Letteratura italiana Einaudi – Il nome della rosa

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Letteratura italiana Einaudi – Il nome della rosa
Estratto da:
Il nome della rosa
Alberto Abruzzese
Pubblicato in Il Secondo Novecento. Le opere dal 1962 ai giorni nostri, vol. 17 di Letteratura
italiana (diretta da Alberto Asor Rosa), Einaudi 2007.
[…] Ma qualcosa in ultimo va detta spingendosi oltre – e di questo nel corso di questa [si
potrebbe scrivere ‘della presente nota’ anziché ‘di questa’] nota già abbiamo indicato qualche indizio
– la divaricazione tra i giudizi di Ferretti e di Cotroneo, che, pur mettendo sostanzialmente in
contrapposizione il genio e il letterato, restano ambedue al di sotto della natura drammaturgica, in
realtà tragica poiché irrisolvibile, in un testo che ha per nome Eco. È allora necessario richiamare,
seppure solo in qualche suo tratto essenziale, il contesto in cui questo autore ha preso la decisione di
farsi scrittore di narrazioni. Tale contesto consiste in una situazione caratterizzata ancora da una
considerevole forza dei testi alfabetici e analogici, prima quindi che lo stesso Eco definisse il punto
di crisi di “trasparenza” della TV coniando il termine “neotelevisione”1. Quindi, per cogliere la qualità
teorica di tale decisione e del suo conseguente risultato, è tanto più necessario partire anche dalle
posizioni teoriche, politico-culturali o semplicemente di “gusto” assunte dall’ambiente di altri
intellettuali e scrittori – come lui di solidissima e nobile formazione cartacea – posti di fronte alle
neoculture del computer.
Infatti, se individuate nelle loro componenti native, queste culture, espressione di una
soggettività emergente assai poco assimilabile alle etiche ed estetiche della modernità, vanno a mio
parere considerate motivo, se non ancora in tutto sostanza, del passaggio mediatico più drasticamente
trasgressivo compiuto nei confronti dei modi in cui la tradizione letteraria (non solo italiana, ma in
Italia con particolare rigidità) ha registrato e interpretato i rapporti tra autore, critica e pubblico.
Appunto giunti al culmine di questo passaggio – riduzione in mercati di nicchia delle prestazioni
digitali in campo ipertestuale e invece espansione degli usi triviali, psicosomatici, ludici ed
esperienziali delle pratiche discorsive messe in atto dai videogiochi, dall’intrattenimento personale
on line, dalla telefonia mobile – si fa più chiaro il nucleo originario dell’operazione echiana e la sua
resa effettiva sul piano culturale piuttosto che estetico. Essa risulta essere una svolta molto avanzata
rispetto alla civiltà letteraria, ma al tempo stesso ancora chiusa – per quanto ironica e correttiva,
provocatoria – dentro i suoi stessi orizzonti: quelli della civiltà dell’alfabeto.
Non è secondario ricordare il fatto che Umberto Eco, allora tra i principali e più sapienti motori
delle scelte editoriali della casa editrice Bompiani riguardo alla pubblicazione di testi stranieri, avesse
trovato di scarso interesse un autore, pur così a lui vicino per erudizione, frequentazioni e sensibilità
letterarie, quale Marshall McLuhan. Questi, negli anni Cinquanta e Sessanta, è stato appunto il teorico
della contrapposizione tra linguaggi alfabetici e linguaggi tattili: una cesura tra due dimensioni
dell’umano, quella intellettuale-religiosa e quella che, muta sul piano sapienziale, si serve del
“linguaggio dei gesti” (si potrebbe dire, riprendendo il tema, l’appartenenza dei “semplici” ne Il nome
della rosa). La radicalizzazione politica di questa scissione, crisi, lo portava a collocare sul primo
fronte le varie articolazioni identitarie del soggetto moderno – forti, militari, nazionali, imperialiste –
e sul secondo fronte le forme espressive tribali e neotribali – comunque premoderne o postmoderne
– dei linguaggi psicosomatici ed esperienziali (quelle soggettività tattili che ora vanno trovando
sempre maggiore “sfogo” nei new media digitali).
La frigidità nei confronti di McLuhan è divenuta e resta tuttora una sorta di contrassegno del
sistema culturale italiano, persino di fronte all’avvento di una serie di fenomeni che ne rafforzano la
particolare preveggenza. Uno scrittore d’onore oggi si vanta comunque di scrivere ancora con la
1
La definizione di neotelevisione si trova in: U. ECO, TV: la trasparenza perduta, in ID., Sette anni di desiderio, Milano
1983, pp. 163-80. Con questa etichetta Eco aveva definito il complesso dei cambiamenti strutturali intervenuti in seguito
all’esplosione delle televisioni private e all’introduzione di nuove tecnologie (il videoregistratore, il telecomando).
penna, di ritenere il libro sacro e il computer prosaico quando non pernicioso, di considerare
democratica la letteratura e tendenzialmente antidemocratici i media. Istituzioni e gusto della
letteratura hanno un orizzonte prefissato dalla civiltà urbana; hanno un soggetto di riferimento,
un’appartenenza identitaria, conforme alla storia sociale del processo di civilizzazione occidentale2.
Non è troppo difficile dimostrare quanto – in un modo affine ai paradigmi interpretativi di altre teorie,
seppure spesso più ingenuo o rozzo o impudente – le teorie della critica letteraria abbiano conosciuto
in Italia una riflessione autoriale sul processo innovativo del pubblico ottocentesco e novecentesco
tendenzialmente schematica, lineare, deterministica, spesso strumentale e corporativa. La riflessione
sul rapporto tra autore e scrittura narrativa è andata di conseguenza sviluppando e articolando le
relazioni del testo con lo status socioculturale del lettore, del fruitore, limitandosi a registrare solo
alcuni passaggi in tutto interni al progetto moderno del capitalismo occidentale.
