Note sulla nozione di contraddizione

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Note sulla nozione di contraddizione
hæcceit@s web. Rivista online di filosofia, cultura e società/ISSN 2282-5762
Note sulla nozione di contraddizione
Di Alessandro Pizzo
1. Negare per affermare.
F: La vedo, ma di che si tratta?
S: è il pensatoio delle anime sapienti. Ci sta
dentro gente capace di persuaderti con la parola
che il cielo è un forno, e noi ne siamo i carboni. E
insegnano, a pagamento, a vincere le cause giuste
1
e ingiuste
Gli ingegni filosofici sembrano fatalmente attratti dalla contraddizione e da tutti i possibili usi
perversi della negazione cognitiva. Così, gli stessi hanno inteso adoperare la particella ‘non’ al fine
di “forzare” il linguaggio umano e di ottenere dei progressi conoscitivi e/o di ragionamento,
estendendo gli uni e gli altri oltre le colonne d’Ercole del limite iniziale. La funzione della
‘negazione’, pertanto, appare davvero cruciale, così come impossibile non riconoscerle un potere
d’attrazione innegabile. Dovremmo riconoscere che dall’uso combinato di ‘negazione’ e
‘affermazione’ i filosofi riescono ad ottenere tutto, e conseguente negazione. Ma non lo faremo.
Piuttosto, rifacendoci a Moro, dovremmo associare all’una e all’altra due importanti procedure
cognitive, rispettivamente l’identità e la diversità2. Detto altrimenti: ogniqualvolta si ricorre
all’affermazione, non si cerca che di indicare il proprium di qualcosa che lo rende appunto tale, vale
a dire l’identità speculativa dello stesso. Invece, ogniqualvolta si ricorre alla negazione, non si cerca
che di indicare l’orizzonte ulteriore che si staglia appena fuori il proprium di qualcosa, vale a dire la
differenza che ne descrive e delimita il confine esterno. Dare un nome a qualcosa consiste, per
l’appunto, nell’attribuire il discretum che contiene l’identità di qualcosa. Parallelamente, ma in
senso contrario, negare il discretum a qualcosa consiste nel desumere quella differenza che corre tra
l’identità di qualcosa e l’identità di altro. Siccome sono sentieri “difficili”, propongo un simbolismo
tanto banale quanto osceno al fine di spiegarmi meglio, o almeno è quanto spero di fare.
Supponiamo di partire dalla seguente affermazione:
Giorgio è alto
Sia A segno della proposizione precedente. Ebbene, ogniqualvolta diciamo A, ossia ripetiamo
l’affermazione di cui sopra, non facciamo altro che ricorrere alla funzione cognitiva del definire
un’identità, che Giorgio possiede la proprietà dell’essere alto. Aristotele direbbe che la qualità
1
Cfr. Aristofane, Le nuvole, in Aristofane, Gli acarnesi. Le nuvole. Le vespe. Gli uccelli, Garzanti, Milano, 201012, p.
65.
2
Cfr. A. Moro, Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase, Adelphi, Milano, 2010, p. 26: «Si possono
rintracciare almeno tre scuole di pensiero che considerano il verbo essere, per così dire, il nome di tre concetti diversi,
in stretta dipendenza con il modo nel quale la linguistica loro contemporanea interpretava la natura del linguaggio in
generale: il nome del tempo, il nome dell’affermazione e il nome dell’identità».
dell’altezza inerisce al subiectum Giorgio. Kant, dal canto suo, direbbe che A è una proposizione
tautologica, e non sintetica, sebbene contenga un contenuto conoscitivo che esprime un progresso
teorico, ma, lo sappiamo, il filosofo di Konigsberg, aveva un’altra concezione della conoscenza,
così come dei contenuti conoscitivi. Il fatto che la qualità tal dei tali inerisca a qualcosa, a
prescindere in questa sede dal sapere esattamente cosa siano e la qualità e il qualcosa cui inerisce,
descrive l’orizzonte massimo di estensione della funzione cognitiva dell’identità: diciamo, cioè, che
il qualcosa ‘Giorgio’ e la tal qualità ‘altezza’ corrispondono puntualmente. Gli insiemisti direbbero
che v’è corrispondenza perfetta tra l’insieme monadico ‘Giorgio’ e l’insieme unario ‘altezza’.
Questo è quel che accade con l’affermazione.
Ma, cosa accade con la negazione? Ora, non perché io desideri complicare le cose e confondere
le già increspate acque, ma, più per pigrizia che per diletto, propongo di adoperare il medesimo
esempio per esplicare la funzione cognitiva della negazione. Supponiamo di partire dalla seguente
negazione:
Giorgio è non alto
Siccome A era segno della proposizione di prima, B sarà il segno della proposizione presente.
Come A indicava l’affermazione, B indicherà la negazione. Pertanto, ogniqualvolta diciamo B,
ossia neghiamo l’affermazione dell’esempio precedente, non facciamo altro che ricorrere alla
funzione cognitiva del forzare i confini dell’identità, e cioè escludere che Giorgio abbia la proprietà
dell’esser alto. Aristotele, ancora lui, direbbe che la qualità dell’altezza non inerisce al subicetum
Giorgio. Ed avrebbe ragione dal momento che, come piacerebbe ai logici insiemistici, non v’è
corrispondenza tra l’insieme monadico ‘Giorgio’ e l’insieme unario ‘altezza’ Detto altrimenti: la
negazione precisa ulteriormente, rispetto all’affermazione, il proprium dell’identità, alludendo ad
una diversità che estende il campo conoscitivo. Se A è il segno dell’affermazione e B il segno della
negazione, possiamo dire che non – A equivale alla proposizione B. Può parer banale, e in certa
misura lo è sicuramente, ma tutto questo discorso è propedeutico alla brevissima ricognizione che
intendo condurre in questa sede sulla contraddizione. Infatti, non è affatto casuale l’utilizzo dello
stesso esempio, ‘Giorgio’ e ‘altezza’, che ricorre sia in A, nella forma dell’affermazione, sia in B,
nella forma della negazione. Possiamo, infatti, dire anche che A e B siano entrambe vere? Cioè, ha
senso asserire contemporaneamente il contenuto di A e il contenuto di B? A dice l’esatto contrario
di B, ma anche B dice l’esatto contrario di A. Sono asseribili entrambe? Dire che ‘altezza’ inerisce a
‘Giorgio’ è il contrario di dire che ‘altezza’ non inerisce a ‘Giorgio’. D’altra parte, la ‘negazione’
«inverte il valore di verità di una proposizione»3. Pertanto, delle due, l’una: o è vera A, e, quindi,
Giorgio è alto, o è vera B, e, quindi, Giorgio è non alto. La negazione, dunque, rende possibile la
contraddizione, vale a dire asserire, nel medesimo istante, per uno stesso ente, A e non – A.
E così veniamo alla contraddizione.
2. Affermare per negare.
F: Ma chi sono?
S: I nomi precisi non li ricordo; ma sono gente
illustre, pensatori.
F: Disgraziati, vuoi dire. Li conosco quei
cialtroni con la faccia gialla, scalzi, quello
sciagurato di Socrate, e quell’altro, Cherefonte4
3
4
Cfr. R. G. Timossi, Imparare a ragionare. Un manuale di logica, Marietti, Genova, 2011, p. 252.
Cfr. Aristofane, op. cit., 65.
