1 Era il Giorno dei Morti e io – ch`ero stufo di

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1 Era il Giorno dei Morti e io – ch`ero stufo di
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Ripeness is all.
Edgar1
Era il Giorno dei Morti e io – ch’ero stufo di
trovarmi tra i vivi – mi svegliai molto presto, quel
mattino. Ma poi lasciai trascorrere due o tre ore in
vani sogni e fantasticherie. Infatti non sapevo più
che farmene, oramai, di quelle ore mattutine d’oro:
da sette mesi avevo smesso di scrivere. Smesso per
sempre.
A metà marzo avevo terminato il mio sesto romanzo, il più ambizioso, intitolato Quando pisciano le galline, e ne avevo spedito una copia a tutti
gli Editori italiani importanti, con una lettera in cui
li avvertivo che Saturno P. Nullo avrebbe gettato la
macchina da scrivere alle ortiche, se anche quella
sua opera fosse rimasta, come le altre cinque, inedita: sì da inchiodarli alle loro responsabilità nei confronti della Letteratura.
Nel giro di tre o quattro mesi ricevetti un rifiuto
dietro l’altro. E mi lasciai andare alla deriva.
A essere un fallito si acquisiscono non pochi privilegi (in primo luogo: non avere più alcuna speranza, e quindi, come dice il Caravaggio, più nessuna
paura) ma occorre costanza. Non è facile, affatto,
vivere sempre infelici e contenti.
Esser maturi conta più di tutto. (Re Lear, atto V, scena 2ª)
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Sempre, però, significava solo fino a Capodanno, per me. Mi restavano ancora due mesi. Poi mi
sarei dato – come dice Amleto – quietanza di mia
mano. Del nuovo anno, avrei visto soltanto la prima
alba.
Quel mattino indugiai dunque a letto fin verso le
nove, tessendo – come il celebre Walter Mitty – le
trame di svariati sogni, alcuni dei quali a puntate.
In uno (era un vago mattino di sole velato, in aprile,
parecchio prima della guerra) vagavo con la Bice
Gramaccioni – il mio idolo di quarta ginnasio – in
riva all’Adriatico selvaggio e, giunti alle montagnole, io prendo il coraggio a due mani e la bacio
— laddove, nella cruda realtà, Bice era innamorata
di Gigetto Pupazzini e, me, mi faceva soltanto poetare e spasimare. In un altro di quei sogni ricorrenti,
io ero il Capo illuminato di una Governo socialista
e promulgavo leggi molto sagge, che mettevano a
posto tante cose in Italia: fra l’altro eliminavo tutti i parassiti della burocrazia statale, me compreso.
C’era poi questo sogno romantico – una reveria a
pastello che si ripeteva quasi ogni giorno, con minime varianti – in cui vivevamo felici, indisturbati,
su una piccola isola dei Mari del Sud, la mia cara
Moglie e io, con i nostri sette figli, allo stato selvaggio – più o meno selvaggio, a seconda del mio stato
d’animo – e io ero un grande artista sconosciuto e
soddisfatto di esserlo.
Quando il cucù, in salotto, emise nove lagni, mi
schiodai dal letto a stento e mi trascinai al bagno,
pensando: Con un colpo di pistola? o appeso ad una
corda? o gettandomi nel vuoto? Sonniferi, no. Do-
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vrà essere una morte virile. Come quella di Saffo.
Inoltre – e soprattutto – dovrà passare per un incidente. Come quando si legge, sul giornale, di un tale
che stava pulendo, in soffitta, un vecchio fucile da
caccia. O sennò: Al volante della sua utilitaria, tale
Nullo Saturnino, di anni 38, abbordata una curva a
cento all’ora, è andato a schiantarsi . . . . Ma perché
non ho mai imparato a guidare l’automobile? Dovrei consultare uno strizzacervelli, al riguardo.
