Paesaggi migratori - Archivi fluidi e disseminazioni digitali

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Paesaggi migratori - Archivi fluidi e disseminazioni digitali
Melusine
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Edizione originale:
Migrancy, Culture, Identity
Copyright © 1994, Iain Chambers
Prima edizione: Routledge, 1994
Copyright © 2003 Meltemi editore srl, Roma
Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani
È vietata la riproduzione, anche parziale,
con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia,
anche a uso interno o didattico, non autorizzata.
Meltemi editore
via dell’Olmata, 30 – 00184 Roma
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Iain Chambers
PAESAGGI
MIGRATORI
Cultura e identità
nell’epoca
postcoloniale
MELTEMI
Indice
p.
7
Prefazione all’edizione italiana
9
Introduzione
Un ritorno impossibile
19
Capitolo primo
Paesaggi migratori
Alla deriva nella pagina - Un dialogo appena iniziato - Lo
sguardo obliquo - Territori dell’imprevisto - Il taccuino dello
straniero - La finzione dell’identità - La frattura - Radicato nello sradicato - Esposizione - Il limite - Una partenza perpetua
61
Capitolo secondo
Passeggiata uditiva
67
Capitolo terzo
Le macchine del desiderio
79
Capitolo quarto
Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
Voci - La disgregazione dell’autenticità - Passaggi culturali e
la poetica del luogo
105
Capitolo quinto
Città senza mappe
“Je suis un beur!” - In viaggio senza mappe - Vacanze in
Giappone - La rovina - Ai piedi del Vesuvio - Dalla strada al
globo - Nessuna equazione
131
Capitolo sesto
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
Il mondo contaminato - Un mare di storie - Una rimozione
storica - La mostruosità della ragione - Il senso del silenzio
- Le scorie della storia - Oltre il multiculturalismo - Sporcare
il pensiero - L’inquietudine del mondo
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Bibliografia
Prefazione all’edizione italiana
La nuova edizione di questo volume è stata suggerita dall’attualità persistente dei suoi argomenti, ora rivisti e riproposti in un
nuovo capitolo finale dove ho cercato di approfondire, riportandoli a “casa”, alcuni dei temi principali elaborati in precedenza.
In una congiuntura caratterizzata dal dominio dei linguaggi mediatici, il desiderio di un’autoconferma individuale e collettiva acquista piena espressione nella spettacolarizzazione del mondo dove
tutto appare consensualmente scontato, senza spiacevoli sorprese
o sgradite interruzioni critiche. Qui in Italia tale senso delle cose –
favorito da una cultura del “buonismo”, a sua volta sostenuto dalla volontà del lieto fine – è spesso sottoscritto da un esteso storicismo in cui tutto sembra essere dispiegato in anticipo. In questo
clima ci si trova ad assistere a una chiusura culturale che arriva al
suo punto massimo nell’isteria socio-politica generata dalla questione dell’immigrazione, accompagnata dalla difesa rigida di un’identità storica e di un “io” racchiuso nella presunta sicurezza di
una località metafisica. Dinanzi alla minaccia immaginata dello
straniero, tale “soluzione” rappresenta un congedo dai movimenti,
spesso turbolenti e sconvolgenti, dei complessi processi storici e
culturali del mondo attuale. Viene qui toccato un fondo di conservatorismo culturale che si estende ben oltre gli attuali schieramenti politici.
Nessuno vuole essere disturbato. La difesa dell’attuale organizzazione di un campo del sapere (e del potere) è anch’essa scontata, nonostante neghi il senso di qualsiasi grammatica critica. Di
Iain Chambers
Paesggi migratori
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fronte alle innovazioni proposte da un approccio interdisciplinare,
reso ulteriormente destabilizzante dalla provenienza altra, come
nel caso degli studi culturali e postcoloniali, si difende la propria
identità culturale cercando rifugio nell’autorità delle tradizioni e
delle istituzioni locali. Nel contesto attuale, gli argomenti elaborati nelle pagine seguenti vogliono suggerire una sfida culturale;
essi cercano di trasmettere un invito a ripensare (e riconfigurare)
la storia e la cultura in cui saranno eventualmente recepiti; vi si
tratta della storia e della cultura occidentale, certamente, ma anche di quella più immediata e viscerale. Come una piccola scheggia questo volume aspira al senso inaspettato dello spaesamento, e intende suggerire un rapporto radicalmente diverso, più inquietante, con la propria formazione storico-culturale.
Vorrei ringraziare «l’Unità», gli organizzatori di Documenta 11
(Kassel) e i curatori del PMLA (New York), per aver inizialmente
ospitato alcuni degli argomenti riportati nell’ultimo capitolo.
I. C., settembre 2002
Introduzione
Un ritorno impossibile
Se ripensiamo la cultura (…) in termini di
viaggio, l’interpretazione organica naturalizzante del termine cultura vista come un corpo dotato di radici che cresce, vive, muore,
eccetera, viene messa in discussione.
Balzano agli occhi più nettamente storicità
costruite e controverse, punti di spostamento, interferenza e interazione.
James Clifford (1992, p.101)
La spaesatezza diviene un destino mondiale.
Martin Heidegger (1981, p. 292)
Mi sono accorto, un giorno, che una cosa
m’importava più di altre: quale definizione
dare di me in quanto straniero? (…) Mi sono poi accorto che, nella sua vulnerabilità, lo straniero poteva contare soltanto
sull’ospitalità che altri poteva offrirgli.
Proprio come le parole beneficiano
dell’ospitalità loro offerta dalla pagina
bianca e l’uccello di quella senza condizione che gli offre il cielo.
Edmond Jabès, 1991
Sulle autostrade del sud della California, intorno a Tijuana, nei
pressi del confine con il Messico, ci sono cartelli stradali che
generalmente si riferiscono all’incontro tra natura e cultura:
simboli di cervi che saltano o orsi in cerca di preda, per avvertirci del pericolo che ci taglino la strada. Ma questa volta l’immagine è diversa, allude al traffico interculturale. Il disegno
rappresenta gente a piedi. Gente che nel tentativo disperato di
sfuggire a un destino di povertà, tagliando il filo spinato sul
confine o strisciandoci sotto e scansando le automobili in cor-
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
sa, attraversa di corsa il nastro di asfalto per scappar via dal
passato e insediarsi nella promessa del Nord.
Questa disperata scena di speranza e migrazione è un frammento, invariabilmente colto in una foto sulla stampa, al telegiornale, in un documentario televisivo, nelle statistiche sull’immigrazione illegale, ma nonostante ciò molto illuminante
rispetto alla gran parte del paesaggio in cui viviamo. Quando
il Terzo Mondo non è più tenuto a distanza laggiù, ma comincia ad apparire qui, quando l’incontro tra culture, storie, religioni e lingue diverse non si verifica più lungo il perimetro,
nelle “zone di contatto” (Pratt 1992), ma emerge al centro
della nostra vita quotidiana, nelle città e nelle culture del cosiddetto mondo avanzato o Primo Mondo, forse allora possiamo cominciare a parlare di un’interruzione significativa nel
senso precedente delle nostre vite, culture, lingue e prospettive future
Non intendo dire con questo che Londra e Lagos siano oggi
semplicemente centri urbani separati dal punto di vista geografico e mantenuti insieme nella comune sintassi dei media
metropolitani globali. Possono avere in comune certi beni,
abitudini, stili e linguaggi, ma a ogni cosa che condividono
corrisponde anche un travisamento, un’inflessione, un idioletto locale. Non sono solo due città distinte dal punto di vista
fisico, ma rimangono fortemente differenziate in termini economici, storici e culturali. Ciononostante, queste differenze
non sono sempre e inevitabilmente barriere ed esempi di divisione. Possono anche fungere da cardini che servono sia per
chiudere che per aprire porte in un traffico globale in via di
intensificazione.
Inoltre la migrazione, insieme all’enunciazione di confini e punti
di passaggio tra culture, è profondamente impressa negli itinerari di gran parte del pensiero contemporaneo. Migrazione ed esilio, come sottolinea Edward Said, comportano un “modo di essere discontinuo”, una specie di bisticcio con il luogo da cui si
proviene, e sono quindi stati trasformati “in un poderoso motivo ricorrente della cultura moderna, che addirittura la arricchisce” (Said 1990a). Infatti:
Un ritorno impossibile
Un viaggio simile assume la forma di un’interrogazione incessante che disfa i suoi stessi termini di riferimento quando lungo la strada si perde il punto di partenza. Se esilio presuppone una casa da cui si parte e, alla fine, la promessa di un ritorno, gli interrogativi che si incontrano en route infrangono
costantemente i confini di un simile itinerario. Le possibilità di
continuare a identificarsi con queste premesse si affievoliscono
e vengono meno. Il ricordo della perdita primaria, iscritto indelebilmente nel divenire incerto del viaggio di andata, ha fatto
dell’esule un simbolo caratteristico dei nostri tempi. Una tendenza significativa della riflessione critica odierna di fronte al
restringersi della ragione europea, che un tempo pretendeva di
parlare a nome di tutto e di tutti, consiste nell’adottare metafore di movimento, migrazione, mappe, viaggio e, talvolta, di
un turismo apparentemente superficiale. Tuttavia queste metafore non sono limitate alla genealogia di un paradigma critico
particolare o circoscritte nel piano di un indirizzo teorico. Per
quanto possiamo cinicamente scegliere di leggere nelle recenti
peregrinazioni intellettuali soltanto l’ultima svolta nel racconto
continuo del potere intellettuale occidentale e patriarcale, che
cerca di addomesticare gli altri e di estendere il proprio dominio su chi era escluso e silenzioso, è chiaro che sta succedendo anche qualcos’altro. Negli attuali processi di globalizzazione
incessante ci troviamo sempre più spesso di fronte a una vasta diversità culturale e storica che si rivela impermeabile alle
spiegazioni cui ricorriamo di solito. È questa sfida complessa e
persistente al mondo in cui siamo abituati a vivere che suggerisce con forza che non stiamo semplicemente assistendo all’ultima distensione della molla, liberale e cedevole, dell’eclettismo mentale.
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L’esule sa che, in un mondo secolare e contingente, le case sono
sempre provvisorie. Confini e barriere che ci circondano con la sicurezza di un territorio famigliare possono anche trasformarsi in prigioni e spesso vengono difesi al di là della ragione o della necessità. Gli esuli attraversano le frontiere, abbattono le barriere del pensiero e dell’esperienza (p. 365).
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
Infatti alcune recenti aperture del pensiero critico, fomentate da
spostamenti interni nel cuore dell’Occidente (femminismo, decostruttivismo, psicoanalisi, pensiero postmetafisico), si sono sempre più accentuate per effetto dell’interrogativo persistente posto da una presenza che non si trova più altrove: il ritorno degli
oppressi, dei subordinati e dei dimenticati nelle musiche, nelle
letterature, nelle povertà e nelle popolazioni del Terzo Mondo
che vengono a occupare le economie, le città, le istituzioni, i
media e il tempo libero del Primo Mondo.
La punteggiatura così fortemente connotata del copione cosmopolita, destinato a essere riconosciuto come parte della nostra
storia e a essere teletrasmesso in occasione di future sommosse
degli spodestati metropolitani, ci obbliga a riconoscere la necessità di un modo di pensare che non è né fisso né stabile, ma
aperto alla prospettiva di un continuo ritorno agli eventi, alla loro rielaborazione e revisione. Questo rinarrare, recitare e risituare ciò che passa per conoscenza storica e culturale dipende dal
ricordare e rimembrare tracce e frammenti precedenti, che si accendono e sfavillano nel nostro “momento di pericolo” attuale,
mentre si perpetuano in nuove costellazioni (Benjamin 1955c).
Sono frammenti che restano frammenti, schegge di luce che illuminano il nostro viaggio gettando al tempo stesso ombre interrogative sulla strada.
La fede nella trasparenza della verità e il potere delle origini
di definire la finalità del nostro viaggio si disperdono a causa
di questo perpetuo movimento di trasmutazione e trasformazione. La storia viene mietuta e raccolta per essere assemblata, fatta parlare, rimembrata, riletta e riscritta e la lingua prende vita nel transito, nell’interpretazione. Parlare di questa eredità, fare riferimento alla storia, così come alla traduzione o
alla memoria, equivale sempre a parlare dell’incompleto, del
non interamente decifrabile. Significa tradire qualsiasi speranza
di trasparenza. Perché tradurre è sempre trasformare, comporta
sempre un necessario travestimento della metafisica di autenticità od origini. Ci troviamo a usare una lingua che è sempre
adombrata da una perdita, da un altrove, da un fantasma: l’inconscio, un “altro” testo, un’“altra” voce, un “altro” mondo,
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Un ritorno impossibile
una lingua “fortemente influenzata dalla lingua straniera”
(Rudolf Pannwitz in Benjamin 1955a).
L’esperienza nomade del linguaggio, che vaga senza fissa dimora, abita ai crocevia del mondo, regge il nostro senso dell’essere e della differenza, non è più l’espressione di una storia o di
una tradizione unica, anche se finge di portare un solo nome. Il
pensiero vaga. Migra, va tradotto. E la ragione corre il rischio di
affacciarsi sul mondo, di trovarsi in un passaggio privo di fondamenta o finalità rassicuranti: un passaggio aperto ai cieli mutevoli dell’esistenza e dell’illuminazione terrestre. Non più protetto
dagli dei o dalla loro secolare risurrezione nei panni di un razionalismo imperioso o di una proiezione positivista, il pensiero
corre il pericolo di diventare responsabile di se stesso e della
salvaguardia dell’essere, e la sua unica protezione, come ci ricordano Rilke e Heidegger, sta proprio nell’assenza di protezione (Heidegger 1962b).
Questo inevitabilmente implica un senso diverso di “dimora”,
di essere nel mondo. Significa concepire la residenza come un
habitat in movimento, come un modo per occupare il tempo e
lo spazio non come se fossero strutture fisse e conchiuse, ma
in quanto forniscono la provocazione critica di un’apertura la
cui presenza interrogativa riecheggia nel movimento delle lingue che costituiscono il nostro senso di identità, di luogo e
di appartenenza. Non esiste un luogo, una lingua o una tradizione che possa vantare questo ruolo, perché sebbene il viaggio dal centro alla periferia, alla ricerca dell’inaspettato, del
bizzarro e del meraviglioso, domini forse ancora questa letteratura – per esempio questo libro – le storie di questo genere
in ultima analisi rappresentano una debole eco della massa di
viaggi, migrazioni e trasferimenti che tanta gente proveniente
da altrove ha affrontato e continua a sperimentare. Così finalmente io arrivo a sperimentare la violenza dell’alterità, di altri
mondi, lingue e identità, e in essi finalmente scopro che il
mio stare è sostentato da incontri, dialoghi e conflitti con altre storie, altri posti, altre persone. Il ritorno dell’“indigeno”
non segnala soltanto la drammatica necessità di “eliminare i
confini tra storia occidentale e non occidentale”, ma riporta al
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
centro la violenza che in origine caratterizzava gli incontri
che, nella lontana periferia, gettarono le basi del mio mondo
(Wolf 1982).
Questo quindi, necessariamente, non è neppure un resoconto di
viaggio, perché viaggiare implica un movimento tra posizioni fisse, un punto di partenza e uno di arrivo, presuppone che si conosca un itinerario. Il viaggio lascia sottintendere inoltre un possibile ritorno, un potenziale rientro alla base. La migrazione, invece, comporta un movimento in cui non sono immutabili o certi né i punti di partenza né quelli di arrivo, richiede che si risieda in una lingua, in storie, in identità costantemente soggette a
mutazione. Sempre in transito, la promessa di un ritorno a casa
– completando la storia, addomesticando la deviazione – diventa un’impossibilità. La storia cede il passo alle storie, così come
l’Occidente cede il passo al mondo.
Significa vivere in un altro paese in cui:
diventa più che mai urgente sviluppare una struttura di pensiero che
metta il migrante al centro, e non alle dipendenze, dei processi storici. Abbiamo bisogno di disarmare la retorica genealogica del sangue, della proprietà e delle frontiere e di sostituirla con un resoconto laterale delle relazioni sociali, che sottolinei la contingenza di tutte le definizioni del sé e dell’altro da sé e la necessità di camminare
con passo leggero (Carter 1992, pp. 7-8).
Tutto questo significa forse che non ho nulla da dire, che
ogni gesto che ha inizio in Occidente è intrinsecamente imperialista, nient’altro che l’ultimo esempio dell’estensione del
mio potere nei confronti degli altri? Forse è qui che le implicazioni etiche e politiche degli argomenti avanzati in questo libro si possono più chiaramente interpretare come un tentativo di spezzare il circolo vizioso tra coloro che parlano e coloro per cui si parla. Infatti forse imparo a camminare con passo leggero lungo i limiti del luogo da cui parlo intromettendomi nel mio parlare, scoprendo le lacune e ascoltando i silenzi
della mia eredità. Comincio a capire che dove ci sono limiti,
esistono anche altre voci, altri corpi, altre parole, dall’altra
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Un ritorno impossibile
parte, al di là dei miei confini specifici. Nell’inseguire i miei
desideri oltre queste frontiere, paradossalmente sono costretto ad affrontare i miei confini, insieme con quell’eccesso che
cerca di sorreggere i dialoghi che li attraversano. Trasportato
in qualche modo in questo territorio di confine, guardo uno
spazio potenzialmente ulteriore: la possibilità di un altro posto, un altro mondo, un altro futuro.
Le molteplici diaspore della modernità, messe in moto dalla
“modernizzazione”, l’economia sempre più globale e le conseguenti migrazioni, spesso imposte in maniera brutale, di individui e popoli interi dalle periferie verso le metropoli euroamericane e le città del Terzo Mondo, sono di una grandezza e intensità tale che rendono drammaticamente insignificanti, al confronto, i viaggi secondari e in gran parte metaforici del pensiero intellettuale. L’analogia è rischiosa. C’è sempre il fascino ovvio dell’addomesticamento romantico, del ritorno a casa, arricchito dalle figure poetiche del viaggio e dell’esule. Ma è un rischio da correre, perché le migrazioni moderne di pensiero e
persone sono fenomeni profondamente radicati nelle traiettorie
e nei futuri reciproci.
Essere costretti ad attraversare l’Atlantico come schiavi in catene, ad attraversare illegalmente il Mediterraneo o il Rio Grande
diretti verso Nord e pieni di speranza, o anche sudare nelle
lente code davanti alla burocrazia stringendo in mano passaporti e libretti di lavoro, significa prendere l’abitudine di vivere
a metà strada fra mondi diversi, prigionieri di una frontiera che
corre lungo la propria lingua,, religione, musica, il proprio modo
di vestire, di apparire e di vivere. Venire da altrove, da “là” e
non da “qui”, e pertanto essere al tempo stesso “dentro” e
“fuori” dalla situazione presente, significa vivere all’intersezione
tra storie e memorie, sperimentando sia la loro dispersione
preliminare sia la successiva traduzione in nuovi e più ampi assetti lungo percorsi emergenti. Significa al tempo stesso incontrare i linguaggi dell’impotenza e i possibili indizi di futuri eterotopici. Questo dramma, che di rado è frutto di una libera
scelta, è anche il dramma dello straniero. Tagliato fuori dalle
patrie della tradizione, vivendo un’identità messa costantemen-
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
te in discussione, lo straniero deve continuamente mettersi a
proprio agio in una discussione tra un’eredità storica dispersa e
un presente eterogeneo.
In quanto tale lo straniero, uomo o donna che sia, è una figura
emblematica che attira la nostra attenzione sulle urgenze del
nostro tempo: una presenza che mette in discussione il nostro
presente. Lo straniero minaccia la “classificazione binaria messa
in opera nella costruzione dell’ordine” e ci introduce all’arcano
spostamento dell’ambiguità (Bauman 1990, pp. 150-151). Lo
straniero, fantasma che adombra ogni discorso, è l’interrogazione allarmante, l’estraniazione che esiste in potenza dentro ciascuno di noi. È una presenza persistente, incancellabile, che mi
attira fuori da me stesso verso l’altro. È l’insistenza dell’altra
faccia che carica il mio obbligo nei confronti di “quella estraneità che non si può eliminare, il che significa che è il mio obbligo a non poter essere cancellato” (Lévinas 1988). In quanto
“sintomo che rende appunto il ‘noi’ problematico, forse impossibile, lo straniero comincia quando sorge la conoscenza della
mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri”
(Kristeva 1988, p. 9). Questo decentramento dell’“individuo”
classico porta all’indebolimento e alla dispersione dell’episteme
razionalista, del cogito occidentale, che una volta ancorava e
garantiva il soggetto come fulcro privilegiato della conoscenza,
della verità e dell’essere.
In questo incontro il pensiero critico è costretto ad abbandonare qualsiasi pretesa a una sede fissa, quasi offrisse un fondamento stabile su cui poter costruire allegramente il senso
della nostra vita. Le sue adiacenze non sono solide, né le sue
coordinate immutabili. Non è una dimora permanente, ma
piuttosto una provocazione: una piattaforma, una zattera da
cui scrutiamo l’orizzonte alla ricerca di segni mentre galleggiamo fra le correnti agitate del mondo. Costruito continuamente
con i rottami e i frammenti portati dalle tempeste che chiamiamo “progresso”, il pensiero critico riscrive le tavole della
memoria, mentre cerchiamo di trasformare da punto di arrivo
a punto di partenza le nostre storie, le nostre lingue e i nostri
ricordi1.
Un ritorno impossibile
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1 La “tavola della mia memoria” (Amleto), le tavole, tavolette e leggi che vengono
continuamente costruite, iscritte, scritte e riscritte “e anche una tavola, una tabula,
che permette al pensiero di agire sulle entità del nostro mondo” (Foucault 1966, p.
9). Il resto della frase riecheggia la celebre osservazione di Walter Benjamin sul “progresso” e l’angelo della storia di Tesi sulla filosofia della storia (Benjamin 1955c).
Capitolo primo
Paesaggi migratori
Alla deriva nella pagina
La migrazione è un viaggio di sola andata. Non
c’è una “casa” a cui fare ritorno.
Stuart Hall (1987, p. 44)
Il paesaggio immaginario di una ricerca non è senza valore, anche se senza rigore. Esso ridà vita a
quella che veniva chiamata “cultura popolare”, ma
allo scopo di trasformare ciò che veniva rappresentato come forza matrice della storia in un’infinità
mobile di tattiche. In questo modo ci presenta la
struttura di un’immaginazione sociale in cui il problema prende forme sempre diverse e ricomincia
daccapo; respinge gli effetti di un’analisi che per
forza di cose coglie queste pratiche solo ai margini
di un apparato tecnico, dove esse alterano o sconfiggono i suoi strumenti. Lo studio è marginale rispetto ai fenomeni studiati. Il paesaggio che rappresenta questi fenomeni in modo immaginario ha
quindi un valore correttivo e terapeutico, in quanto
Paesaggi migratori
Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni
opinione è anche un nascondiglio, ogni parola
anche una maschera.
Friedrich W. Nietzsche (1886, p. 201)
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Sulla punta della perenne oscurità di nuovi inizi.
A. H. Reynolds1, 1990
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Paesaggi migratori
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si oppone alla loro riduzione attraverso un esame
laterale. Come minimo assicura la loro presenza
sotto forma di spettri. Questo ritorno a un’altra scena ci ricorda il rapporto che esiste fra l’esperienza
di queste pratiche e ciò che rimane di loro nell’analisi. È una prova, una prova fantastica e non scientifica, della sproporzione fra tattiche quotidiane e
delucidazione strategica. Di tutte le cose che ognuno fa, quanto finisce sulla carta? Fra le due, l’immagine, il fantasma del corpo esperto ma muto, preserva la differenza.
Michel de Certeau (1988, pp. 41-42)
Si inizia con dei segni sul foglio, il movimento della calligrafia,
perché scrivere, naturalmente, è viaggiare. Implica entrare in
uno spazio, una zona, un territorio talvolta segnalato con indicatori generici (racconti di viaggio, autobiografia, antropologia,
storia…), ma ovunque caratterizzato dal movimento: il passaggio
delle parole, la carovana del pensiero, il flusso dell’immaginario,
lo slittamento della metafora, “la deriva nella pagina… gli occhi
raminghi” (de Certeau 1988, p. XXI). Qui scrivere (e leggere) non
implica necessariamente un progetto atto a penetrare il reale,
duplicarlo e re-citarlo, ma piuttosto un tentativo di allargarlo,
scompigliarlo e rilavorarlo. Per quanto allegorica, sempre intenta
a parlare di un altro, di un altrove, e pertanto condannata a essere dissonante, la scrittura apre uno spazio che invita al movimento, alla migrazione, al viaggio. Implica mettere una certa distanza fra noi e i contesti che definiscono la nostra identità.
Scrivere, pertanto, sebbene a prima vista sia un gesto imperialista in quanto si propone di stabilire un percorso, una traiettoria, un territorio e un dominio di percezione, potere e conoscenza, per quanto limitato e transitorio, può anche implicare il rifiuto della dominazione ed essere invocato come traccia transitoria, come gesto d’offerta: un dono, enigmatico presente di una
lingua che tenta di rivelare un’apertura in noi stessi e nel mondo che abitiamo. È anche il paradosso della scrittura: come
l’ambiguità del viaggio, parte da materiali noti – una lingua, un
Il punto dell’autore, il punto di arrivo, diventa il punto di partenza e il confine della frase viene superato dal surplus della lingua.
In questo modo scrivere diventa un documentario di viaggio, un
costante attraversamento della soglia che separa evento e narrazione, autorità e dispersione, repressione e rappresentazione, impotenza e potere, anonimo pretesto e iscrizione testuale accreditata. È un viaggio che finisce per passare e risiedere temporaneamente in quella discussa terra di confine in cui il resoconto ufficiale si disperde nell’infinito storico della narrazione indigena.
Non solo viene messa in discussione l’autorità particolare della
descrizione autorizzata e vengono accolte con scetticismo le rivendicazioni empiriche della realtà, ma viene spostato e messo in
dubbio lo status stesso dello scrivere, di lingua e testo. Come il
secchio bucato nel Cuore di tenebra di Conrad, la narrativa perde.
Come le isole di ordine e razionalità – rappresentate dalla stazione centrale e dal vapore che si inoltra lungo il Congo nell’interno
Paesaggi migratori
Infatti scrivere, come un gioco che sfida le sue stesse regole, è una
pratica in corso che si può dire tenda non tanto all’inserimento di
un “me” nella lingua, quanto alla creazione di un’apertura dove il
“me” scompare e l’“io” va e viene continuamente, come richiede la
natura del linguaggio (Trinh 1989, p. 35).
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lessico, un discorso, una serie di archivi – eppure cerca di
estrarre dai limiti del suo movimento, dall’esperienza del transito, un surplus, un eccesso che conduce a una possibilità imprevista e ignota.
Scrivere dipende dal sostegno dell’“io”, presunto appoggio della
voce d’autore, per trovare autorevolezza. Ma nel carattere provvisorio della scrittura questa struttura oscilla, viene messa in
dubbio, scompaginata e indebolita. Dunque abitiamo un discorso che porta in sé la critica della propria lingua e della propria
identità: infatti il viaggio dello scrivere implica un ritorno, a meno che non finisca in balbettio o in silenzio. Si perde qualcosa,
si guadagna qualcosa. Perdiamo la sicurezza del punto d’inizio,
del soggetto di partenza; guadagniamo un rapporto etico con la
lingua a cui siamo soggetti e in cui ci assoggettiamo a vicenda.
misterioso – diventano fragili e sospette, così la scrittura impara
la regola di “lasciare intatte le ambiguità” (Taussig 1991, p. 10).
Iain Chambers
Paesaggi migratori
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Un dialogo appena iniziato
In tutte le carte di questo paese, sia spagnole
sia inglesi, una lunga insenatura nell’isola Hoste
si chiama Tekenika. Gli indiani non usavano
quel nome né per quello né per altro luogo, ma
nella lingua Yahgan questa parola significa “difficile da vedere o da capire”. Senza dubbio l’insenatura era stata indicata a un indigeno il quale, alla domanda come si chiamava, aveva risposto “teke uneka”, intendendo: “Non capisco
che cosa volete dire”. Di lì il nome “Tekenika”.
E. Lucas Bridges (1951, p. 36)
Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero.
Edmond Jabès (1989, p. 11)
L’ingresso nel dialogo, in un senso della lingua che non soltanto
riflette cultura, storia e differenze, ma le produce anche, implica
una rottura con l’idea romantica di mondo visto come entità separata e conseguente alla nostra attenzione, quasi un “altro”
diametralmente opposto al nostro essere e al nostro pensiero:
l’esotico altrove, la differenza intatta, il mondo del “naturale” e
dell’“indigeno”.
Continuando così si arriverebbe ad affrontare la questione della differenza in termini puramente metafisici, stabilendo quindi
un altro monologo, un’altra modalità di etnocentrismo.
Prendere questa posizione non è altro che replicare la nostalgia della differenza e contrapporre alla corruzione della modernità una presunta “autenticità”. Riproduce semplicemente il
potere delle posizioni esistenti: io, osservatore nostalgico; tu,
indigeno, vittima della mia modernità. Stabilisce un circolo
chiuso che può confortare l’osservatore, ma che è incapace di
A., che ci porta caffè, brioche, spremuta di arancia e datteri
dolci ogni mattina, è marocchino. Ha vissuto con la famiglia
tutta la vita a Essaouira, una città di case bianche protetta da
una fortezza portoghese rosa, che dà le spalle al deserto e
offre la faccia ai venti caldi dell’Atlantico. Nell’albergo ci sono
poche persone. Facciamo amicizia. No, è una parola troppo
forte, troppo invadente, troppo romantica. C’è “feeling” fra
noi, ci troviamo reciprocamente simpatici. Così va meglio, è
più appropriato a quella che tutti e due sappiamo essere,
nonostante il successivo scambio di indirizzi, un’esperienza
transitoria.
Non parliamo gran che. Io balbetto reminiscenze di francese scolastico e lui fa di sì con la testa e ogni tanto mi travolge con un
fiume di parole. Naturalmente è L. a tenere le fila di questi incontri: la sua maggiore competenza linguistica e sociale sembra
dare un senso agli spazi vuoti fra i due uomini. A volte mi do-
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Paesaggi migratori
affrontare le condizioni che questi ha nominato. Noi, nella e
con la nostra differenza, ci ritroviamo presi nello stesso groviglio, nella stessa rete, nella stessa topologia. Non è solo la
potente esteriorizzazione simbolica dell’“altro” come nostro interlocutore che dobbiamo esaminare, ma anche le condizioni
di dialogo in cui sono impressi i poteri, le storie, i limiti e le
lingue diversi che permettono il processo di differenziazione.
Questo ci porta a un viaggio senza fine fra culture, lingue e
complesse configurazioni di significato e di potere.
Apre lo spazio al mondo postcoloniale e alla “possibilità di testi
fiction/storici alter/nativi capaci di creare un mondo in fase di
sviluppo liberandosi continuamente dei propri pregiudizi”
(Ashcroft, Griffiths, Tiffin 1989, p. 154). Si verifica una trasformazione incessante di un tempo singolo (la “modernità”, il “progresso”, l’“Occidente”) in ritmi e spazi multipli, mentre si affronta la distanza fra i mondi e le storie vengono distillate in un
senso specifico di posto e abitazione. Nel sincretismo di queste
pratiche culturali si può tradurre una lingua imposta – “inglese”,
“civiltà” occidentale, musica rock – trasformandola in ciò che lo
scrittore palestinese Anton Shammas chiama “patria”.
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
mando il motivo dell’interesse che A. nutre per me e io per lui.
Non posso scrivere la sua storia, eppure la sua presenza ha bisogno di un riconoscimento. Non posso ripresentarlo, completare
la sua storia, i suoi sogni e le sue passioni. Questo chiuderebbe
semplicemente il cerchio nello specchio distorto del mio io. Al limitare di una metafora postmoderna molto in voga – il deserto –
conosco un vero uomo del deserto. Eppure non posso rappresentarlo, non so come raffigurarlo in quello che voglio dire.
Potrei mettere insieme uno sfondo con pezzetti della cultura,
della politica e della storia del suo paese e in primo piano sistemare il colore della sua djellaba, il rumore dei suoi sandali o i
suoi tre figli visti di sfuggita in una passeggiata serale. Ma anche
se lo frammentassi e lo ripresentassi con queste schegge non
andrebbe bene. Ha la sua storia. Lì, con i suoi abiti, la sua lingua, la sua casa, i gesti con cui indica dove si mangiano i migliori tajines, bstilla, couscous, sardine. A. ha una voce, una presenza. È subalterna, forse colonizzata, certamente per i nostri valori repressa, invariabilmente rinchiusa nei limiti di località, tradizione e – perché no? – turismo, per il quale lui va bene com’è. I
nostri incontri sono circoscritti, la conversazione determinata dalle nostre rispettive ubicazioni, il suo significato crudamente incompleto e non sempre comprensibile. Eppure, durante i nostri
brevi scambi di parole e nella glossa connettiva in cui L. cerca
gentilmente di racchiuderli, si può riconoscere l’etica di uno spazio. Qui i mondi si incontrano. Nel silenzio fra le parole udiamo
il mormorio potenziale di un dialogo appena incominciato.
Lo sguardo obliquo
L’esperienza gli aveva insegnato che in situazioni del genere non si poteva fare assegnamento sulla ragione. C’era sempre
un elemento extra, misterioso e non del
tutto afferrabile, col quale non si erano
fatti i conti.
Paul Bowles (1990, p. 111)
Stipato sotto la cupola bianca del Sacro Cuore di Montmartre e
il profilo distante della Tour Eiffel c’è Barbès. I treni bianchi e
celesti del métro passano accanto al boulevard de la Chapelle,
oltre il mercato del sabato mattina dove la lingua predominante
è l’arabo. I banchi sono pieni di verdure fresche (mango, banane verdi, patate dolci), pesce, sacchi di couscous, montagne di
menta. L’abbigliamento è per lo più un misto di maschio urbano
– jeans e camicia aperta – e di abiti e turbanti variopinti
dell’Africa occidentale.
Lo stereotipo – il “nero”, l’“indiano”, l’“indigeno”, l’“altro” –
crolla sotto il peso di questa complessità. Teso fra storie diverse
si rompe in mille pezzi. Ascoltando e muovendosi al ritmo di
Soul II Soul, incidendo storie multiple configurate in un sound
combinato e missato, ci rendiamo conto tutti di viaggiare, con
le nostre storie spesso molto diverse, nei reticoli di un mondo
che regge la tensione fra il nostro patrimonio particolare e paesaggi culturali potenzialmente comuni. Qui, in una genealogia di
modernità postcoloniale, la tensione, la spaccatura fra regimi
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Paesaggi migratori
Nello sguardo obliquo del migratore che attraversa il territorio della metropoli occidentale esiste un accenno di metafora. Nei mondi vasti e multipli della città moderna anche noi
diventiamo nomadi e migriamo all’interno di un sistema troppo vasto per essere nostro, ma di cui facciamo parte, traducendo e trasformando quel che troviamo e assorbiamo in
esempi locali di senso.
È soprattutto qui che veniamo introdotti in uno stato ibrido, in
una cultura composita in cui il semplice dualismo di Primo e
Terzo Mondo si sfalda, lasciando emergere ciò che Homi Bhabha
(1990b) chiama “comunanza differenziale”, e che Felix Guattari
(1991) definisce “processo di heterogenesis”. I confini dell’opinione generale liberale e del suo senso centrato di lingua, essere, posizione e politica, vengono superati e dispersi nel momento in cui tutte le nostre storie sono riscritte nel linguaggio turbolento di quella che tende a diventare topos privilegiato del
mondo moderno: la metropoli contemporanea.
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
simbolici diversi e la loro comune occupazione dei medesimi segni ci conduce contemporaneamente in una specificità storica e
in comunanze potenziali.
Nel paesaggio migratore delle culture metropolitane contemporanee, deterritorializzate e decolonizzate, dove si risituano, recitano e si ripresentano segni comuni nei circuiti fra discorso, immagine e oblio, si compila la lotta continua per il senso e la
storia. È una storia continuamente decomposta e ricomposta
nell’intreccio di ciò che abbiamo ereditato e ciò che siamo. Negli
interstizi mutevoli di questo mondo, che il movimento sia dettato dai modelli acustici del nostro battito corporeo o dal design
tecno-surrealista di simulazioni computerizzate, esiste l’apertura
che redime e ricostituisce il nostro essere.
