha aperto per noi la possibilità della rinascita. Non ci ha tolto però la possibilità della morte. La partita, la nostra, quella che a Cristo sta a cuore più di tutto è ancora tutta da giocare. E Cristo non può fare più altro per noi, avendo fatto già il massimo possibile, il massimo impossibile. Quando Cristo esce dal sepolcro nessuno sa ancora che è risorto, e quindi per forza è solo. I soldati dormono, e con quale gusto! Nessuno lo vede uscire dalla tomba e nessuno se ne accorge. È durato molto il vegliare dei discepoli, sì! E, diciamola tutta, Maria dov’era? Il suo sepolcro dopo pochi giorni era già deserto e senza sentinella amorosa, segno che nessuno credeva veramente che risorgesse. Questo è il punto. Gli uomini non credono alla parola di Dio neanche a vederlo passare dentro il sacrificio della croce. L’incredulità ricomincia, il sonno ci riprende, un sonno piacevole e soavemente ateo e animale come quello dei soldati, verso il quale Piero Della Francesca è persino indulgente e quasi paterno, se Piero può esserlo. Eppure Cristo sta lì, come scrive Cacciari, fermo, libero, proteso alla salvezza di noi perenni animali bambini, perenni figli traditori. Questa idea che la tragedia sia oltre la speranza e la disperazione, è dura da sopportare. A un certo punto anche il dramma viene meno, dolori pazzeschi e speranze inconcluse, smania degli estremi e agitazione maligna o benigna, scandalosa o provvida, e non resta che il tragico, la vita da morti, il nulla da viventi, oltre il santo e lo zombie. Matrice della salvezza. 466 Dalle donne, soprattutto del popolo, si sente dire ancora: “Non te la prendere per quello che è successo. È stata una tragedia”. È tragico quello che non è colpa di nessuno, che accade indipendentemente dalla nostra volontà. Un destino al di là del bene del male morali. Mentre è drammatico l’esito catastrofico della libera volontà di qualcuno. Il Cristo di Piero è tragico. Non il Cristo di Cristo ma quello di Piero. Eppure anche il Cristo di Cristo attraversa il tragico, e non con la morte, ma con la resurrezione, dopo la morte. Oddio, è un pensiero che mi fa paura. Non è che ci facciamo paura da soli? Come quando giocavamo da bambini a chi diceva la cosa più terribile finché uno scoppiava a piangere e tutti scappavano a casa? Un Cristo tragico è una pensata grandiosamente terribile ma allora Cristo non è Cristo se non in Cristo, e in ogni altro modo il mondo è votato al male. Che sia così oscuramente ci conforta pure, perché almeno il mondo ha un senso, cioè una direzione di marcia. Sollievo troppo umano. Oltre la disperazione e la speranza non c’è nulla di umano. E se invece c’è il tragico, allora è qualcosa che non c’entra con noi, che non è fatto per noi e che non possiamo né capire né sentire. A meno che non si voglia assecondare la disumana e autolesionistica verità che il male sia impersonale, rendendolo così imbattibile e sempre trionfante sul bene personale e divino. Ripenso a quando, nell’adolescenza, di fronte all’incomprensione che credevo di tutti verso di me, mentre era anche mia verso tutti, mi immaginavo di rimanere fisso, statuario, al di là della gioia e del dolore, mentre tutti mi venivano incontro, chiedendo: “Che cosa hai? Ti senti bene?”. Ma io, niente, non cedevo, ormai era troppo tardi. Ero già nel tragico? Secondo me cercavo solo una mano soccorrevole. 467 Molti bestemmiano Dio perché sanno che tanto è buono e non può vendicarsi, e non insultano il suo antagonista perché sanno che è cattivo. Furbi. O perché non è un chi, è un cosa? Il male è un cosa, solo intingendovi il bene lo rendi un chi. In Cristo Cristo ha scelto la croce, scrive Kierkegaard nel Diario, benché i discepoli volessero farlo re (Gv, 6, 13). La sua Passione è durata poche ore e i Vangeli, specialmente quello di Giovanni, sono molto asciutti al riguardo, non insistendo sui dettagli della violenza subita nella Via crucis e restando essenziali sull’agonia. Cristo non si è mai incentrato sul dolore in assoluto, parla molto di rado della propria pena, raccomandando di tacerla. Solo nell’orto degli ulivi, nell’ora più scura, nella quale matura la scelta della croce d’amore, confessa: “L’anima mia è triste fino alla morte”. Ma non si lamenta per sé, anzi giudica un tentatore chi lo compatisce e cerca di farlo scampare. È combattivo, forte, mite, benché martoriato. Anche inchiodato sul legno, quando grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt, 11, 34), il culmine della disperazione non allenta il suo legame col Padre, giacché nomina l’esordio del salmo 22, compiendone col sangue la profezia. Egli risponde all’angoscia non col risentimento e la rabbia, ma con una protesta d’amore filiale: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (Lc, 23, 34). I quaranta giorni di digiuno nel deserto, le tentazioni diaboliche, le accuse mostruose di parlare in nome di un demone (Gv, 8, 48- 52), le minacce di morte dei giudei ci dicono effettualmente del suo dolore. Ma risolto tutto nella caritas, versato nel bene altrui, nella commozione per la sapienza dei bambini, nella compassione fraterna per i poveri, i malati, le prostitute, gli zoppi, i ciechi. Gesù è di una serietà assoluta, di una fermezza tesa come una corda. Il suo amore è negli atti e nelle parabole, che sono, benché mai è detto che 468 sorrida, essi stessi un sorriso interiore, sostanziale, al prossimo, agli oggi viventi: “Ora non è Dio dei morti ma dei vivi” (Mt, 22, 32), perché il “Regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc, 17, 20-21). Il Regno, per chi ama, è adesso! Cristo è duro quando al discepolo che vorrebbe seppellire il padre prima di seguirlo, risponde: “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti” (Lc, 9, 60). La sua è predicazione di vita, non basata sulla magia del dolore e sull’ipnosi della morte, ma sul miracolo che risana di colpo. In tutto il suo modo di replicare e di sconcertare con i gesti c’è sempre del resto qualcosa di audace. Ma la morte violenta, necessità d’amore, sapeva che non poteva essergli risparmiata. E già dopo la moltiplicazione dei pani, quando chiese ai discepoli “E voi, chi dite che io sia?”, annunciò agli occhi stupefatti che avrebbe dovuto soffrire molto, essere riprovato da anziani, sommi sacerdoti e scribi, essere ucciso e risorgere il terzo giorno (Mt, 9, 22). Non c’è chi non soffra. È naturale che la devozione popolare, nella misura in cui ciascuno di noi è popolo ed è bene non se lo dimentichi, si sia concentrata sul Christus patiens e sulla via Crucis come itinerario di dolore e di agonia universale, rivivendola ogni anno al rallentatore nella liturgia, ma soprattutto nell’affanno di ogni giorno, perché il Cristo incoronato di spine è fratello a noi mortali. E la Via crucis scandisce così la parabola di ogni vita dall’agape alla morte: dalla cena in cui si spezza il pane fraterno al tradimento che piove su tutti, giacché qualcuno prima o poi ci tradirà e noi tradiremo qualcuno. Dalla solitudine nera, perché chi ci ama si addormenterà per la tristezza della nostra sorte, al coraggio che dovremo sfoderare quando saremo gettati, e magari da vecchi, in prima linea. Così ben tre cadute di Gesù, di cui non si fa motto nei Vangeli, sono entrate nel tracciato novecentesco della Via crucis, giacché è per noi abituale ricadere e siamo costretti a rialzarci pur di arrivare in piedi alla fine, quasi sempre subita, non scelta. Da Gesù invece scelta, 469 rifiutando come tentazione la fuga, non per tuffarsi nell’assoluto della morte, bensì per bruciarne il fuoco, risorgere e far risorgere. Gesù attraversa gli inferi con noi, mentre Socrate, che qualcuno ha accostato arditamente a lui, affronta la morte, secondo il racconto di Platone nel Fedone, come l’estrema delle nostre avventure, e pronuncia, prima di bere la cicuta, una geniale battuta di spirito. Cristo la vive da semplice creatura universale, non da filosofo, fino al morso sull’osso, e nel contempo da Figlio di Dio, sicché, nel paradosso divino della morte d’amore, nelle doglie dell’agonia, che è già resurrezione, la disperazione è la speranza. Perché infatti in Cristo non c’è nessun amore della morte e tutto e solo della vita, e proprio quest’amore pieno della vita, amore non della durata, come nella chiesa, che gode i suoi millenni e le promesse di quelli futuri, ma dell’istante, della verità che è ora, lo getta nelle braccia della morte per trasformarla in vita. Cristo è vissuto trentatré anni, la chiesa due millenni. Cosa ne può capire? 9 luglio Sbagliare nome Cosa vuol dire sbagliare di continuo il nome delle persone care e chiamare uno col nome di un altro, fenomeno che non è affatto proprio solo dei vecchi e di incipiente rimbambimento. Forse che gli affetti sono intercambiabili, se della stessa intensità, forse che nella rete affettiva un nome ne richiama subito un altro, generando una glassa impersonale. Forse che amore chiama amore e si vorrebbe far convenire tutti ogni volta a una chiamata generale degli amati? O forse invece che il richiamo del nostro sé accentratore ci impedisce di concentrarci interamente sul nome esclusivo di una persona anche la più cara e subito ci fa ricorrere a un’altra risorsa collaterale, di compenso, di sicurezza, attestando la nostra mancanza 470 di fiducia assoluta, di un nostro amore esclusivo e univoco, di un nostro affidamento, anche se per pochi minuti completo, tutto a lei? Quando Andrea Sperelli, nel Piacere di D’Annunzio, chiama l’amante virtuosa che abbraccia, nel momento della verità corporale, col nome dell’amante proibita che sogna, non c’è Freud che potrà mai salvarlo dall’odio. Eppure tu troverai che quando ami davvero una persona fai fatica a identificarla col nome, perché il tuo amore risale a prima del battesimo, anche se ci saranno ore in cui il suo nome sarà come un mare dentro cui nuoti e che ripeti come un sortilegio, come la prima parola che hai ascoltato nascendo. Intrattenere rapporti amichevoli con tante persone in una perenne socievolezza, rende sempre più simpatici gli uni agli altri ma accelera lo svaporamento, altrui e proprio, non appena non si compare più sulla scena. I nomi allora sono i primi a cadere. Invidia e malevolenza Aristotele distingue l’invidia dalla malevolenza, la prima consistendo nel dolore per coloro che giustamente sono fortunati, la seconda per il dolore dei beni altrui, che meritino o no (Etica Eudemia, III, 7, 1233b). La nemesi invece è “l’addolorarsi per sventure e venture immeritate, e il godere di quelle meritate”. Ma sdegnarsi per fortune immeritate è chiamato invidia dagli italiani di oggi, tanto sono convinti che il successo, come lo chiamano, sia di per sé invidiabile e invidiato, e la dea Nemesis non sanno che esista. Gli animali e la musica Aristotele scrive che “tutti gli animali sembrano essere insensibili riguardo all’armonia e alla bellezza. E che in nessun modo “sembrano emozionarsi per la vista di cose belle o per l’ascolto di suoni armonici, a meno che non si tratti di qualche caso prodigioso” (Etica Eudemia, III, 2, 1231a). 471 Oliver Sacks, riportando un giudizio di Patel, scrive: “Non è stato descritto un solo caso di un animale che sia stato addestrato a picchiettare, beccare o muoversi in sincronia con un ritmo uditivo” (Musicofilia, p. 277). L’impossibilità di godere l’armonia musicale sarebbe collegata all’incapacità di muovere il corpo a tempo e seguendo un ritmo. Mentre leggo questi due giudizi scritti a distanza di più di duemila anni, cinguettano i passeri fuori della finestra e a ogni sequenza di suoni fanno corrispondere un moto del capo, addirittura coordinandosi e distribuendosi per i rami come per un’orchestra dall’invisibile direttore, che viene voglia di cercare tra le fronde. Avendo avuto per tanti anni un canarino, non per caso chiamato Turbine, ho osservato come l’emissione di note era sempre accompagnata da una postura del capo particolare, da un’erezione del corpo con protensione verso l’alto del collo, e da un palese atteggiamento di ascolto della propria musica, come farebbe un cantante, al fine di modularla e scandirla in modo armonico. Svolazzava con vitalità incessante ma quando cantava si fermava, più come un musicista che come un ascoltatore danzante che accompagni col corpo il piacere del ritmo e della melodia. Il paragone va fatto tra il canto degli animali e l’esecuzione del musicista, non già col ballo e l’accompagnamento fisico dell’ascoltatore. Per questo i passeri e altri uccelli quando cinguettano rimangono composti, rifuggendo da facili effetti, prendendo molto sul serio esteticamente il loro canto. Né puoi dire che il canto serva loro soltanto per le utilità della sopravvivenza, per il sesso o la comunicazione dell’allarme, o per altri scopi sociali, perché mille esperienze lo smentiscono. Oliver Sacks parla molto e bene della musica come terapia di malattie neurologiche, quale è il morbo di Parkinson, attingendo senza nominarlo all’antica sapienza di Pitagora, il quale parlava di salute come armonia e di malattia come disarmonia. Del resto nell’Italia meridionale si dice ancora “Mi sento stonato”, per indicare che si sta male, quasi si fosse persa l’accordatura. Se ammalarsi 472 neurologicamente è perdere il ritmo, del pensiero, della parola, del passo, la musica può aiutare a ritrovarli, ma soltanto finché dura. 15 luglio Virtualità dell’opera Se uno compie un’opera, artistica o letteraria, virtualmente deve essere in grado di farne una dieci volte più grande. La virtualità dell’opera infatti è sempre megalomane e sproporzionata rispetto alle capacità reali. Quando progettiamo un romanzo o un quadro o una composizione musicale vediamo l’opera che vorremmo compiere e il risultato è sempre un drastico ridimensionamento del progetto. Se uno ha scritto di fatto un’opera grandiosa pensiamo allora quale impresa aveva immaginato. Magari era partito però pensando a una cosa da niente. Spesso siamo delusi da un’opera d’altri o nostra perché la commisuriamo a quel piano puramente virtuale. Come quando, vedendo correre un velocista, ne esaminiamo dagli spalti i difetti e vediamo mentalmente come potrebbe essere migliore la nostra corsa. Ma, scesi in campo noi con lui, come sarebbe realmente? Molto più difettosa e goffa di come la immaginiamo. Il risultato effettivo è il segno lasciato nella materia dai nostri limiti, diceva Bergson, intendendo proprio questa necessità dello spirito di fare comunque i conti con la materia. Carattere artistico della filosofia In un piano filosofico c’è sempre qualcosa di artistico e di politico. Il carattere artistico sta nel dare una forma unitaria e stabile a idee che svolazzano, oscillano, mutano di continuo, imponendo loro una riconoscibilità stabile, anche quando non si pensano più in quel modo, anzi al contrario. Vogliamo per esempio che Aristotele per tutta la sua vita abbia pensato a un Dio come motore immobile? Certamente no, e chissà quante altre ipotesi avrà fatto, diverse e contrastanti. Ma ha tenuto duro nel non comunicarle, fedele alla 473 forma artistica che le sue idee avevano ormai assunto, alla cristallizzazione che ha permesso di associarlo nei millenni a quella teoria. È artistica la capacità di filosofi di non cambiare idea per rispetto di una forma che imprimono al loro pensiero e che li fa ricordare. Altri filosofi più onesti e liberi, come Platone, che pure era molto più artista di lui, ma in modo più felicemente incoerente e sperimentale, hanno saggiato più teorie, a volte affini a volte ondeggianti, parlando di un dio demiurgo, come nel Timeo, ma anche degli dei tradizionali, come nel Fedone, dove dice che noi uomini siamo ktema theon (possesso degli dei), col risultato di rendere meno impresse, chiare e assolute le sue posizioni. Questa chiarezza artistica di Aristotele è anche politica proprio perché, parlando di una causa prima, stabilizza un regime filosofico bene ordinato e immutabile, benché puramente ipotetico e indimostrabile anch’esso. 15 luglio Lo sport Ci sono persone letteralmente incapaci di provare gioia di vivere: quella vampata di ben essere elementare, di ben vivere immediato, di felicità fisica. Molti, che pure ne sarebbero incapaci, la conseguono lo stesso con lo sport, sperimentando lo stato simbiotico ed energico che ci prende quasi sempre quando abbiamo tenuto in esercizio il corpo, abbiamo camminato, corso, saltato, nuotato. Lo sport non sposta di un millimetro la nostra visione delle cose né ci ispira nella risoluzione di qualcuno dei nostri problemi ma o ne allenta la tensione o ne sospende la coscienza, e soprattutto non si configura come un piacere statico, negativo, “figlio d’affanno”, benché anche questo genere si sperimenti dopo uno sforzo fisico, una nuotata o una corsa, ma come un vero e proprio piacere positivo, attivo. E a nulla vale ridimensionarlo dicendo che si tratta 474 soltanto di endorfine: tutti i nostri sentimenti e le emozioni più forti hanno sempre una base chimica ma un’altezza spirituale. E lo sport è una delle attività più spirituali che si possano compiere, in quanto riconcilia anima e corpo e li fa concorrere musicalmente e ritmicamente in un’attività benefica e disinteressata, dove non vi sia competizione con altri e caccia di denaro o successo. Lo sport praticato per semplice piacere musicale e personale sta allo sport agonistico come la contemplazione filosofica alla guerra, come l’esercizio artistico al commercio. È una forma di sport superiore, in quanto non teso al record, non dominato da uno scopo schiacciante, non pronto a mortificare il corpo con sostanze chimiche, ma teso ad auscultarlo, appunto come uno strumento musicale che possa dare l’esecuzione migliore solo curandone l’accordatura e gli specifici timbri e ritmi. Non è escluso che un atleta sia il recordman mondiale e nello stesso tempo un uomo libero, disinteressato, filosofico e musicale. In tal caso è il vero atleta che ammiriamo. In qualunque sport devi essere molto concentrato e insieme molto sciolto, come nel pensiero. Quando hai paura di sbagliare, perché un allenatore, o un giudice invisibile alle spalle, ti fa sentire incerto, sei più indisposto a farlo. Se tu giochi in una partita, a tennis per esempio, e in una pausa ti fermi a fare un bilancio, aumenti la possibilità di perdere. Se stai vincendo infatti, la precognizione della vittoria finale ti indurrà a giocare peggio e, se perdi, la prospettiva negativa ti farà giocare anch’essa peggio. Vinci, anche fuori dello sport, se ti concentri tutto nel momento presente, sempre che abbia sciolto prima ogni nodo. La squadra è il modo migliore per esaltare onestamente le qualità dei migliori. Non è vero che l’individuo è ridimensionato, perché soltanto la squadra permette al campione di esprimersi, nel mentre rivela le debolezze dei peggiori. 475 La società italiana non fa squadra non per individualismo vincente bensì perdente, per la paura infatti di non essere noverati tra i migliori. Individualismo di gruppo Esistono associazioni di volontariato che riuniscono milioni di concittadini, esistono movimenti scoutistici, associazioni religiose e sportive, famiglie sane e famiglia mafiose, clan e società per delinquere, nelle quali la rilevanza dell’individuo è sempre subordinata al gruppo, a meno che non emerga palesemente, se anche non in modo, per lo più, limpido e verificato come nello sport. In questi casi si manifesta un individualismo di gruppo, giacché diventa individuo la squadra o l’associazione. Ma diventare un unico corpo moltiplica il bene come il male, e a volte li mescola indissolubilmente, come nel movimento degli scout, che educa in mille modi ma esercita una violenza morale verso le persone inadatte al perenne vivere comunitario, i cosiddetti ipersensibili, che vengono strapazzati senza indulgenza, rovesciando il bene in male. Complicità tra parlanti Quando manifesti solidarietà per chi sta perdendo, presso un gruppo che lo sta criticando, tutti ci leggono un’offesa alla loro sensibilità e si precipitano a smentirti, benché esattamente quelle critiche spietate avevano fatto. Tu hai rotto così la complicità tacita tra i parlanti che stabilisce che, ancora prima di aprire bocca, tutto venga detto, fermi restando quei valori condivisi e quella civiltà reciprocamente riconosciuta che, aprendola appena, regolarmente vengono irrisi e contraddetti L’esercizio a pensare in modo universale è ripugnante a qualunque occasione concreta della vita sociale, nella quale tutto ciò che si dice deve riferirsi a un caso concreto o alludere a qualcuno o a qualcosa. 476 Visto infatti che quel pensiero ti è venuto in mente in quella circostanza, pensano i più, è inutile che tu finga che a essa non sia legato e che a essa non debba tornare. In libreria Sei un ingegnere edile preciso e rigoroso, sei un medico cardiologo, sei un’insegnante di fisica stimata, sei un operaio specializzato, sei un artigiano del legno, sei una commerciante d’abbigliamento, sei un impiegato dell’Inps e stai entrando in libreria. Stai attento! Vorresti un libro che non ti faccia più pensare, che ti distragga, che ti diverta e ti faccia magari imparare qualcosa. Davanti a te ci sono pile alte e colorate che segnalano libri già letti da centinaia di migliaia di persone. La cosa ti rassicura, già pregusti quando racconterai agli amici le tue impressioni su un libro che anche loro vorrebbero leggere e che tu avrai letto prima. Tutti parlano bene di quei libri impilati: giornalisti televisivi e vicini di casa: stai entrando nel mondo della cultura a pieno titolo, tanto più che hai un lavoro che ti dà soddisfazione e puoi giocare in libertà su questo secondo tavolo. Nel tuo lavoro sei stimato e riconosciuto, vuoi un libro che continui a far spirare su di te la stessa benevolenza, che ti rispetti e ti gratifichi, senza minacciarti con parole che non conosci e situazioni che ti metterebbero in imbarazzo e ti farebbero sentire più piccolo di quello che sei. È il momento decisivo, attento! Hai già preso il libro più alto della pila, con aria di sospetto e di prudenza, a beneficio degli astanti. Tu lo vuoi leggere beninteso, come tutti, ma per motivazioni ponderate e tutte tue. Il librario non ti giudicherà male, è sempre un libro in più che vende. E poi tu resti sempre in buona posizione nella classifica lavorativa. Paghi, lo tieni sotto il braccio con un breve piacere proibito. Lo tieni dentro la busta per un minimo di intimità. Tranquillo: la metamorfosi di un uomo intelligente in un lettore stupido è avvenuta senza nessuna conseguenza. Ancora una volta hai la conferma di una delle esperienze più piacevoli della vita: la stupidità non contagia in nessun modo l’intelligenza, e convive beatamente con essa. Questa è la grande scoperta inconscia del mercato librario. 477 È fastidioso essere d’accordo con chi non stimiamo. Abbiamo paura che in qualunque momento ci rovesci addosso pareri difformi e inverosimili su di un capolavoro con lo stesso entusiasmo col quale partecipano convinti a una nostra opinione. E allora dovremo accettare inermi la raffica delle sue critiche, senza poterci dire che è una persona aliena da noi, e quasi temendo che abbia ordito la complicità solo per poterci assestare il colpo definitivo al momento giusto. Predilige poeti maledetti, emarginati con Aids, o poeti vagabondi senza lavoro che hanno scritto pochissime pagine preziose, che conserva manoscritte, centellinando confidenze, facendo sbirciare frammenti di lettere scritte al critico sodale nei sotterranei della metro, versi segnati sul bordo di un libro geloso in una notte insonne per strada. Il loro genio è indiscutibile e fiammante, soprattutto se le loro opere sono inedite. Poi ti squadra nei tuoi vestiti puliti, fresco di barbiere, si ricorda che tutti i giorni vai a lavorare, e si trattiene dallo scuotere la testa. 18 luglio I depressi per scelta Quando uno è giù d’umore o malinconico dice che è depresso, nella speranza di avvalersi della immediata solidarietà sociale che scatta in questo caso, mentre a uno avvilito si darebbe una pacca sulla spalla e un invito a reagire e a uno malinconico si farebbe un sorriso scherzoso. Se sei depresso entri nel recinto sacro e nessuno ti può più toccare. La depressione è una malattia da prendere molto sul serio, da rispettare in massimo grado e da curare con arte sottile e paziente. Ma esistono i depressi, direi quasi, per scelta, soprattutto tra le donne, le quali hanno sempre avuto questo potere di santificare e glorificare le loro debolezze e cattiverie, illuminandosi di una luce da vittima eroica, da eroina sfortunata da difendere e proteggere, quando non da esaltare. 478 Rare sono infatti le depressioni cliniche reali, malattie terribili, al di là della morale e della stessa psicologia, oltre che gorghi di egoismo fisiologico, rispetto alla legione di casi di persone che si diagnosticano da sole una depressione. Io conosco diverse di queste persone e sono profondamente colpito ogni volta da due ricorrenti fenomeni: l’incapacità di amare e la smania di potere. La donna che ha deciso di essere depressa non si cura più dei figli, del marito, del compagno, dei genitori, degli amici, di nessuno insomma, ed è convinta che invece tutti debbano curarsi di lei, e resta stupefatta e avvilita quando vede che questo non accade, che cure indispensabili le sono negate, che assistenze assidue vengono rinviate, che tutti, figli, madri, sorelle, continuano ad avere una loro vita. Come è possibile? Non dovrebbero annullarsi per pensare esclusivamente a lei? Osano condurre un’esistenza separata, autonoma, persino allegra, mentre lei dovrebbe essere il centro doloroso del mondo, l’unica degna ragione di vita di tutti? La donna depressa ha dimenticato come si ama e ne scaglia le colpe addosso agli altri. Se ha un marito fedele lo trasforma in traditore, se ha una figlia esemplare la fa diventare impossibile, se ha un padre affettuoso lo irrita fino a sfigurarlo. Lei svela il male annidato in tutti tranne che in se stessa. La brama di potere della donna depressa per scelta è mostruosa: lei se ne sta immobile, come un sole malato, ma scatena intorno a lei un moto frenetico: visite di dottori, caccia ai farmaci, viaggi per gli specialisti, consulti per comprendere le cause profonde del suo stato. Lei è immobile ma intorno a lei tutti corrono, prendendo permessi, gettandosi nel traffico, sfiatandosi per non farle mancare una compagnia che lei disdegna fissando il vuoto. Si ammalano, ma di banali malattie fisiche. Lei sola, dalle analisi sempre perfette, ha il male impalpabile, il morbo sacro, il male che non si cura. Gli altri cadono per la strada con banali aneurismi, tumori, ictus. Lei arriva a novant’anni sanissima e sempre malinconica e commiserante se stessa. 479 La persona depressa diventa la protagonista assoluta della tragedia del non amore. Ed è vero che tale non amore è reale, realissimo, ma è altrettanto vero che è presente in lei in modo assoluto. Basterebbe cominciare ad amare appena un po’ una qualunque creatura umana e le foglie smosciate e prostrate comincerebbero a rialzare gli steli. Una donna, assai bella, non è più giovane. Ecco che comincia graziosamente a deprimersi. L’ape regina è malata e le api operaie devono spendere nel tentare di farla sorridere la stessa cura che mettevano nel fecondarla. Potranno mai riuscirvi? Quando torna dai medici, che devono prenderla molto sul serio, la donna depressa, che non lavora più ed è mantenuta dal marito che spietatamente l’ha lasciata, ha per loro un sorriso di disprezzo e compatimento. Loro non hanno capito nulla della sua sfrenata smania di potere. Ma se tu la prendi abbastanza sul serio da mascherarla ti odierà al punto di distruggerti, se potrà. L’odio è il sentimento latente della persona depressa per scelta, pronto a scatenarsi non appena qualcuno la contraddice o non la asseconda. Ho notato che la depressione si innesta sul carattere mostrato prima della malattia. Una persona generosa lo resta così come un’altra stupida e volubile. Ma, a ben guardare, chi cade nella depressione ha sempre avuto, fin dalla prima infanzia, un carattere prepotente e vendicativo, anche se mascherato da moine e false timidezze. Osservate come una donna profondamente buona non potrà mai diventare depressa, benché potrà soffrire molto. Un uomo invece sì. Ma egli sarà innocuo nella sua depressione e più facilmente controllabile, benché noiosissimo e fastidiosissimo. Una donna cade più facilmente in depressione di un uomo perché per lei non amare è altrettanto terribile che non essere amata. La scoperta di non riuscire ad amare la fa impazzire e a nulla vale che altri la amino. Il che conferma la superiorità spirituale delle donne. 480 Mia moglie ha speso tante energie per frequentare e soccorrere amiche depresse senza conseguire mai nessun risultato, se non costringerle a riconoscere che esistono persone disinteressate e capaci di sacrificarsi. Un giorno, tornando da una passeggiata interminabile con una di loro, che si era sfogata per l’assedio di indifferenza che subiva mentre era afflitta da infiniti mali, quasi tutti immaginari, lei si è accorta all’improvviso che l’amica mai una sola volta, in tante ore di assistenza, le aveva chiesto notizie dei nostri figli. E ha commentato: “Il dolore è dolore.” 18 luglio Pensieri senza coloranti Qualunque persona onesta può verificare che i miei pensieri sono naturali e senza trattamenti chimici, evitando i colori forti, come fa la natura. Eppure in questi tempi essi sembreranno a molti inattuali, magari opportuni, ma non abbastanza colorati, artefatti, stilizzati, eccitati. Come quando un soffione di polline entra in aula, una foglia vola dentro un cinema, un’ape in sala operatoria, una coccinella in un negozio di fruttivendolo. Cosa facciamo? Ripuliamo, sgombriamo, uccidiamo? O li teniamo sul palmo della mano e li guardiamo. Velocità dei saggi filosofici I saggi filosofici che si scrivono ormai da cinquant’anni hanno una caratteristica comune: la velocità. Sono l’opera di menti allenatissime, che hanno palleggiato tutti i giorni concetti, addestrandosi, come in una partita di ping pong cinese, a rimandare la pallina a velocità crescente e da ogni posizione. Sono pagine scritte con una tale accelerazione concettuale che il lettore via via è sempre più preso dallo stesso ritmo crescente, eccitato da una raffica di idee che piovono da tutte le parti e allenato lui stesso dal libro a ribattere con sempre maggiore abilità e ritmo. Ma così la filosofia è diventata uno sport agonistico come tanti, e la vita per il lettore, alla 481 fine della partita, è identica a com’era all’inizio. E pure per il giocatore. Alla fine del libro si esce eccitati e sudati come da una performance fisica, molto simile a un videogioco, solo che non sono i pollici e le aree cerebrali dei riflessi meccanici a essere eccitati, ma quelle dell’elaborazione concettuale. Si è pensato tantissimo da virtuosi e acrobati, a velocità che escludono tutti coloro che non sono esercitati a pensare filosoficamente, ma il risultato non è una crescita delle conoscenze, la conquista di un risultato chiaro, la convinzione di aver scoperto o capito qualcosa in modo irreversibile e concreto. Se va bene è una sola idea centrale che viene catturata, molto spesso soltanto un’interpretazione personale di un’altra idea, ancora più spesso una coloritura minima, una sfumatura impercettibile, una variante appena definibile di un pensiero già codificato. E tutto questo in centinaia di pagine. Quello che conta è sempre meno approdare a un risultato e sempre più percorrere fantasticamente un ottovolante concettuale con maestria, acrobazia, scioltezza e, naturalmente, ad altissime velocità. La filosofia assomiglia sempre più a uno sport estremo, a un virtuosismo circense, a una performance da Guiness dei primati, a una gara mondiale da videogiochisti. Il pensiero però è rallentamento, non solo per attingere quella che Nietzsche chiamava la calma filologica ma perché solo così esso entra nei ritmi lentissimi, poco colorati, e profondamente superficiali della natura. E nella vita, individuale e sociale, di quel ciascuno che con le alte velocità non può più essere il soggetto della filosofia, la quale non può più essere universale, cioè per pochi ma di tutti. L’ultimo filosofo lento italiano è Giacomo Leopardi. Che pensava in modo velocissimo verità genialmente rallentate scrivendole. Nel secondo dopoguerra molti filoni filosofici conversero nel negare un’autonomia sostanziale alla natura e nell’insistere sul fatto che molti tratti, giudicati naturali, sono in realtà culturali e storici. Sulle 482 orme di Nietzsche e della scuola di Francoforte, sulla scia di una lettura di Marx tutta volta a smascherare le ideologie e a ricondurle agli interessi di classe, si finì per svuotare la natura della sua potenza attraverso la superba primazia del pensiero. La stessa considerazione della storia come campo di forze che possono da noi essere dirette, facendo leva su classi sociali e su una presa di coscienza di élites che le guidasse, o contentandosi almeno di una visione filosofica superba, che riservasse agli eletti almeno la coscienza, pur nell’impotenza fattuale, di questa verità segreta, è stata spinta dall’illusione che la storia fosse molto più modificabile della natura. Ma in realtà la storia non è che un’accelerazione della natura, la quale conosce tutte le arti della lentezza, e soltanto quando non può farne a meno esplode in catastrofi violente e brevi. E in modo particolare nelle svolte convulse e decisive, prima fra tutte la guerra, sempre incidente, e le rarissime rivoluzioni. E tentare di conoscere a posteriori i meccanismi storici, ammesso che siano identificabili con certezza e tendano a ripetersi, in nessun modo vuol dire poterli pilotare. Così il più delle volte si assiste alle svolte cruciali del tutto indifesi e confusi, giungendo esse di colpo e con violenza e urgenza sempre superiore alle più attente previsioni. Il pensiero poi è un’accelerazione ulteriore della storia, tanto più in quanto si va da discipline alla storia legate, come la sociologia, la storiografia, l’antropologia, l’economia verso la filosofia, che almeno a partire da Nietzsche ha cominciato ad accelerare vertiginosamente, al punto che si pensa e si scrive con tale velocità bruciante che molto spesso un libro comincia dove è finito il precedente, in un viaggio vorticoso, che però si lascia abbondantemente alle spalle la natura, sicché i pensatori diventano sempre più riservati a quei pochi in grado di reggere prestazioni ai limiti della sopportabilità umana. Essendo però la stragrande maggioranza della popolazione molto più lenta, e quindi molto più conservatrice, più legata al lessico 483 ristretto e al mondo emotivo e intellettivo utile per sopravvivere, e quindi più in sintonia con la natura, è sempre più difficile che un pensatore possa esercitare il minimo influsso al di fuori della cerchia dei pensatori, degli studiosi dei pensatori e degli studiosi degli studiosi dei pensatori, risultando ai più incomprensibili nella lingua e nel pensiero. La folla poi di saggi che escono ogni giorno, bruciano come un petardo e cadono a terra neri e spenti, è così fitta che nessuno può sperare di trattenersi almeno nella retina di chi li legge, finendo per bruciarsi a vicenda, sia perché sono scritti di getto e rapinosamente, per sfruttare la congiuntura istantanea, che domani sarà già mutata, sia perché, fossero meditati per anni, non verrebbero incontro all’illusione che ogni giorno accada qualcosa di nuovo, che esistano fenomeni che, essendo già spolpati da migliaia di esperti, non avrebbe più senso mettersi a studiarli. Lo studio stesso è anzi disintegrato nella sua sostanza, nessuno resistendo all’idea che le leggi della economia o della sociologia si facciano giorno per giorno e che tutto è così diverso da tutto il resto da non consentire un confronto che vada al di là dell’immediato, se non in pausa ricreativa. Un classico di sociologia o di economia, di storiografia o di antropologia, oggi non può comparire, perché chi si mettesse a comporlo in solitudine si sentirebbe anacronistico e sarebbe da tutti tenuto per tale. Ma come facendo il giro del mondo con un jet tu percorri sempre lo stesso globo, anche se non la stessa rotta, che faresti con un biplano, e come camminando dalla Sicilia al Piemonte sarebbe comunque la stessa Italia che attraverseresti in auto, il mondo non cambia percorso a velocità maggiore o minore con qualunque scienza e disciplina. E anzi lentamente andando tu potresti capirlo e conoscerlo molto meglio. Un filosofo o uno scrittore si riconosce per il fatto che fa il suo libro in modo che sia destinato a durare, e non a bruciare. Lo fa tale che possa esser letto tra un secolo o dieci, fosse pure destinato a 484 sopravvivere in poche copie e letto tra mille anni da tre persone, perché l’etica e il senso stesso di quello che fa lo spinge a essere responsabile di ogni sua parola, in modo che, appena sufficiente o eccellente, chiunque possa ritrovare la stessa forza minerale, la stessa resistenza alle intemperie, la stessa geologica disposizione a entrare a far parte del mondo non come volume di carta, o come un documento tra miliardi di un’epoca, ma come testimone di una creatura degna di scrivere quanto di amare o di mangiare. Filosofi e critici filosofici Come si distingue il critico letterario dallo scrittore e dal poeta, così bisognerebbe distinguere il critico filosofico dal filosofo e dal pensatore. Il critico filosofico non elabora pensieri propri ma commenta, interpreta, mette in gioco e fa vibrare quelli degli altri. Come però esistono critici scrittori, possono esistere anche critici filosofici che siano filosofi. Quando cioè a furia di interpretare e commentare, di spiegare e sviluppare il pensiero di un altro finiscono per metamorfosare le idee altrui nelle proprie. Quasi impossibile trovare oggi un filosofo che abbia una qualche idea dello stile, o almeno una volontà di stile. Educarsi a uno stile richiede almeno altrettanto tempo che costruire un pensiero proprio. Ammirevoli sono coloro che, coscienti di questo e disperando di potervi ancora riuscire, dopo aver pubblicato i cosiddetti saggi per specialisti, adottano una lingua semplice e chiara per affrontare problemi di interesse comune, senza darsi una solennità ridicola e mai aggrovigliandosi in termini esoterici e minatori. Un accademico in carriera, piuttosto che pensare, preferisce scrivere dieci libri alla massima velocità, che almeno occupino una porzione tale dello scaffale da dargli l’illusione di esistere. E fa così per paura, giacché non sa, come nessuno sa, se sarà veramente capace di pensare, e quindi non vuol prendersi un rischio che forse lo umilierebbe o una fatica che lo metterebbe in gioco troppo duramente e per sempre. 485 Pensare infatti è irreversibile. Se cominci non puoi più tornare indietro. Caro studioso filosofico che scrivi: “Intendo l’espressione nel senso del secondo Heidegger”, “uso questa parola nel significato del primo Derrida”, “ovviamente lo dico riferendomi al Benjamin del saggio su Baudelaire in Angelus novus”, scontata la riconoscenza per come ti fidi della nostra memoria e dottrina, non potresti sprecare un’altra riga per farci sapere tu direttamente, mentre leggiamo con gli occhi ballanti il tuo velocissimo libro con la lingua tra i denti, in quale benedetto significato esattamente lo dici tu, proprio tu, senza costringerci a tirare fuori e a sfogliare dieci volumi alla ricerca impossibile di quel significato pulviscolare, sprofondati come siamo in un comodo e insidioso divano occidentale? Grazie. I nostri tempi però sono veloci. Come c’è una nostra musica, dal jazz al punk rock, così c’è una nostra filosofia. Non è all’altezza di quella classica ma è nostra. Solo nel caso di Massimo Cacciari la velocità mi sembra coerente stilisticamente, essa stessa una presa di coscienza della realtà, un modo di vivere il pensiero dei nostri tempi, un suonare le idee da uomo orchestra, con un’onda sonora emozionante, con un tripudio da concerto, un sound ispirato che fa scorrere il nostro sangue nel corpo collettivo del pensiero contemporaneo. Fin dai tempi di Krisis (1976) avevo pensato: questo filosofo è un musicista. Il sound è decisivo: ritmo, melodia, timbro, toni, intervalli. Puoi ascoltare, assorbire e mettere in moto un tuo pensiero e una tua immaginazione, non dialogare. Ma la scossa che ti dà risveglia il tuo pensiero e ti fa diventare ciò che sei, ciò che non sei. 19 luglio Bene e mali da lontano Nelle comunità strette, negli ambienti circoscritti in cui tutti si conoscono, essere sleale, ladro, falso, sfruttatore si paga 486 amaramente. Naturale è quindi che a questi comportamenti siano associati dolori, umiliazioni, isolamenti e condanne pubbliche. Il male e il bene si spartiscono facilmente perché il primo ti dà sofferenza e il secondo gioia e salute. Ma diventando le società sempre più complesse viene a mancare del tutto il confronto corporale e la verifica sperimentale del prossimo, e così il male e il bene non si associano più al dolore e al piacere e si può far moltissimo male a migliaia di sconosciuti che restano nomi astratti e far del bene a qualcuno che non saprà mai a chi essere grato. Come nella guerra non vedi più il corpo stravolto di chi hai ucciso e pigiando un bottone puoi sterminare una città senza vedere nulla del male che fai e senza che nessuno te ne chieda mai conto, così nelle scelte di governo puoi distruggere centinaia di migliaia di poveri senza che nessuno di loro abbia mai un nome e un volto. Dissociato il bene dal consenso caloroso di chi ti abbraccia, e il male dal disprezzo di chi ti ferma per strada e ti insulta, tu dovresti essere giusto senza alcun riguardo alla gratificazione e alla mortificazione, ed è impresa che solo pochissimi, e mai al massimo potere, possono compiere, e mai per tutta la vita, se non è molto breve. Libertà di pensiero non è sfogo Abbiamo sopravvalutato tutto, prima di tutto noi stessi. Quando uno si ripromette di pensare e scrivere con libertà, deve però stare attento a non confondere la libertà con lo sfogo di impulsi immediati, di malumori personali, di idee e sensazioni istintive, che della libertà sono il contrario. Se rileggendo mi accorgo di questo, gratto via la pagina. Ma sono sicuro di non lasciare una vendetta molto ben mascherata sotto le righe? In tal caso chiedo si abbia un occhio di riguardo per lo stile, che è un codice morale profondo, benché insufficiente. Ne è un esempio tragicomico il blog in cui tutti esprimono liberamente il loro parere, senza sorvegliare la rabbia, la schifiltosità, 487 l’allergia, la simpatia a pelle, il capriccio del momento, sicché tutti vengono tirati giù dal pero bruscamente, attaccati nelle pieghe intime della vita privata, smascherati con un’impudenza goliardica e feroce, accusati di nefandezze e brutture inimmaginabili, e il tutto tra battute, spiritosaggini, giochi verbali e l’imposizione terroristica che devi subire tutto in silenzio altrimenti non sei democratico e non sei un uomo libero. In questo gioco al massacro da festa di ex compagni di scuola tutti escono alterati e spennati, e mestamente chiudono il computer pensando che tutto questo fascino liberatorio del blog libertario in fondo è una trappola ed è meglio tornare a “mia gentile e cara amica” se non a “il suo devotissimo servitore”. La nominazione Non nomino mai chi disprezzo. In certi casi nomino persone che valgono così poco da essere assolutamente innocue, per quanto rumore facciano. Ma quando scrivi devi onorare chi vale. In queste frasi scorre una sicurezza che può suonare arrogante e uno spirito aristocratico che non si accorge di essere ridicolo, perché si è cucito il blasone da solo. Forse. Ma come è aristocratico l’intagliatore di mobili, il viticultore, l’atleta solitario, il chirurgo amante dei corpi sani, la ragazza che indossa il suo primo abito lungo, senza che nessuno guardi o ne sia offeso. 20 luglio L’insuccesso è colpa del figlio Un difetto dei genitori è quello di addebitare sempre alla personalità del figlio gli insuccessi e le sfortune della sua vita, come se il mondo, trattato con entusiasmo e con fiducia, rispondesse più efficacemente e generosamente ai nostri desideri. Ogni volta che non vince una gara o non supera un esame o non ottiene un posto di lavoro madri e padri gli ricordano la sua sfiducia in se stesso, la sua eccessiva 488 ritrosia, la sua insicurezza. Se solo lo volesse, viste le sue doti intellettuali, potrebbe fare benissimo ma dovrebbe cambiare del tutto atteggiamento. Questa tendenza si fa più grave quando il figlio manifesta un certo rigore morale, rifiuta compromessi, non è disposto ad accettare un sistema di scambi e di favori, non si mette in partita con i metodi che sono dominanti. Ecco i genitori che lo rimproverano, lo compiangono e gli assicurano un futuro di solitudine e impotenza. Gli ricordano quanto conti la mediazione e che senza compromesso non esisterebbe nessuna società. Non è vero perciò che non c’è educazione sufficiente in Italia, c’è e come, ma tutta volta ad accentuare l’immoralità e il disprezzo di qualunque regola, e questo anche da parte di chi in pubblico è onesto e serio, di chi mai è sceso a compromessi, di una persona cioè che, avendo verificato quanti danni e smacchi subisce la persona seria, pur non potendo fare diversamente per sé, cerca almeno di salvare i suoi figli da una disdetta sicura. Lo rimproverano di essere troppo sensibile, aggiungendo che deve farsi una corazza per la vita. Ma la sensibilità è la sua corazza. Ridere Uomini che hanno raggiunto il potere e la fortuna nel modo più cinico e spregiudicato oggi sorridono molto, ai fotografi, agli intervistatori, ai conoscenti. Vivono quasi ridendo, finché qualcuno li guarda. Credono di dimostrare col solo sorriso che tutto è stato limpido, naturale, giusto. Credono di convincere con la sola simpatia che l’unico segreto del loro potere e dei loro soldi sia consistito in un ottimismo a prova di bomba e in uno sguardo benevolo e fiducioso perennemente rivolto ai casi della sorte. Mai si è sorriso e riso tanto in tutta la storia del genere umano. Ci sono intere categorie di sorridenti e ridenti professionisti: attori, non soltanto i comici, veline, concorrenti a gare di bellezze, promotori 489 pubblicitari, personaggi dello spettacolo, politici, imprenditori, sindacalisti. Non sei veramente arrivato, non sei veramente al potere né famoso se non ridi. Chi ride è il padrone del mondo, si dice. E tutti infatti lo sono e si sentono tali. Se non ridi vuol dire che le cose ti vanno male, quindi tutti saranno pronti a fartele andare peggio. Se non ridi vuol dire che hai un brutto carattere e che qualcosa non torna per te in questo gioco sociale così esaltante. Perché allora non ti isoli e non ti nascondi? Andando però in giro per le strade si vede che è rarissimo che qualcuno rida. Tutti se ne vanno seri, se non immusoniti, a meno che non stiano con dei bambini. E questo dipende appunto dal fatto che i passanti non hanno potere e non sperano di averlo, o non lo desiderano neanche. Così non solo la loro vita è seria ma quando sorridono o ridono sono sinceri. Anch’io scoppio in una risata all’improvviso, per dire: è stato bello. Sì, però adesso basta, ricominciamo da zero. Ragazze al mare Le ragazze al mare si prendono nelle mani i glutei, che sbucano da un curioso costume che li schiaccia a metà, si stringono il seno per tastarlo, camminano a passo veloce sul lungomare con fierezza da culturiste e ginnaste. Non vogliono essere belle per noi, cercano di non essere brutte per se stesse e per le altre donne. Gli sguardi sono decisi e parlano tra loro in fila per tre con serena autosufficienza. Il corpo è diventato per loro un sosia, un’armatura, un vestito, un animale secondo e impersonale. Indossano il corpo. Ecco che passa invece una ragazza che porta lo slip come uno straccetto, annodato con fili leggeri, lasciando lento il reggiseno, e a ogni passo dice: “Sono io, sono tutta io, sono io dovunque, fino all’ultima unghia del piede, fino all’ultimo capello.” 490 Erotica è la donna che è con tutta l’anima sparsa in tutto il suo corpo. 23 luglio Cura del corpo Perché tante persone seguono con cura maniacale il loro corpo, facendo continue analisi del sangue, tac, ecocardio, risonanze? E non solo con spirito di sacrificio e umiliazione ma con una sottile, indefinibile, voluttà? Perché tante donne, soprattutto donne, e uomini parlano così volentieri di malattie, altrui e proprie, con spirito di mortificazione, sia pure, ma anche con un leggero, inconfondibile, piacere, per cui non le trovi affatto avvilite dopo tanto illustrare i loro mali ma, anzi, se non tonificate almeno disposte a continuare la giornata come niente fosse. La risposta che mi sono dato è che la malattia, reale o presunta, è sì una minaccia e un avvertimento ma, se non mortale, è anche e soprattutto uno schermo alla morte e una protezione da essa. Coloro che pensano sempre alle malattie non pensano mai alla morte, ed ecco perché sono le donne le più interessate alle malattie, visto che sono le meno inclini al pensiero assoluto della morte. E mentre un uomo soffre in ogni malattia, anche lieve e accennata, la morte che vi si avvista e vi si nasconde dentro, la donna trova nella malattia, che è concreta e alla fine manifestazione di vita, dentro la vita, l’occasione per rimandare all’infinito il pensiero che più ripugna alla sua natura: la morte in quanto morte. Per la stessa ragione troverai sempre le donne più religiose, o almeno più inclini a credere in un altro mondo, più assidue frequentatrici delle funzioni religiose, più disgustate da discorsi filosofici sulla morte, meno malinconiche e inclini a fare proverbi e sentenze sulla sorte mortale, ma invece molto sbrigative e insofferenti in questo campo. 491 In pensione Perché l’uomo che va in pensione è così sbandato, passivo e incline all’angoscia? Ancora una volta perché vive la pensione come un’anticipazione, un assaggio, una premonizione della morte. Mentre la donna come una tardiva concessione di libertà, una occasione di vita. A tanto arriva l’assoluta ripugnanza delle donne a una meditazione sulla morte. La donna stabilisce una continuità tra la vita lavorativa e quella pensionale, perché continua a fare la spesa, a cucinare, a lavare, a stirare, a fare i letti, a spazzare la polvere, a dare lo straccio, a fare le analisi mediche, mentre guadagna una libertà meritata che ha l’ansia di godere. L’uomo incapace di reagire con un guizzo di libertà, cominciando anche lui finalmente a lottare per la sua sopravvivenza, diventa un peso morto, un adolescente invecchiato, un ansioso o un depresso che si aggira come uno zombie tra gli umani consorziati in società. Molti reagiscono tornando nei luoghi di lavoro ogni giorno, pregando che una tana, un buco, un pertugio, un nido, un corridoio sia loro serbato per riconoscenza e perpetuamento di memoria, mentre null’altro i lavoratori ancora in forze desiderano che gustare l’alleggerimento collettivo per la sua mancanza. Al pensionato si chiede essenzialmente di saper morire socialmente con dignità e senza sbavature e di maturare vertiginosamente nella coscienza che saremo cancellati, mentre lo scopo del lavoro appunto era quello di essere perpetuamente ricordati. Vero è che questa sensazione si prova sempre quando qualche figura di personalità dominante sgombra il campo, e persino quando muore, benché stimata e amata, quasi i sopravvissuti sentissero la terra diventata più leggera e per loro più spazio e più aria, mentre in un secondo tempo subentra la sensazione opposta di rimpianto e di nostalgia, quando gli effetti della mancanza non si colgono più in maniera animale ed istintiva ma ponderata e considerata nei tempi lunghi. 492 Per questo la nostalgia e il rimpianto sono sempre leggermente intinti di colpa, perché abbiamo desiderato perdere chi rimpiangiamo. Quando una persona è figlia, madre, sorella, cognata, nuora, amica, prova affetto per tutte loro e di volta in volta per quelle che sono presenti e per le quali si spende nel presente. Le altre, non essendoci, tendono ad andare nello sfondo, a meno che non soffra nostalgia per chi non c’è più di quanto provi piacere e gratificazione per chi c’è, caso raro e doloroso, che anche per questo si sfugge. 29 luglio Sport e pensiero di Dio Quando si fa un esercizio fisico intenso, una nuotata, una corsa, una ginnastica che tonifica e svuota la mente, e ci si identifica con l’animale vitale, si diventa tutt’uno con esso, e d’improvviso tornato a casa e cominciando a sentire la stanchezza ti visita un pensiero su Dio, sulla sua bontà o cattiveria, o indifferenza, o quello che sia, e lo si compara con la tua sorte, ecco che ti nasce una carica aggressiva, come di qualcosa che con la natura non ha niente a che fare, che non può esistere e che, se esiste, non può che mettersi di traverso alla natura con prepotenza o almeno senza nessun riguardo. Il pensiero di Dio è sempre fortemente spiritualizzato, e quindi occorre con naturalezza quando soffri, sei malinconico, hai paura, ti senti fragile, flebile, languido e attraverso quel pensiero cerchi la risalita e la rimonta, il rilancio delle tue speranze e della tua fiducia a vivere. Per questo è da dubitare che possa esistere un pensiero innato di Dio e che un bambino si volga a Dio anche se nessuno ne lo orienta, per cercare protezione o per provare timore. Dio è per forza il portato di una civiltà molto avanzata e che ha già sofferto prove terribili, troppo superiori ai mortali. 