Paesaggi migratori - Archivi fluidi e disseminazioni digitali
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Paesaggi migratori - Archivi fluidi e disseminazioni digitali
Melusine 10 Edizione originale: Migrancy, Culture, Identity Copyright © 1994, Iain Chambers Prima edizione: Routledge, 1994 Copyright © 2003 Meltemi editore srl, Roma Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata. Meltemi editore via dell’Olmata, 30 – 00184 Roma tel. 06 4741063 – fax 06 4741407 [email protected] www.meltemieditore.it Iain Chambers PAESAGGI MIGRATORI Cultura e identità nell’epoca postcoloniale MELTEMI Indice p. 7 Prefazione all’edizione italiana 9 Introduzione Un ritorno impossibile 19 Capitolo primo Paesaggi migratori Alla deriva nella pagina - Un dialogo appena iniziato - Lo sguardo obliquo - Territori dell’imprevisto - Il taccuino dello straniero - La finzione dell’identità - La frattura - Radicato nello sradicato - Esposizione - Il limite - Una partenza perpetua 61 Capitolo secondo Passeggiata uditiva 67 Capitolo terzo Le macchine del desiderio 79 Capitolo quarto Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? Voci - La disgregazione dell’autenticità - Passaggi culturali e la poetica del luogo 105 Capitolo quinto Città senza mappe “Je suis un beur!” - In viaggio senza mappe - Vacanze in Giappone - La rovina - Ai piedi del Vesuvio - Dalla strada al globo - Nessuna equazione 131 Capitolo sesto Migrazioni, modernità e il Mediterraneo Il mondo contaminato - Un mare di storie - Una rimozione storica - La mostruosità della ragione - Il senso del silenzio - Le scorie della storia - Oltre il multiculturalismo - Sporcare il pensiero - L’inquietudine del mondo 151 Bibliografia Prefazione all’edizione italiana La nuova edizione di questo volume è stata suggerita dall’attualità persistente dei suoi argomenti, ora rivisti e riproposti in un nuovo capitolo finale dove ho cercato di approfondire, riportandoli a “casa”, alcuni dei temi principali elaborati in precedenza. In una congiuntura caratterizzata dal dominio dei linguaggi mediatici, il desiderio di un’autoconferma individuale e collettiva acquista piena espressione nella spettacolarizzazione del mondo dove tutto appare consensualmente scontato, senza spiacevoli sorprese o sgradite interruzioni critiche. Qui in Italia tale senso delle cose – favorito da una cultura del “buonismo”, a sua volta sostenuto dalla volontà del lieto fine – è spesso sottoscritto da un esteso storicismo in cui tutto sembra essere dispiegato in anticipo. In questo clima ci si trova ad assistere a una chiusura culturale che arriva al suo punto massimo nell’isteria socio-politica generata dalla questione dell’immigrazione, accompagnata dalla difesa rigida di un’identità storica e di un “io” racchiuso nella presunta sicurezza di una località metafisica. Dinanzi alla minaccia immaginata dello straniero, tale “soluzione” rappresenta un congedo dai movimenti, spesso turbolenti e sconvolgenti, dei complessi processi storici e culturali del mondo attuale. Viene qui toccato un fondo di conservatorismo culturale che si estende ben oltre gli attuali schieramenti politici. Nessuno vuole essere disturbato. La difesa dell’attuale organizzazione di un campo del sapere (e del potere) è anch’essa scontata, nonostante neghi il senso di qualsiasi grammatica critica. Di Iain Chambers Paesggi migratori 8 fronte alle innovazioni proposte da un approccio interdisciplinare, reso ulteriormente destabilizzante dalla provenienza altra, come nel caso degli studi culturali e postcoloniali, si difende la propria identità culturale cercando rifugio nell’autorità delle tradizioni e delle istituzioni locali. Nel contesto attuale, gli argomenti elaborati nelle pagine seguenti vogliono suggerire una sfida culturale; essi cercano di trasmettere un invito a ripensare (e riconfigurare) la storia e la cultura in cui saranno eventualmente recepiti; vi si tratta della storia e della cultura occidentale, certamente, ma anche di quella più immediata e viscerale. Come una piccola scheggia questo volume aspira al senso inaspettato dello spaesamento, e intende suggerire un rapporto radicalmente diverso, più inquietante, con la propria formazione storico-culturale. Vorrei ringraziare «l’Unità», gli organizzatori di Documenta 11 (Kassel) e i curatori del PMLA (New York), per aver inizialmente ospitato alcuni degli argomenti riportati nell’ultimo capitolo. I. C., settembre 2002 Introduzione Un ritorno impossibile Se ripensiamo la cultura (…) in termini di viaggio, l’interpretazione organica naturalizzante del termine cultura vista come un corpo dotato di radici che cresce, vive, muore, eccetera, viene messa in discussione. Balzano agli occhi più nettamente storicità costruite e controverse, punti di spostamento, interferenza e interazione. James Clifford (1992, p.101) La spaesatezza diviene un destino mondiale. Martin Heidegger (1981, p. 292) Mi sono accorto, un giorno, che una cosa m’importava più di altre: quale definizione dare di me in quanto straniero? (…) Mi sono poi accorto che, nella sua vulnerabilità, lo straniero poteva contare soltanto sull’ospitalità che altri poteva offrirgli. Proprio come le parole beneficiano dell’ospitalità loro offerta dalla pagina bianca e l’uccello di quella senza condizione che gli offre il cielo. Edmond Jabès, 1991 Sulle autostrade del sud della California, intorno a Tijuana, nei pressi del confine con il Messico, ci sono cartelli stradali che generalmente si riferiscono all’incontro tra natura e cultura: simboli di cervi che saltano o orsi in cerca di preda, per avvertirci del pericolo che ci taglino la strada. Ma questa volta l’immagine è diversa, allude al traffico interculturale. Il disegno rappresenta gente a piedi. Gente che nel tentativo disperato di sfuggire a un destino di povertà, tagliando il filo spinato sul confine o strisciandoci sotto e scansando le automobili in cor- 10 Paesaggi migratori Iain Chambers sa, attraversa di corsa il nastro di asfalto per scappar via dal passato e insediarsi nella promessa del Nord. Questa disperata scena di speranza e migrazione è un frammento, invariabilmente colto in una foto sulla stampa, al telegiornale, in un documentario televisivo, nelle statistiche sull’immigrazione illegale, ma nonostante ciò molto illuminante rispetto alla gran parte del paesaggio in cui viviamo. Quando il Terzo Mondo non è più tenuto a distanza laggiù, ma comincia ad apparire qui, quando l’incontro tra culture, storie, religioni e lingue diverse non si verifica più lungo il perimetro, nelle “zone di contatto” (Pratt 1992), ma emerge al centro della nostra vita quotidiana, nelle città e nelle culture del cosiddetto mondo avanzato o Primo Mondo, forse allora possiamo cominciare a parlare di un’interruzione significativa nel senso precedente delle nostre vite, culture, lingue e prospettive future Non intendo dire con questo che Londra e Lagos siano oggi semplicemente centri urbani separati dal punto di vista geografico e mantenuti insieme nella comune sintassi dei media metropolitani globali. Possono avere in comune certi beni, abitudini, stili e linguaggi, ma a ogni cosa che condividono corrisponde anche un travisamento, un’inflessione, un idioletto locale. Non sono solo due città distinte dal punto di vista fisico, ma rimangono fortemente differenziate in termini economici, storici e culturali. Ciononostante, queste differenze non sono sempre e inevitabilmente barriere ed esempi di divisione. Possono anche fungere da cardini che servono sia per chiudere che per aprire porte in un traffico globale in via di intensificazione. Inoltre la migrazione, insieme all’enunciazione di confini e punti di passaggio tra culture, è profondamente impressa negli itinerari di gran parte del pensiero contemporaneo. Migrazione ed esilio, come sottolinea Edward Said, comportano un “modo di essere discontinuo”, una specie di bisticcio con il luogo da cui si proviene, e sono quindi stati trasformati “in un poderoso motivo ricorrente della cultura moderna, che addirittura la arricchisce” (Said 1990a). Infatti: Un ritorno impossibile Un viaggio simile assume la forma di un’interrogazione incessante che disfa i suoi stessi termini di riferimento quando lungo la strada si perde il punto di partenza. Se esilio presuppone una casa da cui si parte e, alla fine, la promessa di un ritorno, gli interrogativi che si incontrano en route infrangono costantemente i confini di un simile itinerario. Le possibilità di continuare a identificarsi con queste premesse si affievoliscono e vengono meno. Il ricordo della perdita primaria, iscritto indelebilmente nel divenire incerto del viaggio di andata, ha fatto dell’esule un simbolo caratteristico dei nostri tempi. Una tendenza significativa della riflessione critica odierna di fronte al restringersi della ragione europea, che un tempo pretendeva di parlare a nome di tutto e di tutti, consiste nell’adottare metafore di movimento, migrazione, mappe, viaggio e, talvolta, di un turismo apparentemente superficiale. Tuttavia queste metafore non sono limitate alla genealogia di un paradigma critico particolare o circoscritte nel piano di un indirizzo teorico. Per quanto possiamo cinicamente scegliere di leggere nelle recenti peregrinazioni intellettuali soltanto l’ultima svolta nel racconto continuo del potere intellettuale occidentale e patriarcale, che cerca di addomesticare gli altri e di estendere il proprio dominio su chi era escluso e silenzioso, è chiaro che sta succedendo anche qualcos’altro. Negli attuali processi di globalizzazione incessante ci troviamo sempre più spesso di fronte a una vasta diversità culturale e storica che si rivela impermeabile alle spiegazioni cui ricorriamo di solito. È questa sfida complessa e persistente al mondo in cui siamo abituati a vivere che suggerisce con forza che non stiamo semplicemente assistendo all’ultima distensione della molla, liberale e cedevole, dell’eclettismo mentale. 11 L’esule sa che, in un mondo secolare e contingente, le case sono sempre provvisorie. Confini e barriere che ci circondano con la sicurezza di un territorio famigliare possono anche trasformarsi in prigioni e spesso vengono difesi al di là della ragione o della necessità. Gli esuli attraversano le frontiere, abbattono le barriere del pensiero e dell’esperienza (p. 365). 12 Paesaggi migratori Iain Chambers Infatti alcune recenti aperture del pensiero critico, fomentate da spostamenti interni nel cuore dell’Occidente (femminismo, decostruttivismo, psicoanalisi, pensiero postmetafisico), si sono sempre più accentuate per effetto dell’interrogativo persistente posto da una presenza che non si trova più altrove: il ritorno degli oppressi, dei subordinati e dei dimenticati nelle musiche, nelle letterature, nelle povertà e nelle popolazioni del Terzo Mondo che vengono a occupare le economie, le città, le istituzioni, i media e il tempo libero del Primo Mondo. La punteggiatura così fortemente connotata del copione cosmopolita, destinato a essere riconosciuto come parte della nostra storia e a essere teletrasmesso in occasione di future sommosse degli spodestati metropolitani, ci obbliga a riconoscere la necessità di un modo di pensare che non è né fisso né stabile, ma aperto alla prospettiva di un continuo ritorno agli eventi, alla loro rielaborazione e revisione. Questo rinarrare, recitare e risituare ciò che passa per conoscenza storica e culturale dipende dal ricordare e rimembrare tracce e frammenti precedenti, che si accendono e sfavillano nel nostro “momento di pericolo” attuale, mentre si perpetuano in nuove costellazioni (Benjamin 1955c). Sono frammenti che restano frammenti, schegge di luce che illuminano il nostro viaggio gettando al tempo stesso ombre interrogative sulla strada. La fede nella trasparenza della verità e il potere delle origini di definire la finalità del nostro viaggio si disperdono a causa di questo perpetuo movimento di trasmutazione e trasformazione. La storia viene mietuta e raccolta per essere assemblata, fatta parlare, rimembrata, riletta e riscritta e la lingua prende vita nel transito, nell’interpretazione. Parlare di questa eredità, fare riferimento alla storia, così come alla traduzione o alla memoria, equivale sempre a parlare dell’incompleto, del non interamente decifrabile. Significa tradire qualsiasi speranza di trasparenza. Perché tradurre è sempre trasformare, comporta sempre un necessario travestimento della metafisica di autenticità od origini. Ci troviamo a usare una lingua che è sempre adombrata da una perdita, da un altrove, da un fantasma: l’inconscio, un “altro” testo, un’“altra” voce, un “altro” mondo, 13 Un ritorno impossibile una lingua “fortemente influenzata dalla lingua straniera” (Rudolf Pannwitz in Benjamin 1955a). L’esperienza nomade del linguaggio, che vaga senza fissa dimora, abita ai crocevia del mondo, regge il nostro senso dell’essere e della differenza, non è più l’espressione di una storia o di una tradizione unica, anche se finge di portare un solo nome. Il pensiero vaga. Migra, va tradotto. E la ragione corre il rischio di affacciarsi sul mondo, di trovarsi in un passaggio privo di fondamenta o finalità rassicuranti: un passaggio aperto ai cieli mutevoli dell’esistenza e dell’illuminazione terrestre. Non più protetto dagli dei o dalla loro secolare risurrezione nei panni di un razionalismo imperioso o di una proiezione positivista, il pensiero corre il pericolo di diventare responsabile di se stesso e della salvaguardia dell’essere, e la sua unica protezione, come ci ricordano Rilke e Heidegger, sta proprio nell’assenza di protezione (Heidegger 1962b). Questo inevitabilmente implica un senso diverso di “dimora”, di essere nel mondo. Significa concepire la residenza come un habitat in movimento, come un modo per occupare il tempo e lo spazio non come se fossero strutture fisse e conchiuse, ma in quanto forniscono la provocazione critica di un’apertura la cui presenza interrogativa riecheggia nel movimento delle lingue che costituiscono il nostro senso di identità, di luogo e di appartenenza. Non esiste un luogo, una lingua o una tradizione che possa vantare questo ruolo, perché sebbene il viaggio dal centro alla periferia, alla ricerca dell’inaspettato, del bizzarro e del meraviglioso, domini forse ancora questa letteratura – per esempio questo libro – le storie di questo genere in ultima analisi rappresentano una debole eco della massa di viaggi, migrazioni e trasferimenti che tanta gente proveniente da altrove ha affrontato e continua a sperimentare. Così finalmente io arrivo a sperimentare la violenza dell’alterità, di altri mondi, lingue e identità, e in essi finalmente scopro che il mio stare è sostentato da incontri, dialoghi e conflitti con altre storie, altri posti, altre persone. Il ritorno dell’“indigeno” non segnala soltanto la drammatica necessità di “eliminare i confini tra storia occidentale e non occidentale”, ma riporta al 14 Paesaggi migratori Iain Chambers centro la violenza che in origine caratterizzava gli incontri che, nella lontana periferia, gettarono le basi del mio mondo (Wolf 1982). Questo quindi, necessariamente, non è neppure un resoconto di viaggio, perché viaggiare implica un movimento tra posizioni fisse, un punto di partenza e uno di arrivo, presuppone che si conosca un itinerario. Il viaggio lascia sottintendere inoltre un possibile ritorno, un potenziale rientro alla base. La migrazione, invece, comporta un movimento in cui non sono immutabili o certi né i punti di partenza né quelli di arrivo, richiede che si risieda in una lingua, in storie, in identità costantemente soggette a mutazione. Sempre in transito, la promessa di un ritorno a casa – completando la storia, addomesticando la deviazione – diventa un’impossibilità. La storia cede il passo alle storie, così come l’Occidente cede il passo al mondo. Significa vivere in un altro paese in cui: diventa più che mai urgente sviluppare una struttura di pensiero che metta il migrante al centro, e non alle dipendenze, dei processi storici. Abbiamo bisogno di disarmare la retorica genealogica del sangue, della proprietà e delle frontiere e di sostituirla con un resoconto laterale delle relazioni sociali, che sottolinei la contingenza di tutte le definizioni del sé e dell’altro da sé e la necessità di camminare con passo leggero (Carter 1992, pp. 7-8). Tutto questo significa forse che non ho nulla da dire, che ogni gesto che ha inizio in Occidente è intrinsecamente imperialista, nient’altro che l’ultimo esempio dell’estensione del mio potere nei confronti degli altri? Forse è qui che le implicazioni etiche e politiche degli argomenti avanzati in questo libro si possono più chiaramente interpretare come un tentativo di spezzare il circolo vizioso tra coloro che parlano e coloro per cui si parla. Infatti forse imparo a camminare con passo leggero lungo i limiti del luogo da cui parlo intromettendomi nel mio parlare, scoprendo le lacune e ascoltando i silenzi della mia eredità. Comincio a capire che dove ci sono limiti, esistono anche altre voci, altri corpi, altre parole, dall’altra 15 Un ritorno impossibile parte, al di là dei miei confini specifici. Nell’inseguire i miei desideri oltre queste frontiere, paradossalmente sono costretto ad affrontare i miei confini, insieme con quell’eccesso che cerca di sorreggere i dialoghi che li attraversano. Trasportato in qualche modo in questo territorio di confine, guardo uno spazio potenzialmente ulteriore: la possibilità di un altro posto, un altro mondo, un altro futuro. Le molteplici diaspore della modernità, messe in moto dalla “modernizzazione”, l’economia sempre più globale e le conseguenti migrazioni, spesso imposte in maniera brutale, di individui e popoli interi dalle periferie verso le metropoli euroamericane e le città del Terzo Mondo, sono di una grandezza e intensità tale che rendono drammaticamente insignificanti, al confronto, i viaggi secondari e in gran parte metaforici del pensiero intellettuale. L’analogia è rischiosa. C’è sempre il fascino ovvio dell’addomesticamento romantico, del ritorno a casa, arricchito dalle figure poetiche del viaggio e dell’esule. Ma è un rischio da correre, perché le migrazioni moderne di pensiero e persone sono fenomeni profondamente radicati nelle traiettorie e nei futuri reciproci. Essere costretti ad attraversare l’Atlantico come schiavi in catene, ad attraversare illegalmente il Mediterraneo o il Rio Grande diretti verso Nord e pieni di speranza, o anche sudare nelle lente code davanti alla burocrazia stringendo in mano passaporti e libretti di lavoro, significa prendere l’abitudine di vivere a metà strada fra mondi diversi, prigionieri di una frontiera che corre lungo la propria lingua,, religione, musica, il proprio modo di vestire, di apparire e di vivere. Venire da altrove, da “là” e non da “qui”, e pertanto essere al tempo stesso “dentro” e “fuori” dalla situazione presente, significa vivere all’intersezione tra storie e memorie, sperimentando sia la loro dispersione preliminare sia la successiva traduzione in nuovi e più ampi assetti lungo percorsi emergenti. Significa al tempo stesso incontrare i linguaggi dell’impotenza e i possibili indizi di futuri eterotopici. Questo dramma, che di rado è frutto di una libera scelta, è anche il dramma dello straniero. Tagliato fuori dalle patrie della tradizione, vivendo un’identità messa costantemen- 16 Paesaggi migratori Iain Chambers te in discussione, lo straniero deve continuamente mettersi a proprio agio in una discussione tra un’eredità storica dispersa e un presente eterogeneo. In quanto tale lo straniero, uomo o donna che sia, è una figura emblematica che attira la nostra attenzione sulle urgenze del nostro tempo: una presenza che mette in discussione il nostro presente. Lo straniero minaccia la “classificazione binaria messa in opera nella costruzione dell’ordine” e ci introduce all’arcano spostamento dell’ambiguità (Bauman 1990, pp. 150-151). Lo straniero, fantasma che adombra ogni discorso, è l’interrogazione allarmante, l’estraniazione che esiste in potenza dentro ciascuno di noi. È una presenza persistente, incancellabile, che mi attira fuori da me stesso verso l’altro. È l’insistenza dell’altra faccia che carica il mio obbligo nei confronti di “quella estraneità che non si può eliminare, il che significa che è il mio obbligo a non poter essere cancellato” (Lévinas 1988). In quanto “sintomo che rende appunto il ‘noi’ problematico, forse impossibile, lo straniero comincia quando sorge la conoscenza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri” (Kristeva 1988, p. 9). Questo decentramento dell’“individuo” classico porta all’indebolimento e alla dispersione dell’episteme razionalista, del cogito occidentale, che una volta ancorava e garantiva il soggetto come fulcro privilegiato della conoscenza, della verità e dell’essere. In questo incontro il pensiero critico è costretto ad abbandonare qualsiasi pretesa a una sede fissa, quasi offrisse un fondamento stabile su cui poter costruire allegramente il senso della nostra vita. Le sue adiacenze non sono solide, né le sue coordinate immutabili. Non è una dimora permanente, ma piuttosto una provocazione: una piattaforma, una zattera da cui scrutiamo l’orizzonte alla ricerca di segni mentre galleggiamo fra le correnti agitate del mondo. Costruito continuamente con i rottami e i frammenti portati dalle tempeste che chiamiamo “progresso”, il pensiero critico riscrive le tavole della memoria, mentre cerchiamo di trasformare da punto di arrivo a punto di partenza le nostre storie, le nostre lingue e i nostri ricordi1. Un ritorno impossibile 17 1 La “tavola della mia memoria” (Amleto), le tavole, tavolette e leggi che vengono continuamente costruite, iscritte, scritte e riscritte “e anche una tavola, una tabula, che permette al pensiero di agire sulle entità del nostro mondo” (Foucault 1966, p. 9). Il resto della frase riecheggia la celebre osservazione di Walter Benjamin sul “progresso” e l’angelo della storia di Tesi sulla filosofia della storia (Benjamin 1955c). Capitolo primo Paesaggi migratori Alla deriva nella pagina La migrazione è un viaggio di sola andata. Non c’è una “casa” a cui fare ritorno. Stuart Hall (1987, p. 44) Il paesaggio immaginario di una ricerca non è senza valore, anche se senza rigore. Esso ridà vita a quella che veniva chiamata “cultura popolare”, ma allo scopo di trasformare ciò che veniva rappresentato come forza matrice della storia in un’infinità mobile di tattiche. In questo modo ci presenta la struttura di un’immaginazione sociale in cui il problema prende forme sempre diverse e ricomincia daccapo; respinge gli effetti di un’analisi che per forza di cose coglie queste pratiche solo ai margini di un apparato tecnico, dove esse alterano o sconfiggono i suoi strumenti. Lo studio è marginale rispetto ai fenomeni studiati. Il paesaggio che rappresenta questi fenomeni in modo immaginario ha quindi un valore correttivo e terapeutico, in quanto Paesaggi migratori Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondiglio, ogni parola anche una maschera. Friedrich W. Nietzsche (1886, p. 201) 19 Sulla punta della perenne oscurità di nuovi inizi. A. H. Reynolds1, 1990 Iain Chambers Paesaggi migratori 20 si oppone alla loro riduzione attraverso un esame laterale. Come minimo assicura la loro presenza sotto forma di spettri. Questo ritorno a un’altra scena ci ricorda il rapporto che esiste fra l’esperienza di queste pratiche e ciò che rimane di loro nell’analisi. È una prova, una prova fantastica e non scientifica, della sproporzione fra tattiche quotidiane e delucidazione strategica. Di tutte le cose che ognuno fa, quanto finisce sulla carta? Fra le due, l’immagine, il fantasma del corpo esperto ma muto, preserva la differenza. Michel de Certeau (1988, pp. 41-42) Si inizia con dei segni sul foglio, il movimento della calligrafia, perché scrivere, naturalmente, è viaggiare. Implica entrare in uno spazio, una zona, un territorio talvolta segnalato con indicatori generici (racconti di viaggio, autobiografia, antropologia, storia…), ma ovunque caratterizzato dal movimento: il passaggio delle parole, la carovana del pensiero, il flusso dell’immaginario, lo slittamento della metafora, “la deriva nella pagina… gli occhi raminghi” (de Certeau 1988, p. XXI). Qui scrivere (e leggere) non implica necessariamente un progetto atto a penetrare il reale, duplicarlo e re-citarlo, ma piuttosto un tentativo di allargarlo, scompigliarlo e rilavorarlo. Per quanto allegorica, sempre intenta a parlare di un altro, di un altrove, e pertanto condannata a essere dissonante, la scrittura apre uno spazio che invita al movimento, alla migrazione, al viaggio. Implica mettere una certa distanza fra noi e i contesti che definiscono la nostra identità. Scrivere, pertanto, sebbene a prima vista sia un gesto imperialista in quanto si propone di stabilire un percorso, una traiettoria, un territorio e un dominio di percezione, potere e conoscenza, per quanto limitato e transitorio, può anche implicare il rifiuto della dominazione ed essere invocato come traccia transitoria, come gesto d’offerta: un dono, enigmatico presente di una lingua che tenta di rivelare un’apertura in noi stessi e nel mondo che abitiamo. È anche il paradosso della scrittura: come l’ambiguità del viaggio, parte da materiali noti – una lingua, un Il punto dell’autore, il punto di arrivo, diventa il punto di partenza e il confine della frase viene superato dal surplus della lingua. In questo modo scrivere diventa un documentario di viaggio, un costante attraversamento della soglia che separa evento e narrazione, autorità e dispersione, repressione e rappresentazione, impotenza e potere, anonimo pretesto e iscrizione testuale accreditata. È un viaggio che finisce per passare e risiedere temporaneamente in quella discussa terra di confine in cui il resoconto ufficiale si disperde nell’infinito storico della narrazione indigena. Non solo viene messa in discussione l’autorità particolare della descrizione autorizzata e vengono accolte con scetticismo le rivendicazioni empiriche della realtà, ma viene spostato e messo in dubbio lo status stesso dello scrivere, di lingua e testo. Come il secchio bucato nel Cuore di tenebra di Conrad, la narrativa perde. Come le isole di ordine e razionalità – rappresentate dalla stazione centrale e dal vapore che si inoltra lungo il Congo nell’interno Paesaggi migratori Infatti scrivere, come un gioco che sfida le sue stesse regole, è una pratica in corso che si può dire tenda non tanto all’inserimento di un “me” nella lingua, quanto alla creazione di un’apertura dove il “me” scompare e l’“io” va e viene continuamente, come richiede la natura del linguaggio (Trinh 1989, p. 35). 21 lessico, un discorso, una serie di archivi – eppure cerca di estrarre dai limiti del suo movimento, dall’esperienza del transito, un surplus, un eccesso che conduce a una possibilità imprevista e ignota. Scrivere dipende dal sostegno dell’“io”, presunto appoggio della voce d’autore, per trovare autorevolezza. Ma nel carattere provvisorio della scrittura questa struttura oscilla, viene messa in dubbio, scompaginata e indebolita. Dunque abitiamo un discorso che porta in sé la critica della propria lingua e della propria identità: infatti il viaggio dello scrivere implica un ritorno, a meno che non finisca in balbettio o in silenzio. Si perde qualcosa, si guadagna qualcosa. Perdiamo la sicurezza del punto d’inizio, del soggetto di partenza; guadagniamo un rapporto etico con la lingua a cui siamo soggetti e in cui ci assoggettiamo a vicenda. misterioso – diventano fragili e sospette, così la scrittura impara la regola di “lasciare intatte le ambiguità” (Taussig 1991, p. 10). Iain Chambers Paesaggi migratori 22 Un dialogo appena iniziato In tutte le carte di questo paese, sia spagnole sia inglesi, una lunga insenatura nell’isola Hoste si chiama Tekenika. Gli indiani non usavano quel nome né per quello né per altro luogo, ma nella lingua Yahgan questa parola significa “difficile da vedere o da capire”. Senza dubbio l’insenatura era stata indicata a un indigeno il quale, alla domanda come si chiamava, aveva risposto “teke uneka”, intendendo: “Non capisco che cosa volete dire”. Di lì il nome “Tekenika”. E. Lucas Bridges (1951, p. 36) Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero. Edmond Jabès (1989, p. 11) L’ingresso nel dialogo, in un senso della lingua che non soltanto riflette cultura, storia e differenze, ma le produce anche, implica una rottura con l’idea romantica di mondo visto come entità separata e conseguente alla nostra attenzione, quasi un “altro” diametralmente opposto al nostro essere e al nostro pensiero: l’esotico altrove, la differenza intatta, il mondo del “naturale” e dell’“indigeno”. Continuando così si arriverebbe ad affrontare la questione della differenza in termini puramente metafisici, stabilendo quindi un altro monologo, un’altra modalità di etnocentrismo. Prendere questa posizione non è altro che replicare la nostalgia della differenza e contrapporre alla corruzione della modernità una presunta “autenticità”. Riproduce semplicemente il potere delle posizioni esistenti: io, osservatore nostalgico; tu, indigeno, vittima della mia modernità. Stabilisce un circolo chiuso che può confortare l’osservatore, ma che è incapace di A., che ci porta caffè, brioche, spremuta di arancia e datteri dolci ogni mattina, è marocchino. Ha vissuto con la famiglia tutta la vita a Essaouira, una città di case bianche protetta da una fortezza portoghese rosa, che dà le spalle al deserto e offre la faccia ai venti caldi dell’Atlantico. Nell’albergo ci sono poche persone. Facciamo amicizia. No, è una parola troppo forte, troppo invadente, troppo romantica. C’è “feeling” fra noi, ci troviamo reciprocamente simpatici. Così va meglio, è più appropriato a quella che tutti e due sappiamo essere, nonostante il successivo scambio di indirizzi, un’esperienza transitoria. Non parliamo gran che. Io balbetto reminiscenze di francese scolastico e lui fa di sì con la testa e ogni tanto mi travolge con un fiume di parole. Naturalmente è L. a tenere le fila di questi incontri: la sua maggiore competenza linguistica e sociale sembra dare un senso agli spazi vuoti fra i due uomini. A volte mi do- 23 Paesaggi migratori affrontare le condizioni che questi ha nominato. Noi, nella e con la nostra differenza, ci ritroviamo presi nello stesso groviglio, nella stessa rete, nella stessa topologia. Non è solo la potente esteriorizzazione simbolica dell’“altro” come nostro interlocutore che dobbiamo esaminare, ma anche le condizioni di dialogo in cui sono impressi i poteri, le storie, i limiti e le lingue diversi che permettono il processo di differenziazione. Questo ci porta a un viaggio senza fine fra culture, lingue e complesse configurazioni di significato e di potere. Apre lo spazio al mondo postcoloniale e alla “possibilità di testi fiction/storici alter/nativi capaci di creare un mondo in fase di sviluppo liberandosi continuamente dei propri pregiudizi” (Ashcroft, Griffiths, Tiffin 1989, p. 154). Si verifica una trasformazione incessante di un tempo singolo (la “modernità”, il “progresso”, l’“Occidente”) in ritmi e spazi multipli, mentre si affronta la distanza fra i mondi e le storie vengono distillate in un senso specifico di posto e abitazione. Nel sincretismo di queste pratiche culturali si può tradurre una lingua imposta – “inglese”, “civiltà” occidentale, musica rock – trasformandola in ciò che lo scrittore palestinese Anton Shammas chiama “patria”. 24 Paesaggi migratori Iain Chambers mando il motivo dell’interesse che A. nutre per me e io per lui. Non posso scrivere la sua storia, eppure la sua presenza ha bisogno di un riconoscimento. Non posso ripresentarlo, completare la sua storia, i suoi sogni e le sue passioni. Questo chiuderebbe semplicemente il cerchio nello specchio distorto del mio io. Al limitare di una metafora postmoderna molto in voga – il deserto – conosco un vero uomo del deserto. Eppure non posso rappresentarlo, non so come raffigurarlo in quello che voglio dire. Potrei mettere insieme uno sfondo con pezzetti della cultura, della politica e della storia del suo paese e in primo piano sistemare il colore della sua djellaba, il rumore dei suoi sandali o i suoi tre figli visti di sfuggita in una passeggiata serale. Ma anche se lo frammentassi e lo ripresentassi con queste schegge non andrebbe bene. Ha la sua storia. Lì, con i suoi abiti, la sua lingua, la sua casa, i gesti con cui indica dove si mangiano i migliori tajines, bstilla, couscous, sardine. A. ha una voce, una presenza. È subalterna, forse colonizzata, certamente per i nostri valori repressa, invariabilmente rinchiusa nei limiti di località, tradizione e – perché no? – turismo, per il quale lui va bene com’è. I nostri incontri sono circoscritti, la conversazione determinata dalle nostre rispettive ubicazioni, il suo significato crudamente incompleto e non sempre comprensibile. Eppure, durante i nostri brevi scambi di parole e nella glossa connettiva in cui L. cerca gentilmente di racchiuderli, si può riconoscere l’etica di uno spazio. Qui i mondi si incontrano. Nel silenzio fra le parole udiamo il mormorio potenziale di un dialogo appena incominciato. Lo sguardo obliquo L’esperienza gli aveva insegnato che in situazioni del genere non si poteva fare assegnamento sulla ragione. C’era sempre un elemento extra, misterioso e non del tutto afferrabile, col quale non si erano fatti i conti. Paul Bowles (1990, p. 111) Stipato sotto la cupola bianca del Sacro Cuore di Montmartre e il profilo distante della Tour Eiffel c’è Barbès. I treni bianchi e celesti del métro passano accanto al boulevard de la Chapelle, oltre il mercato del sabato mattina dove la lingua predominante è l’arabo. I banchi sono pieni di verdure fresche (mango, banane verdi, patate dolci), pesce, sacchi di couscous, montagne di menta. L’abbigliamento è per lo più un misto di maschio urbano – jeans e camicia aperta – e di abiti e turbanti variopinti dell’Africa occidentale. Lo stereotipo – il “nero”, l’“indiano”, l’“indigeno”, l’“altro” – crolla sotto il peso di questa complessità. Teso fra storie diverse si rompe in mille pezzi. Ascoltando e muovendosi al ritmo di Soul II Soul, incidendo storie multiple configurate in un sound combinato e missato, ci rendiamo conto tutti di viaggiare, con le nostre storie spesso molto diverse, nei reticoli di un mondo che regge la tensione fra il nostro patrimonio particolare e paesaggi culturali potenzialmente comuni. Qui, in una genealogia di modernità postcoloniale, la tensione, la spaccatura fra regimi 25 Paesaggi migratori Nello sguardo obliquo del migratore che attraversa il territorio della metropoli occidentale esiste un accenno di metafora. Nei mondi vasti e multipli della città moderna anche noi diventiamo nomadi e migriamo all’interno di un sistema troppo vasto per essere nostro, ma di cui facciamo parte, traducendo e trasformando quel che troviamo e assorbiamo in esempi locali di senso. È soprattutto qui che veniamo introdotti in uno stato ibrido, in una cultura composita in cui il semplice dualismo di Primo e Terzo Mondo si sfalda, lasciando emergere ciò che Homi Bhabha (1990b) chiama “comunanza differenziale”, e che Felix Guattari (1991) definisce “processo di heterogenesis”. I confini dell’opinione generale liberale e del suo senso centrato di lingua, essere, posizione e politica, vengono superati e dispersi nel momento in cui tutte le nostre storie sono riscritte nel linguaggio turbolento di quella che tende a diventare topos privilegiato del mondo moderno: la metropoli contemporanea. 