È forse ciò che sentiamo quando Youssou N’Dour, di Dakar, canta in un dialetto senegalese, il wolof, in una tenda alla periferia
di Napoli. Soltanto sei mesi prima avevo sentito la sua voce ossessionante in un club di New York, quella volta nel contesto
del sound giapponese tecno-pop/new age di Ryuichi Sakamoto
e del chitarrista newyorchese No Wave Arto Lindsay. È in questi
termini, molto prima di un riconoscimento intellettuale e istituzionale, che riconosciamo in modo immediato ed efficace i territori differenziati in cui l’immaginario viene disseminato e contemporaneamente la voce eurocentrica dispersa…
Questo ci porta a riconsiderare le storie che abbiamo ereditato
e che abitiamo: storia della lingua, della politica, della cultura
e dell’esperienza. Le politiche di liberazione e di libertà si sono invariabilmente appellate alla possibilità estrema di una
trasparenza razionale: esprimono l’insistenza comune per la
realizzazione di questo obiettivo razionale. E se il mondo in
cui viviamo, però, si dimostrasse più intrattabile? E se l’opacità e le differenze reali che rappresenta non fossero riducibili a
un’unica spiegazione? E se nella società e fra società e natura
non ci fosse una regola comune? Accettare questa opacità,
questa intrattabilità e incommensurabilità (il différend di JeanFrançois Lyotard) significa allargare e complicare il significato
che diamo alla “politica”. Significa inoltre ripensare in modo
radicale non solo i limiti della base liberale della gestione del
consenso, ma anche la proposta marxista di realizzazione comune. Infatti nessuna delle due, in nome di ragione e libertà,
ammette differenza e diversità. Riferendosi a Hegel e Marx,
William E. Connolly (1989, p. 132) scrive:
Paesaggi migratori
Eppure siamo piano piano arrivati alla conclusione che la realizzazione della resistenza non è da collocare in un futuro prescritto. È già iscritta nelle lingue dell’apparenza, nelle sfaccettature
del mondo contemporaneo. Rimaneggiando i rapporti di potere,
la resistenza si nasconde e alberga nei riti religiosi, nell’inflessione particolare di una cadenza musicale. Abita lo spazio del
discorso quotidiano e fornisce le “creatività furtive” che permeano usi e abusi del consumismo. Produce “una capacità di ricreare incessantemente opacità e ambiguità – spazi di tenebra e di
inganno – nell’universo della trasparenza tecnocratica, una capacità che scompare in essi e riappare nuovamente senza assumersi responsabilità per l’amministrazione di una totalità” (de
Certeau 1988, p. 18). Si trova dove ciò che è familiare e dato
per scontato viene rovesciato, inaspettatamente distorto e, diventando temporaneamente sconosciuto, produce uno spazio
inaspettato e talvolta magico. Si trova dove le lingue in cui viviamo, proprio perché ci viviamo, sono parlate e riscritte.
Usando continuamente un lessico preesistente di elementi preconfezionati per significare, per traslare il traslato, come dice
Henry Louis Gates Jr. (Gates 1989), possiamo identificare in tali
pratiche una scrittura di tracce, un modo particolare di descrivere, significare e inquadrare il mondo che abbiamo abitato. Infatti
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L’ontologia che ciascuno di loro accetta è presupposto della credibilità di libertà e realizzazione. Ma ciascuno di loro avanza una
teoria della libertà che giustifica soppressione e assoggettamento
in nome della realizzazione per il singolo e la comunità. Dal momento che ciascun ideale proietta la possibilità di trascinare tutta
l’alterità nell’insieme che sottoscrive, l’alterità che eventualmente
persiste viene interpretata come irrazionalità, irresponsabilità, incapacità o perversione. Non viene mai riconosciuta come prodotta
dall’ordine in cui getta scompiglio.
è il nostro risiedere in questo spazio mutevole, l’abitarne le lingue, il coltivarle e costruirvi sopra trasformandole così in luoghi
specifici che genera il senso stesso della nostra esistenza e ne
rivela le possibilità.
Iain Chambers
Paesaggi migratori
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Territori dell’imprevisto
Una cartina mi dice come trovare un luogo che non ho mai visto ma che ho
spesso immaginato. Quando ci arrivo,
seguendo fedelmente la mappa, quel
luogo non è il luogo della mia immaginazione. Le cartine, più si fanno reali,
meno si fanno vere.
Jeanette Winterson (1989, p. 81)
Le cronache delle diaspore – dell’Atlantico nero, del popolo
ebreo metropolitano, dello spostamento rurale di massa – costituiscono l’onda lunga della modernità. Queste testimonianze
storiche mettono in dubbio e minano il senso semplice e piano delle origini, delle tradizioni, del movimento lineare.
Considerando la violenta dispersione di popoli, culture e vite,
ci troviamo inevitabilmente di fronte a storie mischiate, miscele culturali, lingue composite e arti meticce che sono al centro
anche della nostra storia.
Nel 1492, anno che vide la caduta di Granada, l’ultimo regno
arabo in Europa, e la “scoperta” del Nuovo Mondo, gli ebrei
furono cacciati dalla Spagna. Si stabilirono nel più tollerante
impero ottomano – a Salonicco, al Cairo, a Istanbul e nell’isola di Rodi (dove rimasero quattro secoli, finché le SS non li
deportarono quasi tutti ad Auschwitz nel 1944). La storia successiva di questa comunità cacciata, i sefarditi (sefarad significa Spagna), interessò polidentità cosmopolite. Organizzate
attorno a un mondo mediterraneo e musulmano in una mutevole combinazione di Occidente e Oriente, con un dialetto
spagnolo del XV secolo (il ladino) come lingua, queste identità
Giunsi a Napoli nel 1976. Arrivai con un volo della Ethiopian
Airlines diretto ad Addis Abeba con scalo a Roma. Eravamo
solo in quattro o cinque sull’aereo. Atterrammo a tarda notte,
nella nebbia. Immagino che fosse una specie di segno dell’incertezza di quel viaggio: inaugurazione nebulosa di quello che
mi aspettava. Non ero arrivato in veste di turista né in cerca
di lavoro, infatti, ma per un appuntamento d’amore. Da un
certo punto di vista non avevo scelto Napoli, era piuttosto
come se fosse stata lei a scegliere me. Quella città rosa, grigia e gialla sul mare offriva un orizzonte davanti al quale un
rapporto, una vita, possono prendere forma e svilupparsi. Io,
figlio di madre scozzese e di padre inglese, cittadino del
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Paesaggi migratori
furono modellate dalla migrazione e dall’amalgama di storie,
piene di tracce linguistiche e culinarie: ricordi di Spagna e di
Grecia, con l’aggiunta successiva di Italia e di Francia nel caso
del padre di Edgar Morin, Vidal (Morin 1989); o di Bulgaria,
Russia, Turchia, Armenia e Romania per Elias Canetti. Morin
sostiene che ciò rappresenta un’identità anteriore a quella di
soggetto-cittadino nella moderna nazione; potremmo aggiungere che, insieme all’esperienza afroamericana di esilio nella
schiavitù e nel razzismo, suggerisce anche un possibile senso
posteriore di identità rispetto agli angusti confini del nazionalismo moderno. Un piede di qua e l’altro sempre di là, a cavallo del confine.
Hannah Arendt, nella sua polemica contro la tesi di Vico-HegelMarx secondo cui la storia è fatta di strutture e modellata dalla violenza, preferisce sottolineare l’imprevisto, l’indeterminato
e l’innovativo. Nel suo Vita Activa, sostiene che l’azione politica si basa sulla tensione necessaria con un nonsenso che mette in discussione la riduzione di natura a tecnologia, di eventi
a processo, di storia a finalità (Arendt 1958). Questo equivale
a lasciare uno spazio, un’indeterminatezza… In quell’apertura,
e oltre l’ideologia astratta di un’uniformità marchiata da tradizione, nazione, razza e religione, siamo tutti destinati a vivere
in quella che il romanziere chicano Arturo Islas definisce “condizione di confine”.
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
Nord, mi ritrovavo coinvolto in un mondo del tutto diverso,
con cui dovevo lottare per renderlo comprensibile… vivibile.
Così quella città rappresentava anche la scena di un incontro,
talvolta uno scontro, fra lingue, ragioni e storie diverse. Il mio
bagaglio culturale, la mia storia particolare, erano continuamente esposti in questo gioco delle differenze. La mia logica,
le mie abitudini, non riuscivano più a nascondersi fra le pieghe del senso comune e in un habitat culturale accettato senza discussioni, ora che il senso della realtà in cui dimoravo
differiva tanto radicalmente da quello in cui la mia logica e le
mie abitudini si erano inizialmente formate e riconosciute.
“Ora che era in una terra nuova, chi poteva dire che cos’era
normale?” (Hong Kingston 1990).
Un senso di crisi può avere molte uscite; una minaccia al senso
dell’essere personale può anche portare ad aperture inaspettate,
a tirare di nuovo i dadi. Incominciai a leggere e a vivere la città,
senza fermarmi, sempre ai margini del suo caos, corruzione e
degrado. Iniziai a sentirla come spazio di un’alternativa. È forse
grazie al dialogo che si instaura fra noi e questo senso di “alterità” che si rivela più acutamente il nostro “sé”. In questi incontri, in un etica che tenta di rispettare la voce altrui, la lingua
perde invariabilmente il suo ancoraggio, la sua centralità e la direzione che aveva prima, quasi scivolasse fra le aperture di un
dialogo in un quadro più ampio.
Vivere “altrove” significa trovarsi continuamente parte di una
conversazione in cui identità diverse si riconoscono, si scambiano e si mischiano, senza scomparire. Qui le differenze non
fungono necessariamente da barriere, ma piuttosto da segnali
di complessità. Essere uno straniero in terra straniera, essere
spaesato nel senso letterale di “senza paese” è forse la condizione tipica della vita contemporanea. Alle migrazioni indotte di schiavi, contadini, poveri, all’ex mondo coloniale che costituisce tante delle storie nascoste della modernità, possiamo
aggiungere anche il crescente nomadismo del pensiero moderno. Ora che la vecchia casa della critica, della storiografia e
della certezza intellettuale è in rovina, ci troviamo tutti per
strada. Di fronte alla perdita di radici e al conseguente inde-
bolimento della grammatica dell’“autenticità”, ci trasferiamo
in un paesaggio più vasto. Il nostro senso di appartenenza, la
nostra lingua e i miti che ci portiamo dentro rimangono, ma
non più come “origini” o segni di “autenticità” capaci di garantire un senso alla nostra vita. Permangono come tracce,
voci, memorie e mormorii mescolati ad altre storie, ad altri
episodi, ad altri incontri.
Il taccuino dello straniero
Discutere il decentramento della voce maschile bianca, del cogito europeo, e mettere in vista l’“altro”, un altrove culturale e
storico, equivale a riportare quell’“alterità” nel campo della voce
e del discorso che nomina il suo stesso decentramento? Forse
sì: “Il trucco o la svolta è non dare per scontato che la rappresentazione del decentramento sia decentrante…” (Spivak 1990a,
p. 48). Tuttavia, per alcuni di noi, questo impone un confronto
con gli effetti dell’instabilità. Mi obbliga a vivere in costante
fluttuazione, con un senso spostato del centro, dell’“io”, sotto
gli occhi di altri “io” e a sottoscrivere al conseguente indebolimento e incertezza nei limiti dei miei pensieri e delle mie azioni.
Non si tratta di proporre un ritiro nell’autoriflessione, nel narcisismo e nel solipsismo, ma piuttosto di insistere sulla specificazione, ubicazione e limitazione di un sé particolare. Si tratta di riconoscere un tempo condiviso e contemporaneamente limitato dal
fatto di essere differenziati, ubicati, abitati. L’insistenza sui limiti,
Paesaggi migratori
(…) secondo i concetti angloamericani di mascolinità, un uomo che cede alle manifestazioni della
lingua, che permette alla lingua di avvenire attraverso di lui, che valorizza la lingua come energia
e movimento indipendenti, più che subordinati al
dominio razionale, è discutibile come uomo.
Maria Damon (1991, p. 25)
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Il nome autorizza l’Io ma non lo giustifica.
Edmond Jabès (1989, p. 13)
Iain Chambers
Paesaggi migratori
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sulla proprietà della reticenza, non implica necessariamente un
rifiuto dell’impegno, ma vede piuttosto in quella zona delimitata,
storica e differenziata, lo spazio delle domande, delle estensioni
potenziali, del dialogo ulteriore e del conseguente rifacimento.
Questa lingua, che a tratti diventa per forza di cose la lingua del
silenzio, può permettere lo sviluppo di “una relazione positiva all’ascolto degli altri” (Braidotti 1991, p. 101). È alla base dello
sguardo modesto e curioso dello straniero – il critico come collezionista e ambulante: “un étranger avec, sous le bras, un livre
de petit format” (Jabès 1989). È proporre un tipo di intellettualità
che, mentre cerca di capire “il mondo dall’interno” (Siegfried
Kracauer) è profondamente segnata dall’incertezza e dal dubbio.
Successe diverso tempo fa e mi è ritornato in mente recentemente leggendo Leslie Marmon Silko. Nella toilette degli uomini della
stazione della Greyhound a Phoenix, Arizona, la porta si spalanca. Mi ero già abituato a come il corpo maschile si annuncia con
una sicurezza al limite dell’aggressività nella vita pubblica americana. Ma quella volta era diverso. Era un gesto di rabbia. Entrò
un ragazzo scuro, con i capelli diritti e neri, la pelle bruna, jeans
e stivaletti da cowboy: era un indiano, un Apache. Aveva l’aria di
chi è stato malmenato. Mi lanciò un’occhiata, poi si guardò allo
specchio e, pettinandosi, vomitò una serie di invettive contro i
bianchi che l’avevano maltrattato e umiliato il sabato sera che
aveva deciso di uscire dalla riserva per venire in città.
Osservai la scena stupefatto e sbigottito. Avevo di fronte il
cuore dell’America. Non tanto il tema culturale superficiale del
melting pot, anche se l’oppressione di quella forzatura era nell’aria quella sera, quanto il cuore mitico dell’America. Al lavandino accanto al mio c’era l’altra parte della frontiera,
l’“Indigeno”, il discendente di Mangas Colorado, Cochise e
Geronimo. Figura privilegiata dell’immaginario europeo e dei
suoi investimenti nell’Ovest, quell’uomo, più americano di ogni
altro americano, veniva bistrattato e preso in giro da coloro
che avevano usurpato il suo nome.
Incontrai altri indiani nel corso di quel viaggio, generalmente
alle stazioni dei pullman. Cercavano lavoro, denaro, spiccioli,
caffè. Sembravano sempre un po’ fuori posto, alla deriva in
un continente perduto, alla ricerca di un posto che veniva loro negato.
Questa è una storia nella storia, una metafora nella metafora,
che rivela un corpo ulteriore. Nel centro storico di Napoli c’è
la seicentesca Cappella Sansevero, un tempo cappella privata
della famiglia Sangro. L’esponente più illustre di questa famiglia è senza dubbio Raimondo, che visse nel Settecento e fu
principe di Sansevero. Raimondo, come molti altri figli del suo
secolo, si trovò a metà fra mondi diversi. Uomo di cultura, di
lettere e di scienze, seguace dell’Illuminismo, fu attratto dall’alchimia e dalle più enigmatiche scienze dell’universo. Nella
cappella, da lui restaurata fra il 1749 e il 1766, ci sono diverse
statue, fra cui un famoso Cristo velato di Giuseppe
Sammartino. Di sotto, nella cripta, ci sono veli di altro genere.
Dietro a un vetro due corpi eretti mostrano il loro interno, arterie, organi e muscoli come attraverso una buccia traslucida.
La leggenda vuole che il principe di Sansevero avesse iniettato
nei corpi dei due poveretti un certo liquido che ne mostrasse
l’interno preservandone l’esterno. Il procedimento chimico e fisiologico non è mai stato spiegato e resta un mistero. (Questa
è una versione: un’altra sostiene che non si tratta di uomini,
ma di “macchine anatomiche” accuratamente costruite).
Comunque sia, questa compresenza di superficie liscia e inter-
Paesaggi migratori
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Mettere in discussione le mappe che indicano la mia e l’altrui
posizione, che ci spazializzano e ci distanziano l’uno dall’altro,
significa mettere in discussione quel senso di collocazione per
cui l’intellettuale europeo, per completare la propria visione,
teoria e il proprio senso dell’essere, spesso ha più bisogno del
Terzo Mondo di quanto questo abbia bisogno di lui. Ciò sicuramente significa pensare a un’alterità che non è comodamente
posizionata altrove, ma è sempre presente. In questo modo vengo riportato di fronte alla mia lingua e al mio dimorarvi. Infatti
ogni lingua è figurativa e indiretta, ovvero metaforica. È per effetto di questa debolezza che è produttiva.
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
no aggrovigliato richiama allegoricamente il misto barocco di
ragione e di eccesso, inquietante illustrazione dell’eterno dialogo fra superficie di ricerca razionale e oscuri istinti di inquisizione. Qui, tuttavia, ancora più inquietante è l’esposizione di
superfici in serie: non si arriva mai in profondità, al significato
nascosto o all’origine costitutiva. La maschera nasconde solo
un’altra maschera.
La guida, sebbene dia una descrizione dettagliata delle figure
marmoree al piano di sopra, non fa il minimo accenno alla presenza delle statue umane nella cripta.
Un’altra storia. A circa un’ora di macchina da Napoli, sulle
colline nordorientali che circondano l’ampia valle del
Volturno, sorge Marcianofreddo. Alcuni di noi decidono di fare
una passeggiata fino in paese. Al nostro arrivo suonano le
campane e il prete, Vittorio Morrone, ci accompagna nella
chiesa da poco restaurata. Ci descrive i lavori e la preparazione della parete dietro all’altare, ora coperta da un murale naïf
della Madonna in un azzurro acceso. Quindi il discorso passa
all’archeologia, all’Egitto e alle tre sale adiacenti, piene di
materiale che vorrebbe mostrarci. Non ci tratteniamo a lungo
e non visitiamo le sale. Prima di uscire prendo delle pubblicazioni da un tavolo accanto alla porta. Sono tutte di Morrone e
hanno titoli tipo: “Salomone e il mondo contemporaneo. Una
critica di Galileo”; “Le fasi di un U.F.O”; “La teoria di
Einstein”. Sono piene di formule matematiche, di riferimenti
all’astrofisica e di analogie geometriche fra il tempio di
Salomone, le piramidi, il tempio babilonese di Uruk e il ciclo
lunare. In una, con l’indirizzo della parrocchia, viene segnalato il “Centro U.F.O. internazionale, missionari del Divino
Salvatore”; un altro cita un’opera dello stesso autore dall’inquietante titolo: “Da Salomone al Numero della Bestia”: Forse
Dio è un astronauta. Ma ciò che più mi interessa di questa
versione fantascientifica della fede è la mescolanza di erudizione secolare e credo religioso: qui l’argomentazione razionale viene incitata dal desiderio illimitato di comprendere la logica misteriosa delle forze universali. Che fosse stato relegato
in quella parrocchia sperduta a causa delle sue idee bizzarre,
come un novello Giordano Bruno? E che razza di catechismo
avrà insegnato al suo gregge questo prete?
La finzione dell’identità
Ci sono i vincitori, diceva il rabbino prigioniero,
diceva il santo prigioniero, con la loro arroganza, la loro eloquenza, e ci sono i vinti senza parole né segni.
La razza dei muti è tenace.
Edmond Jabès (1963, p. 42)
La lingua non è soprattutto mezzo di comunicazione; è primariamente un mezzo di costruzione culturale in cui si costituiscono
il senso e il sé. Non c’è messaggio chiaro né ovvio, non esiste
lingua che non sia punteggiata dai suoi contesti, dai nostri corpi, da noi stessi, così come non esistono mezzi di rappresentazione neutrali. Questa comprensione della lingua come materiale
potenzialmente comune e tuttavia differenziato si fa ancora più
complessa quando spostiamo lo sguardo dai sottomondi locali
dell’Occidente, dalle sue storie nascoste e dalle sue culture subalterne, per guardare verso orizzonti più lontani e territori di
culture metropolitane contemporanee altrove. Infatti il “tipico”
può non essere più Londra o New York, ma Città del Messico o
Calcutta: contesti e lingue che non è più scontato siano regolati
da una norma euroamericana.
La frattura degli universali segna in modo decisivo il corpo.
Paesaggi migratori
Questi significati sono spesso associati perché il concetto di mediazione li percorre entrambi. Di conseguenza, la motivazione etica e
politica degli interrogativi relativi alla rappresentazione in entrambi i
sensi interesserà analogamente il possibile conflitto di interesse fra
mediatore e mediato. Ciò esprime un’evidente asimmetria politica,
considerevole perché inevitabile (Kirby 1989).
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Rappresentazione: ciò che parla per qualcosa d’altro e ne fa
le veci.
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Iain Chambers
Accettando la differenziazione storica e culturale non si può
più vedere il corpo come il terreno passivo o la costante di
successive attività sociali. È inoltre un luogo storico e sociale
che non si può considerare fisso né dare per scontato. Infatti,
come sostiene Vicki Kirby, il referente del corpo diventa una
zona flessibile, interfogliata, attraversata e composta da molteplici discorsi, costruita in lingue, tempi e luoghi diversi, ricevuta e vissuta con vari significati incorporati in maniera diversa
(Kirby 1989). Trattare in maniera contingente il mondo, le sue
possibilità e i suoi individui, ci porta sulla soglia di future differenze produttive e “mette in discussione il progetto di perfezionamento del dominio del mondo sulla base del fatto che,
data la resistenza insita nell’ordine delle cose, il progetto ridurrebbe tutto a una camicia di forza, inseguendo un obiettivo
illusorio” (Connolly 1989).
Ciò che prima era periferico e marginale emerge ora al centro.
Infatti la figura metropolitana moderna è il migrante, attivo formulatore dell’estetica e dello stile di vita metropolitani, che
reinventa i linguaggi e si impadronisce delle strade del padrone.
Questa presenza turba l’ordine preesistente. Questa interruzione
allarga il potenziale nel momento in cui si riscrive il copione urbano e l’ordine sociale e l’autorità culturale precedenti vengono
rovesciati e dispersi. Viene tutto rivelato nella capacità di plasmare le lingue della modernità e di coltivare la città secondo
ritmi diversi, facendola muovere a un tempo diverso. Si tratta di
linguaggi – linguistico, letterario, culturale, religioso, musicale –
del dominatore, del padrone, ma sempre con qualcosa di diverso. Il linguaggio viene preso, fatto a pezzi e ricomposto con
un’inflessione nuova, un accento inaspettato, uno sviluppo ulteriore nel racconto. Come dice Gayatri Spivak: “Nella postcolonialità ogni definizione metropolitana viene estromessa. La modalità generale del postcoloniale è la citazione, la re-iscrizione, il dirottamento dello storico” (1990a, p. 41).
È la dispersione che la migrazione porta con sé a sconvolgere e
mettere in discussione i temi più vasti della modernità: la nazione e la sua letteratura, la sua lingua e il suo senso di identità;
la metropoli; il senso di centralità; il senso di omogeneità psi-
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Paesaggi migratori
chica e culturale. Nel riconoscimento dell’altro, dell’alterità radicale, riconosciamo di non essere più al centro del mondo. La
nostra centralità si sposta. In quanto soggetti storici, culturali e
psichici, veniamo sradicati, costretti a rispondere alla nostra esistenza in termini di movimento e di metamorfosi.
Quello che siamo obbligati a discutere e a disfare è il punto di
vista unico e omogeneo, il senso di prospettiva e di distanza
critica che nasce nel Rinascimento e trionfa nel colonialismo,
nell’imperialismo e nella versione razionale della modernità. Il
presunto dominio del mondo – dall’occhio “realistico” del pittore alla prospettiva “scientifica” dell’antropologo culturale, alla
distanza critica dello storico: l’occhio/loco di Dio a cui il resto
del mondo e i suoi popoli sono assoggettati (l’“Oriente”, gli
“indigeni”, l’“altro”) vacilla. Mettere la lingua contro se stessa,
notare i molteplici abitanti dello stesso medium, per esempio
l’“inglese”, vuol dire estorcere alla lingua la verità, che è sempre parziale e partigiana: parla per qualcuno, da una posizione
specifica, costruisce uno spazio particolare, un habitat, un senso di appartenenza e di “casa”.
Nessuno di noi può scegliere semplicemente un’altra lingua,
come potessimo abbandonare completamente la nostra storia
precedente e optare liberamente per un’altra. Il nostro senso
precedente di conoscenza, lingua e identità, nostro patrimonio peculiare, non si può cancellare dalla storia come se niente fosse. Quello che abbiamo ereditato – in termini di cultura,
di storia, di lingua, di tradizione, di senso di identità – non
viene distrutto ma scomposto, aperto alla discussione, alla riscrittura e al dirottamento. Gli elementi e i rapporti della nostra lingua e identità non si possono ricomporre in un insieme nuovo e criticamente più consono, né abbandonare e negare. La zona che abitiamo è aperta, piena di spaccature: un
eccesso che non si può ricondurre a un unico centro, a un’origine o punto di vista. In questi intervalli, punteggiatura della
nostra vita, ascoltiamo, incontriamo e viviamo altre storie, lingue e identità. Il nostro senso di essere, di identità e di linguaggio, viene vissuto ed estrapolato dal movimento: l’“io”
non viene prima di questo movimento e poi esce nel mondo,
l’“io” viene costantemente formato e riformato in questo movimento nel mondo.
Nonostante i nostri tentativi disperati ed eterni di separare, contenere e rammendare, alle categorie sfugge sempre qualcosa. Di tutti gli
strati che formano l’aperta (mai finita) totalità dell’“io”, quali vanno
filtrati perché superflui, fasulli, corrotti e quali possiamo definire puri, veri, reali, genuini, originali, autentici? (Trinh 1989, p. 94).
Iain Chambers
Paesaggi migratori
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…il famoso vecchio “io” è, per dirla in maniera blanda, soltanto una
supposizione, un’affermazione, soprattutto non è affatto una “certezza immediata” (Nietzsche 1886, p. 24).
In questo movimento il nostro senso di identità non si risolve
mai. Posso cercare coscientemente di interrompere il viaggio e
cercare rifugio nelle confortanti categorie dell’essere, per esempio, bianco, britannico e maschio e troncare così il discorso. Ma
il movimento di cui tutti facciamo parte, le lingue e le storie in
cui veniamo scaraventati e in cui appariamo va al di là della volontà del singolo. La consapevolezza della natura complessa e
costruita delle nostre identità ci dà la chiave per arrivare ad altre possibilità: riconoscere nella nostra storia altre storie, scoprire nell’apparente completezza dell’individuo moderno l’incoerenza, l’estraniazione, lo strappo causato dallo straniero, che sovverte e ci costringe a riconoscere la questione: lo straniero è in
noi (Kristeva 1988). Dunque l’identità si forma in movimento.
“L’identità si forma nel punto instabile dove le storie ‘indicibili’
della soggettività incontrano le narrazioni della storia, di una
cultura” (Hall 1987, p. 44). In quel passaggio, e nel senso di
luogo e appartenenza che vi costruiamo, le nostre storie individuali, i nostri impulsi e desideri inconsci, assumono una forma
che è sempre contingente, in transito, senza scopo e senza fine.
Questo viaggio aperto e incompleto implica una fabulazione
continua, un’invenzione, una costruzione in cui non c’è identità
fissa o destinazione finale. Non c’è nessun referente finale che
esista fuori delle nostre lingue. Come sosteneva Nietzsche, non
ci sono fatti, ma solo interpretazioni. Come per narrare una na-
39
Paesaggi migratori
zione è necessario costruire una “comunità immaginaria”, un
senso di appartenenza sostenuto in parti uguali da fantasia e
immaginazione e da realtà fisica e geografica, così anche il nostro senso del sé è frutto di un lavoro di immaginazione, è una
finzione, una storia particolare che fabbrica senso. Ci immaginiamo interi, completi, con un’identità piena e certamente non
da aprire o frammentare; immaginiamo di essere l’autore, piuttosto che l’oggetto, della narrazione che costituisce la nostra
vita. È questa chiusura immaginaria che ci permette di agire.
Eppure vorrei sottolineare che stiamo incominciando a imparare
ad agire al congiuntivo, “come se” avessimo un’identità piena,
ammettendo che questa pienezza è fittizia, è un inevitabile fallimento: “si dovrebbero impiegare ‘causa’ ed ‘effetto’ solo come
meri concetti, ovvero finzioni convenzionali destinate alla connotazione, alla intellezione non già alla spiegazione” (Nietzsche
1886, p. 26). È questa ammissione che ci permette di riconoscere i limiti del nostro sé, e insieme la possibilità di dialogare
al di là delle differenze successive – il confine, o l’orizzonte, a
partire dal quale, come fa notare Heidegger, si svolgono le cose: sia avvicinandosi a noi sia allontanandosi da noi. Questo
intero fittizio, questo “io”, è, come direbbe Nietzsche, una finzione che ci permette di vivere, che ci preserva e ci salva dalle
discontinuità dell’inconscio, dalla schizofrenia, dall’autodistruzione e dall’entropia della pazzia. È questo nodo, interminabile
unione di storie al di là della “resistenza all’identità nel cuore
della vita psichica” (Byatt 1987) a tenerci insieme.
Questa costruzione, per quanto immaginaria e fittizia sia la soluzione apparente che offre – l’“io” completo, pieno e intero – è
anche una storia, una narrazione culturale, una realtà fabbricata
come un’altra. È proprio in questa coerenza della finzione che,
paradossalmente, diventa possibile pensare al di là della pragmatica minima della chiusura necessaria a qualsiasi azione. Se,
mettendo un punto fermo e permettendo quindi al racconto di
prendere forma, significato e forza, ricordiamo l’insistenza di
Nietzsche sul carattere fittizio del mondo, ritorniamo invariabilmente alla mutevolezza della nostra costruzione e, con essa, alla precarietà della nostra identità e narrazione. In questo inter-
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
vallo non si percepisce un limite rigido, ma la linea d’ombra di
un potenziale transito.
In questo intreccio dei mondi generalmente separati di fatto e
finzione, storia e narrazione, chiusura razionale e apertura inconscia, la metafora slitta attraverso linearità sequenziale e
spiegazione razionale interrompendo, sovvertendo e complicando. L’analitico e il poetico sono contaminati, il realismo e il fantastico confusi. La linearità, spiegazione razionale e apparente
chiusura dell’“io”, è deviata, sconvolta e spostata dall’interruzione e dall’intervallo di un’altra storia. Qui la lingua non implica
necessariamente uno svolgimento piano verso una finalità e una
soluzione, ma piuttosto una navigazione fra vortici potenziali di
voci, una disseminazione di senso in cui a volte scegliamo di
fermarci e altre preferiamo viaggiare.
Questo suggerisce che movimento e migrazione – dall’Africa alle
Americhe, dalla campagna alla città, dalle ex colonie alle metropoli – implicano una trasformazione complessa. Infatti, dietro le
idee generiche di “modernità” o “capitalismo” non c’è un quadro unitario o una mappa cognitiva capace di unire queste
esperienze e storie. Ne consegue che non c’è una rappresentazione privilegiata della realtà, né una lingua o un linguaggio in
cui si possa asserire con certezza una “verità”. Fra lingua, mito
e metafora ci sono interconnessioni, che però non conducono
automaticamente a un riconoscimento o a un’identità condivisi.
Lingua, mito e metafora possono essere comuni, ma abitati in
maniera diversa. Paradossalmente è l’accesso sempre più vasto
a una sintassi collettiva – televisione, musica rock, “inglese” – a
fornire lo strumento attraverso il quale si registrano l’estensione
e la complessità di un mondo differenziato.
Non c’è spiegazione completa o conchiusa in questa mutevole
condivisione. Movimento e molteplicità frustrano qualsiasi logica
che tenti di ridurre tutto alla stessa cosa, al discorso apparentemente trasparente di “storia” o “conoscenza”. Queste forme parziali, questi incontri incompleti, come la lingua stessa, rappresentano la soglia di nuovi incontri, nuove aperture, possibilità
inesplorate che “alienano l’olismo della storia” (Bhabha 1990a,
p. 318). Questo implica entrare in uno stato ibrido in cui nessu-
na narrazione o autorità – nazione, razza, Occidente – può dire
di rappresentare la verità o di esaurire il significato.
Paesaggi migratori
Lo scrittore e critico della Guyana Wilson Harris ha sottolineato
che le esperienze di movimento e marginalità non ci riportano
soltanto a luoghi geografici – così come la parola “Europa” implica più di uno spazio fisico – ma piuttosto forniscono un’angolazione, una prospettiva critica verso formazioni culturali e capacità culturali emergenti (Harris in Nandy 1990).
Questa trasformazione nella nostra comprensione di movimento, marginalità e vita moderna è inestricabilmente legata alla
metropolizzazione del globo, dove il modello di città diventa,
per citare Raymond Williams, il modello del mondo contemporaneo (Williams 1973). Il senso di sradicamento, di vivere a
cavallo fra mondi diversi, fra un passato perduto e un presente non integrato, tipico del migrante, è forse la metafora più
calzante di questa condizione (post)moderna. Essa sottolinea
il tema della diaspora non soltanto nera, ma anche ebraica,
indiana, islamica, palestinese, e ci conduce in quei processi
dove quelli che un tempo erano i margini ripiegano al centro.
Si può espandere la riflessione considerando la migrazione, il
movimento e il raccolto storico di ibridismo che caratterizzano
romanzi postcoloniali molto diversi fra loro quali Figli di mezzanotte di Salman Rushdie, L’enigma dell’arrivo di V. S.
Naipaul, e la sequenza poetica di Edward Kamau Brathwaite
X/Self, accanto alle più modeste peregrinazioni per il mondo
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Anche quando descriviamo l’ignoto, possiamo farlo solo in termini
di parzialmente noto o di noto. Invece di riconoscere l’inadeguatezza delle nostre categorie, proviamo gusto a riadattare le nostre
esperienze empiriche finché non rientrano in quelle categorie.
Questo problema di traduzione non è prerogativa dell’Occidente. Un
racconto indiano narra di persone che vedevano un maiale per la
prima volta. All’inizio rimasero stupefatti, poi uno di loro sentenziò
che si trattava di un ratto molto grasso. Un altro replicò che era
piuttosto un elefante molto magro. Nessuno dei due voleva abbandonare le sue categorie e ammettere che si trattava di un’esperienza
nuova (Nandy 1990, p. 102).
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
che molti di noi in Occidente vivono attraverso i media, il turismo e i viaggi, con i loro effetti sulla realtà, sul tempo e
sullo spazio. I piaceri visivi, alimentari e uditivi evocati dal
nominare luoghi – Trinidad, Kingston, Londra, Parigi, Nuova
Delhi, New York – ci offrono città che sono a un tempo reali e
invisibili, per fare eco a Italo Calvino, luoghi la cui alterità
simbolica e reale fornisce un’altra occasione, un’ulteriore domanda, un’altra apertura.
Tuttavia, questa griglia apparentemente comune, che offre connessione e distinzione al tempo stesso, non può cancellare le
differenze reali fra l’esilio forzato di individui e popolazioni,
prodotto da guerre, privazioni, repressione politica, miseria e
schiavismo razzista, e il diffuso senso di mobilità che caratterizza la vita metropolitana, disegnata nei canali privilegiati di
movimento rappresentati dai media, dalla tecnologia informatica, dalla pubblicità, dal turismo e da un consumismo generalizzato. Nello spazio fra queste connessioni e differenze incominciamo a districare l’idioma nazionale autoriflessivo e il suo
rifiuto xenofobo di referenti esterni nella sua formazione, nella
sua creazione. Questo ci permette di contestare il rifiuto, insito
nelle versioni autorizzate di storia, lingua, letteratura e identità
inglese, per esempio, che Africa e New York facciano anch’esse
parte di un cosmopolitismo nero che dimora anche nei quartieri meridionali di Londra, o che certe identità di Birmingham riportino a un immaginario rievocato in film girati a Bombay.
Questo dimostra che la nascita della modernità non sta unilateralmente nella storia dell’espansione europea e nelle modalità di rifacimento del mondo a sua immagine e somiglianza –
rivoluzione industriale, capitalismo, democrazia rappresentativa
– ma anche, e nella stessa misura, nella cruda repressione dell’alterità etnica, religiosa e culturale, nella brutalità della diaspora nera africana, nello schiavismo razzista atlantico, nei
progrom etnici e nel saccheggio imperiale del globo che ha reso possibile la sua storia, la mia storia, la storia della modernità e del “progresso”. Come ha fatto efficacemente notare
Paul Gilroy, esiste un senso profetico per cui una donna nera o
un uomo, o un bambino di Charleston o Bristol, o Kingston a
metà del XIX secolo non erano semplicemente le vittime della
modernità, del progresso e dello stato-nazione moderno costruito sulla loro schiavitù e assoggettamento razzista, ma ne
erano anche i produttori, creatori, parte quindi del tessuto culturale e storico che costituisce le società euroamericane moderne (Gilroy 1993).
La frattura
Paesaggi migratori
Nominando l’intellettuale occidentale sancisce la propria ignoranza (il “soggetto dell’Europa”), rende trasparente il resto del
mondo (“Asia”, “Africa”, “America Latina”) e cancella la distanza
reale fra luogo e differenza e la conseguente “misura di silenzio” (Spivak 1988). Vi è però una nota stonata in questa storia
di scambio ineguale. Jacques Derrida, egli stesso voce della periferia (algerino) e di una diaspora (ebreo), fu condannato quasi
unanimemente negli anni Settanta e Ottanta dai critici metropolitani di sinistra a causa del suo linguaggio apparentemente depoliticizzato di decostruzione. Tuttavia, nell’apertura indotta dallo spostamento altrove delle sue parole, Derrida ha provocato
una vasta rivalutazione dei discorsi politici e culturali, particolarmente nell’area degli studi subalterni e della critica postcoloniale. Creando delle fratture nel linguaggio, contestandone la presunta unità e autorevolezza metafisica, l’opera di Derrida ha
evocato spazi in cui altri mondi potrebbero apparire e incominciare a mettere insieme il vuoto che circonda l’egemone testo
europeo. Sospendendo, interrogando, rinviando e differenziando
il senso, Derrida ha dato la possibilità di rompere un silenzio
storico e mettere in discussione la conclusione etnocentrica intenta a una verità che conduce inevitabilmente a “qualche beneficio interno” (Derrida in Spivak 1988).
Questo ci ha portati a rendere conto, per quanto in maniera parziale e limitata, dello strappo nella cultura e nel linguaggio rive-
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La verità è la morte dell’intenzione.