493 Gli italiani e gli altri Gli italiani eccellono nel disistimarsi, nel compiangere i propri mali come eterni, nel considerarsi incorreggibili e inidonei al progresso e al miglioramento. Ma tutte le popolazioni pensano lo stesso di sé, soltanto che alcune non lo dicono in pubblico, perché più accorte, e altre godono voluttuosamente, sempre che non vi siano stranieri a tiro, nel denigrarsi. Ed è naturale che ciò accada perché critichi più aspramente chi meglio conosci. E così, vivendo nelle Marche, troverai tutti i difetti nei marchigiani, e vivendo in Lombardia nei lombardi, salvo che non lo dirai o lo dirai. Il non dirlo, come capita per esempio agli inglesi, del resto, non è detto che significhi sempre un maggiore orgoglio nazionale, perché potrebbe esprimere una segreta e immotivata insicurezza che non dovrebbe esserci e invece irrazionalmente, diabolicamente, persiste. Tutti dicono che la città in cui vivono è fredda e che gli abitanti sono chiusi, sempre mitizzando altre città, in genere del Sud, alle quali si riconosce almeno questo vantaggio, che sono calde e ospitali. Ma non è più vero, perché anzi i troppi problemi, l’insicurezza della vita e dei beni, rendono le persone egoiste ed aride, fuori della famiglia e della cerchia dei sodali, a meno che non pensino che quella che loro vivono sia l’unica realtà al mondo. Ciò che oggi non è più possibile. Discorsi da ombrellone sull’Italia e sugli italiani. Esattamente gli stessi di trenta, venti, dieci anni fa. Gli italiani non si fanno cambiare da nessuno. Capiscono tutto loro. Il volontariato Fervono in Italia le opere del volontariato, ed è un segno rassicurante in un Paese (un immenso paese dove tutti conoscono tutti e deprezzano tutti) di evasori, truffatori, spergiuri, bugiardi e truccatori. Vi sono donne stupende, animate dalla gioia del puro 494 dono e uomini che soli hanno inteso lo spirito virile che consiste nel dare ad altri la propria forza e la propria allegria in modo naturale e franco. Ma vi sono anche donne e uomini dalla vita vuota e cava, che non saprebbero cosa fare di sé, che giudicherebbero una tortura pensare a una qualunque cosa ambivalente e oscillante tra il vero e il sogno. Essi si riversano sugli altri, dedicandosi ciecamente a opere pratiche e di sostegno fisico e tecnico, con la volontà assoluta di non pensare, di non elaborare la più breve immaginazione e anzi di investirsi tutti nell’azione, come l’unica forma non intinta di relativo, non ricca di sfumature opinabili, non reversibile in astuzia e trucco per affermarsi e farsi valere. Essi manifestano così una fede ingenua nella tecnica della bontà, che è la versione morale della fede positivistica nella scienza, e vi mettono davanti al fatto che comunque quelle piaghe di decubito le hanno curate, quel pasto caldo lo hanno servito, quel culo di vecchia intrattabile l’hanno pulito, quel cieco l’hanno portato a passeggiare per due ore nel centro di Milano. E questi sono fatti. Donne in azione C’è nelle azioni pratiche che tu compi a beneficio di un altro una forma di bene condensata, una essenza con la quale puoi fare tanti profumi sentimentali e affettivi, che sarebbero fallaci e ondeggianti se non ci fossero al mondo azioni certe e codificate di bene, sulle quali nessun dubbio può essere sollevato. Ha odiato il padre che l’ha condannata a servirlo nel corso dei due anni a letto che hanno preceduto la sua morte. L’ha odiato, ma cosa volete che sia un sentimento, per quanto duro e cattivo e ostinato, rispetto al fatto che lei l’ha fatto, rispetto al servizio che ha effettivamente reso e che è sotto gli occhi di tutti e che vanifica ogni filosofare scettico e distruttivo sulla natura umana, visto che è indubbio che lei, odiando, l’ha fatto! 495 Queste rocce sedimentarie e intrusive di bene sono lo strato geologico sul quale può crescere la pelliccia d’erba degli affetti e delle effusioni. Non c’è dubbio che le donne abbiano sempre dato le prove fattuali e sperimentali più certe sull’esistenza e la possibilità del bene, anche nelle forme più spoglie, zitte, dure, cattive, inesorabili. Altro caso è la micidiale prepotenza e la selvaggia volontà di potenza di certe donne che scelgono dei beneficiati sacrificali, succhiano la vita di un maschio come fosse un film che seguono minuto per minuto cercando di orientarlo verso il bene, verso la loro idea di bene. Sono disposte a privarsi di quasi tutto per la buona causa che sostengono e sono capaci di armonie deliziose se il piano si svolge secondo le loro intenzioni. Ma se gli attori si ribellano alla regista e soprattutto se la ignorano anche soltanto per qualche giorno, il loro risentimento si scatena e si spande con accuse, recriminazioni, dolenti rinchiudimenti, minacciosi silenzi, lamentazioni feroci che si estendono fino al più potente e inarrivabile dei maschi: Dio. Hamletica Hamletica di Massimo Cacciari è un libro mistico, nel senso che è volto alla decisione che soltanto adesso posso compiere, un libro che corre verso l’attimo decisivo, il più importante di tutti, che può essere soltanto ora. Un libro talmente sano che sceglie di attraversare la malattia spirituale con tale purezza e coraggio da non puntare a salvarsi ma a essere degno senza volerlo. Nel primo saggio, su Amleto, ci dice che siamo responsabili di ciò che ora siamo, cioè di ciò che ora facciamo. E tutto il resto è delirio. Nel secondo, su Il castello, che non dobbiamo aspettare una chiamata, che non arriverà, e vivere decentemente senza confidare in Dio. Dio infatti o è un nemico o è un mistero. Se è un nemico, inutile confidare, se è un mistero, vano cercare di illuminarlo. E se non è né l’uno né l’altro, siamo liberi, e questa è la terribile sorte che ci tocca. Nel terzo saggio, su Beckett, si dice che siamo già morti in vita, comicamente morti, perché impotenti e infelici proprio in quanto 496 liberi. Non dobbiamo quindi puntare più sul dolore come mezzo di conoscenza e di salvezza ma sulla nostra umiltà e infermità comica di creature senza creatore, come un Buster Wittgenstein. Gran Torino Ho visto Gran Torino di e con Clint Eastwood, il più austero e veritiero dei registi americani, con uno stoicismo puritano e una onestà virile che andrebbero iniettati, si potesse, ai nostri sempre più smidollati connazionali, che ignorano cosa vuol dire disciplina. Dopo una vita passata a rispettare e a coltivare sfumature ogni tanto bisogna anche ricordarsi che esistono il male e il bene, e che questi vanno polarizzati perché esistano. Se il suo personaggio è sempre e comunque quello del giustiziere, in questo film si risente il passaggio benefico alla presidenza di Obama. Il vecchio operaio della Ford, che conosce il nome e la funzione di ogni attrezzo raccolto nel suo garage in cinquant’anni di dedizione al lavoro fatto bene, fa giustizia, in questo caso offrendosi come vittima sacrificale alla sparatoria di una gang cinese, per salvare il muso giallo che cerca di non farsene incastrare e al quale lascerà nel testamento la sua Ford Gran Torino del 1972. Clint si fa fare il primo vestito su misura della sua vita per esserci sepolto. Una parabola: la morte, il primo e solo vestito su misura? No, non è questo, ancora una volta le cose vanno fatte bene fino alla fine. Qualcosa di regale Pensiero terribile: Non c’è in me, in ciascuno di noi, qualcosa di regale, la nobiltà presuntuosa di un sovrano spodestato? Contro il quale si esercita, ma da parte di chi?, la spregiudicata e cinica potenza dell’usurpatore? Un male oltre il male 497 Parliamo di un dio del pianeta terra, che è meglio. Che ne sappiamo noi dell’universo? L’uomo, un animale processuale. Un essere per cui la giustizia è questione di logica inesorabile, non certo di vita. Un mare di male che copre i due terzi del pianeta. Il bene però non ha continenti, solo terre emerse, isole, arcipelaghi al massimo. Norman Mailer ha detto in un’intervista che nel Novecento è stato il diavolo a vincere. Ma che la battaglia continua. Conrad scrive che il diavolo ha come sola movenza l’orgoglio satanico, e quindi non è poi così nero come si dipinge (Con gli occhi dell’Occidente). Non fosse il diavolo ad aver vinto, ma gli uomini, come la metteremmo per il futuro? Dio è perdente sulla terra. Quindi o non esiste Dio o deve vincere dopo. Noi italiani del tutto smidollati sul problema del male: non vediamo la foresta del male a causa degli alberi della cronaca nera. Come la malattia è schermo alla morte, come ho detto in un altro pensiero, ed è per questo che piace tanto, soprattutto agli anziani, parlarne, così la cronaca nera è schermo del male. La verità non è una cosa, è un chi. Sei tu, sono io. E brucia. Improvvisi Espellere tutto: pipì, cacca, sudore, sperma per svuotarsi, diventare più leggeri. 498 Dicono: “L’estate è già finita” prima ancora che cominci. Desiderano la fine, hanno paura di vivere l’acme, l’apogeo, lo aggirano sperando che la vita torni a morire mediamente con la stessa calma statistica e stilistica, senza punte e senza exploit. Il bisogno di chiudere le situazioni, di liquidare quello che c’è da vivere, di sgombrare il campo dalle attese e dalle aspettative per tornare al più presto alla non vita. Vivere è l’ostacolo che ci impedisce di capire quello che, non vivendo, non esisterebbe. “Ho paura di andare a letto da solo a cinquant’anni suonati.” “Segno che non sei invecchiato.” 9 agosto VIII canto del Paradiso Nell’VIII canto del Paradiso Dante nomina la natura sette volte. E nel “più ampio spettro di significati”. Vittorio Sermonti, nel suo commento alla terza cantica, osserva che “nella lingua in cui parliamo, la parola ‘natura’ connota comunque un antagonismo forte con lo storico e con l’artificiale", mentre nel Medioevo, nel quale il potere di incidere e deformare l’opera della natura era insignificante tale conflitto non poteva avere senso. “Così, per i contemporanei di Dante, la mietitura non è meno naturale del frumento, una cattedrale o una scarpa testimoniano della vita del creato non meno di una rondine o del mare.” L’osservazione è suggestiva e ponderata e tuttavia non mi convince. Vero è che il lavoro umano, in ottica religiosa, non è che la prosecuzione del creato. Ma esistevano mestieri, nell’alto Medioevo, come l’usura e la mercatura i quali, rubando il tempo e lo spazio a Dio, valorizzavano le merci in modo innaturale. Senza dire che da sempre è inscritto nell’animo umano il senso di una natura primordiale, età dell’oro, paradisiaca, genuina, da subito tradita e offesa, da riscoprire e rigenerare. 499 Né è pensabile mettessero sullo stesso piano la rondine viva e quella scolpita. E tuttavia pensare che la storia fosse per loro più dirittamente un’espressione della natura è tanto possibile che oggi stesso io credo che così sia, che le settantamila sostanze prodotte dall’uomo siano comunque naturali, che i millenni di civiltà siano anch’essi naturali, che tutto alla fine non sia e non possa essere che natura, perché tutto può storcersi dalla fonte fino a snaturarsi, in senso relativo, ma non può prescinderne, né nella materia né nella forma in senso assoluto, come fosse di tutt’altro genere, sicché porterà comunque l’impronta dell’origine nella più spinta contraffazione e nella inimicizia più spietata col principio generante. Si dovrebbe semmai parlare di natura prima e natura seconda, come fa Leopardi più volte nello Zibaldone. “La circular natura” (v. 127) del cosmo è in sintonia con la “natura generata” (v. 133), guidata dal “proveder divino” (v. 135), che è buona. Ma c’è bisogno della fortuna: “Sempre natura, se fortuna trova discorde a sé, com’ogne altra semente fuor di sua regïon, fa mala prova” (vv. 139-141). E della volontà di attenersi alla sostanza naturale: “E se ‘l mondo là giù ponesse mente al fondamento che natura pone, seguendo lui, avria buona la gente” (vv. 142-144). 16 agosto Rimpianto di gioie non godute Una persona cara dice, come tutti gli anni, che ha aspettato tanto i dieci giorni in cui siamo stati insieme e che sono volati così rapidamente che sono già passati, e che quindi sarebbe stato quasi meglio non ci fossero mai stati. Potrei pensare che li abbia vissuti con tale gioia che adesso rimpiange di perderli, mentre invece si rimpiange un periodo che ci ha creato tante aspettative proprio perché non lo abbiamo goduto. Se così fosse stato. penseremmo subito che comunque lo abbiamo 500 vissuto, e che è una provvista che non potrà più esserci tolta, un cibo che ci ha nutrito e rigenerato e in virtù del quale ora possiamo affrontare il momento presente. Padre della madre Una delle esperienze più dure della vita è assistere ai cambiamenti che subentrano in una persona cara, e soprattutto nella madre o nel padre, con la vecchiaia. E non dal punto di vista fisico perché, essendoci spesso sotto gli occhi, noi ne vediamo le trasformazioni in modo graduale, ma quanto al carattere e all’attitudine verso la vita, che arrivano a snaturare una persona e a renderla quasi irriconoscibile. Essendo poi abituati ad esserne, se non consolati, compresi e sostenuti, la situazione, invece che alleviarsi, si aggrava. Ci riesce impossibile consolarla, non essendoci mai stato bisogno di approntare, negli anni, le strategie giuste, tanto più se lei è stata incline a sdrammatizzare e a risolvere in gioia generosa quello che adesso regolarmente, a causa della sua paura di perdere la salute e la stessa vita, si risolve in angoscia, si annoda in rabbia e in delusione. Quando arriva il tempo di essere padre alla madre, madre al padre, bisogna prepararsi come a uno dei fronti più cruenti della vita. 19 agosto Esprimere gli affetti li potenzia Esprimere gli affetti li incoraggia e li potenzia, sicché attestando, anche esagerando e persino affettando, un sentimento benevolo verso un’altra persona, finiamo per provarlo ben oltre la semplice manifestazione. E costruiamo a noi stessi una convinzione e quasi un patto di benevolenza, grazie all’abitudine, per cui non riusciremo più a fare del male, e neanche a pensarlo, verso colui che abbiamo pubblicamente o privatamente gratificato di parole di stima, seppure non sentite. Dal che discende come corollario che gli astuti 501 estorcono riconoscimenti, ben sapendo di vincolare a essi la stima di chi se li lasciati strappare. Così se un critico autorevole parla troppo bene di un libro che non lo merita, con gran difficoltà farà una palinodia in pubblico. Preferirà anzi tacere e così per decenni l’ingiustamente beneficiato si avvarrà di quel titolo e potrà usarlo anche per smontare e scoraggiare i detrattori. Al contrario, non manifestare la stima apertamente la smorza e la fa decadere nella persona stessa che pur la prova, e sincera e forte, sicché troverai facilmente che colui che ha saltato l’occasione di esprimerla non lo farà mai più, spinto da una inerzia del suo silenzio accecante, dotata di una sua forza meccanica invincibile, che chiunque sarà libero di interpretare come indifferenza o disprezzo, finché lui stesso, convinto dalla sua stessa omissione, pregerà una persona o un’opera molto meno che non all’inizio. Allo stesso modo non esprimere gli affetti li smorza e li atrofizza, sicché chi sempre li nasconde nella riservatezza, li cova nel segreto, non si abbandona mai a effusioni, non bacia, non abbraccia, non dice frasi dolci e carezzevoli, finisce per non provare neanche più i sentimenti che quelle frasi e quei gesti avrebbero risvegliato. Non è da credere all’esistenza di questi mondi d’amore sotterranei e segreti di cui si favoleggia, che mai in tutta la vita si manifestano perché la persona sarebbe di carattere riservatissimo, finché un bel giorno un gesto rivelatore porta alla luce una cascata di emozioni pluridecennali, come in tanti film ci assicurano che accada. In questi casi si tratta semmai di un improvviso risveglio di affetti e sentimenti per tanto tempo in letargo, che semplicemente prima non esistevano se non in uno stato debole e latente. Di quello che ho appena scritto io sono convinto perché l’esperienza me lo ha attestato tante volte eppure devo dire, per amore di una verità più completa, che esistono esseri, soprattutto donne, capaci di non esternare mai o quasi mai sentimenti molto profondi e costanti. 502 Sono casi molto rari e tragici, perché uno spreco di tal genere che assimila la persona amorosa e riservata a quella egocentrica e fredda, in tutto e per tutto, è una specie di ricchezza povera, di virus assurdo dell’amore, di stupidità insita nel cuore dell’intelligenza affettiva, che non mi commuove affatto, come invece accade a tanti registi, attori e spettatori. Caso diverso è quello dei genitori verso i figli dove l’amore è così forte, dominante e indiscusso che si possono ben tralasciare le manifestazioni dell’affetto, senza che esso sia minimamente indebolito. E tuttavia così facendo, pur amando nel modo più disinteressato, si privano i figli di un bene di cui nessuno li risarcirà. Tre tipi di pensiero Pensieri che si sviluppano nel tempo dall’esterno, che consentono alla vita organica, come nella dialettica di Hegel. Pensieri che si staccano dal tempo, perché il tempo è la loro forma perenne di organizzazione, la camera dentro cui si muovono, come nell’intelletto kantiano. Pensieri che vivono ora la vita dall’interno e non potranno essere scritti ma solo segnalati dalle parole. 26 agosto Pedagogia di Pasolini Pier Paolo Pasolini, nelle sue risposte ai lettori di “Vie nuove”, dà un ottimo esempio di cosa voglia dire impostare il discorso retoricamente, dando a questa parola il senso migliore, cioè quello pedagogico. Ogni sua affermazione, e specialmente quelle più dure e implacabili, sulla chiesa, sulla scuola, sulla borghesia, sulla cultura italiana sono volte a produrre l’effetto, anzi la scossa scandalosa più efficace al conseguimento del risultato, cioè lo scuotimento di una coscienza assopita dentro i pregiudizi e, spesso, le angosce di una classe sociale, di uno spirito aggressivo chiuso nella trappola di una mentalità che gli fa del male tanto più la trova naturale e giusta. 503 Quando poi qualcuno gli chiede conto di quello che ha scritto, intendendolo nel senso letterale, cioè non retorico e non pedagogico, Pasolini si sdegna e si ribella. Dice per esempio che Marx andrebbe sostituito a Cristo, ma per risvegliare un desiderio di azione concreto contro le ingiustizie economiche, per rivendicare poi, di fronte al contraccolpo delle obiezioni, il carattere astratto, simbolico, provocatorio della sua espressione. E contrattaccare dicendo che un lettore intelligente avrebbe dovuto capire la boutade. Dice che con l’atto omosessuale si risolverebbero i problemi del sovraffollamento e poi si difende dalle ironie di Umberto Eco, umiliato da lui per come la sua azione scandalosa è stata fraintesa proprio con un’assunzione letterale. Dice che la scuola media andrebbe abolita e poi rimane offeso dalle obiezioni che essa ha contribuito all’emancipazione delle classi popolari. In altre parole, Pasolini rispetta i suoi lettori a tal punto da esigere da loro la stessa febbre di purezza e la stessa libertà oltranzista di parola, puntando direttamente non ad un modo di ragionare e di parlare convenuto ma a un modo di essere e di agire, capace di scavalcare la provocazione, traendone l’energia per reagire e per rompere l’uovo della convenzione e del pensare pigro e collettivo. Il suo non è un uso magico della parola ma fortemente pratico e morale, affinché il conoscere e l’agire siano strettamente legati fino a conseguire, attraverso la retorica e la pedagogia scandalizzanti, drastiche, basate spesso sul contrasto e sull’ossimoro, un’ultraverità, cioè la capacità di non scandalizzarsi per potere comprendere e rinascere. Scrivere è esagerare La letteratura è esagerazione non solo nella prosa narrativa e nella poesia ma anche nel discorso critico. Questa non solo è una condizione perché il discorso resti impresso ma è l’unico modo per far sì che quanto si dice non venga sciolto da quegli avverbi e locuzioni – “qualche volta”, “spesso”, “in certi casi”, “dal mio punto 504 di vista” che sono un modo inconscio per disinnescare la potenza di quello che si sta dicendo. Se io scrivo che la chiesa “qualche volta” è a sostegno dei potenti, non ho detto nulla, perché “qualche altra volta” è a sostegno dei deboli. Se invece dico che “la chiesa è sempre a sostegno dei potenti”, che “la chiesa è sempre il contrario del cristianesimo”, ottengo una forza di scuotimento, che deriva da un’affermazione falsa, ma che solo così può mettere in moto una reazione vera. Affermare, come fa Pasolini, che professare la carità è qualcosa di mostruoso perché vuol dire rassegnarsi a un mondo in cui ci saranno sempre mendicanti scatena le proteste più accorate e ti spinge o a rifiutare e odiare colui che osa dirlo o a interrogarti e mettere in allarme la tua più placida convinzione. E spesso induce insieme a tutte e due le reazioni. Un modo così duro e coraggioso di usare la retorica costringe a un modo di essere sempre vigile e radicale, come è stato, prima e più di tutti, quello di Cristo, e presume uno spirito che si mette sempre in gioco nelle sue fibre, tanto più drammaticamente quanto più l’imitatio Christi è terribilmente seria, visto che non ci sarà mai un altro Cristo, e che l’immane impiego di inquietudine, onestà e profondità, il lavoro diuturno per spiegare, intervenire, guidare non potrà approdare che ad avere effetto su poche centinaia di persone e per breve tempo, senza poter approdare mai a un modo nuovo di vivere. Che ci saranno sempre guerre è banale, che la maggioranza delle persone sarà sempre eterosessuale è banale, che la carità farà comunque del bene, visto che mai ci sarà una società giusta ed equa è banale, ma vero. Quali sono però gli effetti di queste constatazioni vere secondo Pasolini? Lo sdraiarsi sulla società com’è, cercando di integrarsi nel modo più placido. È l’effetto di questo modo di pensare e di parlare che Pasolini respinge con tutte le sue forze. La sua retorica perciò attacca gli effetti, dicendo il falso in modo da produrre il vero come effetto. 505 L’accusa di egocentrismo, o addirittura di voler fare il testimone sacrificale, che gli è stata rivolta è arida e spietata. Ci vorrebbe più gratitudine per il suo lavoro impossibile di educatore, visto che lui ha sempre saputo benissimo che non avrebbe potuto produrre effetti durevoli. Ma ha dato una bella scossa alla pianta, e continua a darla anche oggi per chiunque lo legga. E questo fa finalmente cadere la frutta. Poi sei libero tu di mangiarla o no. Ma almeno non ti limiti a contemplare il frutto marcio che cade da solo. “Ma l’ansia raramente diventa vera e propria malattia. Essa perseguita tutta la vita le persone sensibili (che sono poi tante). È un sottile male, che dà una continua sofferenza, una tentazione continua di lasciare, di arrendersi: di anticipare la fatale clausola della morte” (Pier Paolo Pasolini, “Vie Nuove”, a. XVI, n. 48) 30 agosto Uomini misteriosi Di continuo vengono proposte dai giornali e dalle riviste immagini di uomini che guardano misteriosamente al di là del riquadro della foto, pensano, sognano, provano sensazioni indefinibili e gravide di avvenire, sono capaci di passioni inaccessibili ai comuni mortali e schiudono nel loro sguardo mondi a cui tutti vorrebbero accedere. Sono forse poeti? No, sono allenatori di calcio. Vi sono poi foto di uomini decisi, fieri, vigorosi, che guardano risolutamente in faccia e fanno guizzare i muscoli del volto, hanno occhi volitivi e la pelle abbronzata, spingono avanti i pettorali e camminano a gran passi. Sono timonieri di regate oceaniche, condottieri di eserciti, esploratori di terre incognite? No, sono industriali e finanzieri. Ecco comparire, sfogliando il giornale con la galleria dei grandi uomini, personaggi che meditano profondamente, stringono gli occhi per arrivare a intuizioni risolutive, parlano lenti e severi 506 pesando ogni parola. Sono forse filosofi? No, sono uomini di partito. Tutti recitano personaggi destinati ad avvincere le masse, essendo dentro completamente vuoti, per affidarsi tutti alla loro parte. Intanto coloro che veramente sentono, coloro che veramente pensano, coloro che veramente agiscono sembrano alle masse esseri vuoti e strani, le passioni dei quali non interessano nessuno, le malinconie dei quali sono ridicolizzate, i pensieri dei quali sono incomprensibili, le traversate oceaniche in solitaria dei quali sembrano fatti privati o hobby di clan e di setta. Poeti, pensatori, scienziati non esistono o esistono blandamente, il loro difetto principale restando quello di non essere milionari. Gli studenti in televisione Quando c’è un film o uno sceneggiato televisivo gli studenti non hanno regolarmente nessuna voglia di studiare, sono somari felici o sofferenti, pieni di vitalità, di sfrontatezza simpatica, di maleducazione allegra alle quali il regista ammicca, criticando debolmente, e in fondo consentendo. Unica alternativa immaginata e considerata infinitamente peggiore quella di un ragazzo che, per il fatto di studiare, si isola dal mondo, si deprime, diventa rigido, intrattabile e antipatico. Quando si mette in scena una classe durante la lezione in televisione, i contenuti sono del tutto irrilevanti, o abbozzati in modo patetico, quello che conta è sempre l’onda delle passioni che costantemente agiterebbe gli studenti, che non fanno che pensare a innamoramenti incrociati e intramati, o sprofondano nella noia fino a spalmarsi sui banchi o incessantemente si volgono a quello che faranno appena la lezione sarà finita. Gli insegnanti sono macchiette oppure investigatori, mamme ausiliarie, schianti di ragazza, magrolini occhialuti e timidi, finché non appare il tipo carismatico che le ragazze tentano di sedurre mentre i ragazzi ne fanno il loro eroe o nemico. 507 Il luogo dell’educazione, l’unico disperato tentativo di educare un popolo ineducabile viene ridicolizzato felicemente con il consenso di tutti. Quando un regista fa la satira della società fa sempre il doppio gioco perché dirà con gli intellettuali che la sua è una critica spietata e con gli anti intellettuali che l’ha fatta per farci fare quattro risate. Per come si fa la satira oggi infatti la bonomia, l’indulgenza, l’ammicco, la complicità sono esattamente pari, se non superiori, all’ironia, al disgusto, alla messa in ridicolo. Tutto ciò passa per una superiore umanità e per la classica bonomia e sapienza di vita italica I giovani dovrebbero ribellarsi al modo in cui sono rappresentati in televisione. Io che ho fatto scuola a migliaia di ragazzi, in regioni diverse d’Italia, non ne ho mai incontrato uno che assomigliasse vagamente a quei citrulli presuntuosi e vitalisti caotici che ci compaiono davanti sullo schermo. Imperdonabile Una colpa imperdonabile: negare l’amore a chi se lo merita. Il genio perfido del capitalismo è quello di rivolgersi ai bambini e ai ragazzi e di corromperli con un paese dei balocchi messo sotto gli occhi ogni cinque minuti e pagato dai genitori coglioni e passivi. Una colpa d’amore incrociata Un amico mi confida che dopo tre anni dalla morte della moglie si è innamorato di un’altra donna e si sente in colpa per la sua felicità. Ma non è questo, penso, il sentimento più forte che dovrà affrontare perché, innamorandosi di un’altra, si riaccenderà simultaneamente il suo amore per la moglie scomparsa, e tanto più rilancerà quest’amore nuovo, tanto più si infiammerà l’amore più antico e più forte, perché ormai impossibile, e contro il quale nessun amore con persona viva potrà competere, sicché al sentimento di colpa verso la 508 moglie scomparsa si aggiungerà il senso di colpa verso la donna viva e amata. E proprio questa colpa incrociata sarà la verità di quest’amore. 3 settembre L’inizio della libertà Il pensiero è il modo che hanno i filosofi di essere liberi. Nella Critica della ragion pura c’è già la Ragion pratica (l’io penso deve poter accompagnare ogni rappresentazione), e anche nella dialettica hegeliana c’è già la volontà motrice, visto che non solo il motore della logica formale qualcuno lo deve accendere e ci deve buttare anche dentro il carburante. Ma prima deve pure spezzare le catene dei sensi (l’allegoria platonica della caverna). E perché lo fa? Perché alcuni (tutti, in potenza, ma pochi di fatto) lo fanno? Boh. Anche Nietzsche dice che a un certo punto della storia nasce lo spirito libero e non si sa perché. Divento libero nell’inizio misterioso in cui comincio a pensare? O divento libero nel momento in cui nasco e misticamente apro gli occhi sul mondo? Ricevo un dono che non capisco, una libertà vertiginosa dentro cui sono, una vita prima di quella vita che per il filosofo è il pensiero? Voi chi pensate che io sia? Il discorso che Massimo Cacciari ha tenuto a Pesaro, muovendo dalla frase di Cristo “Voi chi pensate chi io sia?”, non è stata una lezione ma un’esperienza mistica, intendendo il mistico come lo sprofondarsi ora nella vita concreta della libertà. Un discorso ispirato dall’inizio alla fine, perché la libertà di cui ha filosoficamente parlato, l’ha direttamente messa in atto. E resta un fuoco che non si spegne, un’ora che non passa.. Un’esperienza da Settima lettera platonica che non avevo mai sperimentato semplicemente ascoltando. 509 Il dono, il perdono, il transito amoroso come libertà mistica che in qualunque “ora” e in qualunque condizione posso attivare. Posso sempre amare ma non posso sempre pensare. Allora perché penso tanto e amo così poco? Un pensiero che può non essere trionfo baccantico, ma carità. Senza smettere di essere pensiero? Un intelletto d’amore? O l’amore sale sul pensiero solo per prendere lo slancio? L’amore spesso evita il pensiero come la peste. Platone nella Settima lettera parla di questa conoscenza che irrompe all’improvviso e solo attraverso il discorso orale. Parla cioè di una ispirazione filosofica, diversa e simile a quella poetica. L’ispirazione filosofica è ormai quello che conta, del tutto diversa da quella poetica, ma dalla stessa fonte. 4 settembre La calma L’assetato si placa bevendo, l’affamato mangiando, l’assonnato dormendo ma colui che pensa non si placa pensando. Conquistare l’oggetto del pensiero placa la tensione quando si fa una scoperta scientifica. Conseguendo un risultato si può smettere di pensare. Ma come si placa un pensiero su ciò che non si può né scoprire né conquistare? Col non pensiero, che non va confuso con l’assenza di pensiero. Perché invece è il perdurare della domanda in una specie di dormiveglia, di non pensiero che è pensiero, nel quale ti apri al mondo in modo indicibile e soave, nel mareggiare di uno stato d’essere che continua a vibrare, come una lamina dopo che è stata rilasciata una pressione. La cosa più difficile da conseguire e più bella da godere, che fa convergere tante qualità morali in una sola e raccoglie tante 510 conquiste spirituali, un dono divino sempre trascurato e sottovalutato: la calma. 6 settembre Intuizioni Come faccio a capire se un autore vissuto millenni fa è ancora vivo? Penso se riesce a cambiarmi in qualche cosa. Il mio difetto è di aspettare che qualcuno prenda l’iniziativa per mettere in moto le mie qualità e, cosa molto più importante, la mia generosità. Se perseguo qualcosa per la mia vaneggiante glorificazione, fallisce. Se la intraprendo per il bene di un altro infallibilmente riesce. Segno di un destino o di una piccola vocazione? Uno deve mettere in moto l’amore esattamente dov’è, nel suo mestiere e nella vita concreta. Un bancario per esempio deve essere generoso nel concedere un mutuo. La cosa suona ridicola mentre è lì esattamente che dovrà mettere in moto l’inventiva del suo amore, rischiando non in modo istintivo, che lo porterebbe al fallimento e al licenziamento, ma sfoderando tutte le sue arti bancarie ed umane. Quando uno è ispirato, non gli importa di sé. Sta talmente bene che non ha bisogno di dedicarsi al proprio bene tecnicamente. Non dobbiamo partire dalla scimmia per arrivare a noi né partire da noi e andare a ritroso. Cacciari ha detto a Pesaro: “Da qualunque animale noi possiamo derivare, ciò che conta è che noi oggi siamo questi animali.” 15 settembre Una poetica. Tomasi di Lampedusa 511 Tomasi di Lampedusa scrive a proposito di Stendhal che non esprime le sensazioni ma le trasmette, e soprattutto quella del tempo, il suo principale rovello. Lampedusa stimava lo stile magro, allusivo, elusivo, implicito, “sincopativo”, con pochi aggettivi e scrive con uno stile grasso, esplicito, aggettivante, sensuale. Quello che amiamo non è precisamente quello che stimiamo, visto che stimiamo chi è così forte e bravo da distrarci del tutto da noi stessi, da smagrirci e renderci leggeri e asciutti come non siamo. In arte il meno è più difficile del più. Ma soltanto quando al più si rinuncia. Tomasi di Lampedusa ha scritto di preferire lo stile magro di Stendhal allo stile grasso, per esempio di Balzac. Ma ha scritto il suo romanzo con uno stile grasso. Si può apprezzare uno stile, in genere quello di cui non siamo capaci, ma si scrive con lo stile che si è. Lampedusa scrive di Stendhal (Opere, p. 1774): “Si poneva a tavolino e non aveva che da ricopiare, per così dire, dalla propria memoria ridiventata sensazione il suo libro. Era affare di pochi giorni. Ed il testo appariva sciolto, irruente, improvvisato, mentre era il frutto di una lunga e minuziosa elaborazione compiuta però non sula carta, sulla quale non si possono fare elaborazioni che di parole, ma nel calore della sensazione, con l’infallibile istinto che tende a render netti i pensieri prima che li formuliamo. (Essi si intorbidano dopo, alla scrittura.)” Scrivere prima di scrivere, pensare prima di pensare. 16 settembre Pensieri da viaggio (Tbilisi, Georgia) La barba 512 Nel rito greco-ortodosso l’importanza della barba e del pelo è ancora molto forte. Come mai invece nella chiesa cattolica essa non ha attecchito che raramente e soprattutto fino al Cinquecento (vedi il ritratto di Raffaello di Giulio II)? In genere la barba è adottata dal clero ogni volta che c’è una fiammata spirituale e che comunque si sente la supremazia dello spirito sul corpo, e la si vuole marcare col pelo sul volto per significare la gravezza, la profondità meditante, la foltezza del dolore purificatorio, anche nel trentenne che tenta di sembrare un cinquantenne, di acquisire quella autorevolezza che è concessa in genere soltanto agli uomini maturi. Ed è singolare che proprio l’attributo più animale della barba, la memoria del pelame bestiale, quello che spinge Schopenhauer a una invettiva inesorabile, venga scelto dal clero greco-ortodosso o dagli ebrei più rigidi nel culto come segnacolo dello spirito. La barba era adottata anche dai rivoluzionari, per distinguersi dagli altri, ma soprattutto per trapiantare nella sfera laica e politica la stessa autorevolezza sacrale associata in passato agli uomini di culto. Anche in questo caso il pelo, oltre che essere segno di virilità e quindi di forza, è un modo per marcare il corpo con la potenza dell’ideologia, in questo caso, che anima come fede politica il rivoluzionario. Meraviglia georgiana Assistendo ai cambiamenti profondi e superficiali che avvengono in Georgia, questa terra europea meravigliosamente fervida, libera, originale, cristiana e mediterranea, a dispetto della geografia, folleggiante in modo benigno e temprata da mali affrontati con stoico humour, ho osservato che le donne stanno cambiando più rapidamente degli uomini. E non tanto nell’assomigliare alle parigine o alle romane, quanto nell’essere moderne a modo loro. Mentre gli uomini resistono a ospitare uno spirito fiero e geniale in corpi buoni, goffi, agricoli. 513 A Tbilisi tu non esci per comprare, perché non c’è nulla da comprare, nel senso che non c’è l’assedio delle vetrine ammiccanti e seduttive. Ci sono negozi dove comprare quello che serve. Questo ti libera a tal punto che uscire dall’albergo e andare a piedi al centro diventa una pura avventura dello spirito. In tutta la città, di quasi due milioni di abitanti, c’è una sola libreria inglese. Per il resto la televisione, il cinema, il teatro, le conferenze, tranne che nell’università, sono tutti in georgiano, una lingua che è l’unica del suo ceppo e scritta in caratteri anch’essi unici, diversi sia dal greco sia dall’armeno sia dal cirillico. Dovresti averne un senso di clausura e invece no, perché del tutto aperta è la comune fraterna umanità, l’internazionale vita che si riconosce e si comprende da mille altri segni. In Georgia hanno vissuto per dieci anni al buio completo, dal 1992 al 2003. Si scaldavano con bracieri e stufe a legna, lavoravano al freddo e la notte si rintanavano nelle case, perché le strade erano fasciate solo dalle scie delle poche automobili. Niente televisori, radio, Internet. Candele e cherosene. Poi finalmente quattro ore di elettricità. I bambini nelle campagne hanno scoperto a dieci anni l’esistenza della luce elettrica. Nessuna industria e un commercio moderato. In quegli anni i georgiani hanno lavorato in ogni modo, con un’inventiva italica, mentre l’occidente, visto dal cielo, era un immenso parco di luce acceso anche di notte, sprecava energia, luce, intelligenza, morale, verità. Dissipava idee, parole, emozioni, sentimenti. Incontrandomi con alcuni di loro, persone di gran valore e con personalità tutte originali, ho visto che non sono rimasti indietro nemmeno di un passo in ogni strada, non solo culturale, che conta. Come è possibile? Non voglio neanche dire che siano più forti e temprati di noi, perché il capitalismo, il consumismo, la frenesia smaniosa della nostra vita, la freddezza, la violenza acerba, il cinismo, l’eccitazione, l’euforia il passaggio continuo di stimoli, smacchi e successi alterni, 514 impongono una prova di resistenza almeno pari delle privazioni, dei vuoti, del rallentamento, del digiuno, della riduzione all’essenziale. Tra il troppo e il troppo poco, fermo restando che a loro toccherebbe adesso conoscere un po’ di benessere e a noi un po’ di penuria, la nostra povera natura è sballottata senza trovare pace e senza darla. I mendicanti e gli sfollati sono una legione a Tbilisi. Ci sono donne magrissime che porgono la mano bianca dalla veste nera con la finezza di una aristocratica. Uomini bruni che porgono la mano selvaticamente. Due mani si toccano, una dà un soldo l’altra una benedizione. Restaurano in via Rustaveli le facciate dei palazzi storici e dentro restano le stanze con gli stessi odori di cento anni fa. Il passato resta parente del presente. Lamentiamo che in occidente i ricchi diventano ricchissimi e i poveri poverissimi. Lo stesso fenomeno si registra in Georgia, dove è ricchissimo il dieci per cento della popolazione. Da loro, perché non si è ancora formata una borghesia capitalistica, da noi perché sta riducendosi sempre più. A Tbilisi, sotto la pioggia, gli uomini non aprono mai l’ombrello perché non è virile. Mi riconoscono subito come occidentale perché preferisco non bagnarmi la testa. Non si ride molto a Tbilisi. Solo le ragazze ridono. Certe bellissime, originali, eleganti, fiere, animali razionali superiori. Dopo tante privazioni, adesso guidare l’auto a Tbilisi è una festa e un gioco. Un fiume di alluminio, plastica, ferro, benzina su strade dissestate con buche micidiali, che stanno ricoprendo ogni giorno. Suonano allegramente le trombe nella fiumana, senti le radioriceventi della polizia a distanza di centinaia di metri. Scrosci violenti e brevi di pioggia, sassate d’acqua che fanno pozze in mezzo ai platani nella notte finalmente illuminata. Tutto è sonoro e potente, come nei film che vedevamo da ragazzi. 515 Per capire i cambiamenti bisogna amare, scrive Pasolini. 21-26 settembre Scambi di libri Quando qualcuno mi manda un suo libro che non mi piace e mi chiede un giudizio io mando sempre un mio libro per risposta perché l’avversione è sempre reciproca, come la propensione, così sono esonerato dal mentire, perché chi riceve il mio, non gradendolo, smetterà di pretendere che io gradisca il suo. Questa la strategia di un mio amico. Capita invece che qualcuno ti mandi un libro che ti piace e che il tuo invece non piaccia a lui o che apprezzi il tuo libro uno che scrive in modo per te incomprensibile. Segno che l’ammirazione è insincera, torbida, passionale, leggera? Se uno ammira un libro in modo incondizionato ha la ferma intenzione di non leggerlo più. Tu dici di un libro: “È bellissimo.” Ti condanno a rileggerlo. Se soffrirai le pene dell’inferno ma arriverai alla fine, non sarà stato un fenomeno ottico. Se ti piacerà per la seconda volta si convertirà in un premio per te e in un segnale per me che non tutto è perduto. Confutazioni sofistiche Un buon lettore è uno che immagina un libro diverso grazie a quello che è stato scritto. Cattivo sarà colui che legge esattamente quello che c’è scritto. Un buon critico è colui che immagina esattamente il libro che è stato scritto. 516 Un critico ancora più buono sarà uno che non solo immagina lo stesso libro esatto, ma lo giudica rispetto a un’idea di letteratura, incarnata da quello scrittore o da un altro, migliore o peggiore, che si è misurato in una prova simile. E non già colui che cerca lo scrittore che incarni la propria idea di letteratura, giacché la sua idea non esiste in effetto, non avendo egli scritto mai un libro come lo vorrebbe. Il critico peggiore di tutti è quello che accorre a giudicare un libro in base a una idea di letteratura che nessun altro scrittore al mondo ha mai realizzato. Un buon editore è uno che immagina come la maggioranza dei buoni lettori accoglierà il libro. Tale maggioranza sarà però pur sempre un’infima minoranza. Il buon editore è destinato quasi sempre al fallimento. Un cattivo editore è uno che immagina la maggioranza dei lettori simili al suo alter ego medio. Ed è destinato al successo, a meno che non esageri in disistima del pubblico. Un buon editore deve essere uno scrittore mancato, non perché si è misurato e non è riuscito, ma perché ha rinunciato a misurarsi. E deve essere anche un critico mancato, alla stessa maniera. Così i libri che farà saranno i suoi, amati, adottati per scelta, non per ripiego. Egli deve riuscire a non godere il libro in proprio, risolvendosi, e sciogliendosi quasi, in un ente impersonale che non esiste e tuttavia compra libri. Chiaro che non possa essere un uomo felice. Un editore ancora più buono sarà un critico e un lettore riuscito. Per questo in un secolo si contano sulle dita di una mano. Ma siccome non puoi essere un critico e un lettore riuscito se non sei anche uno scrittore riuscito (che tu scriva o no), stamperà soltanto i libri che piacciono a lui. E sarà un bene per alcuni, un male per altri. Esistono scrittori riusciti che non hanno mai preso la penna in mano. 517 Ci sono editori che prendono una cotta per un libro e lo pubblicano per questo. Non si può parlare però di amore, per questo l’esecuzione del progetto deve essere rapidissima, prima che l’infatuazione sfiammi. Freddi e caldi Quando qualcuno è freddo con noi siamo portati ad andargli incontro calorosamente facendogli favori e gentilezze che puntano a scaldarlo e a cominciare un colloquio alla pari. Quando qualcuno è generoso e liberale con noi siamo portati a diventare più accorti e avari. Così i freddi che non se lo meritano ottengono sempre di più dei disponibili e benevoli che se lo meritano, ma farebbero salire troppo, se ricambiati, la temperatura dell’incontro. Questo dipende dal fatto che tra due persone si deve instaurare una temperatura costante e media, sicché se qualcuno è bollente l’altro diventa gelido, benché lo nasconda con arti e cortesie. La ricerca di una misura comune nasce dalla paura degli eccessi e dell’esposizione di sé. Il freddo però deve avere un certo carisma, perché altrimenti verrà isolato ed escluso. Il caldo invece, anche se ha qualità e fascino in grado sommo, rischia di essere sottovalutato per il suo stesso calore e propensione per gli altri. È buona regola perciò prima dimostrare se e quanto si vale con accortezza, e quasi severità, e soltanto dopo aprirsi e manifestare la propria spontanea amicizia, che sarà molto più apprezzata. La spontaneità può essere data a tutti tranne a coloro che la leggono come un segno di debolezza e di incapacità di affermarsi e di lottare, cioè di ritirata e resa di fronte al conflitto sociale, i quali sono la maggioranza. Soltanto che governando e tenendo a freno i moti dell’animo in vista di un domani sempre a venire nel quale potranno liberarsi, si disseccano le fonti stesse della sincerità, della benevolenza e della spontaneità, finché ne resterà leggendaria e soltanto sognata l’espressione e la condivisione. 518 29 settembre La didattica della giustizia (Gherardo Colombo) Gherardo Colombo, uno dei magistrati che più hanno tentato di dare una scrollata all’inerzia corrotta e alla indulgenza bonaria e crudele dei disonesti, è tornato a parlare dopo più di dieci anni agli studenti di Pesaro. E ha incentrato il discorso sul fatto che tutti noi siamo illegali e maldisposti verso l’uguaglianza giuridica degli uomini e il rispetto della democrazia, nei rapporti pulviscolari di ogni giorno, in quel piccolo mondo meschino e segreto nel quale non pretendiamo ricevute fiscali al fine di pagare di meno e non mettiamo in regola la domestica per risparmiare quattro soldi. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. La sua è un’attitudine religiosa trasposta sul piano della giustizia civile. Voleva dimostrare ai giovani che si deve partire sempre da se stessi e che i vertici della politica e dell’economia sono corrotti perché tutta la piramide è corrotta. Ha espresso insieme la fiducia più convinta nell’eguaglianza e nella democrazia, come diceva Hegel, in sé e per sé, e ha salutato i progressi che da cinquant’anni a oggi si sono compiuti, anche grazie alla Costituzione. Ma l’effetto che ha prodotto, almeno in me, è stato di una impotenza desolante e di un senso di vanificazione naturale, mentre il suo infiammato amore per la giustizia, quando sempre più cercava di vivificarlo con esempi ora buffi ora severi, planava fervidamente sopra le nostre teste, risultando sempre più simile a quella utopia romantica che lui stesso ripeteva che non dovrebbe mai essere. Il fatto è che proprio cambiare le abitudini quotidiane di microingiustizia è impossibile se non attraverso secoli, e comunque in modo aleatorio e solo astrattamente accessibile, perché è più facile dissuadere un killer a uccidere che convincere qualcuno a pagare i contributi alla domestica. 519 L’idea che l’illegalità è una sola e che non esistano gradi, se non giuridici, di ingiustizia e di violenza, è assai perniciosa, perché quello che si fa fare in nero il lavoro dall’idraulico mai farebbe una rapina in banca e chi evade qualche centinaio di euro mai nasconderebbe allo stato un milione. Chi non ha il coraggio di chiedere la ricevuta al medico da cui dipende la sua salute non è un potenziale mafioso perché ormai ha rotto il patto con la legge. C’è un dosaggio personale nella propensione all’illegalità che va attentamente valutato, come la legge fa, anche su un piano morale, pena la caduta nell’idealismo verbale più velleitario. Non si può applicare all’illegalità lo stesso criterio che i cattolici adottano per la definizione dei peccati, che rimontano addirittura all’intenzione, se non al desiderio. Altrimenti finiremo come siamo già finiti, e cioè infierendo con sciabolate punitive contro i più deboli e indulgendo, come sempre, con i più ricchi e potenti. Vedi il caso di una donna che ha mangiato tre babà e per snebbiarsi ha fatto un giro in bicicletta, alla quale hanno ritirato la patente. O l’astemio che ha bevuto in una cena l’unico bicchiere di vino rosso dell’anno e ogni mese deve presentarsi all’ospedale per fare l’esame del sangue. Mentre chi uccide i passanti ubriaco o drogato, essendo il crimine tanto più invulnerabile quanto più è grosso e micidiale, nella perenne schizofrenia repressiva italiana, la fa franca. Il problema della giustizia viene affrontato come quello della medicina, cioè con la prevenzione. Si presume giustamente che con una buona dieta e salutari camminate si scongiurino gli infarti. Che mettendo in guardia dall’uso di spinelli a maggior ragione si scoraggi l’uso di cocaina. La giustizia invece deve essere sempre anche repressiva, perché non puoi costringere uno a curarsi ma puoi costringere uno a non rubare, rendendo la pena sicura e dolorosa e premiando invece chi fa il bene. Punire chi fa il male infatti deve sempre essere accompagnato dal premiare chi fa il bene, in modo che ciascuno tragga vantaggio dall’onestà e danno dalla disonestà. 520 La soluzione di Colombo invece, che fa appello a una presa di coscienza unanime e, come si dice, culturale, renderà gli onesti più onesti, e cioè più indifesi e disarmati, e i disonesti più forti e indisturbati, visto che gli onesti punteranno, nei casi migliori, sul proprio personale, e certo sempre più infelice, perfezionamento. Mentre i disonesti trarranno vigore dall’essere loro, nell’universale propensione all’illegalità, i più arditi e pronti a metterla in atto efficacemente per sé. 1 ottobre Del delitto (Manlio Sgalambro) Leggendo Del delitto provo, come nelle altre opere di Sgalambro, un senso di liberazione, rivivo l’allegria di un uomo che pensa secondo natura, e quindi secondo la sua natura. Una festa rischiosa. Mi compromette? Scopre qualcosa di me a me stesso? Mi costringerà ad essere diverso? A essere contro la mia natura? Ma questo è impossibile. Sgalambro scrive: “Non si possono amare certe opere senza temerle (...). L’Etica racchiude tutta l’energia dello spirito, ma la sua esplosione non viene temuta. Anche le Idee richiedono timore. Anche i concetti. Potete amare Dio quanto volete, ma guai a voi se non lo temete” (Del delitto, p. 140). Spinoza è buono, sa di non essere Dio in persona, perché Dio non è persona. La bontà è impersonale? Leggo Del delitto in costante timore, un timore che suscita l’allegria del coraggio. Ma amo quest’opera? Provo un senso di salute, gratitudine forse, e mi dico: “Guarda quest’uomo come attinge, giustamente e molto duramente, la gioia di pensare.” Ma amo questa opera? Ami chi ama. 521 E aggiungo: Mi fa del bene come un farmaco, anche se non è il suo scopo, ché se non sei già sano non ti cura. Ridurre un pensiero al personale, riconoscere che un pensiero è sagomato sulla natura di un uomo, è già volerlo uccidere come pensiero universale? Secondo me, no. I pensieri di Sgalambro non riesco a considerarli sempre veri o falsi benché riesca quasi tutti a ripensarli, seguendone la curva e l’esito, con immedesimazione. Immedesimarsi, e cioè ripensare, è già un rivivere dalla nascita un pensiero, e certo assomiglia molto a pensare in proprio, visto che ogni nostro pensiero non nasce mai in noi ma sempre per un impulso esterno. Non è però proprio la stessa cosa. Perché lui se ne assume la responsabilità. E io no, finché ripenso. Quando leggi un libro o ti deve compromettere o ne devi diventare corresponsabile. La gioia di pensare leggendo non è la stessa gioia del pensare scrivendo ma le è parente stretta. Il pensiero nasce in una mente che sola può conoscerne la gioia nativa. Ma nel pensare è essa quella che conta, o è invece strettamente privata e secondaria, mentre è la forza di rinascere ogni volta di un pensiero che dà la gioia più forte anche all’autore. Che gli fa dire: questo pensiero è vivo. Del delitto è una storia d’amore. Ma non tra l’autore e il lettore bensì tra l’autore e Isabelle, un personaggio femminile. Lei infatti è importante ma laterale nello scambio del pensiero. Per forza, lei crede in Dio, e questo è giudicato dall’autore non già illecito bensì non idoneo a mettersi alla pari nel pensiero, qualunque sia la gerarchia dei valori. Altrimenti sarebbe stata una donna in carne ed ossa. 522 Un buon libro dà un senso di sollievo perché ti esonera dallo scriverlo. Visto che non sapresti farlo. Nessuno del resto sa scrivere il buon libro di un altro. Compito dei buoni libri è appunto questo, darci la scossa a generare in proprio. Molto difficile e molto sterile che due persone siano d’accordo sui pensieri naturali e vivi di un autore. Così i pensieri che genero io leggendo Del delitto non sono né semplici prosecuzioni né tanto meno interpretazioni di quelli che leggo, né repliche o antilogie, perché che senso avrebbe controbattere quando si tratta di pensieri vivi e naturali? Il pensiero che genero è questo: L’assassino è uno che ha abolito la morale come pratica dell’attesa, secondo regole di comportamento sociale, la quale dovrà garantire alla fine del processo non solo un premio o un castigo ma una conoscenza delle cose. L’assassino Uccidere una persona è il male radicale. A che pro pensare il significato del suo atto? È una conoscenza che potrebbe servire a qualcuno per scaricare l’arma? La cosa è altamente dubitabile. Serve allora per spegnere ogni nascosto impulso presente in noi? L’assassino vuole slegare la verità dalla morale, in quanto uccidendo fa la verità di un uomo, perché chiude la sua vita. Ma la vuole anche liberare dalla conoscenza, perché il senso della vita della vittima è troncato dalla sua mano e non può più progredire. Egli vuole che la verità accada. Non gli basta, deve accadere subito. Nel momento in cui uccide infatti taglia per sempre la vita di un altro e taglia per sempre la propria in quanto uomo dell’attesa morale e della conoscenza. Taglia la moralità del tempo e vuole che il giudizio universale, per la vittima e per lui, sia ora. Mentre uccide già avviene tutto, quello che per noi non avviene e non avverrà mai in questa vita, sempre rilanciante e rincorrente, investente e capitalizzante, oppure bruciante e vanificante, fino alla morte detta naturale. 