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Dei due usi della banalissima proposizione proposta, ‘Giorgio è alto’ e ‘Giorgio è non alto’, si dà
contraddizione quando entrambi gli usi sono realizzati contemporaneamente. Per esempio, se
asserisco contemporaneamente A e B, allora produco sicuramente una contraddizione, vale a dire
un uso arbitrario delle funzioni cognitive dell’affermazione e della negazione. Per Timossi, tanto
per esempio, la contraddizione è sinonimo di ‘assurdità’, vale a dire che essa è un’asserzione «senza
fondamento logico»5 dal momento che risulta contraria «alla stessa possibilità logica»6. Ora, a dire
il vero, perché vi sia contraddizione propriamente detta le due proposizioni che adoperiamo, vale a
dire A e B, devono non solo essere enunciate nello stesso tempo, altrimenti avremmo solamente due
distinte enunciazioni che si susseguono lungo la freccia temporale, ma devono venir congiunte tra
loro. In simboli piani, deve verificarsi la situazione seguente:
A&B
Detto altrimenti, dobbiamo disporre di una proposizione del tipo che segue:
Giorgio è alto e non alto
Oppure, ma per dire in altro modo la stessa cosa, e valendoci di una veste pseudo-formale:
(Giorgio è alto)&(Giorgio è non – alto)
Solo in questo modo, infatti, otteniamo un composto molecolare che «è sempre falso per tutti i
valori di verità assegnati agli enunciati atomici che lo compongono»7. Oppure, per dirla in maniera
apparentemente più semplice, abbiamo una contraddizione perché «si afferma e si nega
contemporaneamente la stessa cosa»8. Oppure, seguendo in questa sede una fonte più recente, A e B
rimandano ad una possibilità molto perplessa in forza della quale uno stesso soggetto, vale a dire
‘Giorgio’, «possegga contemporaneamente due proprietà mutualmente escludentisi» 9.
Quel che non emerge nei presenti luoghi timossiani è il costante riferimento ad una fonte illustre,
vale a dire Aristotele. La sua definizione di contraddizione, infatti, ricalca fedelmente gli echi
aristotelici di origine. Volgiamo, allora, in tale fedele direzione il nostro sguardo. Aristotele, in
effetti, è il primo filosofo occidentale a definire puntualmente e con cognizione di causa la nozione
stessa di contraddizione, prescrivendo agli ingegni filosofici il suo stretto divieto, e lo fece nella
forma che segue:
(Metafisica , 1005b 19 – 20)
tÕ g¦r aÙtÕ ama Øp£rcein te kaˆ m¾ Øp£rcein ¢dÚnaton tù aÙtù kaˆ kat¦ tÕ aÙtÒ
É impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo
stesso rispetto10
Nell'originale possiamo leggere
tò gar autò áma ypárchein te kaì mhè ypárchein adýnaton tō autō kaì tò autò
5
Ivi, p. 324.
Ibidem.
7
Ivi, p. 325.
8
Ibidem.
9
Cfr. F. Berto – L- Bottai, Che cos’è una contraddizione?, Carocci, Roma, 2015, p. 9.
10
Cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano, 2000, pp. 141 – 143.
6
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Si noti la congiunzione dei due opposti, ypárchein te kaì mhè ypárchein, appartenga e non
appartenga, così come l'impossibilità esplicitamente asserita con adýnaton, è impossibile. In merito,
trovo difficilmente sottostimabili le parole di Severino che aggiunge:
Il passo immediatamente seguente (21 – 31) incomincia a sua volta con un gár («infatti»), e ciò significa che tale
passo indica determinatamente il fondamento dell'affermazione che il principio che è stato qualificato come il
più saldo di tutti possiede il diorismós consistente nella necessità che intorno a tale principio l'uomo si trovi
sempre nella verità, si trovi sempre all'interno di tale principio – cioè possiede il diorismós consistente
nell'impossibilità che la conoscenza umana sia mai un contraddirsi11
Tralasciamo volutamente il discorso severiniamo sul diorismós, di per sé consustanziale al
riconoscimento dell’ineludibilità del principio di non contraddizione, e torniamo al problema
presente. Aristotele definisce la contraddizione e se ne serve in termini strettamente normativi, vale
a dire mettendo capo ad un vero e proprio divieto! Detto altrimenti, più che il principio di non
contraddizione, lo stagirita formula un divieto di contraddizione, e, nel contempo, lo eleva di per sé
a rango istitutivo del pensiero stesso, e in ciò appare debitore nei confronti della particolare
curvatura che in quel periodo storico stava assumendo l’indagine filosofica. Aristotele, infatti, ha
identificato «l’essenza di una cosa con la sua forma (èidos) e la definizione con il discorso (lògos)
che dice ciò che una cosa è»12. Per cui, al fine di dire cose sensate, chiunque, volente come noi, o
anche nolente, come i sofisti, non può che adoperarlo. Credo sia evidente il passo successivo che
conduce ad inverare l’élenchos, ma non è di questo che desidero occuparmi.
Piuttosto, proprio perché dal divieto di pensare ed affermare nello stesso tempo due contrari
discende che non pare affatto possibile fare diversamente, riscontriamo nello stagirita la definizione
più cogente e più sensata di contraddizione, oltre che il suo uso più “negativo”. Ad esempio, mi
pare ragionevole asserire che già in Parmenide sia presente il medesimo divieto di contraddizione,
ma il suo utilizzo è strumentale al timor panico di vedere collassare su sé stesso l’essere13. Per cui,
11
Cfr. E. Severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano, 2005, p. 25.
Cfr. B. Centrone, Prima lezione di filosofia antica, Laterza, Roma – Bari, 2015, p. 176.
