Teorie del linguaggio in Boris Vian

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Teorie del linguaggio in Boris Vian
n. 239, anno XLII (2013)
PERIODICO A CARATTERE CULTURALE, INFORMATIVO, D’ATTUALITÀ E COSTUME
e-mail: [email protected] – sito: www.fermenti-editrice.it
ATTUALITÀ
SOMMARIO
7Il silenzio della civiltà
di Giovanni Baldaccini
LA CRITICA LETTERARIA OGGI IN ITALIA - Seconda parte
13Le ragioni della fabula
di Giuseppe Panella
29A chi si crederà?
di Bernardo Pieri
32Critica letteraria, again?
di Luana Salvarani
37Una perplessità della critica
di Diego Varini
42Teorie del linguaggio in Boris Vian
di Gloria Sgherri
60Critica creola
di Francesca Medaglia
SAGGISTICA
68Sotto l’inchiostro
di Flavio Ermini
74Tre dediche di Elio Filippo Accrocca a Gianfranco Contini
di Eleonora Bellini
77Liminalità e diversità in John Fante
di Ivan Pozzoni
81Ancora sull’ultimo Rebora
di Giovanni Terzanelli
85Dall’umiltà pedagogica di Rebora all’esperienza poetica di Loi
di Graziana Coco
86Il dispendio dell’ironia nell’opera di Ignazio Apolloni
di Antonino Contiliano
94La prima monografia su Michele Sovente
di Antonio Sgambati
96Poesia impastata di felicità
di Alida Airaghi
98Tradurre poesia
di Ariodante Marianni
Fermenti 1
101Schiudere l’Infinito
Su Claudio Barna
di Emanuela Fantini
BLOC NOTES
109di Gualberto Alvino
PARLAR FRANCO
134di Gualtiero De Santi
Su Nino Borsellino e Gianluca Mancini
STORIA
138Melo Freni e il caso del Cardinal Rampolla
di Lucio Zinna
NARRATIVA
146Teoria Scottex
di Mario Lunetta
169Rosalba
di Giulia D’Alia
180Racconti
di Vinia Tanchis
188I nomi che salvano
di Vito Moretti
194Bunker
di Giuseppe Vigilante
200Frammenti da un lavoro di analisi
di Franca Mancinelli
203Edipo in città
di Enzo Villani
209Le fatiche mentali di Conquette
di Antòn Pasterius
TRADUZIONI
217Gli aforismi del pietroburghese Michail Kuz’min
a cura di Paolo Galvagni
225Taras Ševčenko, il bardo ucraino
a cura di Paolo Galvagni
233La poesia greca, oggi: la generazione del ’70 (Prima parte)
a cura di Crescenzio Sangiglio
RIPROPOSTE
278Antonio Verri poeta e letterato salentino
di Maurizio Nocera
289Dove sono finite le parole?
Per Antonio L. Verri, per altri tempi
di Maurizio Nocera
Fermenti 2
POESIA
291Skyline Italia
di Antonino Contiliano
295Campanella d’allarme
di Mario Lunetta
300Film metamorfico
di Mario Lunetta
304Le reticenze disegnate
di Domenico Cara
316Famiglia italiana/maggio 2012
di Raffaele Piazza
319Profumi
di Paolo Guzzi
321Poesie
di Giuseppe Vigilante
324nuttatterra e altre poesie
di Luca Succhiarelli
326Andata e ritorno
di Giuseppe Vetromile
330Alla dea minerva
di Maria Pia Argentieri
ARTE
332Parollelo
di Bruno Conte
340L’arte costruisce l’Europa
di Gabriella Colletti
344Vincenzo Tiboni. Narrazioni e impronte
di Maria Lenti
351Valerio Gaeti. “Reggo lo specchio alla natura”
di Vincenzo Guarracino
363Eduardo Palumbo/sferoidi, poliedri, triangoli
di Paola Consorti
364Dal bianco della fioritura
di Vinicio Verzieri
368Barbara Giacopello/Identità
di Paola Consorti
CINEMA
371Fratell(astr)i da un altro pianeta
di Lapo Gresleri
377RomaMaxxiFest, trucco/ossessione veneziana?
di Sarah Panatta
Fermenti 3
TEATRO
379Beatitudine
di Mario Lunetta
383Fratello dei cani (Pasolini e l’odore della fine)
di Marco Palladini
RECENSIONI
389Da Tiziano alla Bella Addormentata
Libri tra storia e attualità
di Gemma Forti
398L’ “occhio pittorico”
Su Mario Lunetta
di Mauro Ponzi
401Ero(s)diade
Su Antonino Contiliano
di Emanuele Schembari
403Zavattini: vólti e risvolti di un intellettuale sui generis
di Maria Lenti
406In tempi di tweet e post
Su Gualberto Alvino
di Benedetta Panieri
408Una tragedia nazionale
Su Riccardo Iacona
di Gemma Forti
410La tenue vita - In ricordo di Maria De Lorenzo
Un’autobiografia per l’ascesa di Maria Teresa Giuffrè
In coda a una lunga cometa di Lamberto Sabatini
Carta bianca di Raffaele Piazza
415Lo spogliatoio dell’anima
Su Salvatore Anzalone
di Raffaele Piazza
417E se dicessimo gli inizi, non i ritorni
Su Maria Lenti
di Michela Solimando
418Uno scrittore-giocatore cala i suoi assi
Su Marco Palladini
di Donato Di Stasi
420Deritratti
Su Bruno Conte
di Tiziano Salari
421Gabriela Adameşteanu, Verrà il giorno
di Sarah Panatta
426Biblio/Caravan
di Velio Carratoni
Su Marzia Palmieri, Beppe Fenoglio la scrittura e il corpo; Filippo La Porta, Un’idea
dell’Italia. L’attualità nazionale nei libri; Cesare Segre, Critica e critici; Pasquale Voza,
Fermenti 4
La meta-scrittura dell’ultimo Pasolini; Marco Stefanoni, I veri intoccabili. Commercialisti, avvocati, medici, notai, farmacisti. La Lobby del privilegio; Hans Küng, Onestà.
Perché l’economia ha bisogno di un’etica; Don Andrea Gallo, Bruno Viani, Ancora in
strada. Un prete da marciapiede; Enrico Buonanno, a cura, Io chiara e l’oscuro; Linda
Lê, Lettera al figlio che non avrò; Gabriela Adameşteanu, Una mattinata persa; Giorgio
Manacorda, Il corridoio di legno; Ambra Meda, Al di là del mito. Scrittori italiani in
viaggio negli Stati Uniti; Jean-Paul Sartre, La responsabilità dello scrittore; Giorgio De
Vincenti, a cura, Bernardo Bertolucci; Ilvo Diamanti, Gramsci, Manzoni mia suocera.
Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche; Mauro Fotia, Il consociativismo
infinito. Dal centro-sinistra al Partito democratico; Vittorio Sgarbi, La stanza dipinta;
Mirella Serri, Sorvegliati speciali. Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980; Carlo
Verdone, La casa sopra i portici; Brunella Diddi, Stella Sofri, Roma 1849. Gli stranieri
nei giorni della Repubblica; Peter Cincotti, Metropolis; Cristina Zavalloni, La donna di
cristallo.
All’interno, riproduzioni artistiche di: B. Conte, G. De Palos, V. Gaeti,
B. Giacopello, E. Palumbo, V. Tiboni, V. Verzieri.
Copertina di Bruno Conte.
INSERTO FONDAZIONE PIAZZOLLA
INTERVENTI
457Ci stiamo abituando all’Inferno
(a proposito degli Atti dei Convegni per il Centenario)
Testimone della cultura europea moderna di Lorenzo Macharis
Solitudine di un intellettuale tra impegno politico-civile e poesia di Andrea Ambrogetti
Chiarezza degli Atti di Canio Mancuso
Un poeta una storia di Maurizio Nocera
MANIFESTAZIONI
480XXVI edizione del Premio Nazionale di Poesia Edita
“Città di Penne – Fondazione Piazzolla”2012
Motivazione - Io per sempre fuori di me di Velio Carratoni
Tutta la vita mortale di Maria Grazia Calandrone
Dialogue de la poésie avec son quartier pauvre, c’est à dire l’âme Glosse
e sottoglosse per Biancamaria Frabotta e il suo “Da mani mortali” di Donato Di Stasi
POESIA
488Epigrafe a me stesso e L’armadio
di Marino Piazzolla
Fermenti 5
RICERCHE
489Jacobbi non è jacobbiano
di Luca Succhiarelli
CREATIVITÀ
496Un’eccentrica e tutta italiana modernità
Su “Lo scrigno del dialetto” di Nino Borsellino
di Cesare Milanese
RECENSIONI
500Nuove testimonianze
di Canio Mancuso
DOCUMENTI
502Epistolario Mucci/Arpino
503A proposito di Lucidità nel tempo. Lettera di Velso Mucci a Mollino
507Audio e video pubblicati sul sito www.fondazionemarinopiazzolla.it
515Note biografiche
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Fermenti 6
Il silenzio della civiltà
di Giovanni Baldaccini
Fermenti 7
ATTUALITÀ
Il mondo che abitiamo ha assunto spesso l’aspetto di un deserto. Basta pensare
alla Terra “palla di neve” effetto di antiche glaciazioni che la geologia ci ha insegnato a conoscere, o al pianeta di sabbia che il deserto senza posa crea grazie
anche alle variazioni climatiche, o ancora alla terra deserto d’acqua dell’immaginario mitologico che si riferisce al così detto diluvio universale. Il deserto cui
intendo riferirmi è invece un deserto di parole, una “terra silenzio” spogliata di
ogni significante e dunque priva di significati, un luogo che non parla che una
lingua muta che nulla significa se non l’assenza che silenziosamente esprime.
La civiltà silente in cui abitiamo e che abbiamo costruito prima di ammutolire
era espressione di duplicità. Lacerata dal conflitto tra natura e cultura provocato
dallo sviluppo della coscienza egoica, la nostra civiltà “disagiata” viveva nel
disagio creativo di quella che si presentava come unica condizione esistenziale,
scomoda ma possibile. Sempre mal sopportata dal soggetto che ricerca il godimento, questa cultura sublimante e figlia della sublimazione è oggi soppiantata
da una diversa forma di civiltà intollerante alle difficoltà dell’esistere, al punto
da precipitare inconsapevolmente nella “comodità piacevole” del nulla.
Apparentemente viva, colma di benessere e piacere, dispensatrice di sapere e
tecnologia, la civiltà attuale è specchio di quella forma di appiattimento psichico
che si definisce psicosi, laddove con questo termine si indica una totale frattura del
soggetto con la realtà oggettiva o, il che non cambia, un’identificazione adesiva
acritica con la stessa con conseguente annullamento della realtà interiore.
Alla base del problema rintracciamo la dinamica desiderio-Legge dove, con
questo ultimo termine, intendo riferirmi alla castrazione simbolica operata dal
Padre Norma, mentre parlando di desiderio il mio rinvio è a Eros. Eros non si
rivolge mai ad oggetti materiali individuati, a cose, è invece anelito e allusione.
Nella sua revisione del freudismo, Lacan afferma che ogni desiderare è figlio
di mancanza, una mancanza che non si riferisce a oggetti perché Eros non si
appaga nell’uso e nel possesso di cose. Eros rimanda allora a una condizione
esistenziale di base: esso è mancanza d’altro che potremmo individuare come
mancanza a essere e il suo è desiderio di esistenza. Tra desiderio e Legge non
esiste allora contraddizione o conflitto, perché è proprio la Legge simbolica
del Padre che, impedendo l’immediatezza del godimento, fa sì che Eros possa
desiderare la mancanza. La castrazione del moto cieco pulsionale verso l’evidenza illusoria dell’oggetto rende possibile il passaggio del desiderio al piano
simbolico del significato e dunque del linguaggio. Questo spostamento culturale
sembra perduto, come se la nostra civiltà si fosse “deculturalizzata” consegnandosi al regno dell’immediato, a un’adesione cieca all’atto rivolto al puro godimento senza la necessaria pausa della riflessione.
L’istinto della riflessione è ciò che costituisce l’essenza e la ricchezza della
psiche umana. La riflessione modella il processo di stimolazione e ne guida
l’impulso in una serie d’immagini, la quale infine, quando l’impulso è sufficientemente intenso, viene riprodotta. La riproduzione […] si verifica in forme diverse:
o come espressione linguistica diretta o come espressione del pensiero astratto,
come azione rappresentativa o come comportamento etico, come ritrovato scientifico o come rappresentazione artistica […] la riflessione è l’istinto civilizzatore
“par excellence”, e la sua forza si palesa nell’affermazione della civiltà di fronte
alla nuda natura. (C.G. Jung, Determinanti psicologiche del comportamento
umano, in Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino, 1976, p. 136).
Se diamo credito alle parole di Jung, la civiltà in cui viviamo ha perduto il
suo slancio creativo, regredendo a uno status di “natura” dove la psiche cessa di
rappresentare e dunque manca il riflesso del senso soggettivo di esistenza. Questo
discorso potrebbe essere continuato in molti modi, ricorrendo alle metafore
junghiane del simbolo, o al linguaggio lacaniano della perdita del Nome del Padre
o alla dinamica freudiana Eros-Thanatos. Sarà opportuno evitare troppi riferimenti diversi per non confondere il piano già abbastanza astratto del discorso.
L’idea di base è che il campo di coscienza viene seriamente infiltrato da
elementi che definiamo regressivi in quanto arcaici, una specie di “diluvio
universale” istintuale che allaga la coscienza riconsegnandola all’Inconscio da
cui si è differenziata. Occorre tuttavia specificare cosa si intenda con il termine
Inconscio o, per meglio dire, visto che il significato di quel termine lo conosciamo bene o male tutti, la domanda riguarda una specificazione poco dibattuta:
quale Inconscio?
Questo ci fa già capire che Inconscio non è termine univoco ma può rimandare a raffigurazioni diverse della mente non cosciente. Freud pose il problema nel
‘22, quando in Al di là del principio di piacere (S. Freud, Al di là del principio di
piacere, in Opere 1917-1923, vol. 9, Torino, Boringhieri, 1977) enunciò la dicotomia delle pulsioni. Fino ad allora l’Inconscio era il rimosso, dunque tutto ciò
che la coscienza non gradisce e tenta, per altro inutilmente, di espellere da sé. L’
Inconscio come rimosso non è muto, nel senso che, proprio attraverso il ritorno del
rimosso, propone “messaggi” di significati possibili che la coscienza ha il compito
di decifrare per tentare di riappropriarsi di un senso non compreso del se stesso.
Questa formulazione dell’Inconscio apparteneva al Freud ermeneutico di cui
parla Paul Ricoeur (P. Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Milano,
Il Saggiatore, 1979) ed “ermeneutico” era l’inconscio che si presentava come
interpretazione di significati possibili alle soglie del soggetto. Dal ‘22 in poi
tutto cambia perché l’Inconscio ammutolisce e mostra un aspetto di silenzio.
Thanatos non comunica: trascina. È moto arcaico verso la rovina, cieco impulso
di niente, divoratore di cose e desideri che “cosifica” immettendoli nel vortice
dell’immediatezza del godimento e deviandoli dal senso del significare proprio
di un anelito che rimanda. L’Altro da sé (e con ciò intendo tanto la realtà esterna
che quella interiore dell’Inconscio) scompare in una desertificazione del soggetto
Fermenti 8
che smarrisce ogni termine di riferimento, confronto e riconoscimento. Con esso
scompare il desiderio che desidera la mancanza che, come detto, non è di cose
ma di significati che solo la relazione col diverso può soddisfare. Dunque, la
psiche mostra un baratro di insignificanza, un Doppio dell’Inconscio che cambia
il campo del soggetto che ora non è più in rapporto dicotomico/relazionale con
la coscienza, ma la stessa psiche inconscia presenta un duplice volto. Secondo
Massimo Recalcati, l’Es, ovvero l’Inconscio solo spinta senza parola, uccide il
“soggetto” dell’Inconscio espresso dal ritorno del rimosso, nullifica il linguaggio
e riduce la dinamica tra natura e civiltà a un drammatico confronto tra l’esistere di un significato possibile e l’insignificanza assoluta del godimento immediato. L’Es non desidera: travolge. Spinge lontano dal significato di cui l’Altro
da sé, cui si rivolge la mancanza che muove il desiderio, è portatore e intrappola
nella soddisfazione elementare della cosa che nullifica il soggetto nel narcisismo
silente del proprio godimento senza nome. Questo l’Inconscio che infiltra: l’Es
in quanto Nulla di Morte psichica. Questo il silenzio di cui la nostra civiltà è
portatrice. Occorre tentare di riconoscerne almeno alcuni effetti.
L’evaporazione del Padre di cui parla Lacan indica il venir meno del senso
fondativo della funzione paterna alla base dello sviluppo della coscienza e della
possibilità di ogni civiltà. Al suo posto appare ciò che Lacan definisce “universalismo” e cioè il più che attuale fenomeno della globalizzazione.
In altri termini, l’universalismo di cui ci parla Lacan è quello prodotto dall’affermazione dell’oggetto di godimento che il discorso del capitalista rende illimitatamente
disponibile sul mercato globalizzato. La caratteristica principale di questo discorso
sarebbe […] quella di concretizzare un legame sociale che si istituisce sulla decapitazione della funzione verticale giocata dall’Ideale edipico e che al posto della funzione
normativa del Padre impone la potenza reale e immaginaria (non simbolica) dell’oggetto
di godimento (M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Cortina, Milano, 2010, p. 37).
Spodestato dal godimento assoluto, il Padre non favorisce più accessi simbolici di significato e la civiltà scade a livelli primitivi di soddisfazione materiale.
Dunque civiltà come campo dell’Es: si addensa un silenzio di psicosi.
Per intenderci su questo temine, uso ancora una definizione di Recalcati
che mi sembra particolarmente adatta al nostro discorso. Egli si riferisce “alla
psicosi come a una posizione del soggetto caratterizzata da un deficit strutturale
dell’azione simbolica, da una non operatività del significante a contenere il reale
maligno del godimento, dalla tendenza di questo godimento non castrato – non
regolato dalla funzione normativa della castrazione – a invadere abusivamente il
soggetto” (M. Recalcati, Ibidem, p. 142).
Un soggetto dunque invaso e incapace di simbolizzare, per questo perfettamente aderente alla letteralità delle cose che per lui non possono mai rimandare
ad “altro”.
Fermenti 9
Per descrivere questo fenomeno e il soggetto che ne è espressione, C. Bollas
ricorre al termine “personalità normotica”.
La persona normotica è qualcuno di anormalmente normale. Troppo stabile,
sicuro, tranquillo ed estroverso. È totalmente disinteressato alla vita soggettiva
e tende a badare solo alla materialità degli oggetti, alla loro realtà concreta o ai
“dati” relativi a fenomeni concreti […] la malattia normotica si sviluppa quando
il significato soggettivo viene assegnato a un oggetto esterno, dove rimane senza
essere reintroiettato e nel corso del tempo perde la nozione simbolica di significante (C. Bollas, L’ombra dell’oggetto, Borla, Roma, 1989, pp. 143-144).
Ci troviamo di fronte a un eccesso di mondo oggettivo rispetto a quello soggettivo, a quel disturbo psichico che anche Winnicott, nel suo Gioco e realtà (D.W.
Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma, 1972) non esita a definire psicosi.