Walter Benjamin (1963, p. 17)
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
lato dai precedenti territori di silenzio, in seguito all’emergenza
all’interno della lingua di ciò che prima era evitato, escluso, parodiato e ignorato. Nel cuore dell’inglese – inteso non solo come
pratica linguistica, ma anche come letteratura, cultura, storia, nazione e identità – e nel passaggio storico verso i margini dell’impero e quindi di nuovo al centro, viene riscritta, scissa, aperta,
occupata e trasformata una sensibilità che un tempo era tutta di
un pezzo. Quando l’“immaginario dell’Occidente” (Edward Said)
non sta più fisicamente altrove, ai bordi di una cartina, ai margini di storia, cultura, sapere ed estetica, ma migra dalla periferia
per eleggere il proprio domicilio nella metropoli contemporanea,
allora la nostra storia e le lingue che abitiamo implodono per effetto della pressione di queste nuove e urgenti coordinate.
Il precedente intreccio europeo di lingue, letterature e identità
nazionali viene disfatto e l’epica del nazionalismo moderno viene aperta con forza per rispondere alle esigenze che emergono
da modelli più complessi. In questo incontro tardivo riconosciamo finalmente che la costruzione dell’“altro” è stata fondamentale nella riproduzione storica, culturale e morale del nostro
“sé” e del nostro peculiare senso del mondo, del centro, della
conoscenza e del potere. Nominare è possedere, addomesticare
è proteggere. Di solito siamo disposti solo a riconoscere le differenze purché rimangano entro i confini del nostro linguaggio,
del nostro sapere, del nostro controllo.
Ma se, come sostengono Benjamin, Wittgenstein e Heidegger,
noi dimoriamo nel linguaggio e i suoi limiti sono i limiti del
nostro mondo, allora incontrare gli altri in questo tessuto significa tirarlo, piegarlo, interrogarlo e rifarlo. Diventa una pratica scottante quando incontriamo mondi, storie, culture diverse
in una comunanza apparente. Questo incontro, questo allineamento, si accompagna sempre a incertezza e paura. Esso implica infatti l’incontro con un senso precedente di sé, della
propria ragione e certezza. Un sé che “non può resistere alla
propria mancanza di dominio sul mondo, teme e odia l’altro
perché concretizza la sua specificità e i suoi limiti e in ogni occasione cerca di ridurre l’alterità a una sorta di identicità e
identità modellata su se stesso” (Grosz 1990, p. 81).
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Paesaggi migratori
In questo processo di interrogazione il treno del tempo, da
cui osserviamo altri mondi lasciati lungo i binari del progresso e delle civiltà, corre il rischio di deragliare. Nelle oscillazioni di linguaggio e identità cresce il seme del dubbio. Forse il
senso del nostro viaggio non sta in una direzione sola, forse
non c’è capolinea alla fine dei binari a giustificare il nostro insistente movimento in avanti. Stiamo forse correndo accecati
da un futuro la cui redenzione è alle nostre spalle, nel degrado, nella miseria e nella confusione che crediamo di avere già
superato? Viaggiare con quel senso precedente di risolutezza,
premuniti di verità, significa muoversi con la presunzione di
una missione, come portando il vangelo fra i pagani, sostenere di venire dal centro, rappresentati da quei binari che attraversano diritti i territori aggrovigliati di storia ed essere.
Significa colludere, a un altro livello e in tono più benevolente, con il progetto di presunto destino dell’Occidente un tempo perseguito nei termini esaltanti di religione, colonialismo,
razzismo e imperialismo.
Chiaramente un rifiuto del destino dell’Occidente non implica
necessariamente uno scivolamento nell’oblio storico e un suicidio culturale. Invece di cercare di parlare in ogni occasione e in
ogni luogo (in nome di scienza, razionalismo, tecnologia e sapere), bisogna forse abituarsi ad ascoltare: aprire la nostra lingua,
i nostri principi addomesticanti alle conseguenze impreviste di
conversazione, dialogo e persino incomprensione. Questo può
servire semplicemente a registrare la disparità nella distribuzione di poteri economici, culturali e simbolici. Tuttavia, nel porre
dei limiti ci esponiamo già alla possibilità di un’apertura. Infatti
siamo proiettati in quello spazio ambiguo in cui le differenze
hanno udienza, in cui sia gli oratori sia la sintassi della conversazione corrono il rischio di essere modificati.
Questo per forza di cose indebolisce l’assolutismo una volta offerto dalla struttura del linguaggio, in cui l’ascesa di una lingua
e una letteratura nazionali forniva l’intreccio di narrazioni, tradizioni di consenso e contesto mitico per tanta parte della nostra
identità nazionale e culturale. Questo segna i confini di quel
particolare senso di appartenenza nella lingua e ci spinge ad av-
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
venturarci all’estero con un senso più debole e ristretto del nostro idioma. Avere questo altro senso di comunità, non necessariamente iscritto nei confini di lingua, letteratura e identità nazionale, significa afferrare quella parte di modernismo che ha al
centro i tropi storici di migrazione e movimento.
Scoperte e conquiste, e il successivo addomesticamento eurocentrico dello spazio, raggiungono il massimo nel turismo odierno e nello sguardo “neutro” della conoscenza. Ma finire qui vuol
dire rifiutare l’ambiguità e l’enigma che stanno dall’altra parte
del racconto. Non è solo rifiutare il salto nella dissoluzione conradiana, ma soprattutto vedere nel viaggio solo una verifica del
sé e dello stesso, una conferma che si rifiuta di registrare gli incontri con l’oscuro, l’imperscrutabile, l’ignoto, il taciuto. È presumere che tutto sia luce e non vi sia mistero, che il linguaggio
sia certo e non esista “cuore di tenebra”, nell’irresolubile animo
del significato dove, come dice Conrad in Lord Jim, “l’ultima parola non è detta – e probabilmente mai lo sarà”.
Questo non tracciare la rotta implica un rifiuto a rivolgersi
all’“altra” parte della ragione e di conseguenza una mancata
comprensione del fatto che la luce si può apprezzare solo in termini di ombre, così come l’Occidente non può esistere senza il
suo “Oriente”. Significa ignorare che il mio spazio linguistico,
culturale e storico è legato a quel che c’è “là fuori”, ignorare
deliberatamente il fatto che esso è delimitato e posizionato da
questa differenza. In questa incompletezza sta il significato storico ed etico delle mie letture parziali e partigiane. Infatti il significato del tutto può essere concepito solo come un eccesso,
come qualcosa che fugge la chiusura, che supera il mio linguaggio. Iscrivere questa consapevolezza nelle nostre attività vuol dire assumere altre iscrizioni, senso ulteriore, nell’apertura del nostro linguaggio. Se ciò che passa per conoscenza emerge all’interno della lingua, allora la conoscenza critica implica un’esplorazione della lingua stessa. Questo implica il disfacimento dell’idea dominante del pensiero occidentale, l’idea metafisica e senza tempo che la ragione opera indipendentemente dalla lingua e
dalle condizioni storiche e culturali in cui si usa. Allora il presunto legame fra verità e logica, posto come fondamento della
Radicato nello sradicato
Nel suo Prima delle cose ultime, Siegfried Kracauer sostiene che
il motore della storia sta nella non identità di ragione e realtà
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Paesaggi migratori
filosofia occidentale nel pensiero greco, viene smontato. Si inaugura la “fine della filosofia e il compito del pensiero”
(Heidegger), poiché si deve essere scettici sulle possibilità della
ragion pura di esistere al di là della contaminazione e della collusione di lingua, storia, cultura ed essere.
La ragione in sé è una metafora. Implica il trasporto, la trasformazione e la traduzione di qualche “cosa” in linguaggio. La presenza di questa “cosa” in processi metaforici suggerisce ancora
una volta che la distinzione fra nominare critico e nominare
poetico diventa nebulosa, e che presumere che uno sia più vicino alla verità dell’altro è discutibile. Nella traduzione – “metafora della necessità storica di dare una testimonianza” (Felman
1989, p. 734) – ci apriamo alla possibilità del silenzio e dell’incommensurabile. Il compito (del traduttore, per rievocare il titolo del saggio di Walter Benjamin) implica un’impossibilità, una
sconfitta, come suggerisce il termine tedesco Aufgabe e come
sottolinea Paul de Man: “Il traduttore deve abbandonare il compito della riscoperta di ciò che era nell’originale” (de Man in
Felman 1989, p. 738). Tradurre è tradire, tradire un intento primario o una verità metafisica. Il saggio di Benjamin conferma
“che è impossibile tradurre”. Come suggerisce Shoshana Felman,
Paul de Man ha riconosciuto l’impossibilità di sbarazzarsi del
corpo – di Walter Benjamin – del testo riportandolo semplicemente a un tutto ovvio. Questa storia, la storia, non è né stabilita né conchiusa e va letta senza sbarazzarsi del corpo.
È questo linguaggio che ci sostiene e ci tiene in ostaggio. L’idea
che la conoscenza sia costruita, prodotta dall’attività del linguaggio e quindi costantemente riscritta, recitata e ricollocata, toglie
ogni interesse all’idea di verità “naturale” e al suo ovvio essere
reale. È questa resistenza alla “naturalità” della lingua che libera le
possibilità del linguaggio e le interminabili attività del significato.
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
(Kracauer 1969). Mette a confronto la nascita della storiografia
moderna, uno dei generi centrali della modernità, e l’ascesa della fotografia, sottolineandone il comune intento di, per citare
Leopold von Ranke, mostrare “le cose come sono veramente
state”. L’analogia che Kracauer stabilisce fra queste due moderne forme di rappresentazione – fotografia e storiografia – conferma un senso di tempo e di memoria inquadrato in immagini,
ma al tempo stesso ci pone di fronte a una frattura sconcertante. Ed è proprio questa frattura, rappresentata dallo spazio di
un’impossibilità – l’impossibilità di mostrare “le cose come sono
veramente state” – che ci permette di considerare la rottura del
tempo e la spaccatura nel continuum omogeneo di una Storia
singola e unica. Il tramonto dell’identità fra ragione e realtà, conoscenza e soggetto, dopo Nietzsche, Freud, il femminismo, l’ingresso di altri mondi, ci obbliga a considerare una rapida successione di orizzonti che mettono in discussione la pretesa di
trasparenza razionale nei nostri linguaggi e nella nostra comunicazione. Infatti, se la ragione è più complessa, sempre fratturata, aperta, parziale, di parte e incompleta, siamo incoraggiati a
comprendere le zone che la sua illuminazione oscura. Siamo incoraggiati a considerare le conoscenze che abitano le ombre,
che si nascondono nell’ombra dell’ambiguità. Questo significa
proporre il momento difficile di mollare, quando le vecchie certezze sono abbandonate per l’esito incerto di incontri continui
in cui mondi e cronologie divengono instabili, sono messi in
discussione e riformulati. Ripensare il tempo e il luogo all’interno di una cultura, un linguaggio, un’istituzione, una tradizione,
una serie di storie, vuol dire ripensare lo scopo, la direzione e i
limiti di queste categorie.
Assieme a una ricerca proustiana del “tempo perduto” e a un’idea di conoscenza storica che trova la massima concretezza nella figura di Ahasuerus, l’Ebreo Errante, Kracauer insiste sul valore epistemologico dell’immagine. È un tema che percorre tutti i
suoi scritti, dai primi articoli di giornale sullo spettacolo di massa, i viaggi, il ballo, i gialli e le hall degli alberghi nel periodo
della repubblica di Weimar al volume postumo sulla filosofia
della storia. Infatti, come sostiene, per quanto umili e marginali
Barcellona, dicembre. Ho appena visto uno scheletro sistemato
su un terrazzo del primo piano che dà sulla strada: scena carnevalesca, provocazione festiva? Nei pressi c’è un’altra allegoria barocca, questa volta sotto forma di esibizione per ricordare uno
dei suoi più perspicaci commentatori. Fra Carrer del Carme e
Carrer de Hospital c’è l’antico ospedale de la Santa Creu. Qui c’è
una creazione di Francisco Abad: “La línia de Portbou.
Homenatge a Walter Benjamin”. È chiusa. Nei giorni successivi
torno diverse volte nella speranza di entrare, ma senza fortuna.
Chiuso per ferie, lascia spazio a qualche speculazione. Walter
Benjamin il collezionista, lettore delle strade di città, pensatore
all’angolo di strada, pescatore di perle (Hannah Arendt) avrebbe
forse apprezzato questo inaspettato rendez-vous. Sempre ai margini della cultura europea (tedesco, francese, ebreo), Benjamin
era un migratore, in transito, uno spirito di frontiera che parla
del nostro tempo nel suo continuo viaggio verso il confine.
Mesi dopo il nome di Benjamin mi fa inciampare in un’altra traccia e precipitare in un’altra storia, a testimoniare la narrazione
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Paesaggi migratori
siano le loro origini, le immagini “ci aiutano a pensare attraverso le cose e non al di sopra di esse” (Kracauer 1969, p. 153).
Questo mi porta a pensare ancora alla conoscenza secolare generata dall’immagine, e alla tesi avanzata da Walter Benjamin,
contemporaneo di Kracauer. Nel suo famoso saggio sull’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin sostiene che
la riproduzione secolare dell’opera d’arte porta alla sua politicizzazione (Benjamin 1955b). Oggi potremmo allargare questo giudizio fino a comprendere il regno della conoscenza. Abitando ed
estendendo i linguaggi della riproducibilità tecnica, troviamo che
non è solo l’immagine, ma la conoscenza stessa a essere stata
secolarizzata e ad aver perso la propria aura. Nell’architettura
mentale fornita dalla poetica prosaica della tecnologia noi costruiamo conoscenze che devono continuamente superare i confini di questo precario concetto. Infatti ci scopriamo al tempo
stesso sradicati da e radicati nelle rappresentazioni. Forse, come
dice Heidegger (1962a), la coesistenza di quella chiusura e apertura rivela il potere salvifico della situazione.
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
discontinua del frammento. In un articolo di giornale scopro che
Benjamin teneva regolare corrispondenza con una persona successivamente immortalata nel film di Truffaut Jules et Jim (1961).
Jules, interpretato da Oskar Werner, era in realtà lo scrittore tedesco Franz Hessel. Autore di alcuni romanzi semiautobiografici che
parlano di strade, boulevard e piazze di Parigi e di Berlino fra il
1910 e il 1930, questo “flâneur philosophe”, come si definiva egli
stesso, nel 1929 pubblicò un libro sulla condizione di “flâneur”
intitolato Spazieren in Berlin (ora ripubblicato con il titolo Ein
Flaneur in Berlin). L’opera attrasse l’attenzione di Benjamin, che
scrisse un breve saggio su di essa chiamato Il ritorno del Flâneur.
Hessel, come Benjamin, fu perseguitato dalla sfortuna. Come lui
era ebreo e come lui fuggì in Francia nel 1938, sotto il nazismo.
Allo scoppio della guerra, sebbene suo figlio avesse fatto il servizio militare in Francia, fu internato. Hessel riuscì a scappare,
ma sotto il regime di Vichy fu internato di nuovo. Morì pochi
mesi dopo essere stato liberato, nel 1941.
Nel 1913 Hessel aveva sposato Helen (Catherine/Jeanne Moreau
nel film di Truffaut). In quel periodo il ménage à trois con il
francese Henri-Pierre Roché era incominciato. Quarant’anni dopo, a settantatré anni, Roché pubblicò il suo unico romanzo in
cui raccontava tutta la storia: Jules et Jim. Otto anni dopo
Truffaut lo scorse su una bancarella.
Ultimamente in Francia sono stati pubblicati i diari di HenriPierre Roché e di Helen Hessel. Protagonista di queste storie,
centro del trio, è chiaramente Helen. Rilke le dedicò delle poesie, danzò nei night-club di Monaco, scrisse poesia, pubblicò illustrazioni su riviste, fu la corrispondente parigina della
«Frankfurter Allgemeine» quando si trasferì nella capitale francese nel 1925 e aiutò i suoi amanti a pubblicare su riviste letterarie bilingui. In quel periodo i tre parlavano di scrivere un libro
insieme, ma l’idea fu ben presto abbandonata perché, come
spiega Helen: “La verità è che l’arte non mi interessa. Quello
che mi commuove veramente è la vita, il modo in cui si sviluppa in fluttuazione continua”.
Helen Hessel morì nel 1982 all’età di novantasei anni. Fu l’unica
dei tre a vedere il film di Truffaut. In una lettera a un’amica
Nella Quarantaduesima strada, a New York, all’angolo con la
Seventh Avenue, se ricordo bene, c’è un tabellone elettronico sul
tetto di uno dei pochi edifici bassi della zona, che segnala in tempo reale l’ammontare del debito pubblico degli Stati Uniti per nucleo famigliare. Rimango lì, affascinato, a guardare le successioni
di zeri. Fuori del Centre Pompidou di Parigi c’è un altro computo:
un orologio elettronico segna i secondi che ci separano dall’arrivo
del ventunesimo secolo o dalla fine del ventesimo, come preferite.
Che cosa dobbiamo fare di questi due orologi, uno ossessionato
dal debito del passato e l’altro che scommette sul futuro?
Paesaggi migratori
In termini intellettuali la storia della modernità è stata invariabilmente rappresentata come una tragedia. Siamo incoraggiati
a considerarla un’epoca di decadenza e di declino, momento
in cui la promessa di storia viene macchiata e frustrata dalla
perdita di autenticità. Tuttavia, nonostante l’immenso orrore rivelato dalla modernità, nel dramma quotidiano c’erano scene
che, per quanto spesso ignorate o messe da parte, erano cariche di promesse. Fra queste c’erano le storie nascoste che accompagnavano i ritmi della modernità, scritte nei grandi magazzini e sulle piste da ballo prima e poi nei supermercati e
nelle soap opera, e in uno spazio casalingo, spesso al femminile. Altrove questi ritmi venivano orchestrati ed espressi nel
gergo, ufficialmente fuggito come “mumbo jumbo” (Ishmael
Reed) della poesia, della letteratura e della musica degli ex
schiavi e nella successiva formazione di un’estetica nera e urbana; un’estetica che si è dimostrata fondamentale nell’esperienza metropolitana moderna. Se di solito non hanno voce
nella cronaca ufficiale, queste storie metropolitane hanno segretamente minato i presupposti di una cultura monolitica od
omogenea e dalle loro formazioni marginali e migratorie hanno
contribuito a forgiare l’arte moderna del costante “essere tra”
(de Certeau 1988).
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scrisse: “Voilà. Per me quest’esperienza è stata una doppia rassicurazione. Ho vissuto e in maniera alquanto mostruosa. Sono
morta e rivivo” (D’Erme 1992).
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
Di nuovo a New York, sotto l’alto soffitto a volta della Grand
Central Station, sento i suoni a cascata, tipo arpa, di una kora,
strumento a corde dei “griot” dell’Africa occidentale reso noto dal
successo internazionale di Mory Kante e “Akwaba Beach” (1987).
Solo che questa non è una kora, arpa acustica popolare fatta di
bambù, ma uno strumento elettrico di acciaio inossidabile. Si chiama Gravikord, costa 1199 dollari e il suo suono poliritmico accompagna i miei passi nell’atrio cavernoso. Molto più tardi, verso mezzanotte, ancora nella Quarantaduesima strada, ma questa volta
nella metropolitana, mentre aspetto un treno uptown guardo colui
che si autodefinisce il “can man” (uomo delle lattine) al lavoro. È
magro, nero e iperattivo. Al suo fianco ha una borsa piena di lattine di birra vuote. Davanti alle persone che aspettano il treno ne
tira fuori una e, improvvisando un rap sull’unicità del suo lavoro,
taglia la parte superiore di una Budweiser e ne fa a pezzi i lati con
un coltello affilato. Torce, tira e quindi presenta l’oggetto finito: un
portacenere, un vaso di fiori, un “óbjet trouvé”; a base stretta e
corpo tondeggiante. Decido di comprarne uno. Costa due dollari.
Ho solo una banconota da cinque dollari, ma più di uno non ne
voglio prendere. Arriviamo a un compromesso: io gli lascio cinque
dollari, e lui mi fa la firma sul fondo della lattina. Lui guadagna tre
dollari di più e io acquisto un’opera d’arte.
In tutti e due i casi c’è un’affascinante oscillazione fra industriale e arcaico: lo strumento artigianale che diventa elettrico, il rifiuto industriale che si trasforma in oggetto estetico “davanti ai
nostri occhi”. Anzi, meglio ancora, siamo testimoni della contemporaneità dell’arcaico e dell’industriale.
Esposizione
Ciò che metti sulla carta è già dove sei stato. Per
dove stiamo andando ancora non c’è carta.
Audre Lorde (1988, p. 130)
Oggi la logica in cui opposizione e resistenza riflettono e invertono la lingua dell’oppressore, come in un mondo alla ro-
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Paesaggi migratori
vescia, si sta disgregando e viene messa in discussione. Una
delle conseguenze è la frammentazione di un senso dell’“altro” omogeneo e trascendentale. Questo – un concetto, piuttosto che un corpo specifico e storico – è immerso nel tempo
e nelle circostanze; prende vita. Lo schema fisso di locazione
e di identità rassicuranti si spezza. La totalità razionalizzante
in cui tutto si riferiva a un centro, presumibilmente garantito
dalla voce neutrale di “sapere”, “scienza”, “cultura” e relativo
accento eurocentrico, passa in una confusione vernacola e scivola verso una complessità frammentaria e l’“amara ostinazione di una interrogazione errante” (Jabès 1963, p. 20).
Concretizzandosi, ogni cosa è costretta al movimento. Il processo di inquadramento dei viaggi viene coinvolto in un dialogo, in uno scambio, in una discussione. L’idea astratta di
differenza scompare per riapparire successivamente in storie
diverse e talvolta radicalmente distinte.
Avvengono un disfacimento e una dispersione della logica binaria
che ha stabilito la perpetua dialettica di reazione e risposta subordinata a potere ed egemonia. I soggetti subordinati sono stati
sempre improntati all’immobilismo stereotipo di un’“autenticità”
essenziale in cui ci si aspetta che abbiano il ruolo scelto per loro
da altri, e per sempre. La rilettura della storia della musica nera
fatta dai critici bianchi spesso ci obbliga a riconoscere l’imposizione di questa organizzazione hegeliana. Per molti, il blues e il
rhythm and blues, o i capelli dei rasta, sono più “autentici”, in
qualche modo più vicini all’essenza “nera”, mentre gli stili patinati
di Tamla Motown, (artificio della disco music, il plagio elettronico
della musica house, i capelli stirati o arricciati, rappresentano evidenti forme di tradimento, una negazione delle radici. Il corollario
che sancisce questa logica e condanna definitivamente il subordinato all’eterno ruolo dell’“autenticità” è che il successo è sospetto e fa automaticamente pensare alla svendita dei propri valori.
Nelle categorie restrittive di autenticità e tradimento si preclude
prematuramente la possibilità di rapporti culturali, storici ed economici più ampi, in cui si possa realizzare un senso ulteriore di
sé. Espressione e rappresentazione sono costrette a sostenere il
peso complessivo e l’unità di una rappresentazione presunta:
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
questo dipinto, questa foto, questa musica, questo stile, rappresentano appieno e corrispondono all’essenza nera?
Nel passaggio da anonima proprietà (schiavo) a persona scoppia
la lotta per stabilire un senso di identità, trovare una voce e rivendicare un posto politico e culturale. Questo transito omicida
ha formato e rinforzato un senso autonomo di identità nera. La
letteratura, la musica e la cultura nera sono una testimonianza di
quella storia. Tuttavia, in questa cronaca di resistenza e formazione di identità risiede anche un’insopportabile limitazione, quasi la
cultura nera, per scelta o per forza, fosse completamente separata, tagliata fuori dalle altre condizioni che ci investono e disinvestono delle nostre vite. Esiste anche un senso di essere e di appartenenza che comprende non solo etnicità e razza, ma anche
sessualità, sesso, lingua, nazione e viaggio. Essere limitati a
un’essenza etnica può solo interessare una storia che non contempli l’eccesso di significato che mette in discussione l’unicità e
permette alle differenze di esistere. Per la maggior parte dei bianchi questo si traduce nel conforto di rispecchiare l’universale; per
i cosiddetti “neri” diventa invece problematica specificità di una
questione di “minoranza”: un “oggetto in mezzo ad altri oggetti”
(Fanon 1952, p. 97). Nell’attenzione dedicata ai margini, il potere
esercitato al centro viene invariabilmente oscurato. L’idea stessa
di etnicità viene infatti usata solo con riferimento a “minoranze” e
mai al potere e all’egemonia dei bianchi. Così ci si aspetta che il
portavoce della “minoranza” parli in termini di gruppo etnico, ristretto alla “comunità” nera, mentre al bianco – scrittore, artista o
cineasta che sia – è permesso parlare di tutto (Mercer 1990).
Il film di Sankofa Territories (1984) problematizza la questione rifiutando di farsi carico della semplice celebrazione di un’autenticità
nera. Enfatizzando la lotta per esistere e per essere narrate delle
diverse storie di diaspora nera, il film ci proietta in uno spazio
senza garanzie, che permette di emergere ad altre posizioni e altre
possibilità. Sottolinea con forza l’idea che l’etnicità non appartiene
semplicemente all’“altro”, ma fa parte dell’essere bianco. I concetti
indiscussi di nazione, razza ed etnicità, sia nera sia bianca, vengono spostati e aperti alla discussione: che cosa significa essere “nero”, “bianco”, “britannico” o magari “europeo”, al giorno d’oggi?
Il limite
Il problema del valore della verità ci si è fatto
innanzi – oppure siamo stati noi a farci innanzi
a questo problema? Chi di noi è in questo caso
Edipo? Chi la Sfinge? Pare che si siano dati convegno interrogazioni e punti interrogativi.
Friedrich W. Nietzsche (1886, p. 7)
In tutto questo movimento c’è un momento in cui incontriamo la
massima estensione delle possibilità cognitive – guerra, morte, il
nostro cuore di tenebra, l’indicibile, il terrore del vuoto: “l’orrore,
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Paesaggi migratori
Dove il linguaggio si scompagina e si apre un silenzio, uno spazio,
un interrogativo, la dimensione ulteriore del nostro abitare la lingua incomincia a farsi strada. Questa punteggiatura dell’unità di
una lingua, un soggetto, un’identità e un senso storico – in questo
caso definiti collettivamente dai termini “nero”, “inglese” e “britannico” – intensifica l’importanza dell’arte del frammento, del sogno,
e dell’immaginario, come, per esempio, nello splendido film di
Isaac Julien, Looking for Langston (1989). A questo punto la dispersione del linguaggio offre la promessa di una disseminazione di
senso ulteriore, di altre voci e altre storie. “Esplosi. Ecco i minuti
brandelli raccolti da un altro me stesso” (Fanon 1952, p. 97).
La re-iscrizione contemporanea di etnicità da parte di fotografi,
cineasti, musicisti e artisti neri in Gran Bretagna rivela un linguaggio sempre più spogliato di un’essenza stabile che ne garantisca l’“autenticità”. L’unicum fisso si trasforma, si traspone e
si traduce in un insieme di tracce, memorie, miti, storie, suoni e
lingua che sono nell’Occidente ma non gli appartengono del tutto come insisteva C. L. R. James. Nata dalla storia dello schiavismo razziale moderno e dal suo scoraggiante nesso di “ragione
e terrore razziale” (Paul Gilroy), è questa eredità – storicamente
specifica, ma in fin dei conti legata a un destino globale ed etico comune – a combinare in configurazioni mutevoli di coerenza
transitiva ciò che scegliamo di chiamare identità.
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
l’orrore” conradiano. Franz Rosenzweig apre la sua monumentale
opera Der Stern der Erlósung (La stella della redenzione), pubblicata nel 1921, mettendo l’accento sull’angoscia davanti alla morte
che precede ogni forma di comprensione, un’angoscia che ci dissuade dal sostenere che tutto è intelligibile. Zona tangibile di orrore, nucleo oscuro dell’indicibile e dell’indecifrabile può essere
una città, come Beirut, Baghdad o Sarajevo. Quando il pensiero è
organizzato dallo sconvolgimento delle differenze invece che dalla
logica livellante del razionalismo, abbandoniamo il riparo offerto
dalle sue presunte soluzioni e ci muoviamo sotto i cieli più vasti
di una sconcertante complessità. È un modo di pensare che vede
il presente come una miriade di conflitti, nessuno dei quali può
essere soppresso, in cui le frontiere non sono barriere ma soglie,
zone di transito, di movimento. Se si dovesse definire il soggetto
moderno, si direbbe che è un soggetto di frontiera. Il classico linguaggio della politica e della filosofia non sa descrivere questa
zona di ombre e di orrori, né sa disperderli (Rella 1990).
È un grigio pomeriggio di marzo e la pioggia batte alla luce dei
fari giallastri delle automobili. Entro nel cinema Angelica in
Houston Street, quasi all’angolo di Broadway. A pochi minuti di
strada c’è la bella mostra “Interim” di Mary Kelly al New
Museum… ah, le gioie di New York. Al bar, nell’elegante foyer, ordino un cappuccino e una fetta di cheesecake. Ho deciso di vedere Black Rain, non il film di Ridley Scott ambientato a Osaka ai
nostri giorni, ma quello di Shóhei Imamura, basato sull’omonimo
romanzo di Masuji Ibuse. Alla biglietteria vendono anche il libro.
Al piano di sotto, nel cinema semivuoto che periodicamente
vibra al passaggio della metropolitana, seguo la storia di
Yasuko, una giovane donna che ha vissuto la pioggia nera caduta su Hiroshima dopo l’esplosione della bomba atomica.
Fugge dalla città distrutta insieme con lo zio e la zia e va a vivere in campagna. Nonostante gli sforzi dello zio di trovarle
un compagno, non riesce a sposarsi. Sanno tutti che è stata
investita dalla pioggia radioattiva: è marchiata, contaminata
per sempre. Alla fine Yasuko soccombe alla malattia provocata
dalle radiazioni e muore. Il film in bianco e nero con i sottoti-
Paesaggi migratori
Su «Le Monde» del 23 agosto 1990 c’è un articolo sulla Polonia,
sul turismo e sulla ricostruzione del dopoguerra (Edelman 1990).
Durante la seconda guerra mondiale Varsavia fu praticamente rasa al suolo, l’ottantacinque per cento degli edifici andò distrutto.
Le vittime delle bombe, delle mine e dei lanciafiamme nazisti furono ottocentomila, di cui quattrocentocinquantamila ebrei. La
vecchia Varsavia, il centro storico, fu poi ricostruita. Sulla base di
fotografie, disegni e ricordi, architetti e ingegneri, avvalendosi
delle tecniche più avanzate e approfittando dell’occasione per installare reti idriche e fognarie moderne, ricostruirono la città antica com’era un tempo. In questo simulacro della Varsavia di prima
della guerra non c’è traccia del ghetto e rimane soltanto il gigantesco cimitero ebraico con le sue “tombe senza discendenti”.
Nel 1979 i campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau sono stati dichiarati monumenti storici protetti dall’Unesco. Nelle
guide, che descrivono “l’architettura dell’atrocità e la sua urbanizzazione del genocidio”, non si fa cenno alle baracche che erano riservate agli omosessuali e agli zingari. La distruzione quasi
totale di un popolo, l’annientamento calcolato di quello che storicamente fu uno dei simboli più potenti dell’“altro” in Occidente
(la “questione ebraica”) resta impressa nella memoria. Le figure
più marginali e meno radicate invece sono espulse dal ricordo e
persino dalla partecipazione collettiva nel comune oblio della
morte. Ma allora l’impatto complessivo dell’Olocausto – non
aberrazione accidentale, ma elemento intrinseco al senso di modernità e di Occidente, “terribile rivelazione della sua essenza” –
non è ancora stato del tutto iscritto nel corpo della storia, della
cultura e del pensiero critico contemporaneo.
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toli enfatizza la delicata amarezza della storia. Il bianco e nero
non rievoca l’aura del realismo, retrospettivo o documentario,
quanto l’asprezza poetica di uno straziante “morality play”. Mi
sono sentito marchiato anch’io.
Diversi mesi dopo mi telefona mia madre in Italia. Ha appena
visto Black Rain alla televisione in Gran Bretagna. “È orribile
quello che le persone si fanno a vicenda. Non dovrebbero”.
Colto alla sprovvista, borbotto un sì.
In tutto questo esiste un ethos. Come una ferita aperta che ha
bisogno di attenzione, siamo esposti alla differenza, alla discussione e all’ambiguità. Questo costituisce l’apertura dell’esperienza, per citare Hans-Georg Gadamer. È in questa frattura che riconosciamo i nostri limiti, impariamo a controllare il nostro narcisismo (personale, culturale, nazionale) e ci riconosciamo nell’etica
della solidarietà.
Iain Chambers
Paesaggi migratori
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Una partenza perpetua
…non puoi più tornare a casa. Perché? Perché
sei a casa…
Marjorie Garber (1987, p. 159)
Una prospettiva autenticamente migratoria sarebbe forse basata sull’intuizione che l’opposto fra
qui e là è anch’esso una costruzione culturale,
una conseguenza del pensare in termini di entità
fisse e del definirle come opposti. Può iniziare vedendo il movimento non come goffo intervallo fra
punti fissi di partenza e arrivo, ma come modo di
essere nel mondo. La questione non sarebbe allora come arrivare, ma come muoversi, come identificare movimenti convergenti e divergenti e il problema sarebbe come prendere nota di questi
eventi, come dare loro valore storico e sociale.
Paul Carter (1992, p. 101)
La teoria è una pratica frequentata dalla consapevolezza di sé.
Ci troviamo in una condizione in cui pratichiamo l’etica della
sospensione della teoria. È il nostro “eterno ritorno”: cercando
di capire questa sospensione ci troviamo di fronte alla differenza fra segno ed evento. Ethos significa collocarsi in un altro posto. Nell’interazione senza fine fra ethos e topos siamo costretti
ad andare oltre posizioni e collocazioni rigide, oltre forme di
giudizio che dipendono dall’identificazione astratta di valori che
sono già stati decisi e regolamentati in anticipo. La critica im-
New York-Londra-Parigi-Barcellona-Berlino-Napoli: 1990-1992.
1
Bronx County Hall, New York, aprile 1990.
Paesaggi migratori
Amici del Bene, sappiate che siamo riuniti da parole segrete su un
percorso circolare, forse su un bastimento, e per una traversata della
quale non conosco l’itinerario. Questa storia ha qualche cosa della
notte: è oscura e cionondimeno ricca di immagini; dovrebbe aprirsi
su una luce debole e dolce; quando arriveremo all’alba, saremo lasciati liberi, saremo invecchiati di una notte, lunga e pesante, un
mezzo secolo, e alcuni fogli bianchi sparpagliati sul cortile di marmo
bianco della nostra casa dei ricordi. Qualcuno tra voi sarà tentato di
abitare questa nuova dimora, o per lo meno di occuparne un piccolo
spazio delle dimensioni del suo corpo. So bene che la tentazione
dell’oblio sarà grande: è una fontana d’acqua pura alla quale non ci
si deve accostare per nessun motivo, malgrado la sete. Perché questa storia è anche un deserto. Sarà necessario camminare a piedi nudi sulla sabbia che scotta, camminare e stare zitti, credere all’oasi
che si profila all’orizzonte e che non smette di andarsene avanti verso il cielo, camminare senza voltarsi, per non essere portati via dalla
vertigine. I nostri passi inventano il sentiero a mano a mano che si
va avanti; dietro non lasciano tracce, ma il vuoto, il precipizio, il nulla. Allora guarderemo sempre avanti e ci affideremo ai nostri piedi. Ci
porteranno così lontano che le nostre menti crederanno questa storia
(Jelloun 1995, p. 10).
59
plica una partenza perpetua. Ci porta oltre il comfort offerto da
un modello di razionalità e moralità che fornisce una conclusione, una fine. Nel movimento riconosciamo l’impossibilità di
completare il viaggio. Tra il qui e il là (fort… da), tuttavia, ci
viene data la possibilità di una promessa… di impossibile. È
questo il destino del rivolgersi all’altro, inquietante, misterioso:
nasce con la consegna della lettera e viaggia senza una destinazione finale. Viaggiare è riconoscere una distanza, una differenza, che rende possibile l’esperienza. La nostra esperienza,
l’esperienza che tutti abbiamo, è questo essere in viaggio.
Tahar Ben Jelloun scrive:
Il walkman Sony. Lanciato sul mercato nella primavera del 1980,
questo gadget urbano hi-fi nacque da un’idea che venne ad
Aldo Morita, presidente della Sony, guarda caso mentre camminava per New York. Da allora il walkman ci ha dato la possibilità di usufruire di una colonna sonora portatile che, diversamente dalla radio transistor, dall’autoradio e dall’intenzione esplicitamente opposta del grande registratore portato a spalla (il cosiddetto “ghetto Master” o “boogie box”), è soprattutto un’esperienza intensamente privata. Tuttavia tale rifiuto del contatto
pubblico e l’apparente regressione a una solitudine individuale
implicano anche una serie di sviluppi inaspettati. Con il walkman si ha simultaneamente una concentrazione dell’ambiente
uditivo e un’estensione della corporeità individuale.
Infatti il significato del walkman non è necessariamente nell’oggetto in sé – se ne sta lì, semplice, solitamente nero, spesso ri-
Passeggiata uditiva
“Cento solitudini formano il fascino della città di
Venezia – questa è la sua formula magica.
Un’immagine per l’uomo del futuro”. L’osservazione
di Nietzsche non si riferisce alla “folla solitaria”,
spettro dell’angoscia collettiva, né all’Uomo della
Folla di Poe, che trova una vitalità vicaria tra la
moltitudine, ma all’artificio della solitudine lussuosa: la solitudine come suprema raffinatezza di tutto
il disegno urbano. È possibile che si arrivi alla città
per raggiungere la solitudine? Potrebbe essere la
premessa non espressa della città moderna e del
suo individualismo utopico.
Per solitudine non intendo isolamento.
L’isolamento è uno stato di natura; la solitudine è
opera della cultura. L’isolamento è un’imposizione,
la solitudine una scelta.