26 Paesaggi migratori Iain Chambers simbolici diversi e la loro comune occupazione dei medesimi segni ci conduce contemporaneamente in una specificità storica e in comunanze potenziali. Nel paesaggio migratore delle culture metropolitane contemporanee, deterritorializzate e decolonizzate, dove si risituano, recitano e si ripresentano segni comuni nei circuiti fra discorso, immagine e oblio, si compila la lotta continua per il senso e la storia. È una storia continuamente decomposta e ricomposta nell’intreccio di ciò che abbiamo ereditato e ciò che siamo. Negli interstizi mutevoli di questo mondo, che il movimento sia dettato dai modelli acustici del nostro battito corporeo o dal design tecno-surrealista di simulazioni computerizzate, esiste l’apertura che redime e ricostituisce il nostro essere. È forse ciò che sentiamo quando Youssou N’Dour, di Dakar, canta in un dialetto senegalese, il wolof, in una tenda alla periferia di Napoli. Soltanto sei mesi prima avevo sentito la sua voce ossessionante in un club di New York, quella volta nel contesto del sound giapponese tecno-pop/new age di Ryuichi Sakamoto e del chitarrista newyorchese No Wave Arto Lindsay. È in questi termini, molto prima di un riconoscimento intellettuale e istituzionale, che riconosciamo in modo immediato ed efficace i territori differenziati in cui l’immaginario viene disseminato e contemporaneamente la voce eurocentrica dispersa… Questo ci porta a riconsiderare le storie che abbiamo ereditato e che abitiamo: storia della lingua, della politica, della cultura e dell’esperienza. Le politiche di liberazione e di libertà si sono invariabilmente appellate alla possibilità estrema di una trasparenza razionale: esprimono l’insistenza comune per la realizzazione di questo obiettivo razionale. E se il mondo in cui viviamo, però, si dimostrasse più intrattabile? E se l’opacità e le differenze reali che rappresenta non fossero riducibili a un’unica spiegazione? E se nella società e fra società e natura non ci fosse una regola comune? Accettare questa opacità, questa intrattabilità e incommensurabilità (il différend di JeanFrançois Lyotard) significa allargare e complicare il significato che diamo alla “politica”. Significa inoltre ripensare in modo radicale non solo i limiti della base liberale della gestione del consenso, ma anche la proposta marxista di realizzazione comune. Infatti nessuna delle due, in nome di ragione e libertà, ammette differenza e diversità. Riferendosi a Hegel e Marx, William E. Connolly (1989, p. 132) scrive: Paesaggi migratori Eppure siamo piano piano arrivati alla conclusione che la realizzazione della resistenza non è da collocare in un futuro prescritto. È già iscritta nelle lingue dell’apparenza, nelle sfaccettature del mondo contemporaneo. Rimaneggiando i rapporti di potere, la resistenza si nasconde e alberga nei riti religiosi, nell’inflessione particolare di una cadenza musicale. Abita lo spazio del discorso quotidiano e fornisce le “creatività furtive” che permeano usi e abusi del consumismo. Produce “una capacità di ricreare incessantemente opacità e ambiguità – spazi di tenebra e di inganno – nell’universo della trasparenza tecnocratica, una capacità che scompare in essi e riappare nuovamente senza assumersi responsabilità per l’amministrazione di una totalità” (de Certeau 1988, p. 18). Si trova dove ciò che è familiare e dato per scontato viene rovesciato, inaspettatamente distorto e, diventando temporaneamente sconosciuto, produce uno spazio inaspettato e talvolta magico. Si trova dove le lingue in cui viviamo, proprio perché ci viviamo, sono parlate e riscritte. Usando continuamente un lessico preesistente di elementi preconfezionati per significare, per traslare il traslato, come dice Henry Louis Gates Jr. (Gates 1989), possiamo identificare in tali pratiche una scrittura di tracce, un modo particolare di descrivere, significare e inquadrare il mondo che abbiamo abitato. Infatti 27 L’ontologia che ciascuno di loro accetta è presupposto della credibilità di libertà e realizzazione. Ma ciascuno di loro avanza una teoria della libertà che giustifica soppressione e assoggettamento in nome della realizzazione per il singolo e la comunità. Dal momento che ciascun ideale proietta la possibilità di trascinare tutta l’alterità nell’insieme che sottoscrive, l’alterità che eventualmente persiste viene interpretata come irrazionalità, irresponsabilità, incapacità o perversione. Non viene mai riconosciuta come prodotta dall’ordine in cui getta scompiglio. è il nostro risiedere in questo spazio mutevole, l’abitarne le lingue, il coltivarle e costruirvi sopra trasformandole così in luoghi specifici che genera il senso stesso della nostra esistenza e ne rivela le possibilità. Iain Chambers Paesaggi migratori 28 Territori dell’imprevisto Una cartina mi dice come trovare un luogo che non ho mai visto ma che ho spesso immaginato. Quando ci arrivo, seguendo fedelmente la mappa, quel luogo non è il luogo della mia immaginazione. Le cartine, più si fanno reali, meno si fanno vere. Jeanette Winterson (1989, p. 81) Le cronache delle diaspore – dell’Atlantico nero, del popolo ebreo metropolitano, dello spostamento rurale di massa – costituiscono l’onda lunga della modernità. Queste testimonianze storiche mettono in dubbio e minano il senso semplice e piano delle origini, delle tradizioni, del movimento lineare. Considerando la violenta dispersione di popoli, culture e vite, ci troviamo inevitabilmente di fronte a storie mischiate, miscele culturali, lingue composite e arti meticce che sono al centro anche della nostra storia. Nel 1492, anno che vide la caduta di Granada, l’ultimo regno arabo in Europa, e la “scoperta” del Nuovo Mondo, gli ebrei furono cacciati dalla Spagna. Si stabilirono nel più tollerante impero ottomano – a Salonicco, al Cairo, a Istanbul e nell’isola di Rodi (dove rimasero quattro secoli, finché le SS non li deportarono quasi tutti ad Auschwitz nel 1944). La storia successiva di questa comunità cacciata, i sefarditi (sefarad significa Spagna), interessò polidentità cosmopolite. Organizzate attorno a un mondo mediterraneo e musulmano in una mutevole combinazione di Occidente e Oriente, con un dialetto spagnolo del XV secolo (il ladino) come lingua, queste identità Giunsi a Napoli nel 1976. Arrivai con un volo della Ethiopian Airlines diretto ad Addis Abeba con scalo a Roma. Eravamo solo in quattro o cinque sull’aereo. Atterrammo a tarda notte, nella nebbia. Immagino che fosse una specie di segno dell’incertezza di quel viaggio: inaugurazione nebulosa di quello che mi aspettava. Non ero arrivato in veste di turista né in cerca di lavoro, infatti, ma per un appuntamento d’amore. Da un certo punto di vista non avevo scelto Napoli, era piuttosto come se fosse stata lei a scegliere me. Quella città rosa, grigia e gialla sul mare offriva un orizzonte davanti al quale un rapporto, una vita, possono prendere forma e svilupparsi. Io, figlio di madre scozzese e di padre inglese, cittadino del 29 Paesaggi migratori furono modellate dalla migrazione e dall’amalgama di storie, piene di tracce linguistiche e culinarie: ricordi di Spagna e di Grecia, con l’aggiunta successiva di Italia e di Francia nel caso del padre di Edgar Morin, Vidal (Morin 1989); o di Bulgaria, Russia, Turchia, Armenia e Romania per Elias Canetti. Morin sostiene che ciò rappresenta un’identità anteriore a quella di soggetto-cittadino nella moderna nazione; potremmo aggiungere che, insieme all’esperienza afroamericana di esilio nella schiavitù e nel razzismo, suggerisce anche un possibile senso posteriore di identità rispetto agli angusti confini del nazionalismo moderno. Un piede di qua e l’altro sempre di là, a cavallo del confine. Hannah Arendt, nella sua polemica contro la tesi di Vico-HegelMarx secondo cui la storia è fatta di strutture e modellata dalla violenza, preferisce sottolineare l’imprevisto, l’indeterminato e l’innovativo. Nel suo Vita Activa, sostiene che l’azione politica si basa sulla tensione necessaria con un nonsenso che mette in discussione la riduzione di natura a tecnologia, di eventi a processo, di storia a finalità (Arendt 1958). Questo equivale a lasciare uno spazio, un’indeterminatezza… In quell’apertura, e oltre l’ideologia astratta di un’uniformità marchiata da tradizione, nazione, razza e religione, siamo tutti destinati a vivere in quella che il romanziere chicano Arturo Islas definisce “condizione di confine”. 30 Paesaggi migratori Iain Chambers Nord, mi ritrovavo coinvolto in un mondo del tutto diverso, con cui dovevo lottare per renderlo comprensibile… vivibile. Così quella città rappresentava anche la scena di un incontro, talvolta uno scontro, fra lingue, ragioni e storie diverse. Il mio bagaglio culturale, la mia storia particolare, erano continuamente esposti in questo gioco delle differenze. La mia logica, le mie abitudini, non riuscivano più a nascondersi fra le pieghe del senso comune e in un habitat culturale accettato senza discussioni, ora che il senso della realtà in cui dimoravo differiva tanto radicalmente da quello in cui la mia logica e le mie abitudini si erano inizialmente formate e riconosciute. “Ora che era in una terra nuova, chi poteva dire che cos’era normale?” (Hong Kingston 1990). Un senso di crisi può avere molte uscite; una minaccia al senso dell’essere personale può anche portare ad aperture inaspettate, a tirare di nuovo i dadi. Incominciai a leggere e a vivere la città, senza fermarmi, sempre ai margini del suo caos, corruzione e degrado. Iniziai a sentirla come spazio di un’alternativa. È forse grazie al dialogo che si instaura fra noi e questo senso di “alterità” che si rivela più acutamente il nostro “sé”. In questi incontri, in un etica che tenta di rispettare la voce altrui, la lingua perde invariabilmente il suo ancoraggio, la sua centralità e la direzione che aveva prima, quasi scivolasse fra le aperture di un dialogo in un quadro più ampio. Vivere “altrove” significa trovarsi continuamente parte di una conversazione in cui identità diverse si riconoscono, si scambiano e si mischiano, senza scomparire. Qui le differenze non fungono necessariamente da barriere, ma piuttosto da segnali di complessità. Essere uno straniero in terra straniera, essere spaesato nel senso letterale di “senza paese” è forse la condizione tipica della vita contemporanea. Alle migrazioni indotte di schiavi, contadini, poveri, all’ex mondo coloniale che costituisce tante delle storie nascoste della modernità, possiamo aggiungere anche il crescente nomadismo del pensiero moderno. Ora che la vecchia casa della critica, della storiografia e della certezza intellettuale è in rovina, ci troviamo tutti per strada. Di fronte alla perdita di radici e al conseguente inde- bolimento della grammatica dell’“autenticità”, ci trasferiamo in un paesaggio più vasto. Il nostro senso di appartenenza, la nostra lingua e i miti che ci portiamo dentro rimangono, ma non più come “origini” o segni di “autenticità” capaci di garantire un senso alla nostra vita. Permangono come tracce, voci, memorie e mormorii mescolati ad altre storie, ad altri episodi, ad altri incontri. Il taccuino dello straniero Discutere il decentramento della voce maschile bianca, del cogito europeo, e mettere in vista l’“altro”, un altrove culturale e storico, equivale a riportare quell’“alterità” nel campo della voce e del discorso che nomina il suo stesso decentramento? Forse sì: “Il trucco o la svolta è non dare per scontato che la rappresentazione del decentramento sia decentrante…” (Spivak 1990a, p. 48). Tuttavia, per alcuni di noi, questo impone un confronto con gli effetti dell’instabilità. Mi obbliga a vivere in costante fluttuazione, con un senso spostato del centro, dell’“io”, sotto gli occhi di altri “io” e a sottoscrivere al conseguente indebolimento e incertezza nei limiti dei miei pensieri e delle mie azioni. Non si tratta di proporre un ritiro nell’autoriflessione, nel narcisismo e nel solipsismo, ma piuttosto di insistere sulla specificazione, ubicazione e limitazione di un sé particolare. Si tratta di riconoscere un tempo condiviso e contemporaneamente limitato dal fatto di essere differenziati, ubicati, abitati. L’insistenza sui limiti, Paesaggi migratori (…) secondo i concetti angloamericani di mascolinità, un uomo che cede alle manifestazioni della lingua, che permette alla lingua di avvenire attraverso di lui, che valorizza la lingua come energia e movimento indipendenti, più che subordinati al dominio razionale, è discutibile come uomo. Maria Damon (1991, p. 25) 31 Il nome autorizza l’Io ma non lo giustifica. Edmond Jabès (1989, p. 13) Iain Chambers Paesaggi migratori 32 sulla proprietà della reticenza, non implica necessariamente un rifiuto dell’impegno, ma vede piuttosto in quella zona delimitata, storica e differenziata, lo spazio delle domande, delle estensioni potenziali, del dialogo ulteriore e del conseguente rifacimento. Questa lingua, che a tratti diventa per forza di cose la lingua del silenzio, può permettere lo sviluppo di “una relazione positiva all’ascolto degli altri” (Braidotti 1991, p. 101). È alla base dello sguardo modesto e curioso dello straniero – il critico come collezionista e ambulante: “un étranger avec, sous le bras, un livre de petit format” (Jabès 1989). È proporre un tipo di intellettualità che, mentre cerca di capire “il mondo dall’interno” (Siegfried Kracauer) è profondamente segnata dall’incertezza e dal dubbio. Successe diverso tempo fa e mi è ritornato in mente recentemente leggendo Leslie Marmon Silko. Nella toilette degli uomini della stazione della Greyhound a Phoenix, Arizona, la porta si spalanca. Mi ero già abituato a come il corpo maschile si annuncia con una sicurezza al limite dell’aggressività nella vita pubblica americana. Ma quella volta era diverso. Era un gesto di rabbia. Entrò un ragazzo scuro, con i capelli diritti e neri, la pelle bruna, jeans e stivaletti da cowboy: era un indiano, un Apache. Aveva l’aria di chi è stato malmenato. Mi lanciò un’occhiata, poi si guardò allo specchio e, pettinandosi, vomitò una serie di invettive contro i bianchi che l’avevano maltrattato e umiliato il sabato sera che aveva deciso di uscire dalla riserva per venire in città. Osservai la scena stupefatto e sbigottito. Avevo di fronte il cuore dell’America. Non tanto il tema culturale superficiale del melting pot, anche se l’oppressione di quella forzatura era nell’aria quella sera, quanto il cuore mitico dell’America. Al lavandino accanto al mio c’era l’altra parte della frontiera, l’“Indigeno”, il discendente di Mangas Colorado, Cochise e Geronimo. Figura privilegiata dell’immaginario europeo e dei suoi investimenti nell’Ovest, quell’uomo, più americano di ogni altro americano, veniva bistrattato e preso in giro da coloro che avevano usurpato il suo nome. Incontrai altri indiani nel corso di quel viaggio, generalmente alle stazioni dei pullman. Cercavano lavoro, denaro, spiccioli, caffè. Sembravano sempre un po’ fuori posto, alla deriva in un continente perduto, alla ricerca di un posto che veniva loro negato. Questa è una storia nella storia, una metafora nella metafora, che rivela un corpo ulteriore. Nel centro storico di Napoli c’è la seicentesca Cappella Sansevero, un tempo cappella privata della famiglia Sangro. L’esponente più illustre di questa famiglia è senza dubbio Raimondo, che visse nel Settecento e fu principe di Sansevero. Raimondo, come molti altri figli del suo secolo, si trovò a metà fra mondi diversi. Uomo di cultura, di lettere e di scienze, seguace dell’Illuminismo, fu attratto dall’alchimia e dalle più enigmatiche scienze dell’universo. Nella cappella, da lui restaurata fra il 1749 e il 1766, ci sono diverse statue, fra cui un famoso Cristo velato di Giuseppe Sammartino. Di sotto, nella cripta, ci sono veli di altro genere. Dietro a un vetro due corpi eretti mostrano il loro interno, arterie, organi e muscoli come attraverso una buccia traslucida. La leggenda vuole che il principe di Sansevero avesse iniettato nei corpi dei due poveretti un certo liquido che ne mostrasse l’interno preservandone l’esterno. Il procedimento chimico e fisiologico non è mai stato spiegato e resta un mistero. (Questa è una versione: un’altra sostiene che non si tratta di uomini, ma di “macchine anatomiche” accuratamente costruite). Comunque sia, questa compresenza di superficie liscia e inter- Paesaggi migratori 33 Mettere in discussione le mappe che indicano la mia e l’altrui posizione, che ci spazializzano e ci distanziano l’uno dall’altro, significa mettere in discussione quel senso di collocazione per cui l’intellettuale europeo, per completare la propria visione, teoria e il proprio senso dell’essere, spesso ha più bisogno del Terzo Mondo di quanto questo abbia bisogno di lui. Ciò sicuramente significa pensare a un’alterità che non è comodamente posizionata altrove, ma è sempre presente. In questo modo vengo riportato di fronte alla mia lingua e al mio dimorarvi. Infatti ogni lingua è figurativa e indiretta, ovvero metaforica. È per effetto di questa debolezza che è produttiva. 34 Paesaggi migratori Iain Chambers no aggrovigliato richiama allegoricamente il misto barocco di ragione e di eccesso, inquietante illustrazione dell’eterno dialogo fra superficie di ricerca razionale e oscuri istinti di inquisizione. Qui, tuttavia, ancora più inquietante è l’esposizione di superfici in serie: non si arriva mai in profondità, al significato nascosto o all’origine costitutiva. La maschera nasconde solo un’altra maschera. La guida, sebbene dia una descrizione dettagliata delle figure marmoree al piano di sopra, non fa il minimo accenno alla presenza delle statue umane nella cripta. Un’altra storia. A circa un’ora di macchina da Napoli, sulle colline nordorientali che circondano l’ampia valle del Volturno, sorge Marcianofreddo. Alcuni di noi decidono di fare una passeggiata fino in paese. Al nostro arrivo suonano le campane e il prete, Vittorio Morrone, ci accompagna nella chiesa da poco restaurata. Ci descrive i lavori e la preparazione della parete dietro all’altare, ora coperta da un murale naïf della Madonna in un azzurro acceso. Quindi il discorso passa all’archeologia, all’Egitto e alle tre sale adiacenti, piene di materiale che vorrebbe mostrarci. Non ci tratteniamo a lungo e non visitiamo le sale. Prima di uscire prendo delle pubblicazioni da un tavolo accanto alla porta. Sono tutte di Morrone e hanno titoli tipo: “Salomone e il mondo contemporaneo. Una critica di Galileo”; “Le fasi di un U.F.O”; “La teoria di Einstein”. Sono piene di formule matematiche, di riferimenti all’astrofisica e di analogie geometriche fra il tempio di Salomone, le piramidi, il tempio babilonese di Uruk e il ciclo lunare. In una, con l’indirizzo della parrocchia, viene segnalato il “Centro U.F.O. internazionale, missionari del Divino Salvatore”; un altro cita un’opera dello stesso autore dall’inquietante titolo: “Da Salomone al Numero della Bestia”: Forse Dio è un astronauta. Ma ciò che più mi interessa di questa versione fantascientifica della fede è la mescolanza di erudizione secolare e credo religioso: qui l’argomentazione razionale viene incitata dal desiderio illimitato di comprendere la logica misteriosa delle forze universali. Che fosse stato relegato in quella parrocchia sperduta a causa delle sue idee bizzarre, come un novello Giordano Bruno? E che razza di catechismo avrà insegnato al suo gregge questo prete? La finzione dell’identità Ci sono i vincitori, diceva il rabbino prigioniero, diceva il santo prigioniero, con la loro arroganza, la loro eloquenza, e ci sono i vinti senza parole né segni. La razza dei muti è tenace. Edmond Jabès (1963, p. 42) La lingua non è soprattutto mezzo di comunicazione; è primariamente un mezzo di costruzione culturale in cui si costituiscono il senso e il sé. Non c’è messaggio chiaro né ovvio, non esiste lingua che non sia punteggiata dai suoi contesti, dai nostri corpi, da noi stessi, così come non esistono mezzi di rappresentazione neutrali. Questa comprensione della lingua come materiale potenzialmente comune e tuttavia differenziato si fa ancora più complessa quando spostiamo lo sguardo dai sottomondi locali dell’Occidente, dalle sue storie nascoste e dalle sue culture subalterne, per guardare verso orizzonti più lontani e territori di culture metropolitane contemporanee altrove. Infatti il “tipico” può non essere più Londra o New York, ma Città del Messico o Calcutta: contesti e lingue che non è più scontato siano regolati da una norma euroamericana. La frattura degli universali segna in modo decisivo il corpo. Paesaggi migratori Questi significati sono spesso associati perché il concetto di mediazione li percorre entrambi. Di conseguenza, la motivazione etica e politica degli interrogativi relativi alla rappresentazione in entrambi i sensi interesserà analogamente il possibile conflitto di interesse fra mediatore e mediato. Ciò esprime un’evidente asimmetria politica, considerevole perché inevitabile (Kirby 1989). 35 Rappresentazione: ciò che parla per qualcosa d’altro e ne fa le veci. 36 Paesaggi migratori Iain Chambers Accettando la differenziazione storica e culturale non si può più vedere il corpo come il terreno passivo o la costante di successive attività sociali. È inoltre un luogo storico e sociale che non si può considerare fisso né dare per scontato. Infatti, come sostiene Vicki Kirby, il referente del corpo diventa una zona flessibile, interfogliata, attraversata e composta da molteplici discorsi, costruita in lingue, tempi e luoghi diversi, ricevuta e vissuta con vari significati incorporati in maniera diversa (Kirby 1989). Trattare in maniera contingente il mondo, le sue possibilità e i suoi individui, ci porta sulla soglia di future differenze produttive e “mette in discussione il progetto di perfezionamento del dominio del mondo sulla base del fatto che, data la resistenza insita nell’ordine delle cose, il progetto ridurrebbe tutto a una camicia di forza, inseguendo un obiettivo illusorio” (Connolly 1989). Ciò che prima era periferico e marginale emerge ora al centro. Infatti la figura metropolitana moderna è il migrante, attivo formulatore dell’estetica e dello stile di vita metropolitani, che reinventa i linguaggi e si impadronisce delle strade del padrone. Questa presenza turba l’ordine preesistente. Questa interruzione allarga il potenziale nel momento in cui si riscrive il copione urbano e l’ordine sociale e l’autorità culturale precedenti vengono rovesciati e dispersi. Viene tutto rivelato nella capacità di plasmare le lingue della modernità e di coltivare la città secondo ritmi diversi, facendola muovere a un tempo diverso. Si tratta di linguaggi – linguistico, letterario, culturale, religioso, musicale – del dominatore, del padrone, ma sempre con qualcosa di diverso. Il linguaggio viene preso, fatto a pezzi e ricomposto con un’inflessione nuova, un accento inaspettato, uno sviluppo ulteriore nel racconto. Come dice Gayatri Spivak: “Nella postcolonialità ogni definizione metropolitana viene estromessa. La modalità generale del postcoloniale è la citazione, la re-iscrizione, il dirottamento dello storico” (1990a, p. 41). È la dispersione che la migrazione porta con sé a sconvolgere e mettere in discussione i temi più vasti della modernità: la nazione e la sua letteratura, la sua lingua e il suo senso di identità; la metropoli; il senso di centralità; il senso di omogeneità psi- 37 Paesaggi migratori chica e culturale. Nel riconoscimento dell’altro, dell’alterità radicale, riconosciamo di non essere più al centro del mondo. La nostra centralità si sposta. In quanto soggetti storici, culturali e psichici, veniamo sradicati, costretti a rispondere alla nostra esistenza in termini di movimento e di metamorfosi. Quello che siamo obbligati a discutere e a disfare è il punto di vista unico e omogeneo, il senso di prospettiva e di distanza critica che nasce nel Rinascimento e trionfa nel colonialismo, nell’imperialismo e nella versione razionale della modernità. Il presunto dominio del mondo – dall’occhio “realistico” del pittore alla prospettiva “scientifica” dell’antropologo culturale, alla distanza critica dello storico: l’occhio/loco di Dio a cui il resto del mondo e i suoi popoli sono assoggettati (l’“Oriente”, gli “indigeni”, l’“altro”) vacilla. Mettere la lingua contro se stessa, notare i molteplici abitanti dello stesso medium, per esempio l’“inglese”, vuol dire estorcere alla lingua la verità, che è sempre parziale e partigiana: parla per qualcuno, da una posizione specifica, costruisce uno spazio particolare, un habitat, un senso di appartenenza e di “casa”. Nessuno di noi può scegliere semplicemente un’altra lingua, come potessimo abbandonare completamente la nostra storia precedente e optare liberamente per un’altra. Il nostro senso precedente di conoscenza, lingua e identità, nostro patrimonio peculiare, non si può cancellare dalla storia come se niente fosse. Quello che abbiamo ereditato – in termini di cultura, di storia, di lingua, di tradizione, di senso di identità – non viene distrutto ma scomposto, aperto alla discussione, alla riscrittura e al dirottamento. Gli elementi e i rapporti della nostra lingua e identità non si possono ricomporre in un insieme nuovo e criticamente più consono, né abbandonare e negare. La zona che abitiamo è aperta, piena di spaccature: un eccesso che non si può ricondurre a un unico centro, a un’origine o punto di vista. In questi intervalli, punteggiatura della nostra vita, ascoltiamo, incontriamo e viviamo altre storie, lingue e identità. Il nostro senso di essere, di identità e di linguaggio, viene vissuto ed estrapolato dal movimento: l’“io” non viene prima di questo movimento e poi esce nel mondo, l’“io” viene costantemente formato e riformato in questo movimento nel mondo. Nonostante i nostri tentativi disperati ed eterni di separare, contenere e rammendare, alle categorie sfugge sempre qualcosa. Di tutti gli strati che formano l’aperta (mai finita) totalità dell’“io”, quali vanno filtrati perché superflui, fasulli, corrotti e quali possiamo definire puri, veri, reali, genuini, originali, autentici? (Trinh 1989, p. 94). Iain Chambers Paesaggi migratori 38 …il famoso vecchio “io” è, per dirla in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione, soprattutto non è affatto una “certezza immediata” (Nietzsche 1886, p. 24). In questo movimento il nostro senso di identità non si risolve mai. Posso cercare coscientemente di interrompere il viaggio e cercare rifugio nelle confortanti categorie dell’essere, per esempio, bianco, britannico e maschio e troncare così il discorso. Ma il movimento di cui tutti facciamo parte, le lingue e le storie in cui veniamo scaraventati e in cui appariamo va al di là della volontà del singolo. La consapevolezza della natura complessa e costruita delle nostre identità ci dà la chiave per arrivare ad altre possibilità: riconoscere nella nostra storia altre storie, scoprire nell’apparente completezza dell’individuo moderno l’incoerenza, l’estraniazione, lo strappo causato dallo straniero, che sovverte e ci costringe a riconoscere la questione: lo straniero è in noi (Kristeva 1988). Dunque l’identità si forma in movimento. “L’identità si forma nel punto instabile dove le storie ‘indicibili’ della soggettività incontrano le narrazioni della storia, di una cultura” (Hall 1987, p. 44). In quel passaggio, e nel senso di luogo e appartenenza che vi costruiamo, le nostre storie individuali, i nostri impulsi e desideri inconsci, assumono una forma che è sempre contingente, in transito, senza scopo e senza fine. Questo viaggio aperto e incompleto implica una fabulazione continua, un’invenzione, una costruzione in cui non c’è identità fissa o destinazione finale. Non c’è nessun referente finale che esista fuori delle nostre lingue. Come sosteneva Nietzsche, non ci sono fatti, ma solo interpretazioni. Come per narrare una na- 39 Paesaggi migratori zione è necessario costruire una “comunità immaginaria”, un senso di appartenenza sostenuto in parti uguali da fantasia e immaginazione e da realtà fisica e geografica, così anche il nostro senso del sé è frutto di un lavoro di immaginazione, è una finzione, una storia particolare che fabbrica senso. Ci immaginiamo interi, completi, con un’identità piena e certamente non da aprire o frammentare; immaginiamo di essere l’autore, piuttosto che l’oggetto, della narrazione che costituisce la nostra vita. È questa chiusura immaginaria che ci permette di agire. Eppure vorrei sottolineare che stiamo incominciando a imparare ad agire al congiuntivo, “come se” avessimo un’identità piena, ammettendo che questa pienezza è fittizia, è un inevitabile fallimento: “si dovrebbero impiegare ‘causa’ ed ‘effetto’ solo come meri concetti, ovvero finzioni convenzionali destinate alla connotazione, alla intellezione non già alla spiegazione” (Nietzsche 1886, p. 26). È questa ammissione che ci permette di riconoscere i limiti del nostro sé, e insieme la possibilità di dialogare al di là delle differenze successive – il confine, o l’orizzonte, a partire dal quale, come fa notare Heidegger, si svolgono le cose: sia avvicinandosi a noi sia allontanandosi da noi. Questo intero fittizio, questo “io”, è, come direbbe Nietzsche, una finzione che ci permette di vivere, che ci preserva e ci salva dalle discontinuità dell’inconscio, dalla schizofrenia, dall’autodistruzione e dall’entropia della pazzia. È questo nodo, interminabile unione di storie al di là della “resistenza all’identità nel cuore della vita psichica” (Byatt 1987) a tenerci insieme. Questa costruzione, per quanto immaginaria e fittizia sia la soluzione apparente che offre – l’“io” completo, pieno e intero – è anche una storia, una narrazione culturale, una realtà fabbricata come un’altra. È proprio in questa coerenza della finzione che, paradossalmente, diventa possibile pensare al di là della pragmatica minima della chiusura necessaria a qualsiasi azione. Se, mettendo un punto fermo e permettendo quindi al racconto di prendere forma, significato e forza, ricordiamo l’insistenza di Nietzsche sul carattere fittizio del mondo, ritorniamo invariabilmente alla mutevolezza della nostra costruzione e, con essa, alla precarietà della nostra identità e narrazione. In questo inter- 40 Paesaggi migratori Iain Chambers vallo non si percepisce un limite rigido, ma la linea d’ombra di un potenziale transito. In questo intreccio dei mondi generalmente separati di fatto e finzione, storia e narrazione, chiusura razionale e apertura inconscia, la metafora slitta attraverso linearità sequenziale e spiegazione razionale interrompendo, sovvertendo e complicando. L’analitico e il poetico sono contaminati, il realismo e il fantastico confusi. La linearità, spiegazione razionale e apparente chiusura dell’“io”, è deviata, sconvolta e spostata dall’interruzione e dall’intervallo di un’altra storia. Qui la lingua non implica necessariamente uno svolgimento piano verso una finalità e una soluzione, ma piuttosto una navigazione fra vortici potenziali di voci, una disseminazione di senso in cui a volte scegliamo di fermarci e altre preferiamo viaggiare. Questo suggerisce che movimento e migrazione – dall’Africa alle Americhe, dalla campagna alla città, dalle ex colonie alle metropoli – implicano una trasformazione complessa. Infatti, dietro le idee generiche di “modernità” o “capitalismo” non c’è un quadro unitario o una mappa cognitiva capace di unire queste esperienze e storie. Ne consegue che non c’è una rappresentazione privilegiata della realtà, né una lingua o un linguaggio in cui si possa asserire con certezza una “verità”. Fra lingua, mito e metafora ci sono interconnessioni, che però non conducono automaticamente a un riconoscimento o a un’identità condivisi. Lingua, mito e metafora possono essere comuni, ma abitati in maniera diversa. Paradossalmente è l’accesso sempre più vasto a una sintassi collettiva – televisione, musica rock, “inglese” – a fornire lo strumento attraverso il quale si registrano l’estensione e la complessità di un mondo differenziato. Non c’è spiegazione completa o conchiusa in questa mutevole condivisione. Movimento e molteplicità frustrano qualsiasi logica che tenti di ridurre tutto alla stessa cosa, al discorso apparentemente trasparente di “storia” o “conoscenza”. Queste forme parziali, questi incontri incompleti, come la lingua stessa, rappresentano la soglia di nuovi incontri, nuove aperture, possibilità inesplorate che “alienano l’olismo della storia” (Bhabha 1990a, p. 318). Questo implica entrare in uno stato ibrido in cui nessu- na narrazione o autorità – nazione, razza, Occidente – può dire di rappresentare la verità o di esaurire il significato. Paesaggi migratori Lo scrittore e critico della Guyana Wilson Harris ha sottolineato che le esperienze di movimento e marginalità non ci riportano soltanto a luoghi geografici – così come la parola “Europa” implica più di uno spazio fisico – ma piuttosto forniscono un’angolazione, una prospettiva critica verso formazioni culturali e capacità culturali emergenti (Harris in Nandy 1990). Questa trasformazione nella nostra comprensione di movimento, marginalità e vita moderna è inestricabilmente legata alla metropolizzazione del globo, dove il modello di città diventa, per citare Raymond Williams, il modello del mondo contemporaneo (Williams 1973). Il senso di sradicamento, di vivere a cavallo fra mondi diversi, fra un passato perduto e un presente non integrato, tipico del migrante, è forse la metafora più calzante di questa condizione (post)moderna. Essa sottolinea il tema della diaspora non soltanto nera, ma anche ebraica, indiana, islamica, palestinese, e ci conduce in quei processi dove quelli che un tempo erano i margini ripiegano al centro. Si può espandere la riflessione considerando la migrazione, il movimento e il raccolto storico di ibridismo che caratterizzano romanzi postcoloniali molto diversi fra loro quali Figli di mezzanotte di Salman Rushdie, L’enigma dell’arrivo di V. S. Naipaul, e la sequenza poetica di Edward Kamau Brathwaite X/Self, accanto alle più modeste peregrinazioni per il mondo 41 Anche quando descriviamo l’ignoto, possiamo farlo solo in termini di parzialmente noto o di noto. Invece di riconoscere l’inadeguatezza delle nostre categorie, proviamo gusto a riadattare le nostre esperienze empiriche finché non rientrano in quelle categorie. Questo problema di traduzione non è prerogativa dell’Occidente. Un racconto indiano narra di persone che vedevano un maiale per la prima volta. All’inizio rimasero stupefatti, poi uno di loro sentenziò che si trattava di un ratto molto grasso. Un altro replicò che era piuttosto un elefante molto magro. Nessuno dei due voleva abbandonare le sue categorie e ammettere che si trattava di un’esperienza nuova (Nandy 1990, p. 102). 42 Paesaggi migratori Iain Chambers che molti di noi in Occidente vivono attraverso i media, il turismo e i viaggi, con i loro effetti sulla realtà, sul tempo e sullo spazio. I piaceri visivi, alimentari e uditivi evocati dal nominare luoghi – Trinidad, Kingston, Londra, Parigi, Nuova Delhi, New York – ci offrono città che sono a un tempo reali e invisibili, per fare eco a Italo Calvino, luoghi la cui alterità simbolica e reale fornisce un’altra occasione, un’ulteriore domanda, un’altra apertura. Tuttavia, questa griglia apparentemente comune, che offre connessione e distinzione al tempo stesso, non può cancellare le differenze reali fra l’esilio forzato di individui e popolazioni, prodotto da guerre, privazioni, repressione politica, miseria e schiavismo razzista, e il diffuso senso di mobilità che caratterizza la vita metropolitana, disegnata nei canali privilegiati di movimento rappresentati dai media, dalla tecnologia informatica, dalla pubblicità, dal turismo e da un consumismo generalizzato. Nello spazio fra queste connessioni e differenze incominciamo a districare l’idioma nazionale autoriflessivo e il suo rifiuto xenofobo di referenti esterni nella sua formazione, nella sua creazione. Questo ci permette di contestare il rifiuto, insito nelle versioni autorizzate di storia, lingua, letteratura e identità inglese, per esempio, che Africa e New York facciano anch’esse parte di un cosmopolitismo nero che dimora anche nei quartieri meridionali di Londra, o che certe identità di Birmingham riportino a un immaginario rievocato in film girati a Bombay. Questo dimostra che la nascita della modernità non sta unilateralmente nella storia dell’espansione europea e nelle modalità di rifacimento del mondo a sua immagine e somiglianza – rivoluzione industriale, capitalismo, democrazia rappresentativa – ma anche, e nella stessa misura, nella cruda repressione dell’alterità etnica, religiosa e culturale, nella brutalità della diaspora nera africana, nello schiavismo razzista atlantico, nei progrom etnici e nel saccheggio imperiale del globo che ha reso possibile la sua storia, la mia storia, la storia della modernità e del “progresso”. Come ha fatto efficacemente notare Paul Gilroy, esiste un senso profetico per cui una donna nera o un uomo, o un bambino di Charleston o Bristol, o Kingston a metà del XIX secolo non erano semplicemente le vittime della modernità, del progresso e dello stato-nazione moderno costruito sulla loro schiavitù e assoggettamento razzista, ma ne erano anche i produttori, creatori, parte quindi del tessuto culturale e storico che costituisce le società euroamericane moderne (Gilroy 1993). La frattura Paesaggi migratori Nominando l’intellettuale occidentale sancisce la propria ignoranza (il “soggetto dell’Europa”), rende trasparente il resto del mondo (“Asia”, “Africa”, “America Latina”) e cancella la distanza reale fra luogo e differenza e la conseguente “misura di silenzio” (Spivak 1988). Vi è però una nota stonata in questa storia di scambio ineguale. Jacques Derrida, egli stesso voce della periferia (algerino) e di una diaspora (ebreo), fu condannato quasi unanimemente negli anni Settanta e Ottanta dai critici metropolitani di sinistra a causa del suo linguaggio apparentemente depoliticizzato di decostruzione. Tuttavia, nell’apertura indotta dallo spostamento altrove delle sue parole, Derrida ha provocato una vasta rivalutazione dei discorsi politici e culturali, particolarmente nell’area degli studi subalterni e della critica postcoloniale. Creando delle fratture nel linguaggio, contestandone la presunta unità e autorevolezza metafisica, l’opera di Derrida ha evocato spazi in cui altri mondi potrebbero apparire e incominciare a mettere insieme il vuoto che circonda l’egemone testo europeo. Sospendendo, interrogando, rinviando e differenziando il senso, Derrida ha dato la possibilità di rompere un silenzio storico e mettere in discussione la conclusione etnocentrica intenta a una verità che conduce inevitabilmente a “qualche beneficio interno” (Derrida in Spivak 1988). Questo ci ha portati a rendere conto, per quanto in maniera parziale e limitata, dello strappo nella cultura e nel linguaggio rive- 43 La verità è la morte dell’intenzione. Walter Benjamin (1963, p. 17) 44 Paesaggi migratori Iain Chambers lato dai precedenti territori di silenzio, in seguito all’emergenza all’interno della lingua di ciò che prima era evitato, escluso, parodiato e ignorato. Nel cuore dell’inglese – inteso non solo come pratica linguistica, ma anche come letteratura, cultura, storia, nazione e identità – e nel passaggio storico verso i margini dell’impero e quindi di nuovo al centro, viene riscritta, scissa, aperta, occupata e trasformata una sensibilità che un tempo era tutta di un pezzo. Quando l’“immaginario dell’Occidente” (Edward Said) non sta più fisicamente altrove, ai bordi di una cartina, ai margini di storia, cultura, sapere ed estetica, ma migra dalla periferia per eleggere il proprio domicilio nella metropoli contemporanea, allora la nostra storia e le lingue che abitiamo implodono per effetto della pressione di queste nuove e urgenti coordinate. Il precedente intreccio europeo di lingue, letterature e identità nazionali viene disfatto e l’epica del nazionalismo moderno viene aperta con forza per rispondere alle esigenze che emergono da modelli più complessi. In questo incontro tardivo riconosciamo finalmente che la costruzione dell’“altro” è stata fondamentale nella riproduzione storica, culturale e morale del nostro “sé” e del nostro peculiare senso del mondo, del centro, della conoscenza e del potere. Nominare è possedere, addomesticare è proteggere. Di solito siamo disposti solo a riconoscere le differenze purché rimangano entro i confini del nostro linguaggio, del nostro sapere, del nostro controllo. Ma se, come sostengono Benjamin, Wittgenstein e Heidegger, noi dimoriamo nel linguaggio e i suoi limiti sono i limiti del nostro mondo, allora incontrare gli altri in questo tessuto significa tirarlo, piegarlo, interrogarlo e rifarlo. Diventa una pratica scottante quando incontriamo mondi, storie, culture diverse in una comunanza apparente. Questo incontro, questo allineamento, si accompagna sempre a incertezza e paura. Esso implica infatti l’incontro con un senso precedente di sé, della propria ragione e certezza. Un sé che “non può resistere alla propria mancanza di dominio sul mondo, teme e odia l’altro perché concretizza la sua specificità e i suoi limiti e in ogni occasione cerca di ridurre l’alterità a una sorta di identicità e identità modellata su se stesso” (Grosz 1990, p. 81). 