523 Sta uccidendo e già non c’è più tempo: l’assassinato ormai può soltanto contare su un’altra vita, può essere affidato fin da subito soltanto nelle braccia di Dio, perché non gli resta nient’altro. Non importa se crede o non crede. E l’assassino non può aspettarsi più niente da niente e da nessuno, perché ha anticipato la morte naturale di un altro, l’ha tagliata col suo gesto, si è strappato da qualunque affidamento al tempo, alla società, alla morale, a Dio. Qualunque cosa faccia, comunque si camuffi, per tutto il denaro e il potere che potrà continuare ad avere, per tutta l’impunità che potrà coltivare, egli ha messo Dio nella condizione di agire su di lui e sull’ucciso fin da subito, contro qualunque religione, morale e filosofia. La sua morte naturale diventerà ben più piccola cosa. O sarebbe così se fosse un filosofo? Gli assassini ci tengono molto a non morire e quasi mai si uccidono da vecchi. Ma è il suo gesto che ha un significato inesorabile, se anche fosse analfabeta o troppo rozzo per pensare. Non è che Socrate vuole morire, salutando come benefattore chi lo uccide, perché stanco della vita, come scrive maliziosamente Sgalambro, ma per sperimentare, visto che non deve fuggire, l’avventura della morte, nella speranza di una vita più alta e psichica. E per questo dice che “il pericolo è bello”. Questo fulminante potere dell’adesso, che l’assassino prende in mano sparando, è una specie di nucleo di verità straordinariamente compresso ed esplosivo dopo il quale milioni di volumi saranno vanificati. Una riduzione all’essenziale istantaneo nella quale lui realizza (e annienta) anche il filosofo idealista che fa la verità nel pensiero e nello stesso tempo la distrugge, sempre nel pensiero. Il suo gesto omicida è dialettico? È pensiero o è anti pensiero? Hegel, che riconosce l’omicidio di massa della guerra come vento dialettico, senza il quale il mare della storia sarebbe putrido e stagnante, riconosce anche questo gesto come dialettico? Quando Gaetano Bresci uccide Umberto I è in gioco la dialettica? E quando 524 il mafioso uccide Borsellino? E quando l’uomo geloso uccide la moglie e i figli? Hegel non ha mai detto che tutto ciò che accade sia razionale, anzi questo è il fraintendimento massimo del suo pensiero. Ha ammesso però che l’omicidio collettivo debba entrare nella dialettica razionale della storia. Non ha detto che così debba essere bensì che così effettualmente è stato. E tuttavia ciò che è stato, quando si tratta di omicidio, è sempre presente, per definizione, e reclama la nostra responsabilità attuale. Altrimenti si cade nel panteismo storico, sempre molto pericoloso. “C’è chi dice che la contraddizione non si può pensare: ma essa, nel dolore del vivente, è piuttosto un’esistenza reale” (Hegel, Scienza della logica, I, II, p. 872). L’assassino che soffre di rimorso è però un po’ troppo filosofico per essere vero. Molti uomini ne fanno di tutti i colori e non soffrono per niente. O tutto questo discorso avrebbe senso, oltre il pensiero dialettico e le sue sconcertanti ambiguità, soltanto per i casi come quello di Michael Kleist che uccide e si uccide, facendo accadere la verità e al contempo consegnandosi alla morte, difendendo il proprio onore nella milizia della vita. Kleist libera la donna dall’abnegazione di uccidersi e prende su di sé tutta la responsabilità, non dell’intenzione ma del gesto, uccidendola come lei desiderava morire. Il gesto è un’intenzione potenziata, verificata? O esistono intenzioni criminali peggiori del gesto? Se uno uccide un altro la sua verità accade uccidendo la verità di un altro, di uno che avrebbe ucciso lui, l’avesse potuto, sia pure, come in guerra. A quel punto soltanto un dio lo può salvare. In molti casi, cioè, nessuno. Ma anche prima che uccidesse era così. In conclusione ciò che sembra una mostruosità in altro contesto diventa nella guerra espressione dell’istinto che sceglie la ragione irrazionale, nuda, la ragione istantanea: la mia vita per la tua, adesso. 525 Si tratta pur sempre dell’uomo bestiale o angelicale in azione, cioè di colui che vive tutta la drammatica estensione di un animale instabile, indeterminato, e che è uomo appunto per questo? Si tratta dell’uomo che si distende fino a Dio ma può precipitare nel bestiale uccidendo? Possiamo dire che una storia di assassinii ha definito che cos’è l’uomo quanto una storia di azioni nobili e generose? E che la dialettica umana parte sempre da questo dato di fatto accertato? Nihil humani a me alienum puto? No, anche la dialettica deve avere un raggio d’azione fisso, come l’udito, come lo spettro visivo, non può coprire tutto: uccidere deve sempre essere e restare qualcosa di anomalo, di impensabile, di inconcepibile, anche se fatto milioni e milioni di volte. Quello di dialettica è un concetto serio soltanto in senso pragmatico. Moralmente è nullo. Un uomo non può fare la verità senza distruggerla, ed è bene che lo sappia, limitandosi a pensare. La dialettica è questione di pensiero, benché in Hegel voglia diventare questione di vita. Se l’uomo fa la verità la annienta e si annienta. C’è un unico caso in cui l’amore fa la verità e la vita senza distruggere: nell’amore stesso. Non può trattarsi comunque mai di amore solo nostro, in questo caso, in modo più o meno latente, potenzialmente distruttivo. Ma sempre di una corresponsione. Questa illusione di fare la verità è prosperosa nel pensiero filosofico, che quindi in questi casi è di sua natura delittuoso e, messo in pratica, ha cacciato nei guai milioni di persone. L’innocenza Se uno trama l’omicidio di un altro al punto che con assoluta sicurezza potrà uccidere senza che nessuno lo scopra mai, soltanto allora, non compiendo l’atto, potrà scoprire se è veramente innocente. Per un quadro ancora più puro, bisogna immaginare una 526 vittima che non lasci morendo alcuna scia di dolore in nessuno, sia anzi odiata o indifferente. Il delitto perfetto pensato e non compiuto è la prova del fuoco. Ma è perfetto solo se lo compi. Il comandamento allora è: astieniti dalla tua natura razionalmente delittuosa, se non sei innocente. E affidati alla tua innocenza, al di qua della vita, se hai la fortuna di essere innocente. Filosofa fino in fondo ma sempre in piccole dosi. Segui la tua natura. Se la morale è infatti sempre controllo sociale sulle nostre azioni, a quest’uomo non resterà che la sua coscienza sensibile al male, perché nessuno ne saprà mai niente. Ci fidiamo però a mettere tutto in mano alla coscienza pulita? Il desiderio di una coscienza pulita non sempre è segno morale. Potrebbe essere la stessa nevrosi di pulizia che si scatena tenendo in ordine maniacale la casa o lavandosi le mani di continuo. Non uccidere a quel punto, nella certezza di essere punito, anche al di là della coscienza morale, sarebbe segno sicuro di innocenza. Di innocenza naturale, cioè. L’innocenza infatti, quando è, è innata, perché non solo le è impossibile costruire le prove della sua esistenza (anche fermandosi un momento prima di uccidere nulla sarebbe dimostrato) ma è impossibile anche per lei costruirsi con l’esperienza. Essa viene prima del bene e del male. Come l’idea di bene per Platone è al di là dell’essere, essa è al di qua. L’omicidio non è mai dialettico Sappiamo che la bontà soffre sempre di un alto indice di debolezza, di insicurezza, di paura, di scetticismo sugli uomini, di esperienza amara dell’ambiguità e cattiveria umana. E tuttavia anche questi materiali, coltivati dall’esperienza, sono indispensabili per essere 527 buoni. Già da quando uno ha pochi giorni di vita. La bontà è però un’innocenza empirica, degradata. Chi pretende di comprendere nel pensiero tutta la realtà è il migliore candidato a distruggerla. Onorevole compromesso è la dialettica, che pretende di distruggere conservando, nel corso della natura, della storia e del pensiero? E tuttavia essa naturalizza troppo la storia e il pensiero, giustificando la distruzione a posteriori con geniale viltà. Non c’è più differenza allora tra Napoleone e una pestilenza, se non perché Napoleone è superiore alla natura, è lo spirito del mondo a cavallo. E la peste va a piedi. L’assassino come “mostro razionale” riduce l’orgasmo dialettico, “il trionfo baccantico in cui non c’è membro che non sia ebbro”, come scrive Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia, ad orgasmo fisico e immediato. Ma mentre l’orgasmo dialettico è al contempo la pace laboriosa del concetto, l’assassinio è rogo di tutti i libri della storia umana. E non è pace. Filosofare implica la pace di chi non fa né riceve il male. Chi filosofa può capire soltanto allora un male pensato o immaginato. Se ne contenti, visto che non è capace di agire. Non ci sarebbe lo smacco se l’assassinio fosse un gesto rivelativo. Se, in altre parole, Dio reagisse subito. Ma allora l’assassino non oserebbe. Il male come orgasmo Il male, come ogni orgasmo, non rivela nulla. Per questo è male. La sua pretesa conoscitiva è pari a quella dell’orgasmo fisico. Per questo le donne amando fanno continue battute umoristiche. Per far capire agli uomini di non prenderlo troppo sul serio. L’assassino può avere il senso dell’umorismo? Pare di sì. 528 L’orgasmo erotico è godimento istantaneo che dà la vita o la calma. L’orgasmo omicida non solo non rivela nulla, come neanche, se non nell’illusione, quello erotico, ma non lascia neanche il mondo com’era, bensì lo priva di un essere che matura da morto la sua potenza omicida su chi l’ha ucciso, essendo impossibile che la vita del killer resti la stessa. Un killer trova sempre più facile uccidere, ma non dimenticherà mai il primo ucciso, che tiene sempre sulle spalle tutti gli altri, anonimi ed anemotivi. Non ci pensa mai magari, ma lo sta uccidendo lo stesso? Ogni omicidio è reciproco? Non è questione di rimorso, di cui Dostoevskij trovò singolarmente privi i suoi compagni di galera siberiana. Si racconta di assassini seriali e di parricidi completamente indifferenti. Completamente morti, allora? Eppure c’era tra loro gente allegra, spiritosa, innocente. Ci sono cose che il pensiero non può capire. Non solo l’amore ma neanche il delitto. Manlio Sgalambro è una mente superiore (superiore restando alla pari delle cose) senza diventare diabolico. Per quanto sulfuree possano risultare certe sue uscite, non c’è una cattiveria manierata. Assomiglia molto di più a un libero scienziato che sperimenta ipotesi a tutto campo, nel quale la gioia di pensare non è superba. Non è neanche umile, però, bensì votata. Difficile non essere né buoni né cattivi come lui. Pur disperando della propria innocenza. Essere soltanto onesti, e in ciò che è la tua natura: pensare dal vivo. Per quanto geniale chi scrive e pubblica si mette sempre ai piedi di chi lo legge. E chi legge, preso dal suo genio, non se ne accorge. Sarebbe ridicolo per questo mettersi ai piedi di chi scrive. Tanto più se ci è superiore. 529 6 ottobre Tao Tê Ching Tanto maggiore il valore di un libro, tanto più forte la gioia di finirlo. Perché? Esistono però libri molto brevi, che ti dispiace di finire e vorresti continuassero ancora, tanto che li rileggi da capo, anche se non è mai la stessa cosa, come i Pensieri di Leopardi o il Tao Tê Ching (Il Libro della Via e della Virtù), attribuito a Lao-tzu, vissuto dopo il 300 a.C. Il Tao, scritto (o dipinto) su tavolette di legno o listelli sottili di bambù, che contenevano una sola striscia, è l’esempio di un’opera in cui tutto è evidente, benché non sia logico e neanche illogico. Non sarebbe l’unico caso in cui abbiamo a che fare con qualcosa che non è né logico né illogico, se pensiamo alla poesia e alla religione, delle quali il Tao intensamente partecipa. Ci troviamo tuttavia in questo caso di fronte a un’evidenza che ti fa consentire ancora prima di una scelta religiosa o di una trance poetica, mentre, attivando la ragione critica, ti trovi a parafrasare qualcosa di irriducibile, pur restando con la sensazione che la fonte sia palesemente vera. Se lo apriamo al suo inizio vi troviamo infatti le seguenti affermazioni: “La Via veramente Via non è una via costante. I Termini veramente termini non sono termini costanti. Il termine Non-essere indica l’inizio del cielo e della terra; il termine Essere indica la Madre delle diecimila cose. Così, è grazie al costante alternarsi del Non-essere e dell’essere che si vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini. Questi due, sebbene abbiano un’origine comune, sono designati con termini diversi. Ciò che essi hanno in comune, io lo chiamo il Mistero, il Mistero Supremo, la porta di tutti i prodigi” (tradotto da Anna Devoto, che traduce J.J.L. Duyvendak). 530 In Parmenide l’essere ha il suo contrario logico e ontologico nel non-essere, ma in tal modo questo guadagna una consistenza che non merita mentre quello perde la sua ricchezza extralogica. L’essere infatti, essendo non soltanto un ente logico ma anche e prima di tutto un ente ontologico assoluto, non può mai avere un contrario dello stesso genere, se non nel discorso umano, il quale lo riduce ad assoluto logico. Ecco perché nel Tao si dice che il termine (cioè la parola che chiude, che fissa un limite) ‘Non-essere’ indica non il contrario dell’Essere, bensì l’inizio del cielo e della terra mentre il termine Essere indica non un assoluto logico bensì la Madre effettuale delle diecimila cose. E potremmo dire dei dieci miliardi o fantastiliardi di cose, e non cambierebbe niente. L’essere ha “i termini mobili” perché non è definibile solo logicamente, come non lo è neanche il non-essere, il quale non può essere negazione e definizione logica dell’essere. Il non-essere infatti non è perdurante e statico, seduto in una sostanza logica, bensì è il perenne inizio reale dell’essere, e perciò è sempre anche essere. Soltanto come termini e concetti essi si possono distinguere e contrapporre, per poi negare che il non essere assoluto esista (come fa Parmenide), non nella realtà. Allo stesso modo il termine “essere” (Leopardi stesso distingue il “termine” dalla “parola”), un verbo sostantivato che chiude e confina, e cioè fa finire l’essere, non può costituire nella realtà un termine costante, giacché finisce appunto nel non-essere, che è una fine ma al contempo è anch’esso un inizio. E non giù nel suo superficiale versante logico e verbale, che li scandisce in un tempo artificiale, concettuale, ma appunto nel suo prodigioso essere preverbale e prelogico, nella semplice realtà in persona e senza nome: “La Via ha la semplicità del senza-nome” (XXXII). Essi infatti, essere e non essere, hanno un’origine comune, sempre presente in entrambi. L’origine in altre parole è sempre ora, è 531 sempre finale e iniziale. Essa è il mistero che hanno sempre in comune. Il Tao sfugge al carattere definitorio delle parole senza scavalcarlo, ma avvalendosene per farlo vibrare, tendendo verso ciò che esiste prima e oltre le parole, cioè il pensiero dentro la realtà. Questa mia parafrasi estemporanea, che prescinde in modo dilettantesco da una giurisprudenza interpretativa durata millenni, né dispone delle competenze sinologiche di Duyvendag (che ha stabilito il testo al quale mi affido in traduzione) non potrebbe essere per me modificata da anni di studi, in virtù di quella evidenza che il testo tradotto conserva, pur parafrasandolo io, e cioè ritraducendolo in un mio cibo mentale e spirituale soggettivo, sempre secondario rispetto all’originale. Infatti “La Via è qualcosa di assolutamente vago e inafferrabile” (XXI). Mentre cioè la definisco e la afferro come indefinibile e inafferrabile la indetermino e mi sfugge. In altre parole l’evidenza del Tao è così potente perché non logica, non poetica, non religiosa in prima istanza, bensì in quanto pensiero originario e attuale, ultralinguistico, indifferente al fatto che sia orientale, e quindi incomprensibile per un occidentale, giacché il Tao viene prima dell’Est e dell’Ovest, sebbene nell’Ovest non avrebbe potuto nascere, il che pure è secondario, visto che tale pensiero è nato. “La Via è vuota: nonostante l’uso non si riempie mai.” (IV). Anche questo è evidente: io infatti mi uso da sempre eppure resto sempre vuoto. Lao-tzu percorre la Via come Maddalena de’ Pazzi, la quale dice: “Non mi riconoscerete perché sarò lattante”, quando scrive: “Concentrando la tua respirazione sino a fiaccarti, puoi diventare come un lattante” (X, cfr. XX, LV). La fede nella natura è a ogni passo evidente, come quando Lao-tzu deplora la cultura artificiale, nata dall’intelligenza e dalla 532 conoscenza” (XVIII) e quando esorta: “Mostra una semplicità naturale e aggrappati a ciò che è senza artificio” (XIX). Il lattante infatti, spiega, urla tutto il giorno ma non diventa mai roco perché conosce l’armonia naturale. (Mio figlio però lo diventava). “Colui che non si discosta dal suo giusto posto sussiste a lungo: morire senza perire, questa è la longevità” (XXXIII). Bisogna sapere qual è il proprio giusto posto. Ciascuno di noi lo sa, cercandolo nella propria natura, e non deve mai agire contro di essa per non essere travolto. In questo modo morirà, come tutti, ma non perirà, perché la morte non l’avrà sconfitto, come accade a chi assume un ruolo non suo. Puoi essere longevo a trent’anni e prematuro a ottanta. La tua inattività, il tuo non-agire non vuol dire non fare niente bensì non agire contro natura o fuori di natura (XXXVII). Eppure non basta, giacché il non-agire deve restare proprio anche della tua natura propria, se questa ti spinge ad agire. Il segreto espositivo del Tao è di non dire tutto, di fermarsi prima del completamento, di non chiudere mai il campo, di lasciare un vuoto che ti salva. Di ricordare che la parola si inarca oltre di sé, in una linea invisibile che la completa e dalla quale proviene. I sogni inventati da Freud Da quando sono diventato scettico sull’interpretazione di Freud, i miei sogni sono diventati molto più banali. Ciò non significa che le sue teorie non siano valide ma che egli è riuscito a entrare nel collettivo mondo dei sogni e a trovarne le forme generative al punto da fare scorrere e ruscellare quelle che erano chiuse e dormienti e da farti sognare nel suo stile. 533 O il super-io trova un alleato nello scetticismo cosciente per mascherare più profondamente i contenuti onirici? Ingiustizie verso gli amici Se rifletti sul comportamento degli altri verso di te, le mani tese e i favori che ti sono stati fatti, ti accorgi che è difficile trovare un amico che non abbia fatto qualcosa nel tuo interesse e nel tuo bene. Ma questo non viene affatto percepito con chiarezza se non ti attardi ad esaminare con pazienza gli atti che hanno compiuto. Con facilità infinitamente maggiore si è inclini invece a pensare che non abbiano fatto nulla o ben poco. Questo dipende dal fatto che l’orizzonte di attesa nella fortuna, nel piacere, nel profitto che dalle azioni altrui ci può derivare, o che presumiamo di meritare, è sempre molto maggiore dei risultati concreti che da qualunque azione possano scaturire. E così va a finire che attribuiamo proprio agli amici che ci hanno aiutato la responsabilità dei beni che non abbiamo avuto, mentre coloro che non hanno fatto nulla per noi, essendo ancora incontaminati nell’immagine assoluta e fantastica del bene straordinario che ci potrebbero fare, vengono più stimati, riveriti e soprattutto apprezzati buoni, anche se non hanno fatto né faranno mai nulla, di quelli che concretamente hanno mosso un piccolo passo per aiutarci. 8 ottobre Pensieri leggeri Pensieri inspirati ed espirati. Prendere un pensiero al volo è più difficile che catturare uno scoiattolo. Ma se si fida di te, puoi anche carezzarlo. 534 Una coccinella si posa sulla mia mano. Mentre penso non peso come lei. “Io scrivo in completa libertà senza censurarmi, perché mi rivolgo a me stesso.” Questo va bene, ma l’importante è che tu non creda che, essendo immediato, tu sei anche rigoroso ed onesto. Tanti scatti, sfoghi, impulsi hanno vita talmente breve da degradarsi in pochi secondi. Non importa solo dire qualcosa che senti e che pensi ma soprattutto che abbia una durata vitale e che possa essere partecipato dopo un’ora, un anno, un secolo da un altro me stesso fuori di me. Né vale fare ritratti di questo o di quello, caratterizzare l’individuo, esplorare le persone, i personaggi, le personalità che incontri (sia detto sempre in senso spirituale,) se essi non ci dicono qualcosa della natura umana, perlomeno in una striscia di tempo ragionevolmente durevole. Altrimenti facciamo la cronistoria, cioè l’antistoria, invece che la storia naturale. 7 ottobre Il telefono Abbiamo fatto o no il servizio militare, tutta la nostra vita è sottoposta agli ordini fulminanti di un generale inesorabile: il telefono. Al suo trillo, chiamata degli affetti o monito sociale, non puoi insubordinarti. E se fosse l’invocazione di soccorso di un familiare, se fosse un’amica che sta male, se fosse qualcuno che ha pensato a te come a una speranza di scampare a un’ora nera? E se fosse l’occasione della nostra vita? Qualunque cosa faccia e dovunque tu sia, col sapone in mano o con il boccone in bocca, nel pieno di un amplesso o leggendo un libro di botanica, quando arriva l’ordine di allarme il povero attendente salta fuori dalla camerata con la testa vuota e si fionda a rispondere all’ennesima chiamata del call center o alla convocazione del dentista. 535 Leopardi non aveva il telefono e quando riceveva una lettera aveva tutto il tempo di meditarla e di soppesare una risposta. Ma come decidere su due piedi se andare a parlare a Dublino o se scrivere un articolo che ti chiede un amico che conosci da vent’anni, senza imbarazzo, timore, paura di comprometterti se accetti o di essere sgarbato se rifiuti? L’attrice innamorata Un’attrice molto bella sta simulando in televisione l’espressione di una donna innamorata. E anche molto brava, perché ha intuito che il suo sguardo, per essere verosimile, non deve essere diretto e spontaneo né atono e assente ma che i propri occhi devono guardarla dentro, dove si affollano i sentimenti che, tra paura e desiderio, fanno fremere i suoi lineamenti e rendono i movimenti ora repentini ora d’improvviso rallentati. La donna realmente innamorata non avrebbe certo avuto le stesse espressioni, se non altro perché gli occhi e il volto diventano secondari quando la piena dell’affetto si autocertifica, e non ha nessun bisogno delle prove dell’espressione che lo rivelino. Lei non si sa guardata, come l’attrice, e sente che il suo amore da sé si rivela senza cucirgli una pelle di emozioni sul volto. E tuttavia per esprimere l’amore con il volto bisogna aver amato, non solo immaginato o sperato di amare. L’attrice allora, mentre finge, risveglia nella sua immaginazione l’amore realmente provato un tempo, ed è esso a suscitargli la traduzione nelle espressioni del volto, come da una lingua all’altra, dalla lingua dell’anima di una volta a quella del corpo adesso. E, come una traduttrice che sa la lingua dell’amore, lei fa transitare l’amore dal vero al finto, in modo che sembri vero. Insubordinazione del volto Quando provando una forte emozione o un’attitudine affettiva precisa, di dolore o di gioia, che sgorga dal nostro cuore per caso, 536 all’improvviso ci cade lo sguardo su uno specchio, restiamo allibiti che nel nostro volto non si rifletta nulla di quello che sappiamo con assoluta certezza di provare. Al punto che pensiamo di essere disabili, come fossimo ciechi o sordi, o che il nostro volto sia incapace di rappresentarci. Tante volte l’espressione nobilmente dolente che avevo creato nell’immaginazione resta tutta nascosta dentro mentre fuori traspare una risolutezza opaca e insignificante. Se uno ne ricavasse che allora il nostro dolore non è autentico sbaglierebbe di grosso, eppure è dalle nostre espressioni che gli altri ci giudicano. E ci sono addirittura esseri convinti di poter intuire e di capire tutto di noi, indipendentemente dalle nostre parole, soltanto guardandoci, mentre è il nostro volto che, invece di esprimere i nostri sentimenti, ne ricava le conseguenze e ne fa affiorare gli effetti in modo autonomo dalla nostra volontà, oppure già reagisce a essi con attitudini sociali automatiche delle quali non siamo responsabili. 13 ottobre Chiaroveggenza e telepatia Più volte capita di incontrare persone convinte, soprattutto donne, che esistano tra gli uomini forme di comunicazione telepatica, di chiaroveggenza e di preveggenza, quando per esempio ci si telefona nello stesso momento, perché ci si pensa a vicenda in contemporanea. Nella convinzione che il pensiero di uno accenda a distanza quello di un altro. Non ci sono prove né ci saranno mai, benché sia singolare che quando la nostra giornata è popolata dai volti immaginati degli amici, ai casi dei quali poniamo mente, intrecciandoli ai nostri, gli amici più spesso si fanno vivi e ci scrivono e ci telefonano. Mentre quando chiudiamo il nostro cuore e coltiviamo il nostro giardino, gli amici tendono a scomparire, quasi sapessero che non li pensiamo, pur non dando noi nessun segno e comunicazione che lasci trapelare il nostro interesse o la nostra indifferenza. 537 Quando per esempio sono in viaggio e non penso a nessuno, nessuno telefona, neanche di quelli che non lo sanno, mentre appena rientro è una sequenza di chiamate, quasi in qualche modo sapessero tutti della mia presenza. Gli stessi rapporti telepatici e interattivi sembrano a volte intrattenersi con le cose inanimate, per cui c’è chi carezza lo schermo del computer e gli rivolge persino parole dolci, come si farebbe con un cavallo o con un cane, e quello riprende a marciare, chi batte un cellulare sul tavolo per imporgli di funzionare, e ci riesce, e chi, preoccupato di ingrassare, ottiene dalla bilancia l’esatto verdetto desiderato, almeno in una prima pesata. Questo accade con particolare frequenza quando siamo fissati con un desiderio che passa per un tramite fisico e meccanico, quasi come se la materia lo assorbisse e reagisse a modo suo all’impulso. Il desiderio in genere troppo espresso e continuato è controproducente in ogni campo. Potrebbe essere perché contrasta con il mimetismo animale indispensabile per non svegliare le forze che ci vogliono fare del male, mimetismo che continua ad essere vitale su un piano spirituale. Esiste un mondo transfisico o transpirituale di cui non sappiano nulla. Si tratta in questi casi di effetti sempre mossi da una causa fisica e meccanica concomitante casualmente col gesto compiuto o da quello motivata ad innescarsi. E tuttavia sopravvive questa ondeggiante coscienza di una misteriosa relazione con le cose e con la realtà che, dagli episodi minimi, si estende fino ai rapporti umani e persino al rapporto col divino. Sbaglia tuttavia chi vede la relazione con Dio come l’ingigantirsi di una superstizione sperimentabile nella vita quotidiana, proiettata in un fantasma cosmico e unico che assorbirebbe la miriade di spiriti e spiritelli, forze mediatiche e telepatiche volitanti intorno a noi, ogni volta che si guasta qualcosa o ci cade una pentola dalle mani. 538 Che la materia possa pensare e avere sentimenti questo è evidente, se consideriamo il nostro cervello che certo non è puro spirito. Il punto è di indagare i gradi intermedi, dagli uomini alle cose, come ben sapevano i filosofi tedeschi influenzati dall’organicismo scientifico, come Schelling e Schopenhauer. Il gioco a dadi Un’altra forma singolare di misteriosa e indimostrabile influenza che i nostri stati psichici esercitano su una realtà fisica del tutto indipendente dalla nostra volontà è il gioco delle carte o dei dadi o della roulette, nei quali chiamiamo fortuna o sfortuna la corrispondenza attuata o mancata tra i nostri desideri e il risultato di forze fisiche del tutto autonome rispetto a noi. Se nei dadi siamo noi che imprimiamo il movimento ai cubetti, e si potrebbe quindi pensare a una intelligenza inconscia della mano e del braccio che vuole o non vuole, ammesso che ne siano capaci per sé, il risultato che ci prefiggiamo, nella roulette è il croupier a mettere in moto la ruota. Nel gioco delle carte la disposizione dipende soltanto dal modo di mischiarle che con nessun altro mezzo può essere orientata. Eppure sperimentiamo giornate in cui siamo in vena sorprendente e magica e siamo sicuri che le carte o la pallina seguiranno il nostro volere e, sia pure per brevi sequenze, questo accade. Se poi perdiamo è perché non siamo capaci di ritirarci al momento giusto. Al modo contrario, giornate traverse e momenti di malumore, stanchezza o atonia rancorosa generano stranamente risultati sempre sfortunati nei giochi, per cui l’accidia che investe colui che perde incombe su di lui fatalmente portandolo alla rovina, come se le carte o i dadi sapessero e volessero cooperare alla sua distruzione. Si potrebbe dire che colui che non è in giornata buona, senza volerlo e saperlo, compie le mosse sbagliate con le carte ma come spiegare le puntate votate consapevolmente all’insuccesso nella roulette o 539 come addebitare la sconfitta a un sentimento morboso del giocatore che lancia i dadi? Eppure, nelle due trances da gioco opposte, perderà chi sa di perdere e vincerà chi sa di vincere. Si potrebbe dire che, insistendo a perdere, subentrerà una svogliatezza, una inconcludenza, una sfasatura goffa nelle decisioni di gioco che causano esse la nostra sfortuna, ma come motivare la durata, contro le regole della statistica e della decenza, delle condizioni a noi sfavorevoli, finché si crea un vero e proprio campo di sfortuna, dal quale è difficilissimo risollevarsi nell’unico modo possibile, e in realtà impossibile al giocatore incallito, cioè abbandonando il campo? Il giocatore vizioso perde sempre, il che comprova che se tu vuoi distruggerti si genera contro di te una coalizione delle combinazioni fisiche che concorrono a darti il successo del tuo fallimento. Fenomeno che i giocatori ben conoscono, che ne ha rovinati un’infinità e che, non potendo né volendo spiegarlo con interventi parapsicologici o superstiziosi, resta un mistero. La superstizione è cacciata dalla scienza in un angolo buio e ridicolo ma nella sua condizione di cenerentola essa concorre forse a catturare dimensioni e voci della realtà altrimenti inattingibili, senza nessuna speranza di diventare mai principessa ma, dal suo cantuccio patetico e arcaico, fortemente influenza la vita di milioni di uomini, che continuano comunque a crederci, e non per sola ignoranza, a dispetto di lauree e di certezze scientifiche troneggianti sopra la cucina sporca e calda in cui esse maturano. La premonizione funesta La premonizione di eventi futuri è molto coltivata dalle donne, che infinite volte dicono di sentire prima quello che accadrà e, quando una cosa accade, la trattano come se l’avessero già saputo. Queste premonizioni sono spesso funeste e catastrofiche, perché vi sono donne che sempre pensano il peggio, anzi lo vivono prima che accada in ogni sfumatura e piega, e in modo così vivido e naturale che è come se fosse già accaduto. 540 È questo un atteggiamento scaramantico che mira a disinnescare il male, immaginandoselo in ogni dettaglio, sia per diminuire la probabilità che accada, essendo uno dei caratteri del male quello di essere imprevisto, sia per premunirsi ed abituarsi a esso al fine di non ricevere il colpo in modo brutale e inaspettato, sia per offrire in sacrificio una dose di dolore preventiva, quasi una purificazione a priori, in modo da non meritare più quel male che legittimamente, esse pensano, aggredirebbe chi se ne stesse sereno e spensierato. Si vede così che chi sempre soffre e affronta ogni situazione con malinconica prudenza, nascondendo ogni sua piccola gioia e ostentando uno scettico disinganno su ogni ipotetica fortuna e una convinzione dura e ostinata di essere sfortunato e infelice, comunicandolo a tutti con le parole e col gesto, finirà per essere sano e fortunato, nonostante le apparenze, quasi protetto dall’invidia, dalla malevolenza non solo degli uomini ma anche della sorte. Questa attitudine è antica se già Erodoto, nelle Storie, parla di phthonos ton Theon, dell’invidia degli dei, esortando a occultare la propria felicità, per impedire che gli dei ci colpiscano. Dei che non arrivavano saggiamente fino a leggere dentro l’animo. 15 ottobre Cantare davanti al cimitero Quando passavamo davanti a un cimitero, seduto dietro i miei genitori e noi figli cantavamo per scongiurare il mal d’auto, mia madre ci invitava a smettere. Per rispetto verso i morti, che nulla possono saperne. I loro corpi certo non ascoltano la musica e tuttavia forse le loro anime percepiscono i segni del nostro rispetto o della nostra indifferenza. E ce ne sono grati, sia perché li consideriamo in qualche modo esistenti, sia perché temiamo di disturbarli, sia perché vogliamo che uno scambio tra noi sopravviva. 541 Quando fiancheggio un cimitero e ascolto un pezzo dolce tendo a non abbassare il volume, pensando che anche i morti potrebbero apprezzarlo. Quando ascolto Bob Dylan non penso di chiudere la radio perché immagino che l’arte potrebbe essere loro cara, mentre con un pezzo violento, magari di musica metal o con una canzone banale, temo di offenderli e abbasso o spengo. Ma siamo sicuri che la musica darebbe fastidio ai morti e che preferiscano il silenzio? Se non ci possono sentire allora è indifferente alzare o abbassare il volume, ma se invece possono, può darsi che un segno di saluto sonoro di un passante sconosciuto li conforti. Se invece lo si fa più per noi che per loro, cioè per attestare a vicenda tra noi che ne abbiamo rispetto, o lo si fa perché Dio sappia che abbiamo rispetto per loro, o per costringerci col silenzio a pensare a loro, potremmo magari imparare a onorare i morti con un segno di vita piuttosto che non con un segno di morte. Tacere di fronte alla tomba vuol dire infatti imitare il morto, renderci il più possibile simile a lui per capirlo. E se morto non fosse realmente e interamente? Quanto dovrebbe soffrire per questo mutismo attonito che gli ricorda che ormai è dall’altra parte di una linea mentre con tutto il suo essere vorrebbe poter condividere con noi qualche momento, avere notizie di ciò che facciamo e pensiamo, sentire la nostra voce che gli dice parole affettuose. C’è una ragione che se il nostro caro è vivo dopo la morte stia presso il suo cadavere o le sue ceneri nel cimitero piuttosto che in qualunque altro posto e anzi, come sarebbe più naturale immaginare, costantemente presso di noi? Una ragione non c’è eppure è evidente che in un piano né fisico né metafisico ma transfisico, transpirituale, un piano che non sappiamo neanche se esiste, ma che nella nostra immaginazione è interposto ad ammortizzare e attutire l’attrito tra i due mondi, la persona cara è anche spiritualmente presso il corpo del cimitero, se è vero che quando andiamo lì le parliamo, le facciamo domande, la informiamo sui nostri casi e la salutiamo toccando la lapide con la mano. 542 Si potrebbe dire che il mio comportamento è assurdo e superstizioso. Ma potrebbe essere proprio di una mentalità scientifica spinta fino all’estremo, giacché non siamo assolutamente certi, con prove inconfutabili, che le anime dei morti non esistano e non possano ascoltarci, quindi l’apertura mentale verso ciò che non conosciamo non vi sembra una sana attitudine empirista? Un sano empirista è infatti sia chi ammette l’esistenza di qualcosa soltanto con delle prove sia chi non la esclude senza prove. Ascesa e discesa della democrazia C’è una fase ascensionale e una discendente della democrazia. La prima è epica, romantica, appassionante, lacerata tra dubbi e una fede che ci avanza, consunta ma non domata. In questa fase essa è indispensabile per tamponare e cicatrizzare le malefatte e le crudeltà delle dittature ma, raggiunti diritti civili universali in uno stato, tutelata la vita, la proprietà e la libertà nei limiti sempre oscillanti e incerti che alla vita consociata sono dati, la democrazia comincia a secernere i succhi più acidi e corrosivi. La libertà di parola, pressoché assoluta, in nulla serve a modificare la realtà; la libertà di pensiero perde del tutto il suo mordente, la libertà religiosa rende insipide quelle pietanze che con le spezie del peccato erano saporite, la libertà sessuale rende l’amore una ginnastica per tonificare gli addominali e i glutei. Il bisogno di proibizioni, rischi, censure, divieti, passaggi chiusi, specialmente nell’età matura, si fa spasmodico per potere non dico esercitare, giacché non è questo che ci gratifica, ma finalmente godere una qualunque libertà, ritrovandone il brivido e il gusto, oggi ormai impercettibile, per poter disobbedire con gioia, provocare con malizioso divertimento, restando nel giusto. L’irriverenza 543 Essere irriverenti oggi è impossibile, non essendoci riverenza per nulla e per nessuno. Ridateci quei sani moralisti tutti di un pezzo che veramente si sdegnavano, convinti di incarnare una legge sacra. Ridateci quelle insegnanti pronte a soffrire dell’audacia incredibile di un ragazzo che difendeva la libertà di divorziare. Dove sono finite le persone capaci di scandalizzarsi, le donne profonde che incarnavano nei fianchi e nei seni una morale assoluta? L’unico modo per gustare la libertà ed essere irriverente oggi è di criticare i tabù sociali più forti: la democrazia, la tolleranza, la libertà stessa, l’autonomia, l’uguaglianza, la pace, la tutela dei deboli. Ma mentre nelle fasi ascendenti della democrazia tu puoi essere irriverente difendendo proprio i valori giusti e umani, non ancora guadagnati, perché i più si sono fermati all’inizio della salita, nelle fasi discendenti dovresti esserlo sostenendo assurdità pepate, cattiverie speziate, mostruosità suggestive e verità sepolcrali, dal che si ricava che non puoi farlo senza sfoderare tutto l’armamentario letterario dei superalcolici e bizzarri manieristi, che negano l’umanità solo per scrivere un libro eccitante, il che nei periodi di democrazia discendente è patetico, come scuotere un vecchio che ha bisogno solo di stampelle per non cadere. Rimpiangi il passato? No, prefiguro il futuro. Con la fine delle materie prime e delle fonti di energia, dall’acqua al petrolio, con la ripresa di guerre selvagge per appropriarsi dei pochi pozzi e delle poche sorgenti rimasti riemergerà una morale basata sulla frugalità, la rinuncia, sul sacrificio, sull’obbedienza. Con un controllo ferreo della religione, con un matriarcato rigoroso, con proibizioni di ogni genere, un’educazione più rigida dei figli, letture collettive della Bibbia e, per i più colti, rilettura dei classici cristiani dell’astinenza e dei classici dello stoicismo. Disperazione e fede possono convivere Ci sono donne che vivono ogni situazione di rischio e di incertezza pensando che esista una verità profonda e terribile che nessuno intorno a loro è disposto ad accettare, perché vuole nascondersi la realtà che solo lei conosce e vive con assoluta certezza. Quando poi 544 il pericolo è scongiurato, si dimenticano del tutto della visione premonitrice e catastrofica che avevano maturato e riprendono a vivere come niente fosse, in attesa che un’altra situazione critica le metta alla prova. Si può essere cristiani senza nessuna fiducia nell’intervento salvifico di Dio nella vita propria mentre si dà per scontato che egli intervenga nelle cose del mondo con la fede più vigorosa. Come vi sono persone che si considerano un’eccezione fortunata così ve ne sono che eccettuano sempre se stessi quando si tratta di sperare in un bene o in un aiuto, quasi fossero un buco nella provvidenza e un vuoto nel piano universale. Hanno fede in Dio per tutti ma non per sé. La paura di ammalarsi La paura di ammalarsi è anche la paura di cadere in balia degli altri. Il gioco libero dei caratteri che ci consente di essere noi stessi, rispettando gli altri ma tenendoli anche a prudente distanza quando è necessario, si rompe quando siamo malati, e noi d’improvviso veniamo a dipendere dal carattere di un medico, di un infermiere, di una moglie, di un marito, che ci aiuteranno magari a convivere col nostro male o a guarirne, ma sempre e solo entrando dentro la scatola del loro modo di ragionare, di sentire, di trattare. Ed essendo noi dipendenti, dovremo accettarlo, snaturandoci o almeno restando noi stessi ma in forma larvale, silenziosa, malinconica. Parte integrante della malattia è la perdita della propria personalità e una schiavitù interiore peggiore di quella fisica. Da questo si vede quanto sia importante saper trattare il malato, senza dimenticare mai che deve continuare, per sopravvivere, a manifestare liberamente la sua personalità, senza cogliere l’occasione della malattia per punirlo del misfatto di essere diverso da noi. 16 ottobre 545 Mistero a due Tutti i matrimoni sono misti, se non altro perché entrano in gioco due sessi diversi. Ma quando si uniscono due persone di religione diversa, o di una e nessuna, di cultura diversa, di classe sociale diversa, di nazione diversa, di età diversa, di carattere diverso, il mistero a due si approfondisce e si arricchisce e l’amore sperimenta ogni giorno la tensione della differenza che dà una scossa conoscitiva e affettiva. L’incorporazione del mistero è sempre duale, se perfino quando contempliamo il silenzio dell’universo o preghiamo c’è uno sdoppiamento armonico tra un io empirico e un io sovrempirico, sicché non trasciniamo più il corpo al sicuro dai rischi della giornata, affannati dalla responsabilità di un essere che siamo e che abbiamo in cura, comunque noi stessi, ma li mettiamo in gioco musicalmente, sia pure per pochi minuti. La camera segreta Se noi fossimo sicuri di poter amare un’altra donna o un altro uomo in una camera segreta, in una città irraggiungibile, e sapessimo con assoluta certezza che nessuno mai lo verrebbe a scoprire, donne e uomini sposati, che faremmo? Per una volta sola assaporare il tradimento di un amore con un altro amore, badate bene, non per fare sesso, il tradimento cioè di una persona che amate e rispettate con un’altra persona che amate e rispettate, infrangendo il dogma dell’unicità dell’amore, il monoteismo dell’amore, noi cosa faremmo? La donna o l’uomo amato non lo saprebbero mai perché noi dovremmo rientrare come siamo partiti, senza dare segno della più piccola perturbazione del comportamento, avendo concordato con la persona della camera fuori della storia che nessuno di noi due mai farà parola a nessuno di quello che è successo, preparati fin dall’inizio a vivere il secondo amore fino in fondo soltanto per un giorno. 546 Se non ci tradissimo da soli. Se non tradissimo cioè il nostro tradimento, resterebbe la nostra coscienza a saperlo. La quale, al di là di ogni rimprovero morale, giacché amando noi due persone, essa non potrà accusarsi di vizi e di violenze verso nessuno, essendo in entrambi i casi sinceri e generosi, si metterà a pensare però con malinconia a certi record ormai imbattibili: quello di amare tutta la vita una sola persona, quello di essere leale e fedele, quello di dire sempre la verità e non avere segreti. Senza pensare che, assaggiato l’amore libero e completo, sia pure per un giorno, con un’altra o con un altro, esso rilancerà il nostro desiderio per un altro solo e unico giorno nella camera segreta e irraggiungibile. E noi finiremo per avere una vita parallela, nella quale entrambi gli amori saranno tinti di veleno. Nascerà comunque un’asimmetria, perché non potremo più scongiurare che anche la nostra donna o il nostro uomo abbia una sua seconda camera nuziale di un solo giorno, e il fatto stesso di avere noi stessi trasmesso questo diritto getterà una luce triste sul matrimonio che si basa sulla convinzione che la vita di uno non tradisca quella di un altro, dogma matrimoniale, e profondamente anticristiano, benché cattolico, senza il quale non avrebbe senso parlare di tradimento amoroso. L’immaginazione del tradimento è tuttavia connaturata in tutti gli esseri umani e trae anzi forza proprio dalla fedeltà e dalla lealtà verso la persona amata, scatenando il bisogno dell’eresia e della contravvenzione della nostra morale e della nostra fede, nonché del nostro stesso amore Questo bisogno nasce dal culto dell’istantaneo, cioè di un atto che, contro tutte le condizioni ragionevoli e contro tutti i valori che noi stessi difendiamo, scateni una specie di amore al nero, cioè di amore massimo proprio perché istantaneamente ribelle persino verso il bene nostro e della persona amata, come una rivelazione istantanea alla quale deve seguire istantaneamente l’atto, sia pure un semplice bacio. 547 Anzi, un bacio, molto più di un atto sessuale completo, concentra in un gesto in fondo insignificante, due ventose morbide che si toccano, la confessione che l’amore è il più incivile, irragionevole, sfacciato e irriverente dei sentimenti. La sua irrazionalità consiste infatti, come si diceva nel caso opposto dell’odio, in una ragione istantanea, che non ha né prima né dopo, né cause né conseguenze, e rapisce la persona, in qualunque condizione si trovi, e la strappa dal contesto immettendola nell’istante assoluto. Ma come non esiste una camera fuori dello spazio così non esiste un istante fuori del tempo. L’istante stesso ha una sua parabola, una sua micro vita biologica, per cui mentre ancora stai dando il bacio del tradimento esso si tinge del ritorno alla vita di prima e si carica di tutte le conseguenze di un tessuto fittissimo e pieno ormai di macchie che è impossibile governare, sporcando di malinconia il distacco delle labbra. E quanto alla camera segreta, lo spazio esterno la preme di continuo, inserendola in una rete elettrica e magnetica di telefoni, di sms, di turisti internazionali vicini di casa, di fotografie, di incongruenze, di satelliti, di cedole dell’autostrada, di chiamate sospette, di vuoti incomprensibili, nel reticolo fittissimo che lega ormai ogni camera del mondo agli infiniti altri luoghi, rendendo materialmente impossibile che ci sia un qualsiasi luogo del mondo dove non ci sia almeno un italiano cugino dell’amica del negoziante sotto casa che prima del nostro rientro metta nel suo blog, sotto un pezzo dal titolo “Il vicino globale”, la foto di un uomo e una donna che escono abbracciati dalla camera 26 dell’hotel più isolato del deserto australiano. Il senso pratico delle donne le spinge a considerare che la capacità d’amare è limitata, che amare costantemente è un sacrificio continuo e che tradire vuol dire disperdere energie in modo da non poterne dare più di bastevoli a una sola persona, visto che già l’amore che si riceve da un uomo è sempre troppo poco. Le donne tradite nulla odiano come il fatto che altre sappiano che sono tradite e tendono a essere meno dure con chi tradisce con stile, cioè rispettandole e nascondendosi. 548 Le amiche della donna tradita si precipitano invece a raccontarle ogni loro scoperta con la scusa che fanno il suo interesse e in realtà desiderando profondamente non tanto che il maschio sia punito ma che l’amica perda ogni suo bene, specialmente quando il proprio matrimonio è infelice. 17 ottobre Ignota la nostra natura È straordinario il fatto che proprio quello che ci sta fin dall’inizio sotto gli occhi e che è la cosa più familiare e intima che esista, cioè la nostra natura, sia anche ciò che impieghiamo tanti più anni a scoprire, al punto che molto spesso sono gli altri a rivelarci qualcosa di noi a cui non avevamo mai pensato e che dobbiamo convenire, sebbene sempre a malincuore, anche quando si tratta di una qualità positiva, corrisponde in effetti al nostro modo di essere e di comportarci. E anche appreso dalla voce chiara di qualcuno che ci ha scoperto a noi stessi, in breve tempo dimentichiamo la rivelazione e continuiamo a non conoscerci finché un altro giudizio sintetico ed evidente non ci costringe ancora una volta alla resa. Tanta disattenzione verso l’essere che quasi sempre ci sta più a cuore, se non altro perché convive con noi, al punto di combaciare fino all’identificazione con il nostro io, non può derivare da una semplice incapacità intellettiva ma senz’altro esprime una volontà precisa di non sapere chi siamo, un accorgimento più o meno inconscio a voler eludere quella conoscenza possedere la quale ci renderebbe tanto più onesti, equilibrati e sereni. Un po’ l’illusione di voler essere qualcuno di infinito e di così ricco da non poter essere chiuso in una definizione, mentre noi di continuo ingabbiamo gli altri in schemi e formule insufficienti e falsi con gran disinvoltura. Un po’ è la coscienza di non poter cambiare, pur sapendo chi siamo, e di cadere così più gravemente negli stessi 549 errori, non potendo nasconderci più dietro la scusa che non ne siamo consapevoli. Ma soprattutto è il fatto che conosciamo di noi stessi solo quei tratti che riusciamo a pilotare verso un qualche scopo, verso un progetto voluto e cosciente, non tenendo conto che scopi e progetti dipendono solo in piccola parte dalla volontà e molto più dal carattere che mettiamo in atto, nolenti o volenti, in atti che ci sfuggono, in impulsi imperdonabili che compromettono tutto, in controsensi di cui non ci accorgiamo e che, essendo sempre gli stessi, proprio per la loro frequenza e continuità finiscono per sfuggirci. Quando poi prendiamo di petto la nostra natura e cerchiamo di spremerla e torchiarla, di certo riusciamo a governare azioni e comportamenti, nei nostri limiti, ma si tratta di un’opera puramente difensiva, di freno e contenimento, e mai attiva e propiziatrice di qualche bene, se non perché un’omissione tante volte ci salva dal commettere una sciocchezza. Mentre accettando di conoscerci e riconoscendo così i nostri limiti, che sono chiarissimi fin dall’infanzia, e quasi dettati in modo chiaro e lento, con una didattica da maestra, dalla natura, potremmo molto meglio volgerli al bene e all’utile, senza attribuire sempre agli altri ostacoli, rifiuti e mancanze che spesso dipendono proprio da noi e dalla nostra incapacità di guidare bene la nostra macchina naturale. Una decisione che alla fine si riesce a prendere, ma in età già avanzata, e spesso tardiva, è quella di non fare altro che non sia consentaneo e sintonico col nostro modo di sentire e di essere. La nostra vita si spoglia e si semplifica e perde gli smaglianti ed eccitanti colori che ci colavano il più delle volte nell’anima ma le tinture diventano più naturali, e proprio in questa tenuità si riscopre la luce nitida e le sensazioni auree di una vita non ancor piegata ad ambizioni e progetti meccanici, alla chimica di sostanze mentali ed emotive inquinanti e tossiche. E l’autunno diventa tutt’uno con la primavera. 550 Memoria motrice e spontanea Quando mettiamo in atto quella che Bergson, in Materia e memoria, chiama la memoria motrice, noi ricostruiamo la sequenza dei nostri movimenti, nel caso ad esempio in cui dobbiamo ricordare dove abbiamo parcheggiato l’auto, e ricostruiamo tutti i passaggi delle nostre azioni. Ma non vediamo il filmato della scena in modo fluido e continuo bensì attraverso una serie di fotogrammi che cerchiamo di ridisporre nella giusta successione. Quando invece agisce la memoria spontanea ci compare in modo subitaneo una visione che fa rinascere una singola scena del passato, al massimo una brevissima sequenza, e mai un intero flusso di vita che duri più di qualche secondo. Mi domando se sia necessario che quel momento sia stato già significativo mentre lo vivevamo, impresso grazie a una passione più forte, per cui useremmo gli stati di attenzione più vivida come pietre per guadare il torrente del tempo e ricostruire poi gli stati intermedi meno impressi. Questo ci porta a pensare che anche la nostra percezione attuale sia intermittente e fittamente spezzettata e che pure la continuità della nostra vita presente sia riguadagnata attraverso velocissimi e impercettibili salti, anche per la ragione che la nostra attenzione salta di continuo dal fisico allo psichico, e che quindi non c’è mai una percezione realmente continua del nostro vivere tutto fisico o tutto psichico, che viene fluidificato e miscelato proprio dalla memoria, intesa come azione pratica operante sul presente, proprio nel senso indicato da Bergson in quel libro ispirato. Con gli anni è provato che la memoria diminuisce. Ma è anche vero che le persone, le città, i libri, le situazioni da ricordare sono molte di più e quindi è legittimo domandarsi se la memoria non finisca per toccare i suoi confini, fino ad arrivare a un troppo pieno. Se è così, la vera differenza tra la memoria giovane e quella vecchia non è tanto la ridotta capacità di trattenere le esperienze quanto la coscienza obbligata della finitezza del sistema della memoria, visto 551 che ne saggiamo i colpi a vuoto lungo i confini, mentre prima ci si illude che essa sia infinita, non avendo mai dovuto saggiarne i limiti. È un fatto però che la memoria diviene meno atmosferica, meno intrisa cioè dagli stimoli sensoriali, mentre invece fino a una certa età, che è difficile precisare, essa è molto più animale, cioè intrisa di odori, sapori, sensazioni di caldo o di freddo, di umido e di secco, tanto che è inseparabile il ricordo di un amore dalla stagione in cui l’abbiamo vissuto, da un odore di salvia o di incenso, da un profumo o da una sinestesia esistenziale che lo immerge completamente, rendendone struggente il ricordo proprio perché un’intera città può essere intrisa dell’epifania perduta del volto di una donna, percepito in continuità interiore con l’umido di un lungomare e l’odore di piante di cui non sappiamo il nome ma sono intime in modo inscindibile di quella passione. Pure mi ricordo che a vent’anni, provando all’improvviso la gioia di una memoria involontaria, lavandomi le mani con una saponetta Palmolive, rimpiangevo il tempo in cui ero molto più sensibile alla forza evocativa degli odori, età che probabilmente è realmente quella della prima infanzia. Tempo nel quale tuttavia queste sensazioni forti e organiche ci arrivavano con minore coscienza e perciò stesso sparivano più rapidamente e senza venire trattenute, con il che notiamo che quando aspiriamo a conservarle sono molto meno forti e quando non ci pensiamo affatto, proprio per questo ci sfuggono. La conclusione è che neanche le sensazioni sono veramente mai presenti a se stesse, ma sempre o intinte di un desiderio di ricordarle, di una speranza di riassaporarle coscienti, che le ritoccano e quasi reinventano, o chiuse nel loro irrompere attuale, che fa sì che non siano più nostre di quanto non sia del ramo una folata che lo agita e con esso consuona. Punto critico: quando le sensazioni fisiche diventano spirituali? La memoria involontaria della donna amata: memoria dell’Eden. 552 Adamo ed Eva, dopo la cacciata, serbavano memoria del paradiso terrestre? Quanto mi sarebbe piaciuto essere uno di loro per sapere cosa ne pensavano dopo. Una pianta dalla chioma profonda e lucente, la gioia pura fatta pianta, unico essere rimasto come nell’Eden. Tra veglia e sonno Quando si passa dalla veglia al sonno, c’è un passaggio in cui si dorme da svegli, nel quale si risveglia una memoria atmosferica del passato che fa affiorare non già un ricordo concreto e preciso di un giorno o di un volto ma risveglia appunto un’atmosfera che ci precipita piacevolmente in modo allucinatorio nel clima esatto di venti o trent’anni prima, e soprattutto ci mette nel punto di vista sensoriale in cui eravamo. Così che il giorno passato non è più un oggetto ridestato e rianimato ma è il nostro io di allora, è il soggetto che vive dal punto di vista di allora il nostro stato presente, e lo nutre del plasma vitale di allora. In questo tipo di ricordo il volto di una persona e il paesaggio in cui l’abbiamo conosciuta fanno tutt’uno. E il paesaggio, inteso anche come ambiente cittadino e artificiale, rinasce nel suo effetto globale per qualche istante, ha dentro tutte le emozioni e gli affetti sensoriali di quel volto, e il volto è esso stesso un brano del paesaggio, mentre il paesaggio è un brano del volto. Odori e sapori allucinatori li intridono entrambi in un una sequenza ondulatoria e piacevolissima nella quale non ha alcun senso distinguere l’uno dall’altro. Nota che il sogno non ha questo potere evocativo e sensoriale, muovendosi in un piano allegorico, e montando le scene come in un film nel quale non si ridestano né odori né sapori. Puoi sentire un sapore o un odore nel sogno ma per produzione artificiale e artistica, e senza nessuna naturalezza evocativa. Quando ero convinto del valore sostanziale delle interpretazioni dei sogni di Freud, i miei sogni ne erano addomesticati e seguivano 553 trame e soprattutto modelli che rientrassero in quei canoni di lettura nel modo più chiaro e perspicuo. Quando invece ho cominciato a dubitarne, a non aver più fede in quel sistema geniale di dogmi (in senso greco: dogmata, teorie) potentemente efficaci, anche i miei sogni hanno preso un andamento più selvatico e renitente alla leva psicoanalitica, conformandosi in modo da non avere quasi più nessun significato. Hanno cominciato a sbandare e a vagare, alla ricerca di libertà, ma cadendo ben presto in una tendenza ripetitiva, addirittura ossessiva, per cui la loro banalità letterale e la loro ciclica ricorrenza finiva per renderli disgustosi e quasi nocivi, al punto che rimpiangevo quella vena artistica, da un verso chiusa in un canone, ma dall’altro straordinariamente inventiva e plastica. Come se seguire le idee di Freud stimolasse i miei sogni non soltanto al rispetto e all’obbedienza delle sue formule ma nel contempo allo scatenamento di un genio pittorico, di una invenzione continua di messe in scena, di architetture luminose, di ambientazioni scultoree e pregnanti, né più né meno come succedeva agli artisti dell’umanesimo e del rinascimento i quali, vincolati ai dogmi, così soltanto dispiegavano il loro tocco originalissimo e potente. Da ciò si ricava che i dogmi non sono semplici idee repressive ma potenze artistiche e geniali, elaborate in modo collettivo, che per qualche ragione liberano, fecondano e scatenano l’immaginazione vitale degli uomini più dotati, dando una forma e una resistenza ambientale poderosa alla libertà creativa che altrimenti non sarebbe mai compressa, caricata e dispiegata. Esempi recenti di dogmi per élites ristrette sono le teorie di Nietzsche, di Freud appunto, e di Marx, che poi hanno acquistato potenza ben oltre la loro cerchia esoterica iniziale, indipendentemente dalla loro corrispondenza con un vero fattuale e sperimentabile, anzi spesso in aperto conflitto con esso, eppure toccando nel vivo qualche bisogno poderoso o aprendo sbocchi di immaginazione, pensiero e speranza altrimenti dispersi e pulviscolari. 