13
Cfr. A. Pizzo, Ontologia in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice «è», “Dialegesthai. Rivista telematica di
filosofia”, anno 14 (2012) [inserito il 10 luglio 2012], disponibile su World Wide Web:
<http://mondodomani.org/dialegesthai/>,
[93
KB],
ISSN
1128-5478,
contenuto
on
–
line:
http://mondodomani.org/dialegesthai/ap20.htm: «L'iniziato esce fuori di sé (fr. 28B 1 DK) per giungere a diretto
colloquio con la fonte esterna di conoscenza, la dea, theà, che illustra a Parmenide il contenuto della conoscenza, due
vie e le uniche possibili, odoì moûnai dizhèsiós eisi nohêsai, che si possono intuire, pensare. La traduzione di Tonelli
insiste sul carattere misterico del linguaggio parmenideo mentre tutte le altre traduzioni preferiscono rendere 'nohêsai'
con 'pensabili', che si possono pensare. Il passo è importante in quanto, sempre secondo Tonelli, Parmenide formula per
la prima volta nella storia del pensiero occidentale una delle sue strutture fondamentali, il principio di non
contraddizione, insito appunto nel significato greco di 'dízhesis', discernimento, separazione, distinzione. E Parmenide,
per l'appunto, distingue tra due vie di ricerca, l'una che "è", e che non è possibile che non sia, he mèn ópos éstin te kai os
ouk éestin mhè eînai; il "sentiero della Persuasione", dal greco 'Peithó', uno degli attributi della divinità dell'Amore,
fascinazione, seduzione, convinzione. Nella trama simbolica della parola 'iniziatica', 'sciamanica', 'misterica', si fa strada
la «necessità razionale»,13 la persuasione cioè conduce alla verità, Alhetheíhei gàr ophedeî, la via che dice che l'essere
è e non può non essere. La parola della dea, pertanto, fa da tramite, congiunge; costituisce allora «il punto in cui la
misteriosa e distaccata sfera divina entra in comunicazione con quella umana, si manifesta nell'udibilità, in una
condizione sensibile»,14 e accompagna Parmenide alla conoscenza. L'altra via pensabile è quella che "non è", e che è
necessario che non sia, he d'os ouk éestin te kai os chreón esti mhè eînai. Dunque, l'essere si contrappone al non -essere, l'uno è, l'altro non è, il primo è esistenza, il secondo è non esistenza. Qui Parmenide conia un registro linguistico
dal quale il nostro Occidente non potrà più prescindere, gli usi della copulazione, ossia dell'«è», la struttura base delle
frasi. Nelle parole di Moro, apprezzabili anche in senso filosofico, pur denunciando la loro appartenenza al registro
linguistico, «non c'è da sorprendersi che proprio il verbo essere sia divenuto, nella tradizione greco-latina prima e
12
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anziché derivare quest’ultimo dalla constazione di più contraddizioni, l’eleate vieta di generare tali
contraddizioni altrimenti l’essere degenererebbe nel suo esatto contrario. Ha, dunque, ragione
Calogero a ritenere che Parmenide sia «il fondatore del logo antico» 14, ma riconosciuto questo
termina il merito del filosofo antico. D’altro canto, la riflessione di Parmenide si concentra, e molto,
sui bordi del pensiero isomorfo alla realtà, ma a questi orli si arresta. Invece, la riflessione di segno
contrario ha speculato, e molto, sui limiti della considerazione sub limine dell’eleate. Ad esempio,
Cassin l’ha posta in diretta contraddizione con la sofistica gorgiana, arrivando addirittura a
considerare l’Elogio di Elena un contro poema al Sulla natura di Parmenide15. E questo perché
«l’essere parmenideo non è altro che un effetto di qualcosa che viene detto, ma questo perché non
esiste altro essere che non sia quello che è prodotto dal dire» 16. Ovviamente, ciò accade proprio
perché Parmenide assume a modello non l’essere, ma il non – essere, e, dunque, prende le mosse da
un modello negativo di essere al fine di rinforzare l’essere, vale a dire il positivo, ed evitare che
possa collassare. La dinamica, però, non sfugge ai negatori assoluti, come i sofisti, e nemmeno a
Cassin la quale, da parte sua, e pro domo sua, declina il tutto nei termini di logologia, vale a dire
che «il discorso fa essere»17 e «l’essere è un effetto del dire»18.
Piuttosto, penso che sia nel vero Odifreddi quando pur riscontrando appunto tali problematicità,
riconosceva come
il ragionamento di Parmenide, per quanto elementare, si basava implicitamente su tre ingredienti niente affatto
banali, che sono poi entrati a far parte del bagaglio degli attrezzi della logica. Primo: dire che «il non essere non
è l’essere» significa dare una definizione di verità della negazione («il non essere è») come falsità del negato
(«non è l’essere»). Secondo: dire «il non essere è il non essere» significa affermare il principio di identità,
secondo cui ogni cosa è uguale a se stessa. Terzo: dire che «il non essere non può allo stesso tempo essere e non
essere» significa intravedere il principio di non contraddizione, secondo cui una cosa non può allo stesso tempo
avere e non avere una stessa proprietà19
Ed è proprio qui che volevo arrivare. Infatti, la contraddizione consente di affermare, ossia
delimita il campo di validità del nostro linguaggio, umano, e, quindi, fallibile. Non a caso, infatti,
quest’ultimo è «il grande scandalo della natura»20 dal momento che ci costringe «a riconoscere una
discontinuità immotivata e improvvisa tra gli esseri viventi» 21. Ciò significa che sotto la mirabile
veste della logica, e delle sue apparentemente neutre formule, si cela il vivo palpito umano che
cerca di dare un nome alle funzioni cognitive che svolge tramite il linguaggio. Così, se è vero che
neghiamo qualcosa per affermarla, è parimenti vero che affermiamo qualcosa al fine di negarla. O,
per meglio, dire, mediante il sapiente uso di affermazione e negazione distinguiamo con maggiore
precisione i vari discreta che identificano i propria delle varie cose.
3.
Cantami, oh Diva, della negletta contraddizione e della sua ira funesta …
moderna dopo, un termine chiave della riflessione filosofica». 15 Il pensare, il considerare qualcosa come pensabile, o
anche solo intuibile, passa attraverso l'uso della copula «è», ossia per l'attribuzione di contorni, proprietà, per
il confronto, la distinzione, il discernimento, con altri oggetti, simili e diversi. Infatti, di «ogni individuo, astratto o
concreto che sia [...] si deve poter dire qualcosa, cioè a ogni cosa si deve poter dire qualcosa, cioè a ogni cosa si deve
poter assegnare un predicato».16 In altri termini, Parmenide fonda il logo occidentale».
14
Cfr. G. Calogero, Studi sull’eleatismo, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 64.
15
Cfr. B. Cassin, L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia, Jaca Book, Milano, 2002, p. 23 e sgg.
16
Ivi, p. 39.
17
Ivi, p. 57.
18
Ibidem.
19
Cfr. Cfr. P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. L’avventura della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Tea, Milano,
2006, pp. 38 - 9.
20
Cfr. A. Moro, op. cit., p. 62.
21
Ibidem.
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S: E ora che sarà di me, disgraziato? Non ho
imparato a usare bene la lingua, e sono rovinato.
Nuvole, datemi voi un buon consiglio22
Riferendosi ad Husserl, Costa scrive che:
La logica non è semplicemente un operare tecnico-simbolico, ma il luogo in cui deve radicarsi ogni sapere […]
La logica, dunque, proprio in virtù della sua formalità, è il presupposto di ogni pensare, e ad essa deve
conformarsi ogni procedere razionale 23
E questo mi pare difficilmente negabile. D’altra parte, chi avrebbe tanto ardire di asserire
qualcosa di contrario? Ma è il nesso che lega presupposto e consequenzialità ad illuminare, a mio
sommesso parere, la questione presente, vale a dire l’uso linguistico della contraddizione. Un
discorso di carattere teorico, e non limitato al solo Husserl, il quale, peraltro, era seriamente
percorso dal rifiuto del relativismo psicologistico e storicistico di fine XIX ed inizio XX secolo24. Il
ritorno alla ‘certezza’ è consistito, né più né meno ad un ritorno alla ‘verità’. Ma tornare alla ‘verità’
ha significato anche tornare sui propri passi, sui sentieri originari, seppur originali
nell’impostazione e nella metodologia seguite.
Generalmente, una trattazione esaustiva intorno alla contraddizione e ai problemi correlati la si
trova nei manuali di logica. E questo non può affatto essere un caso dal momento che essa «è la
disciplina normativa per eccellenza»25 in quanto «studia le condizioni di correttezza del
ragionamento»26. E in quest’accezione mi pare innegabile rilevare come funga da strumento
formidabile proprio il principio di non contraddizione, nella fondamentale funzione normativa
codificata dallo stagirita, vale a dire nei termini di un vero e proprio divieto di contraddizione. La
logica se ne serve per poter affermare, per poter negare, per poter precisare, per poter distinguere,
per poter combinare …
… tutto sta nel poter adoperare senza fallo alcuno tre distinti principi alla base di qualsiasi
riflessione logica, vale a dire:
1) Il principio di propria identità;
2) Il principio di esclusione della contraddizione;
3) Il principio di esclusione terza.
Il principio (1) asserisce, né più né meno, che ogni enunciato implica sé stesso27. Per esempio,
nel caso precedente, l’enunciato A implica sé stesso, vale a dire A. Ne consegue che in nessun caso
possa implicare una enunciato differente da sé, poniamo caso l’enunciato B.