Dunque, una forma di adesione acritica all’oggetto col quale ci si identifica
completamente, di modo che “La psicosi vi appare non come rottura con la realtà,
ma come eccesso di alienazione, di integrazione, di assimilazione conformistica
al discorso comune” (M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, op. cit., p. 23).
Alla scomparsa del Padre segue la dissoluzione del senso soggettivo e il mondo
appare popolato da “ombre oggettuali” prive di significazione e di linguaggio che
non sia ricorso amorfo all’immediato. Questo fenomeno è evidente in moltissime
forme di adesività sociale ed è facile riconoscerlo non solo in tutti gli “ismi” da cui
la società tanto occidentale che orientale è afflitta, ma anche in altri fenomeni non
meno macroscopici come l’appartenenza a partiti e movimenti politici per mero
calcolo personale con conseguente scadimento della politica stessa a mezzo di
arricchimento privato che non trascura qualunque forma di appropriazione, corruzione e ladrocinio generalizzato. Spicca la sparizione del “soggetto di cura” della
polis pubblica come di quest’ultima, ridotta a mero campo di sfruttamento dove
non è raro cogliere sentimenti di approvazione e benevola invidia per chi è stato
più “furbo” degli altri, con fenomeni di identificazione al Leader/Padre/Ladro/
Corruttore che risultano per lo meno desolanti per ogni coscienza superstite.
Nel vasto campo delle sparizioni non si registra soltanto l’evaporazione del
Padre ma anche di ogni sistema di valori, ormai sostituito dal lassismo più assoluto con ricco condimento di menefreghismo e disinteresse. Al massimo, si registra qualche “prurito” reattivo capitanato dal qualunquista di turno, oltre urlacci
da strada inneggianti ad una ulteriore parcellizzazione separatista priva di qualsiasi fondamento in un minimo di ragionamento basato sul reale.
Un nichilismo sotterraneo si è diffuso nella società rendendola non solo
muta ma priva di speranza. In tale società disperata colpisce l’atteggiamento
e insieme il destino dei giovani, tesi unicamente al rimedio dello stordimento
tramite droghe, psicofarmaci e sballi di ogni tipo. Privi di desiderio, passano ore
svagate di fronte a qualche bar, in attesa che la sera li spinga branco in locali
ubriachi dove annegare nell’alcol e nel frastuono l’angoscia che li rosicchia. Nei
casi peggiori, formano squadracce minorili per vincere la noia – dicono, quando
Fermenti 10
la polizia li arresta e chiede ragione di atti di violenza senza senso. Nella sottrazione di orizzonte in cui si aggirano, la loro soggettività in formazione non ha
modo di dispiegarsi ed essi ascoltano inconsapevolmente “l’ospite inquietante”
che ha ormai occupato le stanze delle famiglie. Verrebbe da dire che l’Edipo non
tramonta mai e che la nostra è in realtà l’epoca del tramonto del Super-io fonte
di morale e norma interiore.
Incapaci di insegnare una qualunque parvenza di linguaggio, le famiglie si
riducono a ricoveri di sonno e, quando l’alba si affaccia, i ragazzi tornano nei
letti che le madri e i padri evaporati hanno loro apprestato per lasciarli ibernare
in uno stato di assenza di stimolazione. Prede della “Cosa”, essi vogliono scarpe
firmate, divise firmate, mutande firmate e chiappe osteggianti firme di condivisione corporale per sopperire desolanti mancanze di senso di identità. Pestano
con scarponi (firmati) strade irreggimentate d’indolenza. Firmano: il registro del
nulla e la giornata passa. Quanto alla formazione culturale, per loro (e per le
famiglie che tacciono) non è più neppure un optional.
Per dirla con Spinoza, viviamo in un’epoca dominata da quelle che il filosofo
chiama le “passioni tristi”, dove il riferimento non è al dolore o al pianto, ma
all’impotenza, alla disgregazione e alla mancanza di senso che fanno della crisi
attuale qualcosa di diverso dalle altre a cui l’Occidente ha saputo adattarsi,
perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà (U. Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli, Roma, 2010, p.98).
All’interno di queste “passioni tristi”, se il Padre è evaporato, chiediamoci
dove sia allora finita la madre. André Green sostiene che siamo tutti figli di una
madre morta. Cosa significa? Significa che la madre ha fallito e si è inconsapevolmente posta come oggetto muto di introiezione: essa non ha insegnato alcun
linguaggio. Il linguaggio che la madre insegna è quello del sentimento. Accogliendo le angosce senza nome del figlio, la madre le restituisce significativamente come sentimento possibile, un vissuto dunque elaborabile e comunque
gestibile, perché la madre lo ha già “lavorato” per lui. Questa opera di significazione è mancata. La madre, perduta nelle cose del mondo, totalmente “normotizzata”, restituisce linguaggi “cosificati”, consegnandoci “passioni tristi” e
non gestibili, perché nessuno vuole “pensare” la tristezza. Il figlio, lontano dal
sentimento, riduce tutto a oggetti muti cui aderire come la madre (non) ha insegnato “e questo perché il cuore non è in sintonia con il pensiero e il pensiero
con il comportamento, perché è fallita la comunicazione emotiva e quindi la
formazione del cuore come organo che, prima di ragionare, ci fa sentire che
cosa è giusto e che cosa non è giusto, chi sono io e che cosa ci faccio al mondo”
(U. Galimberti, Ibidem, p. 53). Un mondo ormai totalmente consegnato all’Es,
ovvero a un Inconscio senza soggetto come la società che lo riflette.
Lo statuto comune codificato e benedetto dalla società è allora: “una vogliuzza per
il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute” (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, Adelphi, Milano, 1974, vol. VIII, 3, fr.14).
Fermenti 11
Nell’orizzonte chiuso del non senso, dove tutto appare perduto e la civiltà
evapora nell’assenza di valori, norma e desiderio, si apre tuttavia una strada nel
mare. È la “via del viandante” che Galimberti traccia parafrasando il Nietzsche
della Gaia scienza. Nell’assenza di idee che cancella ogni meta e visione del
mondo, nel fallimento degli oggetti interni significanti che consegna lo sviluppo
del soggetto al nichilismo, la civiltà silente rinuncia persino agli Assoluti cui,
da Eraclito in poi, si era aggrappata per scansare il divenire da e verso il Nulla.
Al posto di Immutabili che parlavano una lingua di contraddizione e false rassicurazioni, la civiltà ha collocato nuovi Feticci, come il Mercato e la Finanza
che non parlano alcuna lingua. Nel silenzio, scompare ogni meta, ma il “Nomadismo è la delusione dei forti che rifiuta il gioco fittizio delle illusioni evocate
come sfondo protettivo. È la capacità di disertare le prospettive escatologiche per
abitare il mondo nella casualità […] non pregiudicata da alcuna anticipazione di
senso, dove è l’accadimento stesso, l’accadimento non iscritto nelle prospettive
del senso finale […] a porgere il suo senso provvisorio e perituro” (U. Galimberti,
op. cit., pp. 143–144).
L’etica del viandante, allora, come antidoto per il nichilismo di Thanatos. La
capacità di intraprendere un viaggio senza appigli, trovando il senso del se stesso
nel naufragio dell’esistenza che ogni uomo deve affrontare, come sosteneva
Kierkegaard, un naufragio che è valore relativo e senso relativo in un mondo
spogliato di assoluti falsi garanti di significati precostituiti e sensi finali preformati e mai individuati. Un mondo dove il Padre evaporato resuscita nella testimonianza che ogni uomo riesce a offrire e trasmettere in un linguaggio aperto che
è etica personale, trasmissibile e intrasmissibile allo stesso tempo, nella misura
in cui è esempio da intuire, non da seguire alla lettera.
Un linguaggio di cui ogni soggetto è autore, come del proprio silenzio. Un
Padre Norma che, pur castrando gli impulsi suicidi del figlio verso l’atto, castra
se stesso perché capace comunque di ammettere la trasgressione e dunque l’apertura verso un linguaggio diverso. Un linguaggio di un Padre che, deviando il
figlio dall’oggettualità dell’esistenza, non preclude la Madre che trasforma il non
senso in sentimento ed accosta le emozioni senza nome alla capacità di nominare
del pensiero. Un linguaggio che non cade nelle cose, che non è codifica passiva
della parola del Padre, ma invenzione che su quella parola si fonda trascendendola. Un linguaggio d’acqua, mutevole e trasparente e tuttavia profondo
abisso. Linguaggio d’onda, scosso dal vento che frastaglia nell’orizzonte vuoto
di pretese e muove, senza sapere dove, verso l’Altro marino cui s’accosta. E
diventa parola.
Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i
ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi (F.
Nietzsche, La gaia scienza, in Opere, Adelphi, Milano, 1965, vol. V, 2, p. 129).
Giovanni Baldaccini
Fermenti 12
Le ragioni della fabula
Umberto Eco come (possibile) critico letterario
di Giuseppe Panella
La verità non è nelle cose ma nel linguaggio.
Ludwig Wittgenstein
CRITICA
Nulla è vero, tutto è permesso.
William S. Burroughs
1. Il lettore come critico
Più che un critico letterario militante o un ricostruttore dell’ambito della
critica letteraria in maniera organizzata e sistematica, Umberto Eco è (stato) un
lettore.
Sulla figura del lettore e della sua assoluta necessità all’interno del sistema
letterario, lo studioso di Alessandria ha scritto pagine straordinarie e a tutt’oggi
di grande utilità ermeneutica.
Dalla lettura di alcune delle sue opere più significative in questo ambito
(Lector in fabula,1 Sei passeggiate nei boschi narrativi,2 Sulla letteratura3) si
deduce come l’interesse maggiore di Eco non vada ricondotto tanto alla dimensione teorica della qualità di ciò che gli autori letterari producono quanto a quella
che analizza il come tale produzione avvenga e in cui viene ridefinito, soprattutto, il perché quello che viene scritto e pubblicato venga apprezzato in misura
maggiore o minore da un numero più o meno vasto di lettori.
Attenzione, però, a classificare in maniera più o meno artatamente generica
l’attività di Eco come quella di un “sociologo della letteratura”. Anche se allo
studioso di semiotica interessa molto il destino dei libri, la loro fortuna, la loro
conservazione e la loro sopravvivenza, non è l’interesse esclusivamente sociale
che lo affascina quanto la loro capacità comunicativa e il loro rapporto con la
soggettività vivente di chi entra in contatto con essi leggendoli.
Ciò spiegherebbe come mai Eco abbia indagato la letteratura d’appendice e
1
La prima edizione di questo saggio fondamentale per la comprensione del metodo semiotico di Eco
è del 1979 presso Bompiani di Milano.
2
Sei passeggiate nei boschi narrativi costituisce l’edizione italiana (Milano, Bompiani, 1994)
delle Norton Lectures del 1993 pubblicate in inglese con il titolo di Six Walks in the Fictional Woods,
Cambridge, Harvard University Press, 1994.
3
Edito sempre da Bompiani di Milano nel 2002. Il libro contiene diciotto saggi su argomenti molto
vari (da Oscar Wilde a Gérard de Nerval, da Piero Camporesi a Borges, dal mito americano in Italia alla
forza del falso) tra i quali il più importante a livello di critica letteraria è certamente Le sporcizie della
forma, un testo già scritto addirittura nel 1954.
Fermenti 13
il romanzo popolare,4 abbia ricostruito le strutture narrative dei romanzi di Jan
Fleming con protagonista l’agente segreto 007 James Bond5 e come preferisca il
romanzo poliziesco e i suoi schemi deduttivi6 alla tradizionale critica letteraria di
stampo crociano-stilistico o analitico-strutturalista.
Il suo interesse e talvolta il suo privilegiamento di opere letterarie minori
(esempio clamoroso la sua disamina come punto di partenza dell’indagine
successiva rappresentata dalla novella Un drame bien parisien di Alphonse Allais
pubblicata nel 1891) può in certa misura cogliere i suoi lettori di sorpresa se si
pensa che la prima escursione non esclusivamente filosofica di Eco nel campo
della storia letteraria riguarda le complesse e raffinate elaborazioni di poetica
letteraria di Joyce7 e che solo in tempi successivi alla sua “scoperta” dell’«opera
aperta»8 come chiave critica identificativa della grande letteratura del Novecento,
il suo interesse è andato estendendosi in maniera attenta e puntigliosa sulla paraletteratura e i prodotti librari non immediatamente identificabili come “alti” sia
per il pubblico cui si rivolgevano che per l’obiettivo (più commerciale) che si
proponevano.9
È possibile, inoltre, che con l’estendersi e l’approfondirsi del proprio lavoro
personale di e sulla scrittura narrativa anche l’interesse per la dimensione formale
e strutturale dell’opera letteraria si sia maggiormente concentrato non più sulle
4
Si tratta di Il superuomo di massa, pubblicato in prima edizione, dalla Cooperativa Scrittori di
Roma nel 1976, poi ristampato in versione modificata e accresciuta (Milano, Bompiani, 1978).
5
Cfr. Umberto Eco, «Le strutture narrative in Fleming», in Aa. Vv., L’analisi del racconto, introduzione di Roland Barthes, Milano, Bompiani, 1969 (il volume costituiva la traduzione italiana del n. 8
della rivista francese «Communications» edita da Seuil di Parigi nel 1966 e che conteneva come saggio
introduttivo il famoso testo di Barthes dedicato all’Introduction à l’analyse structurale des récits). Il
testo di Eco compariva anche nel volume collettivo Il caso Bond, a cura di Oreste del Buono, Milano,
Bompiani, 1965.
6 Sul poliziesco, i suoi schemi, le sue strutture deduttive e i procedimenti filosofici che lo sottendono,
cfr. Umberto Eco – Thomas A. Sebeok, Il segno dei tre. Peirce, Holmes, Dupin, trad. it. di G. Proni,
Milano, Bompiani, 1983 (il volume ripropone l’analoga raccolta intitolata The Sign of Three. Peirce,
Holmes, Dupin, Bloomington, Indiana University Press, 1983).
7
La prima edizione di Umberto Eco, Le poetiche di Joyce (Milano, Bompiani, 1966) sarà seguita nel
1972 da una edizione accresciuta in seguito alla pubblicazione di Opera aperta.
8
Opera aperta, il primo grande successo saggistico di Eco, viene pubblicata da Bompiani di Milano
nel 1962 e conoscerà una serie inquietante di ristampe e riedizioni legate anche al successo della sua
traduzione francese.
9
Uno dei pochi testi specificatamente dedicati da Eco alla lettura “alta” è l’interpretazione semiotica
dei Promessi Sposi contenuta in Leggere «I Promessi Sposi», a cura di Giovanni Manetti, in collaborazione con Maria Corti, Giovanni Nencioni, Ezio Raimondi, Cesare Segre, D’Arco Silvio Avalle e altri
illustri critici letterari. In altri tempi Eco aveva dedicato la sua attenzione al capolavoro di Manzoni in
tutt’altro modo, con un pezzo tra il satirico e l’erudito contenuto in Diario minimo, Milano, Mondadori,
19752 e significativamente intitolato My Exagmination round his Factification for Icamination to
Reduplication with Ridecolation of a Portrait of the Artista as Manzoni (il volumetto raccoglie una serie
impressionante di brevi testi comico-ironici già apparsi in un’apposita rubrica della rivista anceschiana «Il
Verri» e inoltre su «Il Caffè», «L’Espresso» e «Pirelli»). Il pastiche dedicato all’opera del Manzoni come
seguace e prosecutore di Joyce è ovviamente una deformazione divertita di Our Exagmination Round His
Factification for Incamination of Work in Progress (Paris, Shakespeare & Company, 1929), l’opera di
Introduzione a Finnegans Wake (il titolo fu tradotto così da Marcella Bassi per Sugar di Milano nel 1964)
dovuta all’iniziativa di Samuel Beckett e di molti altri amici, sodali e collaboratori di Joyce per celebrare
l’evoluzione dell’ultimo testo narrativo di Joyce.
Fermenti 14
questioni relative alle poetiche autoriali quanto su quelle connesse alla pratica
concreta della letteratura e ai suoi valori comunicativi e descrittivi.
Va detto, comunque, che l’interesse del nodo che lega Eco alla letteratura resta
quello della lettura come ricezione del testo letterario e delle diverse poetiche che
la vedono al centro del loro progetto ermeneutica. Per questo motivo ri-leggere
oggi Lector in fabula può avere una funzione rigenerante e ripropositiva anche
per la critica letteraria. Nelle pagine introduttive del libro, Eco ricorda:
Quando nel 1962 pubblicavo Opera aperta mi ponevo il problema di come
un’opera d’arte da un lato postulasse un libero intervento interpretativo da parte
dei propri destinatari, e dall’altro esibisse caratteristiche strutturali che insieme
stimolavano e regolavano l’ordine delle sue interpretazioni. Come ho appreso
più tardi, facevo allora senza saperlo della pragmatica del testo; o almeno, di
quella che oggi è detta pragmatica del testo, affrontavo un aspetto, l’attività
cooperativa che porta il destinatario a trarre dal testo quel che il testo non
dice (ma presuppone, promette, implica ed implicita), a riempire spazi vuoti,
a connettere quello che vi è in quel testo con il tessuto dell’intertestualità da
cui quel testo si origina e in cui andrà a confluire. Movimenti cooperativi che,
come poi ha mostrato Barthes, producono e il piacere e – in casi privilegiati – il
godimento del testo.10
A prescindere dalle tesi di Barthes, di gran lunga diverse da quelle esposte
da Eco in quanto relative alla soggettività del lettore e non alla sua oggettività,11
Eco dichiara la necessità di chi legge per l’esistenza e la realizzazione dell’opera
frutto dell’attività di chi scrive.
Il punto più interessante ai fini della costruzione di una possibile teoria della
critica letteraria su queste basi è sicuramente l’idea dell’attualizzazione del testo
come sua necessaria pratica interpretativa (se tale meccanismo di lettura non
è generato al suo interno, il testo rischia di non esistere come tale).12 In questo
Umberto Eco, Lector in fabula cit., p. 5.
«Allora forse ritorna il soggetto, non come illusione ma come finzione. Viene ricavata una forma
di piacere da un modo d’immaginarsi come individuo, d’inventare un’ultima finzione, delle più rare: il
fittizio dell’identità. Questa finzione non è più l’illusione di un’unità; al contrario è il teatro di società
dove facciamo comparire il nostro plurale: il nostro piacere è individuale – ma non personale. Ogni volta
che cerco di “analizzare” un testo che mi ha dato del piacere, non è la mia “soggettività” che ritrovo, ma
il mio “individuo”, il dato che fa il mio corpo separato dagli altri corpi e gli appropria la sua sofferenza o
il suo piacere: è il mio corpo di godimento quello che ritrovo. E questo corpo di godimento è anche il mio
soggetto storico; giacché solo al termine di una combinatoria molto sottile di elementi biografici, storici,
sociologici, nevrotici (educazione, classe sociale, configurazione infantile, ecc.), regolo il gioco contraddittorio del piacere (culturale) e del godimento (inculturale), e mi scrivo come un soggetto attualmente
fuori posto, venuto o troppo tardi o troppo presto (troppo che non sta a designare né un rimpianto né un
errore né una sfortuna, ma semplicemente a suggerire un posto nullo): soggetto anacronistico, alla deriva»
(Roland Barthes, Il piacere del testo, trad. it. di L. Lonzi, Torino, Einaudi, 1975, pp. 61-62). In sostanza,
per Barthes, il gioco del «piacere del testo» è legato al corpo fisico-culturale del soggetto che ne gode in
proprio; in Eco, invece, non c’è spazio per la corporeità perché il Soggetto che legge è un Modello, non
un individuo concreto.