554 Nei sogni del disincanto notturno si sperimentano monconi di vite alternative ma sempre interviene un biglietto perso o scaduto, una fermata dimenticata, un volo aereo cancellato, quasi altro la voce della notte non volesse dirci che siamo destinati al fallimento, anche quando non tentiamo più la sorte, anche quando lo sappiamo da soli. E tale banalità ci ripugna al punto che ci torna la voglia di vivere e di vegliare, perché la veglia sarà senz’altro più varia, più inventiva, più sperimentale di quella verità statica e fissa. Inconscio, ricchezza sconfinata. E coscienza vigile, modesta povertà. Che non sia invece il contrario? Che non sia la coscienza il paesaggio sconfinato che si crea nel mentre si scopre. 20 ottobre De mundo pessimo Manlio Sgalambro, in De mundo pessimo e nelle altre sue opere, si presenta come l’uomo del pensiero puro e radicale, il pensiero vivente più che l’uomo pensante, il pensiero incorporato al punto da pensarsi Dio lui (o esso) stesso, anzi superiore a Dio, esercitandosi addirittura, con quelli che chiama i suoi confratelli di empietà, a non considerare più Dio l’ente sommo ma, tutt’al contrario, l’ente infimo anzi, come scrive lui, “l’ente più infimo”. Egli attribuisce al pensiero umano tale potere da dominare Dio pensandolo. Inteso alla lettera, sarebbe la prova più smagliante dell’assurdità dell’idealismo soggettivo e della folle presunzione del pensiero solipsistico, che non si accorge di produrre una verità tutta interna a se stesso, come se pensare una verità bastasse a farle essere come la si è pensata. Per dirla con Bacone, per il ragno il mondo è una ragnatela e tutti gli altri esseri sono sue prede. Ma un ragno resta un ragno, cioè un animale che ha lo stesso fascino di ogni altro e la sua tela non è che una tela, così come il pensiero di Sgalambro non è che il pensiero di Sgalambro e il pensiero mio non è che il mio. 555 Così non si accorge che il pensiero, producendo concetti, produce anche se stesso, secernendo una sostanza dentro la quale soltanto è vero ciò che pensa. Allora Sgalambro reagisce dicendo: che mi importa del mondo! Basta che pensi io e il resto vada alla malora! Ma lui fa parte del mondo di qualche altro che con la stessa ragione può mandare alla malora lui. Cosa che pure non gli importa. Però pubblica libri, il che conferma che la sua esibizione sul palcoscenico del mondo è indispensabile e che pensare non gli basta, a meno che non voglia dirsi mosso da una intenzione pedagogica, anzi dalla volontà di propalare il verbo. Il che sarebbe leggermente ridicolo se Sgalambro non fosse un artista. I libri di Sgalambro infatti sono soprattutto libri artistici, romanzi di idee, racconti di pensieri, che ti danno l’euforia di un buon whiskey invecchiato e che per un giorno o due ti stimolano con potenza la percezione e l’intuizione delle cose, se non diventano un’abitudine quotidiana, perché allora diventi un alcolista. Così proprio il libro del pensiero puro e assoluto, del pensiero empio e radicale, per un paradosso ironico al quale l’autore, da bravo artista, non è insensibile, diventa tutto il contrario, cioè un’opera letteraria, fatta di concetti invece che di emozioni, di personaggi di pensiero invece che in carne ed ossa, ed esso vale come autobiografia e come ritratto di una vita di pensiero, molto più appassionante di tante narrazioni intercambiabili e puramente istintive e linguistiche. Un romanzo di idee che lascia il segno, perché non segue i mille rivoli del fiume del divenire sentimentale e cronachistico ma sintetizza la storia di un vivente razionale unico. Noi abbiamo una fascia uditiva che non ci consente di percepire ultrasuoni e infrasuoni e abbiamo una fascia visiva che non ci consente di vedere oltre e al di fuori del nostro cono prospettico. Così abbiamo una fascia di pensiero che non ci consente di cogliere gli infrapensieri e gli ultrapensieri, ed è non meno ridicolo presumere che il nostro pensiero sia della stessa natura di quello di Dio, che essere convinti che Dio veda il paesaggio davanti alla 556 nostra finestra con occhioni giganteschi, ma della stessa conformazione dei nostri. 22 ottobre Sminuzzare il tempo Padre Bartoli parla dello sminuzzamento del tempo, dello sgretolamento di ore in minuti, dello sbriciolamento di minuti in secondi e ne trae un consiglio per affrontare il tempo per via microfisica, microbiologica, attaccando il tempo nelle sue componenti minime, impiegandolo in ogni sua fibra, assaporandolo in ogni filamento, investendolo con una concentrazione sottile e vigile, mordendolo e gustandolo in un lavoro di conoscenza e operosità meticoloso, lenticolare. Chiave di volta Il problema terribile e insolubile di noi italiani è che resistiamo eroicamente a salvare la natura dalla valanga dell’artificiale, che è tutt’uno col progresso civile. Ma così facendo dobbiamo tenerci anche il caos e la delinquenza. Scrittori suicidi Consideriamo gli scrittori che si sono uccisi e vediamo che si possono dividere in due categorie. Nella prima il suicidio arriva come l’atto finale di una storia tutta virata al nero, di conflitto insanabile con se stessi e con gli altri, nonché con chi o cosa sta dietro o al di là di se stesso e degli altri. In questo caso essi firmano col sangue la propria opera, che da quel momento viene presa molto più sul serio e letta con un plus valore radicale di verità negativa, perlomeno personale. Nella seconda categoria il suicidio arriva come un atto iniziale. Lo scrittore che si è espresso nel modo più ricco e drammatico, ma 557 decidendo lui quale genere di armonia segreta o contraddittoria dovesse trovarsi nella sua opera, non sopporta che la vita gli sfugga di mano e vuole considerare essa stessa come un’opera, un romanzo dal vivo che soltanto lui può decidere come o quando chiudere. Morto lui, viene pubblicata la sua vita, da allora in poi oggetto di studi, biografie, approfondimenti, anche feticistici, come nel caso di Hemingway. Ho letto di recente un’intervista nel quale si chiedeva al proprietario dello Harry’s bar quale fosse la famosa panca sulla quale lo scrittore amava sedere. Domanda alla quale Cipriani ha risposto che non esiste, si sedeva dove capitava. Ma è inutile, ormai la sua vita è un’opera d’arte, che comprende tutte le altre che ha scritto. La ragazza per la gonfia (David Forster Wallace) Quella che Dante chiama nel Convivio donna schermo, e che si interpone nella linea dello sguardo verso Beatrice, è diventata la “ragazza per la gonfia” nell’industria americana del porno, cioè quella che fa rizzare il sesso in vista dell’accoppiamento con la donna designata alla penetrazione. Un’attrice porno racconta che quando si avvicina a un uomo lo sente vibrare come una foglia. “In pratica fanno tutto quello che gli dico io”. E David Foster Wallace, nel suo reportage sul porno americano, Considera l’aragosta, osserva: “L’intero settore ormai vive di questa strana inversione di ruoli: i consumatori sono quelli che sembrano vergognosi o timidi, invece gli attori sono sfacciati e calmi e iperprofessionali.” Il maniaco del porno azzera il resto del mondo, concentrandosi nel corpo della donna, che incarna per lui un eccesso totale di realtà, cancellando tutto il resto. La sua monomania non genera lo scacco di ogni altra che, azzerando il mondo, deforma profondamente la natura in un dolore fisso e irrevocabile, ma investe tutto il suo piacere in un atto puntuale con la sua dea, il suo feticcio, il suo 558 oggetto mostruoso di desiderio tridimensionale, che dal vivo ha la stessa consistenza straniante di un personaggio dei cartoni. La donna accoglie il devoto, tremante e sconvolto, con indifferenza assoluta, come una statua vivente, a condizione di aver varcato ogni soglia del pudore, di essere capace di tutto proprio in questa vendita totale del corpo, che è tutt’uno con il suo essere. Almeno così sembra, finché lui lentamente deraglia in una zuccherosa pazzia e lei, la dea spampanata, piano piano cade in una follia strana, e basta un anno in più o un lifting andato male per portarla al suicidio. A tal punto è pericolosa la ricerca di una felicità corporale del tutto amorale e asociale, giacché il pudore non è nulla di naturale, ma è la morale sociale stessa col suo immane imene protettivo. Lo stilnovista invece, anch’egli un monomaniaco, proprio nella rinuncia al sesso, che resta la fonte della sua ossessione, rilancia all’infinito l’immaginazione del piacere è costruisce così una vita salda e poetica, ingegnandosi di trovare infiniti ostacoli al possesso, o di ingigantire quelli reali, al fine di rendersi impossibile il godimento attuale, e nello stesso tempo sublimandolo – perché in questo caso Freud è più che pertinente – e reinventandolo fino a scrivere una Divina Commedia. Da tutto ciò si ricava che le fonti del piacere non vanno disseccate o intaccate mai bensì orientate verso la salvezza, tanto più forte è l’impulso erotico che le ha generate, come in Dante certamente lo era. Perché altrimenti farsi guidare in Paradiso da una donna che aveva il pur grande ma solo pregio di essere amata da lui? L’arte della prudenza La prudenza è un’arte che si impara a praticare quando è troppo tardi ed è ormai possibile soltanto seminarne i frutti senza poterli raccogliere. Essa infatti ha bisogno di un tempo molto lungo davanti a sé, nel quale i suoi semi, incubati nei campi più disparati, hanno 559 qualche occasione di poter germogliare. Ma il giovane non è affatto disposto all’impresa. La gran parte dei danni e delle offese che riceviamo dagli altri dipendono infatti dal troppo che diciamo e facciamo mentre il non dire e il non fare, in cui consiste in fondo l’arte della prudenza, sempre che pratichiamo nel contempo le persone dalle quali possiamo sperare un sostegno, maturano molto lentamente, e soltanto quando la nostra presenza è diventata così familiare da meritare quella stima tranquilla che si è soliti tributare a chi non ci ha dato ragione di pericolo e di minaccia. Allora puoi tirar fuori le tue qualità, anche se preponderanti rispetto a colui che altrimenti cercherebbe di soffocarle, anche perché tenderà sempre a ridimensionarle per la memoria della tua innocuità e durerà del tempo prima che si accorga che finiranno per metterlo in ombra. Convivere tempi lunghissimi con altri uomini, senza mai far trapelare i nostri piani, è la prima regola di chi abbia ambizioni di carriera in qualunque campo. Tu devi prima di tutto rassicurare, non soltanto essere modesto e leggermente tonto, quasi distratto, ingenuo, non soltanto figurare di non dar peso a quello che fai ma neanche dare prove troppo smaccate di te, che farebbero subito scattare l’allarme. Il fatto è che chi è disposto a questa lunga pratica di prostrazione e mimetismo, nelle università, in politica, nelle aziende, finisce col tempo per diventare tanto modesto quanto sembra, tanto spento quanto figura, e quando finalmente si può permettere di esprimere un talento per così lungo tempo tenuto in letargo e in coma controllato, quello ormai non sussiste più. È esperienza comune che le reazioni degli altri verso di noi dipendono soltanto in minima parte dalle nostre opere e molto di più da episodi remoti, da atteggiamenti assunti da noi anni o decenni prima, da battute dette o presunte o riferite, all’epoca da noi considerati innocui, o perché le nostre critiche e sfavori andavano a colpire uno che allora non contava nulla o perché mai avremmo 560 pensato che ci sarebbe stato utile colui che nulla lasciava sperare di sé vita natural durante. La prudenza ci dice appunto: tratta bene tutti perché potrebbero diventare chiunque. Ma trattali bene in modo documentato e attendibile, il che francamente è estenuante. Non ti servirà a niente lo stesso, ma almeno saranno convinti che tu, riconoscendone il valore, sei un giusto. Ma proprio quelle persone insignificanti, criticare le quali sembrava così naturale da non poter essere addebitato al nostro malanimo o alla nostra severità, quasi sempre sono diventate uomini di successo e di potere, dislocati nei posti chiave dai quali dipenderà la nostra sorte. E sarà impossibile rimediare perché, a dispetto di ogni nostro atteggiamento cortese e favorevole, sempre si ricorderanno del poco conto nel quale li abbiamo tenuti un tempo, in uno scritto, in un incontro, in una cena tra amici. E anche se la nostra disistima era così riservata da rasentare l’inconscio, da non rendercene conto neanche noi, lo stesso essi l’avevano fiutata, e crudelmente sofferta, da un gesto mancato, da un’omissione di lode, da un silenzio circospetto, e a null’altro penseranno, quando ci presenteremo al loro ricordo, che di vendicarsi con altrettale silenzio. Mentre quelli che dall’inizio manifestavano talento in qualche campo e avevano il nostro consenso più convinto, molto spesso troverai che, avendo salvato il talento, non hanno guadagnato però null’altro, e tristemente potrai specchiare nella loro la tua mancanza di potere. Meditazioni in Cristo Tutto Dio, tutto Cristo, Tutto Dio, tutto uomo. Tutto uomo, tutto Dio. Cristo figlio di se stesso, Dio padre di se stesso, Cristo padre del figlio Dio, l’uomo figlio e padre di Cristo e di Dio. 561 L’amore è lo Spirito Santo. Amante amato, amato amante. Si dice sempre che non va amato l’amore ma l’amata. Eppure amando sempre si crea l’amore, che è un terzo, e senza amore non ci sono neanche gli amanti. Questo si sperimenta quando si ama, ed è da questa esperienza che nasce la Trinità. C’è molto da riflettere su questa linea maschile di trasmissione dell’amore. Dio infatti è padre e madre (come lo si chiama in un punto dell’antico testamento) ma dal punto di vista antropologico, gli si attribuisce un carattere sessuale maschile. Cristo è maschio. Il fatto che le donne siamo più religiose degli uomini dipende da questo? Esse si buttano più naturalmente su un amore sublimato con l’altro sesso. La Madonna è vergine e madre. Ma sono sempre le donne a esserle più devote. Si vede che il loro sogno proibito è essere insieme vergini e madri. Se devo entrare in un abisso posso liberarmi dai caratteri sessuali, edipici, filiali? La stalla della nascita di Cristo. L’amore è in grado di passare dal puntiforme al cosmico. Amore è un filo di capello, un soffio sottile, una cruna. Se non passi nella cruna minima non attingi il massimo. Il moscerino non è nulla. Ma si potrebbe scrivere un trattato su i esso. All’istituto Max Planck hanno studiato per due anni l’occhio di una mosca, a dire il vero per progettare bombe intelligenti. Se tu vedi un moscerino posarsi sulla pagina di un libro ti accorgi che è un nonnulla, un quasi niente, un alito appena di vita insignificante, eppure tra il moscerino e il nulla c’è un abisso. Il bisogno di essere piccolo, l’umiltà come terapia. L’intimità come bisogno profondo e fisico che corrisponde al riconoscersi molto piccolo. I nazisti hanno ucciso gli ebrei perché erano nazisti non perché gli ebrei erano ebrei. 562 Uccidere è uccidere, e nient’altro. Per questo è così difficile trattare il crimine e i criminali. Non puoi che separarli dalla vita, dalla società, da tutto. La Madonna ha mai detto a Gesù che era stato concepito dallo Spirito Santo? Non le dava la vertigine dire al figlio che era figlio di Dio? E alle amiche lo aveva confidato? Era una ragazzina. Allora si diventava maggiorenni a undici anni e un giorno, e si poteva maritare una bambina che aveva sviluppato. Oggi avrebbero fatto l’esame del codice genetico alla ricerca del genitore. E cosa avrebbero visto? E, non trovando il padre, cosa avrebbero concluso? Gesù si è trovato contro tutti. Era combattivo, audace, mancava del tutto di prudenza. Hai pensato fino in fondo. Hai solo pensato. Chi più pensa più ne vede i limiti. Il campione del mondo dei cento metri sa quanto va piano un uomo. Fare una maratona e all’improvviso mettersi a correre in tondo a tutta velocità. Pensare la realtà: Cristo ha cambiato la vita in due millenni di milioni di persone. Esistono santi locali, regionali, uomini e donne illuminati, ammirati, missionari, dediti alla carità, ai quali ci si rivolge con devozione per giorni, mesi, anni, sono decine, centinaia, migliaia. Ma soltanto Cristo accende chiunque lo conosca e dovunque, credano o no nella sua natura divina. Come mai? Ci è indispensabile. Non credo che sia figlio di Dio. Ma allora come mai proprio lui? Ha trovato il nucleo paradossale e scandaloso della vita e il modo per trasformare l’assurdo doloroso in assurdo gioioso. E qual è questo nucleo? Ieri notte, nell’albergo Aurum di Berlino, lo sapevo. Ora non lo ricordo più e soltanto perché non avevo voglia alle due di notte di alzarmi e scrivere. 563 C’ero andato vicinissimo: al genio della vita, alla fonte incandescente, al salto mortale che rovescia più di una volte le cose, alla realtà delle realtà. L’amore è potente e raro perché appaga l’altro e sé, cosa che non capita mai. L’umiltà, la mitezza, l’audacia sono terapeutiche. L’amore è guaritore. Cristo amando insegna a Dio ad amare. Gli dice, visitando le contrade selvagge e basse che Egli non può conoscere. Guarda che i tuoi figli sono degni di te, puoi amarli! La sua spedizione nel pianeta terra non lo ha deluso, anzi lo ha appassionato. Cristo muore, e questo è un bel colpo per un Dio eterno. E rinasce, e così si riavvicina al senso, ma sempre scandalosamente. Pensiamo tuttavia a un primo colpo ignorato da tutti noi, perché molto naturale in apparenza. Cristo nasce. Dio nasce! Questa è la cosa decisiva e più scandalosa di tutte, perché tutto il resto ne consegue. Dio ha desiderio di nascere, snobba l’eternità. Insemina una donna, grazie alla Colomba, per nascere. Così facendo Dio dice la dignità della nostra vita, scoppia come Dio, si sacrifica già allora. Anche Zeus inseminava con una pioggia d’oro la sua amata nascosta dal padre in un sotterraneo con poche fessure per respirare. Scambi d’amore tra dei e uomini non sono nuovi, ahimè. Il Vangelo dice che lo Spirito Santo episkiasei, inombra, ombreggia, oscura, Maria. L’inseminazione è un adombramento, una copertura di nube, di spirito. Maria si scopre incinta e non sa come. Le hanno versato il seme nel sonno? Ne hanno controllato la verginità, come allora era usanza? Come hanno reagito tutti suoi familiari? E Giuseppe? Di sicuro nessuno le ha creduto, eppure, guarda caso, quel bambino concepito in quel modo così strano e unico era proprio Gesù. Anche questo è molto strano. A meno che non si sia costruita a posteriori una nascita tanto miracolosa. 564 Gesù non è figlio di Dio, le gravidanze delle vergini non sono possibili. Eppure abbiamo bisogno ancora di Gesù, di un ragazzo vissuto duemila anni fa in Galilea. Perché? Riflettiamo sul mistero dell’esistenza di un miliardo di cristiani. Un fatto che non si può eludere. Un ragazzo morto giovane ci è indispensabile. Senza di lui la vita sarebbe più dura e le sponde di pietra potrebbero farci molto più male. Ma se non fosse Dio non sarebbe un’idolatria esagerata? Prudenza vorrebbe di accettarlo come modello, anche perché almeno io non posso farne a meno. Quanto vorrei venir liberato dal Padre che, se non ci fosse Cristo, avrei già dimenticato come un ricordo ingombrante dell’infanzia o temuto come un gigante immenso. In un pianeta di sei miliardi un uomo è Dio, uno solo conta per un miliardo eppure vive e muore più crudelmente di tutti gli altri. Pensiamo a fondo la cosa, pensiamo a fondo Cristo uomo, solo uomo, e pensiamo a fondo la realtà bimillenaria del cristianesimo. Quanta gente ha amato, sofferto, bestemmiato, sotto quanti cieli e con quante trasformazioni vertiginose. E non ci siamo ancora schiodati da lì né c’è alcun segno che nei secoli a venire ci schioderemo. Siamo tutti ossessivi o è stato trovato qualcosa che non si può più perdere, neanche volendo. Quanto è difficile per noi cambiare una sola persona. Io ho cambiato mai nessuno? Per qualcuno sono stato e sono indispensabile? Per la mia famiglia sicuramente sì. Ma c’è al mondo qualcuno che senza di me non sarebbe stato lo stesso, al quale ho dato con i miei scritti, col mio insegnamento, con la mia parola la chiave di un cambiamento irreversibile e profondo? Eppure non mi mancano qualità umane e intellettuali, sono tra le persone più colte e buone, eppure non ho sortito nessun effetto decisivo in un altro, pur dando fondo a tutto quello che c’era nel mio cuore e nella mia mente. 565 Di fronte a Cristo uomo io sono nessuno. Di fronte a Cristo Dio torno a essere qualcuno. Se Cristo fosse solo uomo sarebbe troppo grande per chiunque. Cristo solo uomo nei suoi trentatré anni di vita sarebbe già sproporzionato per chiunque ma nei suoi duemila anni di trasformazione dell’animo di miliardi di credenti e non credenti cosa sarebbe? Maometto ha cambiato la vita di un miliardo di persone, ma è un profeta e non un dio, perché nessun uomo lo ha visto abbastanza grande da poter essere considerato un dio. L’adorazione che allora gli viene rivolta ha per forza qualcosa di esagerato, di forzato. Se non è abbastanza grande da essere considerato un dio perché adorarlo tanto? I musulmani, onesti, che se ne accorgono, adorano soltanto Dio. Adorare un uomo, nel senso che nessuno lo può criticare né rappresentare, è brutto, è malato. Cristo è solo in quanto Dio, soggetto di un amore bimillenario. Ma perché? Cristo è stato scelto come Dio. Da chi? Da Dio o dagli uomini? Comunque è stato scelto. Potrà mai qualcuno in futuro essere considerato Dio da milioni di uomini, fondando una nuova religione in qualche parte del mondo? Gli uomini capaci di parlare ai millenni sono vissuti solo millenni fa? Berlino, 2 novembre I beniamini della vita La festa immeritata della vita, l’inno a qualunque vivente. La gioia di vivere è la gioia di essere i favoriti. 566 A Berlino tutto ci parla dei morti delle due guerre. Perché non sono stati scelti a vivere? La elezione a vivere non è forse la vera elezione? La giustizia imperscrutabile divina. Perscrutabile quella umana? La giustizia umana è chiara? La selezione colpisce sempre in modo bislacco. Idioti, canaglie, deficienti, esuberanti e ciarlatani non vengono mai colpiti. Mediocrità, banalità, bonarietà, ripetizione collettiva e massacrante, odiosa e perversa bestialità producono la virtù. La cacca diventata cibo. Berlino, 3 novembre Cartoni animati Quando gli uomini tornano animali, non come bestie pazze, che non esistono quasi mai, ma come quiete e civili bestie parlanti, ciò che hanno colto i cartoni animati: il criceto, la gazzella, la gatta, il cavallo umani, tutti riuniti in branchi e con abitudini e usi placidamente, incorreggibilmente, simili ai loro. Il dialetto Nessun dialetto è brutto, si dice. Ma non è vero, ce ne sono di musicali e di orrendi. La bruttezza del dialetto rivela la bruttezza interiore di una gente o la sua mancanza di senso musicale? Si tratta di una distinzione puramente estetica, tutt’altro campo della sua morale e del suo valore. Esistono anime oneste e brutte. Il dialetto tradisce lo stato dell’anima molto più della lingua nazionale, più sofisticata nel nascondere, essendo entrata nell’uso pubblico e vocale solo da qualche decennio in tutt’Italia, quando il quoziente di artificiale e finto era già smisurato. 567 Il dialetto crea una comunità lessicale, tonale e sonora, rassicurante per coloro che lo parlano ma esclusiva per coloro che non lo parlano. Per quanto studi, se non sei Gerhard Rohlfs, non riuscirai neanche lontanamente a parlarlo come chi in quella comunità sonora è nato, quindi sarai un diverso, un escluso. C’è una violenza nel dialetto, un’esclusione codificata alla nascita, alla quale non c’è scampo. Essendo il valore dato dall’origine, chi viene da fuori, perché nato fuori, è per sempre lo straniero. Ai cantori della profonda umanità del dialetto andrebbe ricordato che esso è nato per la tutela gelosa di una comunità che non vuole forestieri tra i piedi e che ha studiato un modo per riconoscerli appena aprono bocca. Patetici e ridicoli quei meridionali che vogliono a tutti costi parlare lombardo e generano un miscuglio tonale che non è né carne né pesce, denotando mancanza di fierezza ma anche e soprattutto la violenza subita, che li spinge a cercare di essere accolti in una comunità fonetica, rimarcando con la loro lingua mista che è impossibile. Come fai a essere nato dove non sei nato? L’uso del dialetto non inganni: tutta la cucina è regionale. I toscani Anche i toscani usano le loro cadenze affettate per distinguersi, quasi essere toscano fosse un merito innato. Ricordo che, quando ero soldato, essi soli si erano radunati tutti a dormire in una stessa camerata, cosa che per un lombardo, un piemontese o un veneto sarebbe stato inconcepibile, almeno a quei tempi. E con la lingua sempre calcata, a voce alta, esibita, smaccata non facevano altro che ribadire che erano toscani. Se avessi rimarcato il fatto avrebbero reagito con un silenzio sdegnoso o con ironie salaci. 568 Frequentandoli per un anno ho osservato però che la loro superbia e sicurezza di sé, sempre ostentate, e imitata gli uni dagli altri, non si esprimeva mai con parole arroganti contro gli altri, della stessa o di altre regioni, con irrisioni e con beffe sprezzanti, come quei toni e quei modi avrebbero dovuto far pensare. Ma, al contrario, rispettavano gli altri in ogni occasione, sia presi uno per uno che messi insieme. La loro superbia rimaneva come un a priori antropologico, come attitudine, come maschera ma, fermo restando che essi solo erano toscani, del che nessuno poteva e doveva dubitare, erano quasi tutti sensibili, pazienti, modesti, capaci di ascoltare e capire le situazioni altrui con delicatezza, anzi spesso venati da una malinconia sincera e imbattibile, forse connaturata al loro vigore. La superbia e il senso di superiorità possono rimanere in stand by anche per sempre, come nel caso dell’uomo del nord verso quello del sud, nel contempo frequentandosi, rispettandosi, stimandosi, basta che non si dubiti che venga meno la distinzione, la quale resta come forma a priori. I fiorentini Anche se i fiorentini di oggi nulla hanno a che vedere con Dante, Giotto, Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Michelangelo, nati o operanti a Firenze, abitano e nascono dentro la ricchezza artistica e culturale come in una villa magnifica che hanno ereditato, perché discendenti genetici della famiglia che l’ha costruita. In gran parte essi, soprattutto se borghesi, ignorano o disprezzano addirittura l’arte ma guardando con superiorità tutti coloro che fiorentini non sono, non sentendosi affatto i custodi della villa ma i proprietari, il che inzucchera ed esalta il loro orgoglio e il loro alto sentimento di sé, anche se non abbiano combinato niente di speciale oggi. Sapremmo dire il nome di un pittore, di uno scultore, di un architetto, di un artista, di un romanziere, di un poeta, dopo la morte 569 di Mario Luzi, ultimo erede nobile e fervido di quella tradizione, fiorentini che non dico siano alla pari con loro ma almeno guardino con disciplina e passione a quegli antenati immaginari di cui tutti si vantano come fossero carne della loro carne? Ma ecco che i quarti di nobiltà simbolica tornano a contare, anche per il solo fatto di essere nati cinque o sei secoli dopo nella stessa terra un genio innato aleggia in loro. Nei ceti popolari invece, o in chi sa di popolo, qualunque sia la sua ricchezza, tu trovi una mancanza di spocchia che te li fa subito sentire più congeniali agli antenati. I fiorentini parlano sempre a voce alta, rimarcando a ogni parola che sono fiorentini. E dopo un po’ sei portato anche tu ad alzare la voce, a prendere le loro intonazioni perché, se parlassi in modo naturale e pacato, sembreresti uno straniero e un pesce fuor d’acqua, pur restandolo altrettanto nella penosa imitazione. Così ti senti più straniero a Firenze, alla civiltà della quale ti sei nutrito fin dall’infanzia, che se fossi in Manciuria, dove magari sarebbero interessati a come parli tu. Godere dei vestiti Un’analogia con gli animali che cambiano pelliccia e piumaggio si trova nel modo in cui le donne e gli uomini godono i tessuti sulla loro pelle, cercando un’intimità e una calma di fondo nella lana dai colori bene abbinati e finiscono per sentire come una seconda pelle le sete e i cotoni di cui si rivestono. Tristezza e buonumore vengono assorbiti dai vestiti, dando la sensazione del passero che quando dorme si gonfia nel suo piumaggio o nella volpe che si appallottola nella tana. Questo modo di godere dei vestiti era molto più forte da ragazzo e quasi nullo oggi, perché è sempre più difficile godere una situazione fisicamente intima, sentendosi con gli anni sempre più stanati e, in certi casi, aumentando persino la fretta di incontrare il cacciatore, non per farsene uccidere ma per sfidarlo pericolosamente nudi. 570 L’intimità invernale è molto sentita dai tedeschi e dai popoli nordici, soprattutto verso Natale. La sensazione è che ci siano veri e propri ormoni dell’intimità che secernono sostanze odorifere e letifere. A Norimberga, già a novembre, luci, neve, giocattoli, dolci, libri, castagne, nel freddo denso e cotonoso fanno capire che l’intimità è il modo tedesco di percepire l’infanzia e il Natale un modo per tornarci. Banalità mondiale La sgargiante, eccitata, volgare, smaniosa, presuntuosa, rumorosa, sferzante dissonanza della società delle comunicazioni, nella quale si comunica ciò che non si sa e ciò che non si è, ma nel modo che si sa e si è, a persone che non ci credono ma si comportano come se ci credessero, per il godimento di vedere altri svergognarsi e per la pigrizia di non esporsi, è il modo più desertico di non comunicare che si possa immaginare. Uno che mi perseguita e soffoca parlando incessantemente mentre io ho la sola libertà di farmi soffocare da un altro parlante in altro canale o di camminare da solo in una città in cui tutti si fanno soffocare da qualche parlante. Nella tele-società gli uomini e le donne deformati ripugnano ma chi lo dice ripugna anche lui perché è un asociale. Lo spettacolo più deforme e la letteratura più atroce acquistano pregio in virtù del numero degli ascoltatori e dei lettori. Il numero impazzito. Pensare è diventato inutile alla costruzione della vita sociale. Ma è indispensabile per sopravvivervi. Dite una qualunque banalità: c’è almeno un miliardo di persone che la pensa come voi. Dite una cosa nuova e intelligente: almeno un miliardo di persone capisce che lo è ma sa pure che è inutile ascoltarla e dannoso condividerlo. 571 Berlino, 5 novembre Santi potenti e impotenti Immaginate un santo che cominciasse a frequentare giornalisti televisivi, politici, veline, imprenditori, comici, pubblicitari, conduttori, presentatori: gli spettatori sarebbero scandalizzati. Ma ciò vorrebbe dire che i santi non li considerano veramente perduti ma degni di predicazione. Immaginate un santo che si metta a predicare a mafiosi e camorristi, dicendo che sono pecore nere e smarrite, e che quindi il buon pastore deve stare in mezzo a loro. Come minimo verrebbe imputato per complicità. Perché? Il buon predicatore può stare con i peccatori solo se la sua presenza li spinge a smettere di peccare. Non se essi continuano, altrimenti la sua santità si rivelerebbe impotente e complice. Maschi, femmine, neutri Da ragazzo osservavo mani, occhi, capelli, altezza, colore della pelle dei maschi per confrontarmi, cosciente della pressione selettiva delle donne, benché l’impresa fosse difficile e ansiogena, perché i corpi degli altri maschi mi stavano così addosso da colpirmi in modo troppo vivido i sensi e l’immaginazione Quando un uomo raggiunge i cinquant’anni o è sposato, è libero da questa spinta a migliorare la specie che vede negli occhi avidi e spietati delle donne. E proprio allora le donne cominciano a interessarsi a lui. Nella donna genio naturale e banalità si attraggono e completano in una mistura deliziosa. Nell’uomo si distruggono a vicenda, con la vittoria del primo o, molto più spesso, della seconda. 572 Una donna nevrotica è pur sempre una donna. Una donna anoressica si uccide pur sempre da donna. La lesbica resta donna nella testa. L’uomo nevrotico perde la virilità e si uccide da neutro. Se omosessuale invece salva la sua mascolinità. L’omosessuale maschio sente troppo la sua propria mascolinità. L’omosessuale donna sente troppo poco la sua femminilità. La differenza è cruciale, perché la femmina omosessuale è spesso mascolina ma il maschio omosessuale di rado è effeminato. Il maschile, il femminile e soprattutto il neutro, il terzo sesso che sta dilagando come un’epidemia di cui nessuno si accorge. Una malattia finita Stiamo andando verso gli ultimi decenni del capitalismo? Le fonti energetiche sono prossime a finire? Cosa accadrà poi? Vedo una grandiosa e solidale fratellanza per sopravvivere, macchiata da delitti cruenti, percepiti come catastrofi naturali. Saranno tragedie, mostruosi conflitti, clamorose generosità e metamorfosi commoventi ma, se dio vuole, questa malattia sarà finita! Le società gloriose sono brevissime. Poter vivere in uno di quei periodi e in posizione da poterli godere. Per secoli si rielaborano quei picchi, senza riuscire a consumarli. Berlino, 6 novembre Specialisti nel creare i complici Non sono poche le persone specialiste non soltanto nel criticare gli altri perennemente ma nel trasformare l’ascoltatore in un complice. Di fronte al silenzio o al semplice ascolto, non potendo colui che assiste al bombardamento di una persona essere costretto a lodarla in modo smaccato soltanto per disimpegnarsi, queste persone inducono che tu sia d’accordo con loro, non opponendo altra 573 resistenza che il silenzio, e trovando naturale che tu la pensi come loro. Non essendo infatti possibile che un ascoltatore sia tanto villano da rovesciare i detti di un amico, del tutto convinto nell’addossare il male addosso a un assente, finirà per passare da complice. Così lo specialista della critica non solo si convincerà che tu sia d’accordo con lui ma dirà a tutti come tuoi i suoi pensieri, guastandoti con una quantità di persone che ti odieranno, senza che tu non solo ne sappia niente ma non possa fare niente per rimediare e correggere l’equivoco. Se invece resisterai in modo attivo, non dico capovolgendo le critiche in lodi, perché diventeresti offensivo, e susciteresti indignate denunce di incomprensione, ma temperandole, susciterai subito l’ira di chi ha deciso di importi il giudizio severo che non è tuo. Romperai con l’amico, passerai per un ipocrita, e comunque ti troverai lo stesso a passare per colui che critica, perché l’amico offeso troverà molto più naturale addossare davanti a tutti su di te il malanimo che ha manifestato lui, visto l’uomo doppio che sei. L’unica soluzione di fronte a questi denigratori per interposta persona, a questi scaricatori di responsabilità, è di dichiarare con semplicità che la vittima degli insulti è un tuo amico. Così l’accusatore dovrà arretrare, senza che si entri affatto nel merito delle presunte colpe. Disarmerai l’attacco, pur passando per uno di quegli uomini buoni che, per questa stessa ragione, finiscono per non guardare mai in faccia la realtà. Gli insultatori Più di una volta ho verificato che i grandi insultatori del loro prossimo, i più dogmatici e convinti assertori dei loro giudizi stroncatori, cambiano idea con la velocità del lampo non appena ricevono, o sperano di ricevere, un favore da coloro che hanno disprezzato. 574 E il loro cambiamento di giudizio non si limita al campo morale ma investe in pieno anche quello sulle opere dell’ingegno, le stesse che giudicavano una vergogna del genere umano, e nelle quali riscoprono bellezze segrete e nascoste tra le pieghe, in un primo tempo invisibili. Se tu frequenti persone che non stimi o con te non congeniali, prima o poi lascerai trapelare il tuo giudizio e la tua antipatia e finirai per far loro torto, volente o no. Molto più sicuro non frequentarle affatto, così potranno pensare che, benché esse appartengano allo stesso genere di altre sulle quali ti sei espresso in modo negativo, loro possano per qualche ragione costituire un’eccezione e, non avendo tu avuto l’occasione di fare loro un torto, serberai una verginità che non ti nuocerà al momento opportuno. La gran parte della fatica che spendiamo nelle relazioni umane è infatti volta proprio a che gli altri non ci nuocciano. Amati dai mostri Tanti uomini sono dei mostri per me, letteralmente, e io sono un mostro per tanti, benché magari innocui e simpatici. Qualcosa di estraneo, di incompatibile, di indigeribile. Inutile forzare la situazione, meglio riconoscersi con i simili, con quelli che sono umani per noi e per i quali siamo umani noi. Ma come è forte la tentazione di essere amati dai mostri, di cercare di amarli. Così, a maggior ragione, a maggior irragione, saremmo molto più sicuri dell’amore di tutti gli altri. Esistono scrittori di gran valore che hanno pochissime probabilità di trovare persone simili in grado di riconoscerli e pubblicare un loro libro in diecimila copie diventa impossibile perché gli editori, che lo sanno, non possono rischiare di fallire affinché essi trovino i loro confratelli. Perché quelli che non sono confratelli non saranno più neanche ostili ma del tutto indifferenti. 575 12 novembre I beni dell’indifferenza Ci lamentiamo sempre dell’indifferenza altrui, condanniamo l’insensibilità ai mali sociali, alla solitudine, al dolore, ai problemi degli infelici, dei malati, degli emarginati. E facciamo bene. Ma l’indifferenza non sempre è negativa e anzi a volte è addirittura salutifera. Che le persone che ci sono vicine non soffrano per i nostri stessi problemi, non vivano in modo drammatico ciò che per noi è doloroso, restino tutte e sempre comunque prese da se stesse di fronte al melodramma che noi stessi costruiamo, il più delle volte per un impulso ossessivo, per pigrizia, per il conforto ambiguo di approfondire un solo male, reale ma non mai l’unico esistente, e il più delle volte non il più grave possibile, fa sì che proprio l’indifferenza degli altri, e specialmente del prossimo, e soprattutto quando è chiaro che non c’è una strategia sotto ma una naturale incapacità di cogliere ciò che per noi è tanto rilevante e pernicioso, ci conforti, ci tranquillizzi e ci faccia del bene. Se infatti una persona cara non dà mostra neanche di percepire la realtà feroce che noi crediamo di subire vuol dire che forse, se non è una nostra invenzione, perlomeno è una nostra esagerazione. Ma se anche fosse qualcosa di vero, cruciale e dannoso, proprio l’indifferenza, per esempio della gente per strada, che continua a essere presa dai suoi esclusivi problemi, del tutto diversi dai nostri, e il più delle volte incomprensibili per noi, è ciò che ci rimette al mondo e ci dà la forza di ricominciare. Quando abbiamo una pena violenta l’unico scampo non è isolarsi ma cercare persone del tutto indifferenti. Per converso, quelle persone che dicono di amarci, e magari veramente ci amano, ma che ci pedinano in ogni emozione, espressione, atteggiamento, stato d’animo, intervistandoci 576 premurosamente sulle pieghe del nostro cuore, a mano a mano che si formano, marcandoci con la loro attenzione e sensibile ascolto e interlocuzione, ci danno la sensazione non soltanto che ciò che ci sta accadendo sia serio e grave ma che qualcosa di terribile stia per covare o che sia sempre e comunque sul punto di covare, cosicché non siamo più in grado di pesare l’entità reale dei nostri mali, e cominciamo a vedere la vita come un’acrobazia sulla corda dove ci sono appunto due possibilità: alla peggio cadere nel vuoto e, nel caso migliore, restare sulla corda dalla nascita alla morte, il che suscita, specialmente nei figli verso i genitori che così si comportano, reazioni giustamente rabbiose, oppure la voglia almeno di simulare con scene grandiose quella caduta che loro sembrano tanto temere. Così mia figlia da bambina, quando le si diceva: “Attenta che ti fai male”, rispondeva con uno sguardo ironico e ribelle: “Ma io voglio farmi male!” La tendenza dei ragazzi a far rumore e a scatenarsi vivendo a oltranza di notte, in discoteca, in casa, in spiaggia, per strada rivela l’incapacità di tesaurizzare la vita e risparmiare le energie, unica fonte di serenità sulla terra. Ma loro non vogliono essere sereni. 21 novembre Il male in abito di bene Tra le forme di male presenti nel mondo, oltre quelle vòlte apertamente alla distruzione, al dolore e al danno degli altri, come l’assassinio, la violenza, lo stupro, ce ne sono di sottili e micidiali in abito di bene o sotto maschera di ipocrisia inconscia, che risultano talmente sottili e inafferrabili da sfuggire a qualunque vaccino e contromisura. Genitori sempre in ansia per i figli che lentamente li svuotano di ogni vita, insegnanti sempre trincerati dietro nobili principi che dissanguano e colpiscono di continuo i loro studenti, datori di lavoro che martoriano per il loro bene i dipendenti, preti che mortificano negli oratori i ragazzi più vitali e innocenti, donne che escruciano i mariti, devitalizzandoli e castrandoli con un lento 577 processo assuefativo di morte giornaliera, fatta inspirare minuto dopo minuto finché quasi non sussisterà differenza con la morte fattuale, se non per un sussulto e un incresparsi minimo dell’onda vitale. Tutti coloro che fanno il male in abito di bene, o per mezzo di una istituzione volta al bene, come preti pedofili, infermiere assassine, padri stupratori delle figlie, insegnanti sadici, genitori mortiferi sono da giudicare molto più severamente degli altri, perché non c’è demonio peggiore di quello che indossa il costume da angelo. Esistono pirati, corsari, killer, torturatori, sadici, mostri, satanassi che sfuggono del tutto al controllo della legge perché non commettono reati ma si insinuano con diabolica abilità non solo tra le pieghe del codice ma tra quelle delle relazioni umane, perseguendo il male altrui con ferocia senza mai farsi scoprire, o alternando il bene al male, ma facendo i generosi con alcuni solo per mimetizzare i colpi che daranno indisturbati al debole, nell’incredulità generale e nel massimo del segreto, o ammantando di parole mielate e di un vittimismo sofisticato ogni vendetta che si prenderanno per puro piacere di male su coloro che non avranno i mezzi non solo legali ma neanche psicologici per smascherarli. Questi uomini, giacché le donne colpiscono sempre più apertamente, benché in modo più inesorabile e ferreo, godono alla spicciolata le loro soddisfazioni sadiche, sparpagliandole in un’intera vita, non avendo il coraggio o la grandezza per un male grandioso e aperto. Come ci sono vigliacchi nel bene, don Abbondi che fanno il male per omissione e paura dei prepotenti, così ci sono vigliacchi nel male, che campano a lungo e, nascosti gratuitamente, sferrano i loro dardi avvelenati tra profumi e canzoni di festa. Vivere a lungo vuol dire scoprire il male torpido insito in ogni uomo, vederlo dispiegare nella sua scia morbosa e monotona, simile allo stridio unisono degli uccelli notturni, rivelarne il carattere animale, cioè la bava evolutiva senza salto e senza variazione, ciò che da sempre c’è di umano nell’animale, per dir così, e che all’animale torna. 578 Non ti sopporto felice Vi sono persone che non sopportano felici le persone care. Ogni loro gesto di allegria, ogni loro esuberanza, le ferisce e le innervosisce mentre, se le vedono sofferenti e malate, sono pronte a prodigarsi con pazienza infinita. O per gelosia di un bene che non sanno godere, non essendo inscritta nel loro carattere la semplice gioia di vivere, o per l’invidia verso un essere indipendente, o per la sintonia grave con tutto ciò che nella natura è sofferenza e pena mezzana senza guizzi e crolli, essi simpatizzano solo con colui o colei che vive un dolore in modo scontroso e incosciente, e sono disposti a sopportarne i capricci e le insolenze a vita, basta che sia comprovato che soffra e non sappia come uscirne fuori. Sono contente che una persona stia meglio e provi sollievo ma, appena s’accorgono che la guarigione è durevole e che il gusto di vivere prorompe in lei, ecco che la molestano, la provocano, ne pungono l’allergia con tali arti che la persona risanata percepisce, se giovane, come colpa il suo stato di benessere, e, se adulta, come disturbo all’equilibrio di colei che lo aveva fino a ieri soccorso amorevolmente, finché pativa. Riservandosi così o di fingere all’occorrenza di star male, o di esagerare i sintomi di un malessere, e finendo per non trovare tanto terribile lo star male, se perlomeno sarà confortato da una così provvida e paziente assistenza. Amare non è essere buoni Se qualcuno conosce il nucleo intimo, il vertiginoso punto profondo del desiderio, la fonte da cui zampilla ogni nostra speranza di felicità, ciò che abbiamo di più proprio e naturale e che, ferito, scatena dolori lancinanti, assecondato, ci promette una felicità perlomeno immaginata. Se qualcuno conosce questo nucleo e nondimeno, o forse proprio per questo, ce lo mortifica, con mira infallibile e da quando siamo nati, magari anche allo scopo di metterci in moto, di farci rialzare dal letto e reagire, di farci combattere per vivere, 579 strappando un altro centimetro al nemico, ditemi voi se potrà essere buono. Vedi che amarci non soltanto non vuol dire essere buono, ma il suo contrario. Probabilmente sapere troppo di noi provoca subito una cattiveria selvaggia. Di qui la riservatezza indispensabile tra gli uomini. Ma si potrà ammettere mai una consimile, e forzatamente più penetrante cattiveria in Dio, il solo che ci conosce e ci rovescia come un guanto, a quanto ne dice la religione cattolica? E se soddisfare questo nucleo segreto, o anche solo accostarci ad esso, ci è impossibile, mentre la sorte va a toccarlo di continuo, a pungerlo o a offenderlo, come se la vita non consistesse in altro che in questa continua puntura sul vivo, questa continua stimolazione mortificante del nucleo intimo del nostro desiderio, non dovremmo pensare che buono e cattivo, benefico e dolorifico, siano veramente nozioni insufficienti da attribuire a Dio? Cristo esiste, Dio non lo so. Ma di sicuro non è amabile. Esso precede la civiltà e assomiglia grandiosamente, senza esserlo affatto, proprio a colui che viene così chiamato e ritratto nell’Antico Testamento, il Dio degli eserciti. Francis Bacon il pittore Che il male esista è doloroso ma non terribile, nella misura in cui esso possa essere isolato, se non nella realtà, almeno nella conoscenza. Ma che il male sia indispensabile quanto il bene, questo sì è terribile e tragico, eppure è quanto di più naturale possa esserci. Lo sperimentiamo per esempio nella pittura di Francis Bacon, della quale posso parlare, avendone visitato una vasta esposizione al centro Pompidou di Parigi, visto che di un pittore si può sperare di dire qualcosa di sensato solo vedendone largamente le opere dal vivo. 580 Se noi guardiamo un quadro di Bacon, vediamo la deformazione spaventosa dei volti e dei corpi. Ma la anamorfosi mostruosa delle figure, la dolorosa sfigurazione dei volti e il massacro dei corpi, isolatamente presi, avrebbero suscitato soltanto disgusto, come ogni atto di malvagità puro e isolato, nel piano pratico e morale. Ma tutto ciò vive nello splendore rinascimentale dei colori di sfondo, nella gloria squillante dei rossi, dei gialli, dei verdi, degli azzurri, in cui Bacon riversa l’allegria selvaggia di dipingerlo, con una felicità così pura da bilanciare perfettamente in modo classico, senza risolverle, il peso confuso delle tragedie consumate. Questo è stato l’effetto sensoriale immediato, e quindi decisivo, di una pittura meravigliosa, di una lode al creato ad oltranza, come è sempre nella vera arte, cioè di una lode anche di ciò che c’è di più terribile nel mondo. L’effetto di pensiero è stato di scoprire che ogni deformazione è sempre insieme una nuova conformazione, che ogni disarmonia di postura, ogni torsione e stravolgimento è sempre nel contempo una segreta e concorrente nuova armonia configurativa, nello stesso scempio e sconcio dei corpi e degli sguardi. C’è sempre un’architettura in ogni slogata ossatura che canta col colore smagliante la sua vita che sopravvive stoicamente e, a suo modo, allegramente. Ciò che Bacon ha compreso è l’armonia dell’arco e della lira. L’antica lezione di Eraclito, ciò che solo filosofi, artisti, poeti possono dire, e a condizione di avere una vita casta, severa e di fare molto male nell’arte e nessuno fuori. Amici fuori della cerchia Il frequentare tante persone, accomunate solo dal fatto di essere tutti matematici o alpinisti o tifosi di calcio o letterati o parrocchiani, genera un’assuefazione elementare per cui con tutti si applicano gli stessi schemi di base del proprio carattere, che scattano senza più antipatia o simpatia (la quale comporta comunque un giudizio inconscio) di pelle, o stima e disistima di attitudine e di comportamento, per cui ciascuno vale l’altro ed è tanto importante quanto innocuo, tanto benevolo o malevolo quanto indifferente, 581 sicché non appena si smette di frequentarsi non si è più pensati da nessuno e si è come morti in vita, anche per se stessi, e non si lascia traccia in nessuno e nessuno la lascia in noi. Questo è il portato di chi vive sempre a contatto con gli altri, anche se in virtù di una riconosciuta bravura in qualche campo che lo mette al centro dell’attenzione, o per una sua esuberanza di parlatore e intrattenitore di compagnie e comitive. Ed è la ragione per cui chi raggiunge una qualsiasi fama che lo espone a infinite conoscenze occasionali, costringendolo a un volto benigno, multicorde e simpatico, riesce ad essere amico solo di colui che è al di fuori di quell’ambiente mondano, o che rimonta a prima della sua vita pubblica, essendo essa, anche se sincera al momento, tutta bruciata in se stessa, e con un sé tutto inventato, benché coerentemente, per anni, e che svanisce tornando soli. Spesso il divo del cinema, la cantante famosa, il personaggio pubblico scinde per comodità la sua anima in due e impiega ogni cura per tenere le due metà separate, chiamando la prima pubblica e l’altra privata. E soffre di ogni interferenza e confusione tra le due vite, tanto da spendere milioni per difendere la divisione, e tanto più riuscendovi quanto meno la sua anima prima è profonda e vera. Questo spiega perché attori di intelligenza teatrale indubbia, come Tom Cruise, e dotati di umorismo, come John Travolta, entrino con tanta ingenuità e fervore in associazioni ambigue e palesemente speculative come Scientology e come tanti artisti internazionali cadano in mani di parassiti che li sfruttano, di agenti che li derubano, di medici che li avvelenano. A patto che sette e agenti siano duri, pericolosi, ferrei con i nemici, di mentalità rigida, il che è indispensabile alla vacillante psiche di chi indossa le vite degli altri. Meno sorprendenti sono i fiumi di denaro che versano alle sette o a personaggi inqualificabili, perché è naturale che donare denaro per scopi assurdi, ammantanti di nobili motivazioni, scarica la tensione di averne troppo. Quando non ti fai vivo da anni con una persona un tempo cara ti avvedi di come potessi farne a meno dal fatto stesso che non l’hai 582 mai cercata. Ma se all’improvviso la cerchi, per il fatto stesso di averla cercata, penserai che è per te ancora importante. Produzione pratica di affetti Spesso non compiamo gesti di affetto in seguito ai sentimenti che proviamo ma scopriamo o consideriamo i nostri affetti in conseguenza delle azioni, spesso istintive e irresolute che, per un capriccio del desiderio, compiamo verso una persona. Lo sanno coloro che premono per avere favori e dichiarazioni pubbliche di lode, perché essi vincoleranno coloro che le fanno, magari solo per liberarsi di una seccatura, a un diverso sentire rispetto al loro di prima, e ugualmente sincero, perché ricavato da ciò che hanno fatto. E si convinceranno essi stessi di stimare colui che prima di fare qualcosa per loro era un semplice disturbatore. Se fai una vita inventata anche la tua solitudine lo sarà e tu ti sdoppierai in due persone: una, che è la spoglia di una vita non tua, e l’altra che è tua ma sola e nuda, visto che nessuno la conosce, ma soprattutto perché è il tuo vero essere abbandonato in mezzo alla strada e tradito. C’è in noi un carattere animale di superficie, utile per i lunghi periodi obbligati di convivenza in gruppo, che non ha niente a che fare col carattere spirituale, che è per definizione intollerante verso tutti coloro che non ci sono congeniali. Cerca negli altri la felicità che non hai e sarai perduto in un labirinto di echi che ti faranno passare il giorno, se giungere a sera è il tuo scopo. Cerca un compagno di viaggio in una donna, senza sperare mai nella felicità, e allevierai il suo dolore e il tuo. Felicità è una parola che ha senso soltanto attraverso una donna. Le donne non potranno mai essere felici, non potendo innamorarsi di un’altra donna da uomini. Un paradosso. 