Il principio (2) asserisce, grosso modo, che non si dà il caso che valgano l’enunciato stesso e la
sua negazione28. E cioè che possano asserirsi nello stesso tempo e, in forma congiunta, l’enunciato
A e l’enunciato B, vale a dire non può accadere che sia enunciata la congiunzione di due enunciati
contrari. Appare evidente, peraltro, come la contraddizione sia qui assunta in forma paradigmatica
di assurdità, vale a dire di asserzione sempre falsa, e, dunque, priva di qualsiasi sensatezza
22
Cfr. Aristofane, op. cit., p. 99.
Cfr. V. Costa, Husserl, Carocci, Roma, 2009, p. 67.
24
Cfr. R. Bodei, La filosofia del Novecento, Donzelli, Roma, 2006, p. 109.
25
Cfr. M. Frixione, Come ragioniamo, Laterza, Roma – Bari, 2007, p. 9.
26
Cfr. F. Berto, Logica. Da zero a Gödel, Laterza, Roma – Bari, 2007, p. 3.
27
Ivi, p. 52.
28
Ivi, p. 53.
23
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razionale. Il principio (2), infatti, ricalca espressamente la forma assunta in Aristotele, vale a dire di
un vero e proprio divieto di contraddizione, ossia di un’errata enunciazione la quale inopinatamente
congiunge quanto non si potrebbe, a rigore, mai congiungere, ossia due contrari. Come affermano
Berto e Bottai, infatti, «se ragioniamo in modo corretto, dovremmo evitare di cadere in
contraddizione»29.
Sciogliendo le forme piane dei due enunciati sinora adoperati, la contraddizione corrisponde ad
una formulazione del tipo che segue:
Giorgio è alto e non alto.
Nella simbologia logica, avremmo cioè
A&B
Vale a dire,
(Giorgio è alto)&(Giorgio è non-alto)
Il che è immediatamente assurdo. Con le parole di Berto e Bottai, possiamo anche riassumere la
situazione presente nei termini che seguono:
L’idea sottostante comune a questi ambiti è che una contraddizione si dà quando si prende in blocco un
enunciato e la sua controparte negativa 30
La contraddizione, pertanto, ha luogo ogniqualvolta si congiungano, o si asseriscano, nello stesso
tempo un enunciato, poniamo caso A, e la sua controparte negativa, poniamo caso B. La
contraddizione consiste nella giustapposizione temporale di un enunciato e della sua corrispettiva
negazione. Ora, è palesemente assurda una situazione tale ove si diano nello stesso tempo A e B,
ossia un enunciato e la sua stessa controparte negativa, ma sin dalla notte dei tempi è innegabile che
possa riconoscersi come tali assurdità abbiano esercitato un perverso fascino sugli ingegni
filosofici. Basti pensare alla lunga sequela di paradossi, «argomenti in apparenza corretti, ma in
realtà forieri di una contraddizione»31, delle mere contraddizioni sulle quali nulla di sensato o di
fattivo progresso conoscitivo mi pare lecito poter dire. E invece fiumi di inchiostro sono stati versati
per discuterne. Come mai? Per D’Agostini, essi sono, né più né meno, delle contraddizioni
resistenti32, e, proprio in quanto tali, una «sfida per il pensiero logico»33, solidamente arroccato
intorno al fuoco sacro della verità, «uno dei fondamenti razionali»34. Penso che abbia ragione Facco
quando attribuisce alla logica il compito arduo e delicato di rispondere al bisogno antropologico di
distinguere tra il vero e il falso35. Invece, il principio (3) stabilisce che per «qualsiasi proposizione
P, o è vera P oppure la sua negazione»36.
29
Cfr. F. Berto – L. Bottai, op. cit., p. 9.
Ivi, p. 10.
31
Cfr. R. G. Timossi, op. cit., p. 409.
32
Cfr. F. D’Agostini, Paradossi, Carocci, Roma, 2009, p. 21.
33
Cfr. P. Giaretta, Filosofia della logica, in L. Floridi (a cura di), Linee di ricerca, Swif, 2003, p. 137.
34
Cfr. F. D’Agostini, Logica del nichilismo. Dialettica, differenza, ricorsività, Laterza, Roma – Bari, 2000, p. 52.
35
Cfr. M. L. Facco, Metafisica, logica, matematica. Leibniz, Boole, Rosmini, Marsilio, Venezia, 1997, p. 9.
36
Cfr. F. Orilia, Ulisse, il quadrato rotondo e l’attuale re di Francia, ETS, Pisa, 20052, p. 53.
30
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Siccome l’elenco dei principi (1) – (3) è una mia personale rivisitazione, penso sia meglio anche
valersi di un’altra sponda. Confidando nel buon vecchio bertie, suddetto elenco può venir
riformulato nei termini che seguono:
1) il principio di identità: “Ciò che è, è.”
2) il principio di contraddizione: “Nulla può nello stesso tempo essere e non essere.”
3) il principio del terzo escluso: “Ogni cosa deve o essere o non essere.”37.
A ben guardare, si potrebbe pure pensare che, in realtà, i principi in questione non facciano altro
che dare confini di funzionamento per la copulazione linguistica. E non nego che tale opinione
possa avere la sua ragion d’essere, dal momento che secondo essa la copulazione ha luogo nella
forma (i) dell’appartenere, e, quindi, dell’identità: asserzione; (ii) dell’opporre, e, quindi, della
contraddizione: negazione; e, (iii) della distinzione, e, quindi, del terzo escluso: separazione.
Sarebbe un interessante filone di ricerca ulteriore, di approfondimento, di scavo nel retroterra
linguistico che sta dietro ciascuna costruzione del lessico filosofico. Tuttavia, sia per ragioni di
spazio sia per evidenti incapacità da parte del sottoscritto, lascio ad altri la suggestione, e mi limito
esclusivamente a fornire delle note sulla contraddizione. D’altra parte, la copulazione, vale a dire
gli usi diversi del verbo ‘essere’, attiene all’orizzonte enunciativo, ossia alla funzione propria del
medium linguistico che viene adoperato. Il problema, se si vuole, in tale condizione, è che «Il nostro
discorso si è basato sulla nozione di apofansi, e cioè nell’opposizione tra discorso vero e discorso
falso»38, e, quindi, sull’attribuzione o negazione o esclusione dell’identità, vale a dire del proprium.
I principi (1) – (3) servono a questo: a potersi districare in mezzo alle apparenze del mondo
ingannevole.
Ai principi suddetti, si tende anche ad includervi un quarto, detto principio di bivalenza, e in
forza del quale ad un enunciato «può essere attribuito soltanto uno dei 2 valori di verità: vero o
falso»39. E la bivalenza, a ben guardare, ha molto a che vedere con la contraddizione. Aggiunge
ancora Mugnai:
La ragione in base alla quale Aristotele ritiene che per tutti gli enunciati «antifasici» (tali, cioè, che l’uno è la
negazione dell’altro), siano essi universali o singolari, affermativi o negativi, concernenti il passato e il presente,
valga B [il principio di bivalenza] è da ricondursi alla circostanza che gli eventi descritti da tali enunciati si sono
(non si sono) verificati, per cui il loro valore di verità è determinato 40
Pertanto, la presenza di una contraddizione, vale a dire la congiunzione di due enunciazioni l’una
negativa rispetto all’altra, non esclude l’applicazione del valore di verità. Anzi, richiede ugualmente
l’applicazione della bivalenza.
