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Edizioni Il Foglio
NARRATIVA
Direttore: Gordiano Lupi
www.ilfoglioletterario.it
Via Boccioni, 28 - 57025 Piombino (LI)
© Edizioni Il Foglio - 2011
1a Edizione cartacea - Novembre 2011
ISBN cartaceo 9788876063367
IBN eBook 9788876064494
Elaborazione grafica e impaginazione | [email protected]
Creazione e impaginazione eBook | creoebook.blogspot.com
Michele Ponte
Confessioni di uno psicopatico
Edizioni Il Foglio
Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi somiglianza con persone, vive o morte che siano, è da
considerarsi puramente casuale.
A Maria,
il primo giorno mi hai dato speranza,
in quelli successivi mi hai mostrato
il mondo che gira intorno ai libri.
Benvenuti nella mia mente
(Se proprio dovete)
Curioso. Sì, è così che mi sento.
Questa sera, tornando a casa dall'università, osservo i mille volti stravolti ad attendere la metro.
Facce mosce come mozzarelle o stressate come canne di bambù piegate dal vento.
Mi hanno detto che, rispetto a quando sorridiamo,per fare un'espressione arrabbiata o stufa (non
me lo ricordo bene) costringiamo il nostro corpo ad utilizzare almeno il doppio dei muscoli facciali;
ebbene io, lì in attesa come loro, non avevo quel tipo di problema,anzi la curiosità superava
qualsiasi preoccupazione,anche quella di essere costretti ad attendere per poterla soddisfare.
Una folata di vento seguita da uno stridore di freni,ancor prima del pannello elettronico, annuncia
l'arrivo della metro alla stazione Termini.
Calca di gente dai capelli corti, rasati. Un po' di dread, accanto a persone ricoperte di gel sino al
pizzetto e uomini in completo, sicuramente qualcosa da poco, altrimenti non utilizzerebbero i mezzi
pubblici.
La fila si crea ancor prima dell'apertura delle porte. Rimango in disparte ancora un po', aspetto
che le acque si allarghino. Non voglio essere travolto dall'onda.
Facce identiche che scendono, facce identiche che salgono.
La mia non deve essere diversa dalla loro, perlomeno negli altri giorni, o forse solo quando
decido di mimetizzarmi...
Portafogli e telefonino nelle tasche davanti dei jeans grigio perla, zaino in mano ed entro nel più
grande forno a microonde di Roma. Qualcuno gira la manovella e imposta due minuti di cottura, il
tempo di arrivare a Cavour e scoprire che il piatto è ancora freddo. Non scende nessuno. Tre minuti e
siamo a Colosseo. Dei turisti, sia in entrata che in uscita, si fanno largo a forza di «sorry». I
condimenti americani non ci piacciono, e ce ne accorgiamo solo dopo altri tre minuti, quando si
arriva a Circo Massimo, e scambiamo tre-quattro hamburger per un kebab. Carne decisamente
gustosa. Poi dell'aria, chi sta preparando la cena si sarà ricordato che alcune cose cuociono prima di
altre, così a Piramide appare pure qualche posto a sedere. Altri tre minuti, e Garbatella passa veloce
e innocua. Un paio di minuti e si arriva a San Paolo, una delle ultime stazioni che permette di
cambiare treno (cioè piatto). Ci si accorge che non si è più costretti a guardare la testa delle persone
a quindici centimetri di distanza, vedi che ora quella faccia da gnocca non ha il corpo di un ortaggio,
ma quello di un maialino troppo coccolato dalla mamma; va be', che ci posso fare, un po' di pancetta
nel minestrone ce la mette pura mia nonna. Nel frattempo passano Marconi, EUR Magliana ed EUR
Palasport. Quest'ultima stazione porta ricordi tragici: la squadra di casa, la Virtus Roma, mangiata
letteralmente da tutte le sue avversarie di campionato in Serie A di basket. Ad Eur Fermi una brava
persona apre lo sportelletto del forno e ci tira fuori, in salvo: chi arriva a Laurentina viene
ingoiato,chi supera il capolinea viene espulso, e non c'è bisogno di spiegazioni.
Salgo le scale con una certa acquolina in bocca... pregusto la curiosità, non pensate male.
Attraverso la strada – vuota, o piena di cartoni lasciati dal mercato – e scendo le scale dall'altra
parte, quelle che mi portano a riprendere la metro in direzione Termini, ma non me la sento di
affrontare un'altra digestione, così svolto a destra e imbocco un'altra rampa. A forza di scale siamo
finiti in un quadro di Escher. Attraverso il ponte che passa sopra il laghetto artificiale voluto da
Mussolini e arrivo alla collina dove è parcheggiata la macchina, la collinetta dei ricconi. Mmm, sì,
come avete intuito non sono tra loro. Ma non vi preoccupate,per passare dal linguaggio culinario a
quello di internet vi dico che la mia non è una faccina da due punti-aperta parentesi tonda, bensì da
due puntichiusa parentesi tonda. Per chi non l'avesse capito sono sorridente, e questo vi basti.