583 Le donne sono per gli uomini la felicità, gli uomini sono per le donne la serenità, per questo esse sono più forti e più durevoli negli affetti. Se una donna ti tradisce, tradisce la tua speranza di felicità, cioè un sogno. Ma se tu tradisci una donna, tradisci la sua speranza di serenità, cioè una cosa reale e possibile. Ecco perché le donne sono sempre più feroci con gli uomini che le tradiscono. L’amicizia virile è l’unico cibo del quale ti puoi nutrire per tutta la vita senza ammalarti. Ti nutre e ti disinfetta allo stesso tempo. Puoi essere amico di una donna perché le donne sono capaci di essere amiche di un maschio, tuttavia in modo instabile e abbastanza intermittente, a meno che un po’ non lo amino. Non sperare di interessare qualcuno che non ti interessa. Coloro che vivono dello sguardo altrui, come attori e cantanti, non interessano per sé, se non tra i fan più giovani, e anche in quel caso a condizione di essere usati come carburante mitico di sogni, ma restano immagini, visioni, attori magici di un sogno a occhi aperti, in rarissimi casi confuso con la veglia. 24 novembre Selva della libertà L’oro guasta chi ce l’ha e chi non ce l’ha. Chi ce l’ha perché ha la sensazione di essere separato da coloro che vivono la vera vita, e quando li incontra si lamenta al solo scopo di sentirli vicini, mentre ne riceve solo disprezzo per la sua presunta ipocrisia. Chi non ce l’ha perché lo spettacolo di chi ce l’ha gli guasta l’uso sereno della povertà. Ecco perché oggi c’è nell’Europa dell’Est una vasta nostalgia del comunismo nel quale tutti, tranne i funzionari di partito, però nascostamente e senza sfoggio, erano poveri, e quindi la spaventosa invidia sociale e l’illusione della felicità data dall’oro si assopivano, dando una serenità casta. 584 Mancava del tutto la libertà. Ma oggi c’è chi dice che la libertà di essere disoccupati, emarginati, senza una lira e perlopiù disprezzati perché non si viene considerati gente intraprendente, bensì perdenti e sfigati, non è il massimo del godimento. Io ho perso tutti i treni, per poter arrivare alla libertà. Non avendola trovata sarebbe stato tragico. Ma l’ho trovata e quei treni, perdendoli, li ho presi tutti. E allora è chiaro che erano da perdere. Quale treno perdere è il segreto della decisione. Cosa non fare, quale bella occasione perdere, il segreto della libertà. Non tutti però sono nati per la libertà. Troppi ne sono rovinati e resi infelici, perché di carattere instabile e scontento. Così prendendo un treno e perdendone un altro, in modo aritmico e casuale, non sapranno mai quando hanno fatto la cosa giusta, galleggiando in una mezza libertà, vivendo tra due treni, che è peggio di niente. Una delle battute più frequenti nei film e negli sceneggiati è “Dammi una seconda possibilità.” Chi la chiede non si accorge che l’occasione si prende al volo, non si chiede e non si dà, e così è già rassegnato a perderla di nuovo. Come infatti accade. Passeggiando per Norimberga La società ebraica più antica, come ogni altra cultura arcaica, sapeva essere mostruosa, se è vero che neonati vivi venivano sepolti nelle fondamenta delle case, in un rito propiziatorio. Nuovi mostri hanno costruito una società mostruosa sulla negazione di quella, ispirandosi a Colui che aveva avuto il coraggio sovrumano di rivoluzionarla. Un mostro ha sempre potere. Ha diciotto anni e capisce già tutto su come vanno le cose. Che lo stesso dio è buono, indifferente e cattivo, che le stesse donne sono vergini e puttane, che gli stessi uomini sono santi e canaglie. Dopo bisognerà vedere quanta voglia avrà di affrontare la faccenda. 585 Norimberga 1322-2009: la sempre identica, spartana e rustica, vita tedesca: un bene da tutelare in Europa. Il tradimento: essenza vitale della natura e della storia. Se non ci credi, aspetta e vedrai. Un killer comincia a uccidere corrotti e potenti. Tutti pensano che sia un moralista pazzo affiliato a qualche setta, che i moralisti sono tutti pazzi, che corrotti e potenti sono sempre meglio degli assassini, che essere giusti fa impazzire e diventare cattivi. Non c’è più il rispetto romantico per i tirannicidi. Leggo, ad apertura di libro, al tavolo di un bar: “Non tutto è possibile in ogni momento. Il modo di vedere ha di per sé una sua storia e la scoperta di questi ‘strati ottici’ deve essere considerata il compito della storia dell’arte”, Wöllflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte, p. 38. Uomini spigolosi e rotondi La realtà è spigolosa, oscura, traditrice, indecifrabile, brutale e incoerente. Se uno è rotondo, chiaro, leale, manifesto, dolce e coerente è tutto il contrario della realtà, come la si teme e come la si desidera, per poterla comprendere, soffrire e godere, e quindi viene chiamato idealista e debole. E preso poco sul serio. Se uno invece è altrettanto spigoloso, infido, spezzato e puntuto, discontinuo e inaffidabile della realtà, come è percepita quando ci si predispone e corazza per affrontarla, a meno che non possa farci danno o recarci vantaggio, diventa indifferente e pleonastico rispetto alla nostra visione della realtà che ci prepariamo ad affrontare, e quindi affoga nel tessuto omogeneo di quella. Dal che si ricava che non puoi che figurare o debole e innocuo, se rotondo e buono, e immeritevole di un confronto all’ultimo sangue, o indifferente e intercambiabile, se spigoloso e cattivo. 586 E si comprende con quali alti parametri consideriamo, buoni o cattivi che siano, coloro che non ci giovano o nuocciono. Stimiamo il buono solo se ci può migliorare e disprezziamo il cattivo solo se ci può peggiorare. Altrimenti fanno soltanto parte dello spettacolo del mondo. Se un narratore vuole raccontare la realtà deve gareggiare con quella, alternando in modo imprevedibile rotondità e spigolosità, per dare il senso d’avventura scorporato dalle vicende concrete che ciascuno vive, ed essendo sempre eccessivo nel dolce come nell’amaro, per restare più impresso, sconcertando con i contrasti che perlopiù dal vivo si trovano diluiti. Quando di uno scrittore si dice che è molto intelligente, si trova sempre qualcuno che aggiunge: Troppo intelligente. Ma letteralmente non c’è un troppo dell’intelligenza ma soltanto un troppo poco, per esempio appunto quando uno non sa dosarla secondo la necessità, e sfoggia la sua cultura in una poesia o divaga cento volte senza venire al dunque, o gioca col linguaggio oltre l’umana sopportazione, dimostra di difettarne. Cosmo e caos numerico Il fondamento della dottrina di Pitagora sta nella convinzione che l’universo, per la prima volta chiamato cosmos, cioè ordine, proprio dai pitagorici, obbedisca a proporzioni matematiche. L’armonia matematica garantisce la salute, ordina la musica, scandisce il cielo del dì e della notte, delle stagioni e del moto dei pianeti, costituisce il sapere. Una delle ragioni del caos presente sta invece proprio nel caos numerico, che infesta qualunque campo nel quale il merito intellettuale, artistico, scientifico, manuale potrebbero avere un giusto riconoscimento aritmetico, orientando la vita verso una proporzione serena. 587 Che un calciatore guadagni come cento operai, che un sarto guadagni come cento scienziati, che un cantante guadagni come cento scrittori, che un imprenditore corrotto guadagni come cento o mille onesti chimici o ingegneri, che un politico guadagni come venti direttori di museo, sfasa e sfigura alle radici ogni possibilità di proporzione armonica, corrompendo la salute, steccando di continua la melodia della vita, squilibrando il cosmo umano. Si potrebbe dire che è questa una visione legata soltanto al denaro ma sarebbe ignorare la potenza simbolica di attribuzione del valore che nella mente dei più il denaro ha conquistato, sicché chi guadagna poco sarà comunque messo ai margini del cosmo aurifero come corpo opaco e ignorato. Google come termometro del valore Come nel campo economico, così in quello della nominazione, cioè della notorietà, ci sono i multimiliardari e i poveri in canna. La ricchezza tentatrice oggi sta nella nominazione più ancora che nel denaro, perché il ricco vorrà darsi ad attività che rendano il suo nome famoso e userà il denaro soprattutto a questo scopo, spendendo le sue energie non tanto nell’operare ma nel promuovere e rendere a tutti noto il suo operare. Sicché vero povero e vero santo puoi dire oggi solo uno tra quelli che mai è nominato in Google. C’è chi ogni giorno verifica in Google quante volte ricorre il suo nome, confrontandosi con amici e nemici che si sono misurati nello stesso campo. A scoraggiarlo dal perseverare nella pratica infausta, si potrà consigliargli di verificare quante volte è citato il nome dell’ultimo cantautore di moda, dell’ultimo divo calcistico, dell’ultimo improvvisato leader politico e, di fronte ai milioni di nominazioni che rapidissimamente si moltiplicano, saggerà quanto poco il numero conti nella classifica dei valori. Rinunciare alla verifica numerica è tuttavia improponibile e renderebbe impossibile ogni accertamento sperimentale dei valori. Viviamo così nel paradosso che un valore debba essere attestato 588 sperimentalmente, perché non si cada nella monomania autoreferenziale e nel delirio di onnivalenza e onnipotenza, eppure è impossibile farlo in modo legittimo e sensato. Il valore di una persona può riconoscerlo soltanto un’altra persona che valga nello stesso campo, il quale a sua volta sia abilitato a giudicare da un terzo, e così via all’infinito. Esso sfugge sempre a quella certezza matematica che pure è intrinseca all’idea di valore, generando oscillanti cordate di riconoscimento e apprezzamento che fluttuano a ogni vento, si sfilacciano e generano un pulviscolo di valenti effimeri e sconcertati. Aggiungi che coloro che valgono più di tutti sono pochissimi e quelli della stessa levatura, in concorrenza con loro, unici abilitati a farlo, saranno nondimeno restii per invidia o gelosia o spirito emulativo a concederlo. Essendo invece legione quelli che valgono poco, essi saranno riconosciuti dalla legione dei loro simili, sia perché speranzosi di essere riconosciuti a loro volta, sia perché più inclini ad apprezzare un valore medio alla loro altezza. Caso, fortuna e spavalderia decidono così i campioni nelle arti e nelle lettere. Più facile nello sport definire i meriti, ma sempre nel giro di quelli che a quello sport, per talento, caso, fortuna, soldi, si sono dedicati. Se la natura è armonia e proporzione matematica, tanto più siamo entrati nell’artificiale tanto più ci siamo staccati dalla sua geometria armonica. E siamo entrati non in una geometria non euclidea, in uno spazio di Riemann, congeniale alla fisica di Einstein, ma in una geometria pazza, in un mondo fatto di numeri ubriachi. Un tempo, per esempio nell’antica Grecia, gli uomini viventi erano pochissimi, il mondo ristrettissimo, cento uomini facevano una folla, gli spazi vuoti erano immensi. Mentre oggi quasi sette miliardi di uomini si contendono un mondo che spinge ogni giorno per metterli tutti in contatto con loro, farli confrontare, competere, esibire, sviluppare, perfezionare, grazie anche all’estensione della scuola e della cultura. 589 Anche dove non ci sono guerre corporali, ogni uomo lo stesso cancella l’altro, ogni essere distrugge l’altro, ogni molecola è sovrana nella sua mente e diventa il re di un mondo che si fa su misura con i frammenti dei corpi e delle menti degli altri, costruendo un immenso collage mentale ed emotivo in cui tutti sono intercambiabili. Dall’aereo presto vedremo milioni di uomini essere gettati in mare dalla semplice pressione fisica dei loro connazionali che non entrano più nello stesso stato tutti assieme. 26 novembre Ogni tanto di qualche critico si dice che è il massimo studioso di uno scrittore o filosofo, che non è a sua volta il peso massimo o medio della sua categoria ma tutt’al più un peso piuma. Il che dimostra come oggi si possa diventare il più grande dedicando la vita a studiare il più piccolo. 27 novembre Diventare belli grazie al talento È sorprendente sperimentare come il volto e lo spirito di una persona si plasmino a vicenda. È esperienza comune che quando una donna si esprime nell’arte in cui eccelle, per esempio la Vezzali nella scherma, Amy Whinehouse nel canto, Laura Morante nella recitazione, esse non solo diventano più belle ma i loro lineamenti si caricano di fascino e di un significato che non vi potrai trovare negli atti e negli sguardi della vita quotidiana. Lo stesso capita agli uomini, visti nel pieno dell’esercizio di un loro talento artistico o sportivo o in un discorso ricco e sensato rivolto a un pubblico o a un solo interlocutore. Quando non sono animati da una passione cruciale dell’intelligenza, quelle persone appaiono non tanto nude ma spoglie e, incontrandole al di fuori dell’ambito in cui più degnamente si esprimono, sempre più insignificanti, non dico 590 nel carattere e nello spirito ma nel fisico e nei lineamenti. Non solo ci appaiono più brutti ma persino più bassi. Questo fenomeno non dipende soltanto dalle luci della ribalta, dal trucco, dai ritocchi degli specialisti dell’immagine, fisica o virtuale, ma dal fatto che una luce si spegne dentro loro e non la potrai sostituire con nessuna lampada speciale, garza sulla telecamera o filtro ottico. Vero è anche il contrario, che volti belli e quasi perfetti inoculano in noi un senso di ordine, calma e bellezza interiore del tutto assente nell’animo dei personaggi che o trovano nel volto plastico una maschera che li protegge, consentendo loro i pensieri e le emozioni più vertiginose, che non arrivano a intaccare il fascino imperturbabile dei loro sentimenti, oppure riescono a sembrare molto più intelligenti di quanto non siano, perché la bellezza è già di suo un colpo di genio della natura, un privilegio che rende chi ne ha ricevuto il dono non solo elettrizzato simbolicamente ma anche inconfutabile fisicamente nel suo primato, con l’evidenza a priori di un dono che vanifica ogni contestazione. Per questo particolarmente affascinanti sono per noi uomini le donne bellissime e palesemente poco intelligenti, ma che soprattutto non cercano in nessun modo di sembrarlo, e spiegano liberamente la loro semplicità d’animo fino al frivolo e al fatuo più smaccati. In questo modo esse si mostrano perfettamente sincere e prive di presunzione, il che già costituisce un segno spiccato di intelligenza naturale, ma soprattutto non mostrano di godere con superbia il dono ricevuto e rendono così naturale quel gioco ironico di travaso della natura del genio della bellezza in una mente disarmata a goderlo, e magari furba e maliziosa nella semicoscienza dell’ironia che incarna, ma sempre con una leggerezza liberatoria, per cui non sai più se quella fatuità e superficialità non sia anch’essa un colpo da maestra della natura che ci insegna, facendoci perdere la testa, che il genio della natura ama la superficie e detesta il troppo serio e grave, riservandolo tutto a sé e al suo drammatico concerto. Una donna sicura e cosciente della sua bellezza, che la sfrutta a ogni passo per una carriera e per arrivare alla ricchezza e al potere con 591 pose regali e altere è lo stesso potente, ma soltanto presso uomini freddi e altrettanto calcolatori, mentre per gli altri, come me, sono invece tristi e incombenti perché obbediscono alla elezione gratuita della natura, come se l’avessero decisa loro stesse o come se avessero qualità misteriose che l’hanno spinta a eleggerle. E così rendono lo spettacolo stesso della natura insieme affascinante e disgustoso, sovrano e prepotente. Domanda a sorpresa Il lavoro ben fatto ogni giorno, in modo tenace e maniacale, in una disciplina ferrea, è il solo che ti garantisce una sera serena e non visitata da fantasmi. Possibile in Italia solo a operai, artigiani, artisti sconosciuti mentre all’estero solo a operai, artigiani, artisti famosi. Perché? Aiutare un amico Quando vogliamo propiziare la fortuna di un amico e portare a buon porto un’azione utile che lo riguarda, il difficile sta nel tenere fermamente salda in mano la barra, non solo perseguendo quel bene, che si più risolvere prendendo una singola decisione, per esempio candidandolo a un premio in un concorso, ma anche e soprattutto non creando noi stessi ostacoli a quel risultato, consentendo ad esempio che altri concorrenti più deboli, ma più popolari, vi partecipino o invitandoli noi stessi, per una distinta volontà di bene, che però può minare il nostro primo progetto e vanificarlo. C’è in noi un fondo oscuro che ci spinge a far fallire l’opera intrapresa per un altro, affidando alla giustizia delle cose il conseguimento. Ma tale giustizia, dipendendo dalla volontà dei più, inclina sempre a privilegiare i meno bravi e meritevoli, il che poi noi compiangeremo come l’ennesimo smacco della virtù, mentre inconsciamente noi stessi abbiamo favorito quel risultato. 592 Un campo sterminato dell’ambiguità umana si apre quando consideriamo quanto spesso vogliamo e non vogliamo il bene e la fortuna di un altro, e persino di noi stessi. La volontà di rado è compatta e monolitica, il più delle volte, appena accesa, già si ramifica in una raggiera di azioni e di orientamenti, che si intrecciano tra loro e con altri atti di volontà, precedenti o successivi, o con volontà di altri, alle quali ci avvinghiamo, mentre le loro si ingarbugliano con le nostre finché, quando entrano in gioco più di due o tre persone, si compone una chioma formata da rami di più piante, decine e centinaia di piante, che coprono come una foresta un campo d’azione, sicché il potere di un singolo ramo di inclinare tutta la chioma diventa minimo. Quando vuoi fare qualcosa per te o per un altro devi determinarti a perseguirlo in modo costante e isolato, senza divulgare la notizia, perché in tanti troveranno il modo di ostacolare o frenare, anche in buona fede, col solo metterci le mani o avvisare coloro che ce le vorrebbero mettere, e non cominciare un’altra impresa prima di aver portato a fine quella. Cosa impossibile oggi dove ogni iniziativa tende i suoi tentacoli su tutte le altre, sicché il polipaio nazionale, una volta individuata una linea retta d’azione, subito la avvolge e la storce, cercando di avvinghiarla intorno alle altre o di soffocarla o indirizzarla a un’azione comune di repressione di polipi concorrenti e avversi. Vanità delle vanità Se molti libri non si finiscono dipende in ugual misura dai libri e da noi stessi, che subito cerchiamo il libro nuovo non appena abbiamo letto la seconda pagina del libro già vecchio dopo pochi minuti. Uno scrittore famoso, quando gli chiesero se avesse ricevuto una rivista, fece un gesto con la mano, sorridendo con i suoi occhi azzurri, per indicare la pila altissima dei libri e delle riviste che riceveva. Si sentiva al di sopra delle cataste sul suo ironico podio. Ma non pensava che anche ai suoi libri capita più o meno la stessa sorte, 593 casualmente al primo o all’ultimo piano di pile altissime nelle case di altri poeti e critici, smaniosi come lui di bocconi sempre nuovi. Definiamo scrittore appartato e schivo colui che abbiamo sempre tenuto da parte e che tuttavia non si è mai ribellato alla sua sorte, come se la considerasse naturale e che, essendo riuscito per qualche gioco della fortuna e del merito a emergere, apparirà sotto le luci lo stesso di prima, pur avendo avuto sempre lo stesso desiderio di luce e di successo di coloro che si promuovono a ogni occasione, rappresentanti di commercio di se stessi. Sarebbe stato un genio se… Leggo l’epistolario di Teresa Teja, che ha sposato Carlo, il fratello minore di Giacomo Leopardi, del quale si dice che, se fosse stato meno indolente, per le sue qualità intellettuali avrebbe eguagliato il fratello. Molto spesso si sentono decantare le imprese mirabolanti e virtuali di talenti potenziali nel corso della loro intera vita, inceppati da qualità morali deboli o da bizzarre decisioni di silenzio o da comportamenti ondivaghi. Il fatto è che tutto ciò è una pia e comoda illusione, volendo far carezzare un bene non posseduto, né possedibile senza averlo in nulla meritato. Il talento potenziale è un controsenso, giacché propri del talento sono appunto la tenacia, lo spirito di sacrificio, la ferrea e cieca determinazione, l’ambizione sfrenata, l’energia sotterranea e sovrumana, e soprattutto il risultato, a dispetto di tutti i lamenti epistolari sulle proprie malattie, debolezze, astenie, traviamenti, smentiti da opere che non sarebbero potute mai nascere senza una salute o almeno una volontà di ferro. Il che non vuol dire che tali malanni e debolezze non ci fossero realmente ma in una seconda e parallela vita, sgominata dall’atto di leggere, pensare, di poetare e di scrivere, certo soltanto per il tempo in cui lo si fa. Eppure incontri persone che hanno tutto per essere scrittori e non lo sono. E persone considerate scrittori da tutti senza esserlo. La 594 natura ama che qualcuno scriva e poeti oralmente o addirittura solo vivendo, senza mettere mano a carta o a tastiera. Perché stupirsi? 30 novembre Plauto Nulla ci dice della mancanza di sensibilità per la donna della Roma arcaica come l’Aulularia di Plauto, la storia di un avaro che trova una pentola piena d’oro e la sotterra in giardino, sorvegliandola di continuo e naturalmente facendosi proprio così scoprire. Liconide vitiat filiam, violenta o seduce sua figlia, finché proprio nel giorno in cui dovrà partorire, senza che lui si sia mai accorto di niente, gli arriva la proposta di matrimonio del ricco e vecchio Megadoro. Come mai? Avrà saputo già della sua pentola? Si accerta che non è così, persuaso da una strana teoria secondo la quale i ricchi devono sposare le donne povere, più oneste delle altre. Nello stesso giorno gli rubano la pentola e ascolta la confessione di Liconide, nipote del vecchio ricco, che gli dice di aver sedotto da ubriaco la figlia e la chiede in sposa. Il quinto atto manca ma si sa con certezza che tutto finirà bene: con le nozze dei due ragazzi e il ritrovamento della pentola. Bene, in tutta la commedia la ragazza violentata, o sedotta, non dice una sola battuta e non solo non viene mai chiamata in causa ma nemmeno chiamata per nome da nessuno. Si apprende che si chiama Fedra solo dall’elenco dei personaggi e nulla interessa del suo carattere o dei suoi desideri. La si sente soltanto urlare nelle doglie del parto. Singolare che alla fine, proprio nel non venir mai chiamata altro che figlia di Euclione e non dicendo una sola parola nella commedia a noi restata sia l’unico personaggio che mi sia rimasto impresso e che io sento vivere dopo più di duemila anni. Indifferenza per la donna o arte sopraffina di Plauto? 595 Le donne di Shakespeare La commedia degli errori ha le sue fonti nei Menaechmi e nell’Amphitruo di Plauto e di certo in Shakespeare non v’è traccia di misoginia, anzi continue espressioni di filoginia, essendo Adriana, Luciana e la badessa tre personaggi limpidi e generosi. E anche un esempio splendente di amore per la vita, come si vede nei casi in cui vita e storia della vita vengono messe a confronto. Il primo quando Egeone, il padre dei gemelli separati dalla sorte, condannato a morte a Efeso dice: “Non avresti potuto impormi compito più ingrato di quello di narrare le mie inenarrabili sventure”, dove l’accento è posto sul dolore reale al punto che raccontarlo lo aggrava. Ma anche quando, rimandando l’esecuzione grazie al suo racconto, conclude: “con la storia della mia vita, finisce la vita stessa”. Che è una chiave per capire tutto Shakespeare, che sempre ti spinge a tuffarti nella vita attraverso e oltre la sua opera, come dice ancora Egeone al termine del racconto: “Ecco: avete sentito come fui diviso dalle mie gioie e come dalla sfortuna mi sia stata prolungata la vita solo per far di me il malinconico cantastorie delle mie disgrazie.” A proposito di donne, quando Luciana, la sorella nubile, dice che “le femmine sono soggette al dominio e governo dei maschi” (atto II), Adriana le risponde. “Sono questi nobili sensi a tenervi lontana dal matrimonio?” con il che è detto tutto: ogni teoria è misurata sulla condizione che si vive, che è il modo più franco e vitale di mettere le cose. Puoi dire quello che vuoi ma quando tocca a te, quando le vivi, le cose si mettono in tutt’altro modo: “Che la pazienza resti calma finché non è messa alla prova non è un miracolo: possono essere tutti zucchero quelli che non hanno motivo di essere amari. Una creatura pestata dalle avversità, se piange, noi la esortiamo a quietarsi: quando però fossimo noi sotto il peso degli stessi tormenti piangeremmo altrettanto o forse anche di più.” 596 Le parole più belle e profonde della commedia le dice proprio Adriana, una donna che ama: “E ora come avviene, marito mio, che tanto ti sei straniato da te stesso? Da te stesso, dico, se così ti estranei da me, la indivisibile, la incorporata, la miglior parte della parte migliore di te! Ah, non strapparti da me! Ricordati, amore mio, che ti sarebbe più facile lasciar cadere una goccia negli agitati gorghi del mare e ritrovarla, riprendertela e trarla di là senza misura né aumento né calo, che strapparti da me senza portarti via tutta me stessa.” Smettendo di amare una donna, estraniandosi da lei, l’uomo si estrania da se stesso, degrada e diventa straniero per sé, si scorpora dal migliore sé e insieme, nello strappo del disamore, strappa Adriana da se stessa e se la porta via in sé. Con i paragoni iperbolici, nello stile dei Vangeli, Shakespeare affida al dolore la lezione d’amore, fino a una geniale identificazione dell’amore cristiano e dell’amore passionale, quando Adriana dice: “e se tu mi tradisci io da te assorbo il veleno della tua carne adultera che mi fa baldracca al suo contatto”. Frase che è offensivo spiegare e che solo una donna (badate, una donna) che ama può capire. Adriana lo dice all’uomo sbagliato, quell’Antifolo di Siracusa che è il gemello sconosciuto di suo marito Antifolo di Efeso. Il quale non può comprenderne una sillaba. Ma la verità che viene detta da Adriana, che si crede disamata senza esserlo, per un equivoco comico, non perde nulla della sua potenza testimoniale. E guardiamo come spiega lo sfogo e gli insulti della donna innamorata: “La pavoncella strilla distante dal nido per sviare i rapaci: il mio cuore prega per lui nel momento stesso che la mia lingua lo maledice”. Geniale clemenza di chi sa che le parole “non sono che vento” (III, 1), anche le parole sue di fronte al vero sentire, al quale si inchina, fiducioso nella purezza della sua Adriana. La bisbetica domata ovvero Come si doma il toporagno è, al confronto, una commedia molto meno potente e molto più indulgente ai costumi e ai luoghi comuni dei tempi, restando una macchina 597 teatrale di grandioso e scatenante effetto. Ma non devo credere che indulga soltanto alla liberazione del pubblico maschile che sogna di domare i capricci delle donne impossibili. Essa è un inno alla donna capovolto nell’anatema per colei che inquina la sorgente del femminile: “Donna irritata è fonte turbata; torbida sporca ripugnante squallida, che nessuno, finché è così, per quanto arso e assetato sia, degnerà di accostarvi le labbra o berne una goccia” (V, 2). Un colpo di genio è che sia la stessa Caterina a svergognare quella donna che lei stessa era, prima dell’addomesticamento, e sveli il prospettivismo carnale di Shakespeare, il quale non teorizza mai sopra le teste e i cuori, e che, se va adulando la perfida felicità del pubblico maschile, compiaciuto del suo trionfo per mezzo del domatore Pietruccio, illustra però anche come la stessa bisbetica, lo stesso toporagno, nasconda in sé la natura opposta. In questo Shakespeare è parecchio ottimista e certo non gli avranno fatto onore le risate grasse degli spettatori, contenti di Caterina che “va per pace in ginocchio”, e che, tornando a casa, avranno certo spaventato e picchiato qualche ignara consorte. Ma sotto la losca complicità tra maschi che avrà fatto saltare un bel po’ di monete al botteghino resta, benché subliminale e attenuato, l’invito mistico alla femmina a far valere le sue “lance di paglia”, a obbedire all’uomo che per lei “affronta di persona gravi fatiche per terra e per mare e sopporta per tre veglie di notte in mezzo alle tempeste, e giornate di gelo; mentre tu te ne stai al calduccio, sicura e in salvo a casa tua.” Il che ci riporta al contesto in cui la dipendenza della donna dall’uomo, se dipendenza d’amore verso l’uomo che la ama, beninteso, aveva un senso. Uomini che facevano fatiche durissime per terra e per mare, che andavano in guerra e si ritrovavano a casa la furia di una nevrosi domestica non meno terribile, e che essi erano inabili a capire. Il pragmatismo della commedia affida alla donna il compito della concordia, ben sapendo che solo un santo avrebbe potuto trasformarsi in casa dopo crude fatiche in un gentiluomo paziente. 598 Parli di donne in Shakespeare e ti viene incontro nel Tito Andronico una ragazza con la lingua e le mani mozzate, perché gli stupratori le impediscono così di rivelare i loro nomi. E il padre, che tanto la compiange, poiché non sopporta il disonore e la sua vista angosciante, non trova di meglio che infilarle un pugnale nella pancia. La tragedia degli orrori Tito Andronico aveva la metà dei figli di Priamo, venticinque, e ventuno gli erano già morti in guerra, perché lui tornasse trionfante a Roma. Dei sopravvissuti uno lo uccide lui, perché aveva osato tentare di disobbedirgli, e gli altri due vengono decapitati da un uomo che in punto di morte, sotterrato con la testa fuori, rimpiange di non avere avuto il tempo di aver ammazzato più uomini e prova rimorso della sola azione buona che gli pare almeno d’aver compiuto. Tito si fa tagliare una mano per salvare i due figli, le teste dei quali gli vengono recapitate tra risa e beffe dietro i cespugli, per godere l’effetto. Lui ne prende una con la mano rimastagli ed esorta la povera figlia a prendere l’altra con i denti. E come altrimenti? La vendetta della vendetta della vendetta è il tema della tragedia dell’orrore, in omaggio a Seneca e allo stomaco forte dei contemporanei, dove c’è chi fa violenze atroci per gusto sadico e chi le fa in nome di nobili e rigidi principi. Appunto Tito, il quale fa spappolare i corpi dei nemici, ne fa polverizzare le ossa come farina e li offre all’inconsapevole madre, già regina dei goti e ora imperatrice, che pare li trovi gustosi. Del resto è carne sua. In questo scenario dell’orrore, opera di Shakespeare e aiuti, si sperimenta il riso da atrocità, quello che scoppia dopo una serie esagerata di nefandezze. E c’è da credere che il pubblico, amantissimo di questa macelleria dell’antica Roma, abbia alternato all’orrore (versione popolare del fobós aristotelico) le risate più crasse. Shakespeare stesso deve essersi divertito a caricare al parossismo la violenza (Tarantino non ha inventato niente). 599 In questa opera non da leggere ma da vivere in un teatro di fine Cinquecento vi sono due scene bellissime. La prima quando Tito, dopo un massacro senza fine, vede il figlio uccidere una mosca e gli si scaglia contro dicendo: “Non pensi che anche lei abbia un padre e una madre?” E certo avranno riso tutti eppure è insuperabile l’ironia veridica del macellaio legalizzato da nobili principi che si intenerisce per la mosca o il canarino, come sappiamo da tanti torturatori dei Lager. La seconda è la scena in cui, invocando giustizia, come viene chiamata in quest’opera la vendetta, quando si ispira a principi ritenuti giusti, ordina ai suoi figli di scagliare frecce contro gli dei, con un rotolo in cui li si prega di spiegare dov’è appunto la giustizia. Gettano frecce al cielo e invocano coloro che non danno segno di contemplare la pazzia dei mortali. Quando leggi opere così ti dici anche: non solo un drammaturgo,un poeta, un romanziere, non è veramente grande quando non ha il coraggio di tuffare il naso nella crudeltà. Senza atrocità disumane non ci arrendiamo mai del tutto alla grandezza letteraria. Resta sempre una riserva, e anche questo si sarà detto Shakespeare, dandoci sotto fino in fondo. Riccardo III Odio, tradimento, violenza, malignità, quando hai il potere e cerchi di conservarlo e quando non ce l’hai e speri di conquistarlo, non puoi che bere e far bere queste quattro pozioni. Nel Riccardo III gli spettatori sono presi per la nuca e affondati fino al collo in questa mistura di quattro veleni. È un rito di iniziazione, una presa di coscienza della realtà. Resosi conto di questo, può esserci anche una catarsi da cattiveria, da ripetizione degli omicidi fino alla nausea, di chi li commette e di chi li guarda sulla scena. La doppia faccia è il primo effetto del potere in cui “l’arte del diavolo” consiste nell’assumere il viso d’angelo e la menzogna è così 600 sistematica che basta dire il contrario di quello che si pensa. Fuori del teatro, e della sua verità, osservo che gli uomini che mentono finiscono per pensare le menzogne che dicono. Anche l’assassino più sanguinario sa nell’a parte della sua coscienza e si dice tra i denti qual è la natura sporca e vituperosa della sua anima così abile nell’infiocchettare a parole i lombi sanguinolenti che ha macellato. L’anima sopravvive nella sincerità con se stessi e col pubblico, una sincerità primordiale e nativa che non sposterà di un centimetro il braccio che darà la morte. È questo un atto di fiducia che Shakespeare compie verso la natura umana, mentre più spesso i mentitori professionisti mentono anche con se stessi, e soprattutto davanti a un pubblico. Nel Riccardo III, come in ogni altra tragedia di Shakespeare, c’è almeno un personaggio che “gioca con le parole”, è un acrobata tra la verità e la menzogna, è uno che dice le cose come stanno con una scherma linguistica e ironica, che non depone a favore del suo valore morale, ma attesta l’ardimento di chi usa le parole rischiosamente, audacemente, suscitando un rispetto del nemico che non gli salverà la vita. Re Lear. Non cedere il potere a una donna Dal Re Lear si ricava che il potere va esercitato fino in fondo. Chi si sottrae in modo gratuito, per godersi il meritato riposo della vecchiaia, come Lear, scatena potenze infernali e in qualche modo è corresponsabile dello scatenamento del male, che subito monta quando si ha una debolezza del genere. Io non mi pongo più come fonte della giusta condotta altrui, dell’ordine e del bene ma mi affido all’amore naturale delle mie figlie, le quali mi rispettano proprio in quanto governo e domino e 601 cominciano invece a odiarmi e a disprezzarmi non appena mi affido al loro amore filiale. L’uomo che si affida all’amore di una donna, figlia o madre o moglie, viene in genere disprezzato e non ricambiato mentre può essere amato molto se comanda, guida, governa, dispone, anche se con fermezza, indifferente al fatto di essere amato. Se tu non ti comporti in qualche modo per essere amato ma perché sei così, una donna può amarti. Se scopre che lo fai per lei, per l’ebbrezza che ti dà, grazie alla carica che ti trasmette, che ti ringiovanisce, ti dà le ali ai piedi, ti riempie di entusiasmo, ti spinge a rivelare il meglio della tua natura, allora lei si spegne e ti considera meno affascinante e desiderabile, perché tutto il tuo potere sta in lei. Se una donna scopre che tu dia sempre il meglio ti te stesso, ci sia o non ci sia lei, e nondimeno lei ti è indispensabile, e sarà lei stessa a capire da quali segnali impercettibili che non le sfuggiranno, allora ti potrà considerare, sempre che il tuo meglio basti a contentarla. L’amore fermo, sobrio, pudico della schietta Cordelia offende profondamente il padre, sensibile alle adulazioni delle altre due sorelle, un amore più ricco della lingua, l’amore di una donna che non riesce a sollevarne il peso fino alle labbra (I, 1), è segno per re Lear di non amore, essendo invece la sproporzione, l’eccesso i segni tipici del vero amore. Ma può mai esserlo l’amore di una figlia? Cordelia onestamente ne dubita, dicendo: “Non mi sposerò certo come le mie sorelle per amare soltanto mio padre”. Sia pure un padre che l’amava sopra tutte, non per un segreto spirito incestuoso, ma per un inespertissimo amore paterno, quasi egli fosse il re anche delle figlie. Un padre regale che diventa folle prima che le altre figlie, privilegiate, lo tradiscono, semmai proprio quando non apprezza l’unica sincera e fedele. Si parla di figli legittimi e di bastardi ma è indubbio, dice uno di questi ultimi, Edmund che: “Mentre noi, nella gagliarda clandestinità 602 della natura / abbiamo una carica di più fiero vigore / di quanta se ne impieghi per creare, in un letto / Pigro, stanco e stantio, un’intera tribù di scimuniti / generati tra il sonno e la veglia” (Re Lear, I, 2). Re Lear si libera del potere per andare “senza più ingombri verso la morte” (I, 1); Gloucester lamenta che “ogni sorta di ingombri travagliano il nostro cammino verso la morte” (I, II); Edgar dice che “le lusinghe della vita ci inducono a soffrire di ora in ora le pene della morte piuttosto che morire subito” (V, III). In tutti e tre i casi si nota che è il cammino per la morte a essere così accidentato e duro, che non soltanto si va verso la morte ma è anche assai duro conquistarsela se non come premio, come sollievo di tanto faticoso percorso, che agonizziamo tante volte invece che morire una volta sola, subito e per bene. Che insomma quello che non va, il nostro assurdo, è che paghiamo con tante sofferenze quotidiane e parziali il diritto di una sofferenza ultima, sola e totale. Re Lear impressiona molti lettori ma non è nulla dopo le tragedie horror, di macelleria, di stragismo, di amorale e primitiva violenza dall’Enrico VI al Riccardo III. E non è nulla perché, come nell’Edipo re di Sofocle, al quale si richiama non per trama e disegno ma per la potenza dell’isolamento tragico di un uomo segnato dal destino a soffrire l’impossibile (benché a petto di Edipo re Lear la fa un po’ troppo tragica), alla fine un valore viene non soltanto affermato ma esaltato in questo dramma, e cioè quello della riconoscenza e della fedeltà delle figlie nei confronti del padre che invecchia. E soltanto con questo valore dato per certo è tragica la vicenda. Così come l’Edipo re potenzia, facendone un assoluto valore, il fatto che non si deve uccidere il padre né avere legami sessuali con la madre. Il padre si può definire l’uomo che meno di ogni altro si può uccidere. La madre la donna che meno di ogni altra si può desiderare. Perché? Il primo perché ci ha dato la vita. E la seconda? Si potrebbe obiettare che desiderandola noi non facciamo opera avversa alla vita. 603 E tuttavia, oltre alle infinite complicazioni sociali e morali che affliggono l’adolescente che può arrivare per qualche giorno o mese a essere afflitto da desideri morbosi verso la genitrice, soprattutto quando non ha occasione di vivere una vita erotica sua e bene orientata (vedi Il lanciatore di giavellotto di Paolo Volponi), tale eros incestuoso è segno di una malattia del tempo, di una perversione evolutiva, di una regressione patologica che è essa a essere contrastata dal tabù, più del rischio di un figlio fratello con gravi malformazioni fisiche. Re Lear tragedia della vecchiaia? Di un re della vita che perde il suo potere su di essa e viene abbandonato e poi minacciato dalle sue stesse figlie? Non si può negare. Re Lear tragedia dell’ingratitudine, di quella variante del tradimento che per Shakespeare è il nucleo più profondo dell’esistenza? Altrettanto vero. Ma soprattutto il Re Lear è la tragedia della nostra incapacità di accettare la natura e il suo ciclo. È la tragedia della rivolta impossibile e destinata alla follia contro la natura. Se nessuno di noi vuole essere abbandonato da vecchio dalle figlie, nessuno di noi vuole neanche dipendere per sempre dall’arbitrio dei vecchi genitori. Nessuno vuole essere fedele fino alla morte alla natura. Ecco che Lear, che scopre il tradimento della figlia, che lo ha adulato amorosamente soltanto per ereditare il regno, le scatena la seguente maledizione: “Ascolta, Natura, ascolta! Dea venerata ascolta! Se mai intendesti rendere quest’essere fecondo, revoca il tuo proposito, riversale nell’utero la sterilità, prosciuga in lei gli organi della generazione, sì che dal suo corpo degenere non scaturisca un figlio ad onorarla (I, IV). Re Lear, un canto della natura Tutto il Re Lear è un canto della natura: Lear aveva una natura di padre affettuoso (II, I), Gloucester crede che il figlio Edmund sia leale perché è naturale; la natura, quando siamo infermi, impone 604 all’animo di soffrire col corpo e “noi non siamo più noi stessi” (II, IV); la natura è nel vecchio “al limite del suo dominio” (ivi); Lear crede che almeno la figlia Regan conosca “gli affetti della natura”. Tutti i torti subiti da Lear sono contro natura (III, I) e “la natura dell’uomo non può sopportare né la violenza né il terrore” (III, II). Re Lear impazzendo diventa “un frammento corroso della Natura” (IV, VI). Cordelia invoca gli dei: “Rimarginate la grande ferita aperta nella sua natura” (ivi). Un gran canto della natura, insomma il Re Lear, madre adorata, promotrice di affetti e di lealtà, di salute e di legami di sangue leali e profondi tra genitori e figli, matrice della vita sociale che orienta secondo il suo potere. Eppure madre impotente “su questo enorme palcoscenico di matti” (IV, VI) dove leopardianamente quando si nasce si piange perché intuiamo cosa ci aspetta. E noi uomini, nelle parole di Edgar, figlio bastardo e leale di Gloucester, dobbiamo sopportare l’uscita dal mondo come l’ingresso. E tutto sta nell’essere maturi (V,II). Forse un invito a scrutare quelli che nel Macbeth (I) Shakespeare chiama the seeds of time, i semi del tempo? O a cogliere il momento di grazia del salto, l’istante in cui si può trasformare la caduta dalla pianta in un salto acrobatico, la forza di gravità in una decisione nostra? Gli uomini animali di Shakespeare Shakespeare nell’Enrico VI (nella prima delle tre parti) non perde occasione di richiamare gli uomini alle somiglianze animali: i soldati inglesi scappano davanti alle truppe francesi guidate da Giovanna “come api cacciate col fumo dai loro alveari; o come colombe coi fumenti nauseosi dai loro colombai” (I, 5); il Delfino e la sua ganza vengono correndo, “appaiati come due tenere tortorelle che non riescono a vivere se non appaiate giorno e notte” (II, 2). 605 E dov’è la novità? Da sempre tali somiglianze sono state colte, dalla favolistica greca e latina fino a oggi. La novità sta nel fatto che sempre meno si tratta di somiglianze e sempre più di metamorfosi: ho visto un mio vicino trasformarsi in un cinghiale e al piano di sotto c’è una signora che si muove come un’oca. E appunto, dov’è la novità? Queste metamorfosi ci sono sempre state ed è bene che ci siano: è il bisogno delle donne e degli uomini di appartenere a una specie, che essi stessi scelgono e nella quale si riconoscono per vivere più tranquillamente e in modo riconoscibile. La Giovanna D’Arco di Shakespeare “Una goccia di sangue tratta dal seno della tua patria dovrebbe contristarti più di un fiume di sangue nemico,” dice Giovanna d’Arco al Duca di Borgogna, nell’ Enrico VI di Shakespeare (III, 4). E lo stesso sentimento impregna il giovane Shakespeare, che vede la santa Giovanna quasi sempre con occhi inglesi, accogliendo la sua metamorfosi in strega e fattucchiera, visitata dai demoni (V, 3), infida e astuta, spietata e mordace, capace di sconfessare il padre pastore per i suoi presunti natali regali che, del resto, più di un’indagine storica in Francia convintamente sostiene. Fin presso al patibolo mente, dicendosi prima vergine poi incinta di Carlo di Francia, anzi, no, di Alencon, poi di Renato re di Napoli. Ma sono quei vaneggiamenti della disgrazia estrema, tipici in William, in cui la verità e la contro verità, ormai fantasmi di fronte alla morte, gettano un’ombra di gioco crudele sulla scena. Giovanna (tra sé): “Vero francese, volta e rivolta bandiera” (III, 4): che perfidia nel far dire a Giovanna stessa questa lode del suo popolo che re Enrico (IV, 1) chiamerà “volubile e malsicuro”, Che davvero sia stata chiamata, che davvero abbia fatto miracoli non per grazia di diavolo ma di Dio, viene appena lasciato dire alla stessa Giovanna (V, 4), prima che lei stesso capovolga tutto burlescamente e follemente. Ma, chiamata dall’alto o no, come re e principi hanno potuto ascoltare e seguire una ragazza, trascinandole dietro eserciti quando le donne erano dotate soltanto di “lance di paglia”? 606 Un personaggio del genere avrebbe meritato uno di quelle orazioni di lode e stupore nelle quali Shakespeare è maestro, fatte magari proprio dai suoi nemici inglesi, delle quali c’è pure un timido cenno, e che danno un equilibrio potente alle sue opere maggiori. Giovanna d’Arco: “La gloria è un cerchio nell’acqua che si allarga e si allarga finché, così allargandosi, si perde nel nulla” (I, 3). Giovanna: “Rammarico non è rimedio ma vana corrosione quando una cosa è irrimediabile” (III, 1). Il giovane Talbot morente sorride “quasi dicesse che se la morte fosse stata francese a quest’ora sarebbe morta” (IV, 7). E se fosse stata italiana? Montagne fantasma Pensare la verità vuol dire considerarsi il primo al mondo ma non c’è sempre un altro uomo che potrebbe pensare più e meglio di me? Se infatti una verità scientifica, prodotta dal pensiero, si scorpora da esso oggettivandosi nella misura in cui non è stata ancora mai falsificata da nessuno, come una vetta che uno scala, segnala agli altri, e da quel momento entra nella mappa comune nella sua realtà indipendente, una verità filosofica non si stacca mai dal processo che l’ha prodotta, sicché si potrebbe dire che l’alpinista filosofico fa la montagna che scala, la quale alla fine legittimamente porta il suo nome. Ma resta una montagna fantasma, che esiste finché un altro la riscala in solitaria o con una guida o essendo tu la guida di altri. E come fai a stabilire se un altro filosofo ha fatto scalando una montagna più alta della prima? Se la filosofia di Schopenhauer è più alta di quella di Hegel? Ecco che molti critici filosofici parteggiano per l’uno o per l’altro o scelgono un passaggio dell’uno e lo compongono con un dirupo 607 dell’altra formando una terza montagna, che è un montaggio delle prime due, o addirittura fanno la loro con rocce e pareti di decine di montagne diverse, ma che esistono sempre soltanto per tutti coloro che praticano la montagna. Mentre la fisica quantistica, anche se nessuno la scalasse più, resterebbe stagliata realmente non solo nel mondo dei fisici ma nel mondo di tutti. Eppure senza montagne fantasma esisterebbero comunque le montagne reali ma non esisterebbero più gli alpinisti costruttori di montagne, indispensabili alla sete di conoscenze fantasmatiche degli esseri umani, e senza di esse saremmo prigionieri dentro una chiostra di monti, dentro la quale la nostra vista sarebbe indifferente, essendo la realtà fatta tutta per conto suo e indipendente da noi. La sostanza è posta dai greci come hypokeimenon, ciò che giace sotto, tradotto poi nel calco latino in substantia, in base e fondamento, ma la vera sostanza non è invece il vertice, ciò che realizza la potenza del fundamentum, della base, di ciò che giace sotto? Il vertice dell’atto che compie e realizza, fa essere, la base potenziale. Pensare l’essenza vuol dire scalare il vertice di un ente, rischiando la pelle e ferendosi le mani mentre la parete rischia di sgretolarsi quando saliamo con gambe inesperte. Il pensare per potenza ed atto è un’intuizione poderosa e preveggente da parte di Aristotele, che troverà la sua legittimazione biologica nel codice genetico, nel quale già sei in potenza tutto ciò che sarai in atto, salvo incidenti e accidenti. Essere in potenza non vuol dire il semplice avere la possibilità di essere in futuro ma è già un essere determinante quello che sarai, benché invisibile. Benché nessuno di noi sia necessario, è però necessario che, non intervenendo agenti esterni a toglierci la vita o sfigurarla, il nostro corpo diventi soltanto ciò che già in potenza è. Magia della scienza 608 Scienze politiche, scienze bancarie, scienze infermieristiche, scienze della comunicazione, scienze della letteratura. La parola ‘scienza’ ha una potenza magica tanto meno si ha un’idea dei suoi metodi. La più prosaica e opportuna parola “tecnica”, oltre a svelare il carattere empirico, procedurale, protocollare di queste discipline, ne mostra il lato prosaico, nel farne cadere sotto gli occhi direttamente la sostanza, oggi considerata la cosa più prosaica che esista. Le procedure scientifiche reali invece sempre richiedono non soltanto un metodo sperimentale ma anche un oggetto che obbedisca a leggi universali, senza il quale non vi è scienza. Quella che è soltanto una prassi tipografica, una convenzione nel citare le fonti, una procedura accademica internazionale consolidata nello stilare le note si fregia del titolo nobile e terrorizzante di ‘scientifico’, aggettivo che viene usato magicamente nel senso di professionale, serio, rigoroso, mentre l’aggettivo ‘tecnico’ sa di officina, di lavoratore prosaico, di diligente travet, scientifico apre squarci di potenza gratificante e di applaudito rigore. E troverai che proprio ciò che è più labile e opinabile, come la prassi di posporre o di preporre la città alla casa editrice, di mettere o non mettere la virgola prima della data di edizione, acquisterà un carattere così stringente che tu penserai meno aggiornato e più sospetto lo studioso che non si attiene alla pratica tipografica accreditata del momento, fosse pure affidabilissimo e pregnante ciò che scrive. Nel discorso orale invece l’accademico intende per ‘scientifico’ il tono asseverativo e impostato, scandendo con precisione autorevole ciò che non è dimostrabile né verificabile: “Locke intendeva sicuramente dire questo e, come i maggiori studiosi internazionali convengono, non l’ha fatto per questa e quest’altra ragione.” Poesia del non vedere 609 Ci sono uomini che vogliono stare sempre dentro la vita: assistere al parto del proprio figlio, toccare l’amico morto, assistere da vicino all’incidente, e sembrano i più forti. Ma l’ironia della vita, che non sopporta si guardi troppo da vicino dentro i suoi misteri, si rivale su di loro, e non riescono più a liberarsi di ciò che hanno visto, come avessero violato un pudore della natura, che non ama essere spiata troppo da presso. Io ho preferito in quei casi non vedere, non assistere, e non credo si possa accusare di viltà chi vuole salvare la poesia del non toccare con gli occhi quello che l’immaginazione all’infinito ti rende qualcosa di troppo forte che neanche chi lo vive può guardare. Se non vedi la persona cara morta, essa ti sarà sempre presente viva. Diversamente mi disse una volta un’amica, invitandomi a guardare il marito morto, a me carissimo: “Guardalo, altrimenti ti sarà per sempre irraggiungibile”. Vero è che questo invito salutare ha sfatato la mia convinzione, e quella persona è comunque rinata in me, nonostante lo spettacolo fisso e irrevocabile del suo corpo disteso eppure segretamente spirituale. 