Se il principio (2) esclude la contraddizione, v’è da compiere ancora un piccolo passo, per
giungere all’esclusione di terzi. Che significa? In termini piani, che il principio (3) delimita
l’attribuzione possibile del valore di ‘vero’ ad una sola delle due enunciazioni contrarie. Detto
altrimenti, così come il principio (2) escludeva la possibilità di congiungere due enunciazioni
contrarie, il principio (3) esclude la possibilità di un terzo termine possibile destinatario del valore
di verità. Pertanto, tra due enunciazioni congiunte, solo una può essere vera. Come sostiene Berto,
per qualsiasi enunciato valgono o l’enunciato stesso o la sua negazione41. Dunque, par di capire,
37
Cfr. B. Russelli, I problemi della filosofia, Feltrinelli, Milano, 19704, p. 86.
Cfr. L. V. Tarca, Elenchos. Ragione e paradosso nella filosofia contemporanea, Marietti, Genova, 19932, p. 251.
39
Cfr. M. Mugnai, Possibile/necessario, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 31.
40
Ivi, pp. 31 – 32.
41
Cfr. F. Berto, op. cit., p. 53.
38
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anche a causa del suddetto divieto di contraddizione, siamo obbligati a scegliere una sola delle due
alternative opposte.
Il funzionamento dei tre principi è così chiaro: veicolare in maniera certa l’attribuzione dei due
valori di verità e certificare in maniera credibile il processo inferenziale.
In breve, allora, credo si possa sintetizzare questa riflessione inerente ai principi con la stringate
parole di Pesce e Pozzi per i quali
Il principio di identità può essere formulato asserendo che «quel che è, è» o, in forma simbolica, «A è A» […] Il
principio di contraddizione fu poi così formulato da Aristotele […]: «è impossibile che la stessa cosa, ad un
tempo, appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto» […] il terzo principio
logico, detto dal Baumgarten in poi, del terzo escluso […]: «Tra i due opposti della contraddizione non c’è un
termine intermedio 42
Ora la logica ha cercato da sempre, magari pure prima di Aristotele, di sistemizzare queste
conoscenze, relative ai distinti usi cognitivi, anche sino al punto di considerare tali principi, assieme
ad altri qui ignorati, delle vere e proprie «leggi del pensiero» 43, quasi che senza di loro non potesse
avere luogo il pensiero umano. Ovviamente, la verità sta nel mezzo: in loro assenza non ha luogo un
pensiero sensato, anche se ovviamente il pensiero umano non è riducibile interamente a
quest’ultimo.
Tuttavia, non si può certo dire che passato Aristotele la contraddizione si sia quetata. Al
contrario, in tempi più vicini a noi la granitica saldezza del divieto di contraddizione è venuta via
via meno, cominciando a contare parecchi nemici, generalmente molto agguerriti.
Come scrive Berto, «le sfide più cogenti al (PNC) nel pensiero contemporaneo vengono dai
paradossi logici»44, vale a dire da tutte quelle formulazioni linguistiche, ma anche logiche, le quali,
per varie ragioni, infrangono il divieto di contraddizione, e, sotto altri aspetti, attenuano anche il
campo di applicazione del principio (3). Questo, però, non deve trarre in inganno. Anzi, è frutto di
una considerazione, in fin dei conti, piuttosto semplice nella sua ordinarietà. Infatti, come
riconosceva Franca D’Agostini, «è abbastanza intuitiva l’idea che l’aspetto interessante e
caratteristico dei paradossi sia il fatto imbarazzante (e sorprendente) di una contraddizione che per
qualche ragione risulta ineliminabile»45. Se i paradossi sono delle mere assurdità, dal momento che
infrangono il divieto della contraddizione, e, dunque, sono sempre falsi sotto qualsiasi declinazione
possibile, come mai la loro eliminazione appare così difficile? Così ardua? Così sospetta?
Ma era già ai tempi della fondazione del principio (2) che si registravano non poche difficoltà, a
dispetto della natura incontrovertibile che Aristotele cerca di appiccicargli sopra, in modo più o
meno posticcio, più o meno fondato, in maniera più o meno problematica. La dimostrazione per
(auto)confutazione, infatti, dice solo che la negazione del principio è infondata. Ma questo proprio
nulla, al contrario, dice sulla fondatezza del principio medesimo. In altri termini, confutare la tesi
avversaria non giustifica la fondatezza della propria tesi, anche se Aristotele la inserisce all’interno
di una sorta di gioco dialettico competitivo e, dunque, all’interno di una (ben studiata, a dire il vero)
serie di turni negli scambi comunicativi, grazie alla quale, invece, sembra che la sconfitta
dell’interlocutore rechi con sé la propria vittoria. Piuttosto, ci ricorda Galvan
la tesi segue dalla sua stessa negazione senza il ricorso ad altro che alle regole essenziali alla istituzione del
gioco dialettico tra proponente ed opponente alla tesi stessa. Per questo, il successo dell’argomentazione
elenctica implica necessariamente il raggiungimento dell’obiettivo dell’autofondazione 46
42
Cfr. D. Pesce – L. Pozzi, Primi elementi di logica formale antica e moderna, Le Monnier, Firenze, 1971, p. 15.
Cfr. G. Rigamonti, Corso di logica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 17.
44
Cfr. F. Berto, Teorie dell’assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione, Carocci, Roma, 2009, p. 37.
45
Cfr. F. D’Agostini, Paradossi … op. cit., p. 21.
46
Cfr. S. Galvan, Non contraddizione e terzo escluso. Le regole della negazione nella logica classica, intuizionista e
minimale, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 125.
43
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E, dunque,
il «dimostrare elencticamente» lascia, per così dire, che questo errore logico venga commesso da chi intende
contestare il principio: quando costui commette l’errore, basta rilevarlo, e con ciò lo si sarà confutato. Ma la
confutazione del negatore equivarrà alla dimostrazione del principio, perché mostrerà che è impossibile negarlo,
cioè che è impossibile che le cose siano diversamente da come esso dice, il che dà luogo a quella necessità che è
caratteristica delle conclusioni di ogni dimostrazione 47
Viceversa, scrive Donà, il divenire mostrato dallo stagirita nella sua dimostrazione del principio
(2)
garantirebbe appunto l'originarietà del principio in questione, facendo leva sulla dimostrazione dell'impossibilità
della sua 'negazione' […] chiunque tentasse di negare un tale principio negherebbe se stesso (perché, per negare
quel principio, dovrebbe presupporne la verità), ossia, per dirla con Aristotele, si costituirebbe come un semplice
tronco … e le sue parole non sarebbero tali, ma puro flatus vocis […] a ben vedere, i conti non tornano proprio 48
Dietro l'apparente evidenza della dimostrazione elenctica, detta anche dimostrazione indiretta,
per (auto)confutazione del negatore del principio (2), si nasconde un non – detto. Secondo Donà:
la presupposizione della ultimatività di quello stesso principio. Come a dire che si può dimostrare che quello è il
principio ultimo solo presupponendo già, e 'del tutto ingiustificatamente', la sua ultimatività 49
Pertanto, allora,
la potenza dell'argomentazione aristotelica dipende tutta dalla disponibilità dell'obiettore a riconoscere il suo
costituirsi come 'negatore' e non come 'sostenitore' del principio di non contraddizione 50
In altri termini, all’interno della fiction elenctica, Aristotele formula un (pseudo)ragionamento
fondativo del principio (2), vale a dire di quel principio che istituisce il divieto perpetuo di
contraddizione. Ma si tratta, per l’appunto, di una finzione, vale a dire di una situazione artificiale
ove le regole del gioco dialettico già indirizzano l’esito della contesa. Tale alter ego della
competizione, infatti, indica già il possibile punto di equilibrio del dialogo tra parlanti, e, dunque,
tra esseri che si suppongono razionali in partenza. Come asserisce Mérő, «abbiamo la possibilità di
ottenere beni essenziali per la nostra vita ad un «prezzo» molto inferiore grazie a una lucida
capacità di giudizio, a un pensiero consapevole, e forse in virtù di un accordo comune» 51. Alla fine,
assertore e negatore del principio (2) trovano un mutuo accordo, frutto sì di una sorta di imbroglio
di partenza (dire qualcosa di determinato per entrambi) – uno dei significati di èlenchos è, per
l’appunto, inganno -, ma pur sempre il miglior equilibrio possibile tra le due posizioni in campo. In
altri termini, ci «è data la capacità di accordarci senza combattere, e laddove non possiamo
contrattare, possiamo sviluppare principi etici che assicurano il bene della comunità meglio della
forza bruta»52. Certo Aristotele ha buon gioco nel fortificare il principio in questione con istanze
ulteriori, come, ad esempio, quella inerente alla sua ultimatività, e tuttavia ciò non lo salva da
critiche ulteriori. Ora, senza per forza aderire alla teoria dei giochi, «una disciplina astratta che
analizza le decisioni razionali»53 e secondo la quale «talvolta l’unico possibile comportamento
47
Cfr. E. Berti, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma – Bari, 1989, p. 94.