Brian Hatton, 1988
61
Capitolo secondo
Passeggiata uditiva
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
vestito in pelle, del tutto inconsapevole – ma nell’estensione del
potenziale percettivo. Sebbene possa sembrare che le persone
che passeggiano con un walkman esprimano semplicemente un
vuoto, la vacuità della vita metropolitana, quel piccolo oggetto
può essere inteso anche come uno zero pregnante, come l’anello
di congiunzione in una strategia urbana, come slittamento semiotico, come un segno critico in una particolare organizzazione
di senso. Infatti l’idea di vuoto, di nulla, ci presenta sempre il
paradosso per cui il nulla si può conoscere solo conoscendo il
nulla, che è già qualcosa (Rotman 1987). Potremmo dunque suggerire che il vuoto apparente del walkman crea la possibilità di
un passaggio nel quale scopriamo, come ci ricorda Gilles Deleuze
in Logica del senso, le altre città che esistono nella città. In esse
ci muoviamo lungo quegli invisibili reticolati nei quali fluiscono
le energie emozionali e l’immaginario e dove il continuo scivolare
del senso mantiene la promessa di significato.
Nel suo aperto rifiuto della socialità, il walkman riafferma tuttavia la partecipazione a un ambiente condiviso. Esso prende parte direttamente alla trasformazione nell’orizzonte della percezione che caratterizza la fine del ventesimo secolo e ci presenta un
mondo che si frantuma in seguito alla crescente accumulazione
nei media di segni, di suoni e di immagini che si intersecano.
Con il walkman addosso affrontiamo quello che ne Il paesaggio
sonoro Murray Schafer chiama soundscape (Schafer 1977), un
paesaggio sonoro che sempre più rappresenta un mutevole collage; i suoni sono selezionati, campionati, confezionati e tagliati
non solo dai produttori (deejay, rapper, tecnici del suono), ma
anche dai consumatori (ciascuno di noi si forma la sua scaletta,
salta dei brani, ne ripete altri, alza il volume per sovrastare la
colonna sonora esterna oppure passa dall’una all’altra). Ogni
ascoltatore e/o esecutore seleziona e riadatta il contesto sonoro
circostante e, costruendo un dialogo con esso, lascia una traccia
nell’ambiente. Il walkman, come la radio a transistor, il computer portatile, il telefonino e, soprattutto, la carta di credito, è
uno degli oggetti privilegiati del nomadismo contemporaneo.
Tuttavia mentre il computer e la disponibilità di credito globale
trasmettono la persona attraverso uno spazio atopico in una
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Passeggiata uditiva
realtà virtuale più che corporea, dove il tempo è “fatale” e lo
spazio incidentale, il walkman riporta invece il mondo alla persona, riafferma il corpo e segnala laconicamente un’identità diasporica transitoriamente messa insieme. Come nella descrizione
di Walter Benjamin gli archi di Parigi gettano luce sugli interni, il
walkman porta il mondo esterno nell’architettura interna delle
identità.
In questo mondo mobile e avvolgente il walkman, come gli
occhiali scuri e la moda iconoclasta, serve contemporaneamente a nascondersi e a distinguersi, riaffermando così paradossalmente il contatto individuale con certe dimensioni comuni benché mutevoli (la musica, la moda, l’estetica, la vita
metropolitana… e i loro particolari cicli di mortalità). In questo
modo il walkman diventa una maschera, una messa in scena
di una teatralità circoscritta. Si rivela come un significativo
gadget simbolico per i nomadi della modernità, in cui la musica in movimento si decontestualizza e ricontestualizza continuamente nell’esistenza acustica e simbolica del quotidiano
(Hosokawa 1984). Ma se finora il walkman rappresenta la forma estrema dell’arte di transito, esso rappresenta anche l’estremo mezzo musicale che consente una forma di mediazione
con l’ambiente. Infatti offre la possibilità, sia pur fragile e
transitoria, di imporre il proprio paesaggio sonoro sull’ambiente sonoro circostante e in questo modo di addomesticare
il mondo esterno; per un attimo tutto può essere ridotto ai
pulsanti Stop/Start, Fast Forward, Pause e Rewind.
Il fascino dell’immagine del walkman, a parte l’intimo segreto
che mostra sfrontatamente in pubblico (che cosa sta ascoltando?), è la sua posizione ambigua fra autismo e autonomia: si
tratta di quel misto ambiguo di pericolo e potere salvifico, parafrasando la citazione di Heidegger da Hölderlin, che caratterizza
la tecnologia moderna. Perciò, capire il walkman comporta non
solo moltiplicare diversi punti di vista su di esso, ma anche rendersi conto che esso non toglie nulla al senso, bensì vi aggiunge qualcosa e lo complica. Si potrebbe dunque dire che la nostra relazione con il walkman sarà libera se “apre il nostro esserci all’essenza della tecnologia” (1962a). Per “essenza”
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
(Wesen) Heidegger intende qualcosa che perdura nel tempo, che
risiede nel presente, che offre un “senso” della tecnologia non
riducibile solo al “tecnologico”. Malgrado la nostalgia per l’autenticità che permea il discorso di Heidegger, è possibile orientare le sue parole in una direzione suggestiva. Alla domanda
che cosa sia la tecnologia e, in particolare, il walkman, si può
rispondere che si tratta contemporaneamente di uno strumento
tecnico e di un’attività culturale. Proseguendo con le riflessioni
del filosofo tedesco, si può dire che il walkman è uno strumento e un’attività che contribuisce al conferimento di un senso, alla rappresentazione o al disvelamento (Gestell ) del mondo.
Ritrovando le origini etimologiche di “tecnologia” nella parola
greca techne e nella sua antica relazione con le arti, la poiesis e
la conoscenza, Heidegger suggerisce un mezzo più ampio per
pensarne il senso e la verità particolare.
Ma, in quanto strumento e attività, il walkman non è semplicemente uno strumento che rivela la perenne verità della tecnologia e dell’essere; è anche una realtà e una pratica storica e immediata. Facendo parte dell’equipaggiamento del nomadismo
moderno, esso contribuisce all’estensione protesica di corpi in
movimento, intrappolati nella diffusione decentrata delle lingue,
delle esperienze, delle identità, degli idioletti e delle storie che
sono tutti distribuiti in una sintassi tendenzialmente globale. Il
walkman ci incoraggia a pensare dall’interno di questa nuova
organizzazione di tempo e di spazio. Qui, ad esempio, il vecchio
modello geometrico della città, organizzatore dello spazio, è stato progressivamente sostituito dalla cronometria e dall’organizzazione del tempo. La tecnologia dello spazio è stata integrata
e sempre più corrosa dalla tecnologia del tempo: il “tempo reale”, i “nanosecondi” dei chip dei computer e dei blip dei monitor, delle informazioni transitorie sullo schermo, dei suoni carpiti
attraverso le cuffie. Ciò porta alla comparsa di un’ulteriore dimensione. “La velocità torna ad essere all’improvviso una grandezza primitiva al di qua di ogni misura sia di tempo che di luogo” (Virilio 1984, p. 5).
Per viaggiare e lavorare in questo ambiente inseriamo la spina,
scegliendo un circuito. Al posto dei “grandi racconti” (Lyotard)
Vedo le Vie dei Canti che spaziano per i continenti e i secoli; uomini che hanno lasciato una scia di Canto (di cui ogni tanto cogliamo una eco) ovunque sono andati; e queste scie devono ricondurre, nel tempo e nello spazio, a una fossa isolata nella savana
africana dove il primo Uomo, sfidando gli orrori attorno a lui, aprì
la bocca e gridò la strofa di apertura del Canto del Mondo: “IO SONO!” (Chatwin 1988, p. 373).
La visione nietzschiana del mondo, ovvero di un mondo di nostra fattura, la cui esistenza dipende dalla nostra attività e dal
nostro linguaggio, è qui presentata come l’avventura umana in
cui i movimenti dei popoli e il rigore e il ritmo dei corpi, delle
membra e della voce stabiliscono i modelli, il disegno, la desi-
65
Passeggiata uditiva
della città, messi da parte, il walkman consente una micro-narrazione, una storia e una colonna sonora individuali, non semplicemente un luogo, ma un posto dove stare. L’ingresso in
spazi pubblici di tale habitat privatizzato è un atto di disturbo.
La sua qualità perturbante risiede nella deliberata confusione
di confini preesistenti, nel suo provocatorio apparire “fuori posto”. Oggi la confusione di posto, voci, storie ed esperienze
che si manifestano “fuori posto” fa parte del senso complessivamente più ampio della crisi semantica e politica contemporanea. L’ordine spaziale precedente ha dovuto sempre più affrontare l’eccesso dei linguaggi emersi dalle storie e dai linguaggi del femminismo, dei diritti sessuali, dell’etnicità, della
questione razziale e ambientale, che debordano e minano la
sua autorità. Il walkman è dunque un atto politico? È certamente un atto che si intreccia inconsciamente con molte altre
microattività, conferendo un significato differente alla polis.
Nel produrre un diverso significato dello spazio e del tempo,
anch’esso partecipa alla riscrittura delle condizioni della rappresentazione: dove “rappresentazione” chiaramente indica sia
le dimensioni semiotiche del quotidiano, sia la potenziale partecipazione a una comunità politica.
Bruce Chatwin, nel suo bellissimo Le vie dei canti, ci propone
l’immagine di un mondo generato con il canto.
Iain Chambers
Paesaggi migratori
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gnazione della terra, del paese, della nostra dimora. L’aura religiosa di questo nomadismo si è chiaramente vanificata nelle reti
più secolari della società occidentale. Continua forse ancora a riecheggiare all’interno delle cuffie miniaturizzate dei moderni nomadi, come tracce a stento ricordate di un viaggio un tempo sacro, teso a celebrare la sua presenza in un segno, una voce, un
cenno, un simbolo, una firma da lasciare lungo il percorso.
Capitolo terzo
Le macchine del desiderio
Le macchine del desiderio
Le tastiere elettroniche dei nostri giorni vengono corredate di
pulsanti del “sentimento” deputati a inserire “errori” programmati in quella che altrimenti sarebbe una riproduzione del suono troppo perfetta (Goodwin 1990). I microcircuiti e i chip dei
computer consentono una riproduzione più “reale” del reale.
Veniamo introdotti in un mondo in cui il puro fattore di un indice viene combinato con un insieme intertestuale di suoni e di
luci che confutano la metafisica del realismo. Il cinema, i racconti di fantascienza, la musica pop, la fotografia e, soprattutto, la
computeranimazione, orbitano tutti attorno alle ricerche su questa composita rappresentazione della “realtà”.
In particolare è l’ambiente informatico dei dialoghi digitali e delle memorie digitali a evocare l’aura soprannaturale di un mondo
immateriale. Veniamo incoraggiati a “concretare la fantasia di
‘realizzare il sogno’” (Burgin 1991, p. 9), e in tal modo a evitare
la trappola di lingue e autorità più antiche, referenti comunemente accettati. Questa alchimia elettronica sembra invitarci a
vivere in un mondo simulato, dove tutto è costruito, inventato e
favolato secondo i nostri bisogni, piaceri e capricci.
Naturalmente, però, abbiamo sempre costruito i nostri mondi simulati: miti e racconti che riuniscono elementi vari, disparati e
incompleti in un continuum di significato personalizzato e collettivo. Le nostre vite, le spiegazioni, le interpretazioni e la memoria appartengono a una trama immaginaria sorretta dal linguaggio. Lo stesso mondo è continuamente costruito, ordito e pro-
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È ormai noto che la materia – cosa tra le più
solide e conosciute, che teniamo fra le mani e
che costituisce il nostro corpo – è soprattutto
spazio vuoto. Spazio vuoto e punti di luce.
Cosa ci dice questo della realtà del mondo?
Jeanette Winterson (1989, p. 8)
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
gettato. Anch’esso è divenuto una favola (Nietzsche), un sogno
fantasmagorico (Benjamin), qualche volta un incubo.
Eppure qualcosa è accaduto; si è registrato uno spostamento
nella costellazione del senso. Sebbene i nostri corpi rimangano
la materia prima delle stelle future, è come se nel continuum si
fosse spaccato un anello cruciale. I riferimenti solidi, trasformati
in metafore elettroniche e incorporee – significanti mobili, macchie luminose su uno schermo, numeri in un programma, gruppi
di combinazioni autoreferenti attorno al numero zero – sono stati sempre più sostituiti da forme astratte “come stessero ancora
nel cervello” (Rainer Maria Rilke).
Centrale al disagio e alla spaesatezza indotti da questa situazione è l’immediata connotazione di falsità di questo mondo favolato. Nel suo artificio la simulazione è considerata “artificiale” e
perde tutto il peso materiale (e ontologico) associato alla “realtà”. E tuttavia in essa si registra un importante rendez-vous tra
la disintegrazione del paradigma referenziale della realtà, così
caro alla scienza positivista e all’estetica del realismo, e il continuo assalto al nostro ambiente da parte dei linguaggi e delle
immagini apparentemente autogenetiche dei mass media. Il conseguente interrogativo epistemologico e l’esperienza quotidiana
del vivere in un mondo sempre più mediato ci lasciano con un
senso della realtà che è diventato un po’ più complesso, più
contingente, senz’altro più dipendente dai linguaggi di rappresentazione. In questo caso l’appello all’autenticità suona un po’
vuoto, nostalgico e apparentemente fuori luogo. I nostri strumenti di valutazione e misurazione non sono più garantiti da
una metafisica del “reale”. Anche quel discorso si è rivelato un
racconto e la sua pretesa di essere un fatto immutabile e solido
diventa questione di interpretazione.
Sia nelle arti visive che nel pensiero critico continuiamo ad assistere a tentativi di trasformare la fluidità della vita in forme meno transitorie. Tuttavia questi stessi tentativi tradiscono, addirittura annunciano e celebrano, la loro precarietà, ricercando nel
contempo una momentanea redenzione nella trascendenza.
Questa poiesis prende forma nel sogno, nel progetto di rappresentare l’irrappresentabile, di dire l’indicibile, di nominare l’inno-
69
Le macchine del desiderio
minabile. Qualsiasi commento, qualsiasi linguaggio formale della
percezione, che segua i codici del pensiero critico o, ad esempio, della fotografia, rimane sempre ai margini di ciò che cerca
di rappresentare o raffigurare. Nella prosa, o nel negativo fotografico, le energie del mondo quotidiano appaiono come fantasmi, tracce fantasmatiche che, sebbene gettino un’ombra sulla
pagina o nella fotografia, rimangono sempre al di là della vista.
Il tentativo di raffigurare, descrivere e catturare questo altrove,
questo itinerario impazzito della scienza positivista che una volta si riteneva capace di filtrare completamente il mondo attraverso il suo vaglio, è anche la materia di cui sono fatti i sogni.
Se oggi si cominciano ad abbandonare le illusioni razionaliste e
le smisurate pretese delle scienze naturali e umane, resta la sostanza del sogno, l’atto del sognare, le trame immaginarie e
poetiche con cui continuiamo a conferire senso al mondo. In
questo processo apparentemente immateriale di metafora e associazione (già sperimentato, ad esempio, nel rifiuto surrealista
del funzionalismo modernista, nell’architettura “commestibile” di
Antoni Gaudí e nell’“ipermaterialismo” di Dalí) vengono congiunti il quotidiano e l’eccezionale con effetti straordinari. Il funzionalismo – oggetti chirurgicamente denudati dal bisturi razionalista – è la “completa negazione dell’immagine dell’abitare”
(Tristan Tzara in Vilder 1990, p. 43) Ma è nell’idea di abitare –
“poeticamente abita l’uomo” insiste Heidegger citando Hölderlin
– che risiede il più vasto e immateriale senso della nostra esistenza, sospeso tra terra e cielo, tra passato mitico (le deità) e
futuro desiderato (l’umanità). Abitare per Heidegger non significa
semplicemente risiedere in un edificio. Il concetto implica una
responsabilità nella coltura e nella cultura di un luogo – “gli
spazi ricevono la loro essenza non dallo spazio, ma dai luoghi”
(Heidegger 1954, p. 103).
Il rifiuto di una distinzione formale tra realtà e simulacro è inestricabilmente legato alla crescente evanescenza, confusione e
permeabilità dei confini, al continuo attraversamento delle frontiere. Mentre la distinzione fra reale e artificiale, organico e
inorganico, autentico e simulacro, una volta era proclamata con
sicurezza, ora non è più possibile. I nostri corpi sono invasi
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
dalla tecnologia sia nell’ambito della salute che del tempo libero e, nel contempo, riappaiono continuamente ricomposti nel
mondo elettronico delle comunicazioni moderne: cinema, televisione, CD, computer graphics… il mondo multimediale delle simulazioni. Ogni cosa è contaminata e impollinata dalle altre.
Nel più artificiale eppure tattile dei corpi, quello di Arnold
Schwarzenegger, si rivela continuamente l’accordo protesico in
base al quale la logica casuale del “naturale” viene sostituita
dai dettami culturali del “biologico”: la macchina sotto la pelle
in Terminator, l’altra memoria – quella del sogno, della realtà?
– in Total Recall. Da questi corpi emergono altre realtà, altri
corpi: Eraserhead, Alien, Videodrome, Robocop, Tetsuo. Questo
mondo è popolato da quella che Donna Haraway chiama
cyborg culture (Haraway 1991).
Per Walter Benjamin tutto questo sarebbe semplicemente una
conferma delle sue opinioni sulla genesi del feticismo. Il feticismo “sopprime le barriere che separano il mondo organico
da quello inorganico” ed è “di casa nel mondo dell’inanimato
come nel mondo della carne” (Benjamin 1982). Ma a che cosa
ci si vuole riferire con questa abile confusione dei discorsi
marxista e freudiano: a un oscuro uso-valore o a un oggetto
del desiderio dislocato, un’aggiunta superflua o un eccesso
essenziale? Come ha sottolineato Benjamin (1982, p. 19) a
proposito della fotografia, l’ubiquitario computer ci informa
sull’“inconscio della vista”.
Negli anni Sessanta le più vivide suggestioni dell’instabilità e
della mutabilità del reale venivano dall’hashish, da certi funghi
e dall’LSD. Oggi le “porte della percezione” di Aldous Huxley sono state aperte in modo certamente più pubblico dalla pratica
metropolitana di rivolgersi a uno schermo per trovare autorealizzazione nel lavoro e nel tempo libero. Nella logica piatta e bidimensionale dello schermo abbiamo oggi la possibilità di contemplare l’invisibile. Con la simulazione elettronica dell’iperspazio del computer è come se l’arcaico legame fra conoscenza e
vista, rivelato dall’etimologia oculare di “teoria”, fosse rafforzato
dalla chiarezza dell’immagine computerizzata.
In questo c’è un’estensione e un mutamento.
71
Le macchine del desiderio
Con la “Biblioteca Mondiale” potenzialmente on-line che attende di essere personalizzata e aggiornata, elettronicamente consultiamo, commentiamo, tagliamo e incolliamo parole, immagini, pellicole e suoni, assemblando un nostro ipertesto. In questa biblioteca infinita, come nelle infinite spirali di Mandelbrot,
viaggiamo su scala sempre più ridotta verso una crescente
complessità, dove il momento della conclusione è posposto all’infinito.
Ma con il computer, con il suo linguaggio tattile, con le sue manipolazioni digitali, dove le forme appaiono come se fossero direttamente trasferite dal pensiero allo schermo e lo schermo
stesso si presenta come una simulazione del cervello, partecipiamo anche alla spettacolarizzazione dell’invisibile. È forse un
passo avanti rispetto ai precedenti tentativi di visualizzare il cervello di Einstein, “la testa irta di fili elettrici: si registrano le onde del suo cervello mentre gli si domanda di ‘pensare alla relatività’” (Barthes 1957, p. 87) Forse la risposta è nella domanda
retorica di Roland Barthes: “Che cosa vuol dire esattamente
‘pensare a… ’?” (ib.). La questione non riguarda più il cervello di
Einstein, ma l’idea stessa di una cosa – “la relatività” – che esiste altrove, che aspetta di essere scoperta da un gesto indipendente e razionalista, come se fosse al di fuori del discorso che
la nomina. Il venir meno delle precedenti dualità – il reale e il
rappresentato, la realtà e il simulacro, l’autentico e l’artificiale,
l’originale e il falso – ci porta a mutare le precedenti certezze
epistemologiche in una confusione istruttiva. Una cosa, però, incomincia a emergere. Su questa soglia ambigua e arcana fra corpi “reali” e “artificiali” viene sempre più a mancare l’indipendenza cartesiana della mente, il cogito dell’individuo razionale come
presunto fondamento dell’identità moderna.
È in primo luogo il computer a suggerire un dialogo con l’infinito: con esso tutto può essere digitalizzato e riprodotto ad infinitum. Come sottolinea Jean Baudrillard (1987), questa macchina
propone un’“eternità virtuale, non già quella, duratura, che troviamo dopo la morte, ma quella effimera della ramificazione delle memorie artificiali”. Apparentemente i computer realizzano il
sogno di rendere l’infinito finito, ovvero visibile. Offrono il fasci-
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
no senza fine dello “spettacolo del pensiero” (Baudrillard 1987).
Tuttavia, nonostante il continuo tentativo di Baudrillard di porsi
“oltre” – oltre il pensiero, il desiderio, la storia, la fine della storia e persino se stesso – la resistenza morale (quella distanza
critica che egli ironicamente nega) nella sua descrizione del
computer rivela ancora una fede in un originale, in uno stato
delle cose che esisteva prima della loro rappresentazione, riproduzione, simulazione.
Non equivale forse a parlare di feticismo, di distinzione fra
“vero” e “apparenze”? Che cosa significa, parafrasando
Nietzsche, parlare di pensiero, o di altro, se esso non appare,
se non viene mostrato, come se potesse esistere in uno stato
“puro” o “naturale” senza essere rappresentato, come se venisse prima o andasse oltre il linguaggio? Non esiste un a
priori, non esiste un pensiero senza un mezzo espressivo, una
mediazione, una scena, uno spettacolo. Tuttavia nella descrizione di Baudrillard degli uomini dell’Intelligenza Artificiale
che attraversano lo spazio mentale attaccati ai loro computer
si può ancora ritrovare chiaramente il sogno di essere redenti
dall’autenticità:
Possiamo supporre che un giorno gli occhiali o le lenti a contatto
diventeranno protesi integrate di una specie in cui lo sguardo sarà
ormai scomparso e allo stesso modo possiamo temere che l’intelligenza artificiale con i suoi supporti tecnici diventerà la protesi di
una specie in cui il pensiero sarà ormai svanito.
L’intelligenza artificiale è senza intelligenza perché è senza artificio.
Il vero artificio è quello del corpo nella passione, del segno nella
seduzione, dell’ambivalenza nei gesti, dell’ellissi nel linguaggio, della maschera sul volto, del motto che altera il senso e che per questo si chiama motto di spirito (p. 160).
Queste macchine desessuate sono celibi. Non potranno mai
conoscere il piacere della seduzione; possono generare e
combinarsi, ma non potranno mai vivere l’estasi di un’illusione, l’ironia del linguaggio. Questo spiega “la profonda malinconia dei computer” (p. 161). Entriamo in un coma indotto dal
vuoto dello schermo. Ma sicuramente questa storia, che parte
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Le macchine del desiderio
dalla paura dello stato dell’“autentico”, è troppo netta e la
sua evocazione del “mondo reale” con le sue passioni e seduzioni soggette alla “oggettiva realtà della conoscenza” è troppo ingannevole. Viene il dubbio che spesso la lettura di
Baudrillard abbia dato origine a un terribile equivoco. Le sue
folli descrizioni sono state prese per prescrizioni. Infatti sotto
il vortice demoniaco del suo linguaggio c’è la chiara insistenza sul fatto che abbiamo perso contatto con il mondo reale.
Baudrillard non è lo sbalordito vate di un Brave New World
della postmodernità, ma l’insistente profeta della sua apocalisse. Il suo linguaggio virale, come quello di Paul Virilio, è
soprattutto sintomo di un profondo disagio: siamo stati tutti
contagiati e stiamo per sparire. Nella sua voce c’è il timbro
isterico dei situazionisti assieme agli accenti più equilibrati di
Francoforte e del marxismo, e c’è anche il più antico e profondo credo romantico del proteggere i “valori umani” (e gli studi “umanistici”) dalla minaccia della nuova barbarie della macchina (e delle sue “scienze”). L’accumulo di tutta questa negazione sembra suggerire che in qualche modo siamo esclusi da
questi ultimi per natura.
Potremmo tornare al problema della realtà, al paradosso di
essere minacciati dai nostri stessi prodotti, e con essi riaffrontare la questione più ampia dell’abitare. Cosa significa abitare
questa realtà, dove i confini vengono continuamente attraversati e gli indicatori semantici sempre più confusi da questo
traffico? Come possiamo trasformare questo spazio in luogo,
in habitat?
Il computer e i suoi utenti sono i moderni oggetti/soggetti par
excellence. Il programmatore, in particolare, ha preso il posto
dell’ingegnere, dello scienziato nucleare o dell’astronauta. Ha
acquisito il mantello del mago Merlino. Costui (talvolta costei)
offre qualcosa di magico, soluzioni per problemi impensati, viaggi in luoghi inimmaginati. Sia il computer che il programmatore
sono un’iperincarnazione della condizione (e frustrazione) dell’essere disperatamente moderno. Mito contemporaneo, con il
suo accesso ai codici segreti dell’ordine (dalla banale assicurazione della statistica, fino all’infinità dei frattali, all’entropia e al-
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
la “scienza del caos” passando per il mondo aperto della matematica), il computer offre nella dissoluzione dell’ultima modernità confortanti punti di riferimento. Mentre i “grandi sistemi dell’ideologia classica – marxismo, socialismo, liberalismo – cominciano a incrinarsi e a perdere la loro credibilità, al pubblico si
propone un nuovo modello di organizzazione sociale basato su
programmatori e macchine comunicanti” (Breton 1990, p. 25). La
simbologia che ne deriva ci porta ben oltre l’attuale organizzazione sociale e ci immerge nella originaria economia spirituale
del desiderio di sapere.
Si può dire che il computer rappresenti nel contempo una fine
e un inizio. Come metafora dell’ambiguità della conoscenza moderna esso tiene uniti gli opposti. La conoscenza è visualizzata
e totalizzata: la metafisica occidentale è proiettata sullo schermo come in un calcolo universale. Qui ognuno, cifra dell’apparenza e dell’insieme razionale, può essere ordinato, simulato e
apparentemente spiegato. Tuttavia incombe un’aura di mistero
e di magia.
In questa euforia incorporea del cyberspazio possiamo affrontare anche l’alchimia della mutazione antropologica (Gibson
1986). Questo mondo, con la sua promessa di piena intelligibilità, mondo dell’“uomo totale”, è abitato da un’intelligenza onnipotente senza corpo, un insieme di informazioni senza membra o organi, una forma di creazione radicalmente alternativa.
In questa versiona aggiornata di Frankenstein viene abbandonata la struttura fisica del corpo, e la materia del cervello di
Einstein non è più necessaria. Qui, nell’infinità dei chip della
memoria, il corpo dell’homo telematicus viene finalmente superato, smaterializzato. L’anatomia, proiettata nella quarta ed
eterna dimensione del cyberspazio, è rimpiazzata da impulsi
elettrici di intelligenza “pura”.
In questo universo senza corpi o apparenti supporti materiali
viaggiamo attraverso l’interfaccia entrando nell’impero della
“network nation sull’onda dei dati” (Levy 1992, p. 65), consultando di tanto in tanto le guide sui pericoli dei bug, dei crash e
dei virus. Viaggiamo tra i miti degli autoreplicanti (il Golem, le
“macchine anatomiche” del principe di Sansevero, la creatura di
75
Le macchine del desiderio
Frankenstein, l’intelligenza artificiale di Terminator) e l’utopia di
“liberare” l’universo dell’informazione. Smembrati e riassemblati
dall’altra parte dello schermo sotto forma di punti di luce, viaggiatori elettronici, spettrali cosmonauti, cerchiamo di ri-membrare noi stessi, mentre la memoria del desiderio e l’erotismo della
conoscenza si combinano incessantemente (Romanyshyn 1989).
La sostanza senza vita del silicio e dei circuiti, animata dall’elettricità, fa rivivere il nostro doppio e con esso la promessa di
eternità in qualche banca dati. Questo passaggio oltre la morte,
oltre il cadavere, è naturalmente il dramma di Frankenstein e
della sua creatura.
Gli occhi fissi sullo schermo del computer, sembra avverarsi il
sogno di umanizzare la tecnologia – la creazione di
Frankenstein diventa finalmente “user friendly” – di tradurre la
sua logica hard in ambiente soft, di modellarla per adattarla al
nostro habitat. L’incontro fra presunti opposti – il corpo organico e la macchina – è divenuto osmotico e il passaggio fra i due
è apparentemente immateriale. La distanza è stata colmata, ridotta a un frisson di piacere anticipato, a un brivido controllato. Qui, alle frontiere della techne, nel territorio della poiesis,
tecnologia, tecnica e metafora si fondono nel linguaggio dell’essere e l’antica frattura fra scienza e musica sembra sanata.
La distinzione tra l’uomo e la macchina è sostituita da un continuum in cui il razionale e l’immaginario si amalgamano. In
una sorta di condizione zen dove il significato fluttua, viviamo
il fascino di attraversare e trasgredire quella vecchia frontiera e
di entrare, per così dire, nella quarta dimensione.
Ma forse tutto questo è solo la versione più recente di un’avventura per ragazzi. La precedente esplorazione dello spazio
esteriore è stata ora sostituita dal pieno riconoscimento del narcisismo maschile in un viaggio interiore, riflesso non solo nel
volto che osserva il monitor, ma soprattutto nel linguaggio interiore ed edipico che si attiva nel circuito della scheda madre.
Nell’intima conversazione dell’interfaccia è apparentemente insito il trionfo finale della logica maschile sulle emozioni femminili,
del freddo calcolo sui caldi impulsi, della pianificazione sulla
passione. Tuttavia, mentre ci aspettiamo che le donne usino il
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
computer a un livello strumentale e funzionale, cioè “razionalmente”, come dattilografe e segretarie che forniscono beni e
servizi al “mondo-parola” elettronico, gli uomini diventano emotivi nel loro entusiasmo e si trasformano in ragazzini in contemplazione del proprio ombelico elettronico e immersi nell’infantile
piacere di un nuovo giocattolo. In questo Paese delle Meraviglie
Alice ha cambiato sesso e la proiezione ritorna al punto di partenza nella chiara esposizione di una fantasia maschile.
Probabilmente è così, ma non è tutto. Perché in questo mondo
fluttuante, che i giapponesi chiamano ukiyo, possiamo scoprire
anche le coordinate di un’esistenza più ampia. Nella irresoluta
riproduzione della realtà dove le immagini mutano, il senso migra e si smaterializza nel segno della simulazione, della velocità
e della simultaneità, vengono dichiarate le regole del gioco con
cui sono costruiti il linguaggio e la comunicazione: la scena dei
segni. Nel passaggio dalla rigidità alla fluidità, dai sistemi binari
alla biforcazione, le identità e i ruoli ereditati entrano nello spazio malleabile del segno. Le immagini, comprese quelle che abbiamo di noi stessi, vengono a essere fuse elettronicamente con
le forze libidiche del nostro immaginario.
I nostri corpi diventano altri corpi, ovvero oggetti sullo schermo,
ulteriori segni. I momenti di scrittura, visione, iscrizione, viaggio
fisico e immaginario sono tutti tentativi di unire due sponde, di
navigare fra il corporeo e l’incorporeo, di rompere il rigido dualismo soggetto/oggetto, maschio/femmina, realtà/immaginazione,
nel riconoscimento del desiderio. È quel desiderio, con le sue
peculiarità culturali e storiche che ci definisce, e non l’illusoria
cancellazione tecnica di noi stessi ove i corpi si smaterializzano
nell’ambiente autoreferenziale e simulato della metamorfosi dei
media. In questa erranza è il dialogo di desiderio, di movimento, di senso e sensi mutevoli, di aperture, a divenire il fulcro del
senso e a fornire il terreno narrativo su cui si basa il nostro movimento, piuttosto che la tecnologia e le tecniche distillate nel
corpo alienato che sta di fronte alla macchina.
E, per riprendere il nostro viaggio, se ciò che chiamiamo ragione fosse storicamente sessuato? Chiaramente la costruzione
dell’Intelligenza Artificiale non è un processo neutrale, così co-
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Le macchine del desiderio
me la potenziale flessibilità di interfaccia e programmazione
aperta non è necessariamente riconosciuta nelle razionalizzazioni patriarcali e nel vocabolario dell’informatica: slave, abort,
boot-up (Perry, Greber 1990). C’è poi il paradosso della demascolinizzazione della macchina da guerra, dove il computer rimuove i muscoli, la fisicità dagli affari militari perché è il software al pari dell’hardware a determinare l’esito di un conflitto
(Edwards 1990). Di contro esistono uomini che si servono della
loro sessualità per proteggere il proprio status ideologico ed
economico simulando una realtà che non esiste più, quella dell’esperto compositore di stampa: oggi sono semplici dattilografi
a digitare un testo per una composizione computerizzata
(Cockburn 1983).
Muovendoci oltre le preesistenti relazioni sociali che hanno preso dimora nel nuovo mondo dell’informatica, ci troviamo di
fronte a interrogativi che sono al centro della logica della programmazione. In parole povere, bisogna scegliere fra le organizzazioni gerarchiche dei programmi, che si muovono per astrazione dall’assioma al teorema, al corollario, e l’opposto stile ad
hoc dei bricoleurs che costruiscono teoremi riordinando, prendendo in prestito e riadattando materiali già disponibili. In quest’ultimo caso “si preferisce trattare i simboli sullo schermo come oggetti fisici piuttosto che come astrazioni, antropomorfizzare il programma, o vedere le cose in termini di relazioni piuttosto che in termini di proprietà, anche se tali preferenze sono
scoraggiate nei normali corsi di informatica” (Turkle, Papert
1990). Di conseguenza l’interfaccia passa dalla competizione alla cooperazione, dall’astrazione unidimensionale a icone, touch
screens, riconoscimento della voce, fino ad arrivare a “realtà
virtuali” dove, con i caschi e i guanti elettronici, l’interfaccia diventa cinestetica e si affida alla manipolazione apparentemente
tattile di un materiale che sembra tridimensionale, mentre l’utente maneggia gli oggetti direttamente sullo schermo, si muove fra gli schedari della “scrivania” varcando persino le porte
dello schermo per entrare in altre “stanze”.
Qui i processi istituzionali e ideologici che installano i computer – la loro progettazione, programmazione e utilizzazione –
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
entro le coordinate presunte “neutrali” di logica, linearità e oggettività, e l’invariabile consacrazione di questi termini a opera
della mascolinità e del progresso vengono sfidati e giocosamente dispersi. La conoscenza, presunta beneficiaria di un’accumulazione limpida e lineare del tempo e del progresso, rivela
ora quel più oscuro sottofondo di ombre dove ancora una volta
incontriamo “la ragione rivestita di desiderio” (Romanyshyn
1989, p. 10). Ci troviamo nello spazio della “ragione barocca” di
Christine Buci-Glucksmann, una ragione che incorpora il desiderio, una ragione la cui stranezza e il cui arcano eccesso ci danno l’allegoria di una modernità alternativa che va oltre la “ragione mercantile” del razionalismo (Buci-Glucksmann 1983). Alla
libertà illimitata dell’individuo razionale del pensiero classico
l’allegoria barocca contrappone la rete simbolica che ci tiene
prigionieri nel linguaggio, nella storia, nella mortalità.
A questo punto possiamo forse chiederci se il computer sia l’esito trionfante di un processo di razionalismo totale o piuttosto
il simulacro del nostro essere prigionieri di quel sogno. In questo caso esso ci riproporrebbe i nostri limiti e il nostro ri-entro
storico in un mondo più circoscritto e contingente. Non più accecati dalla luce del “progresso” e dalla sua autorità patriarcale,
forse possiamo ritrovare il nostro posto e tornare ai nostri computer senza l’Uomo Illuminato, abbandonato come un “fantasma
con un’erezione” (Romanyshyn 1989, p. 200).
Nella soprannaturale capacità del computer di presentare
un’“immagine del mondo” incontriamo il limite costituito dallo
schermo, il vetro che separa il mondo apparentemente concreto e quello simulato della luce eterea. Ma “il limite non è il
punto in cui una cosa finisce ma, come sapevano i Greci, ciò a
partire da cui una cosa comincia la sua essenza” (Heidegger
1954, p. 103).
Questa apertura, questa attenzione, questa riflessione ci danno
il “coraggio di porre radicalmente in questione la verità delle
nostre presupposizioni e il campo dei nostri obiettivi”
(Heidegger 1952, p. 71).
Capitolo quarto
Il mondo in frantumi: di chi il centro,
di chi la periferia?
… il concetto stesso di letteratura inglese come
studio che racchiude il proprio fondamento nazionale, culturale e politico specifico e si offre come
nuovo sistema per lo sviluppo di valori “universali”
viene fatto esplodere dall’esistenza della letteratura postcoloniale.
Bili Ashcroft, Gareth Griffiths, Helen Tiffin (1990, p. 196)
Che cosa accadrebbe al logocentrismo, ai grandi sistemi filosofici, all’ordine del mondo in generale se la roccia su cui è costruita questa chiesa dovesse crollare?