1 dicembre Stima di sé nel tempo Una bella sensazione è quando scopri un tuo appunto al margine di un libro, una considerazione di tua mano su un romanzo o un saggio letto tanti anni prima, e li prendi sul serio, rispettando quel giudizio che sai meditato, stimando quel tuo te stesso, riconoscendolo come un tu affidabile, che potresti tranquillamente giudicare e correggere a tua volta, smorzato l’attaccamento affettivo al tuo gesto, e invece scopri per questa via inaspettata che guardi quel te stesso con riguardo, cosa impossibile quando devi considerare e giudicare quello che stai facendo ora. Ti stimi come se fossi un altro e ciò non solo garantisce la tua equanimità, ma ti dà una prova che sei degno di qualche rispetto. 610 Ci sono autori che, commentando in privato la propria opera, dicono di trovarla ora meravigliosa ora ripugnante, ora convincente ora penosa, a seconda del loro stato d’animo e del tempo della lettura. Ma questa oscillazione estrema del giudizio non è buon segno, perché vuol dire che la stessa opera oscilla e sfarfalla, se suscita reazioni tanto diverse, così affidate all’umore, al sentimento, alla severità più o meno incisiva dello sguardo, e induce la sensazione che non sia né meravigliosa né ripugnante, ma semplicemente indecisa e incompiuta in se stessa. Un giudice in ascolto La stragrande quantità delle cose che si scrivono sui giornali e si dicono in pubblico sono condizionate dal fatto che chi le scrive e le dice pensa a qualche ascoltatore di riferimento, al consenso del quale aspira. Lo studente dice quello che fa piacere al professore, il politico quello che compiace i suoi compagni di partito e soprattutto i suoi elettori, il giornalista quello che attira i suoi lettori, l’attore quello che fa piacere al molto rispettabile pubblico, lo studioso quello che lusinga il suo maestro o colui che dovrà favorirne la carriera, al contempo immaginando e vituperando gli ascoltatori della riva opposta, i concorrenti, gli avversari che immagina mentre lo deridono o lo criticano, dandogli la carica per i toni sferzanti e le strenue difese. C’è sempre un giudice in ascolto pronto a sentirsi tradito, a offendersi, a prendersela a male, a ritirare il suo consenso, a negare il suo appoggio, a vendicarsi alla prima occasione, a ribattere con pari acrimonia. Gli studiosi scavano trincee di citazioni, i politici si attorcinano in un linguaggio indecifrabile, i giornalisti si preparano con altalene di comunque e nonostante, e in ogni caso al cambiamento di vento. Arriva in privato il momento della verità ma diventa solo uno sfogo di emozioni ingiuste e represse, uno sfogo di rancori e di perfidie, uno svelamento di infamità o di furbizie, proprie o altrui, che non danno soddisfazione e non sono attendibili neanch’esse. 611 4 dicembre Relatività dell’albatros Baudelaire racconta nell’Albatros la sorte del poeta, simile all’uccello impacciato sulla tolda dalle sue stesse “ailes de géant” che “l’empechent de marcher”, tra gli scherzi dei marinai. Così è lo scrittore che fa una maratona di nuoto in solitaria e quando capita tra le mani degli editori sbraccia patetico e ridicolo davanti alle loro poltrone. Il principio della relatività galileiana secondo cui un osservatore all’interno di un sistema non può giudicare sulla qualità di quiete o di moto dei corpi vale anche dal punto di vista culturale e antropologico. Noi terrestri non possiamo giudicarci all’interno del sistema terra. Lo sguardo dall’esterno cosmico è indispensabile. Se l’abitante di un altro pianeta, nel corso di una passeggiata cosmica, si imbattesse per caso nel nostro - giacché solo per caso gli potrebbe capitare di scoprire la nostra esistenza microscopica probabilmente non potrebbe distinguere tra il naturale e l’artificiale, non sapendo cosa abbiamo fatto noi uomini e cosa abbiamo trovato bell’e fatto in natura. Vedrebbe le cupole e i campanili come forme non dissimili da boschi e querce e noi uomini come una specie animale tra le tante. Le città popolate da milioni di umani sarebbero simili a foreste abitate da migliaia di animali; l’acciaio, il vetro, il piombo, l’alluminio non sarebbero per lui diversi dall’acqua, dal fuoco, dalla terra. Forse cercherebbe da quali impianti l’ossigeno è sparato nell’atmosfera e quali fabbriche producono l’acqua del mare. Sarebbe proprio lui a capire, in virtù del suo errore di percezione, che tutto è in realtà natura, e nient’altro che natura, e quello che crediamo fatto da noi, dalla sua prospettiva esterna al sistema, diventerebbe solidale a un piano globale della natura, che ha prodotto attraverso noi anche la bomba atomica, le armi e migliaia 612 di sostanze chimiche, i computer, le televisioni e i cellulari, forse allo scopo di sopravvivere o forse per continuare la festa. Potremmo parlare di natura prima, indipendente da noi, e di natura seconda, trasformata da noi, ma a patto di estendere di molto l’incidenza della prima, che non si fa governare tanto facilmente e che opera attraverso i nostri istinti, anche in noi meccanici e indomabili, per concertarli a un piano d’insieme, che forse comprende anche le guerre, i cento milioni di morti ammazzati del Novecento, le malattie, la fame di miliardi di persone, la distruzione di aree vastissime del pianeta, dove noi uomini renderemo impossibile la vita, crediamo, per nostra insipienza assoluta, e invece sempre anche per un piano che ci oltrepassa, in nome di altra vita. La visione della natura oggi dominante, di una povera vittima innocente del nostro perfido dominio tecnico, di una sorella ferita quando non di una immensa donna inerme di fronte alla violenza delle belve artificiali che saremmo diventati, è allora molto presuntuosa e ingenua. La natura è sempre stata terribile, sempre noncurante del singolo, sempre maestosamente dominatrice, non solo quando si scatena in uno tsunami o in un’alluvione, in un’eruzione o in un terremoto, benché questo puoi vederlo soltanto in tempi lunghi, lunghissimi. La natura è più forte di noi perché è dentro di noi e oggi, come sempre, come scriveva Francis Bacon, non le puoi comandare nulla se non obbedendo. La convinzione che per la prima volta nella storia con la bomba atomica noi potremo distruggere il pianeta è miope benché fondata su fatti a prima vista incontrovertibili. Noi potremo distruggere due o tre generazioni. Una minima striscia di vita comunque, nella storia neonata del genere umano. Questa possibilità tuttavia, più dello sterminio ebraico, più di ogni strage bellica, è la svolta più terrificante di tutta la breve ma lunga storia dell’umanità. La semplice possibilità di farlo ci rende non uomini, in modo più sottile e catastrofico di qualunque altra tragedia sperimentata. 613 Essa ci dice che il male non è l’effetto delle azioni coscienti e perfide degli uomini ma che è una potenza sovrumana, un’anti creazione, un anti Dio del caos, della frammentazione, del disguido, dell’equivoco, dello sbaglio, dell’insensato, del pulviscolare, del disperso, del disseminato, dominante in modo tale che nessuno la potrà mai compattare e governare, se non ci fosse almeno la volontà di sopravvivere della natura che, avendo partorito dal suo seno l’uranio, non può che essere per una strategia sofisticata di vita che ci sfugge. Eccesso di aggettivi Preporre sempre l’aggettivo al nome in una prosa è segno di temperamento impulsivo, perché quando scriviamo sempre ci viene in mente prima l’aggettivo e poi il nome, sia perché spesso è proprio l’aggettivo a qualificare un nome, altrimenti neutro e polivalente, come ad esempio “esistenza” o “natura”, sia perché spetta all’aggettivo il carico emotivo con il quale investire il nome. Anteporre l’aggettivo qualificativo vuol dire anteporre l’effetto alla causa, l’impressione alla consistenza intrinseca della cosa. Se diciamo “Un’irritante imprecisione”, mettiamo in primo piano la nostra irritazione soggettiva rispetto al dato oggettivo dell’imprecisione, per di più imponendola, quasi fosse tutt’uno con la cosa. Se invece scriviamo “Un’imprecisione irritante” rimarchiamo prima il dato di fatto per poi aggiungere che noi, e forse altri, siamo o possiamo esserne irritati. Non è il caso tuttavia di farne una regola, tanto più se l’aggettivo è insolito rispetto al nome e azzeccato. Spesso un pensiero reale cerca la sostanza sobria del nome come un ormeggio, cosicché l’aggettivo può far fluttuare la nave nell’onda delle tue sensazioni soggettive soltanto quando hai bene ancorato il nome al molo. In tal caso lo possiamo preporre con tranquillità, anzi dobbiamo farlo. Molti considerano l’eccesso di aggettivi un segno tipico di dilettantismo letterario ma non si può fare una regola neanche di 614 questo perché, come in ogni altro caso di lingua, quello che conta è lo stile, e cioè la selezione, la forza inventiva, l’ordine, la gradazione, il colore, il sound degli aggettivi. Nello Zibaldone troviamo di continuo serie lunghissime di aggettivi, come di nomi e di verbi, anche tredici o quattordici di fila, che Leopardi dispone con maestria in sequenze sfumate di significati, con variazioni avventurose ed esatte che arricchiscono la conoscenza di un fenomeno e danno un effetto potente e gaio. I flessibili C’è sempre una ragione per la quale in un contesto storico un aggettivo diventa magico. Pensiamo alla fascinazione collettiva e alla altrettanto collettiva menzogna dell’aggettivo ‘flessibile’. Esso scongiura il rischio mortale di essere rigidi e, appunto, inflessibili. Chi è inflessibile oggi soccombe mentre il giunco che si piega, moralmente meno prestigioso, sopravvive alle alluvioni quando le querce crollano. Ma l’aggettivo non è privo di uno charme estetico, confinando con flessuoso, e quindi agile, mobile, adattabile e perciò idoneo alla sopravvivenza. Flessibile nel lavoro vuol dire essere giocosamente disposto a cambiarlo, essere plastico, mimetico e proteiforme, secondando le esigenze del mercato, che invece impone regole economiche inflessibili, inesorabili, immodificabili, rigidissime, proprio come una catastrofe naturale, che però un giorno ridonderà al bene di tutti, sempre che piegheremo il capo, sgusceremo tra le maglie, ci mimetizzeremo per non essere colpiti o fuggiremo altrove subito prima della mazzata. Dovremo fare sacrifici virtuosi per sopravvivere, i quali impongono un’inflessibile disciplina morale ma nel contempo dovremo essere agili come gazzelle, saettanti come lucertole, pronti ad assottigliarci per entrare negli interstizi per poi scattare come ghepardi quando la preda di un lavoro è a portata delle nostre unghie. Quando quest’uomo, questa donna dalla ferrea disciplina morale, votata al sacrificio per il bene della nazione, e plastica come un 615 Proteo, in grado di cogliere e di propiziare l’occasione in qualunque momento, si sente rispondere di no dai mille datori di lavoro ai quali ha felinamente spedito il suo curriculum on line, guardando prima nello specchio il volto virtuoso e patriottico, siede sul divano e guarda i suoi figli, d’improvviso le vele morali e civili si afflosciano. Non può neanche considerarsi malato, la colpa è solo sua, qualcosa non nei suoi modi di agire, impeccabili, ma nel suo modo d’essere deve essere sbagliato. Qualcosa che non ha nome ma è più potente di tutto il resto. Allora capisce la truffa e a questo punto non c’è più stato, legge, bene comune, religione, civiltà, dibattito. Siamo nella giungla ed entro sera dovrà trovare da mangiare ai suoi cuccioli, in qualunque modo. 20 luglio Due tigri che fanno sesso Quando vedi due cavalli o due tigri fare sesso, in uno di quei documentari balsamici sugli animali, ti colpisce l’austerità e la dignità dell’atto, dal quale si rimuovono con sobrietà sdegnosa. Gli animali dimostrano molto più buon senso e severità di noi in materia sessuale e, a dire il vero, anche quando uccidono non sembrano affatto compiacersene. Nondimeno lo fanno. Mentre nel bene conta anche lo stile, nel male contano i fatti. Impasto umano Una cena in compagnia, un gioco di carte, una partita di calcio vista insieme crea un io collettivo, rompe la bolla della personalità e impasta i conviventi, come se si formasse una sostanza vitale comune e interpersonale con un cuore unisono, una pappa emotiva che proprio fisicamente viene secreta ed impasta in un bozzolo comune le persone, che da quel momento dicono cose sulle quali sono automaticamente tutte d’accordo e vivono sensazioni 616 intercambiabili che riconoscono a vicenda. Quasi si formasse una squadra cerebrale. Dire un pensiero a voce? Potrei dire a un adulto uno solo dei pensieri che ho scritto, conservando la naturalezza con la quale possono essere ascoltati interiormente alla lettura? Certamente no. Le frasi dovrebbero essere molto più corte, spezzate e isolate e mancherebbe comunque l’elemento comune, non tanto il contesto specifico ma la postazione comune, la decisione di pensare in modo scorporato dalla personalità spicciola tua e mia e dalla storia dell’uno o dell’altro com’è conosciuta. Per dirla col Proust del Contre Sainte-Beuve, in essi è in gioco le moi profonde, non le moi empirique, ciò che in noi c’è di tendenzialmente universale e che nel contempo è il più identificante. In questo senso Proust, ne Le temps retrouvé, scrive che lui non ha affatto cercato di ripercorrere il fiume della sua vita bensì di cercarne la verità. E la verità non segue la corrente cronologica, come un fiume parallelo o un fiume dentro il fiume, bensì la taglia come una linea taglia una circonferenza, anzi una serie di anelli concentrici che si muovono a velocità diverse, sicché ogni punto di quella verità lambisce prima o poi la retta. E allargando la visuale in un modo che non è concesso a un umano, la linea d’acqua sinuosa e frastagliata della vita di Proust si rivela una tra miliardi di correnti individuali dentro un mare concentrico, che è l’insieme di ciascun fiume umano. La grande letteratura è sempre filosofica. Come la grande filosofia è sempre letteraria. Scherzi dell’immediato Più volte leggendo d’un tratto qualcosa e venendo a sapere di fresco qualcosa che non avevo mai sentito nominare, o il nome di un autore o una cognizione scientifica o il quadro di un artista, mi scopro a fantasticare di parlarne ad altri come fosse per me e per 617 loro una conoscenza naturale ed acquisita da sempre mentre ne ho appena scoperto l’esistenza. Per questo quando mi trovo a parlarne con qualcuno, sapendo che si tratta di un effetto ottico della vanità, aggiungo sempre che l’ho appena letto e dico magari anche dove, per una forma di onestà. Ma per uno dei tanti giochi prospettici che viziano ogni conversazione, questo viene visto come un’esibizione delle doti prensili del lettore, mentre se mi fossi limitato a parlarne con scioltezza, come qualcosa per me di comprovato, al punto da non essere tenuto a citare la fonte, sarei passato per una persona molto colta e di nessuno sfoggio. Così proprio lo scrupolo di non millantare un sapere appena accattato ti fa sembrare il contrario di quello che sei o che vuoi essere, mentre la presunzione e l’inclinazione a spacciare quello che non sai aumenta la tua autorevolezza e persino il riconoscimento della tua umiltà. Coloro che tappezzano i loro libri di autori appena assaggiati e di citazioni sfiorate in una lettura frettolosa ma col tono di esserne padroni e con la convinzione che tale padronanza li immette in un circolo elitario, dove tutti gli altri condividono le stesse cognizioni, gratifica i lettori, che a loro volta fingeranno a se stessi di sapere già ciò di cui si parla, credendo che il saperlo sia d’obbligo, e a loro volta passeranno la nozione superficiale appena acquisita ad altri, con lo stesso tono di maturata conoscenza, guadagnando a buon mercato una fama di persone colte e appartenenti a quel giro, nel quale conoscere quel nome è indispensabile, o si presume sia indispensabile, vista la ricorrenza della citazione, senza mai andare a verificare se quel nome ha davvero il valore che gli si attribuisce, e soprattutto se ha davvero detto quello che tutti d’accordo i membri di quella élite gli fanno dire. Io stesso, leggendo, sono risucchiato da questa tentazione, di riciclare subito la scoperta allettante appena fatta, come se tutti nel mondo l’avessero fatta all’unisono con me, ma un freno doloroso mi blocca e mi costringe ad andare a verificare di persona, e ogni volta trovo non solo che tale verifica è laboriosa ma che quasi sempre 618 l’esito di uno studio attento dell’affermazione riportata spinge in altra direzione. E in una stessa pagina di tali citazioni disinvolte se ne trovano magari cinque o sei, il che imporrebbe un lavoro improbo solo per smascherare quella superficiale lettura. Così la contestazione dei giudizi dati citando nomi dietro nomi è così sconfortante che non resta che chiudere il libro. Quanto del cosiddetto lavoro critico nei giornali non è che una disseminazione di giudizi aleatori, di orecchiamenti casuali, di architetture concettuali disorganiche, di citazioni di citazioni, di pareri arrampicati sulla suggestione di un momento. E quanto l’immaginazione, l’arbitrio, il fraintendimento, la lettura fantastica e a ruota libera creano una cortina di miliardi di parole, cumuli e montagne di frasi che costruiscono il loro senso nell’improbabile trasfigurazione del senso di quelle degli altri. Alla fine le parole sensate e le frasi che dicono qualcosa di provato si perdono tra trucioli di alluminio come animali vivi piene di ferite e soccombono gemendo vanamente nei libri fatti con gli scarti di produzione. Per garantirne la sopravvivenza bisogna procurare loro un ambiente vivibile, a cielo aperto, con un’aria fina e cibo di cui nutrirsi: un libro vero. Scherzi della fama Ci sono autori conoscere i quali ci qualifica come persone colte, ignorarli come ignoranti. E ci sono autori che possiamo tranquillamente ignorare e sono nelle nostre mani. È in questi casi che scatta la nostra responsabilità e la capacità di lusingare la nostra vanità di conoscitori, fondandoci su un merito che dobbiamo essere in grado di comprendere. In caso contrario saremo i servi della fortuna altrui, cercando di galleggiare noi stessi sulla scia della fama che non si sa chi, beatamente volando, ha lasciato nel cielo. Ma quanti sono in grado di farlo con giudizio esatto e spassionato? 619 Chi riesce a farsi nominare da molti è certo che sarà nominato da moltissimi, veleggiando sulla pigrizia e sulla vanità umana senza mai accendere il motore. Né c’è da sperare che i posteri ristabiliscano i valori se non dopo lunghissimo e a volte plurisecolare passaggio di tempo. Ma coloro che sono famosi adesso non devono illudersi di essersi salvati dal naufragio perché essi verranno comunque cancellati e sostituiti da altri famosi a termine, con contratto di esistenza annuale o semestrale. La cella Uno scrittore è famoso e venduto in tutto il mondo, un altro sconosciuto e invenduto. Il novanta per cento della loro vita è identico, se sono scrittori veraci, seduti o in piedi, a leggere e a scrivere, casti e onesti, ricominciando ogni volta da zero. Stratagemmi È buona regola scrivendo su un autore grande, riportare moltissimi passaggi delle sue opere, sia per avvalorare quanto ne scriviamo sia perché la loro bellezza e valore si riverbererà sul nostro libro, che non sembrerà mai vano a qualunque lettore. Quando comincio a leggere qualunque libro e ad ascoltare qualunque persona la mia prima attitudine è di diffidenza. Parto sempre dall’idea che ciò che scrive e dice non ha valore e costantemente rimango in questa posizione finché non mi convince del contrario. E allora sono certo che effettivamente vale. Non importa se perdo un pensiero perché prima o poi, tra un giorno o dieci anni, lo ripenserò. 9 dicembre 620 Pensieri submolecolari Si possono paragonare i pensieri a quelle particelle submolecolari che compaiono all’improvviso negli schermi dei computer del Cern di Ginevra, quando fanno scontrare due particelle nell’anello sotterraneo, e che i fisici dicono essersi create in virtù dell’energia, per esistere un tempo infinitesimo e sparire con altrettanta velocità. Possibile che un giorno venga messo il cervello al centro di un anello e calcolata la velocità necessaria al pensiero per crearsi, per una fortissima accelerazione delle sinapsi neuronali. Non sparirà per questo meno velocemente e starà sempre a noi, non all’anello, inseguirli e fissarli sulla carta. Frustra La frustrazione, il far qualcosa frusta, invano, la vanificazione degli sforzi, è una delle esperienze più diffuse nel mondo contemporaneo, nel quale troppi uomini e donne vogliono troppo, troppo spesso e troppo velocemente. Mancando la facoltà di assaporare il fatto, di degustare la soddisfazione dopo un’attività frenetica della mente o del corpo, di isolarsi dagli altri e dal contesto come un animale placido, un Nero Wolfe che, qualunque cosa accada, e per quanto intricato sia un problema, rispetta sempre i suoi bisogni di cibo e di sonno, tutto è fatto vanamente, perché tendente all’infinito. La frustrazione incombe in certe persone al punto che pensi che quasi ne godano e che non riescano a liberarsene, e anelino a trovare conferme alla convinzione di essere segnati e quasi condannati a operare vanamente, al punto di incorporare in sé il vano, ad essere appunto frustrati, frustati dal vano. Con queste persone la delicatezza non è mai troppa, ma è sempre troppo poca, perché anche le lodi verranno pensate vane, giacché private e inefficaci. E anche il convinto riconoscimento sarà pensato dovuto a motivi estranei al loro valore, o solo tangenti a esso, e 621 quasi compenso affettuoso e pietoso di chi già sa che il loro bene non verrà conseguito. Tali persone arrivano a usare la frustrazione per agire e finiscono per essere più laboriose e smaniose degli altri, fuggendo da quel sentimento che li insegue e li incalza, e li incita a un moto amaro ma non per questo meno rapinoso, anzi di più. “Le dignità sono come le facce: non ne esistono due uguali” (Nero Wolfe in Before Midnight). Ognuno deve cercare la sua specifica forma, per non cadere nell’invano. Una nevrosi romantica, combinata con un’isteria fisiologica, genera il tipo umano oggi dominante, il quale o continuerà smaniosamente a fare senza fermarsi mai a pensare o si fermerà tetro e rimuginante, e allora comincerà ad avvelenare se stesso e gli altri, sperando furiosamente che la stessa vanità sia sperimentata anche dagli altri, e pasticciando tutto, sia quello che riguarda lui sia quello che riguarda gli altri, le faccende dei quali per qualche ragione sono allacciate ai casi suoi, procedendo con una strenua e confusionaria inerzia. Neanche così il senso di vanità, di uno sforzo accanito e torbido che non produce l’effetto, si placherà, anzi si accentuerà, perché l’uomo frustrato continua a voler conseguire l’impossibile soddisfazione proprio per mezzo di quegli stessi altri i casi dei quali imbroglia e danneggia per non volerne l’esito. La frustrazione, la delusione, l’avvilimento, lo scoraggiamento, la sfiducia generano un orgasmo nero, un gorgo di dolore che si scarica dentro come in una cloaca senza fondo. Si tratta di una forma impropria di amor proprio, di un amore cioè che si nutre di sé, che mangia sé, come noi fossimo di nostra proprietà. Come il vero amore è quello corrisposto o, se non è così, di pura donazione, così l’amor di sé è sano e vitale se corrisposto, se corrispondente alla nostra natura, se non lo godiamo, se non ci appropriamo gelosamente della vita in noi, quasi fossimo un tesoro di carne che tutti, e noi prima di ogni altro, debbano pregiare. Noi possiamo amarci soltanto senza possederci, come una creatura tra 622 tante, che abbiamo la responsabilità di governare, di orientare e rispettare, come facciamo con un figlio o una madre anziana, assistendoci senza soffocarci con ciò che non siamo e vorremmo essere. L’orgasmo nero della frustrazione è un amore di sé impossibile, e quindi infelice. L’unica soluzione, che è poi un rinvio all’infinito, ma benigno, della soluzione, è dedicarsi a un altro, servire un altro. Arduo da comprendere ma letteralmente vero è che dobbiamo servire anche noi stessi come un altro, in quanto un altro. Rottura tra fratelli Quanti legami tra fratelli, tra generazioni e figli si corrompono e devastano per denaro o per interessi al denaro connessi. Guardandoti intorno troverai che alla morte dei genitori, almeno in una famiglia su due, i fratelli guasteranno o romperanno i rapporti quasi sempre in via definitiva. Ma lo stesso accade anche in mancanza di interessi e quando la morte dei genitori scatena una rivalità su un piano meramente simbolico e spirituale, a tal punto la voce del sangue, in una società quasi del tutto artificiale e convenzionale, è debole o afona. E ciò accadrà non solo in fratelli giovani, che potrebbero pensare di avere tanta vita davanti per riparare i danni e ricomporre l’amicizia, ma anche tra quelli ottantenni e in odor di morte, i quali saranno tanto più accaniti quanto più l’attaccamento alla roba, tipico dell’età, la memoria dei torti subiti nell’infanzia, che torna vivida alla memoria più dei decenni recenti di frequentazione serena e composta, il bilancio scompensato della propria vita scatenerà un odio tanto maggiore nei confronti dei più prossimi in quanto non sono stati capaci di aiutarci in nessun modo a tamponarne il dolore. Non soffrire per la morte dei cari 623 I giovani si stupiscono di vedere i genitori non soffrire come vorrebbero della morte dei nonni, che loro vivono acutamente e con disperazione. E non sanno che è perché i genitori già si sentono alla morte propria più vicini. La rassegnazione di fronte alla morte propria fa sì che si soffra meno della morte degli altri. Il modo di affrontare le situazioni cambia in base all’aspettativa che ti trovi davanti. Difficile che un giovane pensi che la persona anziana con la quale sta combattendo senza esclusione di colpi in una disputa professionale o in una competizione economica che può rovinare i beni dell’uno o dell’altro, possa venirgli sfilata dalle mani all’improvviso ad opera della morte. E dovremmo trovare più audace il vecchio, che avrebbe meno da perdere, mentre invece più facilmente lo sarà il giovane, che è vero che ha più vita da perdere, ma solo se consideriamo il futuro, mentre ne ha molta di meno considerando il passato, quando il vecchio, morendo o perdendo i beni, ha la sensazione di perdere anche tutta quella vita già vissuta che in realtà non è già più sua. Benefici per poveri di spirito Che si abbiano pochissimi amici è che i conoscenti si vedano non troppo assiduamente è un bene. Solo così gusteremo il meglio dell’amicizia e della vita sociale. Non solo perché i difetti si terranno nascosti ma perché la gioia di rivedersi sarà più sincera, avendo avuto il tempo di dimenticare i torti e di idealizzare le qualità di coloro che ricerchiamo soltanto quando ci sono mancati. Tratta con freddezza i nostri mali. Meglio, così non diventerà ipocrita. Mette sempre se stesso al centro. Meglio, così non frugherà in modo indiscreto e invadente nella nostra vita. Parla sempre dei suoi casi. Meglio, così si scoprirà, facendoci capire la natura umana molto meglio che se parlassimo noi. Ma a che ci servirà scoprirla se tanto non riusciremo in nessun modo a cambiarla? A non perdere la pazienza nei casi particolari. Arrabbiarsi con qualcuno perché è meschino, sfogarsi contro di lui rinfacciandogli i suoi torti, soffrire per un’offesa subita, per una 624 promessa smentita, per una doppiezza di comportamento nei casi singoli, è dolorosamente vano. Non solo perché, come scrive Leopardi, gli uomini sono tanto cattivi quanto loro bisogna, ma perché mostreremo di non capire che sono meschini anche quelli presso cui ci lamentiamo, che abbiamo noi stessi tradito una promessa, che siamo doppi ogni giorno per sopravvivere in mezzo a esseri tanto diversi e incompatibili. Ogni giorno offendiamo qualcuno che ci odia, senza che noi ce ne accorgiamo, tanto più oggi in cui i parametri di valore sono tanto vari e non esistono più leggi morali condivise, per cui davanti a noi c’è uno che ha abitato vent’anni nel nostro stesso quartiere e crede nei valori esattamente contrari ai nostri, conformando la propria vita in modo da odiare noi molto prima che abbiamo cominciato ad accorgerci della sua presenza. Se noi ci immedesimassimo in un altro, studiandone letteralmente la vita e forzandoci a ragionare dal di dentro nella sua testa conformata dalle esperienze che, documentandoci, abbiamo raccolto su di lui, noi capiremo la sua ostinata volontà di aver ragione e la necessaria sequenza delle sue azioni, sia pur compiute nella perfetta cecità su qualunque punto di vista esterno. Vivi come visto dagli altri, dai più puri degli altri. Leggi nello sguardo dei puri, e soprattutto delle donne, e capirai da quello come sei. Se abbiamo la fama di uno che pesa le parole ed evita di mordere gli altri non per questo saremo esenti dall’offendere, perché se lo faremo senza accorgercene, ed essendo chiaro che sarà stato involontario, feriremo la persona molto di più, e non per una volontà cattiva emendabile ma per la nostra stessa natura profonda e inconsapevole, che verrà trovata incompatibile in modo crudo e inesorabile. Gli studenti televisivi 625 Insegnando da trent’anni, ma mai per trent’anni, bensì sempre oggi, ho conosciuto migliaia di studenti per nome e cognome, in varie regioni italiane, e mai ho provato per loro un moto di repulsione, di antipatia, di malanimo, di risentimento, anzi il contrario, come se, nel mistero della pedagogia, una luce illuminasse ogni incontro e fosse per me naturale vedere ciascuno nel suo evidente mistero creaturale. Studiasse o no un ragazzo, fosse malleabile o coriaceo, impossibile o conciliante, sempre è stata in essi evidente non solo la sincerità, anche delle loro menzogne, ma la serietà con la quale vivevano il passaggio cruento dell’adolescenza. Ogni volta che guardo invece uno sceneggiato televisivo ambientato in una scuola, i ragazzi che vedo rappresentati sono tutti regolarmente nauseanti e, se dovessi giudicare i giovani da quelli, non avendone un’esperienza diretta e quotidiana, penserei che stia correndo oggi la generazione più disgustosa e repellente che sia mai esistita. Sempre affettati, grondanti sensazioni false ed emozioni tanto irruente quanto irresolute, finti in ogni espressione, sgangherati e impolpettati nel modo di parlare, o bulli, muscolosi e torvi oppure eterei, inciuffettati e sempre sull’orlo dell’idiozia sentimentale; o impulsivi o imbevuti di passioni infantili e millantate. Sempre somari o banalmente sgobboni, vitali e smaniosi quanto irragionevoli e sconclusionati. Le ragazze maliziose fino al veleno o candide e con la bocca spampanata come rose bianche, scontrose fino alla cafoneria e spocchiose e piene di capricci incomprensibili o dedite a un volontariato idealista con occhioni tra l’ebete e il mammolone. L’ambientazione è regolarmente romana ma essendo impossibile che la capitale abbia sui ragazzi questo potere di rimbambimento collettivo, per cui vagano tutti tra una sbronza, una scuffia, un’ignoranza sfottente e una spavalderia nevrastenica, deve esserci qualcosa che non va nella percezione che sceneggiatori e registi hanno delle generazioni più giovani, in sintonia con la gran parte 626 degli adulti che non li frequentano e traggono informazioni soltanto dalla stampa, dal cinema e dalla televisione, che congiura a deformare l’età più severa, radicale e degna di rispetto della parabola umana con caricature beffarde e parodie patetiche. Gli insegnanti dipinti in televisione passano gran parte del tempo ad affrontare con un sentimentalismo ridicolo le relazioni amorose tra i ragazzi, a salvarli dal suicidio e a confortarli nei traumi per le separazioni dei genitori. Non sono mai colti nel trasmettere in una lezione un tema culturale che abbia un senso ma sempre nel vibrare come libellule, con antenne sensibilissime alla minima turba dell’animo perennemente innamorato dei loro protetti. O sono assistenti sociali o psicologi selvaggi, o detective o preti mancati oppure sadici e ottusi persecutori. Ficcano il naso nei fatti personali delle famiglie ricevendo porte sbattute in faccia o patetici ringraziamenti di madri impotenti. Agli esami di maturità passano la soluzione dei problemi ai loro allievi, convinti di dimostrare una profonda comprensione umana, mentre chi cerca di salvare una regola elementare è una macchietta sulla quale riversare il sarcasmo collettivo. Oppure una canaglia. Quando ero giovane la cosa che più mi disgustava e segnalava l’ottusità adulta era che parlassero sempre dei giovani come di una categoria. In nessun’altra età della vita si deve subire la stessa condanna di essere incasellati e schedati nella propria condizione anagrafica e di dover subire sulle proprie spalle il comportamento di qualunque coetaneo, come un addebito obbligatorio. Il razzismo anagrafico è seducente e pericoloso. Un giovane invece deve appartenere alla classe dei giovani come un extraterrestre, non è una persona con nome e cognome, non è maschio o femmina, non è intelligente o ottuso, non è generoso e avaro, non è rivoluzionario o conformista. È giovane. Tutto il resto è un’appendice e una tinta secondaria. Passa il tempo o a essere lusingato e vezzeggiato per la fortuna immeritata che gode, incedendo sulla passerella biologica, o a essere stroncato e dileggiato per l’idiozia irresoluta che la massa giovanile stampa irrevocabilmente sulla sua esistenza personale. 627 11 dicembre O la stima o il vantaggio Le persone che assillano gli altri per conseguire quello che vogliono risultano insopportabili ma riescono quasi sempre a farsi aiutare, mentre quelle che non chiedono per una loro etica elementare, o dignità od orgoglio, non ottengono nulla, pur meritando più dei primi. Ma siccome i primi, che hanno avuto il bene desiderato, per il modo con cui l’hanno raggiunto non vengono stimati, è necessario che i secondi, per continuare ad avere il bene della stima, devono rinunciare a quello del vantaggio pratico. Così viene riconosciuto pubblicamente un valore che non esiste e coltivato privatamente un valore che esiste, per fare in modo che la somma dei beni e dei mali sia equamente distribuita. Se scrive così male, che perlomeno venda tanti libri. Se scrive così bene, non può pretendere anche di venderli. Se è molto intelligente, questo è già un tale dono che non gli si può dare anche una cattedra universitaria. Se è così sciocco abbia almeno un qualche compenso nel vano mondo delle cariche, dei titoli e del prestigio. Se è così brutto e solo, diamogli almeno un incarico di medico mentre la bella ragazza troverà la sua strada anche senza una nomina al concorso. E così via, questo modo di far giustizia da soli, per risarcimento di un equilibrio che in natura non esiste, finisce per far proliferare una selva intricata di privilegi, ingiustizie folli e incomprensibili, corruzioni e anomalie senza rimedio, ottenendo l’esatto contrario rispetto a quello, nei casi migliori, illusoriamente perseguito, e cioè emendare le brutali e secche disparità della natura, mentre non si fa che aggiungere crudeltà sociali a crudeltà naturali. Da Hawthorne a Stevenson 628 In La lettera scarlatta di Hawthorne c’è un’arte straordinaria nel persuaderci come proprio l’innocenza sia perversa e come per essere solidali e capire gli uomini sia necessaria una colpa. Un tendenza al male latente può sempre affiorare all’improvviso quando la situazione la risveglia. Proprio come in Stevenson, nei Weir di Hermiston (Una famiglia di frontiera), che scrive: “in ciascuno di noi dorme, finché un’occasione propizia non lo desta chiamandolo all’azione, un nostro remoto antenato: un Barbarossa, un antico Adamo.” La natura di un uomo è in gran parte letargica e segreta finché un’occasione non la risveglia e soltanto in quel caso (una violenza, un rischio mortale, una scelta che mette in gioco tutto) scopri chi sei. Ma è raro che accada, fuori dei romanzi, e per qualcuno non giunge mai il momento della verità e così ci contentiamo di sospetti, di tratti crudeli o pazzamente generosi che tralucono da spiragli e restano opinabili e incerti. Il che è quasi sempre un bene, se pensiamo come potremmo scoprirci diversi e ingovernabili in una guerra o nella disoccupazione o abbandonati da un giorno all’altro dalla donna che amiamo. In Stevenson però, a differenza che in Hawthorne, sotto l’ala fatale e grandiosa di un male intessuto nelle fibre di ciascuno, il coraggio, l’onore, la lealtà imprimono una rotta nitida e innocente alle azioni di coloro che sono dotati di una natura sincera e nobile, i quali nettamente si staccano in qualunque circostanza dagli altri e generosamente spandono la luce aristocratica della loro purezza, sopra le onde del male e delle morbosità calviniste. Non c’è un piano di bene, un finalismo provvidenziale che ci garantisca ma proprio per questo non è né la religione né la morale convenzionale bensì l’onore quella virtù anarchica e nativa che si impone col suo candore avventuroso. Proprio perché: “Il mondo non è fatto per noi, è stato creato per milioni di persone, tutte diverse l’una dall’altra; e da noi; non c’è strada maestra, siamo 629 costretti a inerpicarci e a muoverci alla cieca.” (Weir di Hermiston, Opinioni in tribunale) Non vi si può certo parlare di allegoria, perché il senso palese è già morale. Il male è del tutto immanente, al punto che si scopre una strana relazione tra anima e corpo, nella quale non solo le malattie fisiche dipendono dallo stato psichico ma addirittura rivelano qual è lo stato degli organi psichici: “Infatti dovunque siano un cuore e un intelletto, le malattie dell’organismo ne rispecchiano sempre lo stato particolare” (La lettera scarlatta, IX, Il cerusico). Hawthorne sa bene, e non si stupisce, che “molti personaggi di eccezionale santità in ogni epoca del mondo cristiano, fossero perseguitati o da Satana in persona o da qualche suo emissario” (IX). Agenti diabolici che col permesso divino potevano tramare nell’intimità di una persona. I poteri del diavolo È singolare però che molti uomini che non vanno mai a messa, perché non sono credenti fin dall’adolescenza, avendo rimosso e distaccato da sé il mondo religioso, continuino a sentire con vividezza angosciante la presenza diabolica. Un mio amico incredulo mi ha detto di aver patito un incubo in cui subiva il demonio e un altro, che si tiene ben lontano dalle chiese, mi ha addirittura confidato in tono cospirativo che secondo lui un suo amico è stato ucciso dal diavolo. E francamente non si comprende perché allora non si difendano con la fede da un male che alla fede è simmetrico e opposto e che solo per il credente ha senso. Il diavolo esige una fede robusta. Io non nomino mai il diavolo e già questa breve eccezione mi mette a disagio. E questo grazie a un prete della mia infanzia, poi scappato con gli arredi religiosi, che ci perseguitava con racconti di scatenamenti diabolici ed esorcismi. Non so quante notti ho faticato 630 ad addormentarmi per paura che la mano del diavolo sfiorasse le lenzuola e che un solo secondo di cedimento, tanto più facile a occorrere nell’inermità prossima al sonno di un bambino, nel dormiveglia in cui affiorano pensieri ingovernabili, mi consegnasse a lui. E questo proprio in virtù della mia innocenza. Da allora ho avuto talmente in odio la follia di una tentazione che colpisce l’innocente, di una persecuzione che offende il santo, di una macchia che ti imbratta per puro arbitrio, ho trovato talmente morboso l’indugiare nei meandri di una superstizione feroce che colpisce solo o di più le anime più sensibili, da credere le più ispirate le parole di Francesco di Sales, il quale diceva che il diavolo non va combattuto se non dimenticandosi che esiste. Nel Padrenostro c’è una frase: “E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male” che alcuni teologi vorrebbero tradurre in modo più blando e rassicurante: “E non lasciare che il diavolo ci induca in tentazione”. Quando invece è chiaro dai Vangeli che i diavoli, non essendo divinità di pari grado vòlte al male, bensì rigorosamente subordinate a Dio, non hanno mai facoltà d’intervento se non con il lasciapassare di Dio il quale, per sue ragioni imperscrutabili, mette alla prova i suoi prediletti. Se il diavolo fosse indipendente da Dio, sarebbe invincibile e scatenerebbe una guerra perenne e manichea, male ben peggiore di quel minimo male a fin di bene nominato dai Vangeli, che invece rende a Dio tutto il suo potere invincibile, tale da orientare il diavolo soltanto contro uno che può reggerne la tentazione. Il diavolo dipende sempre da Dio. Ma molti abbandonano Dio e credono solo nel diavolo, nel senso che lo temono a ogni passo, e finiscono così per servirlo a causa del terrore che ispira loro. E pur non facendo un male grosso si corrompono per viltà e passività. Che è la sciocchezza più grave che si possa fare. Ma il Novecento ha scatenato un male così micidiale e così palesemente nato dalla libertà umana che perfino alla chiesa è sembrato francamente troppo sovraccaricare uomini così fragili, provati, prostrati, sovraccaricati già in terra di mali di ogni genere 631 con uno specialista professionista del male sguinzagliato contro credenti così deboli e malsicuri, che di sicuro li avrebbe volti, se agitato come minaccia, verso sponde ancora più lontane dalla parola di Dio. Ed è per questo che chi tutte le domeniche va a messa mi riferisce che quasi mai si nomina questo nemico che Dio invia soltanto, come dice Hawthorne in La lettera scarlatta, a “personaggi di eccezionale santità,” che si fa fatica a trovare. Il sentimento dell’onore Il sentimento dell’onore non è legato solo ad una arcaica antropologia mafiosa o camorrista ma neanche solo a una visione aristocratica della vita, o a una borghesia imprenditoriale e commerciale calvinista, ormai scomparsa ai livelli massimi della ricchezza e del potere. Esiste anche un onore letterario, non certo nel senso che i poeti sono stati costretti fino a qualche decennio fa a duellare, e a giocarvisi, come nel caso di Puškin, la vita. Intendo un onore che si misura e si esprime nell’opera, come in Stevenson e in Conrad, sentimento che nel Novecento italiano sopravvive più che in altri in Italo Calvino, autore da molti e assurdamente giudicato freddo e inidoneo a cedere a qualunque passione espressa, fin quasi a una cancellazione di tutto il corredo romantico, dalla nostalgia al desiderio infinito, dal rimpianto al rimorso, dalla paura alla passione amorosa sfrenata. Ma se uno guarda dentro Calvino trova una parete di sesto grado mentre a prima vista nei suoi romanzi e racconti compare una piana stilistica e umana. Ma è appunto questa la parete di sesto grado e ci vuole una chiara idea dell’onore sportivo, della letteratura come scuola e autoscuola di vita alpinistica, per capirlo. Da Stevenson a Conrad Lo sguardo dal basso, fisicamente dal basso, del ragazzo dell’Isola del tesoro è in realtà uno sguardo dall’alto, spiritualmente ispirato, se è vero che soltanto chi è fisicamente pronto, agile, svelto, coraggioso, 632 lo è anche in spirito, soprattutto perché il bene viene dal male, la salvezza dalla disperazione e dalla follia, se sai fare la capriola al momento giusto: “A quelle parole provai un senso di disperazione perché mi sentivo del tutto impotente. Eppure, per una strana concatenazione di circostanze, proprio per mezzo mio venne la salvezza” (p. 84). Oppure: “Non pensai, in quel momento, che nel frontino restavano soltanto due uomini in grado di combattere; e questa fu la mia seconda follia, di gran lunga peggiore alla prima; eppure, come la prima, contribuì a salvare la spedizione anziché perderla” (p. 145). La vitalità, la ferocia improvvisa, la simpatia, la forte doppiezza dei pirati, trovano il loro effetto ma soprattutto il loro senso in virtù della mancanza di ironia e di malignità, non solo della franchezza ma proprio delle virtù messe in gioco. Non c’è morale senza avventura, e quindi senza coraggio. Non c’è morale se non agendo, rischiando, nell’aria viva. Nei versi corali dedicati “All’incerto acquirente” Stevenson si rivolge al “giovane che studia” e lo richiama agli antichi desideri avventurosi della sua infanzia, confidando che le sue passioni non siano spente. E altrimenti lasciamo pure i pirati riposare nelle fosse. I termini tecnici nautici e gergali (castello di prua, acquata, mettersi alla cappa, abbattere in carena, abbasso e arriva, ombrinali, boma, bozzelli, paterazzi) e infiniti altri sono parte integrante della morale concreta messa in atto. Tu devi sapere i nomi esatti degli strumenti che usi, perché nominandoli li possiedi, e delle operazioni che devi compiere, perché il tuo lavoro si lega a quello degli altri. Vero è che Conrad non è così nitido come Stevenson nella coerente difesa dell’onore, che sintetizza nello scrittore scozzese tutte le virtù e le gioie della vita. Ma non è neanche, come Hawthorne, così terribilmente e cupamente democratico nell’accomunarci in un male dal quale solo, con uno sforzo morale e intellettuale senza pari, possiamo sollevarci. 633 Se leggiamo infatti Al limite estremo ci imbattiamo nel capitano Whalley che ha “una illimitata fiducia in una divina giustizia resa in terra ai sentimenti degli uomini” (XIV). Sopporta un rovescio economico del quale non è responsabile con dignità, dedicando ogni sua energia ad aiutare la figlia indigente. Ma proprio per far questo rinuncia all’onore pubblico, quello che spinge al duello o alla camorra, perché il mitico comandante che ha dato il suo nome a un’isola, si degrada fino a pilotare una imbarcazione miserabile di proprietà di un ex macchinista, astioso e inaffidabile. Diventa cieco e, proprio quando sta per compiere l’ultimo viaggio, che gli consentirà di dare alla figlia cinquecento sterline, l’armatore, non avendo i soldi per cambiare le caldaie marce, provoca un naufragio, deformando la bussola con un pezzo di ferro dolce. L’uomo d’onore, proprio mentre la cecità si fa totale, vede la realtà delle cose e, mentre tutti si salvano, si lascia morire con la nave. Attraverso Conrad Nell’aristocratico Stevenson l’onore è vittorioso, nel democratico Conrad si paga con la morte. Ma cosa vuol dire, di fronte al male, aristocratico o democratico? L’ho già detto. Aristocratico vuol dire che l’onore può vincere, democratico che può soltanto perdere. L’antica teoria socratica del male fatto per ignoranza, confliggente con la visione cristiana per la quale si fa per cattiva volontà, percorre tutta la letteratura anglosassone e americana dalle origini del romanzo. Non è un caso che Socrate sia un personaggio familiare da Fielding fino al platonista biblico nel Pequod, Melville. E infatti Whalley è sicuro “che gli uomini si facevano del male a vicenda soprattutto per ignoranza” (Al limite estremo, XII) e tuttavia, soluzione da narratore, è altrettanto cosciente che sviluppare il senno è un’impresa improba. Di volontà cattiva non si parla ma per cadere in un vicolo cieco perché l’ignoranza, che a prima vista sembra la più emendabile, è invece la condizione più inestirpabile e invincibile, dal che si evince la sapienza del cristianesimo nel puntare sulla volontà e il carattere 634 aristocratico della teoria socratica, fatta per spiriti liberi, per antichi greci, o per quegli scrittori, come Stevenson, che sono greci dell’età moderna. Si potrebbe dire che il capitano, non dicendo a nessuno di essere cieco, ha contravvenuto all’etica marinara e all’obbligo morale della sincerità, ma l’ha fatto per il bene della figlia. L’onore di Conrad non nasce dal conflitto tra egoismo e giustizia, come in Stevenson, ma da quello tra giustizia e amore, ben più terribile. Cuore di tenebra è un romanzo breve che ha avuto una gran fortuna, grazie anche al film di Frank Coppola, ma non è dei migliori di Conrad. Questo viaggio all’indietro verso i primordi della natura è l’intuizione potente che regge la storia. Tutto è come dovrebbe essere eppure l’effetto è manierato. Ciò che non va è il rapporto tra l’autore e il suo protagonista. Conrad non riesce a renderlo non dico simpatico ma pronto al travaso nel suo corpo del lettore. Ne mette in luce la resistenza passiva, che dovrebbe renderlo umano, lo fa aspirare a una conoscenza della vita, che sublima in lui ogni ambizione di azione e di forza, ma cade nel paradosso di doverlo rendere invulnerabile quanto l’autore stesso, mentre è in mezzo a una foresta e minacciato da uomini violenti. Deve costringerlo all’azione per non farlo diventare insignificante ma senza mai lesionarlo, perché possa continuare la storia. Se il narratore è uno spettatore imparziale al sicuro, come in Con gli occhi dell’occidente (1911) tutto fila splendidamente ma se è cacciato egli stesso dentro i rischi di una natura primordiale fa la figura del pesce in barile. Come fargli fare una bella figura? Rendendolo all’improvviso un eroe, come quando gli indigeni attaccano il battello, ma la metamorfosi suona improbabile. Rendendolo il corifeo di una visione etica, un testimone di giustizia. Ma allora dovrà sopravvivere per forza, essere invulnerabile, senza però poter vincere, perché il tutto non diventi edificante, diventando 635 così un testimone secondario. Nel mondo vincono il caos e l’ingiustizia, come nella grande letteratura, ma la fiammella della giustizia deve sopravvivere in qualche animo. Kartz, lo spregiudicato cercatore d’avorio, viene adorato dai selvaggi; egli incarna l’azione pura, un misto indistricabile di bene e di male, perché la distinzione è possibile solo a chi guarda e non agisce. Figura troppo carica di una vitalità sfrenata e tormentosa, che regge quella che un tempo si chiamava la struttura, l’architettura, del libro. Ma è costruzione ingegneristica: si è messo un peso proprio al bordo del braccio di una leva quindi se ne deve mettere un altro all’opposto. C’è un equilibrio di estremi, perciò poco verosimile. Il narratore deve al contempo reggere il peso immane di Kartz e tenersi indietro. Non rimpiange mai egli la precedente vita, immerso nel campo d’azione assoluto di un altro, di un uomo primordiale tornato alla natura nuda e cruda? Gli basta soltanto conoscere, nonostante i continui pericoli di morte e di malattia? Se ne ricava che l’uomo della conoscenza sia costretto a starsene a casa o a contemplare la battaglia dall’alto di un poggio perché, entrato nel campo magnetico di Kartz, non durerebbe un giorno. E se vuole tuffarsi nei terribili primordi deve perlomeno trovarsi un autore che lo renda invulnerabile. Dopo aver letto Linea d’ombra bisogna inchinarsi tre volte e non c’è nessuna voglia di studiarlo e articolare un discorso esplicativo. Ci sono romanzi che si vivono e basta, che continuano ad agire in noi come persone decisive, come incontri illuminanti. Libri sui quali sarebbe offensivo scrivere un saggio critico. Mi limito a citare con riverenza una sola frase, leggendo la quale qualunque editore che abbia un po’ di sale dovrebbe dire: Lo pubblico, qualunque cosa abbia scritto dopo: “Il caldo dell’Oriente tropicale calava di tra i rami fronzuti, avvolgendomisi al corpo, sotto gli abiti leggeri, e aderendo alla mia ribelle insoddisfazione, come a frodarla della sua libertà” (I). 636 Con gli occhi dell’Occidente, nonostante si imbarchi nel mezzo come capita in quasi tutti i romanzi, anche di legno buono come questo, è ricco di queste frasi che ci sussurrano: Sceglilo! “Le cose più improbabili hanno un potere segreto sui pensieri di un individuo – le fedine grigie di un certo individuo – gli occhi sporgenti di un altro” (II, p. 58). E notiamo la finezza di questa osservazione, che trova la sua efficacia nel gioco tra il tono da cronaca e la carica poetante dell’immaginazione: “La luce che entrava dalla finestra pareva stranamente tetra, sprovvista di promesse come invece dovrebbe essere per un giovane la luce d’ogni nuovo giorno” (p. 65). Il fatto caratteristico è che questo fenomeno non è proprio soltanto dell’infanzia, in cui si scatena in modo irresistibile e, più che adulti, uomini e donne siamo colpiti da occhi, mani, capelli, nei, ginocchi. Ma perdura con gli anni, benché più celato, e per questo forse ancora più forte e influente. Se vogliamo definire la differenza principale tra il romanzo contemporaneo e quello dell’Ottocento, è la scomparsa completa della drammaturgia morale e legata all’onore come molla potente della narrazione. Ma in questo modo si cade o nel minimalismo sensoriale e quotidiano o nel truculento scatenarsi di perversioni. O nel raccontare per raccontare, cioè per incantare, cioè per imbambolare. Lo dice chiaramente Conrad, sempre in Under Western Eyes: “Il compito in verità non consiste nello scrivere in forma narrativa il précis di uno strano documento umano, ma nel rendere – me ne accorgo ora chiaramente – le condizioni morali che dominano una vasta porzione della superficie di questa terra;” (III, p. 64). Per questo scopo bisogna trovare una parola chiave, “per contribuire a quella scoperta morale che dovrebbe essere l’obiettivo di ogni racconto”. E questa parola è: cinismo. Senza questa parolachiave non si scrive un romanzo e non si contribuisce in modo efficace alla conoscenza degli uomini. 