12
Umberto Eco, Lector in fabula cit., p. 54: «Abbiamo detto che il testo postula la cooperazione del
lettore come propria condizione di attualizzazione. Possiamo dire meglio che un testo è un prodotto la cui
sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo generativo: generare un testo significa attuare
una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui – come d’altra parte in ogni strategia. Nella
10
11
Fermenti 15
modo, il testo letterario è frutto di una strategia testuale che lo genera sulla base
di competenze e di codici di riferimento necessari a costruirla. Questo, infatti,
dichiara Eco:
A questo punto la conclusione pare semplice. Per organizzare la propria
strategia testuale un autore deve riferirsi a una serie di competenze (espressione più vasta che “conoscenza di codici”) che conferiscano contenuto alle
espressioni che usa. Egli deve assumere che l’insieme di competenze a cui si
riferisce sia lo stesso a cui si riferisce il proprio lettore. Pertanto prevederà un
Lettore Modello capace di cooperare all’attualizzazione testuale come egli,
l’autore, pensava, e di muoversi interpretativamente così come egli si è mosso
generativamente. I mezzi sono molti: la scelta di una lingua (che esclude
ovviamente chi non la parla), la scelta di un tipo di enciclopedia (se inizio un
testo con | come è chiaramente spiegato nella prima Critica… | ho già ristretto,
e assai corporativamente, l’immagine del mio Lettore Modello), la scelta di un
dato patrimonio lessicale e stilistico…13
La scrittura (e non soltanto quella letteraria) si definisce, in pratica, in questo
modo e prevede che sia il lettore che l’autore siano non entità in sé ma strategie testuali infatti, chi legge è definito Lettore Modello: Ma la questione non
è così semplice, evidentemente, se per poterli identificare e prevedere le loro
mosse (il loro “gioco linguistico” citando Wittgenstein – come peraltro fa Eco) è
necessario stabilire il livello di competenze in cui essi si muovono. Il caso della
paralettura apre, allora, tutto un mondo di prospettive per l’indagine a livello di
individuazione del lettore.
Il caso di Les Mystères de Paris di Eugène Sue è emblematico per la ricostruzione fatta da Eco:
Ma potrà accadere di peggio (o di meglio, secondo i casi). Che anche, cioè,
la competenza del Lettore Modello non sia stata prevista a sufficienza – per
carenza di analisi storica, errore di valutazione semiotica, pregiudizio culturale,
sottovalutazione delle circostanze di destinazione. Splendido esempio di tali
avventure della interpretazione è I misteri di Parigi di Sue. Scritto con intenti
dandystici per raccontare al pubblico colto le vicende piccanti di una miseria
pittoresca, viene letto dal proletariato come descrizione chiara e onesta della
propria soggezione; come l’autore se ne avvede, continua a scriverlo per il
proletariato, e lo farcisce di moralità socialdemocratiche per convincere queste
classi «pericolose», che egli comprende ma teme, a trattenere la propria disperazione confidando nella giustizia e nella buona volontà delle classi abbienti.
Bollato da Marx e Engels come modello di perorazione riformistica, il libro
strategia militare (o scacchistica, diciamo in ogni strategia di gioco) lo stratega si disegna un modello
di avversario. Se io faccio questa mossa, azzardava Napoleone, Wellington dovrebbe reagire così. Se
io faccio questa mossa, argomentava Wellington, Napoleone dovrebbe reagire così. Nella fattispecie
Wellington ha generato la propria strategia meglio di Napoleone, Wellington si è costruito un NapoleoneModello che assomigliava al Napoleone concreto più di quanto il Wellington-Modello, immaginato da
Napoleone, assomigliasse al Wellington concreto. L’analogia può essere inficiata solo dal fatto che, in un
testo, di solito l’autore vuole far vincere, anziché perdere, l’avversario. Ma non è detto».
13
Id., ivi, p. 55.
Fermenti 16
compie un viaggio misterioso nell’animo dei propri lettori, e questi lettori
ritroviamo sulle barricate quarantottesche a tentar la rivoluzione, anche perché
avevano letto I misteri di Parigi. Forse che il libro conteneva anche quella
possibile attualizzazione, disegnava in filigrana anche quel Lettore Modello?
Certo, a patto di leggerlo saltando le parti moraleggianti – o di non volerle
capire. Nulla è più aperto di un testo chiuso.14
Nel caso della grande epopea di Sue, l’ambiguità semantica del testo si
coniuga con la capacità “enciclopedica” del lettore che lo vede sia come un
testo di narrativa popolare “volgare”, sia come un pamphlet politico sia come un
gigantesco affresco kitsch di un’epoca e del suo immaginario.
Quello che contraddistingue in maniera più definita, tuttavia, il contratto tra
Lettore Modello e autore del testo è la divaricazione analitica tra fabula e intreccio
(così come è stata teorizzata da Propp e dai formalisti russi) su cui Eco ritorna
nel prosieguo della sua argomentazione strutturale. Dopo aver analizzato precedentemente le strutture discorsive, si passa a verificare la natura delle strutture
narrative. Per questo motivo la fabula è così importante. Se l’intreccio, infatti, è
quello che identifica le strutture narrative propriamente dette (la storia come viene
raccontata con tutte le sue articolazioni possibili a livello temporale – i salti in
avanti o i ritorni all’indietro, le dislocazioni e le digressioni possibili), la fabula
costituisce la logica delle azioni e la sintassi dei personaggi che le compiono e che
le incarnano. È l’armatura interna su cui si appoggia la vicenda da narrare.
Il suo processo di costituzione, sia essa aperta o chiusa, suggerisce sia l’esistenza di stati di attesa ripetuti e costanti sia la presenza di segnali che indicano
il fatto che si sta per superare quei momenti ma che si sta attraversando delle
fasi che vengono definite di suspence. Per questo motivo la fabula interessa
maggiormente Eco e il suo Lettore rispetto alla dimensione dell’intreccio, anche
nel caso in cui esso proceda a sbalzi. Così come viene spiegato nel corso della
trattazione:
Entrare in stato di attesa significa far previsioni. Il Lettore Modello è
chiamato a collaborare allo sviluppo della fabula anticipandone gli stati
successivi. L’anticipazione del lettore costituisce una porzione di fabula che
dovrebbe corrispondere a quella che egli sta per leggere. Una volta che avrà
letto si renderà conto se il testo ha confermato o disapprovano (verificano o
falsificano) la porzione di fabula anticipata dal lettore. Il finale della storia
– così come stabilito dal testo – non solo verifica l’ultima anticipazione del
lettore ma anche certe sue anticipazioni remote, e in generale pronuncia una
implicita valutazione sulle capacità revisionali manifestate dal lettore nel corso
dell’intera lettura. Questa attività revisionale attraversa di fatto tutto il processo
di interpretazione e si sviluppa solo attraverso una dialettica serrata con altre
operazioni, mentre viene verificata di continuo dall’attività di attualizzazione
delle strutture discorsive.15
Id., ivi, p. 57.
Id., ivi, p. 113. Qui Eco cita con approvazione un articolo della rumena Lucia Vaina, «Les mondes
14
15
Fermenti 17
L’attività di predizione degli eventi da parte del Lettore Modello è, dunque,
indispensabile per la comprensione del testo ma anche per la sua stesura. Senza
tener conto cioè della necessità dell’esistenza dello spazio del lettore, anche lo
scrittore non potrebbe costruire in modo adeguato il proprio progetto di interpretazione del mondo mediante le parole con cui mima e sostituisce in modo più o
meno surrettizio le cose che di quello dovrebbero essere il supporto.16
Lettore Modello e Scrittore Modello sono legati indistricabilmente da un
patto di non-belligeranza per cui chi legge “anticipa” ciò che lo scrittore produrrà
e chi scrive si impegna a scrivere ciò che il Lettore Modello è in grado di prevedere (o comunque di provare ad anticipare).
Ma il clou dell’argomentazione di Eco viene rivelato dall’emergenza delle
strutture attanziali (secondo la tassonomia incardinata da Algirdas Greimas,
le strutture semantiche che il testo non esibisce subito in superficie e in prima
istanza, ma vengono ipotizzate dal lettore come chiave per l’attualizzazione
completa del testo). L’esempio di Novantatré, il capolavoro che chiude la
stagione narrativa di Victor Hugo, è di grande utilità per capire che cosa Eco
intende in questo caso:
Quando leggiamo Novantatré di Hugo, a che punto del romanzo decidiamo,
su esplicite e reiterate dichiarazioni dell’autore, che vi si racconta la storia di
un soggetto grandioso, la rivoluzione, voce del popolo e voce di Dio, che si
disegna contro il proprio opponente, la reazione? Quando cioè si comprende
appieno che Lantenac o Cimourdain, Gauvain o la Convenzione, Robespierre
o la Vandea, sono manifestazioni superficiali di un conflitto più profondo sul
quale e del quale l’autore eminentemente parla? E quando avviene che, questo
compreso, il lettore rinuncia a individuare i personaggi, alcuni “storici” e altri
fittizi, che popolano il romanzo oltre i limiti del memorizzabile ? È chiaro che
in un’opera del genere l’ipotesi attanziale sopravviene non in risoluzione di
una serie di astrazioni successive, da strutture discorsive a fabula e da questa
alle strutture ideologiche, ma si instaura molto presto nel corso della lettura e
guida le scelte, le previsioni, determina i filtraggi macroproposizionali.17
Tutte le strutture di riferimento cui si è, sia pur brevemente accennato, e
cioè quelle discorsive, quelle narrative e quelle attanziali, postulano, allora,
nell’indagine svolta da Eco, la presenza di un Lettore Modello in grado di anticipare l’azione, da un lato, di completarla dall’altro e, soprattutto, di costruire uno
schema in cui la comprensione della vicenda narrata risulterebbe di gran lunga
incompleta o inceppata dalla mancanza di collaborazione proprio di quel Lettore
cui si fa riferimento in tutti e tre i casi sopra esaminati.
possibles du texte», uscito sulla rivista Versus, 17, del 1977.
16
L’allusione è a un saggio filosofico di grande importanza teorico-storica come Le parole e le cose.
Un’archeologia delle scienze umane di Michel Foucault (trad. it. di E. Panaitescu, Milano, Rizzoli, 1967
e sgg.), un’opera che sicuramente Eco ben conosceva al momento della stesura della sua opera.
17
Umberto Eco, Lector in fabula cit. , p. 175. Il riferimento di Eco è, ovviamente, a Victor Hugo,
Novantatré, trad. it. di F. Saba Sardi, Milano, Mondadori, 1983,
Fermenti 18
Il Lettore è sempre presente in fabula perché, senza la sua costanza, non ci
sarebbe fabula o, comunque, avanzamento della narrazione. Ne consegue che
chi legge va di pari passo con chi scrive e che lo scrittore, anche il più arroccato
nella turris eburnea dell’isolamento assoluto e ricercato, non può prescindere
dal “suo” lettore che lo accompagna nella sua attività letteraria.
2. L’investigatore e il filosofo
Nel saggio di Umberto Eco contenuto in Il segno dei tre. Holmes, Dupin,
Peirce (precedentemente citato), dopo un’attenta ricostruzione della dinamica
del ragionamento sillogistico in Aristotele (Analitici secondi) e quella dell’abduzione in Charles Sanders Peirce, si giunge, in conclusione, a delle conclusioni
sorprendenti. Dopo aver coniato l’espressione meta-abduzione a proposito della
logica peirceana, Eco ne ricerca le applicazioni non tanto (o soltanto) nella tradizione della logica deduttiva dal filosofo di Stagira o in poi quanto in quelle forme
di confine con l’intuizione che caratterizzano fin dagli albori la pratica dell’investigazione poliziesca. Il punto di riferimento iniziale è, infatti, il romanzo breve
Zadig o il destino. Storia orientale di Voltaire del 1747. In quest’opera (falso)persiana come era nella tradizione dell’Illuminismo francese sulla scia delle
Lettres persanes di Montesquieu, Zadig, un uomo probo ma molto sfortunato
con le donne e spesso inviso ai potenti, riesce, con il solo strumento delle proprie
capacità raziocinative, a descrivere una cagna e un cavallo che non ha mai visto.
Sulla base delle tracce che essi hanno lasciato, ne ricostruisce corporatura e
caratteristiche e dichiara che il cane è «una cagnetta spagnola» che «ha partorito
da poco, zoppica con la zampa sinistra anteriore e ha le orecchie molto lunghe»
mentre il cavallo «è alto cinque piedi, con lo zoccolo piccolissimo; ha una coda
lunga tre piedi e mezzo; le borchie del morso sono d’oro a ventitré carati, i ferri
d’argento fino». Naturalmente Zadig non viene creduto quando dichiara di non
aver mai visto né cagna né cavallo e viene arrestato, poi condannato a un’ingente pena pecuniaria (di cui sarà risarcito quando spiegherà il procedimento
mediante il quale ha intuito le proporzioni e la storia naturale degli animali che
ha descritto). In realtà, l’uomo ha articolato brillantemente la prima deduzione di
tipo poliziesco della storia della letteratura utilizzando gli stessi criteri razionali
che contraddistingueranno prima Auguste Dupin, la creazione letteraria di Edgar
Allan Poe, nei tre racconti di cui sarà protagonista e poi Sherlock Holmes nelle
storie scritte da Sir Arthur Conan Doyle e imperniate su di lui.18 Ma, a prescindere dalla fortuna successiva della deduzione intuitiva utilizzata in Zadig e dei
risultati ottenuti attraverso di essa, è la tecnica del rinvenimento delle tracce che
è interessante riguardo il rapporto tra Eco e la critica letteraria.
È proprio attraverso queste ultime e poi mediante indizi e sintomi relativi a
18
Ho analizzato la figura di Zadig, le sue deduzioni e le osservazioni da lui fatte in quanto all’origine
della figura del detective del moderno romanzo poliziesco nel mio La semplice arte dell’investigazione.
Da Zadig a Hercule Poirot, in «IF. Insolito e Fantastico», 4, 2010, pp. 13-23.
Fermenti 19
particolari apparentemente marginali della scrittura che è possibile analizzare e
mettere in luce aspetti originali di opere letterarie altrimenti codificate e bloccate
dalle indagini critiche precedenti. Attraverso la ricostruzione di elementi poco
significativi a prima vista sarà possibile ritrovare la strada che conduce verso una
visione meno consueta e meno usurata di testi letterari anche molto famosi (è il
caso di Sylvie di Gérard de Nerval che Eco ricostruirà puntigliosamente in Sei
passeggiate nei boschi narrativi).
Ma per chiudere questa digressione su investigazione poliziesca e indagine
sul testo letterario, basterà ricordare come Eco stesso, proprio all’inizio del
suo primo romanzo “postmoderno”, Il nome della rosa del 1980, si ricorderà
di Zadig e concederà al frate Guglielmo di Baskerville una deduzione che ne
ripercorre passo passo la dinamica inferenziale. Il cavallo dell’abate Abbone si
è perso nel bosco e il cellario Remigio da Varagine lo insegue insieme ad alcuni
famigli dell’Abbazia dove si svolgerà tutta la vicenda del romanzo. Guglielmo
di Bascavilla e Adso da Melk li incontrano e il francescano li indirizza per la
strada giusta che li condurrà a riprenderlo, pur dichiarando di non aver mai visto
il cavallo ricercato:
Il cellario esitò. Guardò Guglielmo, poi il sentiero, e infine domandò:
«Brunello ? Come sapete?» «Suvvia» disse Guglielmo, «è evidente che state
cercando Brunello, il cavallo preferito dell’Abate, il miglior galoppatore della
vostra scuderia, nero di pelo, alto cinque piedi, dalla coda sontuosa, dallo
zoccolo piccolo e rotondo ma dal galoppo assai regolare; capo minuto, orecchie
sottili ma occhi grandi. È andato a destra, vi dico, e affrettatevi, in ogni caso»
[Ad Adso che, stupito dalla precisione della descrizione del cavallo fatta da
Guglielmo, gli chiede come avesse fatto a darne un ritratto così preciso perfino
nel nome, egli risponderà con decisione:] «Mio buon Adso», disse il maestro,
«è tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci
parla come un grande libro».19
E quello che vale per il gran libro della Natura e per le strade del mondo vale,
evidentemente, anche per il destino dei libri e della loro composizione.
3. Sentieri che attraversano il bosco della letteratura: lo stile
Nelle Norton Lectures tenute per l’anno accademico 1992-1993, Eco ritornerà
spesso su questo tema in relazione alla pratica letteraria. Nella prima delle
sue “lezioni americane”, Entrare nel bosco, ricordando l’elogio della rapidità
presente in quelle di Calvino (una riflessione che, tuttavia, non escludeva le
qualità e la bellezza dell’«indugio» ma non venne mai scritta), lo studioso di
Alessandria ribadisce le tesi già espresse in Lector in fabula:
Dedicherò all’indugio, di cui Calvino non ha parlato, la mia terza conferenza. Ora però vorrei dire che ogni finzione narrativa è necessariamente,
Umberto Eco, Il nome della rosa, con in appendice Postille a «Il nome della rosa», Milano,
Bompiani, 198615, p. 31.
19
Fermenti 20
fatalmente rapida, perché – mentre costruisce un mondo, coi suoi eventi e i
suoi personaggi – di questo mondo non può dire tutto. Accenna, e per il resto
chiede al lettore di collaborare colmando una serie di spazi vuoti. Del resto,
come ho già scritto, ogni testo è una macchina pigra che chiede al lettore di
fare parte del proprio lavoro. Guai se un testo dicesse tutto quello che il suo
destinatario dovrebbe capire: non finirebbe più.20
Il testo è, dunque, in-finito e, di conseguenza, lo è anche la sua interpretazione.
Ma Eco prosegue nella sua indagine e, oltre a postulare l’esistenza del Lettore
Modello come aveva già fatto precedentemente, costruisce anche un suo possibile alter ego, l’Autore Modello. Ma chi sarebbe costui? Non certo l’autore materiale, fisico, concreto dell’opera, del quale si possono conoscere perfettamente
particolari biografici anche molto intimi e analizzare in dettaglio pensieri, opere
e omissioni ma che non necessariamente (anzi quasi sicuramente) qualifica la
propria opera con la propria persona21. Né, tuttavia, l’autore come essere umano
può coincidere con chi dice (o scrive) Io nel corso della storia raccontata, il
Narratore. Esso è soltanto un elemento del racconto. L’Autore Modello, secondo
Umberto Eco, è un’entità intermedia, molto sfumata e spesso impalpabile, tra
questi due e, soprattutto, è una forma funzionale della scrittura che informa la
qualità e la specificità del racconto.
Analizzando molto attentamente la novella Sylvie di Gérard de Nerval (un
testo molto amato da Eco e studiato fin dai suoi esordi di studioso di narratologia
nel 1962), tra la persona storica di Gerard Labrunie, morto suicida nel 1855, e
il Narratore, colui che si autodefinisce Io durante la storia narrata, si può individuare un terzo elemento che consiste nella funzione stilistica della narrazione
stessa. Eco stabilisce di chiamarlo con il nom de plume di Gérard Labrunie e cioè
Nerval:
Una volta accettata questa regola del gioco, possiamo persino permetterci
di dare un nome a questa voce, un nom de plume. Ne avrei trovato uno molto
bello, se permettete: Nerval. Nerval non è Labrunie, come non è il narratore.