Cfr. M. Donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano, 2004, p. 47.
49
Ibidem.
50
Ivi, pp. 47 – 48.
51
Cfr. L. Mérő, Calcoli morali. Teoria dei giochi, logica e fragilità umana, Dedalo, Bari, 2005, p. 27.
52
Ibidem.
53
Ivi, p. 87.
48
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razionale è l’irrazionalità»54, possiamo riconoscere senza troppa difficoltà come la dimostrazione
aristotelica sia inficiata dal principio fondativo di qualsiasi gioco al casinò, vale a dire dalla regola
non scritta secondo la quale “il banco vince sempre”. Posta questa, l’intera discussione volge a
favore di Aristotele, e della tesi da lui sostenuta, e, quindi, che il principio (2) è alla base di
qualsiasi pensiero che voglia dirsi determinato, sensato, razionale, e così via. In realtà, però, ciò ha
luogo se, e solo se, quel che dovrebbe essere dimostrato, agisce fattivamente all’interno della
dimostrazione medesima. Infatti, il negatore del principio si contraddice nell’esatto momento in cui
adopera, suo malgrado, proprio quel che vorrebbe negare55. Così, la petitio principii è addossata per
intero sulle sue spalle, ed Aristotele ne evita il pesante fardello dal momento che non incorre nella
circolarità di dimostrare qualcosa proprio con il qualcosa che sarebbe oggetto di dimostrazione. Ma
noi che possiamo vantare una certa malizia ulteriore rispetto alle originali speculazioni aristoteliche,
e, in vago grado, volenti o nolenti, seguaci di un certo Gödel, riteniamo che «non vi è alcun sistema
per quanto complesso in cui tutte le verità formulabili al suo interno possono essere dimostrate
all’interno del sistema stesso»56. Mancando di quest’ultima scaltrezza, di tipo formale, Aristotele
non può che immaginare una situazione fittizia al cui interno due immaginari interlocutori si
contendono la palma della vittoria, per il tramite di un gioco viziato in partenza a favore di uno dei
due, e segnatamente nei confronti del convinto sostenitore del divieto di contraddizione. D’altra
parte, appare difficilmente negabile che intento di Aristotele fosse diverso da quello di «esprimere
tale divieto in termini di negazione della contraddizione»57. In altre parole, l’obiettivo, in sé
vincente, consisteva nel fondare un divieto perpetuo della contraddizione, segnatamente nella forma
materiale dell’esclusione della congiunzione di un enunciato e, nello stesso tempo, della sua
controparte negativa.
Questo, molto probabilmente, accade perché Aristotele formula un singolo principio,
segnatamente il nostro principio (2), ma lo declina in almeno tre distinti significati, tra loro forse
non irrelati.
4. Contraddizione si dice in molti modi.
F. Quant’è bello conoscere i concetti nuovi, e poter
disprezzare leggi e istituzioni! Quando mi dedicavo
tutto ai cavalli non sapevo dire tre parole di fila senza
sbagliare. Ma da quando Socrate mi ha guarito e
frequento parole, riflessioni, pensieri sottili, penso di
essere in grado di dimostrare che è giusto picchiare il
proprio padre58
Secondo Łukasiewicz, Aristotele ha fornito tre diverse formulazioni del suo divieto di
contraddizione, vale a dire (a) un principio ontologico di (non) contraddizione; (b) un principio
54
Ibidem.
Cfr. B. Cassin, op. cit., pp. 42 – 43: «Perché la confutazione abbia effettivamente luogo è sufficiente allora esplicitare
la nozione di significazione: significare qualche cosa, non è significare qualche cosa di essente, è solamente significare
qualche cosa di unico e convenzionalmente identico, per se stessi e per gli altri. Dal momento in cui parlo, e per ciò
stesso, il principio di non-contraddizione viene provato e instaurato: è impossibile che lo stesso (termine)
simultaneamente abbia a non abbia lo stesso (senso). Ogni termine, in quanto ha significato, è una incarnazione del
principio, e anche solo parlando si cade sotto questa giurisdizione».
56
Ivi, p. 49.
57
Cfr. F. Berto – L. Bottai, op. cit., p. 13.
58
Cfr. Aristofane, op. cit., p. 126.
55
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logico di (non) contraddizione; e, (c) un principio psicologico di (non) contraddizione59.
Ovviamente, questa distinzione non è compiutamente presente nello stagirita, e siamo noi che la
individuiamo a posteriori, ma è comunque possibile scorgerla in vari luoghi del libro  della
Metafisica. Infatti, il principio (a) viene così formulato:
(Metafisica, , 1005b 19 – 20)
tÕ g¦r aÙtÕ ama Øp£rcein te kaˆ m¾ Øp£rcein ¢dÚnaton tù aÙtù kaˆ kat¦ tÕ aÙtÒ
tò gàr autò àma ypàrchein te kài mhé ypàrchein adýnaton t aut kài katà to autò
è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo
stesso rispetto60
Invece, il principio (b) viene formulato con i termini che seguono:
(Metafisica, , 1011b 13 – 14)
Óti mšn oán bebaiot£th dÒxa pasn tÕ m¾ eŒnai ¢lhqe‹j ¤ma t¦j ¢ntikeimšnaj f£seij
Òti mén oùn bebaiotàthe dòxa pasòn tò mhé einvai aletheìs àma tàs antikeiménas fàseis
Che, dunque, la nozione più salda di tutte sia questa: che le affermazioni contraddittorie non possono essere vere
insieme 61
Infine, il principio (c) è formulato come segue:
(Metafisica, , 1005b 23 – 26)
¢dÚnaton g¦r Ðntinoàn taÙtÕn Øpolamb£nein eŒnai kaˆ m¾ eŒnai, kaq£per tinšj oŠontai lšgein Hr£kleiton.
oÙk œsti g¦r ¢nagka‹on, ¤ tij lšgei, taàta kaˆ Ùpolamb£nein
adýnaton gàr ontinoyn tautòn ypolambànein eìnai kaì mhé einai, kathàper tinés oìontai légein Herakleiton. Oùk
ésti gàr anagkaìon, à tis légei, tautà kaì ypolambànein
infatti è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia, come, secondo alcuni, avrebbe
detto Eraclito. In effetti, non è necessario che uno ammetta veramente tutto ciò che dice 62
Ora, Aristotele pensa in tutte e tre le occasioni allo stesso principio, vale a dire il nostro principio
(2), oppure sta pensando a tre distinti principi? Se le cose stessero come vorrebbe la seconda
alternativa, molto probabilmente lo stagirita non avrebbe mai adoperato uno stile comunicativo
coerente come quello presente, e, piuttosto, avrebbe ben scandito e precisato che si tratta di tre
distinti principi. Invece, non abbiamo alcuna evidenza stilistica che confermi questa seconda
ipotesi. Appare, dunque, ragionevole pensare che Aristotele pensi sempre allo stesso ed unico
principio di (non) contraddizione. Solo che, e scusate se è poco, ne riflette una natura trinitaria.