Incontrai i miei occhi nello specchio, cisposi e
arrossati, nel pallore del viso, e rimasi impietrito,
come alla vista di una novella Gorgone. Mi riebbi
ed aprii il rubinetto. Morte per acqua?... Ebbene,
perché no? Rivedermi, in quei pochi ultimi attimi,
tutto il film della mia vita...
Presi a radermi e, intanto, pensavo a Seneca che
si svenò, a Socrate che bevve la cicuta e che aveva
i suoi bravi discepoli intorno, e discorreva con essi
affabilmente – di filosofia morale e di moralità politica, ma anche di piccole cose, come quel gallo
dovuto ad Esculapio – mentre io sarei morto tutto
solo, come un cane.
Mi esaminai la lingua allo specchio. Un patinoso
orrore. Da quanti giorni non andavo di corpo? Ma
c’era ben altro di cui darsi piuttosto pensiero, per
uno votato alla morte. Dovevo sistemare molte cose
e – in primo luogo – prima di morire, uccidere il
Principe di Santaniello.
Udii sbattere la porta d’ingresso. Non poteva che
essere Pasqua, la moglie del portiere Solideo, che
mi veniva a far le pulizie. Eppure, lì per lì, mi illusi
che fosse invece sua cognata Ribella. Ma l’illusio-
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ne durò appena lo spazio d’un nostalgico, erotico
sospiro. A quest’ora – rammentai a me stesso – la
bella Ribella è in viaggio di nozze, in Sicilia. Fortunato il marito, pensai — se solo non avesse dovuto
sposarla, per averla!
Quanto a me, avevo perduto per sempre la mia
grande occasione, con lei. E dire che l’avevo avuta
nuda, dentro al letto, nuda bruca, fra le mie braccia!
Perché non ero andato fino in fondo? Sarebbe bastato dare, a tradimento, un colpo deciso di reni. Che
imbecille! Per quanto invece riguardava il Principe,
doveva configurarsi come un delitto relativamente
perfetto — nel senso cioè che il vero movente non
doveva mai essere scoperto, e neppure ipotizzato.
Ma il ricordo di Ribella cacciò via, per il momento, i miei cupi pensieri di morte. La pacchia
era durata un par di settimane in agosto, allorché
la brutta Moglie del portiere Solideo si era dovuta
assentare e aveva mandato, in sua vece, la giovane
e prosperosa e procace Cognata.
Ribella aveva un unico difetto: grosse mani rosse e rozze. Dopo aver rassettato alla svelta, alla meglio, la cucina e il soggiorno, entrava fragrante in
camera mia. Io ero a letto, fingendomi malato. Un
tantino lo ero, veramente, poiché avevo una febbre del mistero. Poche linee, ogni giorno – nulla
die sine linea – a ore fisse, accompagnate da frequenti doppie sistole, capogiri, crampetti immaginarii, inverificate allergie. La Portiera, oltre che alle
pulizie, era adibita a praticarmi iniezioni a base di
belladonna contro quella che, allora, era chiamata,
in mancanza di un termine più esatto, distonia del
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simpatico. Anche questo incarico era passato, in
agosto, dalla Moglie alla Sorella di Solideo. Dopo
avermi trafitto, con sadica e amorosa maldestrezza,
la natica di turno, Ribella seguitava a giocare all’infermiera per un pezzo, finché si ficcava nel letto accanto al paziente.
Di sangue caldo romagnolo, era una ragazzola
tutta pepe, graziaplena, con turgide tette arroganti,
fianchi schietti, ben fatta dappertutto — tranne per
quelle mani da tagliaboschi. Si torceva come una
biscia e gemeva come il Toro di Agrigento ma –
purtroppo – anche il suo fidanzato era di quelle parti, siciliano di un paese dell’interno, chiamato credo
Castelbellotta, dove si costumava ancora appendere
il lenzuolo nuziale alla finestra, il giorno dopo, affiché tutto il vicinato constatasse che era debitamente
screziato di sangue virgineo. Non si esitava a uccidere la sposa, se il sigillo di garanzia fosse risultato
infranto. Invocando il delitto d’onore, si rischiavano
al massimo due annetti, con la condizionale e l’Encomio Solenne della Corte. Scarcerazione, quindi,
quasi immediata.