Nerval non è un Lui, così come George Eliot non è una Lei (solo Mary Ann
Evans lo era). Nerval sarebbe in tedesco un Es, e in inglese può essere un It
(in italiano, purtroppo, si è obbligati dalla grammatica ad assegnargli un sesso
a ogni costo). Potremmo dire che questo Nerval, che all’inizio della lettura
non c’è ancora, se non come un insieme di pallide tracce, quando l’avremo
identificato altro non sarà che quello che ogni teoria delle arti e della letteratura
chiama “stile”. Sì, certamente, alla fine l’autore modello sarà riconoscibile
anche come uno stile e questo stile sarà talmente evidente, chiaro, inconfon Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi cit., p. 3.
Questa affermazione, forse troppo radicale e certamente non in linea con una concezione storicistica della letteratura, vale anche per la letteratura che viene, di solito, considerata come autobiografica. Ho
affrontato questo problema teorico applicandolo a uno degli scrittori più personali e più autoreferenziali
della storia della letteratura, Jean-Jacques Rousseau, nel mio Jean-Jacques Rousseau e la società dello
spettacolo (Firenze, Pagnini, 2010) cui mi permetto di rimandare.
20
21
Fermenti 21
dibile, che potremo finalmente capire che è sicuramente la stessa Voce di Sylvie
quella che, in Aurélia, inizia con «La rêve est une seconde vie»22.
Dunque: l’Autore Modello è una sorta di compagno di viaggio – scrive Eco
– del Lettore Modello ed entrambi sono decisivi per la comprensione del testo.
A differenza di quello che sostiene Wolfgang Iser in un suo noto testo dedicato
all’Atto della lettura23, il ruolo del «lettore fittizio incarnato nel testo» (così come
avviene in Sylvie di Gérard de Nerval o nel Gordon Pym di Edgar Allan Poe) non
vale soltanto per i testi narrativi pluri-linguistici o pluri-semanticamente modulati ma per tutti i costrutti narrativi comunque siano e lo stesso vale per tutti
gli autori, non solo per quelli che sono di tono o ambientazione sublime o più
complessi a livello di stile o di congegno narrativo.24 In questo, Lettore e Autore
risultano simili alla figura logica che pratica i cd «giochi linguistici» individuati
dal secondo Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche:
Autore e lettore modello sono due immagini che si definiscono reciprocamente solo nel corso e alla fine della lettura. Si costruiscono a vicenda. Credo che
questo sia vero non solo per le opere di narrativa ma per ogni tipo di testo. Nel
paragrafo 66 delle Philosophical Investigations, Wittgenstein scrive: «Considera,
ad esempio, i processi che chiamiamo “giochi”. Intendo giochi di scacchiera,
giochi di carte, giochi di palla, gare sportive e via discorrendo. Che cosa è
comune a tutti questi giochi? – Non dire “deve esserci qualcosa di comune a tutti,
altrimenti non si chiamerebbero ‘giochi’” – guarda se ci sia qualcosa di comune
a tutti. – Infatti, se li osservi, non vedrai certamente qualcosa che sia comune a
tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie». Tutti i
pronomi personali non indicano affatto una persona empirica chiamata Ludwig o
un lettore empirico: essi rappresentano pure strategie testuali, che si dispongono
in forma di appello, come l’inizio di un dialogo.25
Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi cit., p. 18.
Cfr. Wolfgang Iser, L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, trad. it. di R. Granafei,
revisione di C. Dini, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 74-75. Per Iser, infatti, valgono altre prospettive: «È
stato messo in rilievo che il testo letterario offre una veduta prospettica del mondo (vale a dire dell’autore).
Esso è inoltre, in se stesso, composto da una varietà di prospettive che tracciano i contorni della veduta
dell’autore e così procurano un accesso a ciò che al lettore è proposto di visualizzare. Questo fatto è
esemplificato ottimamente nel romanzo che è un sistema di prospettive destinate a trasmettere l’individualità della visione dell’autore. Di regola, vi sono soprattutto quattro prospettive: quella del narratore, i
personaggi, l’intreccio e il lettore fittizio. Benché queste possano differire in ordine d’importanza, nessuna
di esse in sé è identica al significato del testo. Ciò che esse fanno è procurare delle linee-guida nascenti
da punti di partenza diversi (narratore, personaggi ecc.), che si tratteggiano di continuo reciprocamente
e sono combinate in modo tale che tutte convergono in un punto d’incontro generale. Chiamiamo tale
luogo d’incontro significato del testo, che può essere messo a fuoco soltanto se è visualizzato da una
posizione stabile. […] Così il ruolo del lettore è prestrutturato da tre componenti fondamentali: le diverse
prospettive rappresentate nel testo, la posizione privilegiata a partire dalla quale esse si collegano, e
il luogo d’incontro nel quale convergono. Questo modello rivela contemporaneamente che il ruolo del
lettore non è identico al lettore fittizio ritratto nel testo. Quest’ultimo è soltanto una componente del ruolo
del lettore, mediante la quale l’autore espone le inclinazioni di un lettore presunto all’interazione con le
altre prospettive, allo scopo di produrre modificazioni».
24
Non a caso, come Autore Modello a questo livello di semplificazione stilistica, Eco ha scelto
l’incipit di un romanzo “medio” di Mickey Spillane, il suo secondo con protagonista Mike Hammer, My
Gun Is Quick (nella trad. it. di B. Tasso, Una ragazza e una pistola, Milano, Garzanti, 1956).
25
Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi cit., p. 30.
22
23
Fermenti 22
Da questa analisi scaturirà una conseguenza fondamentale che vale la pena
di annotare per esteso:
[…] l’autore non è altro che una strategia testuale capace di stabilire correlazioni semantiche, e che chiede di essere imitato: quando questa voce dice
«Intendo», vuole stabilire un patto, per cui con il termine gioco si debbono
intendere giochi di carte, giochi di scacchiera e così via. Ma questa voce si
astiene dal definire il termine gioco, e invita noi a definirlo, o a riconoscere che
non può essere soddisfacentemente definito se non in termini di «somiglianze
di famiglia». In questo testo, Wittgenstein non è altro che la capacità e la
volontà di adeguarsi a questo stile, cooperando a renderlo possibile.26
Si tratta di una citazione, quella da Wittgenstein, che Eco fa con frequenza (e
probabilmente è uno dei testi filosofici all’origine della sua riflessione teorica).
Autore e Lettore Modello, ne consegue, non sono figure né fisiche né connotate
socialmente – sono astrazioni all’interno della macchina narrativa che, però, la
rendono fluida e funzionante (sono fantomatiche ma reali, una sorta di ghost
in the machine, per usare un’espressione resa famosa da Gilbert Ryle). Eco le
insegue all’interno di una serie di testi letterari molto diversi l’uno dall’altro sia
qualitativamente che stilisticamente. Le ritrova in L’assassinio di Roger Akroyd
di Agatha Christie come in L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert, nella
Recherche du Temps Perdu di Proust così come nel «solito» Edgar Allan Poe
(e in un testo che viene anch’esso spesso citato, il primo capitolo dei Promessi
Sposi).
Nel mentre ricerca e qualifica gli attributi di queste sue entità, tuttavia, non
dimentica la ricostruzione del percorso testuale attraverso i concetti tematici di
fabula e intreccio (sjužet) le cui applicazioni saranno più articolate rispetto a
quelle di Lector in fabula perché andranno a toccare la questione dello stile e
del modo in cui il tempo della narrazione incide sulla qualità della scrittura. Il
problema della durata dell’evento narrato riverbera su quello della lettura «effettiva» del testo. Emerge, di conseguenza, la tematica (e la necessità) dell’indugio
come procedimento stilistico:
Nel suo saggio sullo stile di Flaubert, Proust dice che una delle virtù di questo
scrittore è quella di saper rendere con rara efficacia l’impressione del tempo.
E lui, Proust, che impiegava trenta pagine per raccontare come si rigirava nel
letto, si entusiasma di fronte al finale dell’Educazione sentimentale, di cui la
cosa più bella, dice, non è una frase ma uno spazio bianco. Proust osserva che
Flaubert, che ha indugiato, nel corso di moltissime pagine, sulle più insignificanti azioni di Frédéric Moreau, accelera verso la fine quando rappresenta
uno dei momenti più drammatici della sua vita. […] E a questo punto Flaubert
inserisce uno spazio bianco, che però a Proust appare «enorme».27
Id., ivi, p. 31.
Id., ivi, pp. 70-71. L’ espace blanc del testo flaubertiano consiste in questa serie di frasi: «Viaggiò.
Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto una tenda, l’incanto dei paesaggi e delle rovine,
26
27
Fermenti 23
L’indugio e l’accelerazione sono due casi in cui fabula e intreccio tendono
a coincidere nell’accorciarsi o nel dilatarsi dei tempi. Allo stesso modo, nello
spazio narrativo, ciò che appare viene presentato come vero per definizione,
anche se, nello stesso tempo, viene dato per scontato che sia falso o almeno non
assolutamente veritiero (si va dalla falsità assoluta del paese di Flatlandia di
Edward Abbott dove tutti gli esseri viventi che la popolano sono piatti e vivono
su due dimensioni fino al verosimile del romanzo naturalista alla Émile Zola):28
si chiama «patto finzionale». Di esso si può certamente dire che costituisca la
sostanza stessa del contenuto di verità della scrittura letteraria:
Al di là di altre, importantissime, ragioni estetiche, penso che noi leggiamo
romanzi perché essi ci danno la sensazione confortevole di vivere in un mondo
dove la nozione di verità non può essere messa in discussione, mentre il mondo
reale sembra essere un luogo ben più insidioso. Questo «privilegio aletico»
dei mondi narrativi ci permette persino di riconoscere alcuni parametri per
decidere se la lettura di un testo narrativo vada al di là di quelli che ho altrove
chiamato «i limiti dell’interpretazione».29
Privilegio aletico è termine proprio di Eco e indica la capacità che ha la letteratura di dire una verità che non è quella storica o esperienziale ma è pur tuttavia
una forma di verità. Questo processo di costruzione di una verità altra rispetto
a quella del mondo esterno o dei documenti storici è la sostanza dell’attività
romanzesca dove di un personaggio – come Julien Sorel in Le Rouge et le Noir –
sappiamo tutto, anche i più intimi pensieri e sentimenti e desideri (dato che l’Autore Stendhal li ha inventati e ricostruiti apposta per noi ricavandoli da quel poco
che aveva potuto apprendere dal suo riferimento oggettivo nella realtà fattuale)30
mentre di noi stessi o di chi ci è più vicino sappiamo solo quello che riusciamo
a vedere o a capire. Ma perché questo accada è necessario che il Lettore collabori con l’Autore accettandone la verità finzionale che egli ha saputo produrre e
realizzare, «parassitando» la «realtà vera».
Dunque, non solo l’autore chiede al lettore modello di collaborare sulla base
della sua competenza del mondo reale, non solo gli provvede quella competenza quando non ce l’ha, non solo gli chiede di far finta di conoscere cose,
l’amarezza delle simpatie troncate. Ritornò, frequentò la società, ed ebbe ancora altri amori. Ma il ricordo
costante del primo glieli rendeva insipidi, e poi la violenza del desiderio, la freschezza della sensazione
era perduta» (Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale, trad. it. di L. Romano, Torino, Einaudi, 1984,
pp. 577-579).
28
Sulla poetica naturalistica e sperimentale di Émile Zola mi permetto di rimandare al mio Émile Zola
scrittore sperimentale. Per la ricostruzione di una poetica della modernità, Chieti, Solfanelli, 2008.
29
Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi cit., p. 111.
30
Sul “caso Julien Sorel”, cfr. l’ottimo saggio di René Fonvieille, Il “vero” Julien Sorel, prefazione
di Victor Del Litto e con una nota di Leonardo Sciascia, trad. it. di A. Jeronimidis, Palermo, Sellerio,
1978. ll grande romanzo di Stendhal, infatti, prende spunto dall’affaire Berthet, avvenuto nel 1827 e dal
processo avvenuto nel Tribunale di Corte d’Assise dell’Isère, il dipartimento dove era nato Stendhal: il
figlio di un maniscalco fu giudicato e condannato a morte per aver assassinato l’amante, la moglie di un
notaio di provincia.
Fermenti 24
sul mondo reale, che il lettore non conosce, ma addirittura lo induce a credere
che dovrebbe far finta di conoscere delle cose che invece nel mondo reale non
esistono.31
Questa affermazione ne porta con sé un’altra quasi spontaneamente: la differenza tra narrativa naturale e narrativa artificiale che, alla fin fine, è un po’ lo
snodo finale e il punto d’approdo di tutte le dichiarazioni e dimostrazioni finora
fatte e argomentate. Raccontare eventi realmente accaduti corrisponde e ha lo
stesso valore del narrare storie più o meno parzialmente inventate o irreali dal
punto di vista del contenuto? Indubbiamente no, anche se spesso non è facile o
addirittura impossibile distinguere l’una pratica dall’altra. Scrivere storie che
non sono vere e definite tali per definizione «paratestuale» (per usare un’espressione molto cara a Gérard Genette) permette di «giocare»32 – scrive Eco – con
la realtà in misura maggiore di quanto si possa fare elencando e incolonnando i
dati di un protocollo che si proponga di essere rigorosamente effettuale. È questo
che le rende molto più apprezzabili dal Lettore che continua a prestarvi la propria
attenzione e il proprio apporto diretto. Nelle parole dell’autore di Il nome della
rosa ecco quel che avviene:
Questo ci impone di riconsiderare una distinzione abbastanza in uso tra i teorici
del testo, quella tra narrativa naturale e narrativa artificiale. Si ha narrativa
naturale quando raccontiamo una sequenza di eventi realmente accaduti, che
il locutore crede che siano accaduti, o vuol far credere (mentendo) che siano
realmente accaduti. Quindi è narrativa naturale il racconto che potrei fare su
cosa mi è accaduto ieri, una notizia di giornale o l’intera Storia del reame di
Napoli di Benedetto Croce. La narrativa artificiale sarebbe rappresentata dalla
finzione narrativa, la quale fa soltanto finta, come si è detto, di dire la verità, o
assume di dire la verità nell’ambito di un universo di discorso finzionale. Noi
riteniamo di riconoscere la narrativa artificiale a causa del “paratesto”, e cioè
tutte quelle informazioni che circondano il testo, dal titolo alle indicazioni che
sulla copertina dicono «Romanzo». Talora persino il nome dell’autore gioca
come elemento paratestuale: in tal senso nel secolo scorso un lettore era sicuro
che un libro firmato da «l’Autore di Waverley» fosse senza ombra di dubbio
opera di finzione. Il segnale finzionale più evidente, in quanto interno al testo,
è la formula introduttiva «c’era una volta…».33
Nella «narrativa artificiale», allora, si annida il segreto della tentazione a
raccontare eventi finzionali che accompagna la storia dell’umanità fin dai suoi
albori. Nella necessaria artificialità e complessità di questo tipo di narrativa si
Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi cit., p. 116.
La nozione di “gioco” usata in questo contesto, più che dall’analisi proposta da Freud in Il poeta e
la fantasia del 1907, deve molto a un’opera di Johan Huizinga, Homo ludens, trad. it. di C. von Schendel,
Torino, Einaudi, 19732, che reca, perlappunto, una lunga Introduzione di Umberto Eco (la prima edizione
di questo saggio huizingiano è, però, del 1939).
33
Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi cit., pp. 148-149.
31
32
Fermenti 25
può ritrovare il fascino che produce e che permette al Lettore Modello di entrare
nella storia che sta leggendo e diventarne, in certo modo, parte in causa:
Nessuno vive nell’immediato presente: tutti colleghiamo cose ed eventi
mediante il collante della memoria, personale e collettiva (storia o mito che
sia). Viviamo su un racconto storico quando, dicendo «io», non mettiamo in
questione di essere la naturale continuazione di colui che (secondo i nostri
genitori o l’anagrafe) è nato in quella precisa ora di quel preciso giorno di
quel preciso anno in quella precisa località. […] Allora è facile capire perché
la finzione narrativa ci affascina tanto. Ci offre la possibilità di esercitare
senza limiti quella facoltà che noi usiamo sia per percepire il mondo sia per
ricostruire il passato. La finzione ha la stessa funzione del gioco. Come ho
già detto, giocando, il bambino apprende a vivere, perché simula situazioni
in cui potrebbe trovarsi da adulto. E noi adulti attraverso la finzione narrativa
addestriamo la nostra capacità di dare ordine sia all’esperienza del presente sia
a quella del passato. Ma se l’attività narrativa è così strettamente alla nostra
vita quotidiana, non potrebbe accadere che noi interpretiamo la vita come
finzione, e che nell’interpretare la realtà vi inseriamo elementi finzionali? C’è
un esempio terribile, in cui tutti potevano accorgersi che si trattava di finzione,
perché erano evidenti le citazioni da fonti romanzesche, e tuttavia molti hanno
tragicamente preso quella storia come se fosse Storia.34
Su questa premessa, Eco innesta una lunga narrazione di come dal rogo dei
Templari del 18 marzo 1314 si sia passati alla costruzione della leggenda dei
Rosacroce e da questa alla teoria della congiura massonica opera dell’abate
Barruel e poi a quella della grande cospirazione mondiale degli ebrei per conquistare il mondo occidentale35, avvalorata quest’ultima dalla pubblicazione di un
atrofico, I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, che Adolf Hitler e con lui tantissimi altri presero per buona.36
Ma non sempre le conseguenze del «gioco» con il Romanzesco sono così
efferate e crudeli – nella maggior parte dei casi, la dimensione narrativa artificiale
dà senso alla vita di chi vi si immerge, leggendola e accettandone i presupposti. È
in questa aspirazione a «giocare» con la realtà che il Lettore si ricongiunge idealmente all’Autore e collabora alla riuscita della sua riuscita. E il critico, allora,
cosa può o deve fare? Per Eco, probabilmente, vale lo stesso principio enunciato
da Thomas Stearns Eliot quando, pur sottacendolo, polemizzava con il «critico
come artista» sostenuto da Oscar Wilde:
Id., ivi, pp. 162-163.
Mi sono occupato di teoria del complotto e creazione del Nemico in ottica politico-paranoica in un
libro scritto con Riccardo Gramantieri, Ipotesi di complotto. Paranoia e delirio narrativo nella letteratura
americana del Novecento, Chieti, Solfanelli, 2012, che mi permetto di indicare per i testi e la bibliografia
secondaria.
36
Parte della vicenda che ha portato alla redazione dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion e
della colossale mistificazione ad opera dell’Ochrana, la polizia segreta zarista diretta da Pëtr Ivanovič
Rachovskij, sarà poi narrata in chiave fortemente romanzesca dallo stesso Eco in Il cimitero di Praga,
Milano, Bompiani, 2010.
34
35
Fermenti 26
Il ‘critico’ non può costringere e non può dare giudizi di meglio o di peggio. Egli
deve semplicemente chiarire: il lettore formerà il suo corretto giudizio da sé.37
È quanto Eco ha sempre fatto a proposito delle opere letterarie di cui si è
occupato e, soprattutto, è quello che ha saputo fare al suo meglio a proposito dei
suoi stessi romanzi.