Infatti, il principio (2) regge tre diverse, ma probabilmente tra loro connesse, interpretazioni, o modi
di intenderlo. Il principio di (non) contraddizione, allora, è sia un principio ontologico, inerente alla
(necessaria) distinzione tra gli enti secondo una ben precisa differenza di proprium, sia un principio
logico, inerente «la veridicità dei giudizi e cioè dei fatti logici» 63, sia un principio psicologico,
inerente alla (necessaria) distinzione tra gli enti di pensiero. Se così è, nulla ci vieta di traslare tale
distinzione dal termine che chiamiamo ‘principio’ al quel qualcosa che vagamente appelliamo con il
termine di ‘proprium’. Intendo dire che è proprio la polisemia di utilizzo del proprium che abilita
59
Cfr. J. Łukasiewicz, Del principio di contraddizione in Aristotele, Quodlibet, Macerata, 20062, p. 19 e sgg.
Cfr. Aristotele, op. cit., pp. 143 – 145.
61
Ivi, p. 177.
62
Ivi, p. 145.
63
Cfr. J. Łukasiewicz, op. cit., p. 20.
60
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tutte queste differenze del medesimo principio. Pertanto, a mio sommesso parere, più che mostrare
una natura plurale il principio (2), è esattamente il proprium di ciascuna cosa che ne consente una
siffatta declinazione. È dal proprium che discende la stessa possibilità della differenza tra identità,
e, dunque, la medesima necessità di poter distinguere tra cose differenti, tra enti diversi, tra verità e
falsità. Da questa (pre)condizione deriva pure l’ovvia conseguenza che non sia punto possibile che
(i) uno stesso oggetto possegga e non possegga uno stesso attributo nello stesso tempo,
segnatamente che lo stesso Giorgio sia contemporaneamente alto e non alto; (ii) due proposizioni
contraddittorie siano contemporaneamente vere, segnatamente che siano ambedue vere le
proposizioni contraddittorie A e B; (iii) due credenze, cui corrispondono giudizi contraddittori,
possano sussistere nello stesso tempo all’interno della medesima mente, segnatamente che le due
credenze opposte, ciascuna relativa ad una delle due proposizioni A e B, possano sussistere
contemporaneamente nella stessa testa di chi le pensa.
Ora, se dalle formulazioni (a) – (c) dello stesso principio (2) derivano conseguentemente le
differenti interpretazioni (i) – (iii), non possiamo che riconoscere come in Aristotele sia agente una
severa fluttuazione interpretativa dello stesso principio di (non) contraddizione. E tuttavia, forse,
dovremmo scusare di ciò il povero maestro di Alessandro Magno, dal momento che è solamente la
nostra malizia a indurci ad uno scavo ulteriore dentro il campo dei principi primi. Una cosa,
comunque, sembra certa, e cioè che il principio (2) non ha un unico significato ed un solo tipo di
utilizzo, ma ben tre differenti significati ed altrettanti distinti tipi di utilizzo. Sicuramente, allora, la
contraddizione si dice in molti modi, non in uno soltanto.
Conclusioni
S. Ora fiaccola, fai il tuo lavoro. Voglio una bella
fiamma.
1° D: Che fai?
S: Io? Argomento tra le travi della casa64
il contenuto rimosso di una rappresentazione o di un
pensiero può dunque penetrare nella coscienza a
condizione di lasciarsi negare65
V’è tutto un filone di pensiero, e di tradizione, secondo il quale il principio di
(non)contraddizione si lega a doppio filo con la nascita della filosofia. Certo, ad uno studioso della
materia ciò apparirà senza dubbio una considerazione decisamente banale. Tuttavia, penso che tale
sensazione sia giustificata dall’effettivo grado di approfondimento della questione: se l’effettiva
conoscenza della problematica è superficiale, allora legare il principio (2) alla genesi della filosofia
non potrà che sembrare del tutto banale. In realtà, le cose non stanno così! Infatti,
prima, una tecnica poteva essere “mostrata” usando anche il linguaggio, dopo, doveva essere “detta”, e così tutte
le sfaccettature e le idiosincrasie del linguaggio divenivano la trama dell’attività intellettuale in generale,
diventavano la filosofia66
Quel che Borzacchini intende dire è che il passaggio da una cultura orale ad una cultura scritta
reca con sé anche un profondo mutamento di paradigma, vale a dire che quanto prima accadeva in
64
Cfr. Aristofane, op. cit., p. 130.
Cfr. S. Freud, La negazione, in S. Freud, La negazione e altri scritti teorici, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 65.
66
Cfr. L. Borzacchini, Il computer di Platone. Alle origini del pensiero logico e matematico, Dedalo, Bari, 2005, p. 89.
65
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pratica, sotto il regime delle téchnai, ora accade sotto la forma linguistica, tutto si fa attraverso il
linguaggio, tutto diviene rappresentazione intellettuale, funzioni cognitive. La scissione tra realtà e
pensiero è una conquista relativamente recente, in Aristotele, invece, non faceva alcun problema.
Nei tempi antichi anche una nozione inflazionata come quella di verità si prestava ad importanti
fluttuazioni contraddittorie. Come aggiunge Borzacchini, «Nella nostra scienza moderna siamo
tanto abituati alla granitica «bivalenza» vero/falso, un aut-aut rigido dominato dal principio di non
contraddizione e dal principio del terzo escluso, che ci appaiono strani questi aspetti vaghi e
magmatici dell’uso arcaico di un termine cruciale quale la verità: non tanto legata alla realtà
concreta quanto alla memoria, non tanto opposta alla menzogna o all’errore quanto all’oblio»67.
Come mai? Semplice, questi «principi logici sono legati allo spostamento del concetto di “verità”
da un antico ruolo dialettico e pragmatico a una nuova funzione ontologica sintattica» 68. Dunque,
v’è una genesi comune alla conoscenza, almeno nella maniera più vicina a come la intendiamo
oggi, e alla contraddizione. Scrive, infatti, Borzacchini che
Il linguaggio diventa all’alba del pensiero greco quindi tanto la dimora della conoscenza quanto il luogo della
contraddizione e del paradosso, e la negazione diventa la sorgente profonda di quei concetti negativi che saranno
al cuore della matematica europea69
Il medium, pertanto, finisce con accogliere tanto la conoscenza quanto l’errore, tanto la verità
quanto la contraddizione, tanto l’affermazione quanto la negazione, tanto l’identità quanto la
diversità.