Il ricordo di Ribella non voleva darmi requie, sì
che ero tentato di scacciarla con un colpo di mano.
E digrignando i denti ripetevo fra me e me: Ma che
fesso sono stato a darle retta, quando lei mi pregava di smettere, oh non spingere oltre, per amore
del cielo. Avrei dovuto invece, già che c’ero, farle
la festa. E chi se ne fregava, se anche lui l’avesse
strangolata — come un siculo Otello.
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...when these mutualities so marshal the way, hard at hand
comes the master and main exercise: the incorporate conclusion.
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Vestito solo di un asciugamano intorno ai fianchi, tornai in camera e, qui, una vaga visione si animò davanti alle mie incredule pupille. “Ribella! Eri
tu!”
Essa lasciò cadere sussultando il cuscino che teneva tra le mani e condivise il mio stupore. “Oh!
Dottor Nullo... era in casa, lei, ancora?”
Mi sentivo brutto e goffo, come se il travaglio delle interiora si manifestasse sul mio volto, nei miei
modi. “Che, avete rinv ... No, vedo che hai la fede
al dito.”
Essa la rimirò, la rigirò con quasi stupefatto orgoglio. Poi riprese la faccenda, rincalzando il lenzuolo alla sua disgraziata maniera. “Alfio e io abbiamo dovuto interrompere la luna di miele perché
è morta la sua mamma, poveretta.”
“Ribella...”
“Gli è preso un malore, lì per lì pareva niente,
a Monterotondo, dall’altra Nuora. Oggi abbiamo il
funerale.”
“Ribella...”
Mi guardò, timidetta, poi distolse lo sguardo pudica. “Sì, dottor Nullo? Che c’è?”
“Ribella, c’è che io... sono molto contento di vederti. Non me l’aspettavo mica.”
...Quando queste effusioni hanno aperto la strada, non tarda ad arrivare il magistrale e massimo diporto: la conclusione incorporata. (Otello, atto II, scena 1ª)
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“Neanch’io. Povera donna. Crepava di salute.”
Seguitò a rifarmi il letto. Tentò di spianarle, ma
solo cambiò ordine alle grinze del lenzuolo. Imbambolata, vi stese sopra la coperta a toppe. Espresse
la sua ammirazione per essa. “È fatta all’uncinetto,
non è vero?”
“Eh, sì. Dalla nonna Ilaria. Le fa con ghiomoletti
di lana avanzata. Praticamente, non vengono a costare nulla, e, in più, ci si diverte. Andrete a abitare
in Sicilia?”
“Oh no no, grazie a Dio. Alfio ha trovato lavoro
a Torino, alla Fiat. Sa, dottore, lei somiglia a Marlon Brando.”
“Vorrai dire che assomiglio a Giulio Cesare, Ribella.”
Lei rise scemascema. Finì di raffazzonare il letto. “Ora devo scappare, sa, dottore. Alfio mi aspetta
nella camera ardente.”
“Ardo anch’io, se è per questo.” Le sorrisi, con
oscuri sottintesi. “Te ne andresti... così... senza prima dare un bacio a un vecchio amico?”
Si scansò. “Ora sono una signora, dottor Nullo.”
“E con questo?” L’agguantai per le spalle. “Non
ti piaccio forse più?”
“Che c’entra...” Si lasciò stringere a me ma distolse la bocca. “Dài, adesso non sta brisa più bene.”
“Dài tu! Baciami, sii buona. Quanto sei! Solo un
bacio, in nome dei vecchi bei tempi. Che cos’è un
bacio?”
“Son come le ciliege...” Si divincolò per liberarsi,
respingendomi con quelle mani ruvide, rudi. “Non
mi fido.”
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