4. Come si scrive un romanzo (postmoderno?)
Una postilla ancora ma molto breve e, a proposito, questa volta, del più fortunato dei romanzi di Eco. In appendice all’edizione nei Tascabili Bompiani di
Il nome della rosa, lo scrittore di Alessandria ha pubblicato delle Postille in
cui ricostruisce la nascita del suo libro e il perché di alcune delle sue scelte
narrative, rivelandosi il più accurato dei suoi critici.38 Che cosa sostiene l’Autore
riguardo al suo libro, rivolgendosi essenzialmente al suo Lettore (presumibilmente) Modello? Che il libro è stato scritto soprattutto per lui. L’affermazione
non suonerebbe tanto strana (dato il carattere “popolare” del romanzo) se non
fosse che le motivazioni portate da Eco risultano la diretta applicazione delle
sue tesi sulle funzioni narrative, sul rapporto tra fabula e intreccio e sulla forza
comunicativa dei generi letterari di cui si è discusso sopra. Il romanzo risulta
così una diretta applicazione delle convinzioni narratologiche di Eco e la loro
giustificazione ex parte obiecti.
Costruire il lettore. Ritmo, respiro, penitenza… Per chi, per me? No, certo,
per il lettore. Si scrive pensando a un lettore. Così come il pittore dipinge
pensando allo spettatore del quadro. Dopo aver dato un colpo di pennello,
si allontana di due o tre passi e studia l’effetto: guarda cioè al quadro come
dovrebbe guardarlo, in condizioni di luce acconcia, lo spettatore quando
l’ammirerà appeso alla parete. Quando l’opera è finita, si instaura un dialogo
tra il testo e i suoi lettori (l’autore è escluso). Mentre l’opera si fa, il dialogo è
doppio. C’è il dialogo tra quel testo e tutti gli altri testi scritti prima (si fanno
libri solo su altri libri e intorno ad altri libri) e c’è il dialogo tra l’autore e il
proprio lettore modello. L’ho teorizzato in altre opere come Lector in fabula o
prima ancora in Opera aperta, né l’ho inventato io. […] Cosa vuol dire pensare
a un lettore capace di superare lo scoglio penitenziale delle prime cento pagine?
Significa esattamente scrivere cento pagine allo scopo di costruire un lettore
adatto per quelle che seguiranno.39
L’aspirazione di Eco, dunque, era quella di avere un Lettore Modello, non
Thomas Stearns Eliot, Il critico perfetto, in Il bosco sacro. Saggi di poesia e di critica, trad. it.
di V. Di Giuro e A. Obertello, Milano, Bompiani, 1967, p. 11 (una precedente edizione italiana di questa
importante raccolta di saggi, per la traduzione e la cura di L. Anceschi, era uscita presso Muggiani di
Milano nel 1946).
38
Sul testo narrativo di Eco non va, però, dimenticato il bel saggio introduttivo di Bruno Pischedda,
Come leggere «Il nome della rosa», Milano, Mursia, 1994. Le Postille di Eco al suo romanzo furono
pubblicate, in prima battuta, su «alfabeta», 49, giugno 1983, pp. 19-22.
39
Umberto Eco, Postille a «Il nome della rosa», in Il nome della rosa cit. , pp. 521-522.
37
Fermenti 27
un qualunque lettore; il suo desiderio non era di andare incontro il gusto del
pubblico e neppure contro di esso ma di avere un pubblico che fosse in grado di
accettare il suo libro come qualcosa che, da un lato, potesse apprezzare anche ad
un primo livello di lettura (da qui la scelta del poliziesco, anche se medioevale, e
della vicenda sanguinosa e ricca di colpi di scena che egli ha scritto) e, dall’altro,
ne comprendesse, almeno in parte, il progetto formale, lo stile di scrittura e la
filosofia generale del componimento (Eco la chiama Zeitgeist alla tedesca).
Il Lettore di Il nome della rosa avrebbe dovuto essere in grado di entrare
nel romanzo per il suo valore di prodotto letterario interessante e avvincente ma
avrebbe dovuto anche individuare i diversi livelli di lettura sui quali era stato
costruire (quasi fossero i diversi strati geologici di un terreno vulcanico o di un
affioramento marino):
Che lettore modello volevo, mentre scrivevo? Un complice, certo, che stesse
al mio gioco. Io volevo diventare completamente medievale e vivere nel Medio
Evo come se fosse il mio tempo (e viceversa). Ma al tempo stesso volevo, con
tutte le mie forze, che si disegnasse una figura di lettore il quale, superata l’iniziazione, diventasse mia preda, ovvero preda del testo e pensasse di non voler
altro che ciò che il testo gli offriva. Un testo vuole essere un’esperienza di
trasformazione per il proprio lettore. Tu credi di voler sesso, e trame criminali
in cui alla fine si scopre il colpevole, e molta azione, ma al tempo stesso ti
vergogneresti di accettare una venerabile paccottiglia fatta di mani della morta
e fabbri del convento. Ebbene io ti darò latino, e poche donne, e teologia a
bizzeffe e sangue a litri come nel Grand Guignol, in modo che tu dica «ma è
falso, non ci sto!». E a questo punto dovrai essere mio…40
Così come l’Autore deve essere in grado di conquistarsi e costruirsi il proprio
Lettore capace di seguirlo lungo le strade più o meno accidentate della sua creazione letteraria, così il critico – sembra suggerire Eco – deve essere in grado di
seguire l’Autore per quelle stesse vie e per quegli stessi «sentieri che si biforcano», da un lato decostruendo il significato della sua opera e le sue stratificazioni di senso come oggetto letterario e, dall’altro, cogliendo in essa quella linea
serpentina dello stile che la rende diversa da tutte le altre che l’hanno preceduta,
pur essendo, tuttavia, capace di individuarne somiglianze e continuità con la
tradizione cui appartiene.
In conclusione, Autore, Lettore e Critico devono essere in grado di cogliere
in un testo letterario la sua «verità romanzesca» (per dirla con René Girard) e
renderla condivisibile e apprezzabile – un compito vasto e impervio, ma non
certo impossibile.
Giuseppe Panella
Id., ivi, p. 523.
40
Fermenti 28
“A chi si crederà?”
Le maschere della critica
di Bernardo Pieri
Fermenti 29
CRITICA
Forse incautamente accettai di “dire la mia” (come mi fu chiesto) su un tema
che più ci provo a guardare, più mi sembra che scivoli via da tutte le parti. La
critica musicale traversa, come si dice, una crisi? Apro la discussione con un
altro interrogativo: è mai esistita una critica musicale in quanto tale, o – come
un tempo la musica nel marcianesco quadrivio di Martiano Capella, ove pur era
considerata tra i fondamenti dell’umana conoscenza – ha solo posizione ancillare rispetto ad altre discipline? La soluzione, credo, è meno banale di quanto
non sembri a colpo d’occhio. La stessa giurisprudenza – vale a dire la critica del
diritto, base fondamentale, onniregolatrice, oggi, dell’intero mondo – nella ripartizione martiana nemmen trovava accoglienza qual scienza autonoma, e l’insegnamento di quelle che oggi chiamerebbero “abilità di base” del diritto era insito
nel campo dei maestri delle artes sermocinales: non v’era giurisprudenza dilà
dalla retorica, dalla dialettica, dalla grammatica. Andava bene per quel mondo,
che non aveva più riferimenti certi, non aveva più uno Stato, non ancora una
Chiesa che ne facesse non solo velleitarie veci, ma solo molti popoli con molte
consuetudini non scritte, quasi sempre ridistribuiti in territorii conquistati, misti
ad altri popoli con altre consuetudini e non più un diritto vero con cui far fronte
alla barbarie. L’ago della statera iustitiae era la spada, il piatto della bilancia
il librae lanx, donde la lancia, l’arma ben bilanciata. Per quel mondo, anche le
povere nuptiae arrangiate dal Capella andavano bene, per salvare il salvabile.
Ma se le consuetudini si sentì abbastanza presto bisogno di conservarle oltre
la memoria degli anziani, in editti, in pacta, in sedicenti leges, e perfino i tonitruanti proclami carolingi trovaron talvolta la via della pergamena in forma di
capitularia, la musica, rinchiusa nelle chiese, badava bene a non lasciar traccia
scritta di sé.
Vero che i melismi di san Gregorio ebbero tardive deposizioni neumatiche, ma
fuori dei cori, ancora per molto tempo, la musica la si “trovava”, non la si componeva, né tantomeno la si scriveva. Poi divenne ars nova e le cose cominciarono a
cambiare: ma era il mondo che cambiava. Aveva aperto la strada il principe-poeta
Federico II di Svevia – che fu scomunicato per aver condotto una crociata non
militare e cruenta ma diplomatica (risolta con enormi vantaggi concreti, anche
in prospettiva futura, per la cristianità) col colto e raffinatissimo califfo al-Malik
al-Kāmil, nipote del ‘feroce Saladino’ –, coi suoi componimenti in lingua volgare,
modesti per valore letterario, ma toccanti, per la sincerità con cui il cuore di questo
monarca carico di suggestioni pare aprirsi al mondo, mentre con chiarissima e
malinconica voce li intonava. Ma prima li aveva scritti o forse dettati.
La scrittura non era più, dunque, uno strumento accessorio, ma ormai il mezzo
ufficiale di trasmissione delle volontà o delle intenzioni. La giurisprudenza da un
secolo e mezzo era divenuta la regina delle scienze, e i rapporti con le tre arti che
l’avevano in qualche modo sorretta nei secoli buî, si erano rovesciati. A tal punto
che, nel Cinquecento, nella Apologia dei dialoghi, Sperone Speroni denunciò
la “sofisteria delle lingue”, la quale “tanto si affissa nelle parole, che non pon
mente alle tre arti sermocinali: tutte le quali, siccome suona il vocabolo, son sì
congiunte colle parole, che trapassarle, o non le vedere, per mirar troppo nelle
parole, pare esser cosa impossibile: e pur è vera in effetto”. Gli azzeccagarbugli
erano già nati; ed anche la musica si era a tal punto raffinata e complicata da
risultare incomprensibile nei suoi intrichi polifonici.
Corse ai ripari – ordinando semplificazione – il Concilio di Trento (c’era pure
da rispondere a Lutero, che anche in musica, coi suoi magnifici corali in cui la
parola saliva al cielo chiarissima e commossa, aveva indicato vie nuove): è forse
il primo esempio moderno di critica musicale. Ma il momento era propizio per
una riflessione, che non fosse soltanto tecnica, anche sulla musica. Si formavano
frequentemente camerate come la celeberrima “Fiorentina” (facciamo finta di
non aver letto Nino Pirrotta che non ci credeva e continuiamo a darle l’enfasi
tramandata dalla storiografia): circoli di intellettuali e di eruditi che discutevano
d’arte, e la musica vi aveva il suo cantone, rappresentato, perlopiù, da teorici
come Vincenzo Galilei e da cantanti-autori come Jacopo Peri o i Caccini, padre
e figlia. Si sognava, tra l’altro, una forma spettacolare che riunisse in un colpo
tutte le manifestazioni dell’arte.
Da diverso tempo la musica che non s’alzasse al cielo insieme alle liturgie
che accompagnava, aveva tentato d’innalzare se stessa alla gloria terrena facendosi sposa – anzi sorella, come si preferì dire – della poesia, e fin dal Trecento i
primi musicisti un poco consapevoli del loro ruolo (s’intende i primi che abbiano
lasciato tracce scritte e firmate delle loro musiche) avevano adattato armonie e
cantilene a testi classici (prediletto Virgilio, in latino e traduzioni volgari, ma
prestissimo anche Petrarca). Eran gli embrioni da cui si sviluppò il madrigale
polifonico, diletto dei colti umanisti, che se lo cantavano nelle loro riunioni
domestiche, tra una disputa letteraria e una cruscante disquisizione. Ora – Milleseicento alle porte – alla poesia s’univano la pittura, l’architettura, la scenotecnica
e la pirotecnica, la recitazione, che unite a un nuovo tipo di canto privilegiante
la scansione declamata della parola sulle volute melismatiche delle melodie e gli
accumuli accordali delle polifonie, fece nascere l’Opera : ‘il più grande spettacolo
del mondo’. La rapida diffusione, anche popolare, di questa nuova meraviglia, la
conseguente apertura di teatri pubblici (dal 1637, col San Cassiano a Venezia),
schiusero alla musica le pagine delle gazzette, ma solo come, oggi, nessun giornale del lunedì tralascerebbe d’inserire almeno un colonnino coi risultati delle
partite di calcio. Più cronaca di moda che critica musicale.
D’altronde, forse, di una critica musicale non se ne sentiva il bisogno: ancora
Fermenti 30
ai primi del Settecento, Andreas Werckmeister – al quale la storia deve nientemeno che l’ideazione del sistema temperato – inchiodava la musica a “dono
d’Iddio”, che solo a intonar lodi all’altissimo donatore doveva servire. E perfino
l’instancabile viaggiatore Charles Burney, che pareva far collezione di musicisti più ancora che di musiche, e non risparmiava sentenze sull’argomento, la
liquidò come una “innocente voluttà” che certo non serve allo spirito, ma solo al
sollazzo. Quando, nonostante tutto, intorno all’inutile sollazzo – che però tutti
praticavano e chiunque seguiva –, scoppiavano diatribe, eran di solito mosse da
qualche teorico conservatore avverso una novità che minacciava d’aver successo:
così anche a Monteverdi toccò di doversi difendere dagli attacchi di un Artusi.
E la prefazione al quinto libro dei suoi Madrigali, con cui Monteverdi rintuzzò
l’affondo, è uno dei saggi magistrali che ancora si possano leggere di critica
musicale. Uno dei pochi di pugno di un musicista.
E qui sta il punto: chi è che fa la critica musicale? È opinione comune che
l’artista non sia buon critico di sé (e raramente lo è degli altri). Il musicista, poi,
è sovente ignorantissimo (anche di musica), e comunque quasi solo interessato
all’esposizione di dati tecnici: ma che ci cale sapere che alla tal battuta di quel
movimento di tale sonata c’è un ponte modulante verso la riesposizione alla
sottodominante del secondo tema?! Cosa ci dice della musica siffatta analisi,
cosa c’insegna, quale idea suggerisce? D’altro canto i letterati, in genere, si son
mostrati solo superficialmente interessati alla musica, e quand’anche ne abbiano
trattato, il più delle volte l’approccio è stato eminentemente emotivo o descrittivo.
La musica è un’arte che non accomuna ma divide. Già nel decidersi quando
è tale: son musica i muti segni tracciati da un compositore sulla carta, o la necessità del suono è anche atto fondante di una musica? Sarà un caso che chi la
scrive non la “crea” ma la “compone”, e che per création s’intenda in genere la
prima esecuzione. In genere, ma c’è chi non concorda. “Dunque accordi?” “Non
accordo!” – “Eh via chétati, balordo!” (Le nozze di Figaro). Felix Mendelssohn sosteneva, del resto, che la parola può essere intesa in tanti modi diversi
quante son le persone che l’ascoltano, e solo la musica è invece universalmente
compresa: perciò – sosteneva – “scrivo romanze senza parole”.
E forse, allora, è proprio il caso di dar retta al coro della Contessa e di
Susanna nelle Nozze di Figaro, e chetarsi. Ma, “per finirla lietamente, e all’usanza
teätrale”, conviene una morale. E dunque: la critica musicale, più che morta, non
è mai nata.
Nella prima fetta del Novecento ci fu un bel fermento, concentrato attorno a
diverse personalità formidabili: preannunciati da Ferruccio Busoni e instradati
(da noi) da Giannotto Bastianelli, spuntarono qui (dico pochissimi e alla rinfusa)
Gianandrea Gavazzeni e là (dalla Francia all’America...) Virgil Thomson,
Theodor Adorno e Giorgio Vigolo, il genio di Glenn Gould, l’umanissimo
Francesco Pennisi e il disumano autodistruttore Donatoni, il provocatore savio
Fermenti 31
Sylvano Bussotti. Tutti lì, concentrati in pochi decennî – e, con l’eccezione di
Vigolo, tutti musicisti. Poi arrivarono le Avanguardie, il Sessantotto e, prima, il
’63: e tornarono, coi parolieri del pop, i parolaî.
La musicologia, fin da sùbito, s’era mostrata il comodo espediente per
cadregar rampolli di salotto bene che non sapeano farsi né artista né letterato.
Si distingueva Massimo Mila, anche per la curiosità che lo apriva al ‘compagno
Strawinsky’ e a Béla Bartók, quando non era un’ovvietà. E se ne stagliò, nobilissimo, il principe Nino Pirrotta.
Troppo presto congiunto nei cieli al “suo” Rameau, Giovanni Morelli, barlumi
di quell’âge d’or oggi luccicano ancora in un folletto triestino dai molteplici
talenti, (ama firmarsi g. g.) e a qualche quatriduano letterato maudit per troppa
libertà mentale, rimasto proprio per questo inviso ai doppiopettisti della musicologia più stitica e pelosa, ma che sarebbe piaciuto a James Bond: perché non
mescola, agita.
Bernardo Pieri
~
Critica letteraria, again?
di Luana Salvarani
And time yet for a hundred indecisions
And for a hundred visions and revisions
Before the taking of a toast and tea.
Eliot
Da quando le guerre di posizione sub specie ideologica si sono faustamente
logorate ed infine estinte, l’esercizio di assegnare i famosi “compiti della critica”
si è reso meno automatico, e finalmente pone qualche serio quesito sulla propria
legittimità: sul fatto che tali compiti si possano “assegnare”; sul fatto che tali
compiti esistano; e sul fatto che la critica stessa, e di più quella letteraria, abbia
senso di esistere, al di là dell’esercizio ozioso di un hobby sofisticato per una
ristretta cerchia di persone improduttive.
L’esercizio della critica è un’attività spontanea dell’uomo, e tanto quanto la
musica, il disegno, il calcolo o la creazione ingegnosa di macchine, è esercitata
da migliaia di persone senza alcuna formazione dedicata e senza alcuna pretesa
di status intellettuale, morale o, gli dèi non vogliano, epistemologico. L’uomo
è animale naturaliter critico, e la critica comincia ad esercitarla non appena
mette il naso al di fuori del soddisfacimento dei bisogni primarissimi, anzi anche
nell’ambito dei bisogni stessi, quando gli viene concessa una minima possibilità
Fermenti 32
di scelta. Critica che non è sempre discorso ma è più spesso operazione, e che
si esplicita al massimo negli atti creativi di ogni tipo: la melodia intonata in
contrappunto al canto di lavoro del vicino, la macina a pedale creata imitando
e variando un oggetto visto altrove sono altrettanti atti critici a eventi, azioni,
modelli, linguaggi preesistenti. Critica che ovviamente si raffina, e raggiunge le
forme cui siamo abituati, quando è presente la consapevolezza delle regole del
gioco, dei codici entro i quali si opera, e allora abbiamo l’ironia che capovolge
un sistema di attese, il teorema che legge la natura in modo diverso e spiazzante,
l’opera d’arte che è critica di una filatessa di opere d’arte precedenti, la poesia
o la narrazione che è critica implicita o esplicita del narrarsi di una certa civiltà,
in un certo tempo; e anche, la storia che diventa racconto storico e poi politica,
oppure la trasmissione lineare dei valori di padre in figlio che diventa “educazione” e magari anche “cultura”. Tutti atti critici che si realizzano non necessariamente, e invero quasi mai, in un discorso scritto e stampato: e che quando
diventano discorso scritto e stampato, è segno che sono morti e mummificati ed
è possibile solo tracciarne, a posteriori, la storia.