Trovo le chiavi della Panda, o meglio, del Pandino,visto che è il modello vecchio, e osservo il
suo color cacca d'uccello. Il pensiero di lavarlo mi sfiora, immaginando i vostri volti disgustati, ma
contate poco per me, basta che continuiate a leggere.
Viale dell'Umanesimo, strada tristemente nota perché un sindaco che vi abita fece spostare i
bisognosi di metadone in un luogo lontano; via Laurentina, che si meriterebbe uno slogan del tipo: Il
traffico c'è ogni volta che sei di fretta!; via di Trigoria, conosciuta da tutti i calciofili d'Italia perchè
qui si allena la Roma – squadra che, esattamente come le altre, non tifo e che non sono mai andato a
vedere allo stadio –, e sono a casa. Un semplice «ciao» alla famiglia mentre passo loro davanti e,
sempre spinto dalla curiosità, mi fiondo in camera.
Su un dizionario cerco il significato di psicopatico.
Può capitare che la tua ragazza ti dica: «La vuoi smettere di comportarti come uno psicopatico?»,
e lì ti viene da ridere: pensi che la cosa le piaccia, ma ti assicuro che non è così per tutte.
Può capitare che i vostri amici ti dicano: «Sei proprio uno psicopatico», poi si fanno due risate e
ti danno una pacca sulla spalla. Gli stai simpatico per quello che sei, l'ultimo fottuto coglione sulla
faccia della terra.
Può capitare che inizi a pensarlo: sono uno psicopatico, sono uno psicopatico, sono uno
psicopatico... fino a che ti chiedi, e lo fai ad alta voce: «Sono diventato uno psicopatico?»
Così torni a casa e cerchi sul vocabolario. Psicopatico: Leggere psicopatia. Psicopatia: 1, ogni
forma di alterazione del comportamento che però non costituisce malattia mentale; 2, (nel senso
comune) pazzo, fuori di testa.
Qui tocca scegliere, la uno o la due?
Appoggio il vocabolario sulla scrivania sotto la libreria. Mi sdraio sul letto a pancia in su e
osservo il soffitto bianco candeggina, che in realtà non è immacolato: oltre alla lampada penzolante
c'è appiccicato con il nastro adesivo un assegno formato maxi.
BANCA DEI RICCONI – I poveri non sono graditi
Causale: giusto pagamento dovuto a demeriti mentali
Euro: quattrocentomila/zerozero – 400.000,00
Intestato a: Luigi Trampoli
Allora, come dirvelo... quando ho iniziato a scrivere questa storia-confessione mi è venuto in
mente che umiliarmi e prostrarmi al mondo intero doveva essere un po' come dare il culo, e il culo
non lo si dà mai gratis. Quindi ho deciso che la giusta ricompensa da ritirare un anno dopo la
pubblicazione, magari proprio come regalo di Natale, sarebbe stata una cifra a cinque zeri con il
quattro davanti. Non ho un'idea precisa del perché io abbia scelto il quattro al posto del
novecentonovantanove, ma mi sembrava giusto fare le cose un passo alla volta, perciò, tanto per
iniziare, più di mille euro al giorno mi bastano... Accidenti! Mi sono ricordato che almeno il 15-20%
andrà all'agente letteraria, un'altra grossa percentuale alla SIAE e... cavoli, questi scrittori fanno
proprio la fame!
Adesso voi, dopo aver letto queste righe, che fate, mi inserite ancora tra gli psicopatici? Se sì,
nel primo o nel secondo gruppo?
Okay, non posso proseguire così: non mi va che riponiate questo libro sullo scaffale della
libreria, voglio quei quattrocentomila, ricordatevelo!
Ora vi fornisco un aggancio che scuoterà un po' la situazione, qualcosa che vi dovrà tenere
incollati almeno per le prossime dieci pagine. Vediamo, che vi posso dire... ah, ecco un'idea!
Il giorno dopo, più o meno verso le 11:00 sento il cellulare vibrare. Lo tiro fuori dalla tasca e
leggo il nome sul display. Mario. Che strano, cosa vorrà?
«Pronto» dico.
«Luigi, è successo un casino...»
«Dimmi.»
«Tuo fratello, il mio migliore amico, è morto!»
È andata proprio così, ve lo assicuro, non vi sto prendendo in giro. La telefonata è proseguita,
Mario dopo avermi fornito una notizia del genere non è che poteva attaccare, mi ha detto i
particolari, che ora vi tengo nascosti, tanto per tenervi qui con me ancora per qualche riga. Il
problema è sorto, questi problemi sorgono sempre e non ci si può far nulla, quando sono dovuto
andare a spiegare al resto della famiglia come mai il mio caro fratellino non era ancora tornato a
casa. Lì si che ero preoccupato.
La situazione era davvero straziante: la perdita di un altro figlio non l'avrebbero accettata – eh sì,
signori, non è l