45 Paesaggi migratori In questo processo di interrogazione il treno del tempo, da cui osserviamo altri mondi lasciati lungo i binari del progresso e delle civiltà, corre il rischio di deragliare. Nelle oscillazioni di linguaggio e identità cresce il seme del dubbio. Forse il senso del nostro viaggio non sta in una direzione sola, forse non c’è capolinea alla fine dei binari a giustificare il nostro insistente movimento in avanti. Stiamo forse correndo accecati da un futuro la cui redenzione è alle nostre spalle, nel degrado, nella miseria e nella confusione che crediamo di avere già superato? Viaggiare con quel senso precedente di risolutezza, premuniti di verità, significa muoversi con la presunzione di una missione, come portando il vangelo fra i pagani, sostenere di venire dal centro, rappresentati da quei binari che attraversano diritti i territori aggrovigliati di storia ed essere. Significa colludere, a un altro livello e in tono più benevolente, con il progetto di presunto destino dell’Occidente un tempo perseguito nei termini esaltanti di religione, colonialismo, razzismo e imperialismo. Chiaramente un rifiuto del destino dell’Occidente non implica necessariamente uno scivolamento nell’oblio storico e un suicidio culturale. Invece di cercare di parlare in ogni occasione e in ogni luogo (in nome di scienza, razionalismo, tecnologia e sapere), bisogna forse abituarsi ad ascoltare: aprire la nostra lingua, i nostri principi addomesticanti alle conseguenze impreviste di conversazione, dialogo e persino incomprensione. Questo può servire semplicemente a registrare la disparità nella distribuzione di poteri economici, culturali e simbolici. Tuttavia, nel porre dei limiti ci esponiamo già alla possibilità di un’apertura. Infatti siamo proiettati in quello spazio ambiguo in cui le differenze hanno udienza, in cui sia gli oratori sia la sintassi della conversazione corrono il rischio di essere modificati. Questo per forza di cose indebolisce l’assolutismo una volta offerto dalla struttura del linguaggio, in cui l’ascesa di una lingua e una letteratura nazionali forniva l’intreccio di narrazioni, tradizioni di consenso e contesto mitico per tanta parte della nostra identità nazionale e culturale. Questo segna i confini di quel particolare senso di appartenenza nella lingua e ci spinge ad av- 46 Paesaggi migratori Iain Chambers venturarci all’estero con un senso più debole e ristretto del nostro idioma. Avere questo altro senso di comunità, non necessariamente iscritto nei confini di lingua, letteratura e identità nazionale, significa afferrare quella parte di modernismo che ha al centro i tropi storici di migrazione e movimento. Scoperte e conquiste, e il successivo addomesticamento eurocentrico dello spazio, raggiungono il massimo nel turismo odierno e nello sguardo “neutro” della conoscenza. Ma finire qui vuol dire rifiutare l’ambiguità e l’enigma che stanno dall’altra parte del racconto. Non è solo rifiutare il salto nella dissoluzione conradiana, ma soprattutto vedere nel viaggio solo una verifica del sé e dello stesso, una conferma che si rifiuta di registrare gli incontri con l’oscuro, l’imperscrutabile, l’ignoto, il taciuto. È presumere che tutto sia luce e non vi sia mistero, che il linguaggio sia certo e non esista “cuore di tenebra”, nell’irresolubile animo del significato dove, come dice Conrad in Lord Jim, “l’ultima parola non è detta – e probabilmente mai lo sarà”. Questo non tracciare la rotta implica un rifiuto a rivolgersi all’“altra” parte della ragione e di conseguenza una mancata comprensione del fatto che la luce si può apprezzare solo in termini di ombre, così come l’Occidente non può esistere senza il suo “Oriente”. Significa ignorare che il mio spazio linguistico, culturale e storico è legato a quel che c’è “là fuori”, ignorare deliberatamente il fatto che esso è delimitato e posizionato da questa differenza. In questa incompletezza sta il significato storico ed etico delle mie letture parziali e partigiane. Infatti il significato del tutto può essere concepito solo come un eccesso, come qualcosa che fugge la chiusura, che supera il mio linguaggio. Iscrivere questa consapevolezza nelle nostre attività vuol dire assumere altre iscrizioni, senso ulteriore, nell’apertura del nostro linguaggio. Se ciò che passa per conoscenza emerge all’interno della lingua, allora la conoscenza critica implica un’esplorazione della lingua stessa. Questo implica il disfacimento dell’idea dominante del pensiero occidentale, l’idea metafisica e senza tempo che la ragione opera indipendentemente dalla lingua e dalle condizioni storiche e culturali in cui si usa. Allora il presunto legame fra verità e logica, posto come fondamento della Radicato nello sradicato Nel suo Prima delle cose ultime, Siegfried Kracauer sostiene che il motore della storia sta nella non identità di ragione e realtà 47 Paesaggi migratori filosofia occidentale nel pensiero greco, viene smontato. Si inaugura la “fine della filosofia e il compito del pensiero” (Heidegger), poiché si deve essere scettici sulle possibilità della ragion pura di esistere al di là della contaminazione e della collusione di lingua, storia, cultura ed essere. La ragione in sé è una metafora. Implica il trasporto, la trasformazione e la traduzione di qualche “cosa” in linguaggio. La presenza di questa “cosa” in processi metaforici suggerisce ancora una volta che la distinzione fra nominare critico e nominare poetico diventa nebulosa, e che presumere che uno sia più vicino alla verità dell’altro è discutibile. Nella traduzione – “metafora della necessità storica di dare una testimonianza” (Felman 1989, p. 734) – ci apriamo alla possibilità del silenzio e dell’incommensurabile. Il compito (del traduttore, per rievocare il titolo del saggio di Walter Benjamin) implica un’impossibilità, una sconfitta, come suggerisce il termine tedesco Aufgabe e come sottolinea Paul de Man: “Il traduttore deve abbandonare il compito della riscoperta di ciò che era nell’originale” (de Man in Felman 1989, p. 738). Tradurre è tradire, tradire un intento primario o una verità metafisica. Il saggio di Benjamin conferma “che è impossibile tradurre”. Come suggerisce Shoshana Felman, Paul de Man ha riconosciuto l’impossibilità di sbarazzarsi del corpo – di Walter Benjamin – del testo riportandolo semplicemente a un tutto ovvio. Questa storia, la storia, non è né stabilita né conchiusa e va letta senza sbarazzarsi del corpo. È questo linguaggio che ci sostiene e ci tiene in ostaggio. L’idea che la conoscenza sia costruita, prodotta dall’attività del linguaggio e quindi costantemente riscritta, recitata e ricollocata, toglie ogni interesse all’idea di verità “naturale” e al suo ovvio essere reale. È questa resistenza alla “naturalità” della lingua che libera le possibilità del linguaggio e le interminabili attività del significato. 48 Paesaggi migratori Iain Chambers (Kracauer 1969). Mette a confronto la nascita della storiografia moderna, uno dei generi centrali della modernità, e l’ascesa della fotografia, sottolineandone il comune intento di, per citare Leopold von Ranke, mostrare “le cose come sono veramente state”. L’analogia che Kracauer stabilisce fra queste due moderne forme di rappresentazione – fotografia e storiografia – conferma un senso di tempo e di memoria inquadrato in immagini, ma al tempo stesso ci pone di fronte a una frattura sconcertante. Ed è proprio questa frattura, rappresentata dallo spazio di un’impossibilità – l’impossibilità di mostrare “le cose come sono veramente state” – che ci permette di considerare la rottura del tempo e la spaccatura nel continuum omogeneo di una Storia singola e unica. Il tramonto dell’identità fra ragione e realtà, conoscenza e soggetto, dopo Nietzsche, Freud, il femminismo, l’ingresso di altri mondi, ci obbliga a considerare una rapida successione di orizzonti che mettono in discussione la pretesa di trasparenza razionale nei nostri linguaggi e nella nostra comunicazione. Infatti, se la ragione è più complessa, sempre fratturata, aperta, parziale, di parte e incompleta, siamo incoraggiati a comprendere le zone che la sua illuminazione oscura. Siamo incoraggiati a considerare le conoscenze che abitano le ombre, che si nascondono nell’ombra dell’ambiguità. Questo significa proporre il momento difficile di mollare, quando le vecchie certezze sono abbandonate per l’esito incerto di incontri continui in cui mondi e cronologie divengono instabili, sono messi in discussione e riformulati. Ripensare il tempo e il luogo all’interno di una cultura, un linguaggio, un’istituzione, una tradizione, una serie di storie, vuol dire ripensare lo scopo, la direzione e i limiti di queste categorie. Assieme a una ricerca proustiana del “tempo perduto” e a un’idea di conoscenza storica che trova la massima concretezza nella figura di Ahasuerus, l’Ebreo Errante, Kracauer insiste sul valore epistemologico dell’immagine. È un tema che percorre tutti i suoi scritti, dai primi articoli di giornale sullo spettacolo di massa, i viaggi, il ballo, i gialli e le hall degli alberghi nel periodo della repubblica di Weimar al volume postumo sulla filosofia della storia. Infatti, come sostiene, per quanto umili e marginali Barcellona, dicembre. Ho appena visto uno scheletro sistemato su un terrazzo del primo piano che dà sulla strada: scena carnevalesca, provocazione festiva? Nei pressi c’è un’altra allegoria barocca, questa volta sotto forma di esibizione per ricordare uno dei suoi più perspicaci commentatori. Fra Carrer del Carme e Carrer de Hospital c’è l’antico ospedale de la Santa Creu. Qui c’è una creazione di Francisco Abad: “La línia de Portbou. Homenatge a Walter Benjamin”. È chiusa. Nei giorni successivi torno diverse volte nella speranza di entrare, ma senza fortuna. Chiuso per ferie, lascia spazio a qualche speculazione. Walter Benjamin il collezionista, lettore delle strade di città, pensatore all’angolo di strada, pescatore di perle (Hannah Arendt) avrebbe forse apprezzato questo inaspettato rendez-vous. Sempre ai margini della cultura europea (tedesco, francese, ebreo), Benjamin era un migratore, in transito, uno spirito di frontiera che parla del nostro tempo nel suo continuo viaggio verso il confine. Mesi dopo il nome di Benjamin mi fa inciampare in un’altra traccia e precipitare in un’altra storia, a testimoniare la narrazione 49 Paesaggi migratori siano le loro origini, le immagini “ci aiutano a pensare attraverso le cose e non al di sopra di esse” (Kracauer 1969, p. 153). Questo mi porta a pensare ancora alla conoscenza secolare generata dall’immagine, e alla tesi avanzata da Walter Benjamin, contemporaneo di Kracauer. Nel suo famoso saggio sull’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin sostiene che la riproduzione secolare dell’opera d’arte porta alla sua politicizzazione (Benjamin 1955b). Oggi potremmo allargare questo giudizio fino a comprendere il regno della conoscenza. Abitando ed estendendo i linguaggi della riproducibilità tecnica, troviamo che non è solo l’immagine, ma la conoscenza stessa a essere stata secolarizzata e ad aver perso la propria aura. Nell’architettura mentale fornita dalla poetica prosaica della tecnologia noi costruiamo conoscenze che devono continuamente superare i confini di questo precario concetto. Infatti ci scopriamo al tempo stesso sradicati da e radicati nelle rappresentazioni. Forse, come dice Heidegger (1962a), la coesistenza di quella chiusura e apertura rivela il potere salvifico della situazione. 50 Paesaggi migratori Iain Chambers discontinua del frammento. In un articolo di giornale scopro che Benjamin teneva regolare corrispondenza con una persona successivamente immortalata nel film di Truffaut Jules et Jim (1961). Jules, interpretato da Oskar Werner, era in realtà lo scrittore tedesco Franz Hessel. Autore di alcuni romanzi semiautobiografici che parlano di strade, boulevard e piazze di Parigi e di Berlino fra il 1910 e il 1930, questo “flâneur philosophe”, come si definiva egli stesso, nel 1929 pubblicò un libro sulla condizione di “flâneur” intitolato Spazieren in Berlin (ora ripubblicato con il titolo Ein Flaneur in Berlin). L’opera attrasse l’attenzione di Benjamin, che scrisse un breve saggio su di essa chiamato Il ritorno del Flâneur. Hessel, come Benjamin, fu perseguitato dalla sfortuna. Come lui era ebreo e come lui fuggì in Francia nel 1938, sotto il nazismo. Allo scoppio della guerra, sebbene suo figlio avesse fatto il servizio militare in Francia, fu internato. Hessel riuscì a scappare, ma sotto il regime di Vichy fu internato di nuovo. Morì pochi mesi dopo essere stato liberato, nel 1941. Nel 1913 Hessel aveva sposato Helen (Catherine/Jeanne Moreau nel film di Truffaut). In quel periodo il ménage à trois con il francese Henri-Pierre Roché era incominciato. Quarant’anni dopo, a settantatré anni, Roché pubblicò il suo unico romanzo in cui raccontava tutta la storia: Jules et Jim. Otto anni dopo Truffaut lo scorse su una bancarella. Ultimamente in Francia sono stati pubblicati i diari di HenriPierre Roché e di Helen Hessel. Protagonista di queste storie, centro del trio, è chiaramente Helen. Rilke le dedicò delle poesie, danzò nei night-club di Monaco, scrisse poesia, pubblicò illustrazioni su riviste, fu la corrispondente parigina della «Frankfurter Allgemeine» quando si trasferì nella capitale francese nel 1925 e aiutò i suoi amanti a pubblicare su riviste letterarie bilingui. In quel periodo i tre parlavano di scrivere un libro insieme, ma l’idea fu ben presto abbandonata perché, come spiega Helen: “La verità è che l’arte non mi interessa. Quello che mi commuove veramente è la vita, il modo in cui si sviluppa in fluttuazione continua”. Helen Hessel morì nel 1982 all’età di novantasei anni. Fu l’unica dei tre a vedere il film di Truffaut. In una lettera a un’amica Nella Quarantaduesima strada, a New York, all’angolo con la Seventh Avenue, se ricordo bene, c’è un tabellone elettronico sul tetto di uno dei pochi edifici bassi della zona, che segnala in tempo reale l’ammontare del debito pubblico degli Stati Uniti per nucleo famigliare. Rimango lì, affascinato, a guardare le successioni di zeri. Fuori del Centre Pompidou di Parigi c’è un altro computo: un orologio elettronico segna i secondi che ci separano dall’arrivo del ventunesimo secolo o dalla fine del ventesimo, come preferite. Che cosa dobbiamo fare di questi due orologi, uno ossessionato dal debito del passato e l’altro che scommette sul futuro? Paesaggi migratori In termini intellettuali la storia della modernità è stata invariabilmente rappresentata come una tragedia. Siamo incoraggiati a considerarla un’epoca di decadenza e di declino, momento in cui la promessa di storia viene macchiata e frustrata dalla perdita di autenticità. Tuttavia, nonostante l’immenso orrore rivelato dalla modernità, nel dramma quotidiano c’erano scene che, per quanto spesso ignorate o messe da parte, erano cariche di promesse. Fra queste c’erano le storie nascoste che accompagnavano i ritmi della modernità, scritte nei grandi magazzini e sulle piste da ballo prima e poi nei supermercati e nelle soap opera, e in uno spazio casalingo, spesso al femminile. Altrove questi ritmi venivano orchestrati ed espressi nel gergo, ufficialmente fuggito come “mumbo jumbo” (Ishmael Reed) della poesia, della letteratura e della musica degli ex schiavi e nella successiva formazione di un’estetica nera e urbana; un’estetica che si è dimostrata fondamentale nell’esperienza metropolitana moderna. Se di solito non hanno voce nella cronaca ufficiale, queste storie metropolitane hanno segretamente minato i presupposti di una cultura monolitica od omogenea e dalle loro formazioni marginali e migratorie hanno contribuito a forgiare l’arte moderna del costante “essere tra” (de Certeau 1988). 51 scrisse: “Voilà. Per me quest’esperienza è stata una doppia rassicurazione. Ho vissuto e in maniera alquanto mostruosa. Sono morta e rivivo” (D’Erme 1992). 52 Paesaggi migratori Iain Chambers Di nuovo a New York, sotto l’alto soffitto a volta della Grand Central Station, sento i suoni a cascata, tipo arpa, di una kora, strumento a corde dei “griot” dell’Africa occidentale reso noto dal successo internazionale di Mory Kante e “Akwaba Beach” (1987). Solo che questa non è una kora, arpa acustica popolare fatta di bambù, ma uno strumento elettrico di acciaio inossidabile. Si chiama Gravikord, costa 1199 dollari e il suo suono poliritmico accompagna i miei passi nell’atrio cavernoso. Molto più tardi, verso mezzanotte, ancora nella Quarantaduesima strada, ma questa volta nella metropolitana, mentre aspetto un treno uptown guardo colui che si autodefinisce il “can man” (uomo delle lattine) al lavoro. È magro, nero e iperattivo. Al suo fianco ha una borsa piena di lattine di birra vuote. Davanti alle persone che aspettano il treno ne tira fuori una e, improvvisando un rap sull’unicità del suo lavoro, taglia la parte superiore di una Budweiser e ne fa a pezzi i lati con un coltello affilato. Torce, tira e quindi presenta l’oggetto finito: un portacenere, un vaso di fiori, un “óbjet trouvé”; a base stretta e corpo tondeggiante. Decido di comprarne uno. Costa due dollari. Ho solo una banconota da cinque dollari, ma più di uno non ne voglio prendere. Arriviamo a un compromesso: io gli lascio cinque dollari, e lui mi fa la firma sul fondo della lattina. Lui guadagna tre dollari di più e io acquisto un’opera d’arte. In tutti e due i casi c’è un’affascinante oscillazione fra industriale e arcaico: lo strumento artigianale che diventa elettrico, il rifiuto industriale che si trasforma in oggetto estetico “davanti ai nostri occhi”. Anzi, meglio ancora, siamo testimoni della contemporaneità dell’arcaico e dell’industriale. Esposizione Ciò che metti sulla carta è già dove sei stato. Per dove stiamo andando ancora non c’è carta. Audre Lorde (1988, p. 130) Oggi la logica in cui opposizione e resistenza riflettono e invertono la lingua dell’oppressore, come in un mondo alla ro- 53 Paesaggi migratori vescia, si sta disgregando e viene messa in discussione. Una delle conseguenze è la frammentazione di un senso dell’“altro” omogeneo e trascendentale. Questo – un concetto, piuttosto che un corpo specifico e storico – è immerso nel tempo e nelle circostanze; prende vita. Lo schema fisso di locazione e di identità rassicuranti si spezza. La totalità razionalizzante in cui tutto si riferiva a un centro, presumibilmente garantito dalla voce neutrale di “sapere”, “scienza”, “cultura” e relativo accento eurocentrico, passa in una confusione vernacola e scivola verso una complessità frammentaria e l’“amara ostinazione di una interrogazione errante” (Jabès 1963, p. 20). Concretizzandosi, ogni cosa è costretta al movimento. Il processo di inquadramento dei viaggi viene coinvolto in un dialogo, in uno scambio, in una discussione. L’idea astratta di differenza scompare per riapparire successivamente in storie diverse e talvolta radicalmente distinte. Avvengono un disfacimento e una dispersione della logica binaria che ha stabilito la perpetua dialettica di reazione e risposta subordinata a potere ed egemonia. I soggetti subordinati sono stati sempre improntati all’immobilismo stereotipo di un’“autenticità” essenziale in cui ci si aspetta che abbiano il ruolo scelto per loro da altri, e per sempre. La rilettura della storia della musica nera fatta dai critici bianchi spesso ci obbliga a riconoscere l’imposizione di questa organizzazione hegeliana. Per molti, il blues e il rhythm and blues, o i capelli dei rasta, sono più “autentici”, in qualche modo più vicini all’essenza “nera”, mentre gli stili patinati di Tamla Motown, (artificio della disco music, il plagio elettronico della musica house, i capelli stirati o arricciati, rappresentano evidenti forme di tradimento, una negazione delle radici. Il corollario che sancisce questa logica e condanna definitivamente il subordinato all’eterno ruolo dell’“autenticità” è che il successo è sospetto e fa automaticamente pensare alla svendita dei propri valori. Nelle categorie restrittive di autenticità e tradimento si preclude prematuramente la possibilità di rapporti culturali, storici ed economici più ampi, in cui si possa realizzare un senso ulteriore di sé. Espressione e rappresentazione sono costrette a sostenere il peso complessivo e l’unità di una rappresentazione presunta: 54 Paesaggi migratori Iain Chambers questo dipinto, questa foto, questa musica, questo stile, rappresentano appieno e corrispondono all’essenza nera? Nel passaggio da anonima proprietà (schiavo) a persona scoppia la lotta per stabilire un senso di identità, trovare una voce e rivendicare un posto politico e culturale. Questo transito omicida ha formato e rinforzato un senso autonomo di identità nera. La letteratura, la musica e la cultura nera sono una testimonianza di quella storia. Tuttavia, in questa cronaca di resistenza e formazione di identità risiede anche un’insopportabile limitazione, quasi la cultura nera, per scelta o per forza, fosse completamente separata, tagliata fuori dalle altre condizioni che ci investono e disinvestono delle nostre vite. Esiste anche un senso di essere e di appartenenza che comprende non solo etnicità e razza, ma anche sessualità, sesso, lingua, nazione e viaggio. Essere limitati a un’essenza etnica può solo interessare una storia che non contempli l’eccesso di significato che mette in discussione l’unicità e permette alle differenze di esistere. Per la maggior parte dei bianchi questo si traduce nel conforto di rispecchiare l’universale; per i cosiddetti “neri” diventa invece problematica specificità di una questione di “minoranza”: un “oggetto in mezzo ad altri oggetti” (Fanon 1952, p. 97). Nell’attenzione dedicata ai margini, il potere esercitato al centro viene invariabilmente oscurato. L’idea stessa di etnicità viene infatti usata solo con riferimento a “minoranze” e mai al potere e all’egemonia dei bianchi. Così ci si aspetta che il portavoce della “minoranza” parli in termini di gruppo etnico, ristretto alla “comunità” nera, mentre al bianco – scrittore, artista o cineasta che sia – è permesso parlare di tutto (Mercer 1990). Il film di Sankofa Territories (1984) problematizza la questione rifiutando di farsi carico della semplice celebrazione di un’autenticità nera. Enfatizzando la lotta per esistere e per essere narrate delle diverse storie di diaspora nera, il film ci proietta in uno spazio senza garanzie, che permette di emergere ad altre posizioni e altre possibilità. Sottolinea con forza l’idea che l’etnicità non appartiene semplicemente all’“altro”, ma fa parte dell’essere bianco. I concetti indiscussi di nazione, razza ed etnicità, sia nera sia bianca, vengono spostati e aperti alla discussione: che cosa significa essere “nero”, “bianco”, “britannico” o magari “europeo”, al giorno d’oggi? Il limite Il problema del valore della verità ci si è fatto innanzi – oppure siamo stati noi a farci innanzi a questo problema? Chi di noi è in questo caso Edipo? Chi la Sfinge? Pare che si siano dati convegno interrogazioni e punti interrogativi. Friedrich W. Nietzsche (1886, p. 7) In tutto questo movimento c’è un momento in cui incontriamo la massima estensione delle possibilità cognitive – guerra, morte, il nostro cuore di tenebra, l’indicibile, il terrore del vuoto: “l’orrore, 55 Paesaggi migratori Dove il linguaggio si scompagina e si apre un silenzio, uno spazio, un interrogativo, la dimensione ulteriore del nostro abitare la lingua incomincia a farsi strada. Questa punteggiatura dell’unità di una lingua, un soggetto, un’identità e un senso storico – in questo caso definiti collettivamente dai termini “nero”, “inglese” e “britannico” – intensifica l’importanza dell’arte del frammento, del sogno, e dell’immaginario, come, per esempio, nello splendido film di Isaac Julien, Looking for Langston (1989). A questo punto la dispersione del linguaggio offre la promessa di una disseminazione di senso ulteriore, di altre voci e altre storie. “Esplosi. Ecco i minuti brandelli raccolti da un altro me stesso” (Fanon 1952, p. 97). La re-iscrizione contemporanea di etnicità da parte di fotografi, cineasti, musicisti e artisti neri in Gran Bretagna rivela un linguaggio sempre più spogliato di un’essenza stabile che ne garantisca l’“autenticità”. L’unicum fisso si trasforma, si traspone e si traduce in un insieme di tracce, memorie, miti, storie, suoni e lingua che sono nell’Occidente ma non gli appartengono del tutto come insisteva C. L. R. James. Nata dalla storia dello schiavismo razziale moderno e dal suo scoraggiante nesso di “ragione e terrore razziale” (Paul Gilroy), è questa eredità – storicamente specifica, ma in fin dei conti legata a un destino globale ed etico comune – a combinare in configurazioni mutevoli di coerenza transitiva ciò che scegliamo di chiamare identità. 56 Paesaggi migratori Iain Chambers l’orrore” conradiano. Franz Rosenzweig apre la sua monumentale opera Der Stern der Erlósung (La stella della redenzione), pubblicata nel 1921, mettendo l’accento sull’angoscia davanti alla morte che precede ogni forma di comprensione, un’angoscia che ci dissuade dal sostenere che tutto è intelligibile. Zona tangibile di orrore, nucleo oscuro dell’indicibile e dell’indecifrabile può essere una città, come Beirut, Baghdad o Sarajevo. Quando il pensiero è organizzato dallo sconvolgimento delle differenze invece che dalla logica livellante del razionalismo, abbandoniamo il riparo offerto dalle sue presunte soluzioni e ci muoviamo sotto i cieli più vasti di una sconcertante complessità. È un modo di pensare che vede il presente come una miriade di conflitti, nessuno dei quali può essere soppresso, in cui le frontiere non sono barriere ma soglie, zone di transito, di movimento. Se si dovesse definire il soggetto moderno, si direbbe che è un soggetto di frontiera. Il classico linguaggio della politica e della filosofia non sa descrivere questa zona di ombre e di orrori, né sa disperderli (Rella 1990). È un grigio pomeriggio di marzo e la pioggia batte alla luce dei fari giallastri delle automobili. Entro nel cinema Angelica in Houston Street, quasi all’angolo di Broadway. A pochi minuti di strada c’è la bella mostra “Interim” di Mary Kelly al New Museum… ah, le gioie di New York. Al bar, nell’elegante foyer, ordino un cappuccino e una fetta di cheesecake. Ho deciso di vedere Black Rain, non il film di Ridley Scott ambientato a Osaka ai nostri giorni, ma quello di Shóhei Imamura, basato sull’omonimo romanzo di Masuji Ibuse. Alla biglietteria vendono anche il libro. Al piano di sotto, nel cinema semivuoto che periodicamente vibra al passaggio della metropolitana, seguo la storia di Yasuko, una giovane donna che ha vissuto la pioggia nera caduta su Hiroshima dopo l’esplosione della bomba atomica. Fugge dalla città distrutta insieme con lo zio e la zia e va a vivere in campagna. Nonostante gli sforzi dello zio di trovarle un compagno, non riesce a sposarsi. Sanno tutti che è stata investita dalla pioggia radioattiva: è marchiata, contaminata per sempre. Alla fine Yasuko soccombe alla malattia provocata dalle radiazioni e muore. Il film in bianco e nero con i sottoti- Paesaggi migratori Su «Le Monde» del 23 agosto 1990 c’è un articolo sulla Polonia, sul turismo e sulla ricostruzione del dopoguerra (Edelman 1990). Durante la seconda guerra mondiale Varsavia fu praticamente rasa al suolo, l’ottantacinque per cento degli edifici andò distrutto. Le vittime delle bombe, delle mine e dei lanciafiamme nazisti furono ottocentomila, di cui quattrocentocinquantamila ebrei. La vecchia Varsavia, il centro storico, fu poi ricostruita. Sulla base di fotografie, disegni e ricordi, architetti e ingegneri, avvalendosi delle tecniche più avanzate e approfittando dell’occasione per installare reti idriche e fognarie moderne, ricostruirono la città antica com’era un tempo. In questo simulacro della Varsavia di prima della guerra non c’è traccia del ghetto e rimane soltanto il gigantesco cimitero ebraico con le sue “tombe senza discendenti”. Nel 1979 i campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau sono stati dichiarati monumenti storici protetti dall’Unesco. Nelle guide, che descrivono “l’architettura dell’atrocità e la sua urbanizzazione del genocidio”, non si fa cenno alle baracche che erano riservate agli omosessuali e agli zingari. La distruzione quasi totale di un popolo, l’annientamento calcolato di quello che storicamente fu uno dei simboli più potenti dell’“altro” in Occidente (la “questione ebraica”) resta impressa nella memoria. Le figure più marginali e meno radicate invece sono espulse dal ricordo e persino dalla partecipazione collettiva nel comune oblio della morte. Ma allora l’impatto complessivo dell’Olocausto – non aberrazione accidentale, ma elemento intrinseco al senso di modernità e di Occidente, “terribile rivelazione della sua essenza” – non è ancora stato del tutto iscritto nel corpo della storia, della cultura e del pensiero critico contemporaneo. 57 toli enfatizza la delicata amarezza della storia. Il bianco e nero non rievoca l’aura del realismo, retrospettivo o documentario, quanto l’asprezza poetica di uno straziante “morality play”. Mi sono sentito marchiato anch’io. Diversi mesi dopo mi telefona mia madre in Italia. Ha appena visto Black Rain alla televisione in Gran Bretagna. “È orribile quello che le persone si fanno a vicenda. Non dovrebbero”. Colto alla sprovvista, borbotto un sì. In tutto questo esiste un ethos. Come una ferita aperta che ha bisogno di attenzione, siamo esposti alla differenza, alla discussione e all’ambiguità. Questo costituisce l’apertura dell’esperienza, per citare Hans-Georg Gadamer. È in questa frattura che riconosciamo i nostri limiti, impariamo a controllare il nostro narcisismo (personale, culturale, nazionale) e ci riconosciamo nell’etica della solidarietà. Iain Chambers Paesaggi migratori 58 Una partenza perpetua …non puoi più tornare a casa. Perché? Perché sei a casa… Marjorie Garber (1987, p. 159) Una prospettiva autenticamente migratoria sarebbe forse basata sull’intuizione che l’opposto fra qui e là è anch’esso una costruzione culturale, una conseguenza del pensare in termini di entità fisse e del definirle come opposti. Può iniziare vedendo il movimento non come goffo intervallo fra punti fissi di partenza e arrivo, ma come modo di essere nel mondo. La questione non sarebbe allora come arrivare, ma come muoversi, come identificare movimenti convergenti e divergenti e il problema sarebbe come prendere nota di questi eventi, come dare loro valore storico e sociale. Paul Carter (1992, p. 101) La teoria è una pratica frequentata dalla consapevolezza di sé. Ci troviamo in una condizione in cui pratichiamo l’etica della sospensione della teoria. È il nostro “eterno ritorno”: cercando di capire questa sospensione ci troviamo di fronte alla differenza fra segno ed evento. Ethos significa collocarsi in un altro posto. Nell’interazione senza fine fra ethos e topos siamo costretti ad andare oltre posizioni e collocazioni rigide, oltre forme di giudizio che dipendono dall’identificazione astratta di valori che sono già stati decisi e regolamentati in anticipo. La critica im- New York-Londra-Parigi-Barcellona-Berlino-Napoli: 1990-1992. 1 Bronx County Hall, New York, aprile 1990. Paesaggi migratori Amici del Bene, sappiate che siamo riuniti da parole segrete su un percorso circolare, forse su un bastimento, e per una traversata della quale non conosco l’itinerario. Questa storia ha qualche cosa della notte: è oscura e cionondimeno ricca di immagini; dovrebbe aprirsi su una luce debole e dolce; quando arriveremo all’alba, saremo lasciati liberi, saremo invecchiati di una notte, lunga e pesante, un mezzo secolo, e alcuni fogli bianchi sparpagliati sul cortile di marmo bianco della nostra casa dei ricordi. Qualcuno tra voi sarà tentato di abitare questa nuova dimora, o per lo meno di occuparne un piccolo spazio delle dimensioni del suo corpo. So bene che la tentazione dell’oblio sarà grande: è una fontana d’acqua pura alla quale non ci si deve accostare per nessun motivo, malgrado la sete. Perché questa storia è anche un deserto. Sarà necessario camminare a piedi nudi sulla sabbia che scotta, camminare e stare zitti, credere all’oasi che si profila all’orizzonte e che non smette di andarsene avanti verso il cielo, camminare senza voltarsi, per non essere portati via dalla vertigine. I nostri passi inventano il sentiero a mano a mano che si va avanti; dietro non lasciano tracce, ma il vuoto, il precipizio, il nulla. Allora guarderemo sempre avanti e ci affideremo ai nostri piedi. Ci porteranno così lontano che le nostre menti crederanno questa storia (Jelloun 1995, p. 10). 