Si tratta di fasi di lunga durata, tanto da coesistere tra loro seppure con intensità e peso
specifico diversi. La crisi dell’individualismo borghese “originario”, e dunque del romanticismo –
quanto successivamente del realismo (nelle sue pur varie dimensioni ideologiche e determinazioni
storiche, geopolitiche) – si è basata comunque sulla espansione di un lettore competente, anzi come
forme di lettura sempre più fertili per la costruzione dell’identità collettiva che ha fatto e fa da pilastro
ai processi di modernizzazione, alla società dello spettacolo, ai sistemi politici di massa. Su queste
basi viene concepita e vissuta – anche in Italia, ma in modi particolarmente contraddittori (ed Eco di
tali contraddizioni è a suo modo un riparatore e insieme un epigono) – la fase sperimentale delle
avanguardie storiche. Qui – appunto travisando il loro significato progettuale, assunto invece
dall’intelligenza collettiva dell’industria culturale che ne fa il centro delle proprie strategie di sviluppo
– si è aperta una distanza tra lettore colto e pubblico della lettura che, dagli anni Trenta del Novecento
in poi, si è fatta sempre più netta, seppure con un rispettivo abbassamento di qualità letteraria sia ai
vertici dei produttori che alla base dei consumatori.
L’esito complessivo di queste fasi sintetizza in unico soggetto della storia – e delle forme di
rappresentazione del mondo, dunque di chi narra e di chi è narrato – un simulacro autoriale e un
simulacro collettivo: nel ruolo dell’autore sussiste il patto di consanguineità sociale tra scrittore e
lettore socialmente fondato sui valori dell’individualismo borghese (poi tradotto e sviluppato sui due
fronti novecenteschi delle opposte ideologie conservatrici e progressiste); nel ruolo di identità
collettiva agisce il simulacro richiesto dallo sviluppo dei sistemi di produzione e fruizione
dell’industria culturale, con le sue profonde connessioni tra società civile e forme di potere. A
funzionare secondo controllate strategie dialettiche è la gerarchia tra questi due corpi, uno tendente
alle astrazioni occidentali del soggetto sociale e l’altro tendente – nell’esercizio dei consumi
quotidiani – alle passioni della carne.
Nello scegliere i modelli di ricezione del suo romanzo, Eco, come si è visto, iniziava il suo
progetto di scrittura mettendo in opera un programma nello stesso modo razionale – letteralmente un
metodo scientifico – con cui Edgar Allan Poe, di fronte a un lettore creato dalla rivoluzione
industriale, aveva esposto la sua filosofia della composizione. Quel lettore costituiva il soggetto di
una rivoluzione. Ma da allora una pari capacità di cogliere i mutamenti del mondo non si è più
realizzata. Eppure il mondo del libro non ha più consistenza rispetto ai mondi del presente. La
strategia è stata quella di operare per un lettore simulacro di infinite possibilità. Così tutto tiene. E
così, tuttavia, la strategia resta sostanzialmente legata all’incapacità di leggere le possibilità
espressive della “vita quotidiana” se non sotto la linea di comando dell’educatore d’eccezione, cioè
non un semplice divulgatore dei propri contenuti sapienziali, ma un irriducibile osservatore della loro
differenza rispetto ai semplici. Illuminare – se non persino tentare di riscattare – quella parte di mondo
che è vissuta e vive nel silenzio.
Al massimo di tradizione letteraria moderna – questo è il postmoderno nelle sue migliori
realizzazioni – corrisponde qui anche il massimo di un’inventiva che, legata ai presupposti più
innovativi della filosofia e della filologia, non può che riscrivere la storia nella convinzione che essa
2
A. ABRUZZESE,
Analfabeti di tutto il mondo uniamoci, Genova 1996.
non abbia precipizi, abissi. Dunque, preservarne la dissoluzione in base a un illuminismo del buon
senso, a una società civile ironicamente filtrata, a un sistema di relazioni aperte ma garantito dai propri
fondamenti3.
Tuttavia la certezza illuminista – si pensi anche a una certa palese milanesità di Eco – che le
paure umane e persino le proprie possano essere frenate dalla ragione viene tuttavia turbata da un
sentimento carnale, tattile, che nasce appunto tra le fessure della sua stessa strategia, quel “disagio
della civiltà” emerso persino nel sociologo che più ha contribuito a fondare il razionalismo
strumentale moderno, Max Weber. A chi gli domandava il senso del mondo, questi rispondeva di
rivolgersi alla letteratura o al cinema. Ed è quello che ha fatto Eco, cercando di trovare nella vita
romanzesca la possibilità di aprirsi ai conflitti tra umanesimo e vita ordinaria che non riesce ad avere,
o non mostra di avere, o piuttosto non vuole avere nella vita sociale (tra i più ripagati in questo dalle
istituzioni). Ma le aperture dei generi letterari anche più spinti oltre i letterati non donano più questa
possibilità, il loro spazio è troppo limitato ormai per l’espressività antialfabetica del mondo. Tra le
righe del suo romanzo, magari quelle in cui con più forza emerge il limite della morte, a volte Eco
sembra soffrire di questo, sembra sentire che la sua carne desidera ben altro.
3
Sul ripetersi della storia si veda: U. ECO, A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico, Milano 2006.