637 C’è un’altra parola chiave però nella sua opera, che si chiama destino, che diventa imbattibile quando si incorpora in qualcuno. Allora “gli avvenimenti mossi dall’umana follia si congiungono in una sequela che nessuna sagacia può prevedere e nessun coraggio infrangere. Il destino vi entra in camera mentre la padrona di casa volta le spalle; voi rincasate e lo trovate insediato con un nome d’uomo, con un involucro di carne – con indosso un cappotto di panno marrone e gli stivaloni – appoggiato contro la stufa. Vi chiede: È chiusa la porta d’ingresso? – e voi non avete l’accortezza di prenderlo per la gola e scaraventarlo giù per le scale” (p. 78). Può un essere umano essere per noi irreversibile, incarnare un destino? Secondo Conrad c’è una “logica secolare dello sviluppo umano”, che viene disprezzata dagli utopisti violenti, dai terroristi (p. 88). E cosa ci dice questa logica? “Nulla si cambia in questo mondo d’uomini – né la felicità né la sventura. Le quali si possono solo mutar di posto a prezzo di coscienze corrotte e di vite spezzate – futile gioco di filosofi arroganti e di sanguinari perdigiorno” (p. 230). “Ricordate, Razumov, che le donne, i bambini e i rivoluzionari odiano l’ironia, che è la negazione d’ogni istinto redentore, d’ogni fede, d’ogni dedizione, d’ogni azione” (p. 245). Come sono i russi per Conrad? “Questa tendenza a togliere ogni problema dal piano del comprensibile per mezzo d’una qualche formulazione mistica, è molto russa.” E ancora: “È peculiare della natura dei russi che, per quanto fortemente impegnati nel dramma di un’azione, non cessano di tendere l’orecchio al mormorio delle idee astratte” (p. 258). Henry James 638 Henry James invece scrive in uno dei suo racconti migliori di una donna: “è irritante come un racconto morale” (L’allievo, o Il pupillo, p. 86). I suoi libri sono raffinati trattati di psicologia (come Piazza Washington, col personaggio riuscito di Caterina), e da vero amico delle donne, ma questo dogma della sensibilità, questa fluttuazione ambigua che coinvolge anche il narratore, che è anche e sempre personaggio, lo fa restare sulla soglia di tutto, per esempio del sesso. “Quella dote che hanno le donne, quando le appassiona qualcosa, di scoprire negli altri cose che essi stessi non riescono a scoprire. I nervi, i sensi, la fantasia delle donne sono autentici organi conduttori e rivelatori” (La bestia nella giungla, p. 163). La donna in lui è Sibilla, come in Kafka, sa ciò che gli uomini non sanno (La bestia nella giungla), mentre gli uomini vedono compiersi il destino nel mentre lo si cerca. Per i maschi il presagio insorge quando il fatto c’è già. La discrezione è il deus ex machina di Henry James. Tutto questo riserbo è il suo codice retorico, il suo autoritratto e il suo limite letterario, anch’esso vibrante. Proprio degli autori anglosassoni, da Edward Morgan Forster a Virginia Woolf, è proprio questo uso sovversivo della discrezione, dell’ironia, del sottotono, della compostezza, tipiche della loro cultura e classe, in modo che detti e temi spregiudicati e anticonformisti vengono pronunciati e svolti con lo stile della reticenza aristocratica e salottiera. Le convenzioni angloamericane di fine Ottocento coincidono, per esempio nel Roderick Hudson di Henry James, con la tecnica del romanzo: il ritegno, il non detto, il rimando, l’allusione, il non far dramma. L’ironia wasp è un sovratono extraletterario, come una frigidezza colta nei personaggi femminili, come Cecilia. La stessa auto repressione sessuale diventa una tecnica per creare suspense. 639 Gli inglesi di fine Ottocento si eccitavano con la frigidezza, in quanto tesoro di calma in grado di nascondere e contenere l’eros, senza rinunciare a godere ma senza neanche creare disordine. Le inglesi, come tutte le donne, ma ancora di più, sanno già molto degli altri prima di incontrali. I rapporti con le persone preesistono all’incontro. Ciò che si dice allude a ciò che chi si incontra sa già da sempre dell’altro. Se dicessimo che Henry James risente del formalismo del suo ceto e del suo tempo saremmo del tutto fuori strada. Il suo modo di raccontare libera i possibili, con un genio, cioè un ingenium, psicologico originale. Perché il terribile gioco riesca bisogna reggere la parte fino in fondo, con una parodia così seria da rendere l’aria satura di tensione e di allarme, perché i toni e i modi candidati alla pace e alla sicurezza nella conversazione borghese sprigionano una carica rivoluzionaria o una violenza critica inaudita e insopportabile nel loro mimetismo con le forme della buona e pudica società. Per quanto voglia restare distaccato il narratore, l’io narrante, insomma Henry James diventa imbarazzato, inibito e snob, soprattutto in Greville Fane nel quale la perplessità infinita delle emozioni, la vibrazione a oltranza dei sentimenti fa l’effetto di irresolutezza. L’indecidibilità della vita rende indeciso il protagonista, che diventa comico o patetico. La natura per Henry James non esiste e le cose non le vede neanche. Tutto è psichico. Camera con vista In Camera con vista (1908) una comitiva di inglesi snob viene in un’Italia dove esiste una povera gente stereotipata, in uno scenario 640 senza società dove ammirano opere d’arte nate dal nulla. E siamo a Firenze! Il pellicolare nichilismo combinato con la soda abitudine del comfort e la rendita vissuta passivamente della civiltà inglese rende i loro commenti sempre oscillanti tra profonde attitudini all’ambivalenza delle cose umane, nel solito gioco tra Nord europeo e mediterraneo italico, del tutto frainteso e incompreso, e luoghi comuni da vecchie zitelle ottuse, per le quali Forster ha un’attrazione perversa. L’Italia esercita naturalmente una malia perniciosa per la sua bellezza artistica e naturale e per i suoi contrasti, se a Santa Croce tre papisti, come li chiama lo scrittore riformato, si aspersero le dita con l’acqua benedetta per poi andare a salutare Machiavelli nel monumento funebre. Naturalmente Henry James gli è di molto superiore, anche nel comprendere, e nel generare, la polarità tra Nord e Sud, se questa è l’Italia di Forster: “la vita intera del Sud era sconvolta e la nazione più amena d’Europa si era trasformata in un’informe congerie di tinte. La strada e il fiume erano d’un giallo sporco, il ponte d’un grigio sporco e le colline di un purpureo (!) sporco”. L’occhio fotografico di Forster sulla Firenze del primo Novecento è praticamente inutilizzabile, benché non manchino flash: La sua cronaca di costume ristagna. Scrive sdraiato e ogni tanto si eccita parlando di cose che vede solo lui: “Firenze, una città magica, dove la gente faceva e pensava le cose più stravaganti”. E addirittura dice che “in Italia chiunque ne abbia voglia può godersi il tepore dell’uguaglianza come quello del sole”. Come questi libri sono fuori tempo massimo, perché non hanno voluto mai veramente gareggiare, convinti di aver già vinto prima. E parliamo di uno scrittore vero e proprio, di uno stilista e acrobata del giudizio sornione e articolato in una ragna, in passaggi intramati di scale di coscienza e di gradini, vero romanziere dei luoghi comuni, di idee e sentimenti, sofisticatamente sfaccettati e orchestrati. 641 Allontanàti da noi anche dalla fine della cotta dei critici, dei traduttori e dei lettori italici, degli anni Settanta e Ottanta, per lo spirito aristocratico e, più che morboso, parassitario, fungaceo, soprofitico, degli anglosassoni “ricchi, affabili, con identici interessi e identiche inimicizie”, formanti una cerchia eletta che si difende dalla “miseria e dalla volgarità che tentavano perennemente d’invaderla”, polarizzati dal Sud. Per capire una città, una nazione, giova essere straniero, ma a condizione di non portarti sempre dietro e sopra la tua come un guscio di tartaruga di lusso alla Forster, troppo lento per capire l’Italia di allora. A lui infatti interessa in realtà capire l’Inghilterra e usa l’Italia come strumento. Vuole sprofondare fino in fondo nella potenza e nella superiorità civile dell’Inghilterra e nella sua impotenza e inferiorità, incorporando fino all’ultima stilla, comprese le gloriose e disperanti zitelle inglesi (ottimo personaggio la signorina Bartlett), l’anima antropologica del suo popolo. Con una punta di masochismo, molta fierezza mista a disincanto, e comunque con un’attitudine virile e sportiva molto meno decadente e snob che non a prima vista, molto più risoluta e determinata a capire, come si vede quando il romanzo, dopo le prime sbarellanti ottanta pagine, entra nella partita. La camera è fiorentina ma la vista è dall’Inghilterra. Il limite di Forster, che è anche la sua grandezza, è che pretende di giocare tutta la partita da solo, senza l’avversario reale. È uno dei primi scrittori da videogioco, da gioco di ruolo. Ma la partita la gioca tutta fino in fondo. Ed ecco un passo che potrebbe essere nel Gattopardo: “Il sole continuava a salire nel suo itinerario, non guidato da Fetonte ma da Apollo, competente, indefettibile, divino” (p. 187), tranne per quel “competente” che dice tutto sull’ironia con ferita della sua prosa. E del resto Forster amò Tomasi di Lampedusa, condividendo con lui anche la passione per la sirena, alla quale entrambi dedicarono un omaggio. 642 Contadini di Volponi e di Steinbeck Quando Paolo Volponi decide di raccontare la visione filosofica di un contadino marchigiano negli anni Cinquanta, nel romanzo La macchina mondiale, egli dà per scontato che venga visto da tutti come un matto. La sua donna, il proprietario terreno, la chiesa, tutte le istituzioni con le quali ha a che fare non considerano la possibilità che un contadino pensi, se non con l’astuzia di chi sa fare i suoi piccoli affari. E la sua rovina, ostinandosi a pensare a oltranza e de-lirando, cioè uscendo dalla lira, cioè dal solco tracciato dall’aratro, è certa e atroce. Quando John Steinbeck decide di raccontare la storia di un contadino americano degli anni Trenta, in Al dio sconosciuto, invece può dipingerlo come un gigante spirituale, con una visione panica e poderosa della natura, un suo Dio personale altrettanto vigoroso e poetico, un’energia mitologica da far rabbrividire dalla vergogna qualunque accartocciato fumatore all’ultimo piano di un grattacielo di New York. La potenza del contadino epico sta nel non pensiero: “La vita tornava a fluire nella campagna, e il movimento, non più frenato dal pensiero, tornò a risorgere” (175). Nella capacità di comprendere il dolore nel piacere: “Il lungo fiume del dolore è stato sviato e assorbito da me, il dolore che è soltanto un pallido piacere è estirpato in un attimo” (p. 176); nella percezione delle forze telluriche: “Un solido ronzio usciva dalla terra, e pareva una protesta contro l’intollerabile sole” (p.184), con toni che sembrano rubati a Nietzsche: “Al diavolo la mia anima! Vi dico che la terra sta morendo. Pregate per la terra!” (p. 222), fino al sacrificio pagano: “poi il suo corpo si fece pioggia torrenziale (p. 230). Il risultato è un libro di gran potenza, scritto con la capacità di godere con forza proprio immaginando e scrivendo. Quello che da noi sarebbe diventato dannunziano, da loro diventa sano, vitale ed epico. 643 Uno scrittore italiano è costretto a immaginarsi il ghigno ironico e la smorfia scettica del supponente lettore colto, sfaccendato, sarcastico, pigro e sterile, pronto a deridere, a irridere, a offendere. Mentre lo scrittore americano può ancora attendersi l’ingenuo, vigoroso, solidale ascolto di un lettore capace di immaginare ed emozionarsi insieme a lui. Montale ha davvero tradotto Al dio sconosciuto? O lo ha solo disseminato di montalismi, come i seguenti: “la vita di un uomo è come il commuoversi di uno stagno tranquillo, a piccole onde, prima di placarsi nell’ultimo riposo” (p. 173) (che rimanda al “commuoversi dell’eterno grembo”): “Gli arsi alberi dell’alloro viziavano l’aria, stille di dolce e pesante sugo ribollivano dagli spinosi sacròbati” (p. 183); si spingeva a cavallo sulle “colline abbrustolite” (p. 208). Tra i tanti accademici detective si potrebbe lanciare un concorso: a) cercate tutti i montalismi nella traduzione di Steinbeck; b) dimostrare che la Rodocanachi, o chi per lei, non li ha introdotti per costruire un falso più attendibile; c) fare dell’ironia sulle abitudini corrotte dei letterati del tempo, che davano il nome per traduzioni fatte da altri e prendevano i soldi loro, ma senza infierire con toni sdegnati (che segnalano il dilettante); d) dopo aver fatto esercitare le migliori menti filologiche su un esame agguerrito dei testi, tirate fuori l’originale della traduzione manoscritta dalla vera traduttrice, con gli interventi a penna di Montale; e) non deridere le numerose sciocchezze dette dai più illustri letterati per esercizio intellettuale, bensì scherzarci sopra, con colpi di fioretto che segnalino la vostra conoscenza della scherma senza ferire nessuno, e comunque non i più potenti. Nel mondo accademico fino a qualche decennio fa si dava ancora a qualcuno del coglione o almeno le sciocchezze venivano chiamate sciocchezze. Adesso se uno scrive dell’influsso di uno scrittore su un altro che non soltanto non l’ha mai letto ma è vissuto un secolo prima, si parla di citazione raffinata di Borges. Le lettrici 644 Il pubblico femminile è quello che decreta la classifica dei libri più venduti, un pubblico che è attentissimo alle molestie sessuali anche minime e virtuali, come nel caso recente di un giudice che si è vista rovinata la carriera perché si è sistemato il fagotto a causa di un erpes in presenza di due donne, che l’hanno immediatamente denunciato. Ma è disponibilissimo a frasi abbindolare da scrittori compiacenti e adulatori, che la corteggiano nel modo più falso e smaccato, per un profondo e latente e soffocato desiderio di certe donne di essere lusingate, sedotte e perfino clamorosamente ingannate nell’intimità della loro camera, lontano dagli sguardi di tutti e senza pagarne nessuna conseguenza sociale. Ci vuole coraggio per essere una buona lettrice. E parlo delle donne perché soltanto da loro potrà nascere un pubblico nuovo: gli uomini cambiamo con molta maggiore lentezza. L’asceta mortifica la donna È esperienza comune che quando hai un desiderio di purezza, accentuato per esempio dall’amore per una persona, per cui vorresti essere sempre nobile, casto, immacolato per offrirti a lei nella disposizione migliore, sei perseguitato, quando esageri fino alla mania, da pensieri aggressivi o morbosi o dissacratori, e sei visitato dal bisogno compulsivo di trovare stupida o brutta o cattiva, o di colpire, ferire, immaginare morta, proprio la donna che ami. Allo stesso modo capita a chi procede per un cammino di ascesi, mortificazione, umiltà, verginità, che è perseguitato da desideri di piacere, anche trasgressivi, oltranzisti, violenti, superbi, fino a pulsioni contronatura, a blasfemie, a immaginazioni maligne. È naturale quindi, perché inevitabile, che i religiosi, soprattutto le donne, ossesse dalla purezza, siano tormentate da visitazioni diaboliche immaginarie. 645 Se le stesse donne amassero in modo esagerato la ricerca scientifica, passando giorni e notti in laboratorio, sarebbero perseguitate dalla pulsione a infettarsi, a truccare i processi chimici, ad avvelenare qualcuno. La psicoanalisi ha messo in luce in modo talmente chiaro lo scatenarsi crudelmente ironico di una natura repressa che ogni fantasia demoniaca ci appare forte nella suora solo perché è immersa in un contesto religioso mentre, se quella donna fosse una sportiva che ammira il suo allenatore, sarebbe perseguitata da fantasie distruttive, atte a intaccare l’oggetto della sua devozione, giocando male a posta e boicottando la squadra, non perché perda ma per scatenare la pulsione opposta a quella sua dominante. Cristo viene tentato non già a Gerusalemme bensì nel deserto, nel corso del suo lungo digiuno, cioè nel suo cammino più arduo di purificazione, nel suo sacrificio più duro e severo. L’amore va educato fino a che l’incidenza del male diventa innocua. Troppo amore è un amore falsato e deformante, che la natura ci segnala con i suoi efficaci sistemi immunitari. Un bel viaggio all’estero Il viaggio all’estero fa quasi sempre l’effetto di riaffezionarci ai nostri connazionali e di prendere a riamare la nostra nazione d’origine, sia col confronto dei mali delle altre che, vedendo da vicino, smettiamo di minimizzare, idealizzandone i pregi, sia per una naturale nostalgia sensoriale che ci fa desiderare il ritorno perché le abitudini, anche dei mali, sono dolci. All’estero la nostra patria sembra sempre chissacché. Jonathan Swift nei Viaggi di Gulliver non si fa per niente corrompere da questa reazione istintiva e spoetizza con secchezza il mito del ritorno sentimentale. Lascia infatti che un personaggio di Brobdigngnag, nel secondo viaggio (VI), tragga questa idea dalle parole e dai comportamenti di Gulliver: “Non posso far altro che considerare la maggior parte dei tuoi compatrioti la razza più 646 perniciosa di vermiciattoli detestabili a cui la natura abbia permesso di strisciare sulla faccia della terra”. Gente che, con la scusa di portare “la nostra religione e la nostra civiltà ad un popolo barbaro e idolatra”, impiega per la missione “una banda di macellai”. Ecco in che modo la letteratura tiene salda la sua forza morale spregiudicata. Leggo nelle ultime pagine di uno dei libri di più rigorosa e ricca immaginazione: “Scrivo per il più nobile degli scopi, che è quello di informare e istruire il prossimo”. Il che benissimo si concilia col divertimento avventuroso perché un uomo sincero, coraggioso ed equo se lo merita. Ci possono essere tanti motori narrativi in un romanzo. Nel Joseph Andrews di Fielding è il denaro, ovvero la sua mancanza, che mette in moto l’azione. Fessure di Eden I ragazzi hanno gli stessi sentimenti di invidia, gelosia, ambizione, competizione, paura, aggressività che abbiamo noi ma, essendo la loro natura più trasparente, essi affiorano facilmente e li rendono più spontanei e perdonabili. Non solo, li denudano e li espongono sotto gli occhi di tutti, non avendo ancora imparato a mascherarli, e quindi più facilmente saranno inclini a vergognarsi di questo continuo denudamento emotivo, che non sanno governare, e dell’esposizione pubblica di emozioni e stati che disapprovano ma che insorgono contro la loro volontà. Mentre noi adulti, sapendo come occultarli, anche in virtù della loro forza minore o più voluta, più fredda e calcolata, ci abbandoniamo nel segreto più lungamente e ostinatamente a essi, tradendoci solo e infallibilmente quando perdurano molto a lungo dentro di noi. Essendo impossibile non provarli, siamo costretti a troncarli con distrazioni, ad alternarli, a distrarci da un vizio con un altro, in modo che, provandoli tutti a turno, non lasceremo che sgorghino a tradimento con un lapsus o una frase sintomatica. 647 Io credo ci sia un paradiso degli animali e che forse convivremo insieme, finalmente riuscendo a parlarci con i loro e i nostri versi, con i loro e i nostri sguardi e gesti, e persino le piante potranno dialogare non già soltanto tra loro, come già fanno, ma anche con noi, che intuiamo solo la loro ricchezza, forse chissà, più viva della nostra, e capiremo la loro decisione di radicarsi e frondeggiare come capiremo la scioltezza con la quale i gatti snobbano i nostri spesso vani ansie e capricci. Di questo paradiso animale possiamo cogliere già qualche spiraglio, momenti di armonia brevissimi ma che possono reggere giorni e mesi di tensioni stonate e di rumori affannosi. 15 dicembre Meno abbiamo le parole più viviamo Quando viviamo più intensamente, cioè da bambini, da ragazzi, da giovani non abbiamo le parole per pensare e per dire a noi stessi quello che stiamo vivendo, sicché il sangue non coagula e spumeggiando ci porta a mescolare realtà e sentimento, mondo fisico e mondo visionario. Proviamo qualcosa di forte che non ha nome e che non usa il nostro linguaggio, col quale non si può interloquire né trasporre su un piano verbale e ragionato. Le esperienze si scatenano e si smorzano senza che possiamo trarne un succo vitale, sballottati dalle acque e tranquillati quando esse decidono di calmarsi, per ragioni altrettanto misteriose. Amiamo una donna che non conosciamo minimamente e ci mettiamo in sua balia, ed è un puro caso che non si riveli per noi una calamità. Ci inoltriamo in una città che ci succhia tutte le emozioni, in un trapasso di immagini e di forme che ci scuotono e ci scuotono. Frequentiamo persone che ci travolgono a onde violente e innominabili. Quando finalmente abbiamo le parole e sappiamo cosa sta accadendo nella testa degli altri, sappiamo, dico, quasi statisticamente, più che per una penetrazione individuale, ecco che l’impeto dei sentimenti e delle emozioni si è spento e il governo 648 della situazione felpa e insonorizza la vita fino a renderla insignificante. Gli atti di fiducia sono allora i gesti più incoscienti che possiamo compiere e, appunto statisticamente, avventurosi, ma sono i soli che possano rimettere in moto la vita. 16 dicembre Gli auguri natalizi Gli auguri natalizi, per essere non dico sentiti, ma effettivi, devono essere scomodi: scrivere un biglietto, imbucare una busta, telefonare spezzando il filo dei tuoi pensieri o non pensieri. Sempre più è invalsa la moda invece di spedire gli stessi auguri a una mailing list. Così tu compi un unico gesto per riceverne cento. Le istituzioni gettano un’esca collettiva per raccogliere qualche pesce più ingenuo. Ma auguri fatti a tutti sono fatti a nessuno e alla fine accentuano il senso di impersonalità dell’affetto natalizio. 17 dicembre Il romanzo giornalistico mondiale Apri un giornale e ti affacci da un pozzo a guardare l’acqua profonda e iridescente dove eventi e fatterelli di tutto il mondo ruotano in un caleidoscopio. Devi tenerti stretto per non caderci dentro e, quando sollevi la testa e rimetti la tavola sulla vèra, tiri un sospiro di sollievo: Sono salvo, era tutto un incubo. Il romanzo giornalistico mondiale, scritto ogni giorno, un film globale raccontato da milioni di giornalisti, un’unica opera in cui tutte le vicende umane considerate importanti si susseguono a vicenda velocemente, cancellandosi a vicenda, accelerando durante le feste natalizie, attraversando il Natale con un surfing ambiguo tra bontà improvvisata, disperazione celata e piacere depurato e dolcificato, per culminare nell’orgasmo dell’ultimo-primo dell’anno, 649 spruzzato di tutti i colori e i desideri morti, verniciato con smalti lucenti, riempito di smanie e di convulsioni di euforie video-giocate, e infine stuprato pubblicamente e festosamente in un oceano di spuma e cioccolata, tra risate, abbracci, eccitazioni e picchi glicemici che si spengono in dormite grasse e di colpo silenziose di miliardi di umani in metà del globo mentre l’altra metà impazza, per risorgere tutti a questa stessa vita, esattamente identica a come l’abbiamo lasciata l’anno precedente, ma con i files della noia e della disperazione resettati per qualche ora o giorno. I giornalisti hanno il compito di cercare le notizie, verificarle, selezionarle e comunicarle, stabilendo una gerarchia d’importanza e di valore. Così in astratto. Nella realtà essi ci raccontano la vita che conoscono di seconda e terza mano, esonerandosi da ogni criterio rigoroso di rispondenza ai fatti, trasfigurando, intrattenendo, eccitando le emozioni, stuzzicando gli appetiti, pilotando le reazioni, indirizzando l’opinione pubblica, servendo un uomo o un’idea di potere, comunque trasfigurando la realtà con l’arte giornalistica, con l’affabulazione indefinita. Come esistono le parafarmacie, cioè le farmacie per le persone sane, così esiste la paraletteratura, cioè la letteratura per le persone malate. Se qualcuno obietta che quanto dicono loro giornalisti non è vero, rispondono che loro ci raccontano una storia giorno per giorno e che ci vuole troppo tempo per la verità. I quotidiani dovrebbero allora uscire una volta l’anno, e ciascuno vede come ciò sia impossibile. In luogo di un’impossibile verità sintetica annuale, nei rari casi in cui si riesce a perseguirla, dobbiamo contentarci di una verità analitica quotidiana spezzettata e frammentata all’infinito, che verrà contraddetta da altre verità del giorno dopo, altrettanto spezzettate e parziali, ciascun frammento essendo vero finché non viene ancora scomposto o incollato a un altro, il che farà variare la sua verità, in combinazioni infinite che rendono possibile la stampa di centinaia di pagine ogni giorno, che la sera finiscono nella raccolta di carta differenziata, in una miniaturizzazione della vita mondiale e della morte mondiale nell’arco di ventiquattro ore. 650 Perché non pubblicare in un quotidiano la sintesi ragionata di una vicenda che si snoda nei giorni o nei mesi, la conferenza di Copenhagen per disinquinare l’atmosfera o la guerra in Afghanistan, per far capire ciò che accade giorno per giorno? Risposta: perché sarebbe come stampare una dieta nel menù di un ristorante. Il mondo ogni giorno nasce matura invecchia e muore nel giornale, dando spettacolo di sé ad ogni fase, per rinascere da capo il giorno dopo e intatto, in un rito laico, in cui non conta nulla il contenuto effimero delle notizie ma solo il gesto vitale di inghiottire, consumare, cacare e ricominciare a mangiare il giorno dopo il mondo. Il quotidiano come alimento cartaceo e parolaceo naturale. Proteine, vitamine, carboidrati e parole costituiscono una dieta indispensabile per essere ogni giorno al mondo. La televisione non solo ha i suoi tribunali con le sue leggi, la sua costituzione non scritta, il suo governo non eletto, non solo è uno stato a sé, non solo ha anche una sua logica, con una sua tavola del vero e del falso, una sua retorica, col suo linguaggio, con le sue regole della menzogna e della sincerità, del tutto diverse da quelle del mondo di fuori, ma ha anche i suoi tempi, i suoi spazi, le sue leggi fisiche, con le sue trasformazioni del tridimensionale nel piatto. La televisione non solo è uno stato a sé, è anche un mondo fisico a sé. Gulliver oggi farebbe un viaggio nell’isola della televisione. In Cristo Il Natale non è la commemorazione annuale della nascita di Cristo ma una scossa augurale, una festa propiziatoria perché Cristo nasca oggi nel cuore degli uomini. Ogni giorno è Natale. Che si fissi il 25 dicembre, come nel culto di Mitra, viene incontro alla grande passione collettiva per il ciclo, che trasforma il tempo in una circonferenza che ritorna sempre al punto 651 di partenza, attingendo al paganesimo antico. Versione umana, troppo umana. La circonferenza non è un punto ingrandito al microscopio e il punto non è una circonferenza rimpicciolita al minimo grado possibile. Ma siccome viviamo nel tempo e siamo tempo questa illusione e sensazione, assurda in geometria ma naturale in biologia, gratifica i nostri deboli mezzi. Cristo è morto in un giorno per rinascere ogni giorno. E rinasceva ogni giorno prima di morire. La morte di Cristo è l’atto attraverso cui risorge, diventa uomo fino in fondo, perché l’uomo non può, al massimo, che risorgere, dovendo morire. Prima di morire però Cristo è vivo ora. Non ogni suo minuto di vita è un morire e un risorgere come per noi. Dio non nasce e non muore perché senza tempo e senza corpo. Un uomo chiamato Cristo è nato e morto, nel tempo e nel corpo. Un uomo chiamato Cristo nasce ogni giorno nel cuore degli uomini, e trascina il padre nella follia d’amore di morire e rinascere. Se infatti Cristo è figlio di Dio, anche Dio è figlio di Cristo, e dopo la sua nascita non può che unirsi nella sua sorte, visto che lo ama. Ed entrambi sono fratelli nello Spirito Santo. Ciascuno è il padre, il figlio, il fratello dell’altro, perché se fosse unico e identico non potrebbe amarsi, e se fosse soltanto padre non potrebbe essere amato. Se tanta eresia ripugna, anche se l’unico modo di contrastare la violenza dell’ortodossia non è contrapporsi alla sua logica frontalmente ma metterla a testa in giù, ci si contenti di pensare che un padre genera un figlio almeno quanto un figlio genera un padre. E che quindi prima che nascesse Cristo Dio non poteva essere suo padre; e che prima che nascesse Cristo non poteva esistere la Trinità. E che se Dio non è mai nato, Cristo però sì, e quindi la Trinità non può essere eterna perché ha bisogno della nascita di Cristo per esistere. 652 L’amore è al di là dell’essere, niente di che stupirsi se per amore può accadere ciò che per l’essere è contraddittorio. La Trinità divina è la più folle intuizione che mente umana possa concepire, soltanto che la chiesa, istituzione che deve conservarsi e fruttificare biologicamente, immettendo lo spirituale nel corporale, a un certo punto, dopo l’exploit ispirato che ha gettato la geniale follia della fede nel mondo, ha cercato di addomesticarne le conseguenze ai fini di una agricoltura compatibile con lo sviluppo religioso delle moltitudini. Come reggere altrimenti che Dio, Cristo e Spirito Santo sono la stessa sostanza e che quindi Dio padre stesso si è incarnato e morto per noi almeno quanto Cristo si è incarnato nella volontà del padre, indiandosi. Le tre persone si diramano dall’atto folle e fondativo dell’amore, in quanto configurazione della prudente logica numerica umana che non può reggere l’exploit senza tornare nel regime ordinario, cristallizzato in dogma e in una contro ragione, sia pure in quanto super ragione. Per la mente umana è più facile dire che l’uno e il tre coincidono, piuttosto che riconoscere che c’è qualcosa al di là del numero. Dio non può essere uno perché l’uno è il principio matematico della logica umana, che non può intrappolare Dio. Contro ragione, super ragione, sotto ragione, pro ragione, sono tutti modi per distinguere non solo le tre persone ma anche per dividere in tre una sostanza, preferendo creare tre personaggi che vertiginosamente convivano in uno, e miracolosamente scambiandosi i ruoli si identificano, piuttosto che pensare oltre il tre e l’uno e l’amore prima dell’essere. Se definisci i limiti della ragione definisci pure quelli della fede. La vera eresia sta nel pensare l’amore conseguente all’essere e quindi tripartirlo in figure o persone, mettendo in gioco un triangolo di 653 esseri saettanti, saliscendenti, in un tempo e in uno spazio propriamente umani e logici, come è logico e interno alla logica un paradosso. Così si è trasformato uno scandalo amoroso in un paradosso logico, rinunciando a capire che quando l’uno si fa trino è una sorgente che sgorga nella debole mente umana, perché un segreto invincibile dell’amore è che esso non è numerico. Cristo non ama uno, due, tre, uomini, non ama l’umanità, non ama in modo specifico e non ama in modo collettivo. Ama tutti in uno e uno in tutti. Dio, fattosi uno e fattosi tre restando uno, non è che un gioco aritmetico, una folle geometria, che dà la scossa. L’amore non viene prima di Dio e prima dell’eternità ma viene mentre va, è prima mentre è dopo, è eterno mentre è temporale. L’eternità nuda e sola è fuori dall’amore. Ciò che è atemporale è inscritto in un mondo che limita questo mondo e ne è limitato. L’amore non può essere limitato è inscatolato. Non può essere soltanto eterno, essendo l’eterno una declinazione del tempo come sua assenza. È può essere soltanto mortale perché costretto in una parabola biologica. Può essere solo le due cose insieme. L’eterno è fuori del tempo ma in tutti i punti del tempo, se no non è incarnato. Ma intersecando il tempo la scossa elettrica percorre tutta l’eternità come un fulmine. Nel tempo e nell’eterno c’è il non definibile temporalmente, ma che definisce tempo ed eterno: l’amore. L’amore noi non sappiamo cosa sia finché non lo mettiamo in atto. L’amore è rarissimo e insorge misteriosamente, anche mentre si scrive un trattato di teologia, quindi in mille pagine di una summa trovi tre o quattro verità d’amore sgorgate qua e là di colpo, quando San Tommaso si innamorava di Dio, e per trovare quelle devi leggere tutto. 654 Questi pensieri non sono miei ma scritti attraverso di me. Attraversandomi però diventano miei per non essere più miei una volta scritti. Vuoi dire che non te ne senti responsabile? O vuoi dire che non te li meriti? L’amore è sempre visibile e sempre invisibile in tutto ciò che esiste, nella stessa cosa che esiste. La religione della famiglia È evidente che il modello intuitivo per comprendere la Trinità non è abbordabile con la teologia ma con la famiglia. La composizione come sacra famiglia rende la fede appunto familiare e condivisibile. C’è un padre, c’è un figlio e c’è un amore fraterno tra loro. C’è naturalmente anche una madre, inseminata da Dio, una ragazza di sedici anni che diventa la protagonista del miracolo cristiano. Il cristianesimo, benché Cristo l’abbia dovuta abbandonare, è diventato una religione della famiglia che, proprio in quanto valore assoluto, deve essere negata a una categoria di persone che rinuncia ad essa, almeno nel cattolicesimo, e la valorizza in virtù del suo sacrificio. Questo è un segno di grande indulgenza e rassicurazione. La famigliola di Nola o di Predazzo viaggia al calduccio della religione tra galassie trascoloranti, sicura che anche in cielo la assista il suo modello divino abbracciante il cosmo. E le donne nubili? Vivranno la famiglia degli altri, o almeno la sacra famiglia. Il matrimonio dei preti 655 Ma se il modello divino è la famiglia, come sarebbe più armonica la vita di un prete con una famiglia sua, da avviare ai misteri triangolari dell’amore? Non significa questo che diventi obbligatorio sposarsi. Possono esserci preti celibi e preti sposati. Magari vescovi e cardinali, come nella chiesa ortodossa, potrebbero dare un segno più incisivo non sposandosi. Dire che un prete può sposarsi vuol dire anche precedere che debba avere figli. E questi figli di prete della prima generazione cattolica come vivranno la loro sorte? Nel modo più sereno e inventivo, come sanno fare i figli, sempre molto divertiti dalle consuetudini sociali che, uscendo dalla natura, vengono scoprendo di volta in volta. E il padre prete potrà amarli più degli altri suoi figli del gregge cristiano? L’ostacolo per la chiesa consiste nel fatto che un prete non può amare un singolo individuo più di un altro, altrimenti non è ecumenico. Ma comunque amerà sempre qualcuno più di un altro. E Cristo stesso non aveva discepoli prediletti? A quel punto, pensano i prelati cattolici, addestrati alla lentezza di una civiltà bimillenaria, che conoscono l’ulcera bruciante dell’invidia e della gelosia in campo sessuale, come sopporterebbe un prete celibe la vicinanza del prete sposato? E come reagirebbero i fedeli, di fronte a una varietà di scelte che li sconcerterebbero? Non si potrà infatti costringere un prete a sposarsi. E molti vescovi e cardinali, non intiepiditi dall’età, ma inabilitati ormai a sposarsi, quanto dovrebbero soffrire per l’occasione storica perduta? Ecco che la chiesa dovrebbe introdurre per i preti l’obbligo di sposarsi, per spianare l’invidia, la gelosia e la confusione. Ed ecco che nascerebbero matrimoni falliti o tristi o disperanti per le povere donne. E se un prete si intiepidisse verso sua moglie? E se la moglie lo tradisse? E se litigassero in sacrestia? E se andasse a dir messa subito 656 dopo una notte di fuoco? E se tutti i fedeli sapessero che i coniugi non vanno d’accordo? Affascinante è poi pensare come e dove un prete potrebbe cercarsi moglie. Va da sé che dovrebbe essere una cattolica come lui, e quindi nell’ambiente della parrocchia e nelle attività chiesastiche. Siamo sicuri che le donne italiane vogliano sposarsi un prete? E come potrebbero essere le donne che sposano un prete cattolico? E come crescerebbero i primi figli in Italia di un prete, non appena introdotta quella libertà che il vescovo di Vienna ha appena chiesto al papa, con una mozione firmata da migliaia di persone? Immaginiamo le televisioni di tutto il mondo all’ospedale ad abbagliare di flash il primo bebé del mondo nato da un prete cattolico con l’approvazione della chiesa. In altre parole la chiesa non introduce il celibato più per conoscenza profonda e diretta degli italiani e dei popoli mediterranei in genere che non per riserve teologiche, non essendo il celibato verità di fede, ma consuetudine storica affermatasi dal dodicesimo secolo e ribadita dal Concilio di Trento, indetto da Paolo III, che aveva più di un figlio, legittimo e no. E nei paesi protestanti, anglicani, greco-ortodossi come fanno? Non sembra proprio ci siano tutti questi problemi. Non sono italiani, amico mio. Perché non far dir messa alle donne e non far loro somministrare i sacramenti? Questo è semplice e pura misoginia e volontà di dominio maschile. Forse i preti maschi hanno paura a convivere con sacerdoti femmine. Il clero povero tra montagne di denaro 657 Una spiegazione attendibile del rifiuto della chiesa cattolica di fare sposare i suoi preti e vescovi ce la dà Max Weber in Economia e società (I, p. 589). Essa vuole che, morendo, il clero le doni tutti i beni, che altrimenti passerebbero alle mogli e ai figli. Bene, preti e vescovi potrebbero sposare una suora e scegliere la castità matrimoniale. O la chiesa teme tanto la donna e stima tanto poco l’uomo da non concepire che i due possano amarsi senza toccarsi? Amoreggiare senza arrivare all’atto sembra però alla chiesa qualcosa di morboso, o almeno poco sano, giacché essa, esperta per le tante confessioni ascoltate, e soprattutto per la privazione alla quale si è condannata, vuole che le cose in questo campo siano fatte per bene, massimamente perché nascano dei figli che, provocati da tali genitori, molto più facilmente diventerebbero atei e ribelli. Che problema c’è? Rinunci allora alle eredità. Molti genitori, disinteressati per sé, avendo dei figli obiettano alla richiesta di povertà o di beneficenza, che non possono beneficare estranei, privando di beni i propri figli. Così la chiesa, che figli non ha, obietta alle sue elargizioni che deve mantenere la propria famiglia ecclesiale, sicché nessuno gode la proprietà dell’immenso capitale, giacché nessuno è proprietario, ma ne gusta i frutti con abbondanza, abitando in ville storiche e palazzi nobiliari, in case comode e sicure, non per sé, sia chiaro, ma per chi prenderà un giorno il loro posto. Ecco che la chiesa cattolica, anche per questa via, è essa stessa l’ostacolo a essere cristiano per il suo clero, che si trova sempre a gestire, usare, praticare, amministrare montagne o collinette di denaro, vivendo, nei casi migliori, da poveri in un mare di ricchezza. 19 dicembre Una striatura nera Straordinario, nelle amicizie consolidate e che non si vogliono compromettere, l’assottigliamento dei pensieri opposti e concorrenti di invidia, gelosia e vendetta nelle pieghe di un discorso sinceramente benevolo e affettuoso finché, all’insaputa di chi parla 658 ma non di chi ascolta, affiorerà, mimetizzata, una stilla di veleno in forma di rosa che bisognerà accettare come un colpo di coda dell’inconscio. Ma che col tempo tingerà l’amicizia di una striatura nera che tanto più colpirà l’occhio e il cuore quanto maggiore il contrasto col candore della pelle, come un neo benigno. Se è impossibile per una persona essere sempre retta, nel corso di un’intera vita, specialmente se media o lunga, ancora di più lo è, in una amicizia durevole e profonda, essere sempre impeccabile e non demeritare per una negligenza, una malizia, una debolezza, giacché si tratta di mantenere una specie di etica a due, non diversamente che nella fedeltà di un legame matrimoniale, che non potrà mai arrivare a coprire e spegnere tutto il pullulio dei desideri, specialmente se nel corso dei decenni. Ecco che gli amici, non potendo promettersi un’indulgenza a priori né un consenso indiscriminato in ogni loro comportamento ed espressione, né potendo essere forzati ad assentire ad ogni loro atto, come capita negli innamoramenti, ma soltanto nello stato nascente, dovranno imparare a riconoscere l’uno nella natura nell’altro l’esistenza di difetti o eccessi, che si sentiranno anche in dovere di segnalare. Ma essendo questi sempre commisurati al proprio sentire e pensare, la stessa segnalazione indicherà una discrasia, una sfasatura, un’asimmetria, idonea a minacciare l’amicizia. Si preferirà allora la soluzione più cicatrizzante, quella di tacere, affidandosi al tempo, il che è comunque un segno di rispetto, ma che lascia nell’amicizia, invece di quella striatura di nero di cui dicevo, un mancamento, un vuoto, un prato libero dentro cui si può pensare di tutto, facendo scorazzare le speculazioni. Mentre l’ideale sarebbe ricomprendere la critica dentro la stima più ampia, quasi tale da abbracciare il difetto o l’eccesso nel suo manto sincero. Impresa questa la più coraggiosa e quasi ideale, possibile soltanto qualche volta, ma non sempre, perché accettare un altro in toto ci sembra quasi un rinunciare ad accettare allo stesso modo noi stessi. Il silenzio dell’amico, del resto, è quasi sempre segno negativo, come quello del nemico, al quale finisce per assomigliare involontariamente, non prendendosi più egli la responsabilità di noi 659 e diffidando che noi possiamo reggere un giudizio con purezza e disinteresse, oltre a far presumere il peggio, nel confronto con i tanti casi in cui ne abbiamo ricevuto una parola soccorrevole ed estimativa. Quante volte, o sconcertato o dissidente, o semplicemente perché ho sentito emergere una personalità diversa dalla mia, e in certi casi anche per ammirazione invidiosa, e perciò sporca, per la sensazione che se vale l’altro allora valgo meno io, ho taciuto. E mi è sembrato di compiere uno sforzo su me stesso nel tacere quello che pensavo, uno sforzo, intendo, anche di amicizia. E invece esso è stato recepito come una svalutazione e un disdegno, sicché ci siamo creati tacendo, e quindi proprio restando neutrali, molti più nemici e antagonisti offesi e rancorosi che dicendo apertamente il nostro pensiero, anche critico, anche difforme dalle attese. E procediamo così, col silenzio, perché una volta che cominciamo a dire nettamente tutto quello che pensiamo, dovremo farlo sempre, perché ogni nostro giudizio sarà commisurato e confrontato, e questo ci farà camminare su un tappeto di spine ogni giorno, senza contare che, avendo profuso ogni energia nel valutare l’opera di alcuni, mai ce ne resteranno abbastanza per soppesare con equità quella di altri e, presi dal vortice degli interventi pubblici, faremo saltare tutti i pesi, ora giudicando di getto ora ponderando lungamente, col risultato che le nostre parole verranno tenute per ciance e sfoghi impulsivi, anche quando sono l’esatto contrario. Se conclusione c’è, è che alla fine, secondo un motto di Salvator Rosa, è meglio tacere o, parlando, dire cosa migliore del silenzio. Il potere mi guasta Non solo io non ho mai cercato il potere ma ho cercato di non averlo, e questo per aver sperimentato i guasti che nel mio carattere subito produce. Mi è bastato assaggiarne una piccola porzione per cominciare a vedere gli altri come più sciocchi e incapaci, come rallentati di comprendonio per la loro stessa dipendenza, senza che in nulla fossero cambiati. Ma il loro semplice dipendere da me e 660 seguire se non le mie direttive anche solo le mie indicazioni, li sviliva automaticamente ai miei occhi, tanto che cominciavo a pronunciare quei giudizi netti e definitori che non mi sarei mai permesso, non avendo quel poco di potere. E alla loro mancanza di reazione si generava in me una voglia di incrudire e di infierire che me li deformava, benché essi in nulla fossero peggiorati, anzi mi ascoltavano e giovavano. Un uomo che è al governo di una azienda, di un comune, di una provincia, o addirittura di una nazione, non può che maturare la convinzione che tutti gli altri che gli sono sottoposti non solo manchino delle sue qualità ma siano anche torpidi nel difendere le proprie e provino il bisogno di dipendere da qualcuno per far cadere le loro responsabilità. Per questa delega per inerzia e volontà di sottomissione il leader non solo li disistima ma pretende che essi ne paghino il prezzo, che è appunto la loro sottomissione. Basta avere un ruolo di comando per vedere gli uomini in modo diverso e peggiore, disperare della loro autonomia e convincersi che solo un capo li possa guidare. Persone adulte le vedi trasformarsi in bambini capricciosi, attenti solo al loro interesse, e non sai più se la metamorfosi è avvenuta in loro o in te. Allora o insisti per la tua strada, diventando un illusionista e un manipolatore degli interessi, reali o presunti, o ti ritrai dal potere come da un sortilegio. Esiste però il potere di cui ci si investe a fin di bene, il potere di operare nell’interesse comune, proprio di pochissimi, giacché dovrebbe verificarsi la miracolosa coincidenza di una postazione elevata nella società e di una sincera e quasi santa volontà di giovare, perdurante ai filtri e ai tossici che l’esercizio del tuo ruolo ti schizza ogni giorno nel sangue. Tanto più che devi concertare ogni tua decisione, perché l’intenzione produca qualche effetto, sempre meno possibile in una società in cui la linea politica non è il risultato delle spinte opposte di due tendenze ma il risultato magico e a priori dell’obbedienza a quel fantasma potentissimo che è l’economia globale, e cioè gli interessi dell’internazionale industriale e finanziaria, alleata misteriosamente con la volontà della natura di sopravvivere su questa terra. 661 La satira ha la funzione di ridicolizzare i potenti, dando loro una scossa di umiliazione che opponga resistenza all’onnipotenza che sentono. E loro la impastano e la riciclano nel mito narcisistico del loro potere tuttora divino. Perché ci sarà una ragione profonda se loro sono stati scelti come oggetto di derisione! Ci sono persone che meritano uno sputo negli occhi. Li aiuterebbe a cambiare. Ma la legge proibisce anche di alitare sul naso di un potente. Psicopolitica Come la natura non sopporta il vuoto così neanche la politica, e come la natura non sopporta un albero sempre spoglio e una pioggia perenne così neanche la politica. Il vuoto della sinistra è stato colmato dal troppo pieno della destra, la perenne pioggia della sinistra ha fatto scappare gli italiani in faccia al re sole. Sole artificiale, sole radioattivo ma non tutti ne muoiono subito. Qualcuno se ne è già ammalato, ma i più non se ne accorgono finché non sarà tardi. Perché tanti italiani votano il più potente? Le spinte profonde e istintive, oltre agli interessi evidentissimi, ma che non gli darebbero mai e poi mai la maggioranza, non sono soltanto ideologiche e legate alla voluttà e al veleno del potere. Quali sono? Il bisogno italico di ottimismo, di un sentimento di fiducia nell’avvenire, la sensazione di un talento che si manifesta prima fuori della politica e solo in un secondo tempo nella politica stessa, di una cultura del fare, anche industriale e commerciale, dell’organizzare, del mobilitare, dell’attivare, senza cura per il senso, il verso e lo scopo di ciò che si fa. Aggiungi il fatto che il più potente d’Italia è milanese, lombardo, nordico e riscatta tutti i nordici operosi che non potevano soffrire Roma, per ciò che significa e comporta politicamente, e ancor più antropologicamente. 662 Altre ragioni del voto italico sono il gusto per le feste, magari anche orgiastiche purché piccolo borghesi, dell’allegria a oltranza, della simpatia malandrina, della voglia guascona di ridere e di scherzare a dritto e a rovescio; l’ammirazione per chi dà la sensazione di formare una squadra concorde con un capo o almeno uno che prenda le decisioni e le porti a effetto simbolicamente; una mitologia della salute, della giovinezza, della partita sempre aperta; la passione delle donne, anche semplici e del popolo anziano, per un buon partito simbolicamente matrimoniabile. Viene prediletta dagli italiani un’esuberanza di parole, di gesti, di azioni, anche a prezzo di menzogne, illusioni, trucchi, imbrogli, inganni, che vengono tollerati, simpatizzando anche con essi, in nome di questo profondo bisogno di vitalità, di coralità, di dedizione ingenua e fanatica a una causa, di tifoseria anche scema ma prorompente, istintiva, cieca ma eccitante; il bisogno di entusiasmarsi collettivo e sfrenato per qualcosa che si brucia sul momento, godendolo in modo cieco e ingenuo. Il più potente soddisfa il bisogno delle donne di un investimento ormonale candido e primordiale, l’omosessualità latente nei maschi servi che vogliono porgere il culo rosa da babbuino al capobranco; il fanatismo dei milanisti, la gioia perversa di una prepotenza grandiosa fatta a cielo aperto; il bisogno di stuprare la democrazia con il suo consenso, e tutto il corredo dei noiosi diritti e dei doveri con un bello sfogo di passione primordiale e simbolicamente omicida, ma senza morti certificati e senza galera. Egli consegue la vittoria simbolica sulla paura atavica da parte degli italiani della galera, disseminata in tutti i ceti sociali e annidata nell’inconscio per il terrore della magistratura e dei carabinieri di Pinocchio. Tristezza della sinistra Guardiamo ora la sinistra italiana: una nuvola di malinconia ci copre, soffia un vento freddo, i volti sono tristi e risentiti, i gesti lenti e professorali, gli occhi burocratici, la pelle smorta. Diritti e doveri 663 assumono un’aria mestamente scolastica. Il rispetto delle leggi evoca una frustrazione morale e contrita, una penitenza rancorosa senza fede. Essa indossa quello che David Hume chiama l’abito a lutto della morale. Sotto questa cappa penitenziale si annida l’ansia di proteggere i propri privilegi legali con accanimento piccoloborghese. Nei leader della sinistra è radicata un’abitudine alla critica e alla polemica spicce, senza gli strumenti intellettuali per sostenerla, che investe tutte le manifestazioni non solo della società ma anche della vita e della cultura, generando uno sconforto impotente di fronte ai mali perenni. Sono qualità che possono attrarre sempre meno quelle minoranze intellettuali che fanno della critica il loro rovello e della libertà di giudizio sull’operato degli altri il senso stesso della loro esistenza. Questi leader sono veramente troppo piccoli per riconoscere in essi guide o compagni di strada. Per giunta questo legame storico con gli intellettuali in ogni campo, dal letterario allo scientifico, dal filosofico all’economico, si è rotto, perché l’élite di sinistra oggi al potere non solo è infinitamente meno colta, oculata, scaltra e avveduta delle precedenti, ma anzi ha maturato una sottile antipatia, un risentimento, un odio per quelle figure intellettuali, Pasolini, Calvino, Sciascia, Moravia, che un tempo li coonestavano, spronandoli col semplice spettacolo dell’intelligenza messa in gioco nella politica, e consentivano loro perlomeno una dignità egemonica riconosciuta. I leader della sinistra sono figure antiquate, monocordi, schematiche che continuano a vivere nell’immenso condominio piccolo borghese e astorico del loro partito, espressione fossile di un’Italia burocratica, ragionieristica, che la sera legge Tex o guarda le commedie all’italiana degli anni 70, che tocca severamente il cielo quando partecipa a una regata o va al mare nelle spiagge alla moda. Sono figli di maestri, insegnanti, impiegati degli anni cinquanta, molto migliori di loro, che si sentono socialmente promossi. Gente modestamente vanitosa e presuntuosamente umile, con completi patetici e cravatte sconfortanti, che o scrive romanzi noiosi o saggi anacronistici, con una sua tifoseria di partito blanda e datata. 