59 plica una partenza perpetua. Ci porta oltre il comfort offerto da un modello di razionalità e moralità che fornisce una conclusione, una fine. Nel movimento riconosciamo l’impossibilità di completare il viaggio. Tra il qui e il là (fort… da), tuttavia, ci viene data la possibilità di una promessa… di impossibile. È questo il destino del rivolgersi all’altro, inquietante, misterioso: nasce con la consegna della lettera e viaggia senza una destinazione finale. Viaggiare è riconoscere una distanza, una differenza, che rende possibile l’esperienza. La nostra esperienza, l’esperienza che tutti abbiamo, è questo essere in viaggio. Tahar Ben Jelloun scrive: Il walkman Sony. Lanciato sul mercato nella primavera del 1980, questo gadget urbano hi-fi nacque da un’idea che venne ad Aldo Morita, presidente della Sony, guarda caso mentre camminava per New York. Da allora il walkman ci ha dato la possibilità di usufruire di una colonna sonora portatile che, diversamente dalla radio transistor, dall’autoradio e dall’intenzione esplicitamente opposta del grande registratore portato a spalla (il cosiddetto “ghetto Master” o “boogie box”), è soprattutto un’esperienza intensamente privata. Tuttavia tale rifiuto del contatto pubblico e l’apparente regressione a una solitudine individuale implicano anche una serie di sviluppi inaspettati. Con il walkman si ha simultaneamente una concentrazione dell’ambiente uditivo e un’estensione della corporeità individuale. Infatti il significato del walkman non è necessariamente nell’oggetto in sé – se ne sta lì, semplice, solitamente nero, spesso ri- Passeggiata uditiva “Cento solitudini formano il fascino della città di Venezia – questa è la sua formula magica. Un’immagine per l’uomo del futuro”. L’osservazione di Nietzsche non si riferisce alla “folla solitaria”, spettro dell’angoscia collettiva, né all’Uomo della Folla di Poe, che trova una vitalità vicaria tra la moltitudine, ma all’artificio della solitudine lussuosa: la solitudine come suprema raffinatezza di tutto il disegno urbano. È possibile che si arrivi alla città per raggiungere la solitudine? Potrebbe essere la premessa non espressa della città moderna e del suo individualismo utopico. Per solitudine non intendo isolamento. L’isolamento è uno stato di natura; la solitudine è opera della cultura. L’isolamento è un’imposizione, la solitudine una scelta. Brian Hatton, 1988 61 Capitolo secondo Passeggiata uditiva 62 Paesaggi migratori Iain Chambers vestito in pelle, del tutto inconsapevole – ma nell’estensione del potenziale percettivo. Sebbene possa sembrare che le persone che passeggiano con un walkman esprimano semplicemente un vuoto, la vacuità della vita metropolitana, quel piccolo oggetto può essere inteso anche come uno zero pregnante, come l’anello di congiunzione in una strategia urbana, come slittamento semiotico, come un segno critico in una particolare organizzazione di senso. Infatti l’idea di vuoto, di nulla, ci presenta sempre il paradosso per cui il nulla si può conoscere solo conoscendo il nulla, che è già qualcosa (Rotman 1987). Potremmo dunque suggerire che il vuoto apparente del walkman crea la possibilità di un passaggio nel quale scopriamo, come ci ricorda Gilles Deleuze in Logica del senso, le altre città che esistono nella città. In esse ci muoviamo lungo quegli invisibili reticolati nei quali fluiscono le energie emozionali e l’immaginario e dove il continuo scivolare del senso mantiene la promessa di significato. Nel suo aperto rifiuto della socialità, il walkman riafferma tuttavia la partecipazione a un ambiente condiviso. Esso prende parte direttamente alla trasformazione nell’orizzonte della percezione che caratterizza la fine del ventesimo secolo e ci presenta un mondo che si frantuma in seguito alla crescente accumulazione nei media di segni, di suoni e di immagini che si intersecano. Con il walkman addosso affrontiamo quello che ne Il paesaggio sonoro Murray Schafer chiama soundscape (Schafer 1977), un paesaggio sonoro che sempre più rappresenta un mutevole collage; i suoni sono selezionati, campionati, confezionati e tagliati non solo dai produttori (deejay, rapper, tecnici del suono), ma anche dai consumatori (ciascuno di noi si forma la sua scaletta, salta dei brani, ne ripete altri, alza il volume per sovrastare la colonna sonora esterna oppure passa dall’una all’altra). Ogni ascoltatore e/o esecutore seleziona e riadatta il contesto sonoro circostante e, costruendo un dialogo con esso, lascia una traccia nell’ambiente. Il walkman, come la radio a transistor, il computer portatile, il telefonino e, soprattutto, la carta di credito, è uno degli oggetti privilegiati del nomadismo contemporaneo. Tuttavia mentre il computer e la disponibilità di credito globale trasmettono la persona attraverso uno spazio atopico in una 63 Passeggiata uditiva realtà virtuale più che corporea, dove il tempo è “fatale” e lo spazio incidentale, il walkman riporta invece il mondo alla persona, riafferma il corpo e segnala laconicamente un’identità diasporica transitoriamente messa insieme. Come nella descrizione di Walter Benjamin gli archi di Parigi gettano luce sugli interni, il walkman porta il mondo esterno nell’architettura interna delle identità. In questo mondo mobile e avvolgente il walkman, come gli occhiali scuri e la moda iconoclasta, serve contemporaneamente a nascondersi e a distinguersi, riaffermando così paradossalmente il contatto individuale con certe dimensioni comuni benché mutevoli (la musica, la moda, l’estetica, la vita metropolitana… e i loro particolari cicli di mortalità). In questo modo il walkman diventa una maschera, una messa in scena di una teatralità circoscritta. Si rivela come un significativo gadget simbolico per i nomadi della modernità, in cui la musica in movimento si decontestualizza e ricontestualizza continuamente nell’esistenza acustica e simbolica del quotidiano (Hosokawa 1984). Ma se finora il walkman rappresenta la forma estrema dell’arte di transito, esso rappresenta anche l’estremo mezzo musicale che consente una forma di mediazione con l’ambiente. Infatti offre la possibilità, sia pur fragile e transitoria, di imporre il proprio paesaggio sonoro sull’ambiente sonoro circostante e in questo modo di addomesticare il mondo esterno; per un attimo tutto può essere ridotto ai pulsanti Stop/Start, Fast Forward, Pause e Rewind. Il fascino dell’immagine del walkman, a parte l’intimo segreto che mostra sfrontatamente in pubblico (che cosa sta ascoltando?), è la sua posizione ambigua fra autismo e autonomia: si tratta di quel misto ambiguo di pericolo e potere salvifico, parafrasando la citazione di Heidegger da Hölderlin, che caratterizza la tecnologia moderna. Perciò, capire il walkman comporta non solo moltiplicare diversi punti di vista su di esso, ma anche rendersi conto che esso non toglie nulla al senso, bensì vi aggiunge qualcosa e lo complica. Si potrebbe dunque dire che la nostra relazione con il walkman sarà libera se “apre il nostro esserci all’essenza della tecnologia” (1962a). Per “essenza” 64 Paesaggi migratori Iain Chambers (Wesen) Heidegger intende qualcosa che perdura nel tempo, che risiede nel presente, che offre un “senso” della tecnologia non riducibile solo al “tecnologico”. Malgrado la nostalgia per l’autenticità che permea il discorso di Heidegger, è possibile orientare le sue parole in una direzione suggestiva. Alla domanda che cosa sia la tecnologia e, in particolare, il walkman, si può rispondere che si tratta contemporaneamente di uno strumento tecnico e di un’attività culturale. Proseguendo con le riflessioni del filosofo tedesco, si può dire che il walkman è uno strumento e un’attività che contribuisce al conferimento di un senso, alla rappresentazione o al disvelamento (Gestell ) del mondo. Ritrovando le origini etimologiche di “tecnologia” nella parola greca techne e nella sua antica relazione con le arti, la poiesis e la conoscenza, Heidegger suggerisce un mezzo più ampio per pensarne il senso e la verità particolare. Ma, in quanto strumento e attività, il walkman non è semplicemente uno strumento che rivela la perenne verità della tecnologia e dell’essere; è anche una realtà e una pratica storica e immediata. Facendo parte dell’equipaggiamento del nomadismo moderno, esso contribuisce all’estensione protesica di corpi in movimento, intrappolati nella diffusione decentrata delle lingue, delle esperienze, delle identità, degli idioletti e delle storie che sono tutti distribuiti in una sintassi tendenzialmente globale. Il walkman ci incoraggia a pensare dall’interno di questa nuova organizzazione di tempo e di spazio. Qui, ad esempio, il vecchio modello geometrico della città, organizzatore dello spazio, è stato progressivamente sostituito dalla cronometria e dall’organizzazione del tempo. La tecnologia dello spazio è stata integrata e sempre più corrosa dalla tecnologia del tempo: il “tempo reale”, i “nanosecondi” dei chip dei computer e dei blip dei monitor, delle informazioni transitorie sullo schermo, dei suoni carpiti attraverso le cuffie. Ciò porta alla comparsa di un’ulteriore dimensione. “La velocità torna ad essere all’improvviso una grandezza primitiva al di qua di ogni misura sia di tempo che di luogo” (Virilio 1984, p. 5). Per viaggiare e lavorare in questo ambiente inseriamo la spina, scegliendo un circuito. Al posto dei “grandi racconti” (Lyotard) Vedo le Vie dei Canti che spaziano per i continenti e i secoli; uomini che hanno lasciato una scia di Canto (di cui ogni tanto cogliamo una eco) ovunque sono andati; e queste scie devono ricondurre, nel tempo e nello spazio, a una fossa isolata nella savana africana dove il primo Uomo, sfidando gli orrori attorno a lui, aprì la bocca e gridò la strofa di apertura del Canto del Mondo: “IO SONO!” (Chatwin 1988, p. 373). La visione nietzschiana del mondo, ovvero di un mondo di nostra fattura, la cui esistenza dipende dalla nostra attività e dal nostro linguaggio, è qui presentata come l’avventura umana in cui i movimenti dei popoli e il rigore e il ritmo dei corpi, delle membra e della voce stabiliscono i modelli, il disegno, la desi- 65 Passeggiata uditiva della città, messi da parte, il walkman consente una micro-narrazione, una storia e una colonna sonora individuali, non semplicemente un luogo, ma un posto dove stare. L’ingresso in spazi pubblici di tale habitat privatizzato è un atto di disturbo. La sua qualità perturbante risiede nella deliberata confusione di confini preesistenti, nel suo provocatorio apparire “fuori posto”. Oggi la confusione di posto, voci, storie ed esperienze che si manifestano “fuori posto” fa parte del senso complessivamente più ampio della crisi semantica e politica contemporanea. L’ordine spaziale precedente ha dovuto sempre più affrontare l’eccesso dei linguaggi emersi dalle storie e dai linguaggi del femminismo, dei diritti sessuali, dell’etnicità, della questione razziale e ambientale, che debordano e minano la sua autorità. Il walkman è dunque un atto politico? È certamente un atto che si intreccia inconsciamente con molte altre microattività, conferendo un significato differente alla polis. Nel produrre un diverso significato dello spazio e del tempo, anch’esso partecipa alla riscrittura delle condizioni della rappresentazione: dove “rappresentazione” chiaramente indica sia le dimensioni semiotiche del quotidiano, sia la potenziale partecipazione a una comunità politica. Bruce Chatwin, nel suo bellissimo Le vie dei canti, ci propone l’immagine di un mondo generato con il canto. Iain Chambers Paesaggi migratori 66 gnazione della terra, del paese, della nostra dimora. L’aura religiosa di questo nomadismo si è chiaramente vanificata nelle reti più secolari della società occidentale. Continua forse ancora a riecheggiare all’interno delle cuffie miniaturizzate dei moderni nomadi, come tracce a stento ricordate di un viaggio un tempo sacro, teso a celebrare la sua presenza in un segno, una voce, un cenno, un simbolo, una firma da lasciare lungo il percorso. Capitolo terzo Le macchine del desiderio Le macchine del desiderio Le tastiere elettroniche dei nostri giorni vengono corredate di pulsanti del “sentimento” deputati a inserire “errori” programmati in quella che altrimenti sarebbe una riproduzione del suono troppo perfetta (Goodwin 1990). I microcircuiti e i chip dei computer consentono una riproduzione più “reale” del reale. Veniamo introdotti in un mondo in cui il puro fattore di un indice viene combinato con un insieme intertestuale di suoni e di luci che confutano la metafisica del realismo. Il cinema, i racconti di fantascienza, la musica pop, la fotografia e, soprattutto, la computeranimazione, orbitano tutti attorno alle ricerche su questa composita rappresentazione della “realtà”. In particolare è l’ambiente informatico dei dialoghi digitali e delle memorie digitali a evocare l’aura soprannaturale di un mondo immateriale. Veniamo incoraggiati a “concretare la fantasia di ‘realizzare il sogno’” (Burgin 1991, p. 9), e in tal modo a evitare la trappola di lingue e autorità più antiche, referenti comunemente accettati. Questa alchimia elettronica sembra invitarci a vivere in un mondo simulato, dove tutto è costruito, inventato e favolato secondo i nostri bisogni, piaceri e capricci. Naturalmente, però, abbiamo sempre costruito i nostri mondi simulati: miti e racconti che riuniscono elementi vari, disparati e incompleti in un continuum di significato personalizzato e collettivo. Le nostre vite, le spiegazioni, le interpretazioni e la memoria appartengono a una trama immaginaria sorretta dal linguaggio. Lo stesso mondo è continuamente costruito, ordito e pro- 67 È ormai noto che la materia – cosa tra le più solide e conosciute, che teniamo fra le mani e che costituisce il nostro corpo – è soprattutto spazio vuoto. Spazio vuoto e punti di luce. Cosa ci dice questo della realtà del mondo? Jeanette Winterson (1989, p. 8) 68 Paesaggi migratori Iain Chambers gettato. Anch’esso è divenuto una favola (Nietzsche), un sogno fantasmagorico (Benjamin), qualche volta un incubo. Eppure qualcosa è accaduto; si è registrato uno spostamento nella costellazione del senso. Sebbene i nostri corpi rimangano la materia prima delle stelle future, è come se nel continuum si fosse spaccato un anello cruciale. I riferimenti solidi, trasformati in metafore elettroniche e incorporee – significanti mobili, macchie luminose su uno schermo, numeri in un programma, gruppi di combinazioni autoreferenti attorno al numero zero – sono stati sempre più sostituiti da forme astratte “come stessero ancora nel cervello” (Rainer Maria Rilke). Centrale al disagio e alla spaesatezza indotti da questa situazione è l’immediata connotazione di falsità di questo mondo favolato. Nel suo artificio la simulazione è considerata “artificiale” e perde tutto il peso materiale (e ontologico) associato alla “realtà”. E tuttavia in essa si registra un importante rendez-vous tra la disintegrazione del paradigma referenziale della realtà, così caro alla scienza positivista e all’estetica del realismo, e il continuo assalto al nostro ambiente da parte dei linguaggi e delle immagini apparentemente autogenetiche dei mass media. Il conseguente interrogativo epistemologico e l’esperienza quotidiana del vivere in un mondo sempre più mediato ci lasciano con un senso della realtà che è diventato un po’ più complesso, più contingente, senz’altro più dipendente dai linguaggi di rappresentazione. In questo caso l’appello all’autenticità suona un po’ vuoto, nostalgico e apparentemente fuori luogo. I nostri strumenti di valutazione e misurazione non sono più garantiti da una metafisica del “reale”. Anche quel discorso si è rivelato un racconto e la sua pretesa di essere un fatto immutabile e solido diventa questione di interpretazione. Sia nelle arti visive che nel pensiero critico continuiamo ad assistere a tentativi di trasformare la fluidità della vita in forme meno transitorie. Tuttavia questi stessi tentativi tradiscono, addirittura annunciano e celebrano, la loro precarietà, ricercando nel contempo una momentanea redenzione nella trascendenza. Questa poiesis prende forma nel sogno, nel progetto di rappresentare l’irrappresentabile, di dire l’indicibile, di nominare l’inno- 69 Le macchine del desiderio minabile. Qualsiasi commento, qualsiasi linguaggio formale della percezione, che segua i codici del pensiero critico o, ad esempio, della fotografia, rimane sempre ai margini di ciò che cerca di rappresentare o raffigurare. Nella prosa, o nel negativo fotografico, le energie del mondo quotidiano appaiono come fantasmi, tracce fantasmatiche che, sebbene gettino un’ombra sulla pagina o nella fotografia, rimangono sempre al di là della vista. Il tentativo di raffigurare, descrivere e catturare questo altrove, questo itinerario impazzito della scienza positivista che una volta si riteneva capace di filtrare completamente il mondo attraverso il suo vaglio, è anche la materia di cui sono fatti i sogni. Se oggi si cominciano ad abbandonare le illusioni razionaliste e le smisurate pretese delle scienze naturali e umane, resta la sostanza del sogno, l’atto del sognare, le trame immaginarie e poetiche con cui continuiamo a conferire senso al mondo. In questo processo apparentemente immateriale di metafora e associazione (già sperimentato, ad esempio, nel rifiuto surrealista del funzionalismo modernista, nell’architettura “commestibile” di Antoni Gaudí e nell’“ipermaterialismo” di Dalí) vengono congiunti il quotidiano e l’eccezionale con effetti straordinari. Il funzionalismo – oggetti chirurgicamente denudati dal bisturi razionalista – è la “completa negazione dell’immagine dell’abitare” (Tristan Tzara in Vilder 1990, p. 43) Ma è nell’idea di abitare – “poeticamente abita l’uomo” insiste Heidegger citando Hölderlin – che risiede il più vasto e immateriale senso della nostra esistenza, sospeso tra terra e cielo, tra passato mitico (le deità) e futuro desiderato (l’umanità). Abitare per Heidegger non significa semplicemente risiedere in un edificio. Il concetto implica una responsabilità nella coltura e nella cultura di un luogo – “gli spazi ricevono la loro essenza non dallo spazio, ma dai luoghi” (Heidegger 1954, p. 103). Il rifiuto di una distinzione formale tra realtà e simulacro è inestricabilmente legato alla crescente evanescenza, confusione e permeabilità dei confini, al continuo attraversamento delle frontiere. Mentre la distinzione fra reale e artificiale, organico e inorganico, autentico e simulacro, una volta era proclamata con sicurezza, ora non è più possibile. I nostri corpi sono invasi 70 Paesaggi migratori Iain Chambers dalla tecnologia sia nell’ambito della salute che del tempo libero e, nel contempo, riappaiono continuamente ricomposti nel mondo elettronico delle comunicazioni moderne: cinema, televisione, CD, computer graphics… il mondo multimediale delle simulazioni. Ogni cosa è contaminata e impollinata dalle altre. Nel più artificiale eppure tattile dei corpi, quello di Arnold Schwarzenegger, si rivela continuamente l’accordo protesico in base al quale la logica casuale del “naturale” viene sostituita dai dettami culturali del “biologico”: la macchina sotto la pelle in Terminator, l’altra memoria – quella del sogno, della realtà? – in Total Recall. Da questi corpi emergono altre realtà, altri corpi: Eraserhead, Alien, Videodrome, Robocop, Tetsuo. Questo mondo è popolato da quella che Donna Haraway chiama cyborg culture (Haraway 1991). Per Walter Benjamin tutto questo sarebbe semplicemente una conferma delle sue opinioni sulla genesi del feticismo. Il feticismo “sopprime le barriere che separano il mondo organico da quello inorganico” ed è “di casa nel mondo dell’inanimato come nel mondo della carne” (Benjamin 1982). Ma a che cosa ci si vuole riferire con questa abile confusione dei discorsi marxista e freudiano: a un oscuro uso-valore o a un oggetto del desiderio dislocato, un’aggiunta superflua o un eccesso essenziale? Come ha sottolineato Benjamin (1982, p. 19) a proposito della fotografia, l’ubiquitario computer ci informa sull’“inconscio della vista”. Negli anni Sessanta le più vivide suggestioni dell’instabilità e della mutabilità del reale venivano dall’hashish, da certi funghi e dall’LSD. Oggi le “porte della percezione” di Aldous Huxley sono state aperte in modo certamente più pubblico dalla pratica metropolitana di rivolgersi a uno schermo per trovare autorealizzazione nel lavoro e nel tempo libero. Nella logica piatta e bidimensionale dello schermo abbiamo oggi la possibilità di contemplare l’invisibile. Con la simulazione elettronica dell’iperspazio del computer è come se l’arcaico legame fra conoscenza e vista, rivelato dall’etimologia oculare di “teoria”, fosse rafforzato dalla chiarezza dell’immagine computerizzata. In questo c’è un’estensione e un mutamento. 71 Le macchine del desiderio Con la “Biblioteca Mondiale” potenzialmente on-line che attende di essere personalizzata e aggiornata, elettronicamente consultiamo, commentiamo, tagliamo e incolliamo parole, immagini, pellicole e suoni, assemblando un nostro ipertesto. In questa biblioteca infinita, come nelle infinite spirali di Mandelbrot, viaggiamo su scala sempre più ridotta verso una crescente complessità, dove il momento della conclusione è posposto all’infinito. Ma con il computer, con il suo linguaggio tattile, con le sue manipolazioni digitali, dove le forme appaiono come se fossero direttamente trasferite dal pensiero allo schermo e lo schermo stesso si presenta come una simulazione del cervello, partecipiamo anche alla spettacolarizzazione dell’invisibile. È forse un passo avanti rispetto ai precedenti tentativi di visualizzare il cervello di Einstein, “la testa irta di fili elettrici: si registrano le onde del suo cervello mentre gli si domanda di ‘pensare alla relatività’” (Barthes 1957, p. 87) Forse la risposta è nella domanda retorica di Roland Barthes: “Che cosa vuol dire esattamente ‘pensare a… ’?” (ib.). La questione non riguarda più il cervello di Einstein, ma l’idea stessa di una cosa – “la relatività” – che esiste altrove, che aspetta di essere scoperta da un gesto indipendente e razionalista, come se fosse al di fuori del discorso che la nomina. Il venir meno delle precedenti dualità – il reale e il rappresentato, la realtà e il simulacro, l’autentico e l’artificiale, l’originale e il falso – ci porta a mutare le precedenti certezze epistemologiche in una confusione istruttiva. Una cosa, però, incomincia a emergere. Su questa soglia ambigua e arcana fra corpi “reali” e “artificiali” viene sempre più a mancare l’indipendenza cartesiana della mente, il cogito dell’individuo razionale come presunto fondamento dell’identità moderna. È in primo luogo il computer a suggerire un dialogo con l’infinito: con esso tutto può essere digitalizzato e riprodotto ad infinitum. Come sottolinea Jean Baudrillard (1987), questa macchina propone un’“eternità virtuale, non già quella, duratura, che troviamo dopo la morte, ma quella effimera della ramificazione delle memorie artificiali”. Apparentemente i computer realizzano il sogno di rendere l’infinito finito, ovvero visibile. Offrono il fasci- 72 Paesaggi migratori Iain Chambers no senza fine dello “spettacolo del pensiero” (Baudrillard 1987). Tuttavia, nonostante il continuo tentativo di Baudrillard di porsi “oltre” – oltre il pensiero, il desiderio, la storia, la fine della storia e persino se stesso – la resistenza morale (quella distanza critica che egli ironicamente nega) nella sua descrizione del computer rivela ancora una fede in un originale, in uno stato delle cose che esisteva prima della loro rappresentazione, riproduzione, simulazione. Non equivale forse a parlare di feticismo, di distinzione fra “vero” e “apparenze”? Che cosa significa, parafrasando Nietzsche, parlare di pensiero, o di altro, se esso non appare, se non viene mostrato, come se potesse esistere in uno stato “puro” o “naturale” senza essere rappresentato, come se venisse prima o andasse oltre il linguaggio? Non esiste un a priori, non esiste un pensiero senza un mezzo espressivo, una mediazione, una scena, uno spettacolo. Tuttavia nella descrizione di Baudrillard degli uomini dell’Intelligenza Artificiale che attraversano lo spazio mentale attaccati ai loro computer si può ancora ritrovare chiaramente il sogno di essere redenti dall’autenticità: Possiamo supporre che un giorno gli occhiali o le lenti a contatto diventeranno protesi integrate di una specie in cui lo sguardo sarà ormai scomparso e allo stesso modo possiamo temere che l’intelligenza artificiale con i suoi supporti tecnici diventerà la protesi di una specie in cui il pensiero sarà ormai svanito. L’intelligenza artificiale è senza intelligenza perché è senza artificio. Il vero artificio è quello del corpo nella passione, del segno nella seduzione, dell’ambivalenza nei gesti, dell’ellissi nel linguaggio, della maschera sul volto, del motto che altera il senso e che per questo si chiama motto di spirito (p. 160). Queste macchine desessuate sono celibi. Non potranno mai conoscere il piacere della seduzione; possono generare e combinarsi, ma non potranno mai vivere l’estasi di un’illusione, l’ironia del linguaggio. Questo spiega “la profonda malinconia dei computer” (p. 161). Entriamo in un coma indotto dal vuoto dello schermo. Ma sicuramente questa storia, che parte 73 Le macchine del desiderio dalla paura dello stato dell’“autentico”, è troppo netta e la sua evocazione del “mondo reale” con le sue passioni e seduzioni soggette alla “oggettiva realtà della conoscenza” è troppo ingannevole. Viene il dubbio che spesso la lettura di Baudrillard abbia dato origine a un terribile equivoco. Le sue folli descrizioni sono state prese per prescrizioni. Infatti sotto il vortice demoniaco del suo linguaggio c’è la chiara insistenza sul fatto che abbiamo perso contatto con il mondo reale. Baudrillard non è lo sbalordito vate di un Brave New World della postmodernità, ma l’insistente profeta della sua apocalisse. Il suo linguaggio virale, come quello di Paul Virilio, è soprattutto sintomo di un profondo disagio: siamo stati tutti contagiati e stiamo per sparire. Nella sua voce c’è il timbro isterico dei situazionisti assieme agli accenti più equilibrati di Francoforte e del marxismo, e c’è anche il più antico e profondo credo romantico del proteggere i “valori umani” (e gli studi “umanistici”) dalla minaccia della nuova barbarie della macchina (e delle sue “scienze”). L’accumulo di tutta questa negazione sembra suggerire che in qualche modo siamo esclusi da questi ultimi per natura. Potremmo tornare al problema della realtà, al paradosso di essere minacciati dai nostri stessi prodotti, e con essi riaffrontare la questione più ampia dell’abitare. Cosa significa abitare questa realtà, dove i confini vengono continuamente attraversati e gli indicatori semantici sempre più confusi da questo traffico? Come possiamo trasformare questo spazio in luogo, in habitat? Il computer e i suoi utenti sono i moderni oggetti/soggetti par excellence. Il programmatore, in particolare, ha preso il posto dell’ingegnere, dello scienziato nucleare o dell’astronauta. Ha acquisito il mantello del mago Merlino. Costui (talvolta costei) offre qualcosa di magico, soluzioni per problemi impensati, viaggi in luoghi inimmaginati. Sia il computer che il programmatore sono un’iperincarnazione della condizione (e frustrazione) dell’essere disperatamente moderno. Mito contemporaneo, con il suo accesso ai codici segreti dell’ordine (dalla banale assicurazione della statistica, fino all’infinità dei frattali, all’entropia e al- 74 Paesaggi migratori Iain Chambers la “scienza del caos” passando per il mondo aperto della matematica), il computer offre nella dissoluzione dell’ultima modernità confortanti punti di riferimento. Mentre i “grandi sistemi dell’ideologia classica – marxismo, socialismo, liberalismo – cominciano a incrinarsi e a perdere la loro credibilità, al pubblico si propone un nuovo modello di organizzazione sociale basato su programmatori e macchine comunicanti” (Breton 1990, p. 25). La simbologia che ne deriva ci porta ben oltre l’attuale organizzazione sociale e ci immerge nella originaria economia spirituale del desiderio di sapere. Si può dire che il computer rappresenti nel contempo una fine e un inizio. Come metafora dell’ambiguità della conoscenza moderna esso tiene uniti gli opposti. La conoscenza è visualizzata e totalizzata: la metafisica occidentale è proiettata sullo schermo come in un calcolo universale. Qui ognuno, cifra dell’apparenza e dell’insieme razionale, può essere ordinato, simulato e apparentemente spiegato. Tuttavia incombe un’aura di mistero e di magia. In questa euforia incorporea del cyberspazio possiamo affrontare anche l’alchimia della mutazione antropologica (Gibson 1986). Questo mondo, con la sua promessa di piena intelligibilità, mondo dell’“uomo totale”, è abitato da un’intelligenza onnipotente senza corpo, un insieme di informazioni senza membra o organi, una forma di creazione radicalmente alternativa. In questa versiona aggiornata di Frankenstein viene abbandonata la struttura fisica del corpo, e la materia del cervello di Einstein non è più necessaria. Qui, nell’infinità dei chip della memoria, il corpo dell’homo telematicus viene finalmente superato, smaterializzato. L’anatomia, proiettata nella quarta ed eterna dimensione del cyberspazio, è rimpiazzata da impulsi elettrici di intelligenza “pura”. In questo universo senza corpi o apparenti supporti materiali viaggiamo attraverso l’interfaccia entrando nell’impero della “network nation sull’onda dei dati” (Levy 1992, p. 65), consultando di tanto in tanto le guide sui pericoli dei bug, dei crash e dei virus. Viaggiamo tra i miti degli autoreplicanti (il Golem, le “macchine anatomiche” del principe di Sansevero, la creatura di 75 Le macchine del desiderio Frankenstein, l’intelligenza artificiale di Terminator) e l’utopia di “liberare” l’universo dell’informazione. Smembrati e riassemblati dall’altra parte dello schermo sotto forma di punti di luce, viaggiatori elettronici, spettrali cosmonauti, cerchiamo di ri-membrare noi stessi, mentre la memoria del desiderio e l’erotismo della conoscenza si combinano incessantemente (Romanyshyn 1989). La sostanza senza vita del silicio e dei circuiti, animata dall’elettricità, fa rivivere il nostro doppio e con esso la promessa di eternità in qualche banca dati. Questo passaggio oltre la morte, oltre il cadavere, è naturalmente il dramma di Frankenstein e della sua creatura. Gli occhi fissi sullo schermo del computer, sembra avverarsi il sogno di umanizzare la tecnologia – la creazione di Frankenstein diventa finalmente “user friendly” – di tradurre la sua logica hard in ambiente soft, di modellarla per adattarla al nostro habitat. L’incontro fra presunti opposti – il corpo organico e la macchina – è divenuto osmotico e il passaggio fra i due è apparentemente immateriale. La distanza è stata colmata, ridotta a un frisson di piacere anticipato, a un brivido controllato. Qui, alle frontiere della techne, nel territorio della poiesis, tecnologia, tecnica e metafora si fondono nel linguaggio dell’essere e l’antica frattura fra scienza e musica sembra sanata. La distinzione tra l’uomo e la macchina è sostituita da un continuum in cui il razionale e l’immaginario si amalgamano. In una sorta di condizione zen dove il significato fluttua, viviamo il fascino di attraversare e trasgredire quella vecchia frontiera e di entrare, per così dire, nella quarta dimensione. Ma forse tutto questo è solo la versione più recente di un’avventura per ragazzi. La precedente esplorazione dello spazio esteriore è stata ora sostituita dal pieno riconoscimento del narcisismo maschile in un viaggio interiore, riflesso non solo nel volto che osserva il monitor, ma soprattutto nel linguaggio interiore ed edipico che si attiva nel circuito della scheda madre. Nell’intima conversazione dell’interfaccia è apparentemente insito il trionfo finale della logica maschile sulle emozioni femminili, del freddo calcolo sui caldi impulsi, della pianificazione sulla passione. Tuttavia, mentre ci aspettiamo che le donne usino il 76 Paesaggi migratori Iain Chambers computer a un livello strumentale e funzionale, cioè “razionalmente”, come dattilografe e segretarie che forniscono beni e servizi al “mondo-parola” elettronico, gli uomini diventano emotivi nel loro entusiasmo e si trasformano in ragazzini in contemplazione del proprio ombelico elettronico e immersi nell’infantile piacere di un nuovo giocattolo. In questo Paese delle Meraviglie Alice ha cambiato sesso e la proiezione ritorna al punto di partenza nella chiara esposizione di una fantasia maschile. Probabilmente è così, ma non è tutto. Perché in questo mondo fluttuante, che i giapponesi chiamano ukiyo, possiamo scoprire anche le coordinate di un’esistenza più ampia. Nella irresoluta riproduzione della realtà dove le immagini mutano, il senso migra e si smaterializza nel segno della simulazione, della velocità e della simultaneità, vengono dichiarate le regole del gioco con cui sono costruiti il linguaggio e la comunicazione: la scena dei segni. Nel passaggio dalla rigidità alla fluidità, dai sistemi binari alla biforcazione, le identità e i ruoli ereditati entrano nello spazio malleabile del segno. Le immagini, comprese quelle che abbiamo di noi stessi, vengono a essere fuse elettronicamente con le forze libidiche del nostro immaginario. I nostri corpi diventano altri corpi, ovvero oggetti sullo schermo, ulteriori segni. I momenti di scrittura, visione, iscrizione, viaggio fisico e immaginario sono tutti tentativi di unire due sponde, di navigare fra il corporeo e l’incorporeo, di rompere il rigido dualismo soggetto/oggetto, maschio/femmina, realtà/immaginazione, nel riconoscimento del desiderio. È quel desiderio, con le sue peculiarità culturali e storiche che ci definisce, e non l’illusoria cancellazione tecnica di noi stessi ove i corpi si smaterializzano nell’ambiente autoreferenziale e simulato della metamorfosi dei media. In questa erranza è il dialogo di desiderio, di movimento, di senso e sensi mutevoli, di aperture, a divenire il fulcro del senso e a fornire il terreno narrativo su cui si basa il nostro movimento, piuttosto che la tecnologia e le tecniche distillate nel corpo alienato che sta di fronte alla macchina. E, per riprendere il nostro viaggio, se ciò che chiamiamo ragione fosse storicamente sessuato? Chiaramente la costruzione dell’Intelligenza Artificiale non è un processo neutrale, così co- 77 Le macchine del desiderio me la potenziale flessibilità di interfaccia e programmazione aperta non è necessariamente riconosciuta nelle razionalizzazioni patriarcali e nel vocabolario dell’informatica: slave, abort, boot-up (Perry, Greber 1990). C’è poi il paradosso della demascolinizzazione della macchina da guerra, dove il computer rimuove i muscoli, la fisicità dagli affari militari perché è il software al pari dell’hardware a determinare l’esito di un conflitto (Edwards 1990). Di contro esistono uomini che si servono della loro sessualità per proteggere il proprio status ideologico ed economico simulando una realtà che non esiste più, quella dell’esperto compositore di stampa: oggi sono semplici dattilografi a digitare un testo per una composizione computerizzata (Cockburn 1983). Muovendoci oltre le preesistenti relazioni sociali che hanno preso dimora nel nuovo mondo dell’informatica, ci troviamo di fronte a interrogativi che sono al centro della logica della programmazione. In parole povere, bisogna scegliere fra le organizzazioni gerarchiche dei programmi, che si muovono per astrazione dall’assioma al teorema, al corollario, e l’opposto stile ad hoc dei bricoleurs che costruiscono teoremi riordinando, prendendo in prestito e riadattando materiali già disponibili. In quest’ultimo caso “si preferisce trattare i simboli sullo schermo come oggetti fisici piuttosto che come astrazioni, antropomorfizzare il programma, o vedere le cose in termini di relazioni piuttosto che in termini di proprietà, anche se tali preferenze sono scoraggiate nei normali corsi di informatica” (Turkle, Papert 1990). Di conseguenza l’interfaccia passa dalla competizione alla cooperazione, dall’astrazione unidimensionale a icone, touch screens, riconoscimento della voce, fino ad arrivare a “realtà virtuali” dove, con i caschi e i guanti elettronici, l’interfaccia diventa cinestetica e si affida alla manipolazione apparentemente tattile di un materiale che sembra tridimensionale, mentre l’utente maneggia gli oggetti direttamente sullo schermo, si muove fra gli schedari della “scrivania” varcando persino le porte dello schermo per entrare in altre “stanze”. Qui i processi istituzionali e ideologici che installano i computer – la loro progettazione, programmazione e utilizzazione – 78 Paesaggi migratori Iain Chambers entro le coordinate presunte “neutrali” di logica, linearità e oggettività, e l’invariabile consacrazione di questi termini a opera della mascolinità e del progresso vengono sfidati e giocosamente dispersi. La conoscenza, presunta beneficiaria di un’accumulazione limpida e lineare del tempo e del progresso, rivela ora quel più oscuro sottofondo di ombre dove ancora una volta incontriamo “la ragione rivestita di desiderio” (Romanyshyn 1989, p. 10). Ci troviamo nello spazio della “ragione barocca” di Christine Buci-Glucksmann, una ragione che incorpora il desiderio, una ragione la cui stranezza e il cui arcano eccesso ci danno l’allegoria di una modernità alternativa che va oltre la “ragione mercantile” del razionalismo (Buci-Glucksmann 1983). Alla libertà illimitata dell’individuo razionale del pensiero classico l’allegoria barocca contrappone la rete simbolica che ci tiene prigionieri nel linguaggio, nella storia, nella mortalità. A questo punto possiamo forse chiederci se il computer sia l’esito trionfante di un processo di razionalismo totale o piuttosto il simulacro del nostro essere prigionieri di quel sogno. In questo caso esso ci riproporrebbe i nostri limiti e il nostro ri-entro storico in un mondo più circoscritto e contingente. Non più accecati dalla luce del “progresso” e dalla sua autorità patriarcale, forse possiamo ritrovare il nostro posto e tornare ai nostri computer senza l’Uomo Illuminato, abbandonato come un “fantasma con un’erezione” (Romanyshyn 1989, p. 200). Nella soprannaturale capacità del computer di presentare un’“immagine del mondo” incontriamo il limite costituito dallo schermo, il vetro che separa il mondo apparentemente concreto e quello simulato della luce eterea. Ma “il limite non è il punto in cui una cosa finisce ma, come sapevano i Greci, ciò a partire da cui una cosa comincia la sua essenza” (Heidegger 1954, p. 103). Questa apertura, questa attenzione, questa riflessione ci danno il “coraggio di porre radicalmente in questione la verità delle nostre presupposizioni e il campo dei nostri obiettivi” (Heidegger 1952, p. 71). Capitolo quarto Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? … il concetto stesso di letteratura inglese come studio che racchiude il proprio fondamento nazionale, culturale e politico specifico e si offre come nuovo sistema per lo sviluppo di valori “universali” viene fatto esplodere dall’esistenza della letteratura postcoloniale. Bili Ashcroft, Gareth Griffiths, Helen Tiffin (1990, p. 196) Che cosa accadrebbe al logocentrismo, ai grandi sistemi filosofici, all’ordine del mondo in generale se la roccia su cui è costruita questa chiesa dovesse crollare? Hélène Cixous, Catherine Clement (1987, p. 65) Suoni, voci, linguaggi sono sempre inscritti in un luogo. Sotto il segno del linguaggio, del potere dell’“inglese”, le citazioni Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? (…) se, come dicevo, l’atto della traduzione culturale (sia come rappresentazione sia come riproduzione) nega l’essenzialismo di una cultura originaria precedente data, vediamo allora che tutte le forme di cultura sono in un processo continuo di ibridismo. Ma per me l’importanza dell’ibridismo non sta nel riuscire a ritrovare i due momenti originari da cui emerge il terzo, l’ibridismo per me è piuttosto un “terzo spazio” che consente ad altre posizioni di emergere. Homi K. Bhabha (1990b, p. 211) 79 Tre corvi agitano le ali in cerca di alberi E si posano, facendo stridere i rami dell’eucalipto. Un odore di cedri morti risveglia nel naso La lebbra dell’Impero. Derek Walcott (1992, p. 35) 80 Paesaggi migratori Iain Chambers sopra riportate – provenienti dalle periferie un tempo ignorate dei Caraibi, dell’India, dell’Australia e dell’Algeria – sollevano questioni fondamentali in un’epoca di postcolonialismo. Sono domande che si incontrano quando la cultura britannica (e occidentale) implode per effetto dell’occupazione da parte di altre voci, altre storie, altre esperienze. Nei viaggi reali e immaginari che costituiscono le moderne mappe delle culture metropolitane, emergono isole linguistiche e musicali che formano catene di identità basate su ritmi del tempo e dell’essere molto diversi. Gli accenti dell’Impero che tornano nelle voci dei soggetti postcoloniali – sia che vengano dalla “periferia” sia che erompano al centro – trovano espressione in un cosmopolitismo interculturale che, rielabora e riscrive le storie, un tempo occulte, dell’atlantismo nero e della diaspora imperiale nella grammatica delle moderne identità nomadi. A dimostrazione di ciò ci sono i rinomati viaggi letterari di Derek Walcott e Salman Rushdie, la poesia “dub” volutamente sconcertante di Big Youth, Michael Smith e Linton Kwesi Johnson, il tropo del viaggio e della trasformazione che ha un ruolo centrale nella recente comparsa di autrici nere negli Stati Uniti e nei Caraibi, l’impronta più localistica della fotografia e del cinema neri postrealisti in Gran Bretagna e l’ubiquitaria mobilità dei ritmi elettronici neri in tutto il mondo. Come frutto di una “poetica forzata” (Edouard Glissant) che emerge dall’esperienza di prigionia della schiavitù, del razzismo e del colonialismo, questa sintassi che in precedenza era subordinata rivela “l’esperienza e la sensibilità sommersa surrealista” (Brathwaite 1984) che si trova all’interno dei comuni stereotipi della lingua e della letteratura inglese e delle culture eurocentriche. Questo momento particolare suggerisce quello che il critico francese Christine Buci-Glucksmann, commentando le celebri riflessioni di Walter Benjamin sull’Angelus Novus di Paul Klee – l’angelo della storia – chiama un momento di intensità temporale. In un caso del genere avviene una frattura nel tempo: una sosta che permette il rovesciamento politico ed epistemologico delle storie dei già sconfitti (BuciGlucksmann 1983). 