In questa ampia, irrepressibile vitalità della umana critica - a cui cercano, per
fortuna inutilmente, di porre un limite i Custodi della Cultura Ufficiale “come
patrimonio della nazione” – non risulta facile collocare quel genere specifico che
si è fissato come critica letteraria, genere impensabile al di fuori dello spazio
scritto stampato, genere per pochi, e che riesce a operare solo interrogandosi più
o meno su tutto, tranne le fondamentali domande: “chi mi legge?” “a chi giovo?”.
Uno spazio che può essere visto come delirio autoreferenziale o come generosa
utopia (e che però nel nostro Paese e in altri colti Paesi mediterranei ha la pericolosa tendenza a pretendere querulamente stipendi e compensi, come se fosse un
lavoro, e ad allungare a dismisura all’uopo i propri tempi di elaborazione); e che,
in entrambi i casi, è uno spazio del “discorso su qualcosa”, su qualcosa quindi di
cui si dà per scontato il fatto che esista, e che il destinatario lo conosca già.
La domanda di fondo è stata finora offuscata dalla grande faida interna tra
critica “giornalistica” e “accademica”, falso problema quant’altri mai: le due
forme critiche, almeno in Italia (e nella Francia da cui abbiamo maldestramente
copiato) sono pressoché identiche, presuppongono nel lettore la medesima forma
culturale ancorché in diverso grado (e lo stesso sfrenato desiderio di Canoni,
Divieti e Doveri), e si differenziano solo per l’uso di gerghi diversi accuratamente
codificati: tanto è vero che tale divisione non esiste nelle culture anglosassoni,
che possiedono una felice unità di lingua tra la lezione del maestro di scuola, il
paper specialistico, la rubrica dei libri sul New York Times e le considerazioni
del lattaio la mattina, sulla soglia di casa. Il problema non è fare critica “divulgativa” o “per specialisti”, giacché i due linguaggi sono facilmente convertibili
e traducibili l’uno nell’altro da qualsiasi persona competente e in buona fede.
Il problema è se, e come, e con quali scopi fare un discorso che, se riguarda
isolatamente la letteratura o la poesia stampata in quanto tale, è un discorso su
Fermenti 33
qualcosa che non esiste. Perché le persone reali, ormai da decenni, producono,
fruiscono, vivono altri canali e altri linguaggi, si arrabbiano o si esaltano per altre
cose, fanno salti di qualità culturali a volte sorprendenti sulla base di un film o
di un concerto allo stadio, di un pezzo d’architettura o un paesaggio naturale
visto in viaggio, di una poesia udita mentre qualcuno la leggeva o la recitava su
un palcoscenico o in metropolitana – ma mai, praticamente mai, sulla base della
lettura di un “testo letterario” attinto a una vasta produzione poetica nazionale
che in qualche modo non riesce a sintonizzarsi col divenire umano: arcaica nelle
modalità di diffusione, sconfortantemente provinciale nelle forme, ancorata al
ridicolo mito dell’aere perennius che la rende stabile invece che mobile, e (di
conseguenza) conservatrice sul piano culturale, e moralista su quello politico.
Può sembrare, questa, una posizione hoggidiana impegnata unicamente a
dichiarare la superiorità del presente sul passato. Non si tratta in realtà di questo,
ma del ribadire l’imperativo, per ogni arte degna di questo nome (e a maggior
ragione per l’atto critico che la sottende ed eventualmente la segue), di percepire,
raccontare, trasmettere, volendo anche accelerare, quel senso della mutabilità
e dell’eterna trasformazione che è la vera essenza del vivere umano. Un moto
perpetuo che tocca alle arti, nel senso più ampio (ivi comprese le matematiche e
le scienze fisiche) vivere e documentare, perché i linguaggi verbali e strutturati
delle varie scienze umane non possono fare a meno di fissarne e descriverne
alcune realtà temporanee, eventualmente ipostatizzate in modelli. Per le cose
eterne, per chi ci crede e gli interessano, c’è la teologia. Ma per ritrarre, studiare,
riprodurre il flusso e il movimento non ci sono che le arti (il Barocco lo capì e lo
mise in scena magnificamente), e una critica che fiorisce attorno alle arti non ha
alcun senso se fissa e definisce, invece di muovere e suscitare.
In particolare l’istinto definitorio e canonizzante ha, nella nostra cultura
nazionale, diversi padri illustri: dapprima la gara di prestigio tra le varie feudalità e corti, ciascuna impegnata, già dal Duecento, a proporre la propria produzione artistica come modello inaggirabile (con fini però assai concreti, come
l’attirare visite, alleanze, clienti e investimenti), e avvitatasi poi in un fenomeno
esilarante come la Questione della Lingua, cresciuta come una pianta parassita
attorno a un albero sociale con un analfabetismo al 99%; poi la dura sfida posta
dai Luterani, con la loro alfabetizzazione di massa congiunta a società rigorose
e produttive, contro la quale eravamo così in ritardo che non ci restò che arroccarci compilando Indici dei libri proibiti (ci provarono i primissimi Gesuiti, a
dire che l’Indice era una stupidaggine competitivamente perdente, e proporre un
canone amplissimo di letture a tutto campo: ma poi tosto si allinearono); mentalità, quella dell’Indice, prontamente travasata nella scuola nazionale, tanto più
se “dell’obbligo”. Poi arrivò il secondo dopoguerra e l’Indice della “Letteratura
antifascista” costruì il canone letterario unico per la seconda metà del Novecento in Italia. Fare critica, una volta appresone il difficile idioma e le macchinose parole d’ordine, era facile allora: usciva un libro, si vedeva se proponeva i
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buoni e giusti valori democratici, allora passava. Altrimenti no. Una spolverata
di psicanalisi e di autocritica facevano sempre brodo, e pure un po’ di sesso,
a cui la nostra Patria è così ostinatamente affezionata. Anche qui, il monito di
Moravia che faceva della monomania sessuale una forza distruttiva dello stesso
fatto letterario, passò inascoltato.
Nel frattempo letteratura e critica diventavano una cosa così noiosa e mandarinesca che nessuna persona di buon senso, con una vita normale e qualche
minima responsabilità lavorativa da onorare, poteva degnamente perderci tempo.
Il popolo dei lettori (di quel genere di lettori), se mai è esistito, ora non esiste più.
E ogni operazione critica che si rivolga a quel genere di lettori è una cosa senza
senso, a meno che non venga compiuta con ironia e con la consapevolezza di fare
un gesto futurista solo per se stessi: e per suscitare, con la stessa felice assurdità
del gesto, curiosità e aperture da parte di chi, magari, non si sarebbe mai “posto
il problema”. Però bisogna almeno divertirsi, e questa è un’arte a cui le umane
lettere italiche cercano ostinatamente di diseducare.
Ma può accadere anche di peggio: e in certi casi l’operazione critica è una
cosa senza senso fatta spregiudicatamente, per alimentare l’esistenza di certe
sacche di reddito e di certe istituzioni, casematte partitiche o clericali più o
meno palesi. E qui bisogna fare presto a smantellare la baracca, se non si vuole
che l’ira dei popoli (o quella divina, a piacere) riduca in cenere, furiosamente,
ogni vestigio dell’arte e della critica. Il che poi non sarebbe così grave: il bello
è che l’uomo si adatta, rinasce, e il senso critico rispunta sempre a galla anche
dopo i più fragorosi diluvii.
Esistono, più che legittimamente, i nostalgici dell’epoca in cui la cultura
era qualcosa di definito e organizzato. In cui si sapeva dove “andare a parare”
per attingervi: le università, certi circoli, certe biblioteche. In cui si aveva la
certezza di ciò che era “alto” e ciò che era, irrimediabilmente, “basso” e quindi
da guardare con sufficienza, con irrisione o tutt’al più con il piacere snobistico
del kitsch. In cui si riteneva serenamente che istruendo i popoli a tenere il libro
in mano, tutti sarebbero stati felici, o almeno migliori (e tutto ciò, credendo in
buona fede di essere democratici, e contemporaneamente dando degli idioti insipienti al popolo illetterato e televisivo). Niente di male, anche se ciò equivale a
invocare l’abolizione degli antibiotici o dell’energia elettrica, o il ritorno in forze
della latrina fuori casa. Ma per chi decide di stare nel proprio tempo? Dove lo
piazziamo, l’esercizio della critica?
Una prima possibilità può essere quella di promuovere la formazione del
gusto. Nel deserto pressoché totale, su questo versante, a causa di istituzioni
scolastiche travolte da altre priorità, di un mondo accademico con l’orologio
indietro di due secoli, di una rete di proposte culturali nazionali radicate sul
concetto di “conservazione dei beni”, di teatri di tradizione miopi e sindacalizzati
e di mostre ancora pensate per “metter fuori” un po’ di tele e gessi dai magazzini,
fiorisce la sete di una generazione di giovani capacissimi di attingere alle fonti
più vaste, prima di tutte la Rete, e di produrre e fruire autonomamente, in diretta,
Fermenti 35
la propria arte visiva, la propria poesia, la propria musica e il proprio teatro, prendendo senz’altro cantonate, ma non più di quelle che prendevano i loro nonni e
nonne che avevano fatto il liceo e ascoltavano la “buona musica”- magari opponendo faziosamente il libro e la radio “civili” alla televisione e internet “incivili”
(solo perché erano quelli con cui erano cresciuti loro). È una sete di arte e di
critica che di per sé fa giustizia di tutti i nojosi epicedii sulla morte della cultura
e della civiltà che si sentono pronunciare da decenni. È una cultura che vive nel
qui e ora, e che quindi soffre di strabismo e a volte di dichiarata impotenza nel
capire e inquadrare l’arte del passato, anche quello recentissimo.
Qui la critica – non le riviste o i saggi, almeno in prima istanza: ma le parole
di un insegnante capace o di un amico più esperto, una riflessione su un blog o
una lettura magari musicata o visiva di un classico, proposta da una persona con
ricchezza d’esperienze – può suggerire e proporre, fornire categorie estinte che
non verrebbero in mente a un giovane, interrogare e spingere a interrogarsi, in
modo chiaro e diretto, su perché certe cose avvenivano e avvengono, svelandone
i meccanismi umani, produttivi, e perché no anche i moventi inconsci. Insegnare
a porre le sempiterne domande, valide per una poesia del Trecento, un madrigale del Cinquecento, un romanzo o una guerra dell’Ottocento: “come funzionava? chi pagava? a chi giovava?”. Una critica che sfugga con immensa fatica e
impegno le secche della predica, della frase a effetto, delle chiavi passepartout,
delle grandi massime; una critica per molti, essoterica e senza gerghi, desiderosa
innanzitutto di impermanenza. Né mancano spazi e possibilità per farla, quando
non si ambisce alla fissazione della stampa o a canali ufficiali che ne attestino
l’esistenza: basta avere una minima capacità comunicativa, e le orecchie pronte
ad ascoltare fioriscono e si protendono come in una selva barocca.
Poi si vuole andare più a fondo, e una seconda possibilità è la critica come
indagine negli strati, nelle ambiguità, nelle regole e nei vicoli ciechi dei linguaggi.
Qui è necessario un destinatario più formato, formazione che tuttavia è quasi
sempre, nei casi migliori, legata alla pratica di quei linguaggi, al disegnare
fumetti in casa o progetti con l’Autocad, a suonare in un gruppo, al recitare e
scrivere drammi con amici o con una classe di bambini, allo scrivere magari per
un piccolo giornale e senza crederci molto, però con l’imperativo della lunghezza
e delle scadenze, che aiuta a padroneggiare lessico e sintassi, e ridimensionare la
scrittura nella sua caratteristica di voce umana. Senza questo continuo richiamo
alla realtà umana della scrittura (che ci permette di evitare i grandi inganni del
lirismo, dell’esperienza soggettiva trasformata in Canto della Specie) è impossibile comprenderne l’ambizione, storica e ricorrente, a diventare Scrittura, cioè
codice sacrale dell’oltreumano, dell’indicibile, del numinoso. Tanta letteratura
occidentale, e forse tutta la migliore, è basata su questa ambizione. Ed è qui che
inizia l’autodisciplina del prendere sul serio i dettagli della scrittura, cercare di
coglierne ogni riferimento, ogni allusione, ogni risposta o reazione a minime
increspature dell’ambiente in cui è pensata, ogni autorappresentazione mitica o
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mitomanica che la sorregge, e anche le incomprensibilità e i cortocircuiti, magari
dovuti a distrazioni o malumori dell’autore. Inizia l’indagine sulla scrittura come
sismografo di precisione, che vale nella sua lettera presa al millimetro e però vale
solo come rimando ad altro e oltre sé.
Questo è un tipo di critica ancora più pedagogica della prima, che può svilupparsi solo in presenza, nella parola viva, nel lavoro sui testi anche fisico (la lotta
con le stampe antiche e le loro macchie, quelle moderne che si sbriciolano, le
pagine doppie o perdute, il word che si impalla….), nel divertirsi a commentare
e magari a discutere un passo che non si capisce; nell’apertura costante alle arti
visive, alla musica, alla pubblicità, ai telefilm, al colore del tempo e tutto il resto,
in una tensione continua a stabilire corrispondenze – sempre tuttavia “tecnica” e
mai soggettivistica o sentimentale. A forza di dialogare con chi ci insegna a fare
critica del testo, poi impariamo anche a dialogare con noi stessi, e a problematizzare senza innamorarci stolidamente di un’idea o di una visione. La critica qui
diventa anche critica storica, e può fissarsi (ma anche qui, senza crederci troppo,
sennò è la fine) sulla pagina scritta, più per creare una forma, e sperimentare a
propria volta un linguaggio, che per istruire un ipotetico, troppo ipotetico lettore
(e neppure, s’intende, presupponendo un “segue dibbattito”). Una scrittura critica
contemporanea, o sarà chiara, ironica, concreta, oppure sarà uno strano oggetto
sperimentale e futuribile: un objet signifiant, forse anche un po’ objet trouvé. E
non ci sarà bisogno di preoccuparsi d’altro, basterà appoggiarlo da qualche parte
e prima o poi qualcuno se ne servirà. Anche in modo imprevedibile.
Luana Salvarani
~
Una perplessità della critica
di Diego Varini
Se ti guardi con un occhio, chiudi l’altro.
Breton-Éluard, L’ Immacolata concezione
I modi della gergalità più inerte nascono e muoiono secondo ritmi di consumo
accelerati, cicli di produzione e obsolescenza scorciati a volte fino a lambire il
parossismo; non c’è pace sotto il sole e dunque neppure sub umbra, tra le fronde
di arcadia e la verzura tranquillante delle frasi fatte. Trenta o quarant’anni fa,
ogni intervento sulla cultura poteva figurarne – fattualmente – quasi un’epitome:
correva la giostra delle banalità verniciate in rosso – ludo italiano funerario, per
piccoli sergenti e gran muftì di un sinistrismo da burletta –: tra una ‘piattaforma
concettuale’, una ‘lancia da spezzare’, una ‘battaglia urgente da portare avanti’.
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Brecht spiega esemplarmente che il realismo non riguarda mai la ‘cosa’ (la riproduzione fotografica di un oggetto), semmai il ‘come’ ed il ‘perché’ (intendi: è
sempre un moto di approssimazione conativo, da x verso infinito). Un marxismo
intossicato di chiacchiere – come un bolo nutrito a bignami e scarti di polpa
rancida – non poteva che siglare la propria condanna; si è estinto, grosso modo,
come Gian Gastone Lorena (non lascia rimpianti, al massimo un certo sopravvivente fetore). Tra la selva delle idee ricevute e di continuo ribattute (non basterebbero schiere di nuovi Bouvard e Pécuchet per farne catalogo): la bislacca
asserzione – pretesamente inoppugnabile, apodittica – che ‘tutte le ideologie
sono morte’ (corteo di risate in sala). Quando uno solo accenda per disgrazia
una radio, oppure apra a caso un giornale: e troverà, ponicaso, una sbrodolata di
lunghe cicalate da qualche resort confindustriale… Chi pretende ivi di tenere in
gran dispetto la retorica – dal sempiterno padrone delle ferriere all’industrialotto
di provincia con annessa sciura –, poi non si accorge di filosofeggiare tonitruante
solo per mezzo di futilità e formule vuote. (Mentre a un microfono, con sopracciglio intonato alla gravità del momento, qualche preclaro alfiere del bigoncio
padronale invita la nazione a ‘fare sistema’ [?], noi ripensiamo per automatismo
all’insuperato Benvenuti di una pellicola degli esordi [A ovest di Paperino,
1982]: un bighellone allampanato che pascola per le strade di Firenze da mane
a sera, uno che – a tempo perso – qualche volta mette su dischi in una specie di
radioalice riattata a comune, un mammalucco del genere … magari avrà pure
strappato un paio di ventitrè a giurisprudenza o lettere … come classifica la
propria condizione di uomo empirico? Ma è proprio vero che anche il drop-out
più smidollato mica accetterebbe di vedersi liquidato quale ‘perdigiorno’: certo
che no, egli ‘svolge un certo tipo di discorso via etere’).
Con le parole, si può rimpannucciare qualunque stoffa lacera; ma la critica
(krisis = ‘facoltà di discernere’) attiene all’ordine misurabile dei ‘fatti’. Marcuse
ha ragione ma la prendeva – al solito – forse con troppa mutria: ‘il linguaggio del
dominio non ha memoria’. La critica è un fatto, un’articolazione dello sguardo:
un atto (curiositas) strutturalmente eversivo. ‘Atteone è un impiccione, e muore
da coglione’ (maledizione alla rima!): gendarmi e tutori dello status quo insegneranno sempre ai fanciulli la virtù di non immischiarsi. Del Felix Krull che
in Thomas Mann si autoedifica dal nulla (esilarato e lugubre, faustianamente,
come una specie di diavolo), ogni volta potresti arrenderti a concludere ‘io
non sapevo che loico tu fossi’. Ma bisogna credere molto e senza riserve nel
primato dei fatti, prima, per arrivare a confonderli e piegarli e rifonderli (come
materia fittile): niccianamente, non esisteranno – allora sì – che interpretazioni.