664 Una classe incapace di parlare ai giovani, rancorosa, polemica, inabile a capire le trasformazioni sociali e troppo occupata ad ascoltare se stessa e a fare la ronda intorno alle cittadelle fortificate del loro consenso, distribuito a chiazze e a regioni, come nelle città fortificate dei calvinisti ai tempi del re Sole. Solo che i calvinisti lottavano come leoni per la loro fede. Stanno invecchiando male, ci stanno invecchiando addosso, e i soli giovani che riescono a concepire sono boy scout candidi e fervorosi volontari della loro causa che, con le guance rosee e un italiano di trecento parole, scalano le cariche politiche locali dopo immersioni strazianti in riunioni di partito dove consumano la loro gioventù asettica. Se il più potente perdesse il potere, un’ondata di tristezza pervaderebbe l’Italia televedente e televivente e si stamperebbero decine di volumi in omaggio al re sole, costruendo una mitologia del rimpianto. Non subito ma dopo un periodo di oblio e decantazione. È meno peggio che la destra resti al potere, così stando le cose, in modo che sia essa a compiere le scelte più impopolari che negli ultimi venti anni sono state messe in atto, in pochissimi anni risolutivi ed efficaci, dalla sinistra, col risultato che si sono fatti odiare da tutti, ed è stata la destra a raccogliere i frutti dell’irrazionale amore prodotto dall’odio italico per il sacrificio e la penitenza. È molto dubbio tuttavia che gli uomini della destra si facciano carico di scelte draconiane, visto che il loro potere è costruito sulle illusioni e sull’indifferenza al bene collettivo, sicché si può prevedere che essi lasceranno che la distruzione delle energie nazionali diventi irreversibile, costringendo forze opposte o diverse a fronteggiarle, in modo da serbare nella memoria degli italiani il sembiante fantastico e romantico di uomini generosamente incapaci, che hanno fallito perché non hanno voluto infierire sui più deboli. Non avendo la sinistra idee da far valere, proprio come la destra, una strategia pragmatica vorrebbe che si lasci il potere a essa e che il mito salvifico del più potente conosca tutta la sua parabola 665 discendente, fino all’inesorabile e spietata distruzione dei beni comuni, non per cause esterne, ed essendo lui al potere, in modo che gli italiani abbiano tutto il tempo e il modo di cominciare a odiarlo e a non poter soffrire più, come hanno sempre fatto, colui al quale hanno prima inneggiato. E che la sinistra arrivi al momento giusto per coglierne il frutto, anche se tutto fa pensare che non sapranno più mangiarlo né farlo mangiare. Perché non ci sarà più nulla da raccogliere. Come i politici di destra si riuniscono per concertare una strategia di propaganda e di retorica sofistica onde pilotare gli italiani, così i politici di sinistra si dovrebbero riunire per elaborare idee e progetti. Ma non lo fanno perché hanno paura dell’irruzione dell’intelligenza imprevedibile del singolo, che quasi sempre non è colui che sta ai vertici del loro potere. La destra italiana è sinistra, la sinistra italiana maldestra. Il brainstorming, il mettersi tutti insieme per tirar fuori delle idee, non funziona, non tanto perché che il cervello di uno sia stimolato da quello di un altro dal vivo e in simultanea concentrazione è cosa rarissima, ma piuttosto perché tutti dovrebbero essere implicitamente d’accordo nel concertare un’accoglienza e un rispetto per quello solo che in una riunione ha l’idea decisiva. Cosa questa impossibile anche nella sinistra italiana. La mitologia del leader salvifico è entrata nelle vene dell’opposizione. La paura di un’idea imprevista è la paura della storia in atto. Il tratto piccolo borghese degli italiani. L’archivio divino dell’umanità Un creatore ama la sua opera fino nei suoi difetti e volete che Dio non desideri conservare tutta la vita vissuta da tutte le sue creature? Ecco che di necessità deve esserci un archivio celeste di tutta la vita sulla terra nei suoi quattro, cinque miliardi. Un archivio dal vivo perché, in virtù della propagazione della luce, è concepibile che esistano nell’universo degli osservatori che percepiscano ogni istante 666 vissuto e, dosando e proporzionando la distanza dal pianeta terra, se ne ricaveranno le immagini in sequenza cronologica di tutto ciò che è successo a tutti, animali e piante compresi. Per questi osservatori divini, anzi, opportunamente distribuiti nello spazio, sta accadendo ora la lotta tra due tirannosauri, la costruzione delle piramidi, la guerra contro i goti, ora la costruzione del campanile di Giotto, la guerra dei Trent’anni. Basta trovarsi con gli strumenti giusti alla distanza giusta. Le immagini di quelle vicende, che stanno viaggiando con la luce nell’universo, se c’è un occhio, verranno percepite come presenti. Se la luce impiega circa otto minuti per arrivare dal sole alla terra impiegherà qualche secolo o millennio per arrivare da qualche galassia. Se lì ci fosse un occhio vedrebbe la Firenze medicea? La filosofia dialogica è un’illusione Chiunque abbia dimestichezza con un filosofo vivente, che abbia elaborato un suo pensiero, sa che i dialoghi con lui sono del tutto apparenti e comunque inutili. Anche nel passato, del resto, fin dalle scuole presocratiche, vediamo che esse andavano per conto loro in completo isolamento, e quando Platone e Aristotele hanno cominciato a criticarne il pensiero, sempre però con profondo rispetto e volontà di spiegarlo, anche a se stessi, nel modo più chiaro, tutto ciò non avveniva certo dal vivo, in dialoghi e contenziosi diretti, in incontri preposti allo scopo di confrontarsi e stabilire un vincitore. La stessa sofistica, che si pensa più incline al contenzioso, specie nel suo filone eristico, metteva in scena una disputa tra argomenti opposti senza sognarsi di farne vincere uno per sempre, perché essa traeva la propria forza proprio dall’opposizione dialogica. Ci sono pensieri che hanno un’intima forza dialogica, che anzi costituiscono un continuo e problematico dibattito con se stessi, mettendo in luce tutte le obiezioni e i pareri diversi e contrari alle proprie tesi, lasciandoli a volte convivere, a volte smantellandoli in 667 virtù della propria posizione. In questo modo l’autore si sceglie i propri interlocutori mentali, escludendo al contempo tutti quelli in carne e ossa. Quando si pensa allora di intervenire con obiezioni nuove e differenti o in un incontro pubblico o in una recensione critica, si scopre un autore suscettibilissimo e insofferente di quello stesso dialogare che, finché è pilotato da lui, scorre benissimo, ma quando diventa imprevisto ed esterno non riesce neanche sopportabile, tanto che capita che l’autore si spazientisca, insulti, o rifiuti di rispondere. Vi sono infatti obiezioni che egli stesso ha selezionato e scartato, perché indegne, e che pure richiederebbero lunghi e faticosi ragionamenti per essere smontate, perché proprio le idee del tutto sbagliate sono le più difficile da correggere e riportare sulla retta strada. E vi sono obiezioni che colpiscono i fondamenti, il metodo o contestano il dosaggio dei pro e dei contro, spesso di un pelo, di un filo, che si rivela risolutivo. Di fronte alle obiezioni più fondate, un filosofo non può che rispondere: Dovrei scrivere un altro libro per contrastarle. Che però non scriverà mai, perché non ha senso difendersi da un attacco soltanto orale, benché veridico per chi ormai ha assimilato il feticismo della scrittura o almeno pensa che un duello vada fatto ad armi pari. Quando Michel Foucault ha tenuto i suoi corsi al Collège de France negli anni settanta e ottanta, ascoltavano ogni lezione cinquecento persone ma non erano previsti interventi del pubblico, tanto che lo stesso filosofo ne sentiva la mancanza, osservando che, quando la lezione non riesce, basta una critica fondata per rimetterla in sesto, e lamentando la solitudine e il vuoto disperato che lo coglieva dopo la performance, come fosse un attore o un acrobata (vedi il corso intitolato Gli anormali). E tuttavia basta un breve intervento a farti prendere tutt’altra strada e a farti ripensare tutta quella percorsa, così alla fine Foucault doveva recitare più parti, come in un seminario in cui lui fosse 668 docente e discente, parlatore e ascoltatore di se stesso, mettendo in scena da solo un pensiero di sua natura dialogico, critico e autocritico, sempre problematico, e sempre oltre ogni meta acquisita. Si potrebbe dire che allora è meglio leggere il libro. Ma non c’è confronto tra le idee tue che possono venirti in mente quando ascolti, scosso dall’emozione di un’audizione pubblica. Criticare un pensiero filosofico senza costruirne un altro è del resto perfettamente sterile e fin troppo facile, come fanno fatica a capire molti critici accademici, che mettono in luce tutte le debolezze di un’opera classica in interi libri, come se questo significasse la sua demolizione o la sua rottamazione. Un vero filosofo infatti è un artista che usa il rigore logico come il poeta usa la metrica, attenendosi a una disciplina formale, spesso posteriore, ma troverai sempre che i gangli decisivi sono frutto di intuizioni folgoranti a priori, del tutto simili a quelle del poeta. Quelli che sono i postulati e gli assiomi per il matematico sono le intuizioni fondanti per il filosofo. Intuizioni che qualcuno più scaltro fa trovare dopo, presenta in mezzo al libro come risultati del processo dialettico dispiegato, mentre non avrebbe mai scritto un rigo se non le avesse avute prima di prendere la penna in mano. Questa non è una debolezza del pensiero filosofico ma il suo genio. Se uno scrittore leggesse in pubblico il suo romanzo, potresti interromperlo per dire: Qui sarebbe meglio che succedesse qualcos’altro? Oppure: Questo l’avrei detto in modo diverso? Ecco che allora il pensiero filosofico è diverso dal pensiero letterario, essendo a esso simile per quello che ho detto, proprio perché può essere interrotto e criticato da un altro. Un pensiero interrotto però non è un pensiero. Ecco che allora o la filosofia diventa tutta orale, seminariale, socratica, e si costituiscono scuole e comunità come nel mondo antico, ma con uno spirito 669 democratico moderno, o l’autore stesso introduce il dialogo nelle fibre del suo pensare. Ma allora tende inesorabilmente verso l’artistico e ciascun filosofo diventa un romanziere di idee, un narratore di concetti, un drammaturgo di pensieri, come infatti in molti stanno diventando. E così tanto più intolleranti a ogni ritocco e modifica dall’esterno. 23 dicembre Messa di mezzanotte Messa di mezzanotte, il calore umano non è un’invenzione. Si ritorna nelle case solitarie, a vegliare mentre tutti dormono. All’una di notte sono venti gradi e il mare è caldo mentre una settimana fa su quel mare caldo nevicava mentre la temperatura a quest’ora scendeva a meno dieci. Nessuno fa una piega. Passiamo dall’oceano alla goccia d’acqua santa. Dal gelo all’incendio. Siamo animali che si abituano a tutto con gran rapidità. Il nulla della gente anonima Spaventoso che tutti saremo tuffati nel “nulla della gente anonima”, come lo chiama Shakespeare nel Riccardo III, e stupefacente che finché viviamo ciascuno è un tutto, un mondo con due gambe e due braccia che vive tutta la vita di tutti in sé e tutti i tempi in questo stesso secondo. La pensione rovescia il gioco dell’anonimato ma non lo rende meno duro. Diventando nudo il mestiere di vivere, non esisterà più un tempo libero, e tutto sarà lavoro di vivere. Questo vorrei dire agli amici che fin dai quarant’anni sognano una pensione che altrimenti li trasformerà in larve in una città limbica: ogni lavoro è sempre un secondo lavoro, il primo essendo quello di vivere. 670 Non si va in pensione dalla vita, non si va in pensione dal mestiere di vivere, l’unico lavoro che non finisce mai perché anche morendo lavori. Il pensionato che non ha più orari di lavoro deve comunque dare un ordine militare alla sua giornata, una disciplina, un’abitudine da rispettare se non vuole deperire o impazzire. Segno che il vero lavoro non è lavorare, è vivere, e li precede tutti con le sue leggi e i suoi rischi mortali di licenziamento e di vanificazione. Pilotare le masse è cosa ardua Una tecnica molto studiata è quella di pilotare le masse. Nelle democrazie occidentali più potenti stuoli di esperti del marketing e dell’imbonimento politico lavorano da decenni per consigliare i leader, raggiungendo negli Stati Uniti un’efficienza altamente specializzata e organizzata come una macchina da guerra. E tuttavia i risultati spesso non vengono o sono contrari alle aspettative, perché chiunque studia razionalmente un fenomeno irrazionale e che ancora non esiste, perché le masse sono prevedibili in tutto tranne che in quel guizzo storico che poi si rivela il fenomeno decisivo, tende a orientare secondo una logica, per quanto pragmatica, ciò che è sempre più spaventosamente rozzo, sproporzionato all’esame, rapidissimo, nuovissimo e violentissimo, riuscendo solo a inseguire da lontano la valanga senza poterla pilotare e limitandosi a orientare le reazioni di coloro che ne vengono travolti e colpiti. Chi aveva previsto lo scatenamento dagli anni ottanta delle masse avide di shopping e di cocaina televisiva? E chi aveva previsto la vittoria delle masse naviganti in Internet? E chi aveva previsto l’affermazione delle masse cinesi? E chi sa mai quale nuova valanga si scatenerà? Già solo scegliere la direzione dell’inseguimento quando il fenomeno si sta già sviluppando da anni richiede uno spirito pioneristico e una buona dose di vaneggiamento fantastorico. Figuriamoci quale potere di governo e previsione possono aver avuto i capolavori di studio delle masse, come La psicologia delle folle di 671 Gustave Le Bon, La ribellione delle masse di Ortega Y Gasset, per tanti versi illuminante, Massa e potere di Elias Canetti, uno dei libri più importanti e ricchi di intuizione del Novecento, che pure approfondisce con intuizione potente un fenomeno che pochi anni dopo la sua apparizione era già profondamente diverso. Essi, è vero, non avevano questo scopo ma quale effetto possono avere capolavori sullo sviluppo delle valanghe se già sappiamo che neanche un piccolo villaggio in più se ne potrà salvare? Pilotare una sola persona è anche peggio Ma non esiste solo lo studio delle molle del potere sulle masse, o per comprenderlo, come nel caso di Canetti, o per pilotarle come in quello dei migliaia di libri e di consulti dei cortigiani dei potenti. Ben più difficile è la strategia per esercitare il potere su una solo persona, nella quale sono stati maestri i gesuiti, quando educavano i figli dei potenti della terra, e nella quale sono maestre le donne, che pilotano da millenni i mariti e gli amanti di miliardi di famiglie, affinando una tecnica che non si risolve di certo nella messa in gioco istintiva dei caratteri ma punta a uno scopo di dominio tanto più sofisticato quanto meno apparente. Si pensi alle strategie dei figli per dominare i genitori, più raffinate di quelle dei genitori per dominare i figli, perché l’impotenza economica affina in modo straordinario l’intelligenza della sopravvivenza. E si pensi all’arte di chi, in un’azienda, in un’associazione, in una comunità, in un circolo, in un ambiente, nel mentre in tutto e per tutto è sincero, dedito al bene comune, disposto all’impegno personale, nel contempo pensa sempre all’effetto delle azioni proprie e altrui e riesce a volgerle al proprio interesse, magari non danneggiando quello altrui, e anzi riuscendo a farli procedere di conserva. Oppure convincendo gli altri per anni di aver fatto per il bene loro quello che ha fatto per il proprio. 672 È questa un’arte che richiede una concentrazione straordinaria sulla psicologia dell’altro, un esame gelido del suo carattere. Ma ciò non basta. Bisogna avere anche il talento di pilotarlo, una volta compreso, aderendo ad esso come il tennista che studia i filmini dell’avversario prima di giocare con lui e, rispettando le regole di gioco e mettendo in atto il fair play, riesce a vincerlo senza stroncarlo, ma facendolo giocare la sua partita fino all’ultimo. Con il che quello è quasi contento di perdere e si convince della sua giusta inferiorità. Mentre l’altro, magari più debole, ha vinto perché ha giocato la partita basandosi su di lui. La rinuncia delle donne all’arte del potere Le donne che stanno andando al potere o che l’hanno già conquistato hanno abdicato però in gran parte alla loro arte prima e sono diventate frontali, emotive e meccaniche come gli uomini mentre, se avessero semplicemente proiettato in politica e in economia le tecniche millenarie della vita domestica, avrebbero guadagnato in efficacia e in stile. Ma questa impresa potenzialmente grandiosa sta fallendo proprio perché le donne hanno abbandonato la forza della loro tradizione, svilendola e disprezzando coloro che sono rimaste in casa, mentre il patrimonio di ironia critica, di sdrammatizzazione, di capacità di orientare al bene una famiglia sembrando distratte, disincantate e persino smorfiose e un po’ tonte, avrebbe trasformato i compagni di partito politici in burattini nelle loro mani. Dismettendo il fascino femminile, il doppio gioco, l’apparente arrendersi, per poi spiazzare l’avversario colpendolo nelle sue vanità, insomma la psicopolitica femminile, arte antichissima e quasi imbattibile, il ricordarsi sempre che l’uomo è cosa fragile, volubile, adulabile, facilmente dominabile, facendo leva sul suo narcisismo e il suo infantilismo cronico, mascherato da pose composte e da serietà di intenti, il più delle volte superficiale e scolastica, avrebbe dato alle donne un potere anche pubblico e tenacissimo. 673 Il terribile Talbot che terrorizza i francesi nel Riccardo III appare alla contessa d’Alvernia “un insignificante granchiolino” (II, 3). Intendo questo quando dico del potere di ridicolizzare che la donna potrebbe avere nel Parlamento italiano e di ogni altra nazione. Eccole invece prendere sul serio gli uomini pubblici, cosa che nella vita privata non si sognano di fare, prendere alla lettera tutto ciò che dicono, senza studiare più il basso motivo per cui lo dicono, alzare la voce sopra la loro, nascondere minacciosamente l’estro femminile, cancellare ogni capriccio geniale, parlare la lingua morta e meccanica dei pedanti, gareggiare con gli uomini in sicurezza aggressiva, importarne tutta la logica rituale e la retorica falsamente seria, eccole diventare uomini, rivendicando una superiorità femminile che proprio nelle donne politiche è meno visibile. Si riscattano, o ci provano, dedicandosi all’assistenza sociale, alla scuola, alla salute, in questo almeno immettendo una sensibilità che nei maschi è debolissima, non sempre perché non tengano a questi valori ma perché sono abituati a farci pensare le donne. E tuttavia nei ministeri a loro affidati in questo campo non riescono mai a orientare una politica governativa, si limitano a gestire fondi decisi da altri e mettere in atto processi altrove definiti. 25 dicembre Unus christianus, nullus christianus Unus christianus, nullus christianus: il cristiano non può vivere fuori della chiesa, della comunità dei credenti. Eppure questo continuo vivere tra cristiani, confermandosi a vicenda, rassicurandosi a vicenda, confidando a vicenda genera raptus di aggressività spaventosi, paure che si infiltrano subdole, chiusure feroci. “Mi sono fatto tutto a tutti” (1, Cor., 9-22) dice Paolo di Tarso, il che non credo voglia dire che è diventato tutta la vita per tutti, che sarebbe presuntuoso e improbabile, ma che si è immedesimato in ciascuno, si è alienato nell’ascolto di tutti, si è metamorfosato amorosamente in ciascuno per portargli qualcosa. 674 Christianus semper in ecclesia, nullus christianus: il cristiano si riversa nel prossimo alieno, nello straniero, in colui che non crede, nel nemico. Nemico di cosa? Ma della sua fede naturalmente. E se la sua fede è la sua vita, nemico anche della sua vita. E versandosi, si aliena, perde la stessa identità cristiana e così perdendola la ritrova. Chi fa del cristianesimo una sua proprietà deve dilapidarla, perché tutto il suo cristianesimo donato, cioè perduto, gli verrà reso mille volte di più. Chi è ricco di cristianesimo non passerà per la cruna dell’ago. Non puoi essere discepolo di Cristo diventando schiavo di Cristo. Non puoi testimoniare la fede se non ti metti dalla parte del miscredente. Per essere un vero cristiano non devi essere cristiano. 26 dicembre Cambiare città Cambiando vita e andando a vivere in una nuova città è come se una vita intera fosse conclusa, circoscritta e definita entro quelle mura che ne diventano così anche le mura estreme, e tu puoi giudicare gli altri e te stesso per intero e con distacco, essendo quella partita conclusa e un bilancio di umanità possibile. Se infatti tornerai, quella città non sarà più da giocatore interno ma da spettatore e al massimo da dilettante di quella vita che chi vi resta invece svolge quasi professionalmente. E ciò che vedi è spaventoso, perché lo spettacolo dell’aridità, della inerzia, della pigrizia, del disamore è così nudo e spoglio di quel rilancio illusorio di chi s’aspetta, vivendoci dentro, che il bello e il giusto vengano all’aurora nuova, e così concluso e messo agli atti, anche se chi ci vive non se ne avvede più, che tu quasi tremi a 675 vedere la potenza della pietra, la mutezza degli affetti, la naturalezza del disamore spalancarsi impudicamente davanti a te come se neanche importasse più di nascondersi ai tuoi occhi, e fosse indifferente che tu lo sappia o no, il che è una specie di lento e nudo morire sotto gli occhi altrui, che si accetta alla sola condizione di non dover soffrire. Guerre, violenze, spietati conflitti tra fratelli, rancori, risentimenti, rimpianti sono tuttavia scosse salutari, finché non irrompe la tragedia, affinché la lenta, inesorabile opera del disamore tranquillo, dell’indifferenza senza sussulti, dell’opacità dei sentimenti più cari non vinca, calcificando un cuore al punto che neanche più se ne accorga. Davvero c’è da sperare la tempesta negli affetti, che è l’unico modo per ridare loro vita. E nessuno meno merita di coltivarli e scambiarli di chi vuole restarsene sordo e pacifico a sopravvivere secondo la sua natura. Donne che abbracciano e dimenticano Vi sono persone, soprattutto donne, che, se le vedi, si profondono in atti d’affetto, di sollecitudine, di generosità, e quando non le vedi più, anche solo per un giorno o per poche ore, non ti cercano più né ti pensano, si dimenticano completamente di te, e quando un giorno tu le richiami, sperando quasi di aver commesso qualche torto che giustifichi il silenzio, esse restano naturali e senza sospetto e ti riservano le stesse gentilezze e amenità che quando tu le avevi lasciate. Così ti fanno sentire altrettanto naturale che tu esista e che tu non esista, e alla fine con esse la presenza e l’assenza, la vita e la morte, sono disposte piane sui due piatti della bilancia senza che nessuna prevalga. E benché i sentimenti siano mortalmente offesi, l’effetto sull’umore è salutare. Il bisogno di tornare animali 676 E se ci fosse, come ho detto altrove, un bisogno degli uomini di rientrare nel regno animale a più pieno diritto, e non per un generico dispiegamento degli istinti, ma proprio per diventare chi un orsetto lavatore nella sua tana, chi un’allodola che fa il nido, chi il cane che porta a spasso e al quale sempre più assomiglia. Non ha quella donna l’operosità caotica della mosca e quell’altra il pungiglione sempre pronto per chi la infastidisce? Non è quella ragazza un felino e quell’artigiano un castoro puzzolente e simpatico? Nell’occhio materno e gigantesco della natura noi uomini non siamo che animali più diversificati, che hanno voluto rendersi inutilmente complicata una vita che non riesce a essere troppo diversa da quella degli animali che le sono rimasti in grembo. Non si sa però fino a quando. Prevedo che nei prossimi decenni ci sarà una ribellione degli animali, nel senso che ciascuno di loro vorrà rivendicare la sua personalità, oltre i confini della loro specie e famiglia. Qualche cavallo si innamorerà di una mucca e il serpente sedurrà una cagna, l’aquila scenderà all’improvviso in città innamorata di un piccione e i gabbiani inseguiranno i cani lungo la spiaggia, decisi a beccarli fino a farli sanguinare. I gatti faranno le fusa ai cinghiali e i cerbiatti cercheranno tra le ragazze più graziose tra gli umani. Prevedo grosse sorprese quando non sapremo più come potrà comportarsi questo dalmata, quel piccione torraiolo, quel cavallo nero, questo umano. Moto perenne degli animali Gli animali sono in movimento perenne. Non soltanto gli uccelli che fanno migliaia di chilometri nelle migrazioni, ma i cani che vagano per le città, i gatti che spariscono per intere giornate, i felini in perpetua caccia e le gazzelle in perpetua fuga. Api, mosche, zanzare si posano solo per pochi secondi, e insomma tutti gli animali, anche i più lenti e tardi, tuttavia si muovono incessantemente. E non dovemmo muoverci noi, che soffriamo stando lungamente seduti e inerti? 677 Il pensiero statico, seduto, quello che Nietzsche chiama dal sedere di pietra, è sempre più grave di quello che irrompe camminando e muovendosi. E tuttavia pensare è di per sé un moto perenne, frenetico, spasmodico se non lo accompagna un moto del corpo, se anche mai lo può raggiungere e confinare. Stupefacente l’anima o il pensiero, o quello che sia, che non fa una piega nello spostarsi anche in un’auto a duecento chilometri all’ora, in un aereo a ottocento, mentre chi ci osservasse circumnavigare il globo con un jet rimarrebbe stupefatto molto più che del salto della cimice del volo di un simile animaletto. Questo moto tecnologico, che non dipende dal nostro corpo, ci provocherebbe una vertigine snaturante se non ci fosse un animo saldo e insensibile, un secondo io pilota mentale dentro di noi, indifferente come l’intelletto attivo aristotelico. Sto non pensando così fortemente, così intensamente, che più non potrei. 28 dicembre Comicità nell’amore femminile Difficile provare affetto verso chi non troviamo comico. Questa sensibilità è spiccata specialmente nelle donne, che trovano sempre comico l’uomo di cui si innamorano, nei momenti in cui la passione è meno violenta. Se anche le donne sono sempre meno capaci di passioni violente, ed è questa una ragione per la quale attraggono meno gli uomini, riconosci che ciò accade dalla voglia irresistibile di prendere in giro la persona che amano, di scherzare sui loro difetti, soprattutto fisici, di metterne in luce le pecche, i tratti buffi e divertenti. Perché? Ci sarà sempre una punta del sadismo candido che è connaturato a gran parte delle donne, che infatti ridicolizzano anche i propri figli senza accorgersi di essere offensive, e proprio nel momento in cui li amano di più. Ci sarà la gelosia tipica di quelle 678 donne che vogliono rendere meno appetibile agli occhi degli altri la persona che hanno scelto di amare, e per questo ne mettono in luce affettuosamente in pubblico manchevolezze private, comportamenti ridicoli, debolezze inconfessabili. Ci sarà la gioia di amare che rende liberi, sinceri e disinvolti quando si sa di essere ricambiati e al sicuro da sorprese. Ci sarà il senso materno che si scatena in certe donne che adottano il loro uomo, facendolo regredire con vezzeggiativi, tenerezze e bamboleggiamenti allo stadio infantile. Ma tutto ciò non basta. Quando una donna ama molto e serenamente si accende in lei una conoscenza superiore: la vita è comica. Perché spendiamo energie straordinarie per minimi risultati, fatichiamo per decenni dietro una meta quando la morte ci sfila dal mondo in un attimo, come un ladro ci sfila il portafoglio, consumiamo idee, energie, emozioni per uno scopo che si rovescia nel suo contrario, ci prendiamo terribilmente sul serio e ci disperiamo se non si avvera quello che lascia del tutto indifferente il nostro vicino di casa, mentre lui dedica la vita a un obiettivo di cui facciamo fatica a comprendere anche il senso. E in un momento tutto si volatilizza, svapora e scompare come se non fosse mai esistito per un cambio repentino dei nostri desideri e capricci, che prendono un’altra piega da un giorno all’altro. Chi ama sa benissimo tutto ciò e scoprendo che ciò che fa soffrire, pesa, fa faticare e mordere i guanciali per una volta gioca a suo favore, che non solo si può ridere della vita senza far danno a nessuno, senza deridere, senza compiacersi del male altrui, dei difetti e delle goffaggini di estranei, ma si può addirittura ridere con chi si ama, oltre a dare un brivido di insicurezza a un amore sicuro, libera il cuore. Una palla comica La stessa terra è una palla comica nell’universo, se pensiamo alla sua piccolezza insignificante, rapportata ai dolori e alle fatiche di miliardi di persone che si sforzano al massimo per conseguire una 679 sopravvivenza e uno stato di benessere elementare senza che nessuno al di fuori se ne avveda, e soprattutto costruendo noi castelli vertiginosi sulla sabbia e piramidi, torri di babele, grattacieli su una bolla delicata che il minimo granello celeste potrebbe distruggere. Come quando vediamo l’indaffararsi frenetico in un termitaio o in un formicaio e ci viene da ridere ma anche da rispettare questa ostinazione incrollabile, perché è vero che un formicaio, ci sia o non ci sia, non cambia di una virgola la compagine del mondo ma è altrettanto vero che si potrebbero scrivere volumi e volumi sulla intelligenza sociale delle termiti e delle formiche, animaletti insignificanti e meravigliosi, debolissimi esseri che consociati aumentano però il loro potere, e soprattutto hanno una dignità per come continuano la loro opera come fossero i soli al mondo. Un vicino di casa Parlo della comicità della terra nel pianeta, nell’euforia del passaggio dell’anno, contagiato dal solstizio d’inverno e del prolungarsi della luce quando vengo a sapere che un mio vicino di casa è morto, lasciando due figli ragazzi e una giovane moglie. Un uomo taciturno e imponente dagli occhi azzurri seri e malinconici che la moglie amava con tenerezza, con gli occhi che ridevano per il contrasto tra la figura pubblica di sindacalista severo e scontroso e l’uomo che solo lei a casa conosceva. E penso che noi uomini dobbiamo prenderci molto più sul serio a vicenda, rispettarci molto di più da vivi. Disciplina Io non vivo se non mi do una disciplina, come quella di scrivere ogni giorno o, in altri tempi, di correre ogni giorno, di scrivere una lettera ogni giorno, di leggere ogni giorno, di non mangiare dolci, di 680 non bere caffè, di non offendere mai nessuno, o quello che sia, perché altrimenti divento aggressivo. Io mi sono dato la regola di scrivere ogni giorno ma al conteggio dei giorni a dicembre ho trovato che sono sotto di venti pagine. La mia regola è ridicola e io sono diventato un personaggio comico. Ma se la rispetto, scrivendo nell’ultimo giorno le venti pagine mancanti, io sono nello stesso tempo da rispettare, perché faccio un sacrificio gratuito e ridicolo da un verso ma ferreo e degno di rispetto dall’altro. Per essere rispettati dobbiamo attraversare la nostra comicità con disciplina. Ogni indulgenza ai miei piaceri, ogni compiacimento nelle mie doti, ogni esercizio di una sicura spensieratezza mi fa diventare violento in modo incontrollabile a parole e a pensieri. Ma se fossi un militare, un pugile, un buttafuori, una guardia del corpo, certamente lo diventerai anche con le mani. La disciplina militare, tanto vituperata, è invece una delle forme più energiche di dignità, a condizione che non sia volta all’espressione di un sadismo, al rovesciamento contro un altro di una frustrazione, a una vendetta delle proprie debolezze contro la forza morale di un sottoposto. Sottoporsi a privazioni, come veglie, digiuni, mortificazioni, astinenze è indispensabile alla vita spirituale. Non c’è purezza se non c’è sacrificio, privazione, rinuncia, non c’è neanche amore degli altri. Il fatto che nel clero dilaghi il piacere della gola e che certi preti siano buone forchette, che certi frati siano obesi, non è per questo un buon segno. Ricordo lo scandalo e il disprezzo di un monaco buddista quando, essendo ricevuto in Vaticano, notò che i cardinali erano quasi tutti grassi. Come puoi coltivare l’anima, pensò, se non coltivi il corpo? Ma soprattutto l’indulgere alla gola è un indulgere alla propria autonomia corporale, quindi spirituale, e rende la nostra capacità di 681 amare effusiva e impersonale, idealistica e vuota, perché l’amore per tutti è infinitamente più debole dell’amore per ciascuno. E soltanto nel sacrificio puoi amare ciascuno. Amare tutti è estenuante Amare tutti è piacevole, amare ciascuno è estenuante. Il vero amore è il secondo. Ne ami uno e ce n’è un altro. Ce n’è sempre un altro. E non arriverai mai alla fine. Non puoi amare tutti ma puoi tenere aperta verso tutti la possibilità di amare. Se tagli un ramo nel tuo cuore, quella donna o quell’uomo con i quali hai scambiato due parole moriranno, e tu ne sarai corresponsabile, anche se non hai fatto loro nulla di male. Quando muore una persona che conosciamo, e non amiamo, possiamo provare un dolore sincero ma solo nella misura in cui pensiamo che la sua morte non interferisca con la nostra vita, il che ci metterebbe subito in posizione difensiva e incapace di provare quei sentimenti che è giusto e umano provare. Per questo istintivamente le donne e i ragazzi, che più sinceramente soffrono, continuano le opere della loro vita in completa libertà, mai pensando che quella morte potrebbe condizionare la loro. L’amore di sé e quello degli altri sono altrettanto onesti e sinceri, quando sono affidamento alla volontà di Dio o accettazione dell’opera della natura. Se invece uno più acutamente soffrisse della morte di una persona conosciuta ma non amata, imponendosi quasi un dovere di compassione non nativo, gli altri lo vedrebbero come timoroso al fondo di sé, pensoso che anche a lui capiti la stessa sorte, e quindi egoista. Mentre invece voleva esserlo di meno. Par délicatesse j’ai perdue ma vie 682 Quando ero ragazzo e giovane maturo ero dotato di una ultra delicatezza verso gli altri, fino al punto di cercare di pisciare senza far rumore a notte fonda per non svegliare i familiari e di scaricare l’acqua mentre cacavo per non far sentire le scoregge. Quando c’era una tavola imbandita aspettavo di sedere per ultimo, cedevo i posti a sedere a ogni riunione e convito, non solo alle donne ma anche a uomini, e perfino a bambini. Finivo per ritrovarmi sempre in fondo alla sala, sugli usci, in piedi, agli angoli, perché di rado qualcuno gareggiava con me in questa ultra sensibilità. Questa estrema delicatezza, segno di umiltà mescolata a orgoglio, e giudizio severo su tutti, me compreso, mischiato a un estremo rispetto per tutti, con gli anni mi è venuta meno, quasi per noia e nausea nel verificare che la stragrande maggioranza delle persone, non per questo peggiore di me, di tali delicatezze non solo non fa conto ma neanche se ne accorge, salvo tenerti per meno potente quando ti vede in quelle posizioni defilate. Tanto umile da servire Renzo e Lucia a tavola, ma non abbastanza da sedere con loro al desco, così il successore di don Rodrigo nei Promessi sposi. Così io tanto umile da mettermi all’ultimo posto ma non abbastanza da mettermi in una fila intermedia. Umiltà sì, ma anonimato no, grazie. Il permaloso in genere è attentissimo a non offendere per non essere offeso. E attentissimo a non farsi offendere per non offendere. Par delicatesse j’ai perdue ma vie. Molti di noi potrebbero ripetere la frase di Rimbaud. Ma infinitamente di più sono coloro che l’hanno persa per mancanza di delicatezza. Rinunciare all’ironia Chi frequenta gli uomini sa che deve ascoltare sempre molto seriamente gli altri, rinunciando alle ironie, perché non sa mai a che cosa siano sensibili e in che cosa siano vulnerabili. Quasi sempre, quando mi faccio prendere da un’ironia che credo affettuosa e giocata insieme a un altro, per un comune sorridere sulle vanità che 683 secondo me staremmo mettendo in atto concordemente, vedo l’altro sbiancare o scurirsi, tacere e mettersi sulla difensiva o progettare un contrattacco. A tal punto la coda di paglia è lunga e delicata e a tal punto il nostro egocentrismo è ossessivo che tutto quello che si dice ci pare sempre detto a noi, per noi e contro di noi. Il geocentrismo come egocentrismo. L’eliocentrismo come ascesi scientifica. Il relativismo del moto tra sole e terra, nel senso che ciascuno gira intorno all’altro, a seconda del punto di vista, come compromesso dell’età democratica e conciliativa. L’albergo come porto franco, zona neutra internazionale, esentasse morali, consolato del cosmopolita, piccola arca degli apolidi. Luogo fuori del sistema solare. A volte basta trovarsi in mano un foglio bianco per avere qualcosa da dire: l’occasione ironica fa l’uomo scrittore. Lo schema Lo schema domina ogni cultura. Le cittadine dell’Italia centrale si assomigliano tutte: le mura, le torri, la piazza, il corso, il comune, il fiume. Differenziandosi come nella pittura rinascimentale per cifre stilistiche. In ogni paese dolomitico troverai un campanile a forma di pennino, case in legno con viole ai balconi, bar e generi alimentari fatti in serie, scultori del legno, negozi di articoli sportivi, case con tavernetta, alberghi, parchi gioco. Lo schema domina ogni personalità. Il guizzo è estremamente allarmante, nella città come nella persona, e tanto più in montagna, dove gli istinti sono censurati e ovattati con tale concorde volontà silenziatrice che la pioggia cade timidamente, chiede scusa alla terra e persino agli asfalti, sempre incatramati di fresco. 684 Codice evolutivo I ragazzi sono profondi e morali per natura senza che abbiano ricevuto un insegnamento espresso. Dobbiamo ipotizzare una trasmissione genetica non soltanto somatica, ma anche morale e spirituale. Dobbiamo pensare che la natura inscrive un codice genetico morale nella specie, ancora da scoprire e da localizzare, attraverso il quale pilota ogni individuo nella sua morale di sopravvivenza evolutiva. La religione è sempre naturale? Il cristianesimo, come le altre religioni creazioniste, e la natura, nella sua forma evoluzionistica, non sono incompatibili. Se infatti l’uomo si sviluppa dalle scimmie antropoidi nel corso di trenta milioni d’anni, quando compaiono i primi mammiferi, quasi interamente ignoti per il momento e senza tracce intermedie di nessun tipo, nulla impedisce che Dio abbia deciso nell’istante x, in tal caso la sua creazione, di infondere l’anima in queste semiscimmie e semiuomini. La creazione che conta è infatti quella dell’anima. Ma c’è un’altra ragione di somiglianza: le religioni della creazione puntano, come la natura, sulla vita, sulla sua moltiplicazione e sopravvivenza, esortando le coppie a fare figli, tanti figli quanta la loro salute, generosità, voglia di vivere e fede consente loro, e soprattutto a lei, di farne. Dove il progetto si distingue è nella cura dei vecchi, dei malati, dei deboli, visto che la natura mostra la minima sensibilità per queste condizioni e le religioni della creazione invece la massima. Ma nella guerra, alla quale esse hanno sempre aderito, compreso il sedicente cristianesimo fino a pochi decenni fa, col più sfrenato entusiasmo, esse si incontrano di nuovo con la natura. Qual è allora la differenza che resta invincibile: la natura elimina i vecchi, i malati, i deboli e le religioni i giovani, i sani, i forti, 685 mandandoli a morire a posto loro nelle guerre. Il che è molto più contronaturale che inquinare l’atmosfera e depositare uranio e plastica sottoterra. Gli stati democratici, curando i vecchi e facendoli vivere fino all’estremo limite oggi consentito, cooperano con le religioni, col risultato che le specie si infiacchiscono, diventano più intellettuali, sofisticate, individualiste e deboli, generando un mondo di vecchi potenti e avidi e di giovani impotenti e nomadi. E tuttavia la civiltà non ha il compito di spiritualizzare la natura, di tamponarne la brutalità, di attenuarne la violenza, di ammortizzarne le disparità, di correggerne la legge del più forte corporalmente con quella del più disposto a considerare il concittadino un altro se medesimo? E allora? Allora la natura è insieme provvida e maligna e la società lo stesso. Nell’illuminismo ragionavano tanto su quale fosse il modello di natura sul quale costruire una società e oggi ci avvediamo che è impossibile costruire una società che non sia naturale, e che, se non puoi comandare alla natura se non obbedendole, la natura finge di farsi dominare, e arretra di qualche posizione, ma sempre e solo per trionfare. E per forza questo accade, essendo l’unica sul campo, in entrambi gli schieramenti, pur cambiando il colore delle maglie. San Tommaso parla di diritti di natura derivanti dalla creazione divina, John Locke scrive che la vita, la libertà e la proprietà privata sono diritti di natura, anch’essi di origine divina. Rousseau esalta il bon sauvage e Hobbes dipinge l’uomo naturale come un lupo. In ogni caso si tratta di un andirivieni dalla prima partenza, cioè quella avvenuta in realtà nei propri tempi, abilmente nascosta, e cioè dai valori che oggi si vogliono sostenere o dai terrori che oggi si vogliono bandire. Il paradigma della natura, nel quale natura diventa sinonimo di assoluto, di assoluta verità, non serve che a legittimare le proprie odierne posizioni di valore e a giustificare un progetto di società, come quando nella Costituzione italiana leggiamo che la famiglia è “una società naturale”. 686 Il fatto è che naturale è la violenza micidiale del più forte sul più debole come la cura amorosa dei cuccioli, l’omicidio dei propri figli come il sacrificio della vita per la collettività, l’autorità del più anziano come la sua eliminazione. La natura ha tante contraddizioni quante ne ha qualunque società mai costituita dagli uomini. Coloro che difendono la natura ad oltranza si accecano volontariamente, ignorandone lo scannatoio. E soprattutto si sbagliano quando presumono che ogni singolo animale (tranne l’uomo, sempre colpevole) vada salvato mentre se c’è nella natura un tratto evidentissimo, nel bene come nel male, è che l’individuo è sempre subordinato alla specie e vale di per sé solo nei comportamenti che non ne intaccano le ragioni. Un uomo vale per sé, come individuus, come non divisibile, come unicum assoluto ma tutti sappiamo che questo è vero solo simbolicamente. In realtà, come la natura, anche la società può sopportare la perdita di chiunque. Con Cristo Alla fine l’unico uomo della quale l’umanità non avrebbe potuto fare a meno è Cristo. Questo lo divinizza per meriti umani? Immaginare l’umanità senza Cristo mette il gelo. Egli sta lì, per credenti e non credenti, come un riscaldatore dei cuori, attuale o potenziale. Come si è incarnato e fatto uomo sulla croce, così si deve umanizzare fino in fondo dentro di noi, farsi interamente uomo dentro di noi, farsi solo uomo dentro di noi. Per risultarne Dio? Se tuttavia Cristo non fosse Dio, cosa penserebbe Dio di questi uomini che dicono di Lui che si è incarnato in uno di loro, senza neanche dubitarne mai? A cosa li condannerebbe per la loro presunzione? Per salvarsi bisogna dubitare anche di Cristo. Questa riflessione ci dice quanto abbiamo ingabbiato Dio nei nostri parametri culturali e storici, pretendendo di imporgli i nostri canoni 687 di valore. La possibilità che Dio punisca coloro che credono che Cristo sia Dio, che Dio si incarni in un uomo, non suscita la minima reazione perché è fuori da qualunque contesto religioso storicamente dato. Dio potrebbe perdere coloro che si credono immortali e salvare coloro che si credono mortali. Eppure questo farebbe saltare tutti i legami tra questo mondo e Dio, lo renderebbe del tutto eterogeneo, incomprensibile e misterioso. Noi ci convinceremmo che Dio ci tradisca, trattandoci, così e non ci sarebbe nessun merito e gusto a essere immortali, essendolo per qualcosa e in un modo del tutto imprevedibile ed eterogeneo rispetto ai nostri parametri di valore. Dal che consegue che non solo l’uomo adamitico e la donna evale sono stati fatti a immagine e somiglianza di Dio ma anche l’uomo e la donna storici, come esattamente si sono configurati nei millenni, perché se non fosse così, se l’altro mondo non fosse la prosecuzione di questo, pur nel capovolgimento, non ci sarebbe nessun senso nella sopravvivenza ultraterrena, e neanche desiderio di quella. Dal che si comprende che noi comunque vogliamo l’aldilà conforme ai nostri desideri e alle nostre immaginazioni, ai nostri progetti e alle nostre volontà, e quindi non è affatto vero che ci abbandoneremmo totalmente alla volontà di Dio, giacché non conoscendola non potremmo neanche farlo, ed essendo essa totalmente altra rispetto ai nostri schemi non ci sarebbe alcun sapore in una nuova vita che non dipendesse in nessun modo da questa. Questo mondo è il primo tempo di una partita che si può vincere o perdere, il primo atto di un dramma che può diventare tragedia o commedia. Se così non fosse, se i due tempi e i due atti fossero irrelati ed eterogenei del tutto, in virtù di un salto in una dimensione solo metafisica e spirituale, noi non saremmo a immagine di Dio, il cerchio dall’origine alla fine si romperebbe e coloro che noi saremmo nell’aldilà sarebbero così lontani da noi da non serbare la più lontana memoria della prima spoglia. 688 Questo ci dice Dante nella Divina Commedia e del tutto fuori luogo sono i sorrisetti per la sua rappresentazione fisica dell’aldilà, che sarebbe legata alle esigenze artistiche. C’è una ragione filosofica profonda in questa rappresentazione, basata sulla memoria dell’aldiquà, primo fondamento della morale, della religione e di qualunque esistenza si voglia immaginare in un altro mondo. Il dubbio è intrinseco alla fede, come scrive Sant’Agostino ma Cristo dice che chi dubita di lui lo tradisce. Pietro non ha dubitato tre volte, lo ha tradito tre volte. Di Dio si dubita, Cristo lo si tradisce. Fa paura il pensiero che non essendo Dio Cristo, come non lo è per miliardi di persone, anche i cristiani finiscano per idolatrare un uomo, che almeno però è il migliore. Può essere buono un Dio che ha creato noi uomini? A fare il male e a soffrire? Perché sia buono Dio dobbiamo anche noi tentare di avere un senso. Maometto Maometto non è considerato dio dai musulmani, come Cristo lo è dai cristiani, e allora insistere a metterlo su un piano così superiore a ogni altro uomo è più un segno di perseveranza e di fedeltà a un fondatore, ai nostri occhi occidentali, che non di un suo carattere interamente religioso. Maometto lo ammiriamo, perché ha unificato un popolo, è un fondatore religioso di potenza immane e un personaggio storico decisivo; lo rispettiamo, anche per rispetto verso i suoi fedeli, nonché forse per paura di reazioni aggressive, ma non lo amiamo perché ci sembra non insegni prima di tutto ad amare. Soltanto Allah insegna ad amare. Maometto è il vaso profetico del dettato di Allah. Il credente islamico, in nome di ciò, mette tra parentesi una quantità di sue azioni violente come condottiero di popoli geniale, sanguigno e pragmatico. Né più né meno come hanno fatto gli ebrei con i loro patriarchi e condottieri. E come fanno quei cristiani che vogliono a tutti i costi armonizzare la verità di Cristo con la storia della chiesa. 689 Pare che Maometto diffidasse della poesia ma questo non vuol dire che non la sentisse. Anche Platone ne diffidava ma aveva una sensibilità artistica acutissima, e proprio per questo nutriva sospetti sulla sua efficacia pedagogica. Il Corano non è abbastanza poetico per essere vero? È lecito nutrire dei dubbi. Sia perché ciascuno sente il poetico secondo la sua tradizione sia perché non è il poetico la misura del vero, se anche le parole di Gesù sono poetiche in massimo grado nel vero. Se la Bibbia è molto più poetica nel racconto, nelle immagini e nello stile, tuttavia il vero poetico di una religione sta nelle esperienze radicali che milioni di uomini vi hanno vissuto, leggendo quel Libro in modo del tutto diverso e più profondo da quegli occidentali che l’hanno sfogliato o studiato come opera letteraria e storica. Il fatto che più di un miliardo di persone sia musulmano e rigorosamente monoteista, vivendo una religione assai diversa dal cristianesimo, benché nata da un ceppo comune, eppure profondamente sentita e indispensabile a vivere per tutti loro, è un segno che può essere educativo per i cristiani e per tutti. Perché nettamente insegna a guardare in alto, a sfrondare le differenze, a riconciliarci tra donne e uomini di ogni religione, ad accettare il sacrificio del godimento storico ed estetico di una storia millenaria di cui siamo compiaciuti, perché ne siamo gli eredi, per accettare il fatto brutale e secco che bisogna liberarsi anche della propria storia, del familiare dolore e del familiare amore intessuti nella nostra famiglia occidentale, e perfino dei capolavori dell’arte e della poesia, quando si ha a che fare con Dio e col suo aut aut. La religione infatti dà la gioia del vero se non si gode. 30 dicembre La pittura di Alberto Burri Il fatto che non si riesca a distinguere esattamente l’artista dal ciarlatano è una caratteristica di quasi tutta l’arte degli ultimi sessant’anni, che si muove appunto su quel crinale, e riesce meglio 690 proprio quando vi resta tenacemente, senza cadere nella buffoneria palese ma senza neanche ricadere nell’arte come veniva concepita prima che gli artisti percepissero che un’umanità sul crinale poteva essere provocata solo da un’arte sul crinale. Ma Alberto Burri non è un bluff. Quando sono i sacchi a essere incollati, cuciti e pittati sulla tela, quando le ferite mangiano il quadro, la carne francescana e ribelle dell’autore ci parla con onesto dolore artistico. La tela a volte è cadaverica, tra il somatico e l’anatomico, tra l’organico e l’inorganico, e le cuciture sembrano quelle dei cadaveri in autopsia. È la guerra che continua nelle sue opere, nei sacchi di iuta come sudari, veroniche, sindoni del soldato anonimo. Il rosso di cadmio è sangue umano che inzuppa i panni, le lamine sono quelle dei carri armati, dei cannoni, delle mitragliatrici, l’odore è quello del metallo incandescente e tagliente. Con le plastiche comincia il morbo radioattivo a manifestarsi, con le crette, sono le crepature delle coscienze e dei corpi. Nel ciclo dei neri, perché tanti e diversi sono i neri, più o meno lucidi o opachi, più o meno fondi e riflettenti, Burri ci invita a guardare il giorno nella notte, e non dopo o prima. Tristemente giocoso il tentativo che fa, negli ultimi anni, di parlare con i colori perché sono invece i colori con la loro chimica bellezza che gli prendono la mano e cantano la loro canzone indifferente agli uomini e scorporata dalla natura come una danza chimica artificiale e impersonale. Si parla di arte astratta ma si dovrebbe chiamare arte scorporata, perché essa esprime o stimola o risveglia sensazioni, emozioni, idee senza passare attraverso i corpi. Dalle emozioni dell’artista a quelle dello spettatore senza passare per il volto e per la sagoma umana. Si abbandona il corpo come canale, come veicolo identificativo e si fanno trapassare flussi di pensieri materiali dall’artista allo spettatore attraverso la materia. Alberto Burri dice che “la pittura è un’irriducibile presenza che rifiuta di essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione: una presenza nello stesso tempo immanente e attiva.” 691 Nessuno come un artista vero è terrorizzato dal vaniloquio della critica d’arte contemporanea e abbastanza megalomane dal puntare, anche se non lo dice, a una verità assoluta della sua opera. Ho detto dell’artista contemporaneo che, se reale, è sempre sul crinale tra arte e ciarlataneria e devo dire che è anche su quello tra umiltà e megalomania. Un’arte che non si fa tradurre, non diciamo spiegare, non diciamo interpretare, ma tradurre in parole è una verità ineffabile e quasi divina. Ogni opera d’arte è piena di parole e pensieri disseccati e morti nascosti dentro, a meno che l’autore non sia figlio di dei. È singolare perciò che il massimo del disincanto artistico coincida col massimo del misticismo artistico, in quanto la verità di un quadro, che comprende tutto il suo sviluppo e il processo di composizione, starebbe davanti a noi come “presenza irriducibile”, come una parete scrostata, come una muffa su un tronco, come un’arma marcita. In modo ancora più mistico anzi, in quanto quei fenomeni e oggetti possiamo descriverli e collegarli a tantissimi altri fenomeni e oggetti e la singola opera solo con le sue consorelle della sequenza. Per l’artista è naturale che sia così ma dal momento che espone le sue opere, e negli spazi immensi dei Seccatoi del tabacco di Città di Castello, egli cerca lo sguardo degli umani, di fronte ai quali queste “irriducibili presenze” devono trasmettere sensazioni, emozioni, pensieri. Rivelazioni, forse? Reazioni di qualche genere in ogni caso. E reazioni che si bruciano nella contemplazione o nel semplice guardare prolungato o che producano degli effetti anche dopo? Reazioni non traducibili in parola e traducibili allora in che cosa? In sensazioni altrettanto ineffabili? Noi che assistiamo solo alla striscia, all’effetto, alla scia dell’arte, bava mistica sulla tela o guardiamo le venature dei legni, le plastiche bruciate, le iute spiaccicate non potremo né spalancare la bocca e dire “bello” né potremo spiegare ma potremo solo respirare quest’arte senza commentare tra noi o con altri? 692 Di fatto però lo facciamo. Un mio amico ha detto: “Certo non è Picasso”, un altro: “Non capisci se ci fa o è proprio così.” Un terzo ha notato una virtù più di arredatore che di artista nelle grandi opere in cellotex, che potrebbero fare effetto nella hall di un grande albergo, in un atrio immenso, in un salone. Un effetto del tipo mordi e fuggi. E a patto di essere sole e improvvise. Eppure siamo usciti emozionati e contenti dall’esposizione, con molto rispetto. Il passaggio della verità da materia a materia, dal cervello artistico alla materia dell’opera al cervello dello spettatore fa rientrare l’arte nella natura, una natura vista come rivelazione dell’uomo naturale Burri o come rivelazione della natura comune, secondo me, del dopoguerra? Avventurare il caso, il caso che fa sì che l’intonaco di una casa si gonfi per la pioggia, che sul muro si formino delle macchie o delle muffe, che il metallo di un mezzo militare si ossidi in modo irregolare. Dove per caso intendo non già che non esistano leggi fisiche necessarie all’opera ma che non vi sia una volontà finalistica vòlta alla vita come nel formarsi dei polmoni e del cuore in un neonato. Da notare che le materie di Burri sono, a parte i legni, tutte artificiali: iuta, catrame, plastica, lamiere cellotex, colori chimici. Burri vuole rubare il caso alla natura e creare quadri di natura artificiale e umana. Vuole omaggiare la bellezza casuale della natura necessaria, pilotando l’involontario: l’ossidazione di una lamiera, l’imbrunirsi di un sacco di iuta. L’arte come accettazione del caso nella materia, come comprensione dell’umano nel gran mondo della materia, nel concerto involontario e disseminato delle materie che attraversano la vita umana, comprendendole al loro interno. Il suo gesto demiurgico sta nel riquadro geometrico al quale non rinuncia mai, dentro il quale avviene la traslazione della natura, e della natura artificiale, in arte. 693 Secondo me Burri si è trovato a un punto in cui avrebbe dovuto cominciare a lavorare col sangue, con lo sperma, con la piscia e con la cacca, col muco e col sudore, col siero e con la pelle, con la cispa e col cerume, col fiato e con il siero, avrebbe dovuto approfondire la ricerca arrivando al corpo non per rappresentarlo ma per farne agire i liquidi, le secrezioni, le deiezioni, esito coerente di tutta la sua storia. Arrivare cioè all’incarnazione della materia. Invece si è affidato ai colori, il che è stato una fuga decorativa e un tradimento, un tradimento che lo umanizza e ci fa comprendere la sua natura buona e pura. Questa sua ritirata in una vecchiaia piacevole è stato un gesto di pazienza e di umiltà, molto umbro e molto radicato nella nostra cultura dell’Italia centrale. Ma poi si è riscattato con i neri, da vero dialettico, che tornano a emozionare col loro mistero evidente, con la loro notte artistica e piena di vita. L’effetto della sua opera è profondo e non lo dimentico, e le sue “presenze irriducibili”, se sono filosoficamente deboli e negli effetti emotivi e sensitivi discontinue, sono anche però un fatto dell’esistenza oltre che un fatto della visione. Da figlio illegittimo della guerra e figlio del francescanesimo umbro, il megalomane Alberto Burri continua misteriosamente a far respirare una verità artistica irriducibile, stranamente sorella a quella naturale. L’incompiuto Mi fermo poche pagine prima del compito che mi ero posto liberamente, di scrivere tante pagine quanti i giorni dell’anno. Vedi come affiora sempre e comunque il carattere dell’autore, il mio desiderio di incompiuto, il mio spirito di iniziatore e non di terminatore, talvolta persino il bisogno di fermarmi a un passo dal traguardo e dalla vittoria, e mettermi a passeggiare come se la strada fosse infinita. Per poi irritarmi se gli altri, continuando a correre, mi sorpassano. Volete forse lasciarmi solo? 694