Hélène Cixous, Catherine Clement (1987, p. 65)
Suoni, voci, linguaggi sono sempre inscritti in un luogo. Sotto
il segno del linguaggio, del potere dell’“inglese”, le citazioni
Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
(…) se, come dicevo, l’atto della traduzione culturale (sia come rappresentazione sia come riproduzione) nega l’essenzialismo di una cultura originaria precedente data, vediamo allora che tutte le
forme di cultura sono in un processo continuo di
ibridismo. Ma per me l’importanza dell’ibridismo
non sta nel riuscire a ritrovare i due momenti originari da cui emerge il terzo, l’ibridismo per me è
piuttosto un “terzo spazio” che consente ad altre
posizioni di emergere.
Homi K. Bhabha (1990b, p. 211)
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Tre corvi agitano le ali in cerca di alberi
E si posano, facendo stridere i rami dell’eucalipto.
Un odore di cedri morti risveglia nel naso
La lebbra dell’Impero.
Derek Walcott (1992, p. 35)
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
sopra riportate – provenienti dalle periferie un tempo ignorate
dei Caraibi, dell’India, dell’Australia e dell’Algeria – sollevano
questioni fondamentali in un’epoca di postcolonialismo. Sono
domande che si incontrano quando la cultura britannica (e occidentale) implode per effetto dell’occupazione da parte di altre voci, altre storie, altre esperienze. Nei viaggi reali e immaginari che costituiscono le moderne mappe delle culture metropolitane, emergono isole linguistiche e musicali che formano
catene di identità basate su ritmi del tempo e dell’essere molto diversi. Gli accenti dell’Impero che tornano nelle voci dei
soggetti postcoloniali – sia che vengano dalla “periferia” sia
che erompano al centro – trovano espressione in un cosmopolitismo interculturale che, rielabora e riscrive le storie, un tempo occulte, dell’atlantismo nero e della diaspora imperiale nella grammatica delle moderne identità nomadi. A dimostrazione
di ciò ci sono i rinomati viaggi letterari di Derek Walcott e
Salman Rushdie, la poesia “dub” volutamente sconcertante di
Big Youth, Michael Smith e Linton Kwesi Johnson, il tropo del
viaggio e della trasformazione che ha un ruolo centrale nella
recente comparsa di autrici nere negli Stati Uniti e nei Caraibi,
l’impronta più localistica della fotografia e del cinema neri postrealisti in Gran Bretagna e l’ubiquitaria mobilità dei ritmi
elettronici neri in tutto il mondo.
Come frutto di una “poetica forzata” (Edouard Glissant) che
emerge dall’esperienza di prigionia della schiavitù, del razzismo e del colonialismo, questa sintassi che in precedenza era
subordinata rivela “l’esperienza e la sensibilità sommersa surrealista” (Brathwaite 1984) che si trova all’interno dei comuni
stereotipi della lingua e della letteratura inglese e delle culture
eurocentriche. Questo momento particolare suggerisce quello
che il critico francese Christine Buci-Glucksmann, commentando
le celebri riflessioni di Walter Benjamin sull’Angelus Novus di
Paul Klee – l’angelo della storia – chiama un momento di intensità temporale. In un caso del genere avviene una frattura
nel tempo: una sosta che permette il rovesciamento politico
ed epistemologico delle storie dei già sconfitti (BuciGlucksmann 1983).
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Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
In termini più immediati, fra i segni che mi incoraggiano a postulare questa frattura del tempo e la comparsa di un’“altra”
semantica e sintassi culturale, c’è lo sviluppo di una particolare estetica metropolitana britannica nera che attribuisce una
forma e una direzione caratteristiche ai problemi di cultura e
identità postcoloniale. Nelle arti figurative c’è stata la mostra,
controversa ma sintomatica, The Other Story, tenutasi alla
Hayward Gallery nel 1990; nel cinema il Black Audio Film
Collective con Handsworth Songs (1986); Sankofa con
Territories (1984), The Passion of Remembrance (1986); Isaac
Julien con Looking for Langston (1989) e Young Soul Rebels
(1991); nella musica popolare la diffusa creolizzazione di varie
tradizioni musicali nere con Soul II Soul e gli Young Disciples;
nella critica la rivista «Third Text»; e in letteratura, a parte il
caso più evidente di Salman Rushdie, ci sono l’ilarità dell’ibridismo culturale nel Budda delle periferie di Hanif Kureishi, le
memorabili testimonianze di donne di colore in Charting the
Journey (Grewal et al. 1988), e la straziante biografia della narrativa dell’Impero al contrario di V. S. Naipaul – L’enigma dell’arrivo – che ci conduce al mistero che giace nel cuore di tenebra della modernità, non in Congo ma a Stonehenge, nella
Salisbury Plain battuta dal vento, nel cuore antico dell’Impero:
il luogo della Gerusalemme di William Blake (“Albion’s Druidy
Shore”) e di “altri innominabili riti” (Conrad).
Tutte queste parole, queste immagini, questi suoni, queste voci,
“mettono in gioco certi percorsi trascurati ma stimolanti che
conducono alla realtà di tradizioni che riguardano le capacità interculturali di indurre cambiamenti autentici in comunità minacciate da complicati pericoli e con precedenti diversi le une dalle
altre” (Harris 1983, p. X).
Incoraggiato da questo materiale mi accingo quindi a prendere in considerazione una serie di prospettive, in parte coincidenti, che riguardano alcune delle questioni e delle correnti
più ampie messe in moto dal postcolonialismo, dal femminismo e dagli intellettuali neri, e che oggi stanno decisamente
irrompendo nei modi di vedere stabiliti permeando di sé un
orizzonte critico emergente.
Voci
Iain Chambers
Paesaggi migratori
82
Ma un livello va certamente messo in discussione:
l’interpretazione metropolitana dei propri processi
come universali.
Raymond Williams (1989, p. 47)
Mentre la metropoli imperiale tende a interpretare
se stessa come determinante della periferia… abitualmente è cieca ai modi in cui la periferia determina la metropoli – a cominciare, forse, dal bisogno ossessivo di quest’ultima di presentare e ripresentare continuamente a se stessa le proprie
periferie e i propri altri.
Mary Louise Pratt (1992, p. 6)
Forse il primo elemento significativo da registrare nel dibattito sul senso della storia, della lingua e dell’identità che sta
emergendo in questo periodo è che si nota una crescente esitazione nel presumere di offrire una sintesi razionalista delle
voci e delle forze in azione nel mondo postcoloniale, come se
potessero essere semplicemente riportate sulla mappa esistente della conoscenza. A volte le voci che si incontrano
convergono, ma possono anche allontanarsi al punto da diventare incomprensibili e dissonanti. Qui infatti, come dice
Lévinas, viaggiare criticamente non significa più errare come
Ulisse, diretto a casa, ma come Abramo, scacciato dalla precedente casa della conoscenza e destinato a non farvi mai
più ritorno.
Ciò suggerisce l’esigenza di collegare – senza per questo ridurre all’identità – le correnti che attraversano il mondo critico contemporaneo in Occidente e che, in modo condensato,
rimosso e parziale, cercano di parlare di un altrove, di altri
mondi, e la cui compresenza e mescolanza turbano e decentrano il nostro precedente senso della conoscenza e dell’essere. Ciò significa accogliere un modo di pensare destinato
all’incompletezza. Il pensiero occidentale, con la sua promessa di presentare il quadro completo, si trova di fronte all’in-
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Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
completezza del “mondo dissipato, il mondo in frantumi” per
usare le parole memorabili di Thomas Pynchon (1990, p.
310): un mondo diviso in complessità, in diversi corpi, memorie, linguaggi, storie, differenze. La presenza postcoloniale,
dove la metafora astratta dell’“Altro” si è metamorfosata in
corpi storici e concreti, lancia una sfida allo schermo del pensiero universale – ragione, teoria, Occidente – che storicamente ha mascherato la presenza di una voce, un sesso, una
sessualità, un’etnicità e una storia particolari e ha concesso
all’“Altro” una presenza solo per poter confermare le proprie
premesse (e pregiudizi). Orientalismo (1978) di Edward Said è
il classico studio di questo potere discorsivo all’opera e l’attuale crisi dell’antropologia culturale ne è la testimonianza
più eloquente. Sebbene quest’ultima narri frequentemente la
morte dell’“indigeno”, infatti, spesso si tratta soltanto di una
metafora, leggermente dissimulata, della morte delle pretese
della disciplina stessa. Ormai decisamente caratterizzati dall’impossibilità storica ed etica di parlare a nome dell’“altro”,
questi ambigui riti funebri invariabilmente ci riportano a riconsiderare l’asimmetria dei poteri di rappresentazione, e il
nostro posto al loro interno, nell’ambito del mondo attuale
(Taussig 1991).
Qui, in questa crisi di enunciazione, è possibile scorgere anche una potenziale convergenza tra la teoria femminista radicale – Luce Irigaray, Carla Lonzi, Hélène Cixous, Alice Jardine,
Rosi Braidotti, Jane Flax, Susan Hekman. Judith Butler – con la
sua critica sostenuta del soggetto cartesiano fallocentrico, e
la critica postcoloniale dei presupposti del discorso occidentale: una convergenza direttamente inclusa nelle opere di
Gayatri Spivak, Trinh T. Minh-ha, bell hooks, Paul Gilroy e
Homi Bhabha, per esempio, e che è destinata a un più ampio
dialogo. Infatti la dissonanza che emerge a proposito del disaccordo riguardante “la portata teorica…” (Braidotti 1991) di
identità sessuale ed etnicità, sesso e razza, giustamente minaccia di trasformarsi in una critica radicale al sapere e ai discorsi intellettuali, alle istituzioni e ai regimi disciplinari su cui
essa si fonda.
La disgregazione dell’autenticità
Si è mai abbastanza neri? E comunque, chi è
abbastanza nero?
Isaac Julien (1991, p. 129)
Iain Chambers
Paesaggi migratori
84
È questo desiderare un centro, una spinta legittimante, che genera opposizioni gerarchizzate.
Gayatri Chakravorty Spivak (1977, p. LXIX)
A queste osservazioni preliminari va aggiunta la questione non
solo di che cosa siano oggi una lingua, una letteratura e una
storia come quelle “inglesi”, ma soprattutto di chi siano gli “inglesi”, ora che le identità non possono più basarsi sui noti termini di riferimento di “terra e sangue”. Questa frase viene dal
tristemente famoso discorso rettorale tenuto da Heidegger nel
1933, ma un analogo fondamento etnico dell’identità non era
estraneo neppure ai critici inglesi come F. R. Leavis, o addirittura a E. P. Thompson e all’ultimo Raymond Williams. La struttura
dell’“inglese” di oggi chiaramente si regge e, cosa ancor più importante, si rinnova negli interstizi tra storie, culture e memorie
sempre più diverse. Messi di fronte alla presenza, in precedenza
eclissata, di un “medium interculturale”, veniamo trasportati da
“un’unità di sensibilità più profonda e più strana attraverso
strutture polarizzate e al di là di esse” (Harris 1983, p. XVIII). A
questo punto la consolazione conchiusa e finita che una volta
era associata alla presunta unicità della comunità può o ritirarsi
dentro il guscio vuoto di ciechi concettismi culturali, oppure
frammentarsi e ricomporsi proficuamente sotto il peso di un’eredità multipla.
In Occidente tuttavia abbiamo ereditato una tradizione autorevole che da sempre guarda con orrore alla frammentazione e alla
mobilità culturale. Intenta a salvaguardare il tempio senza tempo dell’espressione unica e singolare dell’opera d’arte dai movimenti dispersivi di industria, urbanizzazione e capitalismo, ha
combattuto un’incessante azione di retroguardia contro la modernità. Sconfessando le culture e i ritmi discontinui della città,
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Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
del commercio e della modernità, questa tradizione critica ha
cercato insistentemente alternative radicali nelle presunte continuità delle culture popolari, delle usanze “autentiche” e delle
comunità “originali”.
Andare a cercare altrove questa “autenticità”, proprio ora che le
radici, le storie e le tradizioni locali occidentali sembrano essere
andate disperse e distrutte, perpetua lo stadio dello specchio di
quella pulsione infantile. Cerchiamo di tornare alle origini, che non
appartengono più a noi, ma a un “Altro” che si trova adesso a dover portare il peso di rappresentare il nostro desiderio. La ricerca
occidentale dello “spazio mitico e incontaminato” di una cultura
autenticamente “indigena” perpetua l’approccio imperialista con
una modalità di segno apparentemente opposto (Niranjana 1992,
p. 170). Implica inoltre una difesa dell’“arcaico come puro valore
antioccidentale perché aspira occidentalmente a quell’assoluto che
è ormai fuori portata’’ (Guidieri 1990, p. 18). Attraverso questi paradossi l’Occidente continua ad affermarsi come soggetto, fonte e
destinatario del discorso critico, ignorando nel contempo i processi
e le mediazioni – imperialismo, neocolonialismo, capitalismo, media occidentali – che hanno brutalmente portato nel nostro mondo
quelle differenze, quegli “indigeni”, quelle altre culture, plasmandole e distribuendole al tempo stesso1.
Mettere in discussione questa particolare tendenza critica equivale a contestare la destinazione presunta dell’Occidente, significa entrare in polemica con una proiezione che in ultima analisi
lega una cieca fede nel “progresso” alla consumazione finale
della ragione occidentale nell’Olocausto. E lega tutti noi che viviamo in Occidente al presunto destino del mondo che l’imperialismo moderno reitera non solo nelle conquiste territoriali e
nel predominio economico, ma nell’articolazione e diffusione
stessa del sapere. Invariabilmente continua a sembrarci paradossale prendere in considerazione un’idea di “sapere” che, alla fin
fine, non sia di origine occidentale. Sono questa ambientazione
e questa eredità imperiali, come fa notare Edward Said, “il vero
orizzonte delimitante e, in una certa misura, la condizione legittimante di concetti altrimenti astratti e privi di fondamento quali
quelli di ‘alterità’ e ‘differenza’” (Said 1989, p. 217). Si noti che
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
Edward Said allude qui sia a un orizzonte sia a una “condizione
legittimante”. La presenza dell’Occidente non porta semplicemente a uno stato di sottomissione che comporta la cancellazione unilaterale delle identità e delle culture subalterne, ma produce anche un milieu che fornisce la sintassi in cui le differenze
rappresentano un’interruzione, un’apertura e un’interpunzione interrogativa. Questo suggerisce, come afferma in seguito Said,
“l’idea di un destino collettivo oltre che plurimo” (Said 1989, p.
224) nell’epoca del postcolonialismo.
Una simile prospettiva, con l’implicito riconoscimento dell’impatto ontologico di mobilità e contingenza, porta inevitabilmente al
crollo della nostra fiducia nelle dichiarazioni di “autenticità”.
Eppure è dimostrato che l’“autenticità” sta al centro sia della
creazione dei canoni culturali, letterari e morali della tradizione
“inglese”, sia di molte delle forze, degli scrittori, artisti e individui postcoloniali che adesso la contestano e la trasformano.
Nell’idea di radici e di autenticità culturale è insita una forma di
identità fondamentale, se non addirittura fondamentalista, che
immancabilmente si intreccia con i miti nazionalisti per creare
una “comunità immaginata” (Anderson 1983). Nel riscrivere il
discorso delle radici e della tradizione, i termini del mito metropolitano vengono invertiti, ma senza volere si riproduce la stessa disposizione oppressiva di potere, posizione, soggettività,
rappresentanza e relative modalità egemoniche.
Tuttavia, ogniqualvolta la tradizione si manifesta nella forma di
un continuum temporale e culturale che si svolge secondo la logica delle proprie origini, cioè come teleologia, la sua versione
del passato (e del futuro) è inevitabilmente accompagnata dal
complemento di un’interrogazione storica. In quanto determinazione anticipata, la tradizione maschera i poteri e le complessità
della propria configurazione eterogenea con la ripetizione dell’identità di ciò che è uguale. Districando i nodi di quel discorso
monotetico e liberandoci dalle sue rigide norme, emerge un
quadro ulteriore, più aperto, discontinuo e storico.
Mentre nei versi metropolitani di Aimé Césaire il caso è decisamente più sottile, le nette caratteristiche di négritude degli scritti di Léopold Sédar Senghor, per esempio, per quanto potente e
Il nativismo, purtroppo, rafforza la distinzione rivalutando la parte
più debole o sottomessa. E non di rado ha portato ad affermazioni
avvincenti, ma spesso demagogiche, su un passato, una storia o
una realtà nativa che sembra affrancata non solo dal colonizzatore
ma persino dal tempo terreno… accettare il nativismo significa accettare troppo di buon grado le conseguenze dell’imperialismo, accettare le radicali divisioni religiose e politiche imposte a paesi come
l’Irlanda, l’India, il Libano e la Palestina dall’imperialismo stesso
(Said 1990b, p. 38).
L’abbandono di tale prospettiva ci porta a riconoscere un contesto postcoloniale e posteuropeo in cui le differenze storiche e culturali, sia pur con ritmi diversi, sono contemporanee, legate a un
tempo comune. “La comunicazione, in definitiva, riguarda la creazione di un Tempo condiviso” (Fabian 1983, p. 38). Riconoscere
questo spazio condiviso, anche se occupato in modo disuguale,
significa negare la distanza temporale (e teleologica) tra “primitivismo” e “progresso” che ha costantemente giustificato tanto del
capitale intellettuale, politico e culturale investito nel modello
centro-periferia di cultura e storia. Contestare la geografia morale
delle tassonomie occidentali, orientandosi con bussole laiche oppure religiose, ha consentito di spostare all’esterno il male relegandolo nelle periferie “selvagge” e “pagane” del mondo. Poi, in
un’immagine inversa, in tempi più recenti questo gesto imperioso
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Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
intenso l’appello che lanciano, rispecchiano in maniera curiosa
gli stereotipi carichi di pregiudizi dell’Europa. Questo “altro” nero adottato volutamente è un’ulteriore conferma della posizione
che ai neri era già prescritta e rafforza l’opposizione binaria tra
una realtà nera completamente a sé stante e quella del mondo
bianco, quasi la storia degli ultimi quattrocento anni non avesse
avuto un impatto profondo su tutte le culture e sul loro eterogeneo senso di identità. La logica binaria dell’imperialismo (e
del pensiero occidentale) viene continuata ed estesa mediante
la riproduzione di strutture dominanti in linguaggi subordinati,
ricreando in tal modo i meccanismi gerarchici con cui sono stati
collocati al loro posto in origine gli indigeni:
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
si è allargato a comprendere, dall’interno del riconosciuto degrado del presente metropolitano, il rimpianto per la cultura incontaminata dei primitivi, ovvero del passato, dell’altrove.
Che cosa significa allora esattamente la decolonizzazione della
cultura? Il recupero di una cultura essenziale esistita prima del
momento storico della colonizzazione, o l’idea di accogliere
storie diverse in un presente complesso e sincretico composto
di trasfigurazioni interculturali? Esiste davvero la possibilità di
tornare a uno stato “autentico”, o non siamo forse tutti in
qualche modo prigionieri di una rete interattiva di cui non vedremo mai la fine, in cui sia formazioni subalterne sia poteri
istituzionali sono soggetti a interruzione, trasgressione, frammentazione e trasformazione?
Così, se la nozione di autenticità è stata innegabilmente basilare per tutta questa discussione, a questo punto possiamo
forse incominciare a prendere atto anche del suo svanire.
Ritornare – nel senso di fare un ritorno completo e definitivo
– anziché semplicemente ri-visitare o ri-vedere le radici africane, caraibiche o indiane alla ricerca di un’autenticità esiliata e
dispersa, oggi sembra poco fattibile. Paradossalmente la missione impossibile che si propone di salvaguardare la singolarità di una cultura deve negare il proprio elemento di base: la
propria dinamica storica. Il postcolonialismo è forse il sintomo
di una maggiore consapevolezza del fatto che non è possibile
sottrarre una cultura, una storia, un linguaggio, un’identità
dalle più ampie correnti di trasformazione di un mondo sempre più metropolitano. È impossibile tornare di nuovo a “casa”, perché significa trovarsi soggetti a reti sempre più vaste
e complesse di negoziazione e interazione culturale in cui, per
esempio:
le donne immigrate sono soggette alla duplice articolazione di discorsi di differenza culturale e di società patriarcale. Ciò rende più interessanti i loro tentativi di negoziare la propria individualità nella
vita quotidiana, e forse anche più significativi delle contraddizioni
con cui viene rappresentata e vissuta l’esperienza della subalternità
(Ganguly 1992, p. 38).
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Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
Questa sarebbe la traiettoria splendidamente rappresentata nel
film di Mira Nair Mississippi Masala (1991).
Qui, nel mondo postcoloniale, la freccia del tempo, della linearità, della nazione e dell’identità, insieme al “progresso”
della storia occidentale, viene deviata verso spazi diversi che
scompigliano il singolo racconto durante il suo svolgimento,
introducendovi una molteplicità di siti di lingua, racconto e
storie, al maschile e al femminile, nonché un’eteronomia di
impulsi diversi. L’individuazione astratta del tempo in categorie logiche e strumentali viene messa in discussione da chi rifiuta di adottarla e sceglie invece di adattarla cercando i propri assi di orientamento personali (Gabriel 1988).
L’interruzione in questa comprensione del tempo e il suo tradursi in un luogo particolare ci porta a riconoscere la specificità storica e culturale di un discorso sul valore dalle apparenze così universali come quello rappresentato dall’autorità
estetica (e morale) della “Grande Tradizione” della letteratura
inglese. Stretto tra la nascita di una lingua della stampa nazionale laica, una letteratura nazionale e il moderno stato-nazione, il fulcro che attraeva così le lettere e l’identità nazionale si è trovato esposto brutalmente alla contingenza.
Anch’esso è suscettibile di dis-locazione e dispersione e ciò
rivela un altro significato della parola “inglese” pronunciata
sull’“altro” versante della modernità, dove si sta creando
qualcosa che va al di là della tensione tra radici bucoliche e
fede nell’ulteriore inevitabilità del “progresso”, per affrontare
le interruzioni violente delle diaspore forzate, delle migrazioni
indotte e del razzismo. Oltre l’orizzonte campanilista del centro metropolitano e dello stato-nazione, sono spuntate le “decine di particolarità che erano state congelate dal dominio
straniero” (Naipaul 1990, p. 6) e, con esse, potenti tropi della
modernità quali migrazione, spostamento, dislocamento e
identità composite e cosmopolite. A questo punto “inglese”
diventa un continuum di intersezioni, incontri e dialogo, un
palinsesto che accentua i poteri dell’impurità. La lingua diventa scena di tracce, di quei posti immediati – o autenticità locali, se preferite – per cui non esiste parola finale né stato
metafisico. Questo rifiuto di una visione monocentrica ed etnocentrica di letteratura, cultura, storia, religione, musica,
identità e lingua porta inevitabilmente allo smantellamento di
un centro evidente che regoli queste variazioni. Ma nello stesso tempo non prevede la possibilità che l’“indigeno” (sia esso
bianco e inglese o nero e giamaicano) torni a “casa” verso
uno stato “puro” o “autentico”.
Iain Chambers
Paesaggi migratori
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Passaggi culturali e la poetica del luogo
Si deve forgiare, in maniera assai paradossale,
dall’“interno”, a partire da elementi dello stesso sistema di rappresentazione che cerca di
superare.
Sarat Maharaj (1991, p. 85)
Così, se vuoi proprio ferirmi, parla male della
mia lingua. L’identità etnica è tutt’uno con
l’identità linguistica: io sono la mia lingua.
Finché non posso essere fiera della mia lingua,
non posso essere fiera di me. Finché non posso
accettare come legittime il chicano texas, lo
spagnolo, il tex-mex e tutte le altre lingue che
parlo, non posso accettare la mia legittimità.
Finché non sarò libera di usare una scrittura bilingue e di passare da un codice linguistico all’altro senza dover sempre tradurre, finché sarò
costretta a parlare inglese o spagnolo quando
preferirei parlare spanglese e fintantoché sarò
io a dover favorire quelli che parlano inglese
anziché loro a dover favorire me, la mia lingua
resterà illegittima.
Gloria Anzaldúa (1990, p. 207)
Questo ci porta alla prospettiva di ripensare la logica binaria
che sta alla base di tanta parte del dibattito sull’imperialismo
e sulla figura centro-periferia che tende a usare. Ciò cui stiamo
assistendo nell’inglese – sia esso lingua, letteratura, storia,
Non sono d’accordo con l’idea che la problematica dell’interazione
tra il particolare e l’universale sia caratteristica solo del capitalismo. Vorrei anzi affermare che la diffusione differenziale del capitalismo può essere in parte spiegata in termini di adattamento
all’“elaborazione” storica di tale problematica. Né sono d’accordo
con l’argomentazione che, in senso esplicativo, si possa far risalire
direttamente il nesso contemporaneo tra queste due disposizioni al
capitalismo della fine del ventesimo secolo (quale che sia il modo
in cui lo si definisce). Direi piuttosto che il capitalismo globale consumista dei nostri tempi si nasconde nella sempre più tematizzata
relazione particolare-universale in termini di rapporto tra un’offerta
globale e universalistica e una domanda locale e particolaristica. Il
mercato contemporaneo comporta quindi una sempre maggiore
compenetrazione di cultura ed economia: il che non equivale a sostenere, come tende a fare Fredric Jameson, che la produzione di
cultura è governata dalla “logica” del “tardo” capitalismo.
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Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
identità – fa parte di un più vasto processo di dislocazione e
decentramento in cui città come Londra, Parigi, New York e
Los Angeles rimangono centri nella misura in cui diventano
multi-centri di storie, culture, memorie ed esperienze diverse.
Nello stesso tempo devono confrontarsi sempre più con quelle
che sono città più “tipiche”, il Cairo, Bombay, Città del
Messico, Lagos, Shanghai, San Paolo, dove la cultura occidentale viene tradotta, adattata e rielaborata per contesti e circostanze locali e, talvolta, ritrasmessa alle sue apparenti “origini” in Occidente. Questo suggerisce, nelle parole altamente
suggestive del critico James Clifford (1989, p. 179), “una nuova
caratterizzazione dell’‘Occidenté come luogo di potere e contestazione in corso, di centralità e dispersione”.
È chiaro che questo viaggiare della cultura non influisce solo
sulla teoria. Inizialmente viene vissuto, assorbito ed elaborato
nella cultura secolare di tutti i giorni. Sembrerebbe opportuno
quindi esaminare questa situazione esplorando il vernacolo metropolitano. Io ho scelto di prendere in considerazione un aspetto della musica popolare.
Prima di cominciare, però, vorrei fare una premessa citando
Roland Robertson (1991, p. 74):
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
Il rock degli anni Ottanta e Novanta è chiaramente la musica di
un’egemonia affermata, prevalentemente angloamericana. Non
solo riempie radio, televisione, club, ristoranti, bar e discoteche,
ma ci accompagna nel nostro lavoro, a far compere e durante i
viaggi. È la colonna sonora del nostro tempo. Ma si tratta di
un’egemonia che, nello stesso tempo, ha creato le condizioni
per la nascita di una rete musicale internazionale che ha poi incoraggiato la proliferazione e l’emergere di altre voci ai margini.
Sulla scia di questi sviluppi, sulla mappa della musica possono
emergere traiettorie sorprendenti, che danno vita a storia di influenze inaspettate e combinazioni strane. Nei primi anni
Ottanta, per esempio, certi pezzi di disco music italiani come
Not Love dei Trilogy, I Need Love dei Capricorn e Brainwashed
dei Telex venivano ripresi a Chicago da deejay neri come Farley
Jackmaster Funk che li missavano elettronicamente con la musica house locale. In seguito, attraverso la stazione telegrafica
della moda metropolitana e la perenne richiesta di novità da discoteca, la musica house è tornata in Italia e, dopo ulteriori remissaggi mediterranei, è stata spedita a trovare il successo nelle
feste rave inglesi. Una storia analoga si potrebbe scrivere anche
riguardo all’impatto internazionale del rap e alla sua efficace
traslazione in scenari urbani che inizialmente paiono non avere
nulla a che fare con il clima culturale ed etnico di New York o
Los Angeles.
A questo punto dalla storia recente della musica della cosiddetta periferia, del Terzo Mondo, sorge un ulteriore punto di contatto: il fenemeno della world music. Queste musiche, provenienti
da regioni diverse del mondo, possono essere viste non semplicemente come una manovra commerciale diretta dal centro, l’ultima “scoperta” dell’industria discografica, ma anche come rappresentative di uno spostamento culturale e storico che mette in
discussione la natura stessa della distinzione tra centro e periferia. Questo suggerisce una rottura rispetto alla causalità unilaterale, all’economicismo e al positivismo politico che ha teso a
dominare il dibattito sull’imperialismo culturale e sul neocolonialismo, e che invariabilmente dà per scontato che “l’economia
determina le gerarchie culturali” (Kapur, p. 10). Potremmo chie-
costui non può permettere, politicamente, di accettare le “verità”
fornite dalla storia coloniale, perché è una storia scritta dagli oppressori del Primo Mondo; né esiste più alcun discorso, o posizione
intellettuale, indigeno, originale, data la storia e l’impatto del colonialismo sui colonizzati e dato che il Terzo Mondo è ormai un effetto e una proiezione del Primo Mondo. Il problema è: come parlare
una lingua del colonizzatore che ciononostante rappresenti gli interessi e le posizioni dei colonizzati? Se i subalterni possono parlare,
quale lingua è in grado di esprimere, di rappresentare adeguatamente o dar voce alla loro posizione? (Grosz 1990, p. 78).
È una storia che fa parte della mia storia e nello stesso tempo non è riducibile a essa. Più semplicemente, partendo dalla
mia partecipazione alla questione, cercherò di suggerire un’economia culturale musicale capace di iniziare ad affrontare
un’etica della differenza, nella speranza che questo possa
ispirarci un modo proficuo per superare polarità e posiziona-
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Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
derci non solo quale verità riveli la metafora spaziale centro-periferia, ma anche quale particolare disposizione di conoscenza e
poteri nasconda, il che significa riaprire quello spazio, ripensare
vecchie indicazioni e formulare nuove domande.
Uno dei modi per farlo consiste nel cogliere l’occasione data
dalla frattura nella colonna sonora, dall’apertura nel ritmo, suggeriti dalla promozione e distribuzione di world music in culture
e città occidentali. Inizialmente indicata nell’impero del rock metropolitano dalla musica di gruppi come i Talking Heads (New
York) e i Dissidenten (Berlino), questa porta è stata aperta con
maggiore decisione dalla popolarità trapiantata del reggae e dei
ritmi latini negli anni Settanta e Ottanta. Poi, quella che un tempo si poteva considerare l’estensione dell’asse musicale nord-atlantico fino a includere alcune musiche caraibiche e latinoamericane, viene ulteriormente allargata fino ad abbracciare sonorità
potenzialmente globali e spazia dal tango moderno di Buenos
Aires alle fusioni ricavate dal liuto tradizionale arabo, lo oud, da
Rabih Abou-Khalid.
Scrivere la storia della world music significa affrontare lo stesso
dilemma affrontato dall’intellettuale del Terzo Mondo:
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
menti astratti relativi alla distinzione e linea di demarcazione
centro-periferia.
Youssou N’Dour e Ruichi Sakamoto che suonano insieme a New
York; Cheb Khaled in Place de la Bastille a Parigi; Les Têtes
Brûlées a Napoli: sono semplicemente esempi del saccheggio
compiuto dal centro ai danni della periferia, portandosi a casa
suoni esotici dai margini dell’Impero? Stiamo solo assistendo
passivamente all’imposizione delle istituzioni e organizzazioni
delle strutture del capitale su nuovi territori, al trionfo definitivo
dei beni di consumo che prendono possesso delle nostre orecchie? O è in gioco anche qualcosa di più sottile e di più complesso? Questa seconda prospettiva implica la necessità di superare i limiti di un semplice dualismo e pensare in termini dei
grandi effetti di differenze storiche e culturali che vengono sempre più attratte nel quadro contemporaneo di un tempo comune.
Questo equivarrebbe a suggerire che i suoni della world music
non fungono semplicemente da stereotipo dell’“altro” che conferma e chiude il cerchio dell’identificazione etnocentrica, abbellimento esotico necessario per rinnovare la colonna sonora
rock, ma che offrono anche alle differenze musicali e culturali
uno spazio in cui emergere in modo tale che ogni ovvia identificazione con l’ordine egemonico, o con una logica di mercato
che si presume monolitica, risulti indebolita e scossa dai contatti mutevoli e contingenti degli incontri musicali e culturali.
Questo rappresenta un esempio di conversazione musicale e
culturale in cui i margini possono rivalutare il centro superandone nello stesso tempo la logica. È questa strutturazione complessa e asimmetrica del potere che si maschera sotto le semplici gerarchie imposte dalla distinzione centro-periferia.
Inoltre le condizioni stesse in cui avvengono questi incontri,
favoriti dalla riproduzione elettronica simultanea dello stesso
suono in più ubicazioni e contesti, scuotono le gerarchie esistenti, che si allargano dal centro verso la periferia.
Sconvolgono lo storicismo limitato delle cronologie preesistenti. Per esempio, posso prendere il “Nord Africa” come tema
musicale e, risalendo all’indietro nel tempo, ascoltare nell’ordine la musica etno-beat di ispirazione africana dei Dissidenten
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Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
(Berlino) e dei Kunsertu (Sicilia), un esempio di musica raï
contemporanea di Algeri cantata da Chaba Fadela, un pezzo
tradizionale per liuto arabo del Maghreb, concludendo in un
locale folk di Soho a Londra alla metà degli anni Sessanta, dove ascoltai per la prima volta questa possibilità dalle note della chitarra di Davey Graham. Tuttavia questa non è necessariamente una ricostruzione storica volta a recuperare vecchi itinerari di migrazioni musicali e formazioni culturali, che si tratti
dell’iconoclastia della controcultura degli anni Sessanta o del
più antico passaggio musicale tra Africa ed Europa consentito
un tempo dalla cultura araba. Né si tratta di una ricerca di
portata puramente autobiografica; comporta qualcosa di più di
un viaggio all’indietro nel tempo.
Ricostruendo momenti storici nello spazio di un linguaggio apparentemente condiviso vediamo come la musica raï, per esempio, venga trasformata e trasferita in luoghi culturali e storici diversi, in modi diversi di abitarla e di identificarsi con essa. I
suoni passano per luoghi diversi. Così la raï; una musica urbana
originariamente legata alla cultura femminile algerina, e in particolare del porto di Orano, adesso è minacciata dal fondamentalismo islamico locale mentre, sull’altra sponda del Mediterraneo,
viene promossa come genere prevalentemente maschile fra le
diaspore degli immigrati e il pubblico metropolitano. Queste storie particolari sono collegate e scollegate, riprese e rese possibili dal fatto che queste musiche diventano possibilità contemporanee e confinanti, si muovono a ritmi diversi, si sovrappongono
nei contesti e nelle contaminazioni rese possibili dalla riproduzione elettronica. Stiamo parlando di una sorta di movimento
trasversale in cui regioni e ragioni una volta separate vengono
messe a contatto. Questo sottolinea ulteriormente l’instabilità e
la contingenza dell’idea di autenticità nel mondo moderno del
nomadismo musicale e culturale.
Il medium internazionale della riproduzione musicale sottolinea “una nuova epoca di contatto culturale globale” (Wollen
1990, p. 43). Il movimento e la mobilità moderni, sia sotto
forma di migrazione, che di media o di turismo, hanno trasformato radicalmente la produzione e il pubblico della musi-
96
Paesaggi migratori
Iain Chambers
ca e hanno intensificato i contatti culturali. Si sostiene da più
parti che ciò ha portato a un inevitabile appiattimento del
globo, ormai ridotto a un unico ordine economico e culturale,
ma, a parte l’ingenuo determinismo di una simile affermazione, il verdetto è smentito da particolari concreti. Nell’Africa
occidentale, in Senegal, Youssou N’Dour continua a produrre
cassette pirata destinate ai mercati locali del Senegal e del
Gambia e contemporaneamente distribuite nel resto del mondo (perlomeno fino a poco tempo fa) in formato CD dalla
Virgin. Pubblici diversi, mercati diversi, canali di distribuzione
diversi, a volte missaggi e suoni diversi, sono queste le impronte culturali della differenza. E, riecheggiando Jacques
Derrida, queste differenze rappresentano tanto distinzioni reali
quanto l’impossibilità di arrestare il senso di queste differenze
in uno qualsiasi di questi luoghi. La musica di Youssou
N’Dour segna la differenza e ne è a sua volta segnata e rinvia
la possibilità di un senso non equivoco.
Un tale decentramento, il conseguente frazionamento e disfacimento del dualismo centro-periferia e, con esso, dei relativi
poli di “falsità” e “autenticità”, invariabilmente ci portano altrove. Come minimo, “vedere gli Altri non come ontologicamente dati, ma come storicamente costituiti vorrebbe dire intaccare i pregiudizi esclusivi che tanto spesso attribuiamo alle
culture, non ultima la nostra” (Said 1989, p. 225). A proposito
della condizione postcoloniale, Kwame Anthony Appiah (1991,
p. 353) scrive: “il prefisso ‘post’, come nel postmodernismo, è
un ‘post’ che mette in discussione i precedenti racconti legittimanti”. Al di là dello schema della sopraffazione economica e
del monopolio culturale, potremmo cominciare a pensare in
termini di contaminazione e ibridismo nella circolazione delle
culture, mutazioni che portano ad allargamenti e configurazioni
inaspettate; una serie di scambi multilaterali, per quanto ineguali e asimmetrici, in cui per esempio non esiste nessuna
“Africa” intatta, “autentica” e incontaminata:
in alcune opere postcoloniali c’è un chiaro senso del fatto che postulare un’Africa unitaria contrapposta a un Occidente monolitico – il
La persona che conosce ha tutti i problemi del sé. La persona che è
conosciuta in qualche modo sembra non avere un sé problematico.
Oggi sembra che l’ordine del giorno sia lo stesso: solo il sé dominante può essere problematico; il sé dell’Altro è autentico senza
problemi, naturalmente aperto a tutti i tipi di complicazioni. Tutto
questo è molto spaventoso.