La povera ideologia del nostro padronato (gramo paesaggio sentimentale, senza
vinili né libri) rimanda a un fortunato copione dell’Octave Mirbeau di fine Ottocento: Les affaires sont les affaires. Nemmeno a farlo apposta, il titolo è anche
un bell’esempio di figura retorica in situazione (antanaclasi): ne ragionava – con
affabilità sottile – un maestro di pedagogia dagli interessi vastissimi, mai settoriali
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(Olivier Reboul). Se ne ricorderebbero, certi coturnatissimi et insigni professor
tuttesalle? Sbarrate porte e finestre in modo ermetico, loro diranno: procediamo
sùbito ad approntare un bel catalogo (‘madamina, la recensio è questa’). Ma la
critica, non è mai stata far la conta delle figure retoriche (cercar fatti grammaticali sotto l’arco di Tito). Conviene farlo scandire – da ultimo – a Todorov in
persona: «en études littéraires, l’ignorant n’est pas celui qui ne sait pas distinguer
entre métonymie et synecdoque mais celui qui ne connaît pas “Les Fleurs du
mal”» (“Le Nouvel Observateur”, 11 janvier 2007). Ma poi, giustappunto, fra
i piccoli ordigni gergali che sembrano davvero inaffondabili: ‘una monografia
che colma una lacuna’. Quante volte si è letta, questa espressione stralunata e
un po’ affliggente; né – scappata di penna persino a certi insospettabili – intende
lasciare il campo. Tenera, immarcescibile aspirazione di fare il pieno (museificare l’intera vita?). Alla fine dei giuochi, piazzata ed incasellata anche l’ultima
tesserina del puzzle, il quadro sarà davvero completo (come si dice di un albergo
quando non ha più stanze da offrire). ‘È uno sporco lavoro, ma qualcuno doveva
occuparsene’ (i nostri cavalieri fecero l’impresa). A forza di render l’aria sempre
più sterile, resterà – alla meglio – qualche magro campione letterario in provetta.
Il laboratorio – come il museo – è uno spazio protetto; ma noi sappiamo che
muore, con i batteri, anche la possibilità della vita.
Brutta faccenda, un ‘philologo’ senza amore; potrà ingozzarsi di etimi da
un capo all’altro del planisfero, ma poi smarrisce la sostanza del proprio nome.
A forza di applicarsi soltanto a stemmi ed usus scribendi, c’è sempre il pericolo di scambiare l’ortografia con la verità. Procuriamogli un ortottista, che
gli reinsegni alla buon’ora ad osservare il mondo. Al banco della storiografia e
della critica, per dirla con Pirandello, da venticinque secoli vincono sempre gli
‘scrittori di cose’; che pure non sono fatti di ‘contenuti’ (antefatti ideologici) ma
di ‘linguaggio’ (forme organate in sinolo). Sono tardigradi tutti i grammatici?
Stilare un regesto è sempre mimare una specie di gesto funerario (ogni atto ‘definitorio’ implica un riflesso normativo: un tentativo di irregimentare la vita). Però
noi ricordiamoci qualche volta anche di Federico Diez: fra i meandri di fonologia
e linguistica, quell’infervorato spasimante di monna Filologia (uomo di scienza
prussianamente positiva!) riassaporava le scaturigini di una perduta atlantide
(in filigrana, si ascolta la voce di Hölderlin). Piacque ad Ovidio, che volentieri
spesso lo cita, il romano professor Verrio Flacco (De verborum significatu): è un
dotto che attacca sempre il discorso da competente en titre, ma poi lo affoga in
digressione labirintica, disperante, sottilmente ipnotica. La ‘critica’, proviamo a
ridefinirla anche così: ‘misurazione complice di certe cose che accadono’. Alla
fine del suo percorso, Sklovskij dice: «Se due più due fa quattro, bene. Se due
più due fa cinque è ancora meglio. Le scoperte si fanno quando due più due
non fa quattro. L’arte non è un supporto della matematica. Credo nell’esistenza
dell’oceano, non nella matematica delle parole. L’arte nasce dove si decide da
che parte viene il futuro». I formalisti russi erano stupendi scienziati-alchimisti,
Fermenti 39
che a molti ha fatto comodo scambiare a lungo per pedanti: non maneggiavano
il compasso e il regolo, inseguivano – come argonauti – il vello d’oro o la pietra
filosofale. Scoprire il meccanismo del ‘procedimento’ valeva per loro attingere
la zona fibrillante di una vitalità segreta: fino a poterla rinverginare. L’arte è
sempre miracolo (‘cosa meritevole di stupore’); la critica ne è contemplazione
non disgiunta da una certa partigianeria. Non esiste una ‘scienza della letteratura’, come non può mai darsi scienza di quanto attiene al campo infinito del
possibile (una questione di libertà, altro da necessità). I migliori lo hanno sempre
saputo e teorizzato, ma il grosso dell’esercito accademico – corpaccione smagato
e svogliato, col suo impaccio di salmerie e un perenne torpore di automatismi
– preferiva starsene al rezzo di qualche biascicato nuovo langage de la tribu
(rassicurante come una celata o uno scafandro). Il nobile decaduto, che ha perso
un blasone, se lo reinventa: non ci vuole molto acume psicanalitico per intuirlo,
la parola ‘scienza’ è un feticcio che funziona come un ersatz. Non serve tirare
in mezzo Duchamp o Stravinskij, per gridarlo forte a chi fa mostra di non voler
intendere: la ‘critica’ germoglia in primis fra le braccia di madama poesì (sempre
azione metalinguistica, la poesia reinventa, sulla pagina non bianca scritta da
altri, le condizioni del proprio sussistere). C’è una critica che qualche volta ha
in sorte di diventare ‘letteratura’ (arabesco, desiderio, musica). Dimentica in
partenza gli utensili della pseudo-scienza (il ricatto dell’assoluto); ti accorgi che
essa accetta il vincolo ragionevole del ‘qui ed ora’.
Lenin – amico e carnefice di Majakovskij – parla spesso con rapimento di
‘Iskra’ (la scintilla della rivoluzione). Ai rossi narratologi (o rosa) del nostro
dopoguerra, si direbbe non importasse che la certificazione esatta di un ritorno
all’ordine: si può tremare di fronte alla presa della Bastiglia, ma persino davanti
a un settenario ipermetro (se non lo hai previsto in anticipo). Tante strutture
(structures), ma per farsene che? Forse addomesticare la minaccia della storia.
La mancanza di lieviti fantastici è, per il critico, sintomo micidiale di anoressia:
lo inchioda alla fiammella esangue del suo eros labile e stento. Si può scrivere
in dormiveglia sonnecchiando (vedi ron-ron sublime dell’inarrivabile don Benedetto: capostipite di una cinquantennale mandata di voci blese); oppure si può
ridurre persino Sigfrido a un incrocio di linee (stomachevole fox-trot di attanti,
peripezia, danneggiamento). All’inizio del Novecento abbiamo il crocianesimo,
verso la fine la ‘febbre semiotica’; in mezzo, a cavalcioni, il crocio-gramscismo
(un altro ircocervo o Frankenstein scappato al laboratorio, in grado di muoversi
per combinar pasticci). A loro modo, variamente, sono tre risposte olistiche, totalizzanti: chiavi illusoriamente funzionanti come passe-partout, se non davvero
quando la critica irrompe quasi funzione di un desiderio (davanti allo scrigno di
certi oggetti, che nascondono il mistero della propria incantagione). È difficile
parlare la stessa lingua, con chi pensa all’officio della critica letteraria nei termini
di un ventaglio di dimostrazioni da srotolare (vedi sigillo in calce al teoremino:
‘quod erat demonstrandum’). Ritorno a Sklovskij: «Esaminando Anna Karenina
Fermenti 40
mi sono accorto che due più due fanno cinque». Beninteso, persino Socrate – che
era Socrate (!) – non ha mai inteso ‘dimostrare’ nulla. A muovere il pensiero e la
coscienza, non sono che paradossi cresciuti sul corpo delle domande.
La critica non ‘colma lacune’: esplora faglie, col gusto di accelerare i movimenti franosi. La storia è da riscrivere a ogni passo, forse perché davvero non
esiste (se non come astrazione, ologramma, fatamorgana). La malabestia della
cultura accademica stenta a metabolizzare questa faccenda (elaborare il lutto): il
tempo lineare spazializzato (che puntellava in filosofia la nozione di progresso)
deve ritenersi cancellato, abrogato. Se ne era già accorto Nietzsche (con la sua
scimmia Spengler); lo sapevano bene Marinetti e Breton. Ogni storiografia è
sempre ‘una generazione equivoca dell’ispezione’ (Sanguineti-Laborintus). Così
il papa del surrealismo – gettando ponti sull’oceano, anzi fra i millennî – può
rivendicare e annettersi interi pezzi di arte africana o grecoromana; il padre del
futurismo sparare al chiaro di luna, o illudersi di cannoneggiare Venezia e la
sintassi in un colpo (la poeticità del poetese è tubercolotica). Ogni storiografia
nasce sub specie modernitatis. Costruire è distruggere, distruggere per ricostruire, sistole e diastole di un universo che muore con noi ad ogni sussulto qui e
adesso, per smarginarsi e rinascere: un tipo di ‘idealismo’ e di ‘sincronia’ che non
sono quelli, decisamente no, del quietismo di tanta pretesa dottrina sistematica.
A Luigi Baldacci, il fariseismo della filologia fine a se stessa (autistica) suggeriva l’immagine «di chi, prima di lasciare una casa che deve essere fatta saltare
dalla dinamite, si affanna a lucidare gli ottoni delle porte». Passati quarantatrè
anni, gratta gratta siamo sempre lì. Fra gli oneri che invariabilmente pesano sulla
critica, ad ogni passaggio di testimone o svolta di secolo: rinegoziare i modi
del proprio dialogo con un lettore (‘hypocrite lecteur’). Quello che Nietzsche
chiama ‘saturazione di storia’, anche Balzac lo sospettava già con parole differenti: «abbiamo fatto tanta storia che gli storici mancheranno». Rifiutarsi a una
‘filologia’ che elude le domande. Fuori dalla continua postulazione (utopica) di
uno spazio-tempo, la ‘critica’ non esiste (filologia & storiografia ne sono eteronimi, oppure ancelle). Rifiutarsi anche alla prevaricazione balorda della frontalità (il critico manovra sempre di lato). Funzione della critica? È mettersi in
mezzo, o di traverso. YouTube rigurgita di gente che ruba con una telecamerina i
film in sala: sono atti contro il copyright e forse contro il codice penale, insieme
sono anche gesti insopprimibili inscritti nell’ordine bisbetico di ‘amore’. Come
la fruizione, la critica è un appetito (per disappetenza langue, fino ad estinguersi
per consunzione).
Diego Varini
~
Fermenti 41
Teorie del linguaggio in Boris Vian
di Gloria Sgherri
Uno degli aspetti intrascurabili che emerge dalla lettura di un autore come
Boris Vian è, senza dubbio alcuno, quello del linguaggio. Vian è considerato un
paroliere, un mago della parola, un demiurgo lessicale, complice la sua capacità di
dar vita ad associazioni impossibili. Alcuni dei procedimenti di cui si avvale per
realizzare il suo universo linguistico possono essere individuati nel metaplasmo
di un lemma o di una locuzione, nella sostituzione di un morfema all’interno di
un costrutto, entrambi volti a dissacrare l’auctoritas letteraria e linguistica della
parola, nel calembour, mediante il quale si vuole smascherare lo stereotipo codificato dalla locuzione, nella creazione ex novo di mots-valises, memore dell’insegnamento di Lewis Carroll e nella continua e instancabile ricerca di deviazioni
semantiche costruite sulla polivalenza e sull’omofonia delle parole. Ci si rende
immediatamente conto, quindi, di come la varietas stilistica linguistica sia la
cifra distintiva della scrittura vianiana. Marie-Claude Charras e Michela Landi,
impegnate a determinare le problematiche che una scrittura come quella di Vian
comporta, hanno poi individuato gran parte di questi fenomeni come “figure
ricorrenti” del Novecento letterario.1
Parlando di problemi linguistici nel Novecento non si può però evitare di
confrontarsi con Ludwig Wittgenstein, il cui contributo fu di capitale importanza
per la nascita della moderna filosofia del linguaggio. Il Novecento poi permise
anche lo sviluppo di quella corrente identificata con il nome di semantica generale che ha, come padre fondatore, Alfred Korzybski. Due insegnamenti e due
approcci diversi quello di Wittgenstein e quello di Korzybski, eppure non così
tanto lontani, affondando entrambi le proprie radici nella presa di coscienza
dell’insufficienza del linguaggio corrente. Questa insoddisfazione linguistica
di fondo pare trasparire dall’opera di Vian sotto le spoglie nemmeno troppo
camuffate del lusus linguistico, ed è proprio questo aspetto che mi propongo di
indagare, tenendo conto di come la scrittura di Vian sia in realtà una continua
riflessione sulla lingua.
Innanzi tutto occorre fornire delle coordinate. La semantica generale si
sviluppò in America, a partire dagli anni ’30 del Novecento, in seguito alla
pubblicazione dell’opera di Korzybski Science and Sanity nel 1933 e si contraddistinse immediatamente per il suo orientamento antiaccademico. L’utilizzo del
termine “generale” sta a testimoniare come questa teoria, lungi dall’essere una
speculazione teorica, si ponesse pragmaticamente nei confronti del linguaggio.
Secondo la definizione che ne dà Korzybski stesso la semantica generale
Cfr. M.C. Charras; M. Landi, L’écume des jours de Boris Vian: problemi della traduzione in
italiano, Genesi gruppo editoriale, Città di Castello (Perugia), 2009, pp. 13-16.
1
Fermenti 42
[…] non è tanto una «filosofia» o una «psicologia» o una «logica» nel senso
abituale di queste parole. È una nuova disciplina estensionale che ci spiega e ci
insegna come usare il nostro sistema nervoso in maniera più efficiente.2
Emerge immediatamente come il concetto di “uso” sia preponderante nell’elaborazione della teoria. Ciò che Korzybski nota è come le relazioni semantiche
della quasi totalità degli individui siano corrotte, dunque “malate” (di qui il titolo
dell’opera Science and Sanity):
Gli uomini si comportano in maniera infantile. Le istituzioni sociali, i metodi
educativi, ma soprattutto il linguaggio li spingono ad assumere un atteggiamento essenzialmente immaturo. Di fatto, il loro ambiente semantico è malato
e, quindi, si avranno prevalentemente comportamenti patologici, a tutti i livelli.
«La persona mentalmente non-sana – scrive Korzybski – ha delle premesse
strutturali, consce e inconsce, che sono “false” o, in genere, semanticamente
non appropriate […]».3
Di qui derivano la confusione linguistica e le incomprensioni sintattiche che
generano problematiche di non poco conto. Nel mondo, infatti, la parola governa
la quasi totalità dei rapporti. Il fraintendimento nasce dunque nel momento in
cui si assumono le strutture metafisiche che permeano il nostro linguaggio acriticamente, senza rendersi conto che esse non sono in grado di riferire il mondo
così come noi lo vediamo. La soluzione proposta dai semantici generali è quindi
quella di abbandonare l’ormai vecchio e superato sistema aristotelico in nome di
una “metafisica scientifica”. I principi della semantica generale trovarono terreno
fecondo in una mente come quella di Boris Vian, attento studioso del potere della
parola. L’incontro di Vian con Korzybski avvenne attraverso la mediazione di
Van Vogt ed è databile intorno al 1953, periodo in cui in Francia uscì la traduzione di Non-A proprio per mano di Boris Vian. Anche in una lettera a Jean
Linard del 1957, pubblicata da Arnaud, Vian dichiara apertamente la sua approvazione alle teorie elaborate da Korzybski, allorché scrive:
[…] Pourquoi que tu lis pas Science and Sanity de Korzybski? […]. Désaristotelise toi. Lis Korzybski merde !4 ;
e ancora:
Jamais je n’ai pu me contenter de la logique à deux valeurs. C’est absolument
insuffisant.5
Occorrerà ora indagare in che maniera le tesi linguistiche di Korzybski
trovino spazio ed elaborazione nella produzione di Vian. Il testo ove la semantica
generale avrebbe avuto la più completa formulazione mi pare essere il dramma I
AA. VV., La semantica generale, a cura di M. Baldini, Città nuova, Roma, 1976, p. 11.
Ivi, p. 25.
4
N. Arnaud, Les vies parallèles de Boris Vian, Union générale d’éditions, Paris, 1970, p. 247.
5
B. Vian, Boris Vian en verve, mots, propos, aphorismes, a cura di N. Arnaud, Pierre Horay, Paris,
1970, p. 62.
2
3
Fermenti 43
costruttori di imperi. Infatti, la vicenda, più che una storia, è una vera e propria
riflessione sul linguaggio e sui suoi mistificatori. Rybalka nel suo studio su Vian
osserva che:
On peut d’ailleurs diviser en deux catégories les personnages que l’on
rencontre dans ses œuvres : il y a, d’une part, ceux qui utilisent les mots avec
une certaine pudeur et ne leur donnent pas de valeur absolue – et ceux-là sont
sympathiques – d’autre part, ceux qui se laissent entraîner par le langage et se
insistent à prendre les mots aux sérieux – et ceux-ci sont toujours ridicules et
détestables.6
Quelli che rientrano nella seconda categoria sono coloro che si avvalgono del
linguaggio per esercitare sugli altri un potere coercitivo, per affermare la propria
autorità, senza accorgersi di essere loro stessi nient’altro che schiavi della parola.
Ora, nell’opera abbiamo cinque personaggi: il padre Leone Dupont, la madre
Anna, la figlia Zenobia, Cruche, la domestica, e un enigmatico quanto controverso personaggio muto, Lo Schmürz. Il servilismo semantico affligge il padre e
la madre, mentre Zonobia e Cruche sono le vere Semantiche7, padrone di un uso
consapevole del linguaggio. A questo proposito mi sembra utile rievocare quanto
diceva Lefebvre, secondo il quale,
[…] la Parole est asservie au Discours.8
Ne consegue, nella sua riflessione, che nella società viga
[…] un «terrorisme du discours» (comme Stuart Chase, un Sémanticien,
parle de la «tyrannie des mots»), qui devenu norme sociale, exerce une pression,
codifie les rôles, les attitudes, les opinions, donc la pensée en général. Et «face
au discours, devenu institutionnel et qui interdit la parole, la parole est contrainte
à la clandestinité».9
Parola e Discorso, l’una costitutiva del linguaggio di Zenobia e Cruche, l’altro
mezzo d’espressione di Leone ed Anna. Che il discorso sia diventato norma codificata lo vediamo espressamente nel parlare per cliché e per luoghi comuni, atteggiamento assai pericoloso proprio in nome della sua ingenuità. Korzybski aveva
già denunciato, infatti, come l’uso furbesco della linguistica stesse influenzando
l’opinione pubblica e fosse sul punto di favorire l’ascesa del nazismo, allora in
via di sviluppo10, ipotizzzando come, a ridosso di quegli anni,
6
M. Rybalka, Boris Vian: essai d’interprétation et de documentation, Lettres modernes, Paris, 1969,
p. 164.
7
Si tenga conto che di qui in poi si adotterà la distinzione grafica tra “Semantico/a e “semantico/a”,
dove con “Semantico”, in funzione attributiva, ci si riferirà a coloro che hanno fatto proprie le teorie della
semantica generale, mentre “semantico” rimarrà nella sua accezione comune.
8
P. Gauthier, Schmurz, discours et parole, in AA. VV., Boris Vian: Colloque de Cerisy, direzione di
N. Arnaud e H. Baudin, 23 juillet-2 aout 1976, vol. II, Union générale d’éditions, Paris, 1977, p.110
9
Ibid.
10
Cfr. A. Schaff, Semantica generale, in AA. VV., La semantica generale, a cura di M. Baldini, op.
cit., p. 159.