81 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? In termini più immediati, fra i segni che mi incoraggiano a postulare questa frattura del tempo e la comparsa di un’“altra” semantica e sintassi culturale, c’è lo sviluppo di una particolare estetica metropolitana britannica nera che attribuisce una forma e una direzione caratteristiche ai problemi di cultura e identità postcoloniale. Nelle arti figurative c’è stata la mostra, controversa ma sintomatica, The Other Story, tenutasi alla Hayward Gallery nel 1990; nel cinema il Black Audio Film Collective con Handsworth Songs (1986); Sankofa con Territories (1984), The Passion of Remembrance (1986); Isaac Julien con Looking for Langston (1989) e Young Soul Rebels (1991); nella musica popolare la diffusa creolizzazione di varie tradizioni musicali nere con Soul II Soul e gli Young Disciples; nella critica la rivista «Third Text»; e in letteratura, a parte il caso più evidente di Salman Rushdie, ci sono l’ilarità dell’ibridismo culturale nel Budda delle periferie di Hanif Kureishi, le memorabili testimonianze di donne di colore in Charting the Journey (Grewal et al. 1988), e la straziante biografia della narrativa dell’Impero al contrario di V. S. Naipaul – L’enigma dell’arrivo – che ci conduce al mistero che giace nel cuore di tenebra della modernità, non in Congo ma a Stonehenge, nella Salisbury Plain battuta dal vento, nel cuore antico dell’Impero: il luogo della Gerusalemme di William Blake (“Albion’s Druidy Shore”) e di “altri innominabili riti” (Conrad). Tutte queste parole, queste immagini, questi suoni, queste voci, “mettono in gioco certi percorsi trascurati ma stimolanti che conducono alla realtà di tradizioni che riguardano le capacità interculturali di indurre cambiamenti autentici in comunità minacciate da complicati pericoli e con precedenti diversi le une dalle altre” (Harris 1983, p. X). Incoraggiato da questo materiale mi accingo quindi a prendere in considerazione una serie di prospettive, in parte coincidenti, che riguardano alcune delle questioni e delle correnti più ampie messe in moto dal postcolonialismo, dal femminismo e dagli intellettuali neri, e che oggi stanno decisamente irrompendo nei modi di vedere stabiliti permeando di sé un orizzonte critico emergente. Voci Iain Chambers Paesaggi migratori 82 Ma un livello va certamente messo in discussione: l’interpretazione metropolitana dei propri processi come universali. Raymond Williams (1989, p. 47) Mentre la metropoli imperiale tende a interpretare se stessa come determinante della periferia… abitualmente è cieca ai modi in cui la periferia determina la metropoli – a cominciare, forse, dal bisogno ossessivo di quest’ultima di presentare e ripresentare continuamente a se stessa le proprie periferie e i propri altri. Mary Louise Pratt (1992, p. 6) Forse il primo elemento significativo da registrare nel dibattito sul senso della storia, della lingua e dell’identità che sta emergendo in questo periodo è che si nota una crescente esitazione nel presumere di offrire una sintesi razionalista delle voci e delle forze in azione nel mondo postcoloniale, come se potessero essere semplicemente riportate sulla mappa esistente della conoscenza. A volte le voci che si incontrano convergono, ma possono anche allontanarsi al punto da diventare incomprensibili e dissonanti. Qui infatti, come dice Lévinas, viaggiare criticamente non significa più errare come Ulisse, diretto a casa, ma come Abramo, scacciato dalla precedente casa della conoscenza e destinato a non farvi mai più ritorno. Ciò suggerisce l’esigenza di collegare – senza per questo ridurre all’identità – le correnti che attraversano il mondo critico contemporaneo in Occidente e che, in modo condensato, rimosso e parziale, cercano di parlare di un altrove, di altri mondi, e la cui compresenza e mescolanza turbano e decentrano il nostro precedente senso della conoscenza e dell’essere. Ciò significa accogliere un modo di pensare destinato all’incompletezza. Il pensiero occidentale, con la sua promessa di presentare il quadro completo, si trova di fronte all’in- 83 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? completezza del “mondo dissipato, il mondo in frantumi” per usare le parole memorabili di Thomas Pynchon (1990, p. 310): un mondo diviso in complessità, in diversi corpi, memorie, linguaggi, storie, differenze. La presenza postcoloniale, dove la metafora astratta dell’“Altro” si è metamorfosata in corpi storici e concreti, lancia una sfida allo schermo del pensiero universale – ragione, teoria, Occidente – che storicamente ha mascherato la presenza di una voce, un sesso, una sessualità, un’etnicità e una storia particolari e ha concesso all’“Altro” una presenza solo per poter confermare le proprie premesse (e pregiudizi). Orientalismo (1978) di Edward Said è il classico studio di questo potere discorsivo all’opera e l’attuale crisi dell’antropologia culturale ne è la testimonianza più eloquente. Sebbene quest’ultima narri frequentemente la morte dell’“indigeno”, infatti, spesso si tratta soltanto di una metafora, leggermente dissimulata, della morte delle pretese della disciplina stessa. Ormai decisamente caratterizzati dall’impossibilità storica ed etica di parlare a nome dell’“altro”, questi ambigui riti funebri invariabilmente ci riportano a riconsiderare l’asimmetria dei poteri di rappresentazione, e il nostro posto al loro interno, nell’ambito del mondo attuale (Taussig 1991). Qui, in questa crisi di enunciazione, è possibile scorgere anche una potenziale convergenza tra la teoria femminista radicale – Luce Irigaray, Carla Lonzi, Hélène Cixous, Alice Jardine, Rosi Braidotti, Jane Flax, Susan Hekman. Judith Butler – con la sua critica sostenuta del soggetto cartesiano fallocentrico, e la critica postcoloniale dei presupposti del discorso occidentale: una convergenza direttamente inclusa nelle opere di Gayatri Spivak, Trinh T. Minh-ha, bell hooks, Paul Gilroy e Homi Bhabha, per esempio, e che è destinata a un più ampio dialogo. Infatti la dissonanza che emerge a proposito del disaccordo riguardante “la portata teorica…” (Braidotti 1991) di identità sessuale ed etnicità, sesso e razza, giustamente minaccia di trasformarsi in una critica radicale al sapere e ai discorsi intellettuali, alle istituzioni e ai regimi disciplinari su cui essa si fonda. La disgregazione dell’autenticità Si è mai abbastanza neri? E comunque, chi è abbastanza nero? Isaac Julien (1991, p. 129) Iain Chambers Paesaggi migratori 84 È questo desiderare un centro, una spinta legittimante, che genera opposizioni gerarchizzate. Gayatri Chakravorty Spivak (1977, p. LXIX) A queste osservazioni preliminari va aggiunta la questione non solo di che cosa siano oggi una lingua, una letteratura e una storia come quelle “inglesi”, ma soprattutto di chi siano gli “inglesi”, ora che le identità non possono più basarsi sui noti termini di riferimento di “terra e sangue”. Questa frase viene dal tristemente famoso discorso rettorale tenuto da Heidegger nel 1933, ma un analogo fondamento etnico dell’identità non era estraneo neppure ai critici inglesi come F. R. Leavis, o addirittura a E. P. Thompson e all’ultimo Raymond Williams. La struttura dell’“inglese” di oggi chiaramente si regge e, cosa ancor più importante, si rinnova negli interstizi tra storie, culture e memorie sempre più diverse. Messi di fronte alla presenza, in precedenza eclissata, di un “medium interculturale”, veniamo trasportati da “un’unità di sensibilità più profonda e più strana attraverso strutture polarizzate e al di là di esse” (Harris 1983, p. XVIII). A questo punto la consolazione conchiusa e finita che una volta era associata alla presunta unicità della comunità può o ritirarsi dentro il guscio vuoto di ciechi concettismi culturali, oppure frammentarsi e ricomporsi proficuamente sotto il peso di un’eredità multipla. In Occidente tuttavia abbiamo ereditato una tradizione autorevole che da sempre guarda con orrore alla frammentazione e alla mobilità culturale. Intenta a salvaguardare il tempio senza tempo dell’espressione unica e singolare dell’opera d’arte dai movimenti dispersivi di industria, urbanizzazione e capitalismo, ha combattuto un’incessante azione di retroguardia contro la modernità. Sconfessando le culture e i ritmi discontinui della città, 85 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? del commercio e della modernità, questa tradizione critica ha cercato insistentemente alternative radicali nelle presunte continuità delle culture popolari, delle usanze “autentiche” e delle comunità “originali”. Andare a cercare altrove questa “autenticità”, proprio ora che le radici, le storie e le tradizioni locali occidentali sembrano essere andate disperse e distrutte, perpetua lo stadio dello specchio di quella pulsione infantile. Cerchiamo di tornare alle origini, che non appartengono più a noi, ma a un “Altro” che si trova adesso a dover portare il peso di rappresentare il nostro desiderio. La ricerca occidentale dello “spazio mitico e incontaminato” di una cultura autenticamente “indigena” perpetua l’approccio imperialista con una modalità di segno apparentemente opposto (Niranjana 1992, p. 170). Implica inoltre una difesa dell’“arcaico come puro valore antioccidentale perché aspira occidentalmente a quell’assoluto che è ormai fuori portata’’ (Guidieri 1990, p. 18). Attraverso questi paradossi l’Occidente continua ad affermarsi come soggetto, fonte e destinatario del discorso critico, ignorando nel contempo i processi e le mediazioni – imperialismo, neocolonialismo, capitalismo, media occidentali – che hanno brutalmente portato nel nostro mondo quelle differenze, quegli “indigeni”, quelle altre culture, plasmandole e distribuendole al tempo stesso1. Mettere in discussione questa particolare tendenza critica equivale a contestare la destinazione presunta dell’Occidente, significa entrare in polemica con una proiezione che in ultima analisi lega una cieca fede nel “progresso” alla consumazione finale della ragione occidentale nell’Olocausto. E lega tutti noi che viviamo in Occidente al presunto destino del mondo che l’imperialismo moderno reitera non solo nelle conquiste territoriali e nel predominio economico, ma nell’articolazione e diffusione stessa del sapere. Invariabilmente continua a sembrarci paradossale prendere in considerazione un’idea di “sapere” che, alla fin fine, non sia di origine occidentale. Sono questa ambientazione e questa eredità imperiali, come fa notare Edward Said, “il vero orizzonte delimitante e, in una certa misura, la condizione legittimante di concetti altrimenti astratti e privi di fondamento quali quelli di ‘alterità’ e ‘differenza’” (Said 1989, p. 217). Si noti che 86 Paesaggi migratori Iain Chambers Edward Said allude qui sia a un orizzonte sia a una “condizione legittimante”. La presenza dell’Occidente non porta semplicemente a uno stato di sottomissione che comporta la cancellazione unilaterale delle identità e delle culture subalterne, ma produce anche un milieu che fornisce la sintassi in cui le differenze rappresentano un’interruzione, un’apertura e un’interpunzione interrogativa. Questo suggerisce, come afferma in seguito Said, “l’idea di un destino collettivo oltre che plurimo” (Said 1989, p. 224) nell’epoca del postcolonialismo. Una simile prospettiva, con l’implicito riconoscimento dell’impatto ontologico di mobilità e contingenza, porta inevitabilmente al crollo della nostra fiducia nelle dichiarazioni di “autenticità”. Eppure è dimostrato che l’“autenticità” sta al centro sia della creazione dei canoni culturali, letterari e morali della tradizione “inglese”, sia di molte delle forze, degli scrittori, artisti e individui postcoloniali che adesso la contestano e la trasformano. Nell’idea di radici e di autenticità culturale è insita una forma di identità fondamentale, se non addirittura fondamentalista, che immancabilmente si intreccia con i miti nazionalisti per creare una “comunità immaginata” (Anderson 1983). Nel riscrivere il discorso delle radici e della tradizione, i termini del mito metropolitano vengono invertiti, ma senza volere si riproduce la stessa disposizione oppressiva di potere, posizione, soggettività, rappresentanza e relative modalità egemoniche. Tuttavia, ogniqualvolta la tradizione si manifesta nella forma di un continuum temporale e culturale che si svolge secondo la logica delle proprie origini, cioè come teleologia, la sua versione del passato (e del futuro) è inevitabilmente accompagnata dal complemento di un’interrogazione storica. In quanto determinazione anticipata, la tradizione maschera i poteri e le complessità della propria configurazione eterogenea con la ripetizione dell’identità di ciò che è uguale. Districando i nodi di quel discorso monotetico e liberandoci dalle sue rigide norme, emerge un quadro ulteriore, più aperto, discontinuo e storico. Mentre nei versi metropolitani di Aimé Césaire il caso è decisamente più sottile, le nette caratteristiche di négritude degli scritti di Léopold Sédar Senghor, per esempio, per quanto potente e Il nativismo, purtroppo, rafforza la distinzione rivalutando la parte più debole o sottomessa. E non di rado ha portato ad affermazioni avvincenti, ma spesso demagogiche, su un passato, una storia o una realtà nativa che sembra affrancata non solo dal colonizzatore ma persino dal tempo terreno… accettare il nativismo significa accettare troppo di buon grado le conseguenze dell’imperialismo, accettare le radicali divisioni religiose e politiche imposte a paesi come l’Irlanda, l’India, il Libano e la Palestina dall’imperialismo stesso (Said 1990b, p. 38). L’abbandono di tale prospettiva ci porta a riconoscere un contesto postcoloniale e posteuropeo in cui le differenze storiche e culturali, sia pur con ritmi diversi, sono contemporanee, legate a un tempo comune. “La comunicazione, in definitiva, riguarda la creazione di un Tempo condiviso” (Fabian 1983, p. 38). Riconoscere questo spazio condiviso, anche se occupato in modo disuguale, significa negare la distanza temporale (e teleologica) tra “primitivismo” e “progresso” che ha costantemente giustificato tanto del capitale intellettuale, politico e culturale investito nel modello centro-periferia di cultura e storia. Contestare la geografia morale delle tassonomie occidentali, orientandosi con bussole laiche oppure religiose, ha consentito di spostare all’esterno il male relegandolo nelle periferie “selvagge” e “pagane” del mondo. Poi, in un’immagine inversa, in tempi più recenti questo gesto imperioso 87 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? intenso l’appello che lanciano, rispecchiano in maniera curiosa gli stereotipi carichi di pregiudizi dell’Europa. Questo “altro” nero adottato volutamente è un’ulteriore conferma della posizione che ai neri era già prescritta e rafforza l’opposizione binaria tra una realtà nera completamente a sé stante e quella del mondo bianco, quasi la storia degli ultimi quattrocento anni non avesse avuto un impatto profondo su tutte le culture e sul loro eterogeneo senso di identità. La logica binaria dell’imperialismo (e del pensiero occidentale) viene continuata ed estesa mediante la riproduzione di strutture dominanti in linguaggi subordinati, ricreando in tal modo i meccanismi gerarchici con cui sono stati collocati al loro posto in origine gli indigeni: 88 Paesaggi migratori Iain Chambers si è allargato a comprendere, dall’interno del riconosciuto degrado del presente metropolitano, il rimpianto per la cultura incontaminata dei primitivi, ovvero del passato, dell’altrove. Che cosa significa allora esattamente la decolonizzazione della cultura? Il recupero di una cultura essenziale esistita prima del momento storico della colonizzazione, o l’idea di accogliere storie diverse in un presente complesso e sincretico composto di trasfigurazioni interculturali? Esiste davvero la possibilità di tornare a uno stato “autentico”, o non siamo forse tutti in qualche modo prigionieri di una rete interattiva di cui non vedremo mai la fine, in cui sia formazioni subalterne sia poteri istituzionali sono soggetti a interruzione, trasgressione, frammentazione e trasformazione? Così, se la nozione di autenticità è stata innegabilmente basilare per tutta questa discussione, a questo punto possiamo forse incominciare a prendere atto anche del suo svanire. Ritornare – nel senso di fare un ritorno completo e definitivo – anziché semplicemente ri-visitare o ri-vedere le radici africane, caraibiche o indiane alla ricerca di un’autenticità esiliata e dispersa, oggi sembra poco fattibile. Paradossalmente la missione impossibile che si propone di salvaguardare la singolarità di una cultura deve negare il proprio elemento di base: la propria dinamica storica. Il postcolonialismo è forse il sintomo di una maggiore consapevolezza del fatto che non è possibile sottrarre una cultura, una storia, un linguaggio, un’identità dalle più ampie correnti di trasformazione di un mondo sempre più metropolitano. È impossibile tornare di nuovo a “casa”, perché significa trovarsi soggetti a reti sempre più vaste e complesse di negoziazione e interazione culturale in cui, per esempio: le donne immigrate sono soggette alla duplice articolazione di discorsi di differenza culturale e di società patriarcale. Ciò rende più interessanti i loro tentativi di negoziare la propria individualità nella vita quotidiana, e forse anche più significativi delle contraddizioni con cui viene rappresentata e vissuta l’esperienza della subalternità (Ganguly 1992, p. 38). 89 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? Questa sarebbe la traiettoria splendidamente rappresentata nel film di Mira Nair Mississippi Masala (1991). Qui, nel mondo postcoloniale, la freccia del tempo, della linearità, della nazione e dell’identità, insieme al “progresso” della storia occidentale, viene deviata verso spazi diversi che scompigliano il singolo racconto durante il suo svolgimento, introducendovi una molteplicità di siti di lingua, racconto e storie, al maschile e al femminile, nonché un’eteronomia di impulsi diversi. L’individuazione astratta del tempo in categorie logiche e strumentali viene messa in discussione da chi rifiuta di adottarla e sceglie invece di adattarla cercando i propri assi di orientamento personali (Gabriel 1988). L’interruzione in questa comprensione del tempo e il suo tradursi in un luogo particolare ci porta a riconoscere la specificità storica e culturale di un discorso sul valore dalle apparenze così universali come quello rappresentato dall’autorità estetica (e morale) della “Grande Tradizione” della letteratura inglese. Stretto tra la nascita di una lingua della stampa nazionale laica, una letteratura nazionale e il moderno stato-nazione, il fulcro che attraeva così le lettere e l’identità nazionale si è trovato esposto brutalmente alla contingenza. Anch’esso è suscettibile di dis-locazione e dispersione e ciò rivela un altro significato della parola “inglese” pronunciata sull’“altro” versante della modernità, dove si sta creando qualcosa che va al di là della tensione tra radici bucoliche e fede nell’ulteriore inevitabilità del “progresso”, per affrontare le interruzioni violente delle diaspore forzate, delle migrazioni indotte e del razzismo. Oltre l’orizzonte campanilista del centro metropolitano e dello stato-nazione, sono spuntate le “decine di particolarità che erano state congelate dal dominio straniero” (Naipaul 1990, p. 6) e, con esse, potenti tropi della modernità quali migrazione, spostamento, dislocamento e identità composite e cosmopolite. A questo punto “inglese” diventa un continuum di intersezioni, incontri e dialogo, un palinsesto che accentua i poteri dell’impurità. La lingua diventa scena di tracce, di quei posti immediati – o autenticità locali, se preferite – per cui non esiste parola finale né stato metafisico. Questo rifiuto di una visione monocentrica ed etnocentrica di letteratura, cultura, storia, religione, musica, identità e lingua porta inevitabilmente allo smantellamento di un centro evidente che regoli queste variazioni. Ma nello stesso tempo non prevede la possibilità che l’“indigeno” (sia esso bianco e inglese o nero e giamaicano) torni a “casa” verso uno stato “puro” o “autentico”. Iain Chambers Paesaggi migratori 90 Passaggi culturali e la poetica del luogo Si deve forgiare, in maniera assai paradossale, dall’“interno”, a partire da elementi dello stesso sistema di rappresentazione che cerca di superare. Sarat Maharaj (1991, p. 85) Così, se vuoi proprio ferirmi, parla male della mia lingua. L’identità etnica è tutt’uno con l’identità linguistica: io sono la mia lingua. Finché non posso essere fiera della mia lingua, non posso essere fiera di me. Finché non posso accettare come legittime il chicano texas, lo spagnolo, il tex-mex e tutte le altre lingue che parlo, non posso accettare la mia legittimità. Finché non sarò libera di usare una scrittura bilingue e di passare da un codice linguistico all’altro senza dover sempre tradurre, finché sarò costretta a parlare inglese o spagnolo quando preferirei parlare spanglese e fintantoché sarò io a dover favorire quelli che parlano inglese anziché loro a dover favorire me, la mia lingua resterà illegittima. Gloria Anzaldúa (1990, p. 207) Questo ci porta alla prospettiva di ripensare la logica binaria che sta alla base di tanta parte del dibattito sull’imperialismo e sulla figura centro-periferia che tende a usare. Ciò cui stiamo assistendo nell’inglese – sia esso lingua, letteratura, storia, Non sono d’accordo con l’idea che la problematica dell’interazione tra il particolare e l’universale sia caratteristica solo del capitalismo. Vorrei anzi affermare che la diffusione differenziale del capitalismo può essere in parte spiegata in termini di adattamento all’“elaborazione” storica di tale problematica. Né sono d’accordo con l’argomentazione che, in senso esplicativo, si possa far risalire direttamente il nesso contemporaneo tra queste due disposizioni al capitalismo della fine del ventesimo secolo (quale che sia il modo in cui lo si definisce). Direi piuttosto che il capitalismo globale consumista dei nostri tempi si nasconde nella sempre più tematizzata relazione particolare-universale in termini di rapporto tra un’offerta globale e universalistica e una domanda locale e particolaristica. Il mercato contemporaneo comporta quindi una sempre maggiore compenetrazione di cultura ed economia: il che non equivale a sostenere, come tende a fare Fredric Jameson, che la produzione di cultura è governata dalla “logica” del “tardo” capitalismo. 91 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? identità – fa parte di un più vasto processo di dislocazione e decentramento in cui città come Londra, Parigi, New York e Los Angeles rimangono centri nella misura in cui diventano multi-centri di storie, culture, memorie ed esperienze diverse. Nello stesso tempo devono confrontarsi sempre più con quelle che sono città più “tipiche”, il Cairo, Bombay, Città del Messico, Lagos, Shanghai, San Paolo, dove la cultura occidentale viene tradotta, adattata e rielaborata per contesti e circostanze locali e, talvolta, ritrasmessa alle sue apparenti “origini” in Occidente. Questo suggerisce, nelle parole altamente suggestive del critico James Clifford (1989, p. 179), “una nuova caratterizzazione dell’‘Occidenté come luogo di potere e contestazione in corso, di centralità e dispersione”. È chiaro che questo viaggiare della cultura non influisce solo sulla teoria. Inizialmente viene vissuto, assorbito ed elaborato nella cultura secolare di tutti i giorni. Sembrerebbe opportuno quindi esaminare questa situazione esplorando il vernacolo metropolitano. Io ho scelto di prendere in considerazione un aspetto della musica popolare. Prima di cominciare, però, vorrei fare una premessa citando Roland Robertson (1991, p. 74): 92 Paesaggi migratori Iain Chambers Il rock degli anni Ottanta e Novanta è chiaramente la musica di un’egemonia affermata, prevalentemente angloamericana. Non solo riempie radio, televisione, club, ristoranti, bar e discoteche, ma ci accompagna nel nostro lavoro, a far compere e durante i viaggi. È la colonna sonora del nostro tempo. Ma si tratta di un’egemonia che, nello stesso tempo, ha creato le condizioni per la nascita di una rete musicale internazionale che ha poi incoraggiato la proliferazione e l’emergere di altre voci ai margini. Sulla scia di questi sviluppi, sulla mappa della musica possono emergere traiettorie sorprendenti, che danno vita a storia di influenze inaspettate e combinazioni strane. Nei primi anni Ottanta, per esempio, certi pezzi di disco music italiani come Not Love dei Trilogy, I Need Love dei Capricorn e Brainwashed dei Telex venivano ripresi a Chicago da deejay neri come Farley Jackmaster Funk che li missavano elettronicamente con la musica house locale. In seguito, attraverso la stazione telegrafica della moda metropolitana e la perenne richiesta di novità da discoteca, la musica house è tornata in Italia e, dopo ulteriori remissaggi mediterranei, è stata spedita a trovare il successo nelle feste rave inglesi. Una storia analoga si potrebbe scrivere anche riguardo all’impatto internazionale del rap e alla sua efficace traslazione in scenari urbani che inizialmente paiono non avere nulla a che fare con il clima culturale ed etnico di New York o Los Angeles. A questo punto dalla storia recente della musica della cosiddetta periferia, del Terzo Mondo, sorge un ulteriore punto di contatto: il fenemeno della world music. Queste musiche, provenienti da regioni diverse del mondo, possono essere viste non semplicemente come una manovra commerciale diretta dal centro, l’ultima “scoperta” dell’industria discografica, ma anche come rappresentative di uno spostamento culturale e storico che mette in discussione la natura stessa della distinzione tra centro e periferia. Questo suggerisce una rottura rispetto alla causalità unilaterale, all’economicismo e al positivismo politico che ha teso a dominare il dibattito sull’imperialismo culturale e sul neocolonialismo, e che invariabilmente dà per scontato che “l’economia determina le gerarchie culturali” (Kapur, p. 10). Potremmo chie- costui non può permettere, politicamente, di accettare le “verità” fornite dalla storia coloniale, perché è una storia scritta dagli oppressori del Primo Mondo; né esiste più alcun discorso, o posizione intellettuale, indigeno, originale, data la storia e l’impatto del colonialismo sui colonizzati e dato che il Terzo Mondo è ormai un effetto e una proiezione del Primo Mondo. Il problema è: come parlare una lingua del colonizzatore che ciononostante rappresenti gli interessi e le posizioni dei colonizzati? Se i subalterni possono parlare, quale lingua è in grado di esprimere, di rappresentare adeguatamente o dar voce alla loro posizione? (Grosz 1990, p. 78). È una storia che fa parte della mia storia e nello stesso tempo non è riducibile a essa. Più semplicemente, partendo dalla mia partecipazione alla questione, cercherò di suggerire un’economia culturale musicale capace di iniziare ad affrontare un’etica della differenza, nella speranza che questo possa ispirarci un modo proficuo per superare polarità e posiziona- 93 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? derci non solo quale verità riveli la metafora spaziale centro-periferia, ma anche quale particolare disposizione di conoscenza e poteri nasconda, il che significa riaprire quello spazio, ripensare vecchie indicazioni e formulare nuove domande. Uno dei modi per farlo consiste nel cogliere l’occasione data dalla frattura nella colonna sonora, dall’apertura nel ritmo, suggeriti dalla promozione e distribuzione di world music in culture e città occidentali. Inizialmente indicata nell’impero del rock metropolitano dalla musica di gruppi come i Talking Heads (New York) e i Dissidenten (Berlino), questa porta è stata aperta con maggiore decisione dalla popolarità trapiantata del reggae e dei ritmi latini negli anni Settanta e Ottanta. Poi, quella che un tempo si poteva considerare l’estensione dell’asse musicale nord-atlantico fino a includere alcune musiche caraibiche e latinoamericane, viene ulteriormente allargata fino ad abbracciare sonorità potenzialmente globali e spazia dal tango moderno di Buenos Aires alle fusioni ricavate dal liuto tradizionale arabo, lo oud, da Rabih Abou-Khalid. Scrivere la storia della world music significa affrontare lo stesso dilemma affrontato dall’intellettuale del Terzo Mondo: 94 Paesaggi migratori Iain Chambers menti astratti relativi alla distinzione e linea di demarcazione centro-periferia. Youssou N’Dour e Ruichi Sakamoto che suonano insieme a New York; Cheb Khaled in Place de la Bastille a Parigi; Les Têtes Brûlées a Napoli: sono semplicemente esempi del saccheggio compiuto dal centro ai danni della periferia, portandosi a casa suoni esotici dai margini dell’Impero? Stiamo solo assistendo passivamente all’imposizione delle istituzioni e organizzazioni delle strutture del capitale su nuovi territori, al trionfo definitivo dei beni di consumo che prendono possesso delle nostre orecchie? O è in gioco anche qualcosa di più sottile e di più complesso? Questa seconda prospettiva implica la necessità di superare i limiti di un semplice dualismo e pensare in termini dei grandi effetti di differenze storiche e culturali che vengono sempre più attratte nel quadro contemporaneo di un tempo comune. Questo equivarrebbe a suggerire che i suoni della world music non fungono semplicemente da stereotipo dell’“altro” che conferma e chiude il cerchio dell’identificazione etnocentrica, abbellimento esotico necessario per rinnovare la colonna sonora rock, ma che offrono anche alle differenze musicali e culturali uno spazio in cui emergere in modo tale che ogni ovvia identificazione con l’ordine egemonico, o con una logica di mercato che si presume monolitica, risulti indebolita e scossa dai contatti mutevoli e contingenti degli incontri musicali e culturali. Questo rappresenta un esempio di conversazione musicale e culturale in cui i margini possono rivalutare il centro superandone nello stesso tempo la logica. È questa strutturazione complessa e asimmetrica del potere che si maschera sotto le semplici gerarchie imposte dalla distinzione centro-periferia. Inoltre le condizioni stesse in cui avvengono questi incontri, favoriti dalla riproduzione elettronica simultanea dello stesso suono in più ubicazioni e contesti, scuotono le gerarchie esistenti, che si allargano dal centro verso la periferia. Sconvolgono lo storicismo limitato delle cronologie preesistenti. Per esempio, posso prendere il “Nord Africa” come tema musicale e, risalendo all’indietro nel tempo, ascoltare nell’ordine la musica etno-beat di ispirazione africana dei Dissidenten 95 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? (Berlino) e dei Kunsertu (Sicilia), un esempio di musica raï contemporanea di Algeri cantata da Chaba Fadela, un pezzo tradizionale per liuto arabo del Maghreb, concludendo in un locale folk di Soho a Londra alla metà degli anni Sessanta, dove ascoltai per la prima volta questa possibilità dalle note della chitarra di Davey Graham. Tuttavia questa non è necessariamente una ricostruzione storica volta a recuperare vecchi itinerari di migrazioni musicali e formazioni culturali, che si tratti dell’iconoclastia della controcultura degli anni Sessanta o del più antico passaggio musicale tra Africa ed Europa consentito un tempo dalla cultura araba. Né si tratta di una ricerca di portata puramente autobiografica; comporta qualcosa di più di un viaggio all’indietro nel tempo. Ricostruendo momenti storici nello spazio di un linguaggio apparentemente condiviso vediamo come la musica raï, per esempio, venga trasformata e trasferita in luoghi culturali e storici diversi, in modi diversi di abitarla e di identificarsi con essa. I suoni passano per luoghi diversi. Così la raï; una musica urbana originariamente legata alla cultura femminile algerina, e in particolare del porto di Orano, adesso è minacciata dal fondamentalismo islamico locale mentre, sull’altra sponda del Mediterraneo, viene promossa come genere prevalentemente maschile fra le diaspore degli immigrati e il pubblico metropolitano. Queste storie particolari sono collegate e scollegate, riprese e rese possibili dal fatto che queste musiche diventano possibilità contemporanee e confinanti, si muovono a ritmi diversi, si sovrappongono nei contesti e nelle contaminazioni rese possibili dalla riproduzione elettronica. Stiamo parlando di una sorta di movimento trasversale in cui regioni e ragioni una volta separate vengono messe a contatto. Questo sottolinea ulteriormente l’instabilità e la contingenza dell’idea di autenticità nel mondo moderno del nomadismo musicale e culturale. Il medium internazionale della riproduzione musicale sottolinea “una nuova epoca di contatto culturale globale” (Wollen 1990, p. 43). Il movimento e la mobilità moderni, sia sotto forma di migrazione, che di media o di turismo, hanno trasformato radicalmente la produzione e il pubblico della musi- 96 Paesaggi migratori Iain Chambers ca e hanno intensificato i contatti culturali. Si sostiene da più parti che ciò ha portato a un inevitabile appiattimento del globo, ormai ridotto a un unico ordine economico e culturale, ma, a parte l’ingenuo determinismo di una simile affermazione, il verdetto è smentito da particolari concreti. Nell’Africa occidentale, in Senegal, Youssou N’Dour continua a produrre cassette pirata destinate ai mercati locali del Senegal e del Gambia e contemporaneamente distribuite nel resto del mondo (perlomeno fino a poco tempo fa) in formato CD dalla Virgin. Pubblici diversi, mercati diversi, canali di distribuzione diversi, a volte missaggi e suoni diversi, sono queste le impronte culturali della differenza. E, riecheggiando Jacques Derrida, queste differenze rappresentano tanto distinzioni reali quanto l’impossibilità di arrestare il senso di queste differenze in uno qualsiasi di questi luoghi. La musica di Youssou N’Dour segna la differenza e ne è a sua volta segnata e rinvia la possibilità di un senso non equivoco. Un tale decentramento, il conseguente frazionamento e disfacimento del dualismo centro-periferia e, con esso, dei relativi poli di “falsità” e “autenticità”, invariabilmente ci portano altrove. Come minimo, “vedere gli Altri non come ontologicamente dati, ma come storicamente costituiti vorrebbe dire intaccare i pregiudizi esclusivi che tanto spesso attribuiamo alle culture, non ultima la nostra” (Said 1989, p. 225). A proposito della condizione postcoloniale, Kwame Anthony Appiah (1991, p. 353) scrive: “il prefisso ‘post’, come nel postmodernismo, è un ‘post’ che mette in discussione i precedenti racconti legittimanti”. Al di là dello schema della sopraffazione economica e del monopolio culturale, potremmo cominciare a pensare in termini di contaminazione e ibridismo nella circolazione delle culture, mutazioni che portano ad allargamenti e configurazioni inaspettate; una serie di scambi multilaterali, per quanto ineguali e asimmetrici, in cui per esempio non esiste nessuna “Africa” intatta, “autentica” e incontaminata: in alcune opere postcoloniali c’è un chiaro senso del fatto che postulare un’Africa unitaria contrapposta a un Occidente monolitico – il La persona che conosce ha tutti i problemi del sé. La persona che è conosciuta in qualche modo sembra non avere un sé problematico. Oggi sembra che l’ordine del giorno sia lo stesso: solo il sé dominante può essere problematico; il sé dell’Altro è autentico senza problemi, naturalmente aperto a tutti i tipi di complicazioni. Tutto questo è molto spaventoso. Rifiutare i meccanismi di questo binarismo e le sue tecniche e tecnologie per smistare e quindi posizionare culture, arti e… individui e scegliere di muoversi nel traffico tra questi mondi, tra le scene, i suoni e le lingue dell’ibridismo, dove non c’è né la stabilità dell’“autentico” né il falso, non significa che non ci siano reali differenze di esperienza, cultura, storia e potere. Ma parlare di differenze, anche radicali e incommensurabili, in termi- Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? Ancora una volta, questo comporta un inevitabile indebolimento di qualsiasi interpretazione astratta dell’idea di autenticità. Il concetto dell’altro puro e incontaminato, sia come individuo sia come cultura, è stato decisivo per la critica e la condanna anticapitalista dell’economia culturale dell’Occidente nel mondo moderno. Questa prospettiva ha a sua volta evocato una sua forma subdola di razzismo con l’identificazione da parte dell’osservatore privilegiato occidentale di quello che dovrebbe (altro desiderio e imperativo etnocentrico) costituire la vera cultura e l’autenticità dell’indigeno. Ma chi definisce l’autenticità a questo punto? Ancora una volta si parla a nome dell’osservato, dell’altro, gli si assegna una posizione e in tal modo lo si riproduce sotto forma di differenza addomesticata all’interno dell’ordine occidentale del mondo. L’altro non ha voce, non è autorizzato a parlare o a definire il proprio senso dell’essere (ovvero autenticità) nelle condizioni contemporanee dell’esistenza. Questo rapporto, così fondamentale nella riproduzione di un senso occidentale della conoscenza e del sé, è stato quanto mai drammaticamente espresso da Gayatri Chakravorty Spivak (1990b, p. 66): 97 binarismo del Sé e dell’Altro – è l’ultima delle parole d’ordine dei modernizzatori di cui dobbiamo imparare a fare a meno (p. 354). 