Questa sorgente la ritroviamo inizialmente in Parmenide, ove il mondo reale, il pensiero e il
linguaggio coincidono. Ma solamente in Aristotele tale fonte si specifica ulteriormente,
arricchendosi. Pertanto, dall’«essere fisso, stabile ed immutabile»70 di eleatica memoria ci
evolveremo verso un’esigenza doppia, tanto ontologica, inerente all’ordine dell’universo intero,
quanto epistemologica, relativa a quel che si richiede «per la ricerca della verità»71. Ma tutto questo
attiene alla difficoltà di garantire il passaggio da un discretum ad un altro, vale a dire dal proprium
di uno al proprium di un altro, una difficoltà ben presente alla mente degli antichi greci e che
generava non pochi problemi, in modo particolare agli ingegni filosofici i quali, in misura maggiore
rispetto ai propri simili “non filosofici”, ragionano e parlano in termini qualitativi, e, dunque, si
scontrano con l’ostacolo della differenza qualitativa tra gli enti, di realtà, di linguaggio, di pensiero.
La stessa difficoltà non è riscontrabile presso gli ingegni matematici i quali, in misura maggiore
rispetto ai propri simili filosofici, ragionano e parlano in termini quantitativi, e, dunque, non si
scontrano con l’ostacolo della differenza qualitativa tra gli enti, di realtà, di linguaggio, di pensiero,
ma si limitano a contarli, e, dunque, riescono a compiere il passaggio da un proprium ad un altro.
Per i filosofi in generale, prova ne sia la particolare tensione che attraversa interamente la dottrina
eleatica, al punto che Boyer ne parla nei termini di un dogma inerente «l’unità e la permanenza
dell’essere»72, è estremamente difficile riuscire a compiere il salto che possa condurre da un essere
ad un altro essere, da una qualità ad un’altra qualità, da una identità ad un’altra identità, vale a
dire compiere il passaggio da un discreto ad un altro. In altri termini, se Parmenide fosse stato un
matematico, forse, non avrebbe incontrato tutte quelle enormi difficoltà con la pluralità e la
contraddizione. Ma se pure Aristotele fosse stato un matematico, più che un filosofo, sicuramente
avremmo minori difficoltà a gestire il rapporto infedele tra la realtà e il pensiero per il tramite
dell’infido linguaggio. Ora con i “se” e con i “ma” non si fa la storia, ma l’esercizio controfattuale,
67
Ivi, p. 91.
Ibidem.
69
Ivi, pp. 94 – 5.
70
Ivi, p. 101.
71
Ibidem.
72
Cfr. C. B. Boyer, Storia della matematica, Mondadori, Milano, 1990, p. 88.
68
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benché fittizio, e in una maniera molto vicina alla stessa dell’elenchòs aristotelico, rende conto, e in
maniera puntuale, a mio avviso, delle molteplici sfaccettature della contraddizione. Ci ricorda
ancora Cassin come l’«essere è un fatto di detto»73. Parimenti deve dirsi per la negazione e per il
suo uso produttivo di contraddizioni. Da questo punto di vista, allora, la tesi di Parmenide «è
sbagliata»74.
Tuttavia, e forse proprio per la medesima ragione, bisogna riconoscere che Aristotele va oltre
Parmenide nel momento esatto in cui distingue, e nettamente, tra contraddizione e negazione.
Infatti, scorge lo stagirita, la negazione «non appare nella realtà, mentre appare nel linguaggio
attraverso l’uso che ne fa un soggetto che nella prassi accetta e rifiuta, ordina e proibisce, sempre
determinando gli oggetti della sua intenzionalità e discriminando la sua azione in base alla stessa
intenzionalità»75. La presenza della diversità, pertanto, viene regimentata attraverso la nozione
logica codificata di contraddizione e gestita nei termini di un’esclusione tra più negazioni inerenti
ad uno stesso ente, reale, linguistico o cognitivo.
Dunque, par di capire, la contraddizione non sta affatto nelle cose, come magari poteva ancora
pensare Eraclito, ma nella natura e nel tipo di relazione linguistica i parlanti stanno giocando.
Infatti, penso di poter concludere citando ancora Borzacchini:
il principio di non contraddizione è legato alla prassi e ha origine dialettica76
La contraddizione sta, dunque, nella modalità di relazione dialettica tra propria diversi.
Borzacchini, ovviamente, prende le mosse dal suo specifico campo di interesse, il pensiero formale,
ma ciò non impedisce comunque di scorgere delle riflessioni davvero interessanti, e che possono
risultare rilevanti anche per gli ingegni filosofici. A conclusione del presente contributo, allora, non
posso che riportare ancora una volta uno dei suoi ragionamenti:
se le ragioni d’essere del pensiero formale sono nella idea di rappresentazione sintattica, nella corrispondenza
cioè uno-a-uno tra due mondi di “cose”, la realtà e il linguaggio, e se il pensiero formale deve fornire la cornice
di tutta l’attività umana, allora il problema della «negazione», che ricordiamo non ha corrispondenti nella realtà,
non si può risolvere che tramite principi di natura formale che trasformino il ruolo della negazione nella prassi
linguistica e sociale per ricostruirlo nel lessico teoretico specialistico e nell’attività scientifica dei ceti
intellettuali77
In ogni caso, comunque, a mio sommesso parere, bisogna riconoscere sempre un fatto, questo
davvero ineluttabile quanto incontrovertibile, e vale a dire che per quanto ben congegnata e
progettata la rete concettuale che cala sulla realtà manca sempre il suo obiettivo di catturare la
preda78. E, pur non potendo che agire così, e nonostante questa limitazione, noi esseri umani non
possiamo che tentare, che provare egualmente l’impresa, che gettare reti sulla realtà. La perigliosa
ed infida ricerca del lògos comporta pure questo, vale a dire un proliferare della parola 79, nello
73
Cfr. B. Cassin, op. cit., p. 167.
Cfr. F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma – Bari, 2010, p.
50.
75
Cfr. L. Borzacchini, op. cit.., p. 191.
76
Ibidem.
77
Supra.
78
Cfr. S. Natoli, Soggetto e fondamento. Il sapere dell’origine e la scientificità della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2010,
p. 56: «Rispetto alla verità i concetti e le filosofie hanno spesso l’effetto di reti lacerate da cui l’animale è fuggito. Le
teorie del soggetto sono questa rete; in qualsiasi modo intessuta, essa resta il mezzo più idoneo per accostare la realtà».
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Cfr. A. Cozzo, Conoscenza, logos e razionalità nella Grecia antica, Carocci, Roma, 2001, pp. 92 – 3: «Il logos è
sempre un modo di parlare che non cerca il sussidio della tradizione e che anzi si presenta agli altri come originale e
che, proprio a causa di questa sua caratteristica, vuole essere giudicato e giudicare a sua volta. In ciò il logos ha la sua
virtù e il suo vizio; la sua arbitrarietà costituisce, e fonda, la pretesa di chiunque tanto a parlare quanto a confutare: in
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sfrontato e fallibile progetto di catturare la realtà entro le maglie della nostra rete speculativa. Nelle
smaliziate acquisizioni coeve si può, così, pure giungere al paradosso conoscitivo par excellence.
Come scrive Tarca, infatti,
La filosofia contemporanea pone un contenuto che è in contraddizione con la forma del dire filosofico. Infatti, il
contenuto della filosofia contemporanea comprende l’affermazione che non è possibile alcun discorso definitivo,
ultimo ed irrevocabile80
La contraddizione assume, dunque, molte forme e infinite sfaccettature
Ho sicuramente messo molta carne sul fuoco, e molto altro ci sarebbe pure da dire ed
aggiungere, ma le presenti sono solamente delle note sulla contraddizione e possono solo far male
accenno alle questioni collegate, mai affrontarle in maniera che possa dirsi adeguata.
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ogni caso un logos genera un altro logos; il logos invita alla proliferazione della parola; il suo numero è il plurale: logoi,
non logos».
80
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