Fermenti 44
[…] Hitler aurait dit à Max Planck, le physicien allemand: « tous les juifs sont
communistes », et l’on sait quelle conclusion il tira d’une telle prémisse. Le mot
« tout » est tendancieux puisqu’il nous permet de généraliser sans vérification
individuelle, et qu’au lieu d’observer le territoire, nous regardons notre carte
intérieure qui est falsifiée par nos émotions et nos préjugés.11
Come infatti aveva pure notato Barthes, nella lingua «Servilité et pouvoir se
confondent inéluctablement»12 ; ed è nello slogan che questo connubio trova la più
stretta e concreta realizzazione. A prova di ciò, non mi pare sia un caso che Vian
metta in bocca a Leone un’infinità di stereotipi e letterari e linguistici volti ad
esercitare il suo potere, come possiamo notare nelle sue battute:
La prudenza prima di tutto13;
Calmati, mia cara… Prima o poi i figli finiscono per abbandonare i genitori.
È la vita14
e
Dopo vent’anni di matrimonio… abbandonare un uomo in questo modo… le
donne sono veramente incredibili.15
In questa maniera vediamo che il padre va incontro ad una vera e propria
confusione semantica, investendo il particolare di una generalizzazione che
risulta per forza di cose falsante; esattamente l’errore dal quale Korzybski intende
salvaguardare. Ancor più chiarificatrice in questo senso mi pare essere la scena
contenuta nell’atto primo:
PADRE (evasivo) Non si sa esattamente che cosa sia. Se si sapesse, te lo
diremmo.
ZENOBIA Ma tu sai sempre tutto, in genere.
PADRE In genere, certo. Ma questa, per l’appunto, è una circostanza
eccezionale.16
Già i primi influssi di Korzybski si possono intravedere pure ne L’erba rossa,
la cui redazione (1948-1950) coincide più o meno con la lettura di Vogt da parte
di Vian. A questo proposito mi pare esemplare il discorso di Follaprile, la quale
fornisce una vera e propria lezione di semantica generale:
«[…]. Non si deve mai pensare ‘gli uomini’. Si deve pensare ‘Lazzuli’ o
‘Wolf’. Loro pensano sempre ‘le donne’, ecco quel che li disorienta».17
11
F. Peterson, Boris Vian et la sémantique générale, in AA. VV., Boris Vian: Colloque de Cerisy,
direzione di N. Arnaud e H. Baudin, op. cit., vol. I, p. 454.
12
M.T. Russo, L’arrache-cœur: una po-etica della devianza, in “Quaderno dell’istituto di lingue”,
n° 12, Facoltà di “Lettere e Filosofia” di Palermo, 1980, p. 41.
13
B. Vian, I costruttori di imperi, in Id., Teatro, Einaudi, Torino, 1978, p. 214.
14
Ivi, p. 242.
15
Ivi, p. 244.
16
Ivi, p. 214.
17
B. Vian, L’erba rossa, Milano, Marcos y Marcos, 1999, p. 113.
Fermenti 45
Alla stessa maniera Cruche redarguisce Leone su un suo evidentissimo errore
semantico, dissimulato all’interno di un discorso con il quale egli tende ad esercitare la sua autorità:
PADRE (arrabbiato) Cruche, ci si domanda: voi cosa c’entrate?
CRUCHE Chi si pone questa ridicola domanda?
PADRE Io
CRUCHE Allora non dite «ci si chiede». Dite «io mi chiedo voi cosa
c’entrate», oppure «Cruche, sono forse cavoli vostri?», oppure «in che cosa vi
riguarda questo problema?», oppure «quale interesse può mai rappresentare per
voi?» Ma siate esplicito e non procedete per allusioni. Ho forse alluso io?.18
Infatti è nella generalizzazione che la demagogia verbale affonda le sue radici
ed è nell’assolutizzazione che esprime la propria natura coercitiva e, di conseguenza, è contro la demagogia che si scaglia Korzybski e Vian con lui:
«Pour moi, la préoccupation la plus haute de mon temps c’est de dénoncer les
menteurs et les escrocs, les escrocs du mot, les escrocs du verbe, les gens qui
font de la démagogie verbale».19
Della demagogia è vittima Leone, il quale in un solenne discorso da senatore
romano, cade ingenuamente vittima dello stereotipo dell’accusa ai demagoghi
non rendendosi conto di non fare, a sua volta, della pura e semplice demagogia:
PADRE D’altra parte, se non dipendesse che da me, già da lungo tempo i falsi
valori sarebbero scomparsi a tutto vantaggio di quei valori molto più solidi quale
la morale, le idee in cammino. Lo sviluppo delle scienze fisiche, l’illuminazione
delle strade e l’invio al macero dei marci residui di una demagogia che sempre
più sta degenerando, sull’esempio… dunque… sull’esempio di quei grandi
costruttori di un tempo passato, che fondavano i loro edifici sul senso del dovere
e l’alta consapevolezza della res pubblica…
VICINO Non le sembra di avere perso un po’ il filo?
MADRE (al vicino) Sì… non riesco a capire se sta andando esattamente dove
dovrebbe.
PADRE (tono naturale) È fastidioso, ma ho la stessa impressione. Credo che
le parole mi stiano trascinando.20
Il problema dello stereotipo è poi messo pure in evidenza nell’affermazione
del padre:
Un avvertimento. Ma non bisogna confondere l’immagine, il segnale, il
simbolo, l’indizio, l’avvertimento con la cosa in se stessa. Sarebbe un grave
errore.21
Parole che, se in un primo momento appariranno come una dichiarazione
B. Vian, I costruttori di imperi, in Id., Teatro, op. cit., p. 237.
B. Vian, Boris Vian en verve, mots, propos, aphorismes, a cura di N. Arnaud, op. cit., p. 56
20
B. Vian, I costruttori di imperi, in Id., Teatro, op. cit., p. 221.
21
Ivi, p. 214.
18
19
Fermenti 46
korzybskiana, nel progredire del discorso assumeranno un connotato denunciatario. Infatti, l’ammonimento, non è altro che un calco del maggiore assunto
della semantica generale:
La mappa non è il territorio22,
ove si intenda per mappa la parola e per territorio l’oggetto designato. Con questo
Korzybski intende sottolineare come la parola poetica non sia in grado di restituire il referente nella sua totalità e di come non possa designarne l’essenza. Mi
sembra che l’insegnamento dal quale derivi questa conclusione sia quello fornito
da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus, allorché si sentenzia:
Gli oggetti li posso solo nominare. I segni ne sono rappre­sentanti. Posso solo
dirne, non dirli. Una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa
essa è.23
Quello che Wittgenstein, e Leone con lui, intende mostrare, è come il simbolo
o l’immagine, per usare un termine wittgensteiniano, non sia altro che rappresentazione di una realtà con la quale quest’ultima condivide solo la propria “forma
di raffigurazione”24. Ne consegue che
La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare
ciò che, con la realtà, essa deve aver co­mune per poterla rappresentare – la
forma logica.
Per poter rappresentare la forma logica dovremmo poter situare noi stessi con
la proposizione fuori della logica, vale a dire, fuori del mondo.25
Questa riflessione è dunque volta a porre l’accento sull’errore linguistico
cui s’incorre frequentemente e che causa incresciose incomprensioni: la sostituzione del significato al significante. A questo punto ci si chiede però come
mai Vian abbia messo il primo principio semantico in bocca ad un demagogo
quale è Leone. Sembra esserci un’incoerenza logica, appunto. Ma è sufficiente
vedere come s’insinui nelle parole del padre lo spettro dello stereotipo, ed ecco
che il discorso ritorna coerente. Quello che Vian intende osteggiare, infatti, è,
come abbiamo già accennato, il linguaggio stereotipato. Sotto questo punto di
vista vediamo come Leone assuma un atteggiamento ingenuo nei confronti della
parola, dal momento che, con un’evidente e stridente contraddizione, professa la
fede korzybskiana senza coglierne il senso. Quello che il padre ci pone davanti
agli occhi non è altro che un ennesimo slogan, una vuota etichetta che si va a
sommare alle altre sulle quali in suo discorso è fondato, come dimostra anche la
frase che la moglie gli rivolge:
A. Korzybski, La struttura, in AA. VV., La semantica generale, a cura di M. Baldini, op. cit., p.
22
197.
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino, 2009, n°
3.221, p. 35.
24
Cfr. ivi, n° 2.17, p. 31.
25
Ivi, n° 4.12, p. 50.
23
Fermenti 47
La targhetta non è l’uomo! Me lo hai ripetuto tante volte26,
ove si vede come pure lei sia assoggettata dalla formula utilizzata dal marito.
Vian smaschera Leone, ce lo mostra in tutta la sua inconsapevolezza semantica,
preda dello stereotipo che, come Barthes ha notato, è sempre la verità d’altri27,
anche se questo altri dovesse essere Korzybski stesso. Persino la madre non
è indenne dalla formula, la quale, nelle sue parole, prende la forma del tòpos
poetico, completamente fuori luogo e per questo viziato:
MADRE (declama) Dove corriamo, donde veniamo, che importa – si conduce
la vita, di porta in porta… (S’interrompe) Non è esattamente così…
PADRE L’inizio era buono. Perché non continui?
MADRE La stanchezza…28
Un ridicolizzare la lingua costituita, eretta a norma fissa e inviolabile, ecco
che cosa è I costruttori di imperi:
Toute la pièce va nous montrer des personnages incarnant un langage
fortement connoté socialement, cherchant à s’imposer par lui, ou à se réfugier
en lui ; cherchant beaucoup plus à faire correspondre la réalité spécifique qui les
entoure au modèle transmis dans le langage qui leur sert à la nommer ou à en
parler (quitte pour cela, à la mutiler) qu’à essayer de trouver un nouveau langage
pour vivre cette réalité.29
Anche Wittgenstein mette in luce come i limiti del linguaggio costituiscano
in realtà i limiti del proprio mondo:
Questo pensiero dà la chiave per decidere la questione, in che misura il solipsismo sia una verità.
Ciò che il solipsismo intende è in tutto corretto; solo, non si può dire, ma
mostra sé.
Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (del
solo linguaggio che io comprendo) si­gnificano i limiti del mio mondo.30
Perché lo stereotipo è confortante e fondante, soprattutto per chi si rifugia in
esso per proteggersi e per evitare di mettere in discussione il proprio linguaggio
e, con questo, se stesso. Per contro assume quindi un valore simbolico ed emblematico la figura dello Schmürz, il personaggio onnipresente sulla scena, mal
menato dalla madre e dal padre eppur perennemente muto, quasi una presenzaassenza; ecco come Vian lo introduce:
In un angolo c’è già lo Schmürz. È tutto avviluppato di bende e vestito di
B. Vian, I costruttori di imperi, in Id., Teatro, op. cit., p. 215.
Cfr. R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1979, p. 38.
28
B. Vian, I costruttori di imperi, in Id., Teatro, op. cit., pp. 214-215.
29
P. Gauthier, Schmurz, discours et parole, in AA. VV., Boris Vian: Colloque de Cerisy, direzione di
N. Arnaud e H. Baudin, op. cit., vol. II, pp. 97-98.
30
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op. cit., n° 5.62. pp.
88-89.
26
27
Fermenti 48
stracci. Ha un braccio al collo e si appoggia a un bastone. Zoppica, sanguina, ha
un aspetto brutto. Se ne sta rincantucciato in un angolo.31
Questa figura viene censurata dalla madre e dal padre, solo Zenobia e Cruche
ne prendono in considerazione l’esistenza, anche se la serva sarà costretta dai
suoi padroni a percuotere l’uomo contro la sua volontà, fino al momento in cui,
emancipatasi, rinnegherà le regole linguistiche della famiglia abbandonando il
lavoro, dacché, come Barthes annota:
[…] è illusorio voler contestare la nostra società senza mai pensare i limiti
stessi della lingua con cui (rapporto strumentale) noi pretendiamo di contestarla
[…].32
Perché sia ben evidente questa dicotomia tra il vizio della nomenclatura, del
fissaggio in categorie e la realtà nella sua totalità è necessario che
[…] le Schmürz, aux consonances et à l’aspect étrange (étranger), sauvage
(en face de la parole domestiquée qu’est le discours) soit un nom qui n’est pas
un nom, un anti-nom, un « quelque chose » qui n’a pas son « étiquette » dans le
langage du Père et de la Mère.33
Allo stesso modo il Rumore che mette in fuga i protagonisti è identificato
mediante il generico appellativo di “rumore”, poiché proveniente dal di fuori del
sistema linguistico eretto dal padre. Come lo Schmürz, anche il sinistro suono è
costantemente ignorato, nonostante sia il movente principale della continua risalita sulla scala dei piani da parte dei protagonisti, i quali, colti dal terrore appena
l’odono, s’apprestano ad abbandonare la loro abitazione occupandone un’altra al
piano superiore, con un movimento esattamente inverso a quello dell’avvocato
Giuseppe Corsi, protagonista del racconto Sette piani di Buzzati;
ZENOBIA E quanti piani restano sopra di noi?
PADRE (molto sincero) Proprio non capisco la domanda.
ZENOBIA E se il rumore ricomincia?
MADRE Ma quale rumore?34
Il Rumore non ha un nome ma solo una presenza, allo stesso modo dello
Schmürz. E lo Schmürz sarà l’unico personaggio a gioire al risuonare del rumore,
forse a testimoniare che ai due compete la medesima natura:
[…] Il rumore cessa, tutti, tranne lo Schmürz, appaiono sollevati35;
Si sente vagamente il Rumore, e tutti s’immobilizzano tranne lo Schmürz che
continua ad agitarsi lentamente36;
B. Vian, I costruttori di imperi, in Id., Teatro, op. cit., p. 210.
R. Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino, 1984, p. 13.
33
P. Gauthier, Schmurz, discours et parole, in AA. VV., Boris Vian: Colloque de Cerisy, direzione di
N. Arnaud e H. Baudin, op. cit., vol. II, p. 98.
34
B. Vian, I costruttori di imperi, in Id., Teatro, op. cit., p. 231.
35
Ivi, p. 223.
36
Ivi, p. 231.
31
32
Fermenti 49
[…] Il rumore cresce di intensità. Il padre e la madre sono pietrificati. La
madre è atterrita ma immobile. Il padre ha lasciato cadere il libro. Il Rumore si
allontana. La madre va alla porta, cerca di aprire. Il braccio ricade. Lo Schmürz
sembra divertirsi un mondo.37
Dalle parole di Vian stesso sappiamo che “Schmürz” era una parola inventata
da Vian e dalla sua seconda moglie Ursula per connotare qualche cosa di indefinibile. Ne desumiamo che lo Schmürz, così come ci è presentato nell’opera, è
colui che sfugge a qualsiasi definizione, la parte inconoscibile e indicibile della
realtà. Vian ci restituisce, attraverso il suo personaggio, un principio chiave della
semantica generale, quello della non-totalità del linguaggio, secondo cui
[…] il linguaggio, per quanto fitta sia la sua rete semantica, non ci può dire
tutto su un evento.38
Il linguaggio non è mai esaustivo; lo Schmürz e il Rumore sono ciò che
esso non può intrappolare nei suoi schemi troppo rigidi e istituzionalizzati, la
porzione di realtà che si vuole far finta di non vedere ma che pure si mostra, dal
momento che
Ciò che può esser mostrato non può esser detto.39
Viene da chiedersi allora se lo strano personaggio e l’atterrente suono non
siano essi stessi metafora della struttura linguistica, la quale non può esprimersi
nel linguaggio, dacché è nel linguaggio che si riflette, ma solo esibirsi in esso.
Un’interpretazione di questo tipo mi pare supportata qualora ci si voglia attenere
alla precisa formulazione che Wittgenstein fornisce di tale concetto:
La proposizione non può rappresentare la forma logica; questa si specchia in
quella.
Ciò, che nel linguaggio si specchia, il linguaggio non può rappresentare.
Ciò, che nel linguaggio esprime sé, noi non possiamo esprimere mediante il
linguaggio.
La proposizione mostra la forma logica della realtà. L’esibisce.40
Ne consegue che una parte di realtà viene per forza di cose taciuta poiché,
essendo strutturalmente affine al linguaggio, non può essere detta. L’uomo è
dunque costretto ad una sorta di mutismo a causa dell’insufficienza del suo
sistema linguistico. E lo Schmürz, non è forse egli stesso un personaggio muto,
sia pure per libera scelta o per sua natura? È utile ricordare come pure l’etimologia leghi il termine “mistero”, dunque l’inconoscibile, al concetto del silenzio.
Probabilmente alla conoscenza si perviene solo mediante il silenzio, ponendosi
al di fuori di ogni sistema linguistico, cui è connaturata la limitatezza.
Ivi, p. 241.
AA. VV., La semantica generale, a cura di M. Baldini, op. cit., p. 24.
39
L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, op. cit., n° 4.1212, p. 51.
40
Ibid., n° 4.121.
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Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere41,
concludeva amaramente Wittgenstein nel Tractatus, decretando la crisi definitiva del linguaggio. Di pari passo mi pare che proceda il ragionamento di Wolf,
ne L’erba rossa:
«Dentro era rossa. Rossa e appiccicosa come sangue denso».
«Non è sangue,» disse Lazzuli, «probabilmente è una condensazione…»
«Che significa sostituire a un mistero una parola» disse Wolf. «Il risultato è un
altro mistero, ecco tutto. Si comincia così e si finisce col fare della magia».42
Con la parola non si arriva alla conoscenza assoluta, oggettiva, ma solo alla
definizione, dal momento che, seguendo Korzybski:
La conoscenza è dunque personale ed individuale.43
Questo aspetto è stato sottolineato dallo stesso Korzybski allorché egli,
parlando dei gradi di astrazione che il linguaggio opera rispetto all’oggetto,
spiega come l’object-level, ovvero il livello neutrale all’interno del quale solitamente avviene la percezione, sia fondamentalmente non-verbale:
«[…] Noi possiamo sederci su di un oggetto chiamato “sedia”, ma non
possiamo sederci sul rumore che facciamo o sul nome che applichiamo a
quest’oggetto. È della massima importanza per il presente sistema non-aristotelico non confondere il verbal level con l’objective level» […]. Questo livello,
scrive Korzybski, «non è fatto di parole, e non può essere raggiunto mediante
le parole. Noi dobbiamo tendere il nostro indice e rimanere in silenzio o noi non
raggiungeremo mai questo livello […]».44
Il linguaggio astrae, dunque opera cesure, mutilazioni nel reale, allo stesso
modo della madre e del padre che escludono arbitrariamente dal loro Discorso
(nel senso conferito a questo termine da Lefebvre) lo Schmürz e il Rumore.
Il significato base di «astrarre», «astrazione», implica «selezione», «scelta»,
«separazione», «sintesi», «deduzione», «rifiuto», «omissione», «liberazione»,
«rimozione», «semplificazione» […]45,
afferma Korzybski, ed ecco che immediatamente siamo condotti al problema
della cesura che il linguaggio opera sul reale. A queste censure si oppongono
quindi le enumerazioni di Cruche, la quale, in questa maniera, tenta di esaurire
tutte le possibili combinazioni di stati di cose; questo atteggiamento
[…] n’est rien d’autre qu’une application, dans le langage de la communi Ivi, n° 7, p. 109.
B. Vian, L’erba rossa, op. cit., pp. 80-81.
43
A. Korzybski, La capacità di astrarre, in AA. VV., La semantica generale, a cura di M. Baldini,
op. cit., p. 210.
44
AA. VV., La semantica generale, a cura di M. Baldini, op. cit., p. 33.
45
A. Korzybski, La capacità di astrarre, in AA. VV., La semantica generale, a cura di M. Baldini,
op. cit., p. 216.
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