98 Paesaggi migratori Iain Chambers ni economici, politici e culturali, e del loro concretizzarsi nell’etnicità, nell’identità sessuale e nella sessualità, significa parlare della formazione di identità in movimento, sottoposte a, e immerse in, processi. Parlare di autenticità ha sempre implicato riferimenti alla tradizione come a un elemento di chiusura e conservazione, quasi popoli e culture esistessero al di fuori dei linguaggi del tempo. Parlare di autenticità significa coglierli nella prospettiva antropologica, dove vengono tenuti in isolamento e a una “distanza critica”, quasi fossero esenti da movimento, da trasformazione e dallo scompiglio rappresentato dall’antropologo: l’Occidente. Parlando di autenticità si è rifiutata l’interpretazione di una formazione contingente in cui una tradizione, una storia, una lingua possono diventare un “elemento di libertà” (Gadamer 1983), un momento di ridefinizione attiva, che apre il mondo a nuove rivendicazioni sul proprio destino. Scopriamo che non c’è modo per recuperare il non equivoco, “nessuno spazio per un tale assolutismo del puro e dell’autentico” (Morley, Robins 1990, p. 20). Forse possiamo ispirarci ai musicisti e artisti del cosiddetto Terzo Mondo, costretti a una continua riedificazione della propria identità in movimento tra mondi diversi, e cominciare ad accarezzare l’idea che “spaesatezza” e migrazione siano la condizione irrevocabile della cultura mondiale. Questo serve a sottolineare una distinzione fondamentale tra musica in quanto luogo presunto dell’“autenticità”, con la relativa chiusura della comunità e un’“identità” preconfezionata, e musica come fonte di differenza, dove unicità ed etnocentricità sono costantemente contestate e negate. Tutto questo porta a pensare che forse non serve più parlare soltanto in termini di conflitto tra blocchi di potere culturale, tra egemonia imperialista e movimenti subalterni, o ridurre il giudizio critico alla moralità delle “autenticità” minacciate, della cooptazione e del tradimento degli ideali. Significa, se mai, parlare di una “politica di trasfigurazioni” (Gilroy 1990), di “insiemi atonali” (Said 1990c), e di un’etica della differenza in cui suoni, lingue, sintassi, materiali e istituzioni comuni sono occupati e articolati in direzioni diverse. Se la musica rock è un linguaggio e un’istituzione globale, un mezzo di comunicazione, si trova in un rappor- Il “Terzo Mondo” sta cambiando rapidamente in molti modi diversi. È sempre stato un concetto ibrido in cui sono stati ammassati molti tipi radicalmente diversi di società e di cultura e, quando i rapporti tra il nucleo e la periferia cominceranno a cambiare e prenderà forma un nuovo sistema mondiale, aprirà ancora nuovi campi di differenza. All’interno delle periferie le culture cambieranno a ritmi diversi e in direzioni diverse. Tuttavia, possiamo star certi che questi cambiamenti si verificheranno lungo il triplice asse di migrazione, urbanizzazione e contatto culturale. La scelta tra un nazionalismo autentico e una modernità omogeneizzante sarà sempre più fuori moda. Le questioni relative all’identità culturale, sia nel nucleo sia nelle periferie, si fanno più complesse man mano che cominciamo a capire che non esiste un modello unico di cultura composita o ibrida, ma molte possibilità diverse. Un vantaggio del paradigma linguistico – creolo, vernacolo, esperanto, eccetera – è che ci può dare un senso preciso della gamma di opzioni disponibili (Wollen 1990, p. 57). Questo mi riporta all’egemonia della musica rock e al presunto deserto dell’omogeneità. Dopo tutto, Simon Frith (1988) ci comunica che il rock è morto, e io sono abbastanza d’accordo. Pure, se il rock bianco e angloamericano sembra essere inciampato nel- 99 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? to analogo rispetto ad altri linguaggi terreni, offrendo sia una grammatica e una rete comune, sia una sintassi storico-culturale mutevole, in cui i significati sono contingenti e le identità contestualizzate. È nello stesso tempo dotazione comune e differenziata. È un materiale che viene abitato e marchiato in modi diversi: viene riscritto, diventa il posto di qualcun altro, l’iscrizione di qualcun altro. Questo non significa negare le vere differenze esistenti nel potere che incontriamo nei processi di globalizzazione in cui il mondo cosiddetto avanzato continua a produrre il “Terzo Mondo” come conseguenza necessaria del fatto che ha bisogno di aree di sottosviluppo per garantire il proprio sviluppo. Né significa ignorare le sconfitte brutali e i vicoli ciechi, oppure il fatto che qui non tutti trovano una voce o uno spazio. Ma significa ugualmente insistere su questa apertura, dove il razionalismo universale che la globalizzazione finge di raggiungere viene interrotto e balbetta in inflessioni e dispersione locale. 100 Paesaggi migratori Iain Chambers la Valle della Morte e non può fare altro che provare e riprovare l’estetica della propria scomparsa, per altri il suo esaurimento potrebbe segnare un nuovo inizio. Se, come ama ricordarci Jean Baudrillard, il deserto è il luogo della vuota ripetizione di significati morti e segni abbandonati, è anche il luogo dell’infinito: un eccesso, come sostiene Emmanuel Lévinas, che permette agli altri di esistere, che permette agli altri di esistere indipendentemente da noi e senza essere a noi ricondotti (Lévinas 1961). Così la metafora occidentale del vuoto e dell’esaurimento – il deserto – forse detiene anche la chiave dell’irruzione di altre possibilità, il continuo rinvio e l’ambiguità di senso impliciti nel viaggio di suoni e persone che vengono da altrove, ma che ormai si muovono in un paesaggio che anche noi riconosciamo e abitiamo: la modernità o la postmodernità, il capitalismo avanzato, le industrie e le reti di comunicazioni transnazionali, la città, la fine del millennio. Per tornare all’interrogativo iniziale, si tratta forse dell’ennesimo esempio di esproprio della periferia da parte del centro, o c’è qualcosa di più? In altre parole, siamo ancora presi in storie periferiche che ora vengono recuperate dal pubblico delle metropoli e un attimo dopo sono già dimenticate, o è in scena un movimento di decentramento storico in cui l’asse stesso del centro e della periferia, con il suo traffico economico, politico e culturale, comincia a essere messo in discussione da altrove, da altri posti e altre posizioni? Non è forse possibile intravedere infatti nelle contaminazioni musicali, nelle lingue ibride e nelle mescolanze culturali più recenti un’apertura verso altri mondi, esperienze, storie, in cui non solo l’“Impero scrive ancora al centro”, come dice Salman Rushdie, ma “gliele canta”? Non c’è in tutto questo, a parte l’ovvio potere economico che consente al mondo occidentale di distribuire e commercializzare queste musiche, quel romanzo, queste parole, quelle storie, un poetico rivoltarsi e ribellarsi a se stesso del linguaggio, che mina costantemente le pretese di egemonia sulla realtà e “semina la distruzione sul Significato” (Gates 1989, p. 238); in altre parole, un’ulteriore dimostrazione dell’esistenza di ciò che Gloria Anzaldúa chiama una “lingua di confine”, dove il linguaggio viene usato per infrangere la legge e risulta in una “critica dell’impero costantemente codifi- 101 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? cata sul momento”? (Pratt 1992, p. 2). Nel passare a un ritmo diverso in un rovesciamento della storia coloniale, la lingua del padrone si trasforma in creolo, nell’allitterazione immediata dell’idioletto di gruppo e in tutte le varietà del rimodellamento culturale locale. Il risultato è un’arte ibrida che confuta e confonde le precedenti suddivisioni in categorie mediante una miscela vernacola di lingue che prima erano separate da distinzioni estetiche, sociali e geografiche, opportunamente sintetizzata nello pseudonimo dell’artista nigeriano Middle Art. In questa decostruzione della lingua e delle sue tecnologie, in queste lacune, in questi varchi aperti nella prosa, nelle fratture del suono, emergono altri strumenti e altri significati: quelle differenze che rendono possibile il processo del rinvio e la dispersione e redistribuzione dei poteri, dell’autorità, di centro e periferia. Nel replay culturale, nella ripetizione storica, c’è un’apertura verso un altrove. Ci stiamo, muovendo infatti nella sfera dell’enunciazione e nella sua storia performativa, il luogo del parlare culturale. Sono la storia e i contesti mutevoli dell’uso delle lingue culturali, piuttosto che considerazioni astratte sulla relativa grammatica e sintassi, ad aprire lo spazio di altre memorie, altri ritmi, altri lessici. In questi discorsi pasticciati e irrisolti, in cui il parlare è il luogo dell’individuazione, il rapporto tra lingua e significato non è più metafisico, quasi fosse controllato e ordito dalle categorie astratte di “Storia”, “inglese”, “industria culturale”, “capitale” o “Occidente”. Non siamo più di fronte alla chiusura – l’unica versione autorizzata degli eventi – ma all’apertura e interrogazione continua di queste categorie e al loro costante trasferimento al di là di confini e limiti presunti. Grammatiche e sintassi che parevano condivise sono differenziate, smontate, disperse, indebolite e diffuse nello stesso tempo. Non c’è più una presenza “originale” a dar loro un fondamento in una presunta “autenticità”, fonte stabile o “identità originaria, olistica, organica” fissa (Bhabha 1990b, p. 210). Nello spazio di questa “terza cultura, né indigena né bianca” (Gregory Bateson in Thomas 1992, p. 19) la norma, la voce dell’autorità, del patriarca, dell’Occidente viene rinviata e decentrata. Riconoscere questo “raddoppiamento della modernità” (Homi Bhabha) non significa dire che adesso tutto è lo stesso: io e te 102 Paesaggi migratori Iain Chambers possiamo condividere le lingue della rappresentazione, ma la tua storia, la tua esperienza non si può semplicemente sostituire alla mia. Ognuno di noi è segnato in maniera diversa e contiene elementi (linguistici, religiosi, culturali, storici) impossibili da rendere nella trasparenza di un senso comune. Nel successivo dialogo della differenza il senso che abbiamo l’uno dell’altro si sposta ed entrambi ne usciamo modificati. Questo apre un movimento che va oltre l’etnocentrismo, apre la strada a una “prassi di percezione rappresentativa che presuppone la reciproca embricatura di ‘noi’ e ‘loro’” (Ganguly 1992, p. 27). Quelli che prima erano margini – etnici e sessuali – ora si ripresentano al centro. Non più limitate alla categoria di “questione speciale” (per esempio la “questione razziale”) o di “problema” (per esempio “minoranze etniche”, oppure “devianza sessuale”), queste differenze assumono un ruolo centrale nel nostro senso del tempo, del luogo e dell’identità. In questo contesto pensare al potere, lottare per trovare una voce, per essere rappresentati (sia politicamente sia storicamente) non comporta una lotta tra blocchi separati o realtà distinte, in cui questi margini e queste alternative, ciascuno con un senso chiaro e pieno della propria identità, incalzano il centro. Qui non ci troviamo necessariamente di fronte a un contro-discorso che contrappone argomento ad argomento, posizione a posizione, quanto a uno sbandamento e a una dispersione continua dei termini che pretendono di rappresentare noi, loro e la realtà. Le identificazioni dichiarate vengono esaminate nella loro ambivalenza, permettendo in tal modo l’irruzione insospettata di perturbazioni storiche e culturali. Questo significa tratteggiare qualcosa che emerge, e continua a emergere, nell’eterno processo di identità e identificazione con le possibilità del mondo. In contrapposizione con le metafore di guerra – strategie, tattiche, manovre, posizioni – è la metafora in sé a prevalere, cioè gli indefiniti poteri di trasformazione della lingua e il suo diritto di significare e nominare. Passiamo dalla politica dei margini a quella della differenza: un movimento che rovescia il precedente asse potere/sapere, quello che un tempo collocava e pretendeva di spiegare fino in fondo i margini, la periferia, gli “altri”. 1 “L’antropologia è quell’analisi dell’uomo che, in fondo, già sa ciò che l’uomo è, e quindi non può porsi il problema di che cosa esso sia. Se si ponesse questo problema, essa dovrebbe infatti riconoscersi rovesciata e oltrepassata. Ma come si potrà esigere questo dall’antropologia, quando essa non si propone altro che l’assicurazione dell’autocertezza del subjectum?” (Heidegger 1952, p. 98). 103 Il mondo in frantumi: di chi il centro, di chi la periferia? Qui “nero” può essere un termine di identificazione politica e culturale fra gruppi diversi di ascendenza caraibica, africana e asiatica, facente parte di un campo comune di rappresentazioni, anziché usato per riferirsi a se stessi come categoria biologica o blocco razziale. Come sottolinea Paul Gilroy (1992, p. 50), non abbiamo a che fare con un “assolutismo etnico”, ma con qualcosa che “va visto in maniera molto più contingente, come costruzione discorsiva precaria”. Esso indica infatti un passaggio culturale e storico che fornisce la flessibile “ubicazione della trasformazione dell’autoidentità etnica” (Seghal 1991, p. 84). Qui essere “nero” raddoppia il segno iniziale per proporre uno spazio supplementare, decentrato, che continua a segnalare la differenza e nello stesso tempo rinvia, procrastina qualsiasi significato definitivo. Ma per il momento concluderò su un tono leggermente diverso. Nel film I’m British But… di Gurinder Chadha (1988) c’è una rielaborazione suggestiva della questione centro-periferia nel contesto della musica pop e della cultura giovanile metropolitana. Su un tetto di Southall, a Londra, un gruppo di musicisti angloasiatici suona una canzone in stile Bhangra: un ritmo composto di musica folk del Punjab, colonne sonore del cinema di Bombay e discomusic occidentale (ibridato poi con le metropoli nere di New York e Los Angeles nel rap Bhangra). Si lamenta dell’esilio dal Punjab mentre giù, per la strada, altri cittadini britannici di ascendenza asiatica lo osservano e, in qualche caso, ballano al ritmo della musica. In questa replica di una scena di vent’anni prima – i Beatles che suonavano Get Back sul tetto degli uffici della Apple – lo stereotipo occidentale è imitato e traslato con grande efficacia in un senso diversissimo di storia, di identità, di centro. Capitolo quinto Città senza mappe Città senza mappe La città, la metropoli contemporanea, è per molti la metafora preferita dell’esperienza del mondo moderno. Con i suoi dettagli quotidiani, il suo misto di storie, lingue e culture, il suo insieme di tendenze globali e distinzioni locali, la figura della città, come luogo sia reale sia immaginario, sembra costituire una mappa di pronta lettura, interpretazione e comprensione. Pure l’idea stessa di mappa, che per definizione si basa sul rilevamento di un terreno stabile, su termini di riferimento e misure fisse, sembra contraddire la fluidità e il flusso palpabile della vita metropolitana e del movimento cosmopolita. Spesso si ha bisogno di una mappa per orientarsi in una città, nella sua metropolitana, nelle sue strade. Le mappe sono piene di riferimenti e di indicazioni, ma non sono popolate. Proiettano la mutevole disposizione dello spazio attraverso il tempo storico in una geometria mista di poteri politici, economici e culturali: centro, periferia, sobborghi, zona industriale, area residenziale, case popolari, zona commerciale, stazione ferroviaria, caselli autostradali, aeroporto. Con una mappa in mano possiamo cominciare ad afferrare un profilo, una forma, una sorta di collocazione. Ma questo orientamento preliminare è lungi dall’esaurire la realtà in cui ci troviamo. Infatti le vie spoglie della città, i suoi palazzi, ponti, monumenti, le sue strade e le sue piazze sono anche i siti contestati della memoria storica e forniscono i contesti, le culture, le storie, le lingue, le esperienze, i desideri e le speranze che scorrono nel 105 Raggiungere la “purezza” dello sguardo non è difficile, è impossibile. Walter Benjamin (1982, p. 609) 106 Paesaggi migratori Iain Chambers corpo urbano. I contesti fluttuanti di linguaggi e desideri infrangono la logica della cartografia e traboccano oltre i limiti del suo spazio tabulare, tassonomico. Fuori dai bordi della mappa entriamo nel mondo palpitante di tutti i giorni e nel turbamento della complessità e ci troviamo nella città sessuata, nella città delle etnie, nei territori di gruppi sociali diversi, centri e periferie mobili: la città oggetto fisso di progettazione (architettura, commercio, urbanistica, amministrazione statale) e al tempo stesso plastica e mutevole, sede di transitori eventi, movimenti, memorie. Si tratta perciò anche di uno spazio importante per l’analisi, il pensiero critico e la comprensione. Vorrei quindi riflettere un attimo su questo spazio e sull’occasione che ci offre di riconsiderare la portata e il senso dell’analisi culturale oggi. L’idea di complessità, sia vissuta sia intellettuale, del “pensiero complesso” di Edgar Morin ci trova intenti a girare continuamente intorno a una mutevole ecologia sociale dell’essere e della conoscenza. Qui sia il pensiero sia le attività quotidiane si muovono nel regno dell’incertezza. Certezza e argomentazione lineare crollano quando ci troviamo in orbita in un paradosso perpetuo intorno alla ruota dell’essere: conferiamo senso e tuttavia non possiamo mai essere sicuri delle nostre proclamazioni (Morin 1977). L’idea della complessità culturale, evidenziata nettamente soprattutto negli arabeschi della moderna metropoli – non solo Londra, Pechino e Buenos Aires, ma anche Lagos – indebolisce gli schemi e i paradigmi precedenti, destabilizza e decentra le teorie e le sociologie di un tempo. Alla freccia sottile del tempo progressivo subentra la spirale aperta di collaborazioni e contaminazioni eterogenee e di quelli che Edward Said ha definito “insiemi atonali” (Said 1990c). È una realtà multiforme, eterotopica, diasporica. La città suggerisce un disordine implosivo, talvolta liberatorio, spesso sconcertante, che sfocia in un’interpolazione in cui l’immaginazione ti porta in tutte le direzioni, persino verso quelle in precedenza impensate. Nella dissonanza e nella discussione che sta tra quelle che Donna Haraway chiama “conoscenza situata” e “conoscenza disincarnata” viene perturbata la collocazione stessa della teoria. “Je suis un beur!” Città senza mappe Barbès è il quartiere tradizionale dell’immigrazione araba a Parigi, dove la musica algerina raï e Cheb Khaled sono di casa. Qui è nata la frase “Je suis un beur!”, dove beur non è l’inversione precisa ma se mai una deliberata mescolanza della parola arabe. I beurs sono i francesi nati da genitori arabi. Beur esprime una differenza, una storia e un contesto particolare, un segno di creolizzazione e di ambiguità culturale. C’è anche il rap. BAB (Bombe à Baiser) è un membro della nazione zulu. Fa rap in francese su una base elettronica prodotta dal suo collaboratore italiano, bianco. C’è NTM di St. Denis: “Parliamo a nome nostro”. C’è ABC Nation. I membri, età compresa fra diciassette e vent’anni, vengono dalle Antille francesi, dal Camerun e dal Mali. Portano jeans larghi, berretti da baseball, scarpe da basket e taglio di capelli squadrato: il “look zulu”. Alla periferia nord di Parigi, nelle zone come St. Denis, Aubervilliers, La Corneuve, a tutti i capolinea del métro, c’è “Zululand”. È qui, nelle banlieues populaires, nelle “periferie popolari”, ai margini della città, che vengono mescolati nel reggae, nel raï, nel rap suoni e storie dell’Africa occidentale, delle Antille, del Maghreb, con riferimenti a Martin Luther King, canti di ribellione contro Babilonia e la polizia e in lode di Malcom X (“profeta della rabbia”). Il rap è in francese, con qualche frase in inglese ogni tanto e molte in uno slang subculturale. Fa parte di un mélange che va dal Bronx a Brixton, a Barbès, a Brazzaville. Composto di ritmi connettivi e inflessioni locali, offre esempi di missaggio, remissaggio, traduzione e trasformazione di una tonalità comune in voci e situazioni particolari. Aiuta a esprimere la dissonanza delle esperienze di un tempo e di un posto specifico: essere arabi e francesi, neri e parigini. 107 Se in un primo momento il mercato mondiale sterilizza le fonti autoctone, in un secondo momento le rivitalizza. Edgar Morin (1984, p. 92) Iain Chambers Paesaggi migratori 108 Questi esempi, facilmente confermati da storie parallele ma distinte a Londra o Los Angeles, dove si sente vibrare il Terzo Mondo sotto le linee di povertà dei ghetti metropolitani, non suggeriscono alcuna ovvia integrazione in un consenso culturale esistente né l’annientamento nella corrente prevalente della vita moderna, bensì propongono gli spostamenti, le mescolanze, le contaminazioni, le sperimentazioni, rivisitazioni e ricomposizioni rese possibili e incoraggiate dai più ampi orizzonti e dalle reti interculturali e transculturali della città. Con rabbia, gioia, orgoglio e dolore offrono una testimonianza continua della “magia in cui l’associazione di certi fatti sociali con certi suoni crea simboli irresistibili della trasformazione della realtà sociale” (Marcus 1989, p. 2). In viaggio senza mappe Etica viene da ethos e Heidegger traduce questa parola greca non tanto con “carattere proprio dell’uomo”, ma con “soggiorno”, “luogo in cui si abita”, “regione aperta in cui l’uomo abita”. Pier Aldo Rovatti (1990, p. 39) Essere nello stesso tempo “radicati e senza radici”. Trinh T. Minh-ha (1990, p. 335) La qualità labirintica e contaminata della vita metropolitana non solo porta a nuovi rapporti culturali, ma insidia la presunta purezza del pensiero. Se il pensiero critico può contemplare questo incontro e abbandonare un monologo distaccato a favore del dialogo, allora si piega per entrare nei regimi più vasti del mondo di tutti i giorni e in un registro diverso. Viaggiare in questa zona, senza né mappe né carte, è fare l’esperienza della dislocazione del soggetto intellettuale e del suo dominio – patriarcale – della parola/mondo. Le illusioni di identità organizzate intorno alla voce privilegiata e alla soggettività stabile dell’osservatore la sparizione dell’individuo e del soggetto nella massa; il male della tecnica. Alla fine l’impressione non è quella di essersi avvicinati a una verità, ma a una nevrosi (o alla diagnosi di una nevrosi) (Rella 1989, p. 25). Pure ci sono ancora molti che sono disposti a criticare i mali della cultura di massa e a vedere in essa semplicemente una 109 Città senza mappe “esterno” vengono spezzate e spazzate via con un movimento che non consente più l’ovvia istituzione di un’autoidentità tra pensiero e realtà. In questo momento disgiuntivo l’oggetto dello sguardo intellettuale – le culture e le abitudini dei “nativi” di “territori” locali, nazionali e globali – non può più essere confinato a una carta o mappa ovvia e su di essa liofilizzato come una componente fissa o essenziale del “sapere” (Clifford 1992). Abitare in questo mondo, intellettualmente ed eticamente, individualmente e collettivamente, è, come dice Trinh T. Minh-ha, lottare per continuarne la continuazione (Trinh 1989). Qui, in quanto individui, non dominiamo la situazione, ma cominciamo se mai a perdere i nostri “sé” iniziali in un passaggio destinato a rivelare altre parti del sé, a “sconvolgere l’inerzia dell’io’” (Rovatti 1990, p. 30). Questo porta alla liberazione di voci diverse, a un incontro con un’“altra” parte, a un dischiudersi del sé che nega la possibilità di ridurre il diverso all’identico, alla fonte e autorità unica del cogito. La conoscenza va in vacanza, si stacca dalle idee tradizionali di verità e conoscenza come entità unitarie e trascendentali e viaggia, prende congedo. Contro la virilità del pensiero forte e sicuro di sé possiamo proporre una trasvalutazione più debole, ma più ampia del pensare, contaminata, eterotopica e contingente (Vattimo 1985). Pur essendo oggi più pacata, non più sicura di sé come “la violenza retorica scatenata in Dialettica dell’Illuminismo” (Daniel 1992, p. 33), la condanna intellettuale della cultura di massa e dei mass media è comunque ancora sommessamente diffusa. Il critico italiano Franco Rella ha sottolineato recentemente che questo è un ragionamento basato su principi ancora tutti da dimostrare: 110 Paesaggi migratori Iain Chambers facciata ideologica dietro cui si nasconde la logica cinica del capitale. Nonostante la prosa spesso tortuosa usata per smascherare il carattere feticista della cultura di massa, le conclusioni sono di una semplicità disarmante. Fanno appello a una ovvietà rigida in termini sia morali sia logici. È questa chiarezza che ha permesso al giudizio di Adorno di scivolare rapidamente dal giusto rifiuto di una particolare politica di massa (il nazionalsocialismo) alla cieca condanna di un’arte di massa (il jazz). Il verdetto è stato totalitario quanto il totalitarismo che intendeva denunciare. L’arte, i mass media e la moderna cultura urbana – è questo il ragionamento – sono tutti prigionieri nell’infinità degli scambi di beni. Qualsiasi altro valore possano aver conosciuto è ormai determinato completamente da questo fatto, ridotto a una simulazione feticista in cui i “falsi” valori si fanno passare per “veri”. A rigore nulla sfugge a questa logica a eccezione, secondo Adorno, delle sempre minori possibilità dell’arte d’avanguardia. A questo punto la cultura non può più offrire un’alternativa, ma solo un vano diversivo; si è ridotta a uno spettacolo tecnologico di umano tradimento, a una simbolizzazione senza fine dell’estrazione del plusvalore. Credendo essa stessa di rappresentare qualcosa, la sfera della cultura in realtà non rappresenta nient’altro che le variazioni incessanti della propria assimilazione nei circuiti annientatori del capitale. A questo possiamo ribattere con alcune osservazioni di egual peso. La tecnologia è la rete in cui tutti siamo immersi, sostiene Heidegger, in cui ci incontriamo con tutte le ambiguità del nostro essere inquadrati dai suoi linguaggi e dalle sue tecniche e in cui la verità della nostra condizione si rivela nella contemporanea presenza del suo pericolo e del suo potere salvifico (Heidegger 1962a). La riproducibilità tecnica intrinseca alla moderna cultura di massa implica una frantumazione della tradizione e la secolarizzazione dell’immagine. Questo a sua volta, come approfondisce Benjamin (1955b), porta a una ricezione distratta in cui tutti, in vari modi, diventiamo “esperti”. Impariamo tutti a muoverci dentro i linguaggi dei mass media, sia che ce ne stiamo alla scrivania a criticarli tramite i nostri computer, sia più tardi, la sera, passando da un canale televi- 111 Città senza mappe sivo all’altro. Questo almeno ci introduce alla possibilità di una “estetica metropolitana”, a una democratizzazione latente dell’uso di suoni, segni e immagini contemporanei e allo spazio di un’insospettata politica della vita quotidiana. In contrapposizione alle astrazioni di una critica ideologica della cultura di massa – invariabilmente presentata come una totalità omogenea, senza contraddizioni né spazio per voci tenui, subalterne o alternative – ci sono i dettagli e le differenze che si rivelano storicamente nel modo in cui la gente usa e abita questa cultura, addomesticandola e spingendola in direzioni non previste dai produttori dell’“industria culturale”. Il monologo critico che disapprova monotonamente la cultura contemporanea come se fosse un blocco ideologico unico, soggetto alla regola di un meccanismo economico non mediato e pienamente razionale – la “logica del tardo capitalismo” di Fredric Jameson (1992), la “condizione della postmodernità” di David Harvey (1989) – si interessa del destino filosofico dell’umanità e dell’alienazione dell’Uomo nell’astratto. Ha poco da dire sul modo in cui uomini e donne reali superano e spiegano le condizioni in cui si trovano. Non può parlare alle vite, paure, speranze, passioni ed espressioni rivelate nella cultura immediata del mondo di tutti i giorni. Ma se le contraddizioni non stessero tra il capitale e un’alternativa o utopia immaginaria, bensì nelle condizioni stesse della società capitalista? Questo sembra dire Marx quando insiste che la nuova società nascerà dalla vecchia man mano che le sue contraddizioni interne porteranno a nuovi sviluppi, nuove possibilità e a uno scambio più ampio tra coloro che sono prigionieri dei rapporti sociali del capitalismo moderno (Marx 1939). Adottare questo argomento equivale a proporre di allontanarsi dal senso storico della missione intellettuale volta a mantenere una distinzione netta tra cultura e industria, arte e commercio. Infatti è una prospettiva che insiste sulla consapevolezza che industria, commercio e urbanizzazione non sono estranei, ma anzi sono tutt’uno con la produzione di culture, identità, possibilità e vite contemporanee. Questo dibattito si ritrova lungo l’intero percorso di quella che potremmo chiamare modernità. È un tema centrale e spesso 112 Paesaggi migratori Iain Chambers contraddittorio del noto libro di Marshall Berman L’esperienza della modernità (1988). Fu inaugurato agli inizi dell’Ottocento dal Romanticismo con la sua opposizione al corpo meccanico dell’industria (il mostro di Frankenstein), e la liberazione dell’estetica, attraverso la figura del sublime, dal regno della ragione. Uno degli esiti discutibili di questa riconfigurazione fu il trattamento della sfera della cultura come realtà indipendente e autonoma, fonte di valori eterni, non toccata dalla storia immediata e dalle mani sporche dell’industria, del commercio e della città. Da questa storia abbiamo ereditato una visione fondamentalmente trascendentale dell’arte e della cultura come realtà atemporale e metafisica, separata dai rapporti e dalle preoccupazioni più incalzanti del mondo di tutti i giorni. L’argomentazione che fuoriesce da questo ragionamento e che, per così dire, sgorga dal basso, invece, suggerisce una prospettiva opposta, secolare, più aperta e più complessa. Comincia con i dettagli e le storie diverse di culture popolari, mondi subalterni, realtà spostate e con i cambiamenti indotti nella cultura nel suo insieme dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione, dal capitalismo e dalla globalizzazione. La cultura, con la sua estetica e i suoi presunti valori, non può più essere concepita come entità senza tempo. Sotto forma di suono, pennellata, parola o immagine, essa è immersa nei tempi e nell’attività incessante del mondo. Qui non ci sono valori eterni né stati puri: tutto è destinato a nascere, a svilupparsi e a morire in questo movimento. Quello che ci troviamo a dover affrontare adesso è l’emergere di differenze sotto il segno dello “sradicamento”, vale a dire di soggetti, lingue, storie, atti, testi, eventi… valori costretti a trovare dimora in un mondo privo di garanzie. Ne consegue un mutamento radicale della nostra comprensione e interpretazione dei linguaggi dell’arte, della politica, della cultura e dell’identità, che non possono più essere associati con un punto di vista epistemologico stabile basato sui presupposti di una verità trascendentale, unica e omogenea che garantisce una “distanza” critica. Al suo posto troviamo l’evocazione dell’idea della verità ontologica inscritta nel nostro essere, nel divenire e nelle mutazioni continue del nostro essere nei linguaggi in cui siamo formati. In Il “fare” in questione è una produzione, una poiesis, ma nascosta, perché sparsa in aree definite e occupate da sistemi di “produzione” 113 Città senza mappe questo modo, per esempio, la critica al consumismo finisce per essere necessariamente basata sul consumismo stesso, sulle regole del gioco e sui suoi linguaggi di identità. Analogamente la critica alla tecnologia si esprime mediante l’uso della tecnologia: dallo scrivere servendosi di un computer ai paesaggi hi-tech del film di Wim Wenders Fino alla fine del mondo (1990). Non potendo disporre di posizioni perenni o di verità eterne, ci troviamo dentro mobili costellazioni di significati che orbitano intorno a potenziali aperture, interruzioni, intervalli – crolli e progressi al tempo stesso – del mondo, delle lingue, storie e identità che abbiamo ereditato, quando ci accingiamo a esplorare la verità inquietante dell’ambiguità. Questa inquadratura della nostra vita ci spinge a un’analisi attenta delle sfumature dei linguaggi e dei racconti che si combinano per scrivere la nostra vita, spiegandola ed escludendola al tempo stesso. Il materiale banale e apparentemente omogeneo dei gusti e delle culture popolari, per esempio, può rivelare storie e attribuzioni di significato più complesse di quanto spesso si pensi. Come insisteva Michel de Certeau, questo comporta perlomeno prestare ascolto ad attività spesso trascurate, che si nascondono sotto l’etichetta del superficiale, del banale, del quotidiano: in altre parole, nella differenziazione colloquiale del popolare. Qui infatti incontriamo attività che, pur attingendo ai vocabolari dei linguaggi e dei lessici consolidati – cinema, televisione, musica, il supermercato, il giornale – e rimanendo sempre soggette a quei linguaggi, stabiliscono traiettorie di interessi e desideri che non sono né necessariamente determinati né catturati dal sistema in cui si sviluppano. È questo rifacimento, questa trasformazione in cui la traduzione comporta sempre un travestimento di qualsiasi intento “originale”, che rende vivibile l’esperienza di questi linguaggi e di questi testi – la città, il cinema, la musica: cultura contemporanea e mondo moderno – quasi offrissero uno spazio storico preso in prestito da uno di passaggio, da un migrante, da un nomade. Iain Chambers Paesaggi migratori 114 (televisione, sviluppo urbano, commercio, eccetera) e perché l’espansione costante di questi sistemi non lascia più ai “consumatori” nessun posto in cui possano indicare che cosa fanno con i prodotti di questi sistemi. A una produzione razionalizzata, espansionista e nel contempo accentrata, clamorosa e spettacolare, corrisponde un’altra produzione, detta “consumo”. Quest’ultima è subdola, dispersa, ma si insinua ovunque, silenziosamente e quasi invisibilmente, perché non si manifesta attraverso i propri prodotti, ma piuttosto attraverso i modi di usare i prodotti imposti da un ordine economico dominante (de Certeau 1988, pp. XII-XIII). E dal momento che non si “lascia” questa lingua, perché non è possibile trovare un altro posto da cui interpretarla, dal momento che quindi non esistono gruppi separati di interpretazioni vere e interpretazioni false, ma solo interpretazioni illusorie, dal momento che, in breve, non c’è via d’uscita, resta il fatto che siamo stranieri dentro, ma che non esiste un fuori (de Certeau 1988, pp. 13-14). In questi passaggi e particolari storici non percepiti e nelle loro costruzioni transitorie di casa, possiamo cominciare a intravedere un modo per tagliare il più antico nodo ideologico tra capitale e cultura e quindi per superare criticamente sia la condanna della cultura di tutti i giorni come ideologia sia la sua difesa apologetica e puramente populista. Questo significa che non c’è “verità” esteriore da trarre in salvo dal mondo immediato del commercio e della cultura popolare quotidiana: come se in qualche modo, da qualche parte, sotto la superficie, dentro il segno, ci fosse un messaggio più profondo e più coerente. Il ragionamento, centrale nella critica sia marxista sia baudrillardiana del segno (feticismo, simulacro), è che superfici e apparenze sono le manifestazioni ingannevoli, seducenti e mistificatorie di una realtà sottostante, l’alienazione della condizione umana. La riduzione dell’apparente a un valore occulto, nascosto – il valore dell’“autenticità” che si suppone mascherata da false apparenze – nega la realtà ontologica di segni, superfici e vita quotidiana. Nega che anche questi siano sede di senso, di significato. Capire questa apertura, questa particolare possibilità, significa ancora una volta prendersi una vacanza dalla critica ideologica che tradizionalmente ha disciplinato la nostra attenzione. Città senza mappe L’idea di mollare tutto, di prendersi una vacanza dai linguaggi che di solito ci danno una posizione, di lasciarsi trasportare liberi dai significati domestici: è così che Roland Barthes introduce i suoi scritti sul Giappone raccolti nel volume L’empire des signes (Barthes 1970). Egli fa riferimento alla “perdita di sensi che lo Zen chiama un satori ” e medita sul “distacco dei segni”. Si serve dell’incontro con l’“Altro” non per presumere di spiegarne l’alterità, ma piuttosto per andare al di là di se stesso, della propria lingua e cultura di segni e perturbare e mettere in discussione così la presunta stabilità del sistema simbolico cui egli appartiene. Le differenze restano differenze, che non possono essere ridotte a ciò che è uguale, ed esistono come aggiunta, come eccesso che fa “vacillare la conoscenza, il soggetto” (p. 8). Quest’idea di porsi di fronte all’altro, di ammettere le differenze e, con esse, le iscrizioni varie che abitano e costituiscono il nostro mondo non è solo un incontro geografico tipico dell’intellettuale metropolitano. È anche un luogo di ritrovo situato nei territori interni delle nostre culture, dall’“altra” parte della città, della cultura e delle lingue in cui abitiamo. Il “Giappone” dà la possibilità di disfare il nostro “reale” e altera la posizione, o topologia, abituale del soggetto, insieme alla sua voce e alla sua autorità. Ciò che veniva dato per scontato, considerato “naturale” e pertanto universale, si rivela locale e storico. Per tornare dove eravamo partiti, la consapevolezza di Barthes non emerge tanto dall’aver scavato sotto la superficie delle apparenze, quanto dall’aver opposto superficie a superficie, segno a segno, registrando la differenza osservata nel piano laterale o orizzontale. Sono queste le differenze che Barthes scopre nelle apparenze – nello scintillio del significante – così come si presentano nella disposizione ornamentale e frammentaria del cibo, nell’inchino cerimoniale, nell’ideogram- 115 Vacanze in Giappone 116 Paesaggi migratori Iain Chambers ma dipinto, nei giocatori di pachinko, nel rifiuto dell’illusione occidentale di totalità nel teatro Bunraku, nell’istanza transitoria dello haiku con la sua temporanea sospensione della finalità (ciò che in Occidente chiamiamo “significato”): segni, come dice Barthes descrivendo Tokyo, che ci ricordano “che il razionale non è che un sistema tra altri” (p. 43). Così per Barthes la pienezza dello haiku, di queste espressioni minime dell’evento, non riguarda il significato ma il linguaggio. Questi gesti di scrittura creano uno spazio di puri frammenti in cui è il linguaggio stesso a essere celebrato in un’“esenzione del senso”. O meglio, la sua presenza dissolve il desiderio occidentale di pienezza e arresto semantico, perché ciò che viene “abolito non è il senso, ma qualsiasi idea di finalità”. Rimane solo una traccia, una designazione di parole, dove “il senso non è che un lampo, un graffio di luce”. Senza un centro o una direzione da afferrare, resta solo “una ripetizione senza origine, un evento senza causa, una memoria senza persona, una parola senza ormeggi” (pp. 93-98). Segni e lingua possono essere liberati dai referenti immediati. È questo che il “Giappone” particolare di Barthes gli ha permesso di contemplare. Non significa necessariamente che siamo condannati a schierarci con Baudrillard e i pessimisti culturali per annunciare la morte del significato. Quello aperto dal testo di Barthes è esattamente il contrario di un nichilismo rassegnato: esso propone anzi un eccesso di senso (Trinh 1991). Ci accorgiamo che i segni possono mollare gli ormeggi in un sistema di pensiero, in una lingua, una cultura e una storia e acquistarne altri, talvolta irriconoscibili, forse incomprensibili, altrove. Questo movimento semiotico che consiste nell’opporre segno a segno e apparenza ad apparenza, sulle superfici di lingue e culture, non evita la questione del significato, ma anzi la integra, la allarga e la complica. La rovina Potremmo contrapporre questa prospettiva a un progetto chiaramente indirizzato su una traiettoria opposta. Deciso a sfondare le apparenze contemporanee e l’arco della modernità, esso por- Il desiderio dichiarato di Berman è “studiare e descrivere queste tradizioni per capire in che modo possano nutrire e arricchire la nostra modernità” (p. 26). E se la modernità, come lo stesso Berman ammette altrove, non fosse tanto una questione di continuità quanto di discontinuità? E se invece di un’eredità tramandata ininterrottamente dal passato al presente ci fossero solo pezzi e bocconi che sussistono nel presente, non come tracce o residui di una tradizione unitaria, ma come elementi di storie diverse continuamente ricomposte? E se la storia fosse “realmente presente nella forma della rovina”, di un “inarrestabile decadimento”? (Benjamin 1963, p. 184). E se, in altre parole, fosse avvenuto uno spostamento culturale e semantico nella comprensione stessa della “tradizione” con il risultato che qualsiasi identificazione ovvia con un senso unitario di appartenenza è stata dispersa e abbandonata? Passare dalla fede in una “comunità” immaginata al riconoscimento di identità complesse create in storie discontinue ed eterogenee significa passare a un mondo contingente, dove tradizioni e radici diventano meno importanti di per sé, quasi fossero sim- Città senza mappe … con l’accrescersi del pubblico moderno, essa si disperde in una moltitudine di frammenti, che parlano lingue incommensurabili e intransitive: il concetto stesso di modernità, formulato in mille modi scissi e frammentari, perde molta della sua efficacia, della sua risonanza e della sua profondità, oltre a perdere la capacità di organizzare e dar significato alle vite degli individui. In conseguenza di tutto ciò ci troviamo oggi a vivere in un’età moderna che ha perso ogni contatto con le radici della sua stessa modernità (Berman 1988, p. 27). 