Rifiutare i meccanismi di questo binarismo e le sue tecniche e
tecnologie per smistare e quindi posizionare culture, arti e…
individui e scegliere di muoversi nel traffico tra questi mondi,
tra le scene, i suoni e le lingue dell’ibridismo, dove non c’è né
la stabilità dell’“autentico” né il falso, non significa che non ci
siano reali differenze di esperienza, cultura, storia e potere. Ma
parlare di differenze, anche radicali e incommensurabili, in termi-
Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
Ancora una volta, questo comporta un inevitabile indebolimento
di qualsiasi interpretazione astratta dell’idea di autenticità. Il
concetto dell’altro puro e incontaminato, sia come individuo sia
come cultura, è stato decisivo per la critica e la condanna anticapitalista dell’economia culturale dell’Occidente nel mondo moderno. Questa prospettiva ha a sua volta evocato una sua forma
subdola di razzismo con l’identificazione da parte dell’osservatore privilegiato occidentale di quello che dovrebbe (altro desiderio e imperativo etnocentrico) costituire la vera cultura e l’autenticità dell’indigeno. Ma chi definisce l’autenticità a questo punto? Ancora una volta si parla a nome dell’osservato, dell’altro,
gli si assegna una posizione e in tal modo lo si riproduce sotto
forma di differenza addomesticata all’interno dell’ordine occidentale del mondo. L’altro non ha voce, non è autorizzato a parlare
o a definire il proprio senso dell’essere (ovvero autenticità) nelle
condizioni contemporanee dell’esistenza. Questo rapporto, così
fondamentale nella riproduzione di un senso occidentale della
conoscenza e del sé, è stato quanto mai drammaticamente
espresso da Gayatri Chakravorty Spivak (1990b, p. 66):
97
binarismo del Sé e dell’Altro – è l’ultima delle parole d’ordine dei
modernizzatori di cui dobbiamo imparare a fare a meno (p. 354).
98
Paesaggi migratori
Iain Chambers
ni economici, politici e culturali, e del loro concretizzarsi nell’etnicità, nell’identità sessuale e nella sessualità, significa parlare
della formazione di identità in movimento, sottoposte a, e immerse in, processi. Parlare di autenticità ha sempre implicato riferimenti alla tradizione come a un elemento di chiusura e conservazione, quasi popoli e culture esistessero al di fuori dei linguaggi del tempo. Parlare di autenticità significa coglierli nella
prospettiva antropologica, dove vengono tenuti in isolamento e
a una “distanza critica”, quasi fossero esenti da movimento, da
trasformazione e dallo scompiglio rappresentato dall’antropologo: l’Occidente. Parlando di autenticità si è rifiutata l’interpretazione di una formazione contingente in cui una tradizione, una
storia, una lingua possono diventare un “elemento di libertà”
(Gadamer 1983), un momento di ridefinizione attiva, che apre il
mondo a nuove rivendicazioni sul proprio destino.
Scopriamo che non c’è modo per recuperare il non equivoco,
“nessuno spazio per un tale assolutismo del puro e dell’autentico” (Morley, Robins 1990, p. 20). Forse possiamo ispirarci ai musicisti e artisti del cosiddetto Terzo Mondo, costretti a una continua riedificazione della propria identità in movimento tra mondi
diversi, e cominciare ad accarezzare l’idea che “spaesatezza” e
migrazione siano la condizione irrevocabile della cultura mondiale. Questo serve a sottolineare una distinzione fondamentale tra
musica in quanto luogo presunto dell’“autenticità”, con la relativa chiusura della comunità e un’“identità” preconfezionata, e
musica come fonte di differenza, dove unicità ed etnocentricità
sono costantemente contestate e negate.
Tutto questo porta a pensare che forse non serve più parlare soltanto in termini di conflitto tra blocchi di potere culturale, tra
egemonia imperialista e movimenti subalterni, o ridurre il giudizio critico alla moralità delle “autenticità” minacciate, della cooptazione e del tradimento degli ideali. Significa, se mai, parlare di
una “politica di trasfigurazioni” (Gilroy 1990), di “insiemi atonali”
(Said 1990c), e di un’etica della differenza in cui suoni, lingue,
sintassi, materiali e istituzioni comuni sono occupati e articolati
in direzioni diverse. Se la musica rock è un linguaggio e un’istituzione globale, un mezzo di comunicazione, si trova in un rappor-
Il “Terzo Mondo” sta cambiando rapidamente in molti modi diversi. È
sempre stato un concetto ibrido in cui sono stati ammassati molti tipi radicalmente diversi di società e di cultura e, quando i rapporti tra
il nucleo e la periferia cominceranno a cambiare e prenderà forma un
nuovo sistema mondiale, aprirà ancora nuovi campi di differenza.
All’interno delle periferie le culture cambieranno a ritmi diversi e in
direzioni diverse. Tuttavia, possiamo star certi che questi cambiamenti si verificheranno lungo il triplice asse di migrazione, urbanizzazione
e contatto culturale. La scelta tra un nazionalismo autentico e una
modernità omogeneizzante sarà sempre più fuori moda. Le questioni
relative all’identità culturale, sia nel nucleo sia nelle periferie, si fanno più complesse man mano che cominciamo a capire che non esiste un modello unico di cultura composita o ibrida, ma molte possibilità diverse. Un vantaggio del paradigma linguistico – creolo, vernacolo, esperanto, eccetera – è che ci può dare un senso preciso della
gamma di opzioni disponibili (Wollen 1990, p. 57).
Questo mi riporta all’egemonia della musica rock e al presunto
deserto dell’omogeneità. Dopo tutto, Simon Frith (1988) ci comunica che il rock è morto, e io sono abbastanza d’accordo. Pure,
se il rock bianco e angloamericano sembra essere inciampato nel-
99
Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
to analogo rispetto ad altri linguaggi terreni, offrendo sia una
grammatica e una rete comune, sia una sintassi storico-culturale
mutevole, in cui i significati sono contingenti e le identità contestualizzate. È nello stesso tempo dotazione comune e differenziata. È un materiale che viene abitato e marchiato in modi diversi:
viene riscritto, diventa il posto di qualcun altro, l’iscrizione di
qualcun altro. Questo non significa negare le vere differenze esistenti nel potere che incontriamo nei processi di globalizzazione
in cui il mondo cosiddetto avanzato continua a produrre il “Terzo
Mondo” come conseguenza necessaria del fatto che ha bisogno
di aree di sottosviluppo per garantire il proprio sviluppo. Né significa ignorare le sconfitte brutali e i vicoli ciechi, oppure il fatto
che qui non tutti trovano una voce o uno spazio. Ma significa
ugualmente insistere su questa apertura, dove il razionalismo
universale che la globalizzazione finge di raggiungere viene interrotto e balbetta in inflessioni e dispersione locale.
100
Paesaggi migratori
Iain Chambers
la Valle della Morte e non può fare altro che provare e riprovare
l’estetica della propria scomparsa, per altri il suo esaurimento potrebbe segnare un nuovo inizio. Se, come ama ricordarci Jean
Baudrillard, il deserto è il luogo della vuota ripetizione di significati morti e segni abbandonati, è anche il luogo dell’infinito: un
eccesso, come sostiene Emmanuel Lévinas, che permette agli altri
di esistere, che permette agli altri di esistere indipendentemente
da noi e senza essere a noi ricondotti (Lévinas 1961). Così la metafora occidentale del vuoto e dell’esaurimento – il deserto – forse detiene anche la chiave dell’irruzione di altre possibilità, il continuo rinvio e l’ambiguità di senso impliciti nel viaggio di suoni e
persone che vengono da altrove, ma che ormai si muovono in un
paesaggio che anche noi riconosciamo e abitiamo: la modernità o
la postmodernità, il capitalismo avanzato, le industrie e le reti di
comunicazioni transnazionali, la città, la fine del millennio.
Per tornare all’interrogativo iniziale, si tratta forse dell’ennesimo
esempio di esproprio della periferia da parte del centro, o c’è
qualcosa di più? In altre parole, siamo ancora presi in storie periferiche che ora vengono recuperate dal pubblico delle metropoli
e un attimo dopo sono già dimenticate, o è in scena un movimento di decentramento storico in cui l’asse stesso del centro e
della periferia, con il suo traffico economico, politico e culturale,
comincia a essere messo in discussione da altrove, da altri posti
e altre posizioni? Non è forse possibile intravedere infatti nelle
contaminazioni musicali, nelle lingue ibride e nelle mescolanze
culturali più recenti un’apertura verso altri mondi, esperienze,
storie, in cui non solo l’“Impero scrive ancora al centro”, come
dice Salman Rushdie, ma “gliele canta”? Non c’è in tutto questo,
a parte l’ovvio potere economico che consente al mondo occidentale di distribuire e commercializzare queste musiche, quel
romanzo, queste parole, quelle storie, un poetico rivoltarsi e ribellarsi a se stesso del linguaggio, che mina costantemente le
pretese di egemonia sulla realtà e “semina la distruzione sul
Significato” (Gates 1989, p. 238); in altre parole, un’ulteriore dimostrazione dell’esistenza di ciò che Gloria Anzaldúa chiama una
“lingua di confine”, dove il linguaggio viene usato per infrangere
la legge e risulta in una “critica dell’impero costantemente codifi-
101
Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
cata sul momento”? (Pratt 1992, p. 2). Nel passare a un ritmo diverso in un rovesciamento della storia coloniale, la lingua del padrone si trasforma in creolo, nell’allitterazione immediata dell’idioletto di gruppo e in tutte le varietà del rimodellamento culturale locale. Il risultato è un’arte ibrida che confuta e confonde le
precedenti suddivisioni in categorie mediante una miscela vernacola di lingue che prima erano separate da distinzioni estetiche,
sociali e geografiche, opportunamente sintetizzata nello pseudonimo dell’artista nigeriano Middle Art. In questa decostruzione
della lingua e delle sue tecnologie, in queste lacune, in questi
varchi aperti nella prosa, nelle fratture del suono, emergono altri
strumenti e altri significati: quelle differenze che rendono possibile il processo del rinvio e la dispersione e redistribuzione dei poteri, dell’autorità, di centro e periferia. Nel replay culturale, nella
ripetizione storica, c’è un’apertura verso un altrove.
Ci stiamo, muovendo infatti nella sfera dell’enunciazione e nella
sua storia performativa, il luogo del parlare culturale. Sono la storia e i contesti mutevoli dell’uso delle lingue culturali, piuttosto
che considerazioni astratte sulla relativa grammatica e sintassi, ad
aprire lo spazio di altre memorie, altri ritmi, altri lessici. In questi
discorsi pasticciati e irrisolti, in cui il parlare è il luogo dell’individuazione, il rapporto tra lingua e significato non è più metafisico,
quasi fosse controllato e ordito dalle categorie astratte di
“Storia”, “inglese”, “industria culturale”, “capitale” o “Occidente”.
Non siamo più di fronte alla chiusura – l’unica versione autorizzata degli eventi – ma all’apertura e interrogazione continua di queste categorie e al loro costante trasferimento al di là di confini e
limiti presunti. Grammatiche e sintassi che parevano condivise sono differenziate, smontate, disperse, indebolite e diffuse nello
stesso tempo. Non c’è più una presenza “originale” a dar loro un
fondamento in una presunta “autenticità”, fonte stabile o “identità originaria, olistica, organica” fissa (Bhabha 1990b, p. 210).
Nello spazio di questa “terza cultura, né indigena né bianca”
(Gregory Bateson in Thomas 1992, p. 19) la norma, la voce dell’autorità, del patriarca, dell’Occidente viene rinviata e decentrata.
Riconoscere questo “raddoppiamento della modernità” (Homi
Bhabha) non significa dire che adesso tutto è lo stesso: io e te
102
Paesaggi migratori
Iain Chambers
possiamo condividere le lingue della rappresentazione, ma la tua
storia, la tua esperienza non si può semplicemente sostituire alla
mia. Ognuno di noi è segnato in maniera diversa e contiene elementi (linguistici, religiosi, culturali, storici) impossibili da rendere nella trasparenza di un senso comune. Nel successivo dialogo
della differenza il senso che abbiamo l’uno dell’altro si sposta ed
entrambi ne usciamo modificati. Questo apre un movimento che
va oltre l’etnocentrismo, apre la strada a una “prassi di percezione rappresentativa che presuppone la reciproca embricatura di
‘noi’ e ‘loro’” (Ganguly 1992, p. 27). Quelli che prima erano margini – etnici e sessuali – ora si ripresentano al centro. Non più limitate alla categoria di “questione speciale” (per esempio la
“questione razziale”) o di “problema” (per esempio “minoranze
etniche”, oppure “devianza sessuale”), queste differenze assumono un ruolo centrale nel nostro senso del tempo, del luogo e
dell’identità.
In questo contesto pensare al potere, lottare per trovare una voce, per essere rappresentati (sia politicamente sia storicamente)
non comporta una lotta tra blocchi separati o realtà distinte, in
cui questi margini e queste alternative, ciascuno con un senso
chiaro e pieno della propria identità, incalzano il centro. Qui
non ci troviamo necessariamente di fronte a un contro-discorso
che contrappone argomento ad argomento, posizione a posizione, quanto a uno sbandamento e a una dispersione continua
dei termini che pretendono di rappresentare noi, loro e la realtà.
Le identificazioni dichiarate vengono esaminate nella loro ambivalenza, permettendo in tal modo l’irruzione insospettata di perturbazioni storiche e culturali. Questo significa tratteggiare qualcosa che emerge, e continua a emergere, nell’eterno processo di
identità e identificazione con le possibilità del mondo. In contrapposizione con le metafore di guerra – strategie, tattiche, manovre, posizioni – è la metafora in sé a prevalere, cioè gli indefiniti poteri di trasformazione della lingua e il suo diritto di significare e nominare. Passiamo dalla politica dei margini a quella della differenza: un movimento che rovescia il precedente asse potere/sapere, quello che un tempo collocava e pretendeva
di spiegare fino in fondo i margini, la periferia, gli “altri”.
1 “L’antropologia è quell’analisi dell’uomo che, in fondo, già sa ciò che l’uomo è,
e quindi non può porsi il problema di che cosa esso sia. Se si ponesse questo
problema, essa dovrebbe infatti riconoscersi rovesciata e oltrepassata. Ma come si
potrà esigere questo dall’antropologia, quando essa non si propone altro che l’assicurazione dell’autocertezza del subjectum?” (Heidegger 1952, p. 98).
103
Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia?
Qui “nero” può essere un termine di identificazione politica e
culturale fra gruppi diversi di ascendenza caraibica, africana e
asiatica, facente parte di un campo comune di rappresentazioni, anziché usato per riferirsi a se stessi come categoria biologica o blocco razziale. Come sottolinea Paul Gilroy (1992, p.
50), non abbiamo a che fare con un “assolutismo etnico”, ma
con qualcosa che “va visto in maniera molto più contingente,
come costruzione discorsiva precaria”. Esso indica infatti un
passaggio culturale e storico che fornisce la flessibile “ubicazione della trasformazione dell’autoidentità etnica” (Seghal
1991, p. 84). Qui essere “nero” raddoppia il segno iniziale per
proporre uno spazio supplementare, decentrato, che continua
a segnalare la differenza e nello stesso tempo rinvia, procrastina qualsiasi significato definitivo.
Ma per il momento concluderò su un tono leggermente diverso.
Nel film I’m British But… di Gurinder Chadha (1988) c’è una rielaborazione suggestiva della questione centro-periferia nel contesto della musica pop e della cultura giovanile metropolitana.
Su un tetto di Southall, a Londra, un gruppo di musicisti angloasiatici suona una canzone in stile Bhangra: un ritmo composto di musica folk del Punjab, colonne sonore del cinema di
Bombay e discomusic occidentale (ibridato poi con le metropoli
nere di New York e Los Angeles nel rap Bhangra). Si lamenta
dell’esilio dal Punjab mentre giù, per la strada, altri cittadini britannici di ascendenza asiatica lo osservano e, in qualche caso,
ballano al ritmo della musica. In questa replica di una scena di
vent’anni prima – i Beatles che suonavano Get Back sul tetto
degli uffici della Apple – lo stereotipo occidentale è imitato e
traslato con grande efficacia in un senso diversissimo di storia,
di identità, di centro.
Capitolo quinto
Città senza mappe
Città senza mappe
La città, la metropoli contemporanea, è per molti la metafora
preferita dell’esperienza del mondo moderno. Con i suoi dettagli quotidiani, il suo misto di storie, lingue e culture, il suo insieme di tendenze globali e distinzioni locali, la figura della città, come luogo sia reale sia immaginario, sembra costituire una
mappa di pronta lettura, interpretazione e comprensione. Pure
l’idea stessa di mappa, che per definizione si basa sul rilevamento di un terreno stabile, su termini di riferimento e misure
fisse, sembra contraddire la fluidità e il flusso palpabile della
vita metropolitana e del movimento cosmopolita. Spesso si ha
bisogno di una mappa per orientarsi in una città, nella sua metropolitana, nelle sue strade. Le mappe sono piene di riferimenti e di indicazioni, ma non sono popolate. Proiettano la mutevole disposizione dello spazio attraverso il tempo storico in
una geometria mista di poteri politici, economici e culturali:
centro, periferia, sobborghi, zona industriale, area residenziale,
case popolari, zona commerciale, stazione ferroviaria, caselli
autostradali, aeroporto. Con una mappa in mano possiamo cominciare ad afferrare un profilo, una forma, una sorta di collocazione. Ma questo orientamento preliminare è lungi dall’esaurire la realtà in cui ci troviamo.
Infatti le vie spoglie della città, i suoi palazzi, ponti, monumenti,
le sue strade e le sue piazze sono anche i siti contestati della
memoria storica e forniscono i contesti, le culture, le storie, le
lingue, le esperienze, i desideri e le speranze che scorrono nel
105
Raggiungere la “purezza” dello sguardo non è
difficile, è impossibile.
Walter Benjamin (1982, p. 609)
106
Paesaggi migratori
Iain Chambers
corpo urbano. I contesti fluttuanti di linguaggi e desideri infrangono la logica della cartografia e traboccano oltre i limiti del
suo spazio tabulare, tassonomico.
Fuori dai bordi della mappa entriamo nel mondo palpitante di
tutti i giorni e nel turbamento della complessità e ci troviamo
nella città sessuata, nella città delle etnie, nei territori di gruppi
sociali diversi, centri e periferie mobili: la città oggetto fisso di
progettazione (architettura, commercio, urbanistica, amministrazione statale) e al tempo stesso plastica e mutevole, sede di
transitori eventi, movimenti, memorie. Si tratta perciò anche di
uno spazio importante per l’analisi, il pensiero critico e la comprensione. Vorrei quindi riflettere un attimo su questo spazio e
sull’occasione che ci offre di riconsiderare la portata e il senso
dell’analisi culturale oggi.
L’idea di complessità, sia vissuta sia intellettuale, del “pensiero
complesso” di Edgar Morin ci trova intenti a girare continuamente intorno a una mutevole ecologia sociale dell’essere e della
conoscenza. Qui sia il pensiero sia le attività quotidiane si muovono nel regno dell’incertezza. Certezza e argomentazione lineare crollano quando ci troviamo in orbita in un paradosso perpetuo intorno alla ruota dell’essere: conferiamo senso e tuttavia
non possiamo mai essere sicuri delle nostre proclamazioni
(Morin 1977). L’idea della complessità culturale, evidenziata nettamente soprattutto negli arabeschi della moderna metropoli –
non solo Londra, Pechino e Buenos Aires, ma anche Lagos – indebolisce gli schemi e i paradigmi precedenti, destabilizza e decentra le teorie e le sociologie di un tempo. Alla freccia sottile
del tempo progressivo subentra la spirale aperta di collaborazioni e contaminazioni eterogenee e di quelli che Edward Said ha
definito “insiemi atonali” (Said 1990c). È una realtà multiforme,
eterotopica, diasporica. La città suggerisce un disordine implosivo, talvolta liberatorio, spesso sconcertante, che sfocia in un’interpolazione in cui l’immaginazione ti porta in tutte le direzioni,
persino verso quelle in precedenza impensate. Nella dissonanza
e nella discussione che sta tra quelle che Donna Haraway chiama “conoscenza situata” e “conoscenza disincarnata” viene perturbata la collocazione stessa della teoria.
“Je suis un beur!”
Città senza mappe
Barbès è il quartiere tradizionale dell’immigrazione araba a
Parigi, dove la musica algerina raï e Cheb Khaled sono di casa.
Qui è nata la frase “Je suis un beur!”, dove beur non è l’inversione precisa ma se mai una deliberata mescolanza della parola
arabe. I beurs sono i francesi nati da genitori arabi. Beur esprime una differenza, una storia e un contesto particolare, un segno di creolizzazione e di ambiguità culturale.
C’è anche il rap. BAB (Bombe à Baiser) è un membro della nazione zulu. Fa rap in francese su una base elettronica prodotta
dal suo collaboratore italiano, bianco. C’è NTM di St. Denis:
“Parliamo a nome nostro”. C’è ABC Nation. I membri, età compresa fra diciassette e vent’anni, vengono dalle Antille francesi,
dal Camerun e dal Mali. Portano jeans larghi, berretti da baseball, scarpe da basket e taglio di capelli squadrato: il “look zulu”. Alla periferia nord di Parigi, nelle zone come St. Denis,
Aubervilliers, La Corneuve, a tutti i capolinea del métro, c’è
“Zululand”.
È qui, nelle banlieues populaires, nelle “periferie popolari”, ai
margini della città, che vengono mescolati nel reggae, nel raï,
nel rap suoni e storie dell’Africa occidentale, delle Antille, del
Maghreb, con riferimenti a Martin Luther King, canti di ribellione
contro Babilonia e la polizia e in lode di Malcom X (“profeta
della rabbia”). Il rap è in francese, con qualche frase in inglese
ogni tanto e molte in uno slang subculturale. Fa parte di un mélange che va dal Bronx a Brixton, a Barbès, a Brazzaville.
Composto di ritmi connettivi e inflessioni locali, offre esempi di
missaggio, remissaggio, traduzione e trasformazione di una tonalità comune in voci e situazioni particolari. Aiuta a esprimere
la dissonanza delle esperienze di un tempo e di un posto specifico: essere arabi e francesi, neri e parigini.
107
Se in un primo momento il mercato mondiale
sterilizza le fonti autoctone, in un secondo momento le rivitalizza.
Edgar Morin (1984, p. 92)
Iain Chambers
Paesaggi migratori
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Questi esempi, facilmente confermati da storie parallele ma distinte a Londra o Los Angeles, dove si sente vibrare il Terzo
Mondo sotto le linee di povertà dei ghetti metropolitani, non
suggeriscono alcuna ovvia integrazione in un consenso culturale
esistente né l’annientamento nella corrente prevalente della vita
moderna, bensì propongono gli spostamenti, le mescolanze, le
contaminazioni, le sperimentazioni, rivisitazioni e ricomposizioni
rese possibili e incoraggiate dai più ampi orizzonti e dalle reti
interculturali e transculturali della città. Con rabbia, gioia, orgoglio e dolore offrono una testimonianza continua della “magia in
cui l’associazione di certi fatti sociali con certi suoni crea simboli irresistibili della trasformazione della realtà sociale” (Marcus
1989, p. 2).
In viaggio senza mappe
Etica viene da ethos e Heidegger traduce questa parola greca non tanto con “carattere proprio dell’uomo”, ma con “soggiorno”, “luogo
in cui si abita”, “regione aperta in cui l’uomo
abita”.
Pier Aldo Rovatti (1990, p. 39)
Essere nello stesso tempo “radicati e senza radici”.
Trinh T. Minh-ha (1990, p. 335)
La qualità labirintica e contaminata della vita metropolitana non
solo porta a nuovi rapporti culturali, ma insidia la presunta purezza del pensiero. Se il pensiero critico può contemplare questo
incontro e abbandonare un monologo distaccato a favore del
dialogo, allora si piega per entrare nei regimi più vasti del mondo di tutti i giorni e in un registro diverso. Viaggiare in questa
zona, senza né mappe né carte, è fare l’esperienza della dislocazione del soggetto intellettuale e del suo dominio – patriarcale –
della parola/mondo. Le illusioni di identità organizzate intorno alla voce privilegiata e alla soggettività stabile dell’osservatore
la sparizione dell’individuo e del soggetto nella massa; il male della tecnica. Alla fine l’impressione non è quella di essersi avvicinati
a una verità, ma a una nevrosi (o alla diagnosi di una nevrosi)
(Rella 1989, p. 25).
Pure ci sono ancora molti che sono disposti a criticare i mali
della cultura di massa e a vedere in essa semplicemente una
109
Città senza mappe
“esterno” vengono spezzate e spazzate via con un movimento
che non consente più l’ovvia istituzione di un’autoidentità tra
pensiero e realtà. In questo momento disgiuntivo l’oggetto dello
sguardo intellettuale – le culture e le abitudini dei “nativi” di
“territori” locali, nazionali e globali – non può più essere confinato a una carta o mappa ovvia e su di essa liofilizzato come una
componente fissa o essenziale del “sapere” (Clifford 1992).
Abitare in questo mondo, intellettualmente ed eticamente, individualmente e collettivamente, è, come dice Trinh T. Minh-ha,
lottare per continuarne la continuazione (Trinh 1989). Qui, in
quanto individui, non dominiamo la situazione, ma cominciamo
se mai a perdere i nostri “sé” iniziali in un passaggio destinato
a rivelare altre parti del sé, a “sconvolgere l’inerzia dell’io’”
(Rovatti 1990, p. 30). Questo porta alla liberazione di voci diverse, a un incontro con un’“altra” parte, a un dischiudersi del sé
che nega la possibilità di ridurre il diverso all’identico, alla fonte
e autorità unica del cogito. La conoscenza va in vacanza, si
stacca dalle idee tradizionali di verità e conoscenza come entità
unitarie e trascendentali e viaggia, prende congedo. Contro la
virilità del pensiero forte e sicuro di sé possiamo proporre una
trasvalutazione più debole, ma più ampia del pensare, contaminata, eterotopica e contingente (Vattimo 1985).
Pur essendo oggi più pacata, non più sicura di sé come “la violenza retorica scatenata in Dialettica dell’Illuminismo” (Daniel
1992, p. 33), la condanna intellettuale della cultura di massa e
dei mass media è comunque ancora sommessamente diffusa. Il
critico italiano Franco Rella ha sottolineato recentemente che
questo è un ragionamento basato su principi ancora tutti da dimostrare:
110
Paesaggi migratori
Iain Chambers
facciata ideologica dietro cui si nasconde la logica cinica del
capitale. Nonostante la prosa spesso tortuosa usata per smascherare il carattere feticista della cultura di massa, le conclusioni sono di una semplicità disarmante. Fanno appello a una
ovvietà rigida in termini sia morali sia logici. È questa chiarezza
che ha permesso al giudizio di Adorno di scivolare rapidamente
dal giusto rifiuto di una particolare politica di massa (il nazionalsocialismo) alla cieca condanna di un’arte di massa (il jazz).
Il verdetto è stato totalitario quanto il totalitarismo che intendeva denunciare. L’arte, i mass media e la moderna cultura urbana – è questo il ragionamento – sono tutti prigionieri nell’infinità degli scambi di beni. Qualsiasi altro valore possano aver
conosciuto è ormai determinato completamente da questo fatto, ridotto a una simulazione feticista in cui i “falsi” valori si
fanno passare per “veri”. A rigore nulla sfugge a questa logica
a eccezione, secondo Adorno, delle sempre minori possibilità
dell’arte d’avanguardia. A questo punto la cultura non può più
offrire un’alternativa, ma solo un vano diversivo; si è ridotta a
uno spettacolo tecnologico di umano tradimento, a una simbolizzazione senza fine dell’estrazione del plusvalore. Credendo
essa stessa di rappresentare qualcosa, la sfera della cultura in
realtà non rappresenta nient’altro che le variazioni incessanti
della propria assimilazione nei circuiti annientatori del capitale.
A questo possiamo ribattere con alcune osservazioni di egual
peso. La tecnologia è la rete in cui tutti siamo immersi, sostiene Heidegger, in cui ci incontriamo con tutte le ambiguità del
nostro essere inquadrati dai suoi linguaggi e dalle sue tecniche e in cui la verità della nostra condizione si rivela nella
contemporanea presenza del suo pericolo e del suo potere salvifico (Heidegger 1962a). La riproducibilità tecnica intrinseca
alla moderna cultura di massa implica una frantumazione della
tradizione e la secolarizzazione dell’immagine. Questo a sua
volta, come approfondisce Benjamin (1955b), porta a una ricezione distratta in cui tutti, in vari modi, diventiamo “esperti”.
Impariamo tutti a muoverci dentro i linguaggi dei mass media,
sia che ce ne stiamo alla scrivania a criticarli tramite i nostri
computer, sia più tardi, la sera, passando da un canale televi-
111
Città senza mappe
sivo all’altro. Questo almeno ci introduce alla possibilità di
una “estetica metropolitana”, a una democratizzazione latente
dell’uso di suoni, segni e immagini contemporanei e allo spazio di un’insospettata politica della vita quotidiana.
In contrapposizione alle astrazioni di una critica ideologica della
cultura di massa – invariabilmente presentata come una totalità
omogenea, senza contraddizioni né spazio per voci tenui, subalterne o alternative – ci sono i dettagli e le differenze che si rivelano storicamente nel modo in cui la gente usa e abita questa
cultura, addomesticandola e spingendola in direzioni non previste dai produttori dell’“industria culturale”.
Il monologo critico che disapprova monotonamente la cultura
contemporanea come se fosse un blocco ideologico unico, soggetto alla regola di un meccanismo economico non mediato e
pienamente razionale – la “logica del tardo capitalismo” di
Fredric Jameson (1992), la “condizione della postmodernità” di
David Harvey (1989) – si interessa del destino filosofico dell’umanità e dell’alienazione dell’Uomo nell’astratto. Ha poco da dire sul modo in cui uomini e donne reali superano e spiegano le
condizioni in cui si trovano. Non può parlare alle vite, paure,
speranze, passioni ed espressioni rivelate nella cultura immediata del mondo di tutti i giorni. Ma se le contraddizioni non stessero tra il capitale e un’alternativa o utopia immaginaria, bensì
nelle condizioni stesse della società capitalista? Questo sembra
dire Marx quando insiste che la nuova società nascerà dalla vecchia man mano che le sue contraddizioni interne porteranno a
nuovi sviluppi, nuove possibilità e a uno scambio più ampio tra
coloro che sono prigionieri dei rapporti sociali del capitalismo
moderno (Marx 1939). Adottare questo argomento equivale a
proporre di allontanarsi dal senso storico della missione intellettuale volta a mantenere una distinzione netta tra cultura e industria, arte e commercio. Infatti è una prospettiva che insiste sulla consapevolezza che industria, commercio e urbanizzazione
non sono estranei, ma anzi sono tutt’uno con la produzione di
culture, identità, possibilità e vite contemporanee.
Questo dibattito si ritrova lungo l’intero percorso di quella che
potremmo chiamare modernità. È un tema centrale e spesso
112
Paesaggi migratori
Iain Chambers
contraddittorio del noto libro di Marshall Berman L’esperienza
della modernità (1988). Fu inaugurato agli inizi dell’Ottocento
dal Romanticismo con la sua opposizione al corpo meccanico
dell’industria (il mostro di Frankenstein), e la liberazione dell’estetica, attraverso la figura del sublime, dal regno della ragione.
Uno degli esiti discutibili di questa riconfigurazione fu il trattamento della sfera della cultura come realtà indipendente e autonoma, fonte di valori eterni, non toccata dalla storia immediata
e dalle mani sporche dell’industria, del commercio e della città.
Da questa storia abbiamo ereditato una visione fondamentalmente trascendentale dell’arte e della cultura come realtà atemporale e metafisica, separata dai rapporti e dalle preoccupazioni
più incalzanti del mondo di tutti i giorni. L’argomentazione che
fuoriesce da questo ragionamento e che, per così dire, sgorga
dal basso, invece, suggerisce una prospettiva opposta, secolare,
più aperta e più complessa. Comincia con i dettagli e le storie
diverse di culture popolari, mondi subalterni, realtà spostate e
con i cambiamenti indotti nella cultura nel suo insieme dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione, dal capitalismo e dalla
globalizzazione. La cultura, con la sua estetica e i suoi presunti
valori, non può più essere concepita come entità senza tempo.
Sotto forma di suono, pennellata, parola o immagine, essa è immersa nei tempi e nell’attività incessante del mondo. Qui non ci
sono valori eterni né stati puri: tutto è destinato a nascere, a
svilupparsi e a morire in questo movimento.
Quello che ci troviamo a dover affrontare adesso è l’emergere di
differenze sotto il segno dello “sradicamento”, vale a dire di
soggetti, lingue, storie, atti, testi, eventi… valori costretti a trovare dimora in un mondo privo di garanzie. Ne consegue un
mutamento radicale della nostra comprensione e interpretazione
dei linguaggi dell’arte, della politica, della cultura e dell’identità,
che non possono più essere associati con un punto di vista epistemologico stabile basato sui presupposti di una verità trascendentale, unica e omogenea che garantisce una “distanza” critica.
Al suo posto troviamo l’evocazione dell’idea della verità ontologica inscritta nel nostro essere, nel divenire e nelle mutazioni
continue del nostro essere nei linguaggi in cui siamo formati. In
Il “fare” in questione è una produzione, una poiesis, ma nascosta,
perché sparsa in aree definite e occupate da sistemi di “produzione”
113
Città senza mappe
questo modo, per esempio, la critica al consumismo finisce per
essere necessariamente basata sul consumismo stesso, sulle regole del gioco e sui suoi linguaggi di identità. Analogamente la
critica alla tecnologia si esprime mediante l’uso della tecnologia:
dallo scrivere servendosi di un computer ai paesaggi hi-tech del
film di Wim Wenders Fino alla fine del mondo (1990). Non potendo disporre di posizioni perenni o di verità eterne, ci troviamo dentro mobili costellazioni di significati che orbitano intorno
a potenziali aperture, interruzioni, intervalli – crolli e progressi al
tempo stesso – del mondo, delle lingue, storie e identità che
abbiamo ereditato, quando ci accingiamo a esplorare la verità
inquietante dell’ambiguità.
Questa inquadratura della nostra vita ci spinge a un’analisi attenta delle sfumature dei linguaggi e dei racconti che si combinano per scrivere la nostra vita, spiegandola ed escludendola al
tempo stesso. Il materiale banale e apparentemente omogeneo
dei gusti e delle culture popolari, per esempio, può rivelare storie e attribuzioni di significato più complesse di quanto spesso
si pensi. Come insisteva Michel de Certeau, questo comporta
perlomeno prestare ascolto ad attività spesso trascurate, che si
nascondono sotto l’etichetta del superficiale, del banale, del
quotidiano: in altre parole, nella differenziazione colloquiale del
popolare. Qui infatti incontriamo attività che, pur attingendo ai
vocabolari dei linguaggi e dei lessici consolidati – cinema, televisione, musica, il supermercato, il giornale – e rimanendo sempre soggette a quei linguaggi, stabiliscono traiettorie di interessi
e desideri che non sono né necessariamente determinati né catturati dal sistema in cui si sviluppano. È questo rifacimento,
questa trasformazione in cui la traduzione comporta sempre un
travestimento di qualsiasi intento “originale”, che rende vivibile
l’esperienza di questi linguaggi e di questi testi – la città, il cinema, la musica: cultura contemporanea e mondo moderno –
quasi offrissero uno spazio storico preso in prestito da uno di
passaggio, da un migrante, da un nomade.
Iain Chambers
Paesaggi migratori
114
(televisione, sviluppo urbano, commercio, eccetera) e perché l’espansione costante di questi sistemi non lascia più ai “consumatori”
nessun posto in cui possano indicare che cosa fanno con i prodotti
di questi sistemi. A una produzione razionalizzata, espansionista e
nel contempo accentrata, clamorosa e spettacolare, corrisponde
un’altra produzione, detta “consumo”. Quest’ultima è subdola, dispersa, ma si insinua ovunque, silenziosamente e quasi invisibilmente, perché non si manifesta attraverso i propri prodotti, ma piuttosto
attraverso i modi di usare i prodotti imposti da un ordine economico dominante (de Certeau 1988, pp. XII-XIII).
E dal momento che non si “lascia” questa lingua, perché non è possibile trovare un altro posto da cui interpretarla, dal momento che
quindi non esistono gruppi separati di interpretazioni vere e interpretazioni false, ma solo interpretazioni illusorie, dal momento che,
in breve, non c’è via d’uscita, resta il fatto che siamo stranieri dentro, ma che non esiste un fuori (de Certeau 1988, pp. 13-14).
In questi passaggi e particolari storici non percepiti e nelle loro
costruzioni transitorie di casa, possiamo cominciare a intravedere un modo per tagliare il più antico nodo ideologico tra capitale e cultura e quindi per superare criticamente sia la condanna
della cultura di tutti i giorni come ideologia sia la sua difesa
apologetica e puramente populista.
Questo significa che non c’è “verità” esteriore da trarre in salvo dal mondo immediato del commercio e della cultura popolare quotidiana: come se in qualche modo, da qualche parte,
sotto la superficie, dentro il segno, ci fosse un messaggio più
profondo e più coerente. Il ragionamento, centrale nella critica
sia marxista sia baudrillardiana del segno (feticismo, simulacro), è che superfici e apparenze sono le manifestazioni ingannevoli, seducenti e mistificatorie di una realtà sottostante, l’alienazione della condizione umana. La riduzione dell’apparente
a un valore occulto, nascosto – il valore dell’“autenticità” che
si suppone mascherata da false apparenze – nega la realtà ontologica di segni, superfici e vita quotidiana. Nega che anche
questi siano sede di senso, di significato. Capire questa apertura, questa particolare possibilità, significa ancora una volta
prendersi una vacanza dalla critica ideologica che tradizionalmente ha disciplinato la nostra attenzione.