117 ta ad analisi, di descrizione certa, prematuramente concluse in un’insistenza a cercare una finalità ultima, un ancoraggio e un rifugio, nel regno dell’essere “autentico” e delle sue tradizioni. Per cominciare con alcuni dei concetti e delle parole chiave usati da Marshall Berman in L’esperienza della modernità, potremmo fare una controprova confrontandoli con il suo stesso testo, guardando quali altri sensi ne emergano. 118 Paesaggi migratori Iain Chambers boli stabili di un’“autenticità” scomparsa, e acquistano significato nell’ambito di un’eredità flessibile e composita cui si attinge e che si riscrive e si modifica nel costruire un passaggio efficace attraverso il presente. Questo vuol dire proporre un senso di “autenticità” che nasce e si sviluppa nei percorsi contingenti di memorie e storie, nel ri-membrare in una lingua capace di fornire una casa viaggiante di identità in grado di dialogare con le costellazioni della vita contemporanea e cercarvi riparo. Berman vuole riportare la modernità sulla retta via, ma se la spinta faustiana verso il “progresso” e la “modernizzazione” a qualunque costo fa parte integrante della modernità, perché è tanto riluttante a mettere in discussione quei termini e l’idea stessa di “modernità”? Ci dà l’impressione che la modernità sia stata, un tempo, un nobile progetto poi degenerato, e che per salvarlo dobbiamo risalire alle sue origini, alle sue fonti. Io ritengo che tornare indietro sia impossibile: quella genesi oggi esiste ormai solo sotto forma di tracce nella memoria, elementi che possiamo decidere di ricostruire mediante analisi storica e testuale, storie e racconti che incontriamo, interpretiamo e pertanto collochiamo, inscriviamo e localizziamo nel nostro presente. Ma non potremo mai ritornare alla scena primaria dei nostri inizi e delle loro incontaminate “origini”. I protagonisti del resoconto epico di Berman – lo scrittore, la gente, la folla – sono tutti unità astratte, soggetti unificati (prefreudiani). È come se fossero soltanto (sotto)prodotti della modernità, della modernizzazione e del metodo di produzione capitalista, e non anche produttori. Gli unici produttori ammessi nella cronaca di Berman sono quegli scrittori, pensatori, artisti e architetti capaci di rimanere a galla nella tempesta dello sviluppo capitalista. In una visione decisamente classica dell’espressione artistica e del “genio”, l’attenzione viene continuamente rivolta alla voce, invariabilmente maschile, che riesce a sollevarsi oltre il vortice e riportarlo entro i canoni dell’espressione significante. Infine c’è la tragedia della modernità. Secondo Berman viene rappresentata sul palcoscenico del mondo nelle contraddizioni Ai piedi del Vesuvio La città viveva sotto il Vesuvio, ed era quindi costantemente minacciata nella propria esistenza. Di conseguenza, aveva preso parte al diffuso sviluppo tecnico ed economico dell’Europa soltanto a sbalzi, poiché non si poteva mai sapere se l’anno sarebbe trascorso senza catastrofi. Alfred Sohn-Rethel (1990, p. 21) Mi venne in mente che forse era così che succedeva quando le città morivano. Non morivano con un’esplosione, non morivano solo quando venivano abbandonate. Forse morivano così: 119 Città senza mappe interne del progresso, della modernizzazione e del capitalismo. Ammetto che è effettivamente un processo globale, ma vorrei far notare che quando guarderemo meglio dentro le storie particolari di cui è costituita la modernità, scopriremo che il terribile male dei nostri tempi pone problemi e avanza proposte che ci permettono di superare il desiderio nostalgico di un’unità, una coerenza e un senso unificato della tradizione perduti. Siamo di fronte a un orizzonte composto di soggettività eterogenea, occupato da storie e lingue intente a trasformare in un presente significativo l’eredità frammentaria del passato, insieme con suggestioni e prestiti più immediati. Sono queste storie particolari che ci danno modo di riflettere ulteriormente sul senso contemporaneo della città, delle sue lingue, culture e possibilità. Questo significa mettere da parte il comfort intellettuale offertoci dalla chiarezza astratta della “logica” e della “dialettica” e andare a fare un giro per la città. Lì, prestando attenzione alle sue molteplici voci, ai particolari etnografici, alle sue storie diverse e alle sue non sempre proporzionate realtà, veniamo trasportati al di là di noi stessi e del mondo critico in cui una volta vivevamo. La città in cui propongo di fare un giro è Napoli: una metropoli atipica, forse, ma quale città non è specifica, unica? Iain Chambers Paesaggi migratori 120 quando tutti soffrivano, quando spostarsi diventava talmente difficile che la gente rinunciava a lavori di cui aveva bisogno per paura delle sofferenze del viaggio, quando non c’era aria né acqua pulita per nessuno e nessuno poteva più andare a passeggio. Forse le città morivano quando perdevano le attrattive tipiche delle città, l’eccitazione dello spettacolo che offrivano, il senso di maggiori possibilità umane, e diventavano semplicemente posti dove c’era troppa gente, e la gente soffriva. V. S. Naipaul (1990, p. 347) Napoli è una città frammentaria, attaccata al lembo meridionale dell’Europa. È stata spesso una sede privilegiata per osservare quelle frange della società europea in cui lo Stato e la società civile sembrano inaridirsi e svanire. È qui infatti che il tessuto urbano tende a sfaldarsi rivelando un museo vivente di pratiche, usanze e frammenti arcaici. Ieri i suoi paesaggi con rovine furono all’origine del sublime romantico (Goethe) o, più tardi, di un capitalismo disincantato (Benjamin). Oggi attrae lo sguardo degli antropologi che si ritirano da periferie precedenti per esaminare le frontiere interne dell’Europa e i rituali particolari delle sue popolazioni indigene. Napoli non è solo il laboratorio dell’arcaico o un caravanserraglio di sviluppo urbano interrotto a metà. Il suo centro storico fatiscente è stato interrotto drammaticamente dal profilo moderno di un centro commerciale e amministrativo di concezione giapponese. Con la sua violenta mescolanza di antiquati riti di strada e di progetti del capitalismo globale, Napoli ci si presenta come un enigma. Le sue qualità sfingee, il suo restituirci il riflesso di quello che speriamo e temiamo di vedere, rivelano una matrice instabile attraversata da culture e ritmi storici diversi. Una rete idrica precaria, trasporti pubblici inaffidabili, strade e fognature del diciassettesimo secolo ingorgate dal traffico e dall’inquinamento del ventesimo da una parte e, dall’altra, il fanatismo di una pulizia privata dimentica del sudiciume pubblico. Sebbene gestita dal capitale, spesso la città sembra sfuggire al controllo. 121 Città senza mappe Solo un individualismo esasperato – ognuno libero di inventare il proprio codice stradale – riesce a lasciare il segno. L’organizzazione razionale dello spazio urbano, della produzione, del lavoro e del profitto viene continuamente interrotta, decomposta e deviata da innumerevoli sacche di mercantilismo, baratto, corruzione e criminalità: l’affare concluso all’angolo con il telefonino, i corrieri del mercato nero in Vespa, la compravendita di favori, la tangente istituzionalizzata. È questo il sottobosco intricato di un’altra città e di una formazione culturale che perde i fili nel labirinto di parentele, cultura di strada, identità locali, memoria popolare e folklore urbano. Essere aperti a questa dimensione, alla narrazione collettiva di identità e scambi di memorie che vanno sotto il nome di “Napoli”, chiaramente significa rinunciare alla possibilità di ricomporre tutti i pezzi in un canale unico, in un solo racconto capace di spiegare tutti i particolari. Naturalmente possiamo usare termini come “sviluppo disomogeneo” e fare riferimento alle concatenazioni locali, nazionali e internazionali di temporalità miste, di disuguaglianze strutturali, e alle peculiarità delle formazioni storiche e politiche del Mezzogiorno, ma in queste categorie la sintassi particolare di queste condizioni, il mix “napoletano” può trovare solo spiegazioni parziali. Come molte città mediterranee, Napoli si rapporta a se stessa e all’hinterland locale molto prima che nel suo senso di identità si affacci lo stato-nazione (Matvejević1987). Anche la scena della natività diventa una scena napoletana, il presepe napoletano. I modelli di cartapesta e le raffigurazioni in ceramica della Betlemme biblica sono invariabilmente popolati di mercati locali, piazze e pizze. Due miti sono fusi in un linguaggio di rappresentazione in miniatura in cui il religioso e il secolare, il passato e il presente, il lontano e il vicino, il morto e il vivo condividono lo stesso mondo. Un tempo capitale, Napoli adesso è senza regno. Apparentemente privata del suo destino, la sua traiettoria si è interrotta di colpo. Come un centro defunto, come una salma, Napoli è sempre pronta a essere assunta nella sua “patria allegorica” (Benjamin 1963, p. 232). I gesti viscerali di questo rapportarsi a se stessa – e il presepe e la sua lette- 122 Paesaggi migratori Iain Chambers ratura locale sono solo la manifestazione più documentata di questa pratica quotidiana – continuano a esprimere tutto il pathos di quella perdita. Dunque non c’è progetto globale o disegno unificante in grado di coprire interamente l’esperienza napoletana. È una storia che si può cogliere soltanto nei frammenti, nell’economia del disordine, nella penombra mitica di una decadenza immaginata. Vista sotto questo aspetto la città non si vive solo come realtà fisica, come la somma delle sue storie, memorie e monumenti, ma più all’insegna di quella che i situazionisti chiamavano psicogeografia: quel lasciarsi trasportare che porta a riscrivere il testo urbano nei termini di un desiderio che prende al laccio l’inaspettato, l’incalcolabile, la situazione. Il valore di Napoli, sia dal punto di vista sociale che estetico (ma sono separabili?) forse non sta tanto nella sua pretesa unicità, quanto nella capacità di disperdersi, di perdersi e in tal modo di sfuggire alla prevedibilità. La città non rappresenta un referente unico, razionale, saldo, ma scivola attraverso schemi prevedibili per diventare un segno fluttuante, che erra fra centinaia di interpretazioni, migliaia di storie. Esiste al di là della brutale fisicità delle strade, in un’architettura interna che fa da struttura portante all’immaginario. Pure questo luogo immaginario, come tutto il materiale dei sogni, ha un linguaggio che richiede di essere interpretato. L’associazione fatta da Alfred Sohn-Rethel tra Napoli e l’idea di catastrofe, di declino e distruzione imminente, ci introduce nel linguaggio della rovina, il linguaggio del barocco. Così Walter Benjamin, che nel 1925 scrisse gran parte del suo libro sul teatro barocco stando a Capri e compiendo frequenti visite a Napoli, commenta la centralità della rovina nell’economia di figure del barocco: Con essa [la rovina] la storia è tangibilmente ridotta a palcoscenico. (…) così conformata, la storia si costituisce non come il dispiegarsi di un’eterna vita bensì come il processo di un inarrestabile decadimento. Con ciò l’allegoria si pone al di là della bellezza. Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose. Da ciò il culto barocco della rovina (Benjamin 1963, p. 184). 123 Città senza mappe È nello stile allegorico del barocco, nella sua insistenza su rovina e declino, nell’avvizzirsi della storia e della vita, che si impone con la massima energia per il fatto di essere cadavere. Vivere sotto il vulcano, sentendosi ricordare quotidianamente che si è mortali: è questa la chiave per comprendere l’energia schizofrenica della città, i suoi linguaggi di esultanza e disperazione, i suoi estremi di violenza fisica e rassegnazione mentale? A Napoli si ha la continua consapevolezza di vivere non semplicemente un’esperienza urbana, ma la vita urbana come problema, come interrogazione, come provocazione. Curiosamente questo ricorda la descrizione data dall’architetto americano Frank Lloyd Wright della città come “forma universale dell’ansia” (Wright 1956). È un fatto che Napoli parla continuamente a se stessa, offrendoci lo spettacolo di un’analisi senza fine. Costruendosi e rassicurandosi con le parole, la città oscilla continuamente fra lamentazioni sul passato e fantasie sul futuro, mentre il presente scorre inosservato, abbandonato. Assorta in se stessa, come bloccata in quello che Lacan chiama stadio dello specchio – lo sguardo di Narciso che evita il vuoto, l’abisso (il Vesuvio?), l’altro che potrebbe mettere in discussione e decentrare la sua unicità, la sua identità – Napoli, vista da fuori, diventa anche il luogo di sogno di una città immaginaria (Ramondino, Müller 1988). Infatti questa città, nonostante tutti i suoi particolari specifici e le sue rivendicazioni di insularità, non può fare a meno di assumere una parte in altre storie, altri idiomi, altre possibilità. Si trasforma ineluttabilmente da monumento che celebra se stesso a intersezione, momento di incontro, luogo di passaggio nell’ambito di una rete più ampia. Mollati gli ormeggi la città comincia ad andare alla deriva, entra in altri racconti. L’approccio provinciale alla realtà è compromesso da forze economiche e culturali narrate altrove: in un’economia globale contemporaneamente presente sia sul mercato azionario mondiale sia sul mercato mondiale della droga. A proprio agio nel motivo barocco della rovina, posta all’estremo margine d’Europa, sulla soglia del disastro e del declino, Napoli forse diventa l’emblema della città in crisi, della città in quanto crisi. L’emozione consapevole del suo linguaggio, del suo stile, tradi- sce le storie e le memorie che crescono “come la rottura e la vendetta del significato” (Taussig 1991, p. 5) – fino a formare l’interrogativo profondamente metropolitano dell’enigma di quella che Heidegger chiamava la nebulosità della vita. Iain Chambers Paesaggi migratori 124 Dalla strada al globo La questione è se il vero sviluppo di Londra e Manchester si possa capire senza fare riferimento all’India, all’Africa, all’America Latina, più di quanto lo sviluppo di Kingston (Giamaica) o Bombay si possa comprendere senza fare riferimento al primo. Anthony D. King (1991, p. 78) Adesso c’è una cultura mondiale, ma faremmo bene ad accertarci di capire veramente che cosa significa. È caratterizzata da un’organizzazione della diversità piuttosto che da una ripetizione dell’uniformità. Non c’è stata nessuna omogeneizzazione totale di sistemi di significato ed espressione, né sembra prevedibile che questo avvenga nel prossimo futuro, ma il mondo è diventato un’unica rete di rapporti sociali e tra regioni diverse c’è un flusso di significati oltre che di persone e di beni. Ulf Hannerz (1990, p. 237) Anche i dettagli, anche queste particolarità psicogeografiche e allegoriche della vita napoletana, rappresentano un imprevisto sviluppo locale di una storia molto più ampia. La formazione di una città come Napoli non è inscindibile dalla sua collocazione storica in un’economia mediterranea, europea e globale. Il simbolo più evidente di questa “globalizzazione” oggi è il numero crescente di lavoratori immigrati che vivono nella città e nel suo hinterland. A Napoli le domestiche vengono quasi tutte da Capo 125 Città senza mappe Verde, dalla Somalia e dalle Filippine, mentre i lavoratori agricoli e gli ambulanti vengono soprattutto dall’Africa occidentale. Sentir parlare arabo sull’autobus, osservare all’ufficio postale i veli, i turbanti e i disegni vivaci dei vestiti di cotone delle somale che mandano i soldi a casa è riconoscere un futuro urbano destinato a trasformare le coordinate locali. Il legame che un tempo sussisteva tra la nascita della città moderna e l’espansionismo e il colonialismo europeo, sia al “centro” sia in “periferia”, oggi si è ridistribuito lungo gli assi di spazio-tempo-informazione dell’economia mondiale. L’esercizio spaziale diretto del potere – a partire dal centro metropolitano verso la periferia coloniale – si sta sempre più riallineando lungo una proliferazione di centri, punti nodali e reti di comunicazione coordinati dagli imperativi collegati di finanza, produzione, mercati, proprietà, tempo libero e stili di vita. Il modello coloniale unilaterale, nazionale, è stato interrotto dalla comparsa di un mondo trasversale che occupa un “terzo spazio” (Bhabha 1990b), una “terza cultura” (Featherstone 1990) al di là dei confini dello stato-nazione. Sono sempre esistiti tra le città del mondo legami inscindibili. Lo sviluppo politico, culturale ed economico di realtà urbane, economiche e architettoniche come Londra, New York, Madrid o Napoli (da una parte) non può essere compreso senza quello di Singapore, Nuova Delhi, Lima o Adelaide (dall’altra), né disgiuntamente da un’economia tendenzialmente globale con le sue reti e i suoi programmi culturali. Nei paesaggi della geografia urbana contemporanea è sempre più difficile ignorare popolazioni un tempo nascoste, spesso tenute a distanza dalla divisione internazionale del lavoro, il cui lavoro dimenticato rifornisce i guardaroba, i frigoriferi, e gli stili di vita di tante metropoli moderne. Intanto al centro i mercati del lavoro semiclandestino, sfruttando braccia, corpo e cervello degli ex colonizzati, garantiscono servizi come baby-sitting, lavori domestici, prostituzione, vendita ambulante, lavoro a cottimo e manodopera rurale stagionale. Qui se non altro la prova vivente di storie represse e imperi defunti non è tanto facile da dimenticare: gli “indigeni” sono venuti a ossessionare con la propria presenza le loro “ori- 126 Paesaggi migratori Iain Chambers gini”. Prima identificati e assoggettati al potere metropolitano, adesso riportano al centro elementi del Terzo Mondo: la mancanza di assistenza sanitaria e sociale, di alloggi, istruzione e lavoro. Qui dividono con gli altri membri della metropoli lo stesso tempo e, ogni giorno di più, le stesse strade, autobus e negozi. Sono i sedici milioni di “cittadini extraeuropei” che attualmente vivono e lavorano in Europa. La vita urbana si sta trasformando per effetto di un processo di formazione globale. Se dobbiamo parlare di globalismo, si tratta di un globalismo che non riguarda solo i poteri e il movimento del capitale e della divisione internazionale del lavoro, ma anche istituzioni, relazioni, idee e forze sociali e culturali. Le singole città e i loro abitanti sono sempre più funzione di un sistema di riferimento internazionale e transnazionale, differenziato ma globale. Molti preferiscono non ammettere le conseguenze di questi processi e razzismo, xenofobia e nazionalismo virulento sono sempre pronti a fornire i linguaggi interpretativi, ma il nostro destino è ormai chiaramente altrove. Ci viene continuamente ricordato che: controllo sociale, sperequazione e vincoli dell’interazione sociale in generale non sono semplicemente una funzione dell’esproprio del plusvalore o dello sfruttamento economico ma, cosa forse ancora più importante, di pratiche culturali simbolicamente radicate e della loro riproduzione (Ulin 1991, p. 80). L’autorità, lingua e logica cosmopolita dell’intellettuale, del tecnocrate e dell’amministratore europeo occidentale e nordamericano vengono messe sempre più in discussione da voci provenienti dall’India, dal Giappone, dall’America Latina, dall’Africa. Storie, culture, processi, testi vengono letti dall’altra parte di quella che una volta si presumeva essere la linea di demarcazione centro-periferia: da Tokyo, da Bombay, da Buenos Aires, da Lagos, dal Cairo, in particolare da quelle città che fungono da modello per lo sviluppo urbano globale molto più di quanto non facciano insediamenti più antichi come, solo per citarne alcuni, Parigi, Londra o New York. 127 Città senza mappe Ripensando la produzione economica, sociale e culturale dello spazio in un tempo condiviso – “il mondo” – siamo indotti a contemplare forme culturali, economiche e politiche in termini nuovi. La compresenza di globalizzazione e differenziazione integra e nello stesso tempo mette in discussione i limiti dello stato-nazione. Andiamo oltre i concetti di nazione, nazionalismo e cultura nazionale ed entriamo in una serie di realtà postcoloniali e in un tipo di pensiero critico costretto a riscrivere la grammatica e la lingua stessa del pensiero moderno, orientando l’attenzione oltre i limiti patriarcali dell’approccio eurocentrico con il suo presuntuoso “universalismo”. Tuttavia questo compito, proprio perché non rappresenta l’ultima novità in fatto di “progresso”, si svolge in maniera paradossale. La deterritorializzazione infatti produce sia identità diasporiche sia un nuovo fondamentalismo, e in questo non c’è nulla di ben delineato o che scorra senza intoppi. Ostinatamente, spesso brutalmente, riemergono formazioni più vecchie che si impongono sulle nostre vite differenziate ma sempre più collegate, costringendoci a riconoscere tendenze omicide che insistono su etnicità localizzate, nazionalismi virulenti e fondamentalismo religioso nel tentativo di stabilire identità rigide, comunità campanilistiche e imperativi tradizionali. È un energico invito a ricordare che la “dialettica” razionale è crollata. Nessuno ha un quadro completo della situazione. La semplice chiarezza della logica binaria si frantuma nelle complessità di intensità irripetibili e dettagli insanguinati. Ritornare a quelle risoluzioni mortali, a quei localismi paralizzanti, è tornare con drammatica urgenza alle domande “di chi è il tempo?”, “di chi è la storia?” che gestiscono, identificano e interpretano sia la strada locale sia l’orologio globale. Qui le spoglie oscure di una definizione europea, e romantica, di autenticità e di identità nazionale ritornano nelle continuità da incubo della fobia e della paura per trascinarci con una spirale discendente dentro una palude di soggettività feroci e comunità disumane. Questo è il mondo rappresentato dai nazionalisti serbi armati che fanno “pulizia etnica” nella BosniaErzegovina e che rivendicano come propria una strada di Mostar o Sarajevo “perché lo era nel 1388” (l’anno prima che la Serbia fosse conquistata dai turchi). È innegabile che una simile forma di appartenenza e di casa, che ostenta violentemente la sua versione morta del tempo, esprime anche esigenze che non possono essere semplicemente eliminate dai resoconti attuali, ma è altrettanto indiscutibile che essa dà voce a una particolare formazione culturale e a una modalità dell’identità su cui ci sentiamo di dover esprimere un giudizio storico ed etico. Iain Chambers Paesaggi migratori 128 Nessuna equazione …la modernità sta nella sua ambiguità come una richiesta di garanzie esterne all’interno di una cultura che ha cancellato i loro presupposti ontologici. William E. Connolly (1989, p. 11) Il discorso della democrazia radicale non è più il discorso dell’universale; la nicchia epistemologica da cui parlavano le classi e i soggetti “universali” è stata eliminata e sostituita da una polifonia di voci, ciascuna delle quali costruisce la propria irriducibile… identità. Questo punto è decisivo: non esiste democrazia radicale e pluralista senza rinunciare al discorso dell’universale e all’implicito presupposto di un accesso privilegiato alla “verità”. Ernesto Laclau, Chantal Mouffe (1985, pp. 191-192) Viaggio, migrazione e movimento invariabilmente ci portano a confrontarci con i limiti della nostra eredità. Possiamo scegliere di eludere questo impatto optando soltanto per una conferma delle nostre opinioni iniziali, nel qual caso ciò che si trova dall’altra parte rimane nell’ombra, nell’oscurità. Ma possiamo anche decidere di allentare il controllo, di lasciarci andare e rispondere alla sfida di un mondo che è più ampio di quello in cui siamo 129 Città senza mappe abituati ad abitare. Scegliere questa seconda strada implica il disfacimento dei legami e delle direzioni che un tempo ci tenevano attaccati a un centro particolare, significa scompigliare e interrompere il nostro senso dell’appartenenza a un posto con una serie di domande. Il senso precedente non risulta necessariamente comune e la sua ragione non sempre universale. Così le intenzioni critiche contro i limiti del razionalismo che abbiamo ereditato e la sua comprensione spesso non problematica di realtà e verità richiedono un linguaggio che “porta in se stesso la necessità della sua stessa critica” (Derrida in Spivak 1977, p. XVIII). Naturalmente, tutto questo è un preludio, fa parte di una riflessione nata osservando la scena delle analisi culturali contemporanee, della vita urbana e delle storie, prospettive e vite che danno forma a questi lavori e queste esperienze. Ho cercato di disfare parte del bagaglio analitico che ancora ci portiamo dietro in questo paesaggio, e che spesso passa per “senso comune” critico, nella speranza che mettere in discussione questo linguaggio sia già un passo verso la rivelazione, attraverso il suo disfacimento, di altri modi più aperti per affrontare le nostre prospettive. Muoversi fra queste rovine e imparare a convivere con esse significa già infilarsi nelle fratture della città per giungere altrove. Capitolo sesto Migrazioni, modernità e il Mediterraneo Continent, city, country, society: the choice is never wide and never free. And here, or there… No. Should we have stayed at home, wherever that may be? Elizabeth Bishop, Questions of Travel, 19911 Migrazioni, modernità e il Mediterraneo In questi mesi, in questi anni, si è incominciato a parlare, spesso con toni sempre più allarmati, della questione dell’immigrazione “illegale”. L’arrivo dei clandestini è un fatto che viene spesso pubblicamente denunciato, mentre privatamente viene assorbito per incontrare le esigenze crescenti della forza lavoro. Sulla scia del cambiamento radicale della morfologia della cultura urbana nell’Occidente, si incomincia anche a parlare, di solito in toni meno aspri, dello sviluppo di una società multietnica, delle culture ibride e delle realtà meticciate. Il secondo fenomeno però, anche quando non viene visto attraverso gli occhi della xenofobia, è di solito trattato come fenomeno recente e, in ogni modo, di poco conto nella realtà storica e complessa della nazione. Si sa che, al contrario degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, l’Italia non ha partecipato direttamente al saccheggio del mondo, pur giustificando a suo tempo la schiavitù razzistica, il colonialismo rapace e l’autoritarismo imperiale. Questi spettri della storia, che ogni tanto ritornano a disturbare gli scenari urbani di Los Angeles, Londra o Parigi, non fanno parte della storia italiana. Ma siamo sicuri? L’Italia è anch’essa parte della modernità occidentale; il suo caffè, i suoi pomodori, come la ricchezza della sua architettura barocca, sono tra i frutti del suo inquadramento nel mondo coloniale. Ci sono stati inoltre degli eventi imperiali nell’Africa orientale, perseguiti sia dallo Stato liberale sia dallo 131 Il mondo contaminato 132 Paesaggi migratori Iain Chambers Stato fascista. Le palme dell’Italia meridionale non sono “native”, simboleggiavano i percorsi d’oltremare, un sogno imperiale andato poi in frantumi. Notava Hannah Arendt (1986) che l’interno moderno e metropolitano è stato costituito dallo sfruttamento imperiale all’esterno. Ogni volta che si beve un caffè (o un tè) c’è l’affermazione, sebbene inconsapevole, dei processi di globalizzazione che sono in atto ormai da cinque secoli. L’emigrato di ieri, che partiva da Genova per approdare a Buenos Aires, e l’immigrato di oggi, che lascia Dacca per trovarsi abbandonato su una spiaggia pugliese, sono separati nel tempo ma unificati nella stessa storia. In tutto questo c’è stata una grande rimozione. Nell’immaginario collettivo sembra trattarsi di piccoli incidenti che non possono incidere sul senso profondo della cultura e dei costumi della vita nazionale. Si dimentica facilmente che la nostra luce elettrica, la nostra ricchezza, la nostra potenza sono anche il buio, la povertà e la debolezza di un altro. La modernità rivelata in una lingua, in una cultura e in una letteratura non può essere considerata autoctona, non può essere separata dall’ambiente mondiale in cui la modernità euroamericana ha acquistato le sue forme differenti. In questo senso, noi tutti, sia i cittadini del Nord del mondo sia i cittadini del Sud del mondo, viviamo in una condizione post-coloniale in cui anche una cultura ristretta a un cerchio d’élite non può più pretendere di essere incontaminata dal mondo in cui si trova ad agire. Come ha notato Sandra Ponzanesi (2001), questo “inconscio coloniale” fornisce un elemento cruciale nella ri-memorazione e ri-narrazione delle storie che la cultura nazionale ha spesso rimosso. Ma che senso ha portare questo argomento in vicinanza del discorso letterario-culturale italiano? Semplicemente quello di suggerire che una formazione letterario-culturale che ignora la complessità della modernità ha scelto un percorso destinato a essere sempre più provinciale. Ovviamente ogni cultura nazionale cerca di imporre una visione omogenea del suo passato, e le sue istituzioni formative (la scuola, l’università, ma anche la stampa e la televisione) sono chiamate a ‘disciplinaré la lingua e la letteratura nazionale per arrivare a questo risultato. In que- 133 Migrazioni, modernità e il Mediterraneo sta maniera si realizza solamente la riproduzione ufficiale del senso comune, uccidendo contemporanemente le possibilità critiche della stessa cultura e della sua letteratura. Qui sarebbe il caso di ricordare la frase tagliente di Walter Benjamin (1955c): “Non c’è mai documento di cultura che non sia, nello stesso tempo, documento di barbarie”. Spesso si ha l’impressione che il pericolo di questo tipo di chiusura non sia nemmeno avvertito, e che anche se lo fosse lo si negherebbe in nome dell’autonomia della cultura. L’idea opposta, fortemente incoraggiata dalla letteratura stessa, che si può rivisitare il passato per ri-leggerlo, ma anche per ri-considerarlo e ri-configurarlo alla luce critica del presente, è spesso considerata illegittima, dilettantesca, e soprattutto poco ‘scientifica’. Non si tratta di un revisionismo intento ad abbassare il livello critico, ma di ospitare la sfida che emerge da una complessità rimossa per proporre un senso polifonico delle culture e delle letterature che portano l’aggettivo di ‘italiano’. Forse è arrivato il momento di rendere la storia, la cultura e la letteratura nazionale un po’ meno narcisistiche, e di ripensare questa formazione, con i suoi canoni letterari ed estetici, nella costellazione mondiale della modernità. Si tratta di viaggiare nella lingua e di essere trasportati dalla stessa lingua altrove. Sarà la lingua stessa che si fa suolo. E allora, forse, lo studio della lingua e della letteratura italiana, come ha suggerito recentemente il poeta caraibico Derek Walcott, potrebbe aprirsi verso quella mondializzazione inaugurata nella poetica di Dante quando egli abbandonò il latino e la lingua del cielo per la lingua secolare della terra. Oggi, quasi otto secoli più tardi, si fa parte di un mondo in cui le divisioni disciplinari, le barriere linguistiche e nazionali vanno un po’ abbandonate, per lasciarsi interpellare dalle storie rimosse che sopravvivono nelle correnti della modernità stessa. Ogni tradizione diventa il luogo di traduzione, ogni canone una ricca rovina esposta ai venti che arrivano dall’altrove. Forse in questa maniera si potrebbe incominciare a registrare un senso più ampio, più aperto e perciò più articolato della “narrazione” nazionale, permettendo il riconoscimento di quel transito storico che abita la lingua e la storia di ognuno di noi. Iain Chambers Paesaggi migratori 134 Un mare di storie Come andrebbe riconsiderata la storia del Mediterraneo alla luce di queste problematiche? E non stiamo parlando della mera aggiunta di un’unità nazionale all’altra, né di una teleologia semplicistica che comincia con la civiltà greca, egizia, fenicia… per poi riuscire a contenere più di tre millenni di differenza unificati da un mare comune. Come luogo specifico, il Mediterraneo evoca il continuo intrecciarsi di radici e rotte diverse; nella sua “lunga durata” (Braudel) si tratta di luoghi di sedimentazione ma anche di dispersione. Come si fa, allora, a navigare, storicamente e culturalmente, in questo spazio, armati ormai di un senso di modernità che si è maturato nelle condizioni contemporanee di ibridità interculturale, e forti di una crescente insistenza etica che passa radicalmente al vaglio le idee di “casa”, “ospitalità”, e “proprietà” della cultura, della storia e del linguaggio? Qui i contorni relativamente fissi del mare, della costa, delle pianure e delle catene montuose ospitano formazioni storiche spesso imprevedibili, e fenomeni culturali fortemente variabili. In questa unità instabile, magistralmente espressa nel 1949 da Fernand Braudel in La Méditerranée et le Monde Méditerranéen à l’époque de Phillipe II (1966), esiste una precarietà destinata a disturbare il compromesso strumentale del pragmatismo politico, come pure la più sottile conclusione critica. Persino nelle generalizzazioni geo-storiche più approssimative, la registrazione dei confini del Mediterraneo rivela immediatamente i criteri d’analisi, dal momento che i suoi confini si srotolano a nord verso il Baltico, a est verso il Levante e oltre, a ovest verso il mondo atlantico, e a sud, seppure su questo aspetto spesso si sorvoli, verso il Nord Africa e la parte sub-sahariana del continente. Questo significa automaticamente registrare le storie slave, tedesche, arabe e africane come parti anch’esse integranti del Mediterraneo, delle sue genti, delle sue storie e culture. C’è l’immagine scolastica del Mediterraneo come culla originaria della cultura europea: un poeta greco che pizzica la sua lira su una sponda del mare Egeo, in armonia con i primi versi dell’Iliade. 135 Migrazioni, modernità e il Mediterraneo Ma dietro questa bella immagine si cela una costellazione di storie sicuramente più confusa, ma anche più ricca, in cui elementi etnicamente ambigui e culturalmente complessi pulsano, incuranti della pulizia ideologica portata dalla moderna storiografia europea, dall’estetica, e dal sapere ellenico, e della loro condivisa fiducia nel destino apparentemente unico di un’Europa fondamentalmente omogenea. Nell’agorà ateniese, grano e schiavi dalle colonie ai bordi del mondo nomade della regione del Mar Nero si mescolavano con l’Egitto urbano e con la Persia cosmopolita. Una breve occhiata alle pagine del romanzo di Amitav Ghosh Lo schiavo del manoscritto (1994) – basato su un’opera fondamentale, in cinque volumi, di Shlomo Dov Goitein: A Mediterranean Society (1967-88) – rivela un mondo di comunità ebree nell’universo arabo del dodicesimo secolo, che si estende verso l’esterno a partire dal Cairo, in direzione ovest fino allo stretto di Gibilterra, e a est fino all’India meridionale. Attraverso il commercio, i viaggi e le transazioni culturali, si fa strada un senso di appartenenza che nasce da una capillare gamma di legami commerciali, familiari, e culturali. Proprio da lì, per quei mari, e in seguito alla trasmissione araba a un mondo cristiano sospettoso, ritorna la figura cruciale della scienza moderna, della tecnologia e della comunicazione digitale: il significante del nulla, lo zero 2. All’incirca nello stesso periodo, l’iniziale apertura dell’Est all’Europa medievale, che vide i mercanti italiani e i messi papali raggiungere la Cina, fu permessa dalla conquista e dal controllo dei mongoli sulle steppe asiatiche. Storie, culture e genti provenivano dal Mediterraneo, ma vi provenivano spesso da molto lontano, cambiando per sempre la fisionomia culturale e gli orizzonti storici di quel mare. Naturalmente, rotte di commercio o di transito, e forme di identificazione pre-nazionale e perciò non regolarizzate, sono poi state riassorbite, se non sepolte nell’oblio, dalle rigide demarcazioni imposte dalla guerra, dai nazionalismi, e dall’imposizione di frontiere. Da un punto di vista storico, il Mediterraneo come regione non è mai stato unificato da quando è caduto l’Impero Romano; a conti fatti, è stato molto spesso in guerra con se 136 Paesaggi migratori Iain Chambers stesso. Per via di tali divisioni, molti pezzi della sua storia sono andati perduti. C’è, per esempio, un mondo che è quasi del tutto assente dalla narrazione occidentale: quello del Mediterraneo musulmano, con il tragitto storico e culturale che l’Islam ha fornito dall’Atlantico all’Asia centrale, e poi, volgendosi a sud, verso l’Africa nera. Perfino negli ultimi tempi, gran parte dei Balcani si è data un gran da fare per scrollarsi di dosso il suo passato turco e musulmano. Il Mediterraneo, luogo di storie così intricate e indigeste, diviso tradizionalmente da differenze religiose, spesso infrequentabile fino al 1800 per via dei pirati, eppure anche unificato dalle rotte dei pellegrinaggi, è un qualcosa che continua a nascondersi nei recessi di un’eventuale comprensione storica. Eppure, nello stesso tempo, eccede le categorie che abbiamo appreso a usare per individuare le sue caratteristiche. I sintomi di quest’altra storia, successivamente celati nell’uniformità del “classicismo” e del nazionalismo europeo, continuano a emergere, però, nella realtà incredibilmente composita della dieta mediterranea: le arance e i limoni introdotti dagli arabi dall’Estremo Oriente, e così il riso; la melanzana dall’India; le pesche dalla Cina via la Persia, come i cipressi; e poi i fagioli, le patate e i pomodori, il peperoncino e i fichi d’India dalle Americhe (Lucien Febvre in Braudel 1985, p. 8). Questi segni e sapori ci invitano a un ripensamento. L’immagine decisamente chiusa e definitiva del mondo mediterraneo si riapre dinanzi a una serie di interrogativi che si rifiutano di scomparire. Il confronto militare tra Spagna e Marocco nel luglio del 2002, per un isolotto disabitato nel Mediterraneo, ci riscopre inaspettatamente testimoni dell’insospettato potere della storia, poiché ci riporta a un Mediterraneo dominato dal potere marittimo islamico, con guarnigioni spagnole precariamente asserragliate sulla costa settentrionale dell’Africa, che osservano nervosamente il passaggio stagionale dei nomadi berberi, mentre cercano invano di contrastare la pirateria musulmana. Furono proprio questi stessi pirati che saccheggiarono Sorrento nel 1558, e che, quando le autorità spagnole di Napoli si rifiutarono di pagare il riscatto, vendettero allora le donne e i bambini come Una rimozione storica Il mondo, commenta Edward Said, è pieno di “gente senza documenti”, sia in senso burocratico che in senso storico. Si tratta, continua Said (1984), della massa non-cosmopolita che esiste al di là dell’arte, della soggettività, e della rappresentanza politica e culturale. È il rovescio, il lato oscuro, della ben nota insistenza di Benedict Anderson (1983) sullo statuto anonimo della nazionalità. Queste persone sono “esiliate” in molti modi; non solo, com’è ovvio, per una dislocazione fisica e materiale, ma anche economicamente, politicamente e culturalmente, per l’esclusione dal programma che detta lo sviluppo e il “progresso” glo- 137 Migrazioni, modernità e il Mediterraneo schiavi nei mercati di Tunisi e di Istanbul. Ma c’erano anche stati i mercati di schiavi nella Roma medievale, cristiana, come pure nel ducato bizantino di Napoli, che impiegava nel frattempo i mercenari arabi provenienti dalla Sicilia, per combattere contro la città di Benevento. La schiavitù mediterranea lungo i suoi perimetri meridionali e settentrionali è un capitolo di storia ancora da scrivere. E allora, mondi apparentemente così lontani tra loro rivelano una sconvolgente prossimità, sospesi a condividere delle realtà storiche, dinanzi a un orizzonte di mare in comune. Il Mediterraneo come mare di culture, di poteri e storie migranti continua a essere proprio questo. Il suo aspetto fluido e “crespo” (Horden, Purcell 2000) testimonia una formazione composita, sempre in via di farsi, mai completa, destinata a ulteriori configurazioni. Gli immigrati di oggi, per quanto così temuti, disprezzati e vittimizzati dal razzismo, sono il ricordo storico del fatto che il Mediterraneo, ritenuto l’origine dell’Europa e dell’“Occidente”, è sempre stato parte di un altrove; proprio come le sue storie, le sue culture e le sue genti (compresi 27 milioni di italiani) hanno incessantemente abbandonato i suoi lidi per altri luoghi. Se Ulisse è la mitica figura del viaggiatore e dello straniero con cui quella storia ha inizio, è ancora con la figura del viaggiatore e dello straniero che questa storia continuerà. 138 Paesaggi migratori Iain Chambers bale. Eppure, se il mondo dell’opulenza ha bisogno del resto del pianeta per le risorse economiche e materiali, per non parlare della presenza persistente di un’alterità abietta che crudelmente rispecchia e misura la sua identità privilegiata, d’altra parte esso, inconsapevolmente, produce anche un contro-spazio violento da cui tale identità viene rivalutata criticamente. Ovviamente, nulla si ritrova o si vive solamente in bianco o nero. Le configurazioni e le posizioni che si rinvengono al mondo sono, tutto sommato, più complesse e ibride nella loro formazione e articolazione. Nessuno occupa semplicemente un’unica categoria, o è destinato ad attenersi a essa per sempre. Certamente siamo in un tempo, caratterizzato contemporaneamente dai processi di globalizzazione e da crisi, che rende necessario ritornare alle strutture tenaci in cui avvengono i mutamenti politici e le trasformazioni culturali. È importante riconoscere, nelle condizioni sempre più creolizzate della vita metropolitana, non solo l’arricchimento del Primo Mondo ma anche le richieste di altri mondi; richieste cariche di giustizia sociale, economica e politica che continuano a esistere ben oltre la tenuta di superficie di una benefica addomesticazione. Possiamo approfondire questo argomento partendo da una sequenza del film di Werner Herzog, Cobra Verde (1988), basato su The Viceroy of Ouidah di Bruce (Chatwin 1982). All’inzio del film, che si svolge alla metà dell’Ottocento, c’è una scena in cui vediamo degli schiavi neri che stanno tagliando e raccogliendo le canne da zucchero in una piantagione del Brasile. In primo piano vediamo il padrone bianco che spiega al protagonista e futuro mercante di schiavi, Dom Francisco Manoel Da Silva, interpretato da Klaus Kinski, l’economia della merce in zucchero dominata dal “dente dolce” della Gran Bretagna. La raccolta dello zucchero è per una Gran Bretagna che ha abolito la schiavitù, che sequestra le navi negriere in mare, e tuttavia continua a godere del beneficio domestico del lavoro degli schiavi. In questo paradosso crudele consiste “la storia amara dello zucchero” (Derek Walcott). Ovviamente, questa non è la storia che la modernità occidentale è abituata a raccontare a se stessa. La schiavitù, il razzi- La mostruosità della ragione A questo punto ci si chiederà di chi è questo progresso, questa libertà e illuminismo, di chi è questa modernità. L’universalismo che parla in suo nome, mentre sorvola sulla mancanza di libertà e l’oblio degli altri, propone una prospettiva universale che resta vera solamente per alcuni, non per tutti. Come mai la maniera occidentale di concepire il mondo pretende di essere universale, mentre altre storie vengono messe al margine, rese subalterne, calpestate e spesso espulse dal racconto? L’orrore dell’altro, dell’alterità, scrupolosamente localizzato nelle presunte differenze razziali, non rappresenta solamente la paura di una minaccia esterna, ma anche la pau- 139 Migrazioni, modernità e il Mediterraneo smo e l’insistenza sulla purezza etnica sono considerati aberrazioni, incidenti storici; terribili e disgustosi, ma comunque fattori esterni che non scalfiscono il cuore della modernità e la realizzazione del progresso, della politica democratica e della cultura illuministica. Prestare attenzione a tali eventi, a tale storia mostruosa, invece, serve a rendere esplicito qualcosa che è stato centrale per la formazione della modernità occidentale dai suoi inizi cinque secoli fa. Esporre la repressione che abita il cuore di tenebra della modernità significa toccare il rimosso che permette un’immagine coerente e omogenea da sostenere in pubblico e in privato. La modernità si è costruita su questa rimozione, sulla negazione dei corpi, delle storie e delle culture su cui l’economia politica dell’Atlantico, e con ciò dell’Europa moderna, si è fondata. Emigrare, immigrare, trovarsi in esilio e spaesati, non è una questione recente, poiché investe tutto l’arco della modernità, dal momento della scoperta del “Mondo Nuovo” all’arrivo dei motoscafi sulle coste settentrionali del Mediterraneo di oggi. Reintrodurre questa storia nella configurazione del sapere e del potere della modernità significa suggerire che métissage, creolité, ibridità non sono discorsi dell’ultima istanza… essi sono disseminati nella storia moderna sin dall’inizio. 140 Paesaggi migratori Iain Chambers ra dinanzi alla potenziale trasgressione e distruzione di quell’ordine che, con i suoi saperi sociali, politici ed estetici, con i suoi poteri, pensa di riuscire a gestire e spiegare l’altro, e con ciò il resto del mondo. La passione per lo sradicamento dell’alterità dalla terra è anche volontà di rendere centrale la propria casa, il senso della dimora che autorizza tale desiderio e lo premia. Nel suo nazionalismo, localismo e razzismo, tale desiderio costituisce una nevrosi pubblica e privata. Fare a meno della concezione rigida del luogo e dell’appartenenza che sorregge la mia voce e garantisce il mio potere non significa solo fare un semplice trasloco per entrare nelle coordinate di un contesto ormai planetario. Tale spostamento mi servirebbe meramente come scusa per evitare qualsiasi responsabilità reale nel nome di un globalismo astratto e generico. La mia tradizione potrebbe continuare indisturbata in una nuova configurazione dai contorni non troppo netti. Invece, qui si tratta di qualcosa di molto più preciso e urgente. Nell’orrore dello spaesamento pulsa l’angoscia per la dispersione dell’uomo occidentale: la paura del razionalismo davanti a quello che eccede e sfugge al ragionamento che conferma la centralità del soggetto occidentale nella spiegazione del mondo. In tutto questo consiste la sfida storica annunciata dalla violenza che nell’arco di cinque secoli ha stabilito la possibilità di articolare il nostro senso del mondo che orbita attorno alla centralità storica ed epistemologica dell’Europa. Tale centralità si regge su un rapporto ineguale, ingiusto e raramente riconosciuto. La ragione che si vede specchiata in questa formazione dovrebbe sapere di essere inscritta in questa violenza; una violenza strutturalmente rimossa e addirittura negata per permettere alla ragione di funzionare indisturbata. Ma la mostruosità del ragionamento occidentale, segnata da pulizie etniche, ideologie razziste e genocidi, cioè da una violenza che spesso ha abbandonato le sponde della ragione, non è un incidente storico o una rara atrocità accaduta ai margini del mondo. Questa mostruosità, distillata nel desiderio di spiegare e gestire tutto, ritorna sempre, e si è rivelata centrale alla nostra modernità. Da questa prospettiva ben si comprende la riflessione di Walter Benjamin: i morti continuano a parlare. La nostra casa e i nostri linguaggi sono costruiti in loro presenza; e il senso che ognuno porta con sé si regge anche e soprattutto sulla violenza distillata nell’oblio di quest’altra storia. Migrazioni, modernità e il Mediterraneo Questo ci introduce a qualcosa di più che una risistemazione sul terreno del pensiero. Nell’ascoltare il supplemento del silenzio – quello che una volta era considerato non-senso, inintelligibile e indecifrabile – posso iniziare a capire che il mio linguaggio, la mia identità, la mia storia, la mia voce, hanno sempre richiesto l’espulsione violenta nell’oblio di qualsiasi oggetto di disturbo. Ora, poiché non posso parlare per questo silenzio, per questo altro, posso però lasciare un posto per esso: come lo spazio tra il respiro delle mie parole: essenziale ma solitamente dimenticato. Qui il volto immediato dell’altro, reso attuale da un mondo che si restringe ogni giorno, interrompe l’anonimo, l’astratto. Come insegna Emmanuel Lévinas (1961), è l’evasione del volto dell’altro che permette l’omicidio anonimo e il massacro astratto. Il volto invita a una risposta che non può essere una risposta ipotetica, e ci spinge alla cura per qualcosa che si estende oltre il teorico: “Per questo c’è un abisso tra il ‘filosofaré sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga” (Heidegger 1981). Quando il mio tempo è piegato dal tempo altrui e il mio pensiero è attraversato dalla presenza di un altro, entra in gioco una dinamica che non posso più possedere. Il varco verso l’alterità, verso quello che mi eccede, è un’apertura in cui sono costretto a pensare oltre il mio senso di possedere una storia, una cultura e identità che rende tutto trasparente ai miei interessi. Mi trovo in un’apertura in cui la mia storia, il mio essere, sono resi vulnerabili, aperti alla sfida di essere resi altro a loro volta. La mia storia è interrotta, il suo possesso del mondo è sradicato; non più unica, deve rispondere a un incontro che non può controllare, che non può più rappresentare né più escludere. 141 Il senso del silenzio Iain Chambers Paesaggi migratori 142 Qui nella dinamica del linguaggio affiora l’inquietudine del silenzio da cui arrivano altre voci, altre storie, gli altri. Qui avviene il passaggio dall’accettazione liberale delle differenze, in cui la visione dominante non viene mai sfidata, all’interruzione radicale dell’alterità. Ritornare al linguaggio con questo supplemento, con questo modo per piegare il tempo, dà inizio alla cerimonia della memoria che semina nel linguaggio egemonico altri frutti, altre storie, altre verità da raccogliere. Quando il “mio”, il “nostro”, linguaggio – il linguaggio della modernità, dell’Occidente con il suo “progresso” e la sua tecnica – è riformulato, ricostruito, in questa maniera, il linguaggio lascia posto all’inquietudine dell’inaspettato. Un mondo, una geografia tutta centrata su se stessa, incominciano ad andare alla deriva. Le scorie della storia Pensiamo un attimo alla musica, sia come linguaggio sia come mezzo per sondare la modernità. L’opacità semantica dei suoni si estende al di là delle frontiere del quotidiano e delle istituzioni che cercano di regolare il senso delle nostre vite. Le sottoculture giovanili e le loro musiche sono state fra i segni più spettacolari dell’esplorazione di tali aperture negli ultimi cinquant’anni, ma il loro arresto entro i confini arbitrari dello stile (di solito fortemente maschile) significa che anch’esse sono destinate a essere superate dal supplemento dei suoni che tendono a circolare nel mondo senza un indirizzo fisso. Nell’avvicinarsi all’essenza tecnica, estetica e culturale della musica odierna, un’idea chiave, come Walter Benjamin aveva suggerito negli appunti che costituiscono il volume Parigi. Capitale del XIX secolo (1982), sarebbe quella di prendere le scorie della città, i frammenti delle sue storie e dei suoi linguaggi, come materiale – i segni e suoni che si trovano quasi per strada – e, come un disc-jockey, mescolarle insieme per creare un ritmo, una cadenza, che ci porti verso un nuovo orizzonte di senso. Così, posso pensare alla musica “scratch” rubata dai DJ neri di New York dove suoni già incisi vengono riprodotti simultanea- 143 Migrazioni, modernità e il Mediterraneo mente su un paio di piatti per arrivare a un ritmo, a un’immagine sonora, mai sentiti prima. Lo “scratch”, questa prassi di bricolage, potrebbe essere una metafora per la produzione culturale contemporanea che ci indica le vie in cui possiamo usare i linguaggi della città stessa per esplorare la città. Questo ci permette di prendere in considerazione l’idea dei linguaggi della città – la musica, ma anche il cinema, la tv e la moda – come forme del sapere contemporaneo. Si tratta di archivi elettronici e memorie audio-visive che disturbano, minacciano e mettono in questione le forme precedenti di autorità ed egemonia – sia intellettuali che politiche ed estetiche – e che permettono, nello spazio fra i frammenti, che altre voci, altri sensi, altri accenti, altri mondi, emergano e vengano ascoltati. È qui che si formula un nuovo senso estetico, dove i valori culturali non sono più visti come fatti eterni e metafisici, ma invece emergono, vivono e muoiono nel tempo, nel movimento perpetuo del mondo. Poiché, naturalmente, questi linguaggi non possiedono alcuna garanzia etica o estetica. Se ora esiste una grammatica costante messa a disposizione dalla tecnologia mobile del walkman, dei computer portatili, delle carte di credito, dei lettori CD, dei telefoni cellulari, di Internet e file Mp3 (nell’opulento Primo Mondo, il che significa che gran parte della popolazione mondiale non ha mai usato un telefono), il modo in cui questa grammatica opera può variare in intenzioni e in effetti. Se il primo walkman combinava musica e tecnologia in un’inquietante riconfigurazione dello spazio pubblico – un’individualità distinta che emerge dal ronzio degli auricolari e che porta all’interruzione di distinzioni precedenti tra la privacy interiore e la sfera pubblica esteriore – l’accesso, tutto sommato più ristretto, al telefono cellulare (un costoso oggetto che richiede una continua revisione economica) potrebbe semplicemente rivelarsi come banale estensione di un individualismo invadente, in cui la sfida a precedenti forme di linguaggio e di comunicazione viene completamente riassorbita dalla banalità del riprodurre pubblicamente il familiare. Qui la rischiosa ambiguità e la potenziale apertura dei linguaggi si riduce spesso alla “neutralità” trasparente dell’iper-informazione computerizzata, 144 Paesaggi migratori Iain Chambers e al desiderio narcisistico di essere sempre “connessi” (a cosa, dove, come, perché?). A questo punto la metropoli si presenta come luogo aperto dell’identità sociale, della memoria culturale e delle possibilità storiche. Questo spazio è quello che oggi può essere invaso dai linguaggi che sotto l’impatto della globalizzazione dei rapporti culturali non sono proprietà di nessuno: il lessico della musica rock, la sintassi televisiva, l’ubiquità della lingua inglese. È qui che il pericolo e la chiusura dell’omogeneo, del sempre uguale, viene accompagnato dalla salvezza e dall’apertura delle differenze. In questa nuova configurazione, aperta alle storie, alle memorie, alle possibilità che arrivano dall’altrove ed emergono fra di noi, l’identità non può essere vissuta come qualcosa di già dato e realizzato ma diventa invece un’apertura, una continua elaborazione, verso l’avvenire. Qui si disputa un senso della modernità che, come notava Nietzsche, raggiunge l’apice del nichilismo nel ridurre la molteplicità della vita alla singolarità di una metafisica universale rappresentata dalla presunta sovranità dell’identità individuale. Invece la razionalità produttiva della modernità è continuamente interrotta dai propri linguaggi che la portano altrove. In questa maniera lo Stato, i linguaggi dominanti, e la logica del capitale, sono spesso bloccati e deviati quando identità contigue viaggiano altrove, per esempio passando lungo i fili telefonici e attraverso il modem, mentre l’ultimo miscuglio musicale di ‘ragga’ viene trasmesso dalla Giamaica a Londra, per poi continuare a New York per un’ulteriore elaborazione, prima di tornare a Kingston per arrivare sul dischetto e la pista da ballo nel giro di pochi giorni. Da DJ a DJ, tramite la tecnologia digitale, un linguaggio nero e metropolitano che porta il nome di “Giamaica” è trasmesso oltre le frontiere, rifiutando di fermarsi alle dogane culturali o di mantenersi entro i limiti di un senso locale mentre viaggia nello spazio ontologico del suono. Sono tali linguaggi che ci permettono di ‘esserci’, che permettono all’essere di esplorare le possibilità nuove. Questi linguaggi parlano, e parlano di un luogo culturale particolare dove il passato e la memoria, le iscrizioni e le prescrizioni, sono ri-scritte, Oltre il multiculturalismo In questa zona incerta, ambigua, aperta, la sfida a essere decentrato e ad affrontare i limiti del proprio mondo significa anche affrontare i limiti del multiculturalismo che questo mondo finora ha proposto. Di nuovo, non si tratta semplicemente di aggiustare il quadro politico, di allargare gli spazi della sfera pubblica, per ospitare altre culture e altre storie. Si tratta, invece, di affrontare un compito molto più arduo in cui noi stessi diventiamo il quesito principale. Abituati a pensare alle questioni di migrazione, immigrazione, razzismo e diversità come problemi altrui, siamo, invece, ora chiamati a pensarli come prodotti della nostra storia, della nostra cultura, del nostro linguaggio, del nostro potere, dei nostri desideri e nevrosi. A questo punto, l’antropologia occidentale diventa l’antropologia dell’Occidente, ovvero l’antropologia dell’occidentalizzazione del mondo. Un’antropologia ormai senza oggetti, composta solamente dai soggetti storici diversi. Se il multiculturalismo rappresenta la risposta liberale che riconosce le culture e le identità altrui per mantenersene al centro, 145 Migrazioni, modernità e il Mediterraneo ri-citate e ri-situate. Perché è lì che quelle che noi chiamiamo le nostre identità storiche, culturali e personali non vengono solo formate, ma addirittura ri-elaborate, per permetterci di entrare a far parte della prosa e della promessa del mondo. Questo scenario chiaramente ci propone una rilettura del concetto di autenticità, e il suo decentramento, e con essa la crisi del presunto rapporto trasparente e pragmatico fra linguaggio e identità, e le prospettive politiche e culturali costruite su di esso. La proiezione romantica che vede nell’autentico una tradizione continua, una comunità stabile e un’identità fissa, è qui interrotta da un diverso senso di autenticità. Questo senso emerge dalle tracce di memorie, suoni e storie, cioè dai linguaggi che forniscono le costellazioni mobili di un’identità in grado di dialogare con la condizione vulnerabile del contemporaneo, per cercare lì la sua redenzione, la sua dimora. 146 Paesaggi migratori Iain Chambers e lasciando queste altre culture in posizione di subalternità, così evitando qualsiasi interrogazione del proprio progetto politico, qui, invece, stiamo contemplando qualcosa che va oltre il multiculturalismo e la sua logica di “assimilazione” per affrontare la questione persistente di come vivere con, e nelle, differenze. Si tratta, come osserva il critico postcoloniale Homi Bhabha (1990b), di entrare in quel “terzo spazio” dove ogni cultura di “origine” viene interrogata e configurata secondo i processi di ibridizzazione. Qui si apre un divario tra il tempo del governare e il tempo etico della politica, il divario tra la gestione istituzionale e le forme e le forze che lo precedono ed eccedono. Qui l’identità di ciascuno di noi diventa una rete di diversità, un’apertura di differenze etniche e linguistiche, di differenze storicoculturali, religiose e sessuali, che nessuna logica è in grado di racchiudere in sé. Se il concetto dell’altro, su cui il nostro senso di identità storica, culturale e individuale si regge, è andato in frantumi, anche noi siamo coinvolti in una dispersione che ci porta oltre quella casa tradizionale composta di linguaggio e identità nazionale, di località fissa. Non si tratta di evocare l’altro come minaccia o speranza, ma di interrogare noi stessi. Perché qui si profila la sfida a concepire il nostro essere senza la garanzia di essere radicati in sangue e suolo, senza l’idea che il “nostro” linguaggio, la “nostra” cultura, la “nostra” storia, appartengano solamente a noi. Sporcare il pensiero A questo punto il rapporto tra noi e l’altro diventa molto meno chiaro. Sia lo spazio sia il tempo della modernità risultano più complessi, meno geometrici e lineari nelle loro articolazioni. In quest’ottica si tratta di recepire la possibilità che la modernità e i suoi linguaggi di secolarizzazione non rappresentino un processo unilaterale. Sebbene il mondo sia stato investito dalla potenza economica, politica e culturale della modernità occidentale, non si arriva automaticamente all’appropriazione completa da parte dell’Occidente: l’occidentalizzazione del mondo non si- 147 Migrazioni, modernità e il Mediterraneo gnifica che l’Occidente sia diventato il mondo. Il nostro spazio, come la nostra storia e cultura, non è solamente nostro. Al contrario, ormai circolano e sopravvivono all’interno dei linguaggi dell’Occidente anche altri modi di esserci nel mondo, suggerendo una serie di percorsi trasversali in cui l’arcaico e il moderno, il sacro e il secolare, coesistono e costituiscono nel loro insieme i linguaggi ambigui del presente. Qui i rapporti risultano molto meno incisivi per capire una modernità che spezza continuamente i tempi del promesso superamento o Aufhebung del progresso sottoscritto dal pensiero dialettico. In questa luce la modernità ci prospetta un paesaggio mondiale che precede ed eccede la nostra volontà. E anche se pensiamo di esserne gli autori, spesso ci ritroviamo assoggettati ai suoi linguaggi. Parlando come “moderni” del nostro rapporto con le culture altrui, spesso dimentichiamo che tali rapporti sono sedimentati nell’essere moderno da secoli. È stato infatti su tali rapporti che il concetto stesso della modernità si è elaborato, e con ciò l’alterità rimossa, soprattutto nell’epoca in cui il nostro mondo apparentemente diventa il mondo, si rivela parte integrante di noi stessi. Questa forse è la grande lezione di Pasolini, e questo è sicuramente il punto centrale della teoria postcoloniale. Trasportare i termini dell’argomento su questo terreno, sporcando il pensiero con l’insistenza terrestre della formazione ibrida e incerta di una modernità diventata mondo, significa spezzare qualsiasi distinzione netta tra noi e gli altri, tra il Nord e il resto del mondo, il centro e la periferia. Lo spostamento dell’argomento in questa direzione ci aiuta anche a raccogliere l’azione apparentemente inconcepibile dell’11 settembre 2001. Non si tratta tanto di un evento piombatoci addosso, quanto di uno dei tanti punti di maturazione dei percorsi subalterni della modernità, che trova voce e, soprattutto, spazio mediatico, nell’amplificazione drammaticamente moderna del terrorismo. Non penso che l’appoggio popolare alla strategia vendicativa di un miliardario saudita provenga puramente dal serbatoio della religione; penso invece che sia il caso di dirigere la nostra attenzione verso quei frutti della modernità che Frantz Fanon chiamava i “dannati della terra”. 148 Paesaggi migratori Iain Chambers A questo punto, però, non si tratta di evocare lo spettro di un Terzomondismo per contrastare il compiacimento del pensiero occidentale che rifiuta di pensare ai propri limiti. Al contrario, si tratta di riconoscere all’interno dei nostri discorsi l’interrogazione dell’altrove che ormai abita la casa del nostro linguaggio. Attraverso Hollywood e la società dello spettacolo abbiamo assistito molte volte a questi scenari, ma ora ecco il trauma, ecco il profondo senso di spaesamento, poiché abbiamo sempre rifiutato di sentirli come il richiamo profondo della fragilità del nostro modo di inquadrare il mondo. Si trattava sempre di atti di esorcizzazione oppure di “incidenti” – genocidi, carestia, terrore politico – accaduti altrove: Ruanda, Guatemala, Angola, Cambogia, Eritrea, Timor Est, Palestina… Ma se il mondo ormai è il nostro, inquadrato dalla nostra modernità, forse questi eventi sono anche “nostri”. Attraverso la freddezza dello sguardo critico abbiamo cercato di mantenere la distanza, non permettendo all’oggetto di sfuggire alle nostre discipline (antropologiche, sociologiche, storiche, politiche…) per annunciarsi come soggetti storici che richiedano una risposta, e dunque il riconoscimento della nostra responsabilità nell’abrogazione della loro storia. Tale annullamento storico rappresenta una ferita perfino più grave dell’istituzione razzistica della schiavitù moderna. Forse è qui, quando la nostra modernità ritorna carica di altre storie, altre identità, altri desideri, che nasce una vera difficoltà. Se in qualche modo la modernità stessa è stata costruita sull’espulsione, sia fisica sia simbolica, dell’altro in nome della purezza religiosa, etnica, culturale e scientifica, allora la storia della modernità è anche la storia di questa rimozione, di questa negazione, di questa impostazione di ‘distanza’. Una distanza che ormai è impossibile mantenere. Di nuovo, aprirsi a questa prospettiva richiederebbe una disponibilità a riconsiderare la configurazione della modernità dai suoi inizi cinque secoli fa. Qui troveremmo che gli argomenti di Marx sulla tendenza del capitale a realizzarsi in un mercato mondiale, e l’insistenza di Heidegger sull’evento storico rappresentato dall’avvento del “mondo quadro” stabilito per la prima volta con la prospettiva umanistica, ci invitano a ripensare ai L’inquietudine del mondo Elaborare un senso del luogo, dell’appartenenza, edificare e abitare lo spazio, quello del Mediterraneo o quello della città di Napoli, per esempio, implica registrare dei confini, dei limiti; come minimo tra un dentro e un fuori, tra lo spazio coltivato della scena domestica e la stranezza e l’inquietudine del mondo esterno. Naturalmente, dopo Freud, ma, come Jean-François Lyotard ci ha ricordato, possiamo dire, sulla scia della tragedia greca, che questa casa è illusoria, che l’estraneo, il rimosso, l’inconscio, riescono sempre a infiltrarsi nello spazio domestico; la porta è porosa. Notava Georg Simmel che con la porta il confinato e lo sconfinato si toccano l’un l’altro, non nella forma geometrica e morta di una partizione di separazione, ma nel senso della possibilità di uno scambio continuo. Abitiamo nel perturbante, dove il rimosso completa l’architettura delle nostre storie, le nostre culture, le nostre identità. 149 Migrazioni, modernità e il Mediterraneo processi di “globalizzazione” secondo una temporalità diversa da quella indicata dal giornalismo istantaneo. Il ritorno della storia della modernità nella storia della prepotenza dell’egemonia occidentale su scala planetaria, registrata e rimossa nel pensiero da una “epistemologia violenta” (Gayatri Chakravorty Spivak), ci spinge a riconfigurare il senso stesso della modernità. Dopo la Shoah sappiamo che la violenza incomprensibile è stata sempre realizzata e sarà sempre realizzabile; possiamo trovarci continuamente dinanzi agli eventi che non riusciamo a far entrare nella nostra capacità di ragionare. Ma la registrazione dei limiti dei nostri linguaggi, del nostro pensiero davanti all’incommensurabile, non significa che si dovrebbe passare dallo stato della ragione alle tenebre dell’irrazionalità. Arrivare ai propri confini potrebbe anche servire a consegnarci a dialoghi e prospettive basate non tanto sul potere prescrittivo delle nostre voci, quanto sull’apprendimento dell’ascolto, dove i nostri linguaggi ritornano parlando di altre storie, di possibilità finora impensabili; dunque di altre modernità. 150 Paesaggi migratori Iain Chambers Tale concetto di “luogo” e di “casa” abitata dagli spettri della storia, mette in questione la storia, la cultura e l’identità, sia dell’altro sia del residente, e con ciò dei saperi che pensano di possedere la spiegazione di questi rapporti. I nostri saperi, le nostre narrazioni, noi stessi, siamo chiamati a rispondere a una conoscenza dell’esserci nella modernità che va oltre i confini istituzionali e disciplinari che abbiamo imparato e propagato. Al posto della “scientificità” conclusiva di una disciplina, di un sapere, si installa un senso aperto e interdisciplinare; dove il “senso” sta per indicare la direzione, la via, il dispiegamento di un percorso critico. Fuori casa, un po’ spaesato, ogni discorso, con la sua formazione storico-culturale, viene inscritto in una cartografia sradicata per essere ri-letto, ri-visitato nel momento in cui viene interpellato dalle storie rimosse che sopravvivono nelle correnti della modernità stessa. A questo punto ci troviamo in un percorso che si apre su una geopolitica e una “globalizzazione” diverse, con la prospettiva di riscrivere il senso stesso del luogo, dell’identità, e delle modernità, che ci portano altrove. Questo sarebbe lo sradicamento radicale della modernità che altri, meno fortunati di noi, hanno già conosciuto. Forse, come ha suggerito Adorno, tocca ora a noi imparare a stare a casa senza sentirsi a casa, per recepire ciò che esiste oltre i nostri confini, i nostri concetti; quei concetti che, in fin dei conti, cercano sempre la consolazione di addomesticare il mondo per il nostro beneficio. In questo luogo, sospesa negli interstizi del divenire, ogni identità si trasforma da punto di arrivo in punto di partenza, lungo il percorso mondo dove ormai tutti cercano “casa”. Napoli, luglio 2002 1 Continente, città, paese, società / la scelta non è mai ampia e mai libera. / E qui, o lì… No. Saremmo dovute restare a casa, / ovunque essa possa essere? 2 Inventato in realtà qualche migliaio di anni prima dai sumeri e portato sulle rive del Gange da Alessandro, fu però il matematico indiano Mahavira a intuire l’intera portata della cifra. Poi, attraverso i mercanti e i matematici arabi lo zero rientrò in Europa occidentale. Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento. Anderson, B., 1983, Imagined Communities, London, Verso; trad. it. 1996, Comunità immaginata, Roma, manifestolibri. Arendt, H., 1958, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press; trad. it. 1994, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani. Arendt, H., 1986, The Origins of Totalitarianism, London, Deutsch; trad. it. 1999, Le origini del totalitarismo, Torino, Edizioni di Comunità. Ashcroft, B., Griffiths, G., Tiffin, H., 1990, The Empire Writes Back, London-New York, Routledge. 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