Città senza mappe
L’idea di mollare tutto, di prendersi una vacanza dai linguaggi
che di solito ci danno una posizione, di lasciarsi trasportare liberi dai significati domestici: è così che Roland Barthes introduce i
suoi scritti sul Giappone raccolti nel volume L’empire des signes
(Barthes 1970). Egli fa riferimento alla “perdita di sensi che lo
Zen chiama un satori ” e medita sul “distacco dei segni”. Si serve
dell’incontro con l’“Altro” non per presumere di spiegarne l’alterità, ma piuttosto per andare al di là di se stesso, della propria
lingua e cultura di segni e perturbare e mettere in discussione
così la presunta stabilità del sistema simbolico cui egli appartiene. Le differenze restano differenze, che non possono essere ridotte a ciò che è uguale, ed esistono come aggiunta, come eccesso che fa “vacillare la conoscenza, il soggetto” (p. 8).
Quest’idea di porsi di fronte all’altro, di ammettere le differenze
e, con esse, le iscrizioni varie che abitano e costituiscono il nostro mondo non è solo un incontro geografico tipico dell’intellettuale metropolitano. È anche un luogo di ritrovo situato nei
territori interni delle nostre culture, dall’“altra” parte della città,
della cultura e delle lingue in cui abitiamo.
Il “Giappone” dà la possibilità di disfare il nostro “reale” e altera la posizione, o topologia, abituale del soggetto, insieme
alla sua voce e alla sua autorità. Ciò che veniva dato per
scontato, considerato “naturale” e pertanto universale, si rivela
locale e storico. Per tornare dove eravamo partiti, la consapevolezza di Barthes non emerge tanto dall’aver scavato sotto la
superficie delle apparenze, quanto dall’aver opposto superficie
a superficie, segno a segno, registrando la differenza osservata
nel piano laterale o orizzontale. Sono queste le differenze che
Barthes scopre nelle apparenze – nello scintillio del significante – così come si presentano nella disposizione ornamentale e
frammentaria del cibo, nell’inchino cerimoniale, nell’ideogram-
115
Vacanze in Giappone
116
Paesaggi migratori
Iain Chambers
ma dipinto, nei giocatori di pachinko, nel rifiuto dell’illusione
occidentale di totalità nel teatro Bunraku, nell’istanza transitoria dello haiku con la sua temporanea sospensione della finalità (ciò che in Occidente chiamiamo “significato”): segni, come
dice Barthes descrivendo Tokyo, che ci ricordano “che il razionale non è che un sistema tra altri” (p. 43).
Così per Barthes la pienezza dello haiku, di queste espressioni minime dell’evento, non riguarda il significato ma il linguaggio. Questi
gesti di scrittura creano uno spazio di puri frammenti in cui è il linguaggio stesso a essere celebrato in un’“esenzione del senso”. O
meglio, la sua presenza dissolve il desiderio occidentale di pienezza e arresto semantico, perché ciò che viene “abolito non è il senso, ma qualsiasi idea di finalità”. Rimane solo una traccia, una designazione di parole, dove “il senso non è che un lampo, un graffio di luce”. Senza un centro o una direzione da afferrare, resta solo “una ripetizione senza origine, un evento senza causa, una memoria senza persona, una parola senza ormeggi” (pp. 93-98).
Segni e lingua possono essere liberati dai referenti immediati. È
questo che il “Giappone” particolare di Barthes gli ha permesso
di contemplare. Non significa necessariamente che siamo condannati a schierarci con Baudrillard e i pessimisti culturali per annunciare la morte del significato. Quello aperto dal testo di Barthes è
esattamente il contrario di un nichilismo rassegnato: esso propone anzi un eccesso di senso (Trinh 1991). Ci accorgiamo che i segni possono mollare gli ormeggi in un sistema di pensiero, in una
lingua, una cultura e una storia e acquistarne altri, talvolta irriconoscibili, forse incomprensibili, altrove. Questo movimento semiotico che consiste nell’opporre segno a segno e apparenza ad apparenza, sulle superfici di lingue e culture, non evita la questione
del significato, ma anzi la integra, la allarga e la complica.
La rovina
Potremmo contrapporre questa prospettiva a un progetto chiaramente indirizzato su una traiettoria opposta. Deciso a sfondare
le apparenze contemporanee e l’arco della modernità, esso por-
Il desiderio dichiarato di Berman è “studiare e descrivere queste tradizioni per capire in che modo possano nutrire e arricchire la nostra modernità” (p. 26). E se la modernità, come lo
stesso Berman ammette altrove, non fosse tanto una questione di continuità quanto di discontinuità? E se invece di un’eredità tramandata ininterrottamente dal passato al presente ci
fossero solo pezzi e bocconi che sussistono nel presente, non
come tracce o residui di una tradizione unitaria, ma come elementi di storie diverse continuamente ricomposte? E se la storia fosse “realmente presente nella forma della rovina”, di un
“inarrestabile decadimento”? (Benjamin 1963, p. 184). E se, in
altre parole, fosse avvenuto uno spostamento culturale e semantico nella comprensione stessa della “tradizione” con il risultato che qualsiasi identificazione ovvia con un senso unitario di appartenenza è stata dispersa e abbandonata? Passare
dalla fede in una “comunità” immaginata al riconoscimento di
identità complesse create in storie discontinue ed eterogenee
significa passare a un mondo contingente, dove tradizioni e
radici diventano meno importanti di per sé, quasi fossero sim-
Città senza mappe
… con l’accrescersi del pubblico moderno, essa si disperde in una
moltitudine di frammenti, che parlano lingue incommensurabili e intransitive: il concetto stesso di modernità, formulato in mille modi
scissi e frammentari, perde molta della sua efficacia, della sua risonanza e della sua profondità, oltre a perdere la capacità di organizzare e dar significato alle vite degli individui. In conseguenza di tutto ciò ci troviamo oggi a vivere in un’età moderna che ha perso
ogni contatto con le radici della sua stessa modernità (Berman
1988, p. 27).
117
ta ad analisi, di descrizione certa, prematuramente concluse in
un’insistenza a cercare una finalità ultima, un ancoraggio e un
rifugio, nel regno dell’essere “autentico” e delle sue tradizioni.
Per cominciare con alcuni dei concetti e delle parole chiave usati da Marshall Berman in L’esperienza della modernità, potremmo fare una controprova confrontandoli con il suo stesso testo,
guardando quali altri sensi ne emergano.
118
Paesaggi migratori
Iain Chambers
boli stabili di un’“autenticità” scomparsa, e acquistano significato nell’ambito di un’eredità flessibile e composita cui si attinge e che si riscrive e si modifica nel costruire un passaggio
efficace attraverso il presente. Questo vuol dire proporre un
senso di “autenticità” che nasce e si sviluppa nei percorsi
contingenti di memorie e storie, nel ri-membrare in una lingua
capace di fornire una casa viaggiante di identità in grado di
dialogare con le costellazioni della vita contemporanea e cercarvi riparo.
Berman vuole riportare la modernità sulla retta via, ma se la
spinta faustiana verso il “progresso” e la “modernizzazione” a
qualunque costo fa parte integrante della modernità, perché è
tanto riluttante a mettere in discussione quei termini e l’idea
stessa di “modernità”? Ci dà l’impressione che la modernità sia
stata, un tempo, un nobile progetto poi degenerato, e che per
salvarlo dobbiamo risalire alle sue origini, alle sue fonti. Io ritengo che tornare indietro sia impossibile: quella genesi oggi
esiste ormai solo sotto forma di tracce nella memoria, elementi
che possiamo decidere di ricostruire mediante analisi storica e
testuale, storie e racconti che incontriamo, interpretiamo e pertanto collochiamo, inscriviamo e localizziamo nel nostro presente. Ma non potremo mai ritornare alla scena primaria dei nostri
inizi e delle loro incontaminate “origini”.
I protagonisti del resoconto epico di Berman – lo scrittore, la
gente, la folla – sono tutti unità astratte, soggetti unificati
(prefreudiani). È come se fossero soltanto (sotto)prodotti della
modernità, della modernizzazione e del metodo di produzione
capitalista, e non anche produttori. Gli unici produttori ammessi nella cronaca di Berman sono quegli scrittori, pensatori, artisti e architetti capaci di rimanere a galla nella tempesta dello
sviluppo capitalista. In una visione decisamente classica dell’espressione artistica e del “genio”, l’attenzione viene continuamente rivolta alla voce, invariabilmente maschile, che riesce a
sollevarsi oltre il vortice e riportarlo entro i canoni dell’espressione significante.
Infine c’è la tragedia della modernità. Secondo Berman viene
rappresentata sul palcoscenico del mondo nelle contraddizioni
Ai piedi del Vesuvio
La città viveva sotto il Vesuvio, ed era quindi
costantemente minacciata nella propria esistenza. Di conseguenza, aveva preso parte al diffuso
sviluppo tecnico ed economico dell’Europa soltanto a sbalzi, poiché non si poteva mai sapere
se l’anno sarebbe trascorso senza catastrofi.
Alfred Sohn-Rethel (1990, p. 21)
Mi venne in mente che forse era così che succedeva quando le città morivano. Non morivano
con un’esplosione, non morivano solo quando
venivano abbandonate. Forse morivano così:
119
Città senza mappe
interne del progresso, della modernizzazione e del capitalismo.
Ammetto che è effettivamente un processo globale, ma vorrei
far notare che quando guarderemo meglio dentro le storie particolari di cui è costituita la modernità, scopriremo che il terribile male dei nostri tempi pone problemi e avanza proposte
che ci permettono di superare il desiderio nostalgico di un’unità, una coerenza e un senso unificato della tradizione perduti.
Siamo di fronte a un orizzonte composto di soggettività eterogenea, occupato da storie e lingue intente a trasformare in un
presente significativo l’eredità frammentaria del passato, insieme con suggestioni e prestiti più immediati. Sono queste storie particolari che ci danno modo di riflettere ulteriormente sul
senso contemporaneo della città, delle sue lingue, culture e
possibilità. Questo significa mettere da parte il comfort intellettuale offertoci dalla chiarezza astratta della “logica” e della
“dialettica” e andare a fare un giro per la città. Lì, prestando
attenzione alle sue molteplici voci, ai particolari etnografici, alle sue storie diverse e alle sue non sempre proporzionate realtà, veniamo trasportati al di là di noi stessi e del mondo critico in cui una volta vivevamo.
La città in cui propongo di fare un giro è Napoli: una metropoli
atipica, forse, ma quale città non è specifica, unica?
Iain Chambers
Paesaggi migratori
120
quando tutti soffrivano, quando spostarsi diventava talmente difficile che la gente rinunciava a
lavori di cui aveva bisogno per paura delle sofferenze del viaggio, quando non c’era aria né
acqua pulita per nessuno e nessuno poteva più
andare a passeggio. Forse le città morivano
quando perdevano le attrattive tipiche delle città, l’eccitazione dello spettacolo che offrivano, il
senso di maggiori possibilità umane, e diventavano semplicemente posti dove c’era troppa
gente, e la gente soffriva.
V. S. Naipaul (1990, p. 347)
Napoli è una città frammentaria, attaccata al lembo meridionale
dell’Europa. È stata spesso una sede privilegiata per osservare
quelle frange della società europea in cui lo Stato e la società
civile sembrano inaridirsi e svanire. È qui infatti che il tessuto
urbano tende a sfaldarsi rivelando un museo vivente di pratiche,
usanze e frammenti arcaici. Ieri i suoi paesaggi con rovine furono all’origine del sublime romantico (Goethe) o, più tardi, di un
capitalismo disincantato (Benjamin). Oggi attrae lo sguardo degli
antropologi che si ritirano da periferie precedenti per esaminare
le frontiere interne dell’Europa e i rituali particolari delle sue popolazioni indigene. Napoli non è solo il laboratorio dell’arcaico
o un caravanserraglio di sviluppo urbano interrotto a metà. Il
suo centro storico fatiscente è stato interrotto drammaticamente
dal profilo moderno di un centro commerciale e amministrativo
di concezione giapponese.
Con la sua violenta mescolanza di antiquati riti di strada e di
progetti del capitalismo globale, Napoli ci si presenta come un
enigma. Le sue qualità sfingee, il suo restituirci il riflesso di
quello che speriamo e temiamo di vedere, rivelano una matrice
instabile attraversata da culture e ritmi storici diversi. Una rete
idrica precaria, trasporti pubblici inaffidabili, strade e fognature
del diciassettesimo secolo ingorgate dal traffico e dall’inquinamento del ventesimo da una parte e, dall’altra, il fanatismo di
una pulizia privata dimentica del sudiciume pubblico. Sebbene
gestita dal capitale, spesso la città sembra sfuggire al controllo.
121
Città senza mappe
Solo un individualismo esasperato – ognuno libero di inventare
il proprio codice stradale – riesce a lasciare il segno.
L’organizzazione razionale dello spazio urbano, della produzione,
del lavoro e del profitto viene continuamente interrotta, decomposta e deviata da innumerevoli sacche di mercantilismo, baratto, corruzione e criminalità: l’affare concluso all’angolo con il telefonino, i corrieri del mercato nero in Vespa, la compravendita
di favori, la tangente istituzionalizzata. È questo il sottobosco
intricato di un’altra città e di una formazione culturale che perde
i fili nel labirinto di parentele, cultura di strada, identità locali,
memoria popolare e folklore urbano.
Essere aperti a questa dimensione, alla narrazione collettiva di
identità e scambi di memorie che vanno sotto il nome di
“Napoli”, chiaramente significa rinunciare alla possibilità di ricomporre tutti i pezzi in un canale unico, in un solo racconto
capace di spiegare tutti i particolari. Naturalmente possiamo
usare termini come “sviluppo disomogeneo” e fare riferimento
alle concatenazioni locali, nazionali e internazionali di temporalità miste, di disuguaglianze strutturali, e alle peculiarità delle formazioni storiche e politiche del Mezzogiorno, ma in queste categorie la sintassi particolare di queste condizioni, il mix “napoletano” può trovare solo spiegazioni parziali.
Come molte città mediterranee, Napoli si rapporta a se stessa e
all’hinterland locale molto prima che nel suo senso di identità
si affacci lo stato-nazione (Matvejević1987). Anche la scena della
natività diventa una scena napoletana, il presepe napoletano. I
modelli di cartapesta e le raffigurazioni in ceramica della
Betlemme biblica sono invariabilmente popolati di mercati locali, piazze e pizze. Due miti sono fusi in un linguaggio di rappresentazione in miniatura in cui il religioso e il secolare, il passato e il presente, il lontano e il vicino, il morto e il vivo condividono lo stesso mondo. Un tempo capitale, Napoli adesso è
senza regno. Apparentemente privata del suo destino, la sua
traiettoria si è interrotta di colpo. Come un centro defunto, come una salma, Napoli è sempre pronta a essere assunta nella
sua “patria allegorica” (Benjamin 1963, p. 232). I gesti viscerali
di questo rapportarsi a se stessa – e il presepe e la sua lette-
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Paesaggi migratori
Iain Chambers
ratura locale sono solo la manifestazione più documentata di
questa pratica quotidiana – continuano a esprimere tutto il pathos di quella perdita. Dunque non c’è progetto globale o disegno unificante in grado di coprire interamente l’esperienza napoletana. È una storia che si può cogliere soltanto nei frammenti, nell’economia del disordine, nella penombra mitica di
una decadenza immaginata.
Vista sotto questo aspetto la città non si vive solo come realtà
fisica, come la somma delle sue storie, memorie e monumenti,
ma più all’insegna di quella che i situazionisti chiamavano psicogeografia: quel lasciarsi trasportare che porta a riscrivere il testo urbano nei termini di un desiderio che prende al laccio l’inaspettato, l’incalcolabile, la situazione. Il valore di Napoli, sia dal
punto di vista sociale che estetico (ma sono separabili?) forse
non sta tanto nella sua pretesa unicità, quanto nella capacità di
disperdersi, di perdersi e in tal modo di sfuggire alla prevedibilità. La città non rappresenta un referente unico, razionale, saldo,
ma scivola attraverso schemi prevedibili per diventare un segno
fluttuante, che erra fra centinaia di interpretazioni, migliaia di
storie. Esiste al di là della brutale fisicità delle strade, in un’architettura interna che fa da struttura portante all’immaginario.
Pure questo luogo immaginario, come tutto il materiale dei sogni, ha un linguaggio che richiede di essere interpretato.
L’associazione fatta da Alfred Sohn-Rethel tra Napoli e l’idea di
catastrofe, di declino e distruzione imminente, ci introduce nel
linguaggio della rovina, il linguaggio del barocco. Così Walter
Benjamin, che nel 1925 scrisse gran parte del suo libro sul
teatro barocco stando a Capri e compiendo frequenti visite a
Napoli, commenta la centralità della rovina nell’economia di figure del barocco:
Con essa [la rovina] la storia è tangibilmente ridotta a palcoscenico.
(…) così conformata, la storia si costituisce non come il dispiegarsi di
un’eterna vita bensì come il processo di un inarrestabile decadimento. Con ciò l’allegoria si pone al di là della bellezza. Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle
cose. Da ciò il culto barocco della rovina (Benjamin 1963, p. 184).
123
Città senza mappe
È nello stile allegorico del barocco, nella sua insistenza su rovina e declino, nell’avvizzirsi della storia e della vita, che si impone con la massima energia per il fatto di essere cadavere.
Vivere sotto il vulcano, sentendosi ricordare quotidianamente
che si è mortali: è questa la chiave per comprendere l’energia
schizofrenica della città, i suoi linguaggi di esultanza e disperazione, i suoi estremi di violenza fisica e rassegnazione mentale?
A Napoli si ha la continua consapevolezza di vivere non semplicemente un’esperienza urbana, ma la vita urbana come problema, come interrogazione, come provocazione. Curiosamente
questo ricorda la descrizione data dall’architetto americano
Frank Lloyd Wright della città come “forma universale dell’ansia”
(Wright 1956). È un fatto che Napoli parla continuamente a se
stessa, offrendoci lo spettacolo di un’analisi senza fine.
Costruendosi e rassicurandosi con le parole, la città oscilla continuamente fra lamentazioni sul passato e fantasie sul futuro,
mentre il presente scorre inosservato, abbandonato. Assorta in
se stessa, come bloccata in quello che Lacan chiama stadio dello specchio – lo sguardo di Narciso che evita il vuoto, l’abisso
(il Vesuvio?), l’altro che potrebbe mettere in discussione e decentrare la sua unicità, la sua identità – Napoli, vista da fuori,
diventa anche il luogo di sogno di una città immaginaria
(Ramondino, Müller 1988). Infatti questa città, nonostante tutti i
suoi particolari specifici e le sue rivendicazioni di insularità, non
può fare a meno di assumere una parte in altre storie, altri idiomi, altre possibilità. Si trasforma ineluttabilmente da monumento che celebra se stesso a intersezione, momento di incontro,
luogo di passaggio nell’ambito di una rete più ampia. Mollati gli
ormeggi la città comincia ad andare alla deriva, entra in altri
racconti. L’approccio provinciale alla realtà è compromesso da
forze economiche e culturali narrate altrove: in un’economia globale contemporaneamente presente sia sul mercato azionario
mondiale sia sul mercato mondiale della droga. A proprio agio
nel motivo barocco della rovina, posta all’estremo margine
d’Europa, sulla soglia del disastro e del declino, Napoli forse diventa l’emblema della città in crisi, della città in quanto crisi.
L’emozione consapevole del suo linguaggio, del suo stile, tradi-
sce le storie e le memorie che crescono “come la rottura e la
vendetta del significato” (Taussig 1991, p. 5) – fino a formare
l’interrogativo profondamente metropolitano dell’enigma di quella che Heidegger chiamava la nebulosità della vita.
Iain Chambers
Paesaggi migratori
124
Dalla strada al globo
La questione è se il vero sviluppo di Londra
e Manchester si possa capire senza fare riferimento all’India, all’Africa, all’America
Latina, più di quanto lo sviluppo di
Kingston (Giamaica) o Bombay si possa
comprendere senza fare riferimento al primo.
Anthony D. King (1991, p. 78)
Adesso c’è una cultura mondiale, ma faremmo bene ad accertarci di capire veramente che cosa significa. È caratterizzata
da un’organizzazione della diversità piuttosto che da una ripetizione dell’uniformità.
Non c’è stata nessuna omogeneizzazione
totale di sistemi di significato ed espressione, né sembra prevedibile che questo
avvenga nel prossimo futuro, ma il mondo
è diventato un’unica rete di rapporti sociali
e tra regioni diverse c’è un flusso di significati oltre che di persone e di beni.
Ulf Hannerz (1990, p. 237)
Anche i dettagli, anche queste particolarità psicogeografiche e
allegoriche della vita napoletana, rappresentano un imprevisto
sviluppo locale di una storia molto più ampia. La formazione di
una città come Napoli non è inscindibile dalla sua collocazione
storica in un’economia mediterranea, europea e globale. Il simbolo più evidente di questa “globalizzazione” oggi è il numero
crescente di lavoratori immigrati che vivono nella città e nel suo
hinterland. A Napoli le domestiche vengono quasi tutte da Capo
125
Città senza mappe
Verde, dalla Somalia e dalle Filippine, mentre i lavoratori agricoli
e gli ambulanti vengono soprattutto dall’Africa occidentale.
Sentir parlare arabo sull’autobus, osservare all’ufficio postale i
veli, i turbanti e i disegni vivaci dei vestiti di cotone delle somale che mandano i soldi a casa è riconoscere un futuro urbano
destinato a trasformare le coordinate locali.
Il legame che un tempo sussisteva tra la nascita della città moderna e l’espansionismo e il colonialismo europeo, sia al “centro” sia in “periferia”, oggi si è ridistribuito lungo gli assi di spazio-tempo-informazione dell’economia mondiale. L’esercizio spaziale diretto del potere – a partire dal centro metropolitano verso la periferia coloniale – si sta sempre più riallineando lungo
una proliferazione di centri, punti nodali e reti di comunicazione
coordinati dagli imperativi collegati di finanza, produzione, mercati, proprietà, tempo libero e stili di vita. Il modello coloniale
unilaterale, nazionale, è stato interrotto dalla comparsa di un
mondo trasversale che occupa un “terzo spazio” (Bhabha
1990b), una “terza cultura” (Featherstone 1990) al di là dei confini dello stato-nazione.
Sono sempre esistiti tra le città del mondo legami inscindibili.
Lo sviluppo politico, culturale ed economico di realtà urbane,
economiche e architettoniche come Londra, New York, Madrid o
Napoli (da una parte) non può essere compreso senza quello di
Singapore, Nuova Delhi, Lima o Adelaide (dall’altra), né disgiuntamente da un’economia tendenzialmente globale con le sue reti
e i suoi programmi culturali. Nei paesaggi della geografia urbana
contemporanea è sempre più difficile ignorare popolazioni un
tempo nascoste, spesso tenute a distanza dalla divisione
internazionale del lavoro, il cui lavoro dimenticato rifornisce i
guardaroba, i frigoriferi, e gli stili di vita di tante metropoli moderne. Intanto al centro i mercati del lavoro semiclandestino,
sfruttando braccia, corpo e cervello degli ex colonizzati, garantiscono servizi come baby-sitting, lavori domestici, prostituzione,
vendita ambulante, lavoro a cottimo e manodopera rurale stagionale. Qui se non altro la prova vivente di storie represse e
imperi defunti non è tanto facile da dimenticare: gli “indigeni”
sono venuti a ossessionare con la propria presenza le loro “ori-
126
Paesaggi migratori
Iain Chambers
gini”. Prima identificati e assoggettati al potere metropolitano,
adesso riportano al centro elementi del Terzo Mondo: la mancanza di assistenza sanitaria e sociale, di alloggi, istruzione e
lavoro. Qui dividono con gli altri membri della metropoli lo stesso tempo e, ogni giorno di più, le stesse strade, autobus e negozi. Sono i sedici milioni di “cittadini extraeuropei” che attualmente vivono e lavorano in Europa.
La vita urbana si sta trasformando per effetto di un processo di
formazione globale. Se dobbiamo parlare di globalismo, si tratta
di un globalismo che non riguarda solo i poteri e il movimento
del capitale e della divisione internazionale del lavoro, ma anche istituzioni, relazioni, idee e forze sociali e culturali. Le singole città e i loro abitanti sono sempre più funzione di un sistema di riferimento internazionale e transnazionale, differenziato
ma globale. Molti preferiscono non ammettere le conseguenze di
questi processi e razzismo, xenofobia e nazionalismo virulento
sono sempre pronti a fornire i linguaggi interpretativi, ma il nostro destino è ormai chiaramente altrove.
Ci viene continuamente ricordato che:
controllo sociale, sperequazione e vincoli dell’interazione sociale in
generale non sono semplicemente una funzione dell’esproprio del
plusvalore o dello sfruttamento economico ma, cosa forse ancora
più importante, di pratiche culturali simbolicamente radicate e della
loro riproduzione (Ulin 1991, p. 80).
L’autorità, lingua e logica cosmopolita dell’intellettuale, del tecnocrate e dell’amministratore europeo occidentale e nordamericano vengono messe sempre più in discussione da voci provenienti dall’India, dal Giappone, dall’America Latina, dall’Africa.
Storie, culture, processi, testi vengono letti dall’altra parte di
quella che una volta si presumeva essere la linea di demarcazione centro-periferia: da Tokyo, da Bombay, da Buenos Aires, da
Lagos, dal Cairo, in particolare da quelle città che fungono da
modello per lo sviluppo urbano globale molto più di quanto
non facciano insediamenti più antichi come, solo per citarne alcuni, Parigi, Londra o New York.
127
Città senza mappe
Ripensando la produzione economica, sociale e culturale dello
spazio in un tempo condiviso – “il mondo” – siamo indotti a
contemplare forme culturali, economiche e politiche in termini
nuovi. La compresenza di globalizzazione e differenziazione integra e nello stesso tempo mette in discussione i limiti dello stato-nazione. Andiamo oltre i concetti di nazione, nazionalismo e
cultura nazionale ed entriamo in una serie di realtà postcoloniali
e in un tipo di pensiero critico costretto a riscrivere la grammatica e la lingua stessa del pensiero moderno, orientando l’attenzione oltre i limiti patriarcali dell’approccio eurocentrico con il
suo presuntuoso “universalismo”. Tuttavia questo compito, proprio perché non rappresenta l’ultima novità in fatto di “progresso”, si svolge in maniera paradossale. La deterritorializzazione
infatti produce sia identità diasporiche sia un nuovo fondamentalismo, e in questo non c’è nulla di ben delineato o che scorra
senza intoppi. Ostinatamente, spesso brutalmente, riemergono
formazioni più vecchie che si impongono sulle nostre vite differenziate ma sempre più collegate, costringendoci a riconoscere
tendenze omicide che insistono su etnicità localizzate, nazionalismi virulenti e fondamentalismo religioso nel tentativo di stabilire identità rigide, comunità campanilistiche e imperativi tradizionali. È un energico invito a ricordare che la “dialettica” razionale
è crollata. Nessuno ha un quadro completo della situazione. La
semplice chiarezza della logica binaria si frantuma nelle complessità di intensità irripetibili e dettagli insanguinati. Ritornare
a quelle risoluzioni mortali, a quei localismi paralizzanti, è tornare con drammatica urgenza alle domande “di chi è il tempo?”,
“di chi è la storia?” che gestiscono, identificano e interpretano
sia la strada locale sia l’orologio globale.
Qui le spoglie oscure di una definizione europea, e romantica,
di autenticità e di identità nazionale ritornano nelle continuità
da incubo della fobia e della paura per trascinarci con una spirale discendente dentro una palude di soggettività feroci e comunità disumane. Questo è il mondo rappresentato dai nazionalisti serbi armati che fanno “pulizia etnica” nella BosniaErzegovina e che rivendicano come propria una strada di Mostar
o Sarajevo “perché lo era nel 1388” (l’anno prima che la Serbia
fosse conquistata dai turchi). È innegabile che una simile forma
di appartenenza e di casa, che ostenta violentemente la sua
versione morta del tempo, esprime anche esigenze che non possono essere semplicemente eliminate dai resoconti attuali, ma è
altrettanto indiscutibile che essa dà voce a una particolare formazione culturale e a una modalità dell’identità su cui ci sentiamo di dover esprimere un giudizio storico ed etico.
Iain Chambers
Paesaggi migratori
128
Nessuna equazione
…la modernità sta nella sua ambiguità come
una richiesta di garanzie esterne all’interno
di una cultura che ha cancellato i loro presupposti ontologici.
William E. Connolly (1989, p. 11)
Il discorso della democrazia radicale non è
più il discorso dell’universale; la nicchia
epistemologica da cui parlavano le classi e
i soggetti “universali” è stata eliminata e
sostituita da una polifonia di voci, ciascuna delle quali costruisce la propria irriducibile… identità. Questo punto è decisivo:
non esiste democrazia radicale e pluralista
senza rinunciare al discorso dell’universale
e all’implicito presupposto di un accesso
privilegiato alla “verità”.
Ernesto Laclau, Chantal Mouffe
(1985, pp. 191-192)
Viaggio, migrazione e movimento invariabilmente ci portano a
confrontarci con i limiti della nostra eredità. Possiamo scegliere
di eludere questo impatto optando soltanto per una conferma
delle nostre opinioni iniziali, nel qual caso ciò che si trova dall’altra parte rimane nell’ombra, nell’oscurità. Ma possiamo anche
decidere di allentare il controllo, di lasciarci andare e rispondere
alla sfida di un mondo che è più ampio di quello in cui siamo
129
Città senza mappe
abituati ad abitare. Scegliere questa seconda strada implica il
disfacimento dei legami e delle direzioni che un tempo ci tenevano attaccati a un centro particolare, significa scompigliare e
interrompere il nostro senso dell’appartenenza a un posto con
una serie di domande. Il senso precedente non risulta necessariamente comune e la sua ragione non sempre universale. Così
le intenzioni critiche contro i limiti del razionalismo che abbiamo
ereditato e la sua comprensione spesso non problematica di
realtà e verità richiedono un linguaggio che “porta in se stesso
la necessità della sua stessa critica” (Derrida in Spivak 1977, p.
XVIII). Naturalmente, tutto questo è un preludio, fa parte di una
riflessione nata osservando la scena delle analisi culturali contemporanee, della vita urbana e delle storie, prospettive e vite
che danno forma a questi lavori e queste esperienze. Ho cercato
di disfare parte del bagaglio analitico che ancora ci portiamo
dietro in questo paesaggio, e che spesso passa per “senso comune” critico, nella speranza che mettere in discussione questo
linguaggio sia già un passo verso la rivelazione, attraverso il
suo disfacimento, di altri modi più aperti per affrontare le nostre
prospettive. Muoversi fra queste rovine e imparare a convivere
con esse significa già infilarsi nelle fratture della città per giungere altrove.
Capitolo sesto
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
Continent, city, country, society:
the choice is never wide and never free.
And here, or there… No. Should we have stayed at home,
wherever that may be?
Elizabeth Bishop, Questions of Travel, 19911
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
In questi mesi, in questi anni, si è incominciato a parlare, spesso con toni sempre più allarmati, della questione dell’immigrazione “illegale”. L’arrivo dei clandestini è un fatto che viene
spesso pubblicamente denunciato, mentre privatamente viene
assorbito per incontrare le esigenze crescenti della forza lavoro.
Sulla scia del cambiamento radicale della morfologia della cultura urbana nell’Occidente, si incomincia anche a parlare, di solito
in toni meno aspri, dello sviluppo di una società multietnica,
delle culture ibride e delle realtà meticciate.
Il secondo fenomeno però, anche quando non viene visto attraverso gli occhi della xenofobia, è di solito trattato come fenomeno recente e, in ogni modo, di poco conto nella realtà storica
e complessa della nazione. Si sa che, al contrario degli Stati
Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, l’Italia non ha partecipato direttamente al saccheggio del mondo, pur giustificando a
suo tempo la schiavitù razzistica, il colonialismo rapace e l’autoritarismo imperiale. Questi spettri della storia, che ogni tanto ritornano a disturbare gli scenari urbani di Los Angeles, Londra o
Parigi, non fanno parte della storia italiana.
Ma siamo sicuri? L’Italia è anch’essa parte della modernità occidentale; il suo caffè, i suoi pomodori, come la ricchezza della
sua architettura barocca, sono tra i frutti del suo inquadramento
nel mondo coloniale. Ci sono stati inoltre degli eventi imperiali
nell’Africa orientale, perseguiti sia dallo Stato liberale sia dallo
131
Il mondo contaminato
132
Paesaggi migratori
Iain Chambers
Stato fascista. Le palme dell’Italia meridionale non sono “native”, simboleggiavano i percorsi d’oltremare, un sogno imperiale
andato poi in frantumi. Notava Hannah Arendt (1986) che l’interno moderno e metropolitano è stato costituito dallo sfruttamento imperiale all’esterno. Ogni volta che si beve un caffè (o un
tè) c’è l’affermazione, sebbene inconsapevole, dei processi di
globalizzazione che sono in atto ormai da cinque secoli.
L’emigrato di ieri, che partiva da Genova per approdare a
Buenos Aires, e l’immigrato di oggi, che lascia Dacca per trovarsi
abbandonato su una spiaggia pugliese, sono separati nel tempo
ma unificati nella stessa storia.
In tutto questo c’è stata una grande rimozione. Nell’immaginario
collettivo sembra trattarsi di piccoli incidenti che non possono
incidere sul senso profondo della cultura e dei costumi della vita nazionale. Si dimentica facilmente che la nostra luce elettrica,
la nostra ricchezza, la nostra potenza sono anche il buio, la povertà e la debolezza di un altro. La modernità rivelata in una
lingua, in una cultura e in una letteratura non può essere considerata autoctona, non può essere separata dall’ambiente mondiale in cui la modernità euroamericana ha acquistato le sue forme differenti. In questo senso, noi tutti, sia i cittadini del Nord
del mondo sia i cittadini del Sud del mondo, viviamo in una
condizione post-coloniale in cui anche una cultura ristretta a un
cerchio d’élite non può più pretendere di essere incontaminata
dal mondo in cui si trova ad agire. Come ha notato Sandra
Ponzanesi (2001), questo “inconscio coloniale” fornisce un elemento cruciale nella ri-memorazione e ri-narrazione delle storie
che la cultura nazionale ha spesso rimosso.
Ma che senso ha portare questo argomento in vicinanza del discorso letterario-culturale italiano? Semplicemente quello di suggerire che una formazione letterario-culturale che ignora la complessità della modernità ha scelto un percorso destinato a essere sempre più provinciale. Ovviamente ogni cultura nazionale
cerca di imporre una visione omogenea del suo passato, e le
sue istituzioni formative (la scuola, l’università, ma anche la
stampa e la televisione) sono chiamate a ‘disciplinaré la lingua
e la letteratura nazionale per arrivare a questo risultato. In que-
133
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
sta maniera si realizza solamente la riproduzione ufficiale del
senso comune, uccidendo contemporanemente le possibilità critiche della stessa cultura e della sua letteratura. Qui sarebbe il
caso di ricordare la frase tagliente di Walter Benjamin (1955c):
“Non c’è mai documento di cultura che non sia, nello stesso
tempo, documento di barbarie”.
Spesso si ha l’impressione che il pericolo di questo tipo di chiusura non sia nemmeno avvertito, e che anche se lo fosse lo si
negherebbe in nome dell’autonomia della cultura. L’idea opposta, fortemente incoraggiata dalla letteratura stessa, che si può
rivisitare il passato per ri-leggerlo, ma anche per ri-considerarlo
e ri-configurarlo alla luce critica del presente, è spesso considerata illegittima, dilettantesca, e soprattutto poco ‘scientifica’.
Non si tratta di un revisionismo intento ad abbassare il livello
critico, ma di ospitare la sfida che emerge da una complessità
rimossa per proporre un senso polifonico delle culture e delle
letterature che portano l’aggettivo di ‘italiano’. Forse è arrivato il
momento di rendere la storia, la cultura e la letteratura nazionale un po’ meno narcisistiche, e di ripensare questa formazione,
con i suoi canoni letterari ed estetici, nella costellazione mondiale della modernità.
Si tratta di viaggiare nella lingua e di essere trasportati dalla stessa lingua altrove. Sarà la lingua stessa che si fa suolo. E allora,
forse, lo studio della lingua e della letteratura italiana, come ha
suggerito recentemente il poeta caraibico Derek Walcott, potrebbe
aprirsi verso quella mondializzazione inaugurata nella poetica di
Dante quando egli abbandonò il latino e la lingua del cielo per la
lingua secolare della terra. Oggi, quasi otto secoli più tardi, si fa
parte di un mondo in cui le divisioni disciplinari, le barriere linguistiche e nazionali vanno un po’ abbandonate, per lasciarsi interpellare dalle storie rimosse che sopravvivono nelle correnti della
modernità stessa. Ogni tradizione diventa il luogo di traduzione,
ogni canone una ricca rovina esposta ai venti che arrivano dall’altrove. Forse in questa maniera si potrebbe incominciare a registrare un senso più ampio, più aperto e perciò più articolato della
“narrazione” nazionale, permettendo il riconoscimento di quel
transito storico che abita la lingua e la storia di ognuno di noi.
Iain Chambers
Paesaggi migratori
134
Un mare di storie
Come andrebbe riconsiderata la storia del Mediterraneo alla luce di queste problematiche? E non stiamo parlando della mera
aggiunta di un’unità nazionale all’altra, né di una teleologia
semplicistica che comincia con la civiltà greca, egizia, fenicia…
per poi riuscire a contenere più di tre millenni di differenza unificati da un mare comune. Come luogo specifico, il
Mediterraneo evoca il continuo intrecciarsi di radici e rotte diverse; nella sua “lunga durata” (Braudel) si tratta di luoghi di
sedimentazione ma anche di dispersione. Come si fa, allora, a
navigare, storicamente e culturalmente, in questo spazio, armati ormai di un senso di modernità che si è maturato nelle condizioni contemporanee di ibridità interculturale, e forti di una
crescente insistenza etica che passa radicalmente al vaglio le
idee di “casa”, “ospitalità”, e “proprietà” della cultura, della
storia e del linguaggio?
Qui i contorni relativamente fissi del mare, della costa, delle
pianure e delle catene montuose ospitano formazioni storiche
spesso imprevedibili, e fenomeni culturali fortemente variabili. In
questa unità instabile, magistralmente espressa nel 1949 da
Fernand Braudel in La Méditerranée et le Monde Méditerranéen
à l’époque de Phillipe II (1966), esiste una precarietà destinata a
disturbare il compromesso strumentale del pragmatismo politico, come pure la più sottile conclusione critica.
Persino nelle generalizzazioni geo-storiche più approssimative, la
registrazione dei confini del Mediterraneo rivela immediatamente
i criteri d’analisi, dal momento che i suoi confini si srotolano a
nord verso il Baltico, a est verso il Levante e oltre, a ovest verso il mondo atlantico, e a sud, seppure su questo aspetto spesso si sorvoli, verso il Nord Africa e la parte sub-sahariana del
continente. Questo significa automaticamente registrare le storie
slave, tedesche, arabe e africane come parti anch’esse integranti
del Mediterraneo, delle sue genti, delle sue storie e culture. C’è
l’immagine scolastica del Mediterraneo come culla originaria della cultura europea: un poeta greco che pizzica la sua lira su una
sponda del mare Egeo, in armonia con i primi versi dell’Iliade.
135
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
Ma dietro questa bella immagine si cela una costellazione di
storie sicuramente più confusa, ma anche più ricca, in cui elementi etnicamente ambigui e culturalmente complessi pulsano,
incuranti della pulizia ideologica portata dalla moderna storiografia europea, dall’estetica, e dal sapere ellenico, e della loro
condivisa fiducia nel destino apparentemente unico di un’Europa
fondamentalmente omogenea.
Nell’agorà ateniese, grano e schiavi dalle colonie ai bordi del
mondo nomade della regione del Mar Nero si mescolavano con
l’Egitto urbano e con la Persia cosmopolita. Una breve occhiata
alle pagine del romanzo di Amitav Ghosh Lo schiavo del manoscritto (1994) – basato su un’opera fondamentale, in cinque volumi, di Shlomo Dov Goitein: A Mediterranean Society (1967-88)
– rivela un mondo di comunità ebree nell’universo arabo del dodicesimo secolo, che si estende verso l’esterno a partire dal
Cairo, in direzione ovest fino allo stretto di Gibilterra, e a est fino all’India meridionale. Attraverso il commercio, i viaggi e le
transazioni culturali, si fa strada un senso di appartenenza che
nasce da una capillare gamma di legami commerciali, familiari, e
culturali. Proprio da lì, per quei mari, e in seguito alla trasmissione araba a un mondo cristiano sospettoso, ritorna la figura
cruciale della scienza moderna, della tecnologia e della comunicazione digitale: il significante del nulla, lo zero 2. All’incirca nello stesso periodo, l’iniziale apertura dell’Est all’Europa medievale, che vide i mercanti italiani e i messi papali raggiungere la
Cina, fu permessa dalla conquista e dal controllo dei mongoli
sulle steppe asiatiche. Storie, culture e genti provenivano dal
Mediterraneo, ma vi provenivano spesso da molto lontano, cambiando per sempre la fisionomia culturale e gli orizzonti storici
di quel mare.
Naturalmente, rotte di commercio o di transito, e forme di identificazione pre-nazionale e perciò non regolarizzate, sono poi
state riassorbite, se non sepolte nell’oblio, dalle rigide demarcazioni imposte dalla guerra, dai nazionalismi, e dall’imposizione
di frontiere. Da un punto di vista storico, il Mediterraneo come
regione non è mai stato unificato da quando è caduto l’Impero
Romano; a conti fatti, è stato molto spesso in guerra con se
136
Paesaggi migratori
Iain Chambers
stesso. Per via di tali divisioni, molti pezzi della sua storia sono
andati perduti. C’è, per esempio, un mondo che è quasi del tutto assente dalla narrazione occidentale: quello del Mediterraneo
musulmano, con il tragitto storico e culturale che l’Islam ha fornito dall’Atlantico all’Asia centrale, e poi, volgendosi a sud, verso l’Africa nera. Perfino negli ultimi tempi, gran parte dei Balcani
si è data un gran da fare per scrollarsi di dosso il suo passato
turco e musulmano.
Il Mediterraneo, luogo di storie così intricate e indigeste, diviso
tradizionalmente da differenze religiose, spesso infrequentabile
fino al 1800 per via dei pirati, eppure anche unificato dalle rotte dei pellegrinaggi, è un qualcosa che continua a nascondersi
nei recessi di un’eventuale comprensione storica. Eppure, nello
stesso tempo, eccede le categorie che abbiamo appreso a usare per individuare le sue caratteristiche. I sintomi di quest’altra
storia, successivamente celati nell’uniformità del “classicismo” e
del nazionalismo europeo, continuano a emergere, però, nella
realtà incredibilmente composita della dieta mediterranea: le
arance e i limoni introdotti dagli arabi dall’Estremo Oriente, e
così il riso; la melanzana dall’India; le pesche dalla Cina via la
Persia, come i cipressi; e poi i fagioli, le patate e i pomodori, il
peperoncino e i fichi d’India dalle Americhe (Lucien Febvre in
Braudel 1985, p. 8).
Questi segni e sapori ci invitano a un ripensamento. L’immagine
decisamente chiusa e definitiva del mondo mediterraneo si riapre dinanzi a una serie di interrogativi che si rifiutano di scomparire. Il confronto militare tra Spagna e Marocco nel luglio del
2002, per un isolotto disabitato nel Mediterraneo, ci riscopre
inaspettatamente testimoni dell’insospettato potere della storia,
poiché ci riporta a un Mediterraneo dominato dal potere marittimo islamico, con guarnigioni spagnole precariamente asserragliate sulla costa settentrionale dell’Africa, che osservano nervosamente il passaggio stagionale dei nomadi berberi, mentre cercano invano di contrastare la pirateria musulmana. Furono proprio questi stessi pirati che saccheggiarono Sorrento nel 1558, e
che, quando le autorità spagnole di Napoli si rifiutarono di pagare il riscatto, vendettero allora le donne e i bambini come
Una rimozione storica
Il mondo, commenta Edward Said, è pieno di “gente senza documenti”, sia in senso burocratico che in senso storico. Si tratta,
continua Said (1984), della massa non-cosmopolita che esiste al
di là dell’arte, della soggettività, e della rappresentanza politica
e culturale. È il rovescio, il lato oscuro, della ben nota insistenza di Benedict Anderson (1983) sullo statuto anonimo della nazionalità. Queste persone sono “esiliate” in molti modi; non solo, com’è ovvio, per una dislocazione fisica e materiale, ma anche economicamente, politicamente e culturalmente, per l’esclusione dal programma che detta lo sviluppo e il “progresso” glo-
137
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
schiavi nei mercati di Tunisi e di Istanbul. Ma c’erano anche stati i mercati di schiavi nella Roma medievale, cristiana, come pure nel ducato bizantino di Napoli, che impiegava nel frattempo i
mercenari arabi provenienti dalla Sicilia, per combattere contro
la città di Benevento. La schiavitù mediterranea lungo i suoi perimetri meridionali e settentrionali è un capitolo di storia ancora
da scrivere.
E allora, mondi apparentemente così lontani tra loro rivelano una
sconvolgente prossimità, sospesi a condividere delle realtà storiche, dinanzi a un orizzonte di mare in comune. Il Mediterraneo
come mare di culture, di poteri e storie migranti continua a essere proprio questo. Il suo aspetto fluido e “crespo” (Horden,
Purcell 2000) testimonia una formazione composita, sempre in
via di farsi, mai completa, destinata a ulteriori configurazioni. Gli
immigrati di oggi, per quanto così temuti, disprezzati e vittimizzati dal razzismo, sono il ricordo storico del fatto che il
Mediterraneo, ritenuto l’origine dell’Europa e dell’“Occidente”, è
sempre stato parte di un altrove; proprio come le sue storie, le
sue culture e le sue genti (compresi 27 milioni di italiani) hanno
incessantemente abbandonato i suoi lidi per altri luoghi. Se
Ulisse è la mitica figura del viaggiatore e dello straniero con cui
quella storia ha inizio, è ancora con la figura del viaggiatore e
dello straniero che questa storia continuerà.
138
Paesaggi migratori
Iain Chambers
bale. Eppure, se il mondo dell’opulenza ha bisogno del resto
del pianeta per le risorse economiche e materiali, per non parlare della presenza persistente di un’alterità abietta che crudelmente rispecchia e misura la sua identità privilegiata, d’altra
parte esso, inconsapevolmente, produce anche un contro-spazio
violento da cui tale identità viene rivalutata criticamente.
Ovviamente, nulla si ritrova o si vive solamente in bianco o nero. Le configurazioni e le posizioni che si rinvengono al mondo
sono, tutto sommato, più complesse e ibride nella loro formazione e articolazione. Nessuno occupa semplicemente un’unica
categoria, o è destinato ad attenersi a essa per sempre.
Certamente siamo in un tempo, caratterizzato contemporaneamente dai processi di globalizzazione e da crisi, che rende necessario ritornare alle strutture tenaci in cui avvengono i mutamenti politici e le trasformazioni culturali. È importante riconoscere, nelle condizioni sempre più creolizzate della vita metropolitana, non solo l’arricchimento del Primo Mondo ma anche le richieste di altri mondi; richieste cariche di giustizia sociale, economica e politica che continuano a esistere ben oltre la tenuta
di superficie di una benefica addomesticazione.
Possiamo approfondire questo argomento partendo da una sequenza del film di Werner Herzog, Cobra Verde (1988), basato
su The Viceroy of Ouidah di Bruce (Chatwin 1982). All’inzio del
film, che si svolge alla metà dell’Ottocento, c’è una scena in
cui vediamo degli schiavi neri che stanno tagliando e raccogliendo le canne da zucchero in una piantagione del Brasile. In
primo piano vediamo il padrone bianco che spiega al protagonista e futuro mercante di schiavi, Dom Francisco Manoel Da
Silva, interpretato da Klaus Kinski, l’economia della merce in
zucchero dominata dal “dente dolce” della Gran Bretagna. La
raccolta dello zucchero è per una Gran Bretagna che ha abolito
la schiavitù, che sequestra le navi negriere in mare, e tuttavia
continua a godere del beneficio domestico del lavoro degli
schiavi. In questo paradosso crudele consiste “la storia amara
dello zucchero” (Derek Walcott).
Ovviamente, questa non è la storia che la modernità occidentale è abituata a raccontare a se stessa. La schiavitù, il razzi-
La mostruosità della ragione
A questo punto ci si chiederà di chi è questo progresso, questa libertà e illuminismo, di chi è questa modernità. L’universalismo che parla in suo nome, mentre sorvola sulla mancanza di libertà e l’oblio degli altri, propone una prospettiva
universale che resta vera solamente per alcuni, non per tutti.
Come mai la maniera occidentale di concepire il mondo pretende di essere universale, mentre altre storie vengono messe
al margine, rese subalterne, calpestate e spesso espulse dal
racconto? L’orrore dell’altro, dell’alterità, scrupolosamente localizzato nelle presunte differenze razziali, non rappresenta
solamente la paura di una minaccia esterna, ma anche la pau-
139
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
smo e l’insistenza sulla purezza etnica sono considerati aberrazioni, incidenti storici; terribili e disgustosi, ma comunque fattori esterni che non scalfiscono il cuore della modernità e la
realizzazione del progresso, della politica democratica e della
cultura illuministica. Prestare attenzione a tali eventi, a tale
storia mostruosa, invece, serve a rendere esplicito qualcosa
che è stato centrale per la formazione della modernità occidentale dai suoi inizi cinque secoli fa. Esporre la repressione
che abita il cuore di tenebra della modernità significa toccare
il rimosso che permette un’immagine coerente e omogenea da
sostenere in pubblico e in privato. La modernità si è costruita
su questa rimozione, sulla negazione dei corpi, delle storie e
delle culture su cui l’economia politica dell’Atlantico, e con ciò
dell’Europa moderna, si è fondata.
Emigrare, immigrare, trovarsi in esilio e spaesati, non è una
questione recente, poiché investe tutto l’arco della modernità,
dal momento della scoperta del “Mondo Nuovo” all’arrivo dei
motoscafi sulle coste settentrionali del Mediterraneo di oggi.
Reintrodurre questa storia nella configurazione del sapere e del
potere della modernità significa suggerire che métissage, creolité, ibridità non sono discorsi dell’ultima istanza… essi sono disseminati nella storia moderna sin dall’inizio.
140
Paesaggi migratori
Iain Chambers
ra dinanzi alla potenziale trasgressione e distruzione di quell’ordine che, con i suoi saperi sociali, politici ed estetici, con i
suoi poteri, pensa di riuscire a gestire e spiegare l’altro, e con
ciò il resto del mondo.
La passione per lo sradicamento dell’alterità dalla terra è anche
volontà di rendere centrale la propria casa, il senso della dimora
che autorizza tale desiderio e lo premia. Nel suo nazionalismo,
localismo e razzismo, tale desiderio costituisce una nevrosi pubblica e privata. Fare a meno della concezione rigida del luogo e
dell’appartenenza che sorregge la mia voce e garantisce il mio
potere non significa solo fare un semplice trasloco per entrare
nelle coordinate di un contesto ormai planetario. Tale spostamento mi servirebbe meramente come scusa per evitare qualsiasi responsabilità reale nel nome di un globalismo astratto e generico. La mia tradizione potrebbe continuare indisturbata in
una nuova configurazione dai contorni non troppo netti. Invece,
qui si tratta di qualcosa di molto più preciso e urgente.
Nell’orrore dello spaesamento pulsa l’angoscia per la dispersione dell’uomo occidentale: la paura del razionalismo davanti a
quello che eccede e sfugge al ragionamento che conferma la
centralità del soggetto occidentale nella spiegazione del mondo.
In tutto questo consiste la sfida storica annunciata dalla violenza che nell’arco di cinque secoli ha stabilito la possibilità di
articolare il nostro senso del mondo che orbita attorno alla
centralità storica ed epistemologica dell’Europa. Tale centralità
si regge su un rapporto ineguale, ingiusto e raramente riconosciuto. La ragione che si vede specchiata in questa formazione
dovrebbe sapere di essere inscritta in questa violenza; una
violenza strutturalmente rimossa e addirittura negata per permettere alla ragione di funzionare indisturbata. Ma la mostruosità del ragionamento occidentale, segnata da pulizie etniche,
ideologie razziste e genocidi, cioè da una violenza che spesso
ha abbandonato le sponde della ragione, non è un incidente
storico o una rara atrocità accaduta ai margini del mondo.
Questa mostruosità, distillata nel desiderio di spiegare e gestire tutto, ritorna sempre, e si è rivelata centrale alla nostra modernità. Da questa prospettiva ben si comprende la riflessione
di Walter Benjamin: i morti continuano a parlare. La nostra casa e i nostri linguaggi sono costruiti in loro presenza; e il senso che ognuno porta con sé si regge anche e soprattutto sulla
violenza distillata nell’oblio di quest’altra storia.
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
Questo ci introduce a qualcosa di più che una risistemazione sul
terreno del pensiero. Nell’ascoltare il supplemento del silenzio –
quello che una volta era considerato non-senso, inintelligibile e
indecifrabile – posso iniziare a capire che il mio linguaggio, la
mia identità, la mia storia, la mia voce, hanno sempre richiesto
l’espulsione violenta nell’oblio di qualsiasi oggetto di disturbo.
Ora, poiché non posso parlare per questo silenzio, per questo
altro, posso però lasciare un posto per esso: come lo spazio tra
il respiro delle mie parole: essenziale ma solitamente dimenticato. Qui il volto immediato dell’altro, reso attuale da un mondo
che si restringe ogni giorno, interrompe l’anonimo, l’astratto.
Come insegna Emmanuel Lévinas (1961), è l’evasione del volto
dell’altro che permette l’omicidio anonimo e il massacro astratto. Il volto invita a una risposta che non può essere una risposta ipotetica, e ci spinge alla cura per qualcosa che si estende
oltre il teorico: “Per questo c’è un abisso tra il ‘filosofaré sul
naufragio e un pensiero che davvero naufraga” (Heidegger 1981).
Quando il mio tempo è piegato dal tempo altrui e il mio pensiero è attraversato dalla presenza di un altro, entra in gioco
una dinamica che non posso più possedere. Il varco verso
l’alterità, verso quello che mi eccede, è un’apertura in cui sono costretto a pensare oltre il mio senso di possedere una
storia, una cultura e identità che rende tutto trasparente ai
miei interessi. Mi trovo in un’apertura in cui la mia storia, il
mio essere, sono resi vulnerabili, aperti alla sfida di essere
resi altro a loro volta. La mia storia è interrotta, il suo possesso del mondo è sradicato; non più unica, deve rispondere
a un incontro che non può controllare, che non può più rappresentare né più escludere.
141
Il senso del silenzio
Iain Chambers
Paesaggi migratori
142
Qui nella dinamica del linguaggio affiora l’inquietudine del silenzio da cui arrivano altre voci, altre storie, gli altri. Qui avviene il
passaggio dall’accettazione liberale delle differenze, in cui la visione dominante non viene mai sfidata, all’interruzione radicale
dell’alterità. Ritornare al linguaggio con questo supplemento,
con questo modo per piegare il tempo, dà inizio alla cerimonia
della memoria che semina nel linguaggio egemonico altri frutti,
altre storie, altre verità da raccogliere.
Quando il “mio”, il “nostro”, linguaggio – il linguaggio della modernità, dell’Occidente con il suo “progresso” e la sua tecnica –
è riformulato, ricostruito, in questa maniera, il linguaggio lascia
posto all’inquietudine dell’inaspettato. Un mondo, una geografia
tutta centrata su se stessa, incominciano ad andare alla deriva.
Le scorie della storia
Pensiamo un attimo alla musica, sia come linguaggio sia come
mezzo per sondare la modernità. L’opacità semantica dei suoni
si estende al di là delle frontiere del quotidiano e delle istituzioni che cercano di regolare il senso delle nostre vite. Le sottoculture giovanili e le loro musiche sono state fra i segni più spettacolari dell’esplorazione di tali aperture negli ultimi cinquant’anni, ma il loro arresto entro i confini arbitrari dello stile (di solito
fortemente maschile) significa che anch’esse sono destinate a
essere superate dal supplemento dei suoni che tendono a circolare nel mondo senza un indirizzo fisso.
Nell’avvicinarsi all’essenza tecnica, estetica e culturale della musica odierna, un’idea chiave, come Walter Benjamin aveva suggerito negli appunti che costituiscono il volume Parigi. Capitale
del XIX secolo (1982), sarebbe quella di prendere le scorie della
città, i frammenti delle sue storie e dei suoi linguaggi, come
materiale – i segni e suoni che si trovano quasi per strada – e,
come un disc-jockey, mescolarle insieme per creare un ritmo,
una cadenza, che ci porti verso un nuovo orizzonte di senso.
Così, posso pensare alla musica “scratch” rubata dai DJ neri di
New York dove suoni già incisi vengono riprodotti simultanea-
143
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
mente su un paio di piatti per arrivare a un ritmo, a un’immagine sonora, mai sentiti prima. Lo “scratch”, questa prassi di bricolage, potrebbe essere una metafora per la produzione culturale contemporanea che ci indica le vie in cui possiamo usare i
linguaggi della città stessa per esplorare la città.
Questo ci permette di prendere in considerazione l’idea dei linguaggi della città – la musica, ma anche il cinema, la tv e la moda – come forme del sapere contemporaneo. Si tratta di archivi
elettronici e memorie audio-visive che disturbano, minacciano e
mettono in questione le forme precedenti di autorità ed egemonia – sia intellettuali che politiche ed estetiche – e che permettono, nello spazio fra i frammenti, che altre voci, altri sensi, altri
accenti, altri mondi, emergano e vengano ascoltati. È qui che si
formula un nuovo senso estetico, dove i valori culturali non sono
più visti come fatti eterni e metafisici, ma invece emergono, vivono e muoiono nel tempo, nel movimento perpetuo del mondo.
Poiché, naturalmente, questi linguaggi non possiedono alcuna
garanzia etica o estetica. Se ora esiste una grammatica costante messa a disposizione dalla tecnologia mobile del walkman,
dei computer portatili, delle carte di credito, dei lettori CD, dei
telefoni cellulari, di Internet e file Mp3 (nell’opulento Primo
Mondo, il che significa che gran parte della popolazione mondiale non ha mai usato un telefono), il modo in cui questa
grammatica opera può variare in intenzioni e in effetti. Se il
primo walkman combinava musica e tecnologia in un’inquietante riconfigurazione dello spazio pubblico – un’individualità
distinta che emerge dal ronzio degli auricolari e che porta all’interruzione di distinzioni precedenti tra la privacy interiore e
la sfera pubblica esteriore – l’accesso, tutto sommato più ristretto, al telefono cellulare (un costoso oggetto che richiede
una continua revisione economica) potrebbe semplicemente rivelarsi come banale estensione di un individualismo invadente, in cui la sfida a precedenti forme di linguaggio e di comunicazione viene completamente riassorbita dalla banalità del riprodurre pubblicamente il familiare. Qui la rischiosa ambiguità
e la potenziale apertura dei linguaggi si riduce spesso alla
“neutralità” trasparente dell’iper-informazione computerizzata,
144
Paesaggi migratori
Iain Chambers
e al desiderio narcisistico di essere sempre “connessi” (a cosa,
dove, come, perché?).
A questo punto la metropoli si presenta come luogo aperto
dell’identità sociale, della memoria culturale e delle possibilità
storiche. Questo spazio è quello che oggi può essere invaso
dai linguaggi che sotto l’impatto della globalizzazione dei rapporti culturali non sono proprietà di nessuno: il lessico della
musica rock, la sintassi televisiva, l’ubiquità della lingua inglese. È qui che il pericolo e la chiusura dell’omogeneo, del sempre uguale, viene accompagnato dalla salvezza e dall’apertura
delle differenze.
In questa nuova configurazione, aperta alle storie, alle memorie,
alle possibilità che arrivano dall’altrove ed emergono fra di noi,
l’identità non può essere vissuta come qualcosa di già dato e
realizzato ma diventa invece un’apertura, una continua elaborazione, verso l’avvenire. Qui si disputa un senso della modernità
che, come notava Nietzsche, raggiunge l’apice del nichilismo nel
ridurre la molteplicità della vita alla singolarità di una metafisica
universale rappresentata dalla presunta sovranità dell’identità
individuale. Invece la razionalità produttiva della modernità è
continuamente interrotta dai propri linguaggi che la portano altrove. In questa maniera lo Stato, i linguaggi dominanti, e la logica del capitale, sono spesso bloccati e deviati quando identità
contigue viaggiano altrove, per esempio passando lungo i fili telefonici e attraverso il modem, mentre l’ultimo miscuglio musicale di ‘ragga’ viene trasmesso dalla Giamaica a Londra, per poi
continuare a New York per un’ulteriore elaborazione, prima di
tornare a Kingston per arrivare sul dischetto e la pista da ballo
nel giro di pochi giorni. Da DJ a DJ, tramite la tecnologia digitale,
un linguaggio nero e metropolitano che porta il nome di
“Giamaica” è trasmesso oltre le frontiere, rifiutando di fermarsi
alle dogane culturali o di mantenersi entro i limiti di un senso
locale mentre viaggia nello spazio ontologico del suono.
Sono tali linguaggi che ci permettono di ‘esserci’, che permettono all’essere di esplorare le possibilità nuove. Questi linguaggi
parlano, e parlano di un luogo culturale particolare dove il passato e la memoria, le iscrizioni e le prescrizioni, sono ri-scritte,
Oltre il multiculturalismo
In questa zona incerta, ambigua, aperta, la sfida a essere decentrato e ad affrontare i limiti del proprio mondo significa anche
affrontare i limiti del multiculturalismo che questo mondo finora
ha proposto. Di nuovo, non si tratta semplicemente di aggiustare il quadro politico, di allargare gli spazi della sfera pubblica,
per ospitare altre culture e altre storie. Si tratta, invece, di affrontare un compito molto più arduo in cui noi stessi diventiamo il quesito principale. Abituati a pensare alle questioni di migrazione, immigrazione, razzismo e diversità come problemi altrui, siamo, invece, ora chiamati a pensarli come prodotti della
nostra storia, della nostra cultura, del nostro linguaggio, del nostro potere, dei nostri desideri e nevrosi. A questo punto, l’antropologia occidentale diventa l’antropologia dell’Occidente, ovvero l’antropologia dell’occidentalizzazione del mondo.
Un’antropologia ormai senza oggetti, composta solamente dai
soggetti storici diversi.
Se il multiculturalismo rappresenta la risposta liberale che riconosce le culture e le identità altrui per mantenersene al centro,
145
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
ri-citate e ri-situate. Perché è lì che quelle che noi chiamiamo le
nostre identità storiche, culturali e personali non vengono solo
formate, ma addirittura ri-elaborate, per permetterci di entrare a
far parte della prosa e della promessa del mondo.
Questo scenario chiaramente ci propone una rilettura del concetto di autenticità, e il suo decentramento, e con essa la crisi
del presunto rapporto trasparente e pragmatico fra linguaggio e
identità, e le prospettive politiche e culturali costruite su di esso. La proiezione romantica che vede nell’autentico una tradizione continua, una comunità stabile e un’identità fissa, è qui interrotta da un diverso senso di autenticità. Questo senso emerge dalle tracce di memorie, suoni e storie, cioè dai linguaggi
che forniscono le costellazioni mobili di un’identità in grado di
dialogare con la condizione vulnerabile del contemporaneo, per
cercare lì la sua redenzione, la sua dimora.
146
Paesaggi migratori
Iain Chambers
e lasciando queste altre culture in posizione di subalternità, così
evitando qualsiasi interrogazione del proprio progetto politico,
qui, invece, stiamo contemplando qualcosa che va oltre il multiculturalismo e la sua logica di “assimilazione” per affrontare la
questione persistente di come vivere con, e nelle, differenze. Si
tratta, come osserva il critico postcoloniale Homi Bhabha
(1990b), di entrare in quel “terzo spazio” dove ogni cultura di
“origine” viene interrogata e configurata secondo i processi di
ibridizzazione. Qui si apre un divario tra il tempo del governare
e il tempo etico della politica, il divario tra la gestione istituzionale e le forme e le forze che lo precedono ed eccedono. Qui
l’identità di ciascuno di noi diventa una rete di diversità, un’apertura di differenze etniche e linguistiche, di differenze storicoculturali, religiose e sessuali, che nessuna logica è in grado di
racchiudere in sé. Se il concetto dell’altro, su cui il nostro senso
di identità storica, culturale e individuale si regge, è andato in
frantumi, anche noi siamo coinvolti in una dispersione che ci
porta oltre quella casa tradizionale composta di linguaggio e
identità nazionale, di località fissa. Non si tratta di evocare l’altro come minaccia o speranza, ma di interrogare noi stessi.
Perché qui si profila la sfida a concepire il nostro essere senza
la garanzia di essere radicati in sangue e suolo, senza l’idea che
il “nostro” linguaggio, la “nostra” cultura, la “nostra” storia, appartengano solamente a noi.
Sporcare il pensiero
A questo punto il rapporto tra noi e l’altro diventa molto meno
chiaro. Sia lo spazio sia il tempo della modernità risultano più
complessi, meno geometrici e lineari nelle loro articolazioni. In
quest’ottica si tratta di recepire la possibilità che la modernità e
i suoi linguaggi di secolarizzazione non rappresentino un processo unilaterale. Sebbene il mondo sia stato investito dalla potenza economica, politica e culturale della modernità occidentale, non si arriva automaticamente all’appropriazione completa
da parte dell’Occidente: l’occidentalizzazione del mondo non si-
147
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
gnifica che l’Occidente sia diventato il mondo. Il nostro spazio,
come la nostra storia e cultura, non è solamente nostro. Al contrario, ormai circolano e sopravvivono all’interno dei linguaggi
dell’Occidente anche altri modi di esserci nel mondo, suggerendo una serie di percorsi trasversali in cui l’arcaico e il moderno,
il sacro e il secolare, coesistono e costituiscono nel loro insieme
i linguaggi ambigui del presente. Qui i rapporti risultano molto
meno incisivi per capire una modernità che spezza continuamente i tempi del promesso superamento o Aufhebung del progresso sottoscritto dal pensiero dialettico.
In questa luce la modernità ci prospetta un paesaggio mondiale
che precede ed eccede la nostra volontà. E anche se pensiamo
di esserne gli autori, spesso ci ritroviamo assoggettati ai suoi
linguaggi. Parlando come “moderni” del nostro rapporto con le
culture altrui, spesso dimentichiamo che tali rapporti sono sedimentati nell’essere moderno da secoli. È stato infatti su tali rapporti che il concetto stesso della modernità si è elaborato, e
con ciò l’alterità rimossa, soprattutto nell’epoca in cui il nostro
mondo apparentemente diventa il mondo, si rivela parte integrante di noi stessi. Questa forse è la grande lezione di
Pasolini, e questo è sicuramente il punto centrale della teoria
postcoloniale. Trasportare i termini dell’argomento su questo
terreno, sporcando il pensiero con l’insistenza terrestre della formazione ibrida e incerta di una modernità diventata mondo, significa spezzare qualsiasi distinzione netta tra noi e gli altri, tra
il Nord e il resto del mondo, il centro e la periferia.
Lo spostamento dell’argomento in questa direzione ci aiuta anche a raccogliere l’azione apparentemente inconcepibile dell’11
settembre 2001. Non si tratta tanto di un evento piombatoci addosso, quanto di uno dei tanti punti di maturazione dei percorsi
subalterni della modernità, che trova voce e, soprattutto, spazio
mediatico, nell’amplificazione drammaticamente moderna del
terrorismo. Non penso che l’appoggio popolare alla strategia
vendicativa di un miliardario saudita provenga puramente dal
serbatoio della religione; penso invece che sia il caso di dirigere
la nostra attenzione verso quei frutti della modernità che Frantz
Fanon chiamava i “dannati della terra”.
148
Paesaggi migratori
Iain Chambers
A questo punto, però, non si tratta di evocare lo spettro di un
Terzomondismo per contrastare il compiacimento del pensiero
occidentale che rifiuta di pensare ai propri limiti. Al contrario, si
tratta di riconoscere all’interno dei nostri discorsi l’interrogazione dell’altrove che ormai abita la casa del nostro linguaggio.
Attraverso Hollywood e la società dello spettacolo abbiamo assistito molte volte a questi scenari, ma ora ecco il trauma, ecco il
profondo senso di spaesamento, poiché abbiamo sempre rifiutato di sentirli come il richiamo profondo della fragilità del nostro
modo di inquadrare il mondo. Si trattava sempre di atti di esorcizzazione oppure di “incidenti” – genocidi, carestia, terrore politico – accaduti altrove: Ruanda, Guatemala, Angola, Cambogia,
Eritrea, Timor Est, Palestina… Ma se il mondo ormai è il nostro,
inquadrato dalla nostra modernità, forse questi eventi sono anche “nostri”. Attraverso la freddezza dello sguardo critico abbiamo cercato di mantenere la distanza, non permettendo all’oggetto di sfuggire alle nostre discipline (antropologiche, sociologiche, storiche, politiche…) per annunciarsi come soggetti storici
che richiedano una risposta, e dunque il riconoscimento della
nostra responsabilità nell’abrogazione della loro storia. Tale annullamento storico rappresenta una ferita perfino più grave dell’istituzione razzistica della schiavitù moderna. Forse è qui,
quando la nostra modernità ritorna carica di altre storie, altre
identità, altri desideri, che nasce una vera difficoltà. Se in qualche modo la modernità stessa è stata costruita sull’espulsione,
sia fisica sia simbolica, dell’altro in nome della purezza religiosa, etnica, culturale e scientifica, allora la storia della modernità
è anche la storia di questa rimozione, di questa negazione, di
questa impostazione di ‘distanza’. Una distanza che ormai è impossibile mantenere.
Di nuovo, aprirsi a questa prospettiva richiederebbe una disponibilità a riconsiderare la configurazione della modernità dai
suoi inizi cinque secoli fa. Qui troveremmo che gli argomenti di
Marx sulla tendenza del capitale a realizzarsi in un mercato
mondiale, e l’insistenza di Heidegger sull’evento storico rappresentato dall’avvento del “mondo quadro” stabilito per la prima
volta con la prospettiva umanistica, ci invitano a ripensare ai
L’inquietudine del mondo
Elaborare un senso del luogo, dell’appartenenza, edificare e abitare lo spazio, quello del Mediterraneo o quello della città di
Napoli, per esempio, implica registrare dei confini, dei limiti; come minimo tra un dentro e un fuori, tra lo spazio coltivato della
scena domestica e la stranezza e l’inquietudine del mondo
esterno. Naturalmente, dopo Freud, ma, come Jean-François
Lyotard ci ha ricordato, possiamo dire, sulla scia della tragedia
greca, che questa casa è illusoria, che l’estraneo, il rimosso, l’inconscio, riescono sempre a infiltrarsi nello spazio domestico; la
porta è porosa. Notava Georg Simmel che con la porta il confinato e lo sconfinato si toccano l’un l’altro, non nella forma geometrica e morta di una partizione di separazione, ma nel senso
della possibilità di uno scambio continuo. Abitiamo nel perturbante, dove il rimosso completa l’architettura delle nostre storie,
le nostre culture, le nostre identità.
149
Migrazioni, modernità e il Mediterraneo
processi di “globalizzazione” secondo una temporalità diversa
da quella indicata dal giornalismo istantaneo. Il ritorno della
storia della modernità nella storia della prepotenza dell’egemonia occidentale su scala planetaria, registrata e rimossa nel pensiero da una “epistemologia violenta” (Gayatri Chakravorty
Spivak), ci spinge a riconfigurare il senso stesso della modernità. Dopo la Shoah sappiamo che la violenza incomprensibile è
stata sempre realizzata e sarà sempre realizzabile; possiamo trovarci continuamente dinanzi agli eventi che non riusciamo a far
entrare nella nostra capacità di ragionare. Ma la registrazione
dei limiti dei nostri linguaggi, del nostro pensiero davanti all’incommensurabile, non significa che si dovrebbe passare dallo
stato della ragione alle tenebre dell’irrazionalità. Arrivare ai propri confini potrebbe anche servire a consegnarci a dialoghi e
prospettive basate non tanto sul potere prescrittivo delle nostre
voci, quanto sull’apprendimento dell’ascolto, dove i nostri linguaggi ritornano parlando di altre storie, di possibilità finora impensabili; dunque di altre modernità.
150
Paesaggi migratori
Iain Chambers
Tale concetto di “luogo” e di “casa” abitata dagli spettri della
storia, mette in questione la storia, la cultura e l’identità, sia
dell’altro sia del residente, e con ciò dei saperi che pensano di
possedere la spiegazione di questi rapporti. I nostri saperi, le
nostre narrazioni, noi stessi, siamo chiamati a rispondere a una
conoscenza dell’esserci nella modernità che va oltre i confini
istituzionali e disciplinari che abbiamo imparato e propagato. Al
posto della “scientificità” conclusiva di una disciplina, di un sapere, si installa un senso aperto e interdisciplinare; dove il “senso” sta per indicare la direzione, la via, il dispiegamento di un
percorso critico. Fuori casa, un po’ spaesato, ogni discorso, con
la sua formazione storico-culturale, viene inscritto in una cartografia sradicata per essere ri-letto, ri-visitato nel momento in cui
viene interpellato dalle storie rimosse che sopravvivono nelle
correnti della modernità stessa. A questo punto ci troviamo in
un percorso che si apre su una geopolitica e una “globalizzazione” diverse, con la prospettiva di riscrivere il senso stesso del
luogo, dell’identità, e delle modernità, che ci portano altrove.
Questo sarebbe lo sradicamento radicale della modernità che altri, meno fortunati di noi, hanno già conosciuto. Forse, come ha
suggerito Adorno, tocca ora a noi imparare a stare a casa senza
sentirsi a casa, per recepire ciò che esiste oltre i nostri confini, i
nostri concetti; quei concetti che, in fin dei conti, cercano sempre la consolazione di addomesticare il mondo per il nostro beneficio. In questo luogo, sospesa negli interstizi del divenire,
ogni identità si trasforma da punto di arrivo in punto di partenza, lungo il percorso mondo dove ormai tutti cercano “casa”.
Napoli, luglio 2002
1
Continente, città, paese, società / la scelta non è mai ampia e mai libera. / E qui,
o lì… No. Saremmo dovute restare a casa, / ovunque essa possa essere?
2
Inventato in realtà qualche migliaio di anni prima dai sumeri e portato sulle rive
del Gange da Alessandro, fu però il matematico indiano Mahavira a intuire l’intera
portata della cifra. Poi, attraverso i mercanti e i matematici arabi lo zero rientrò in
Europa occidentale.
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di
pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.
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nel mese di febbraio 2003
presso Arti Grafiche La Moderna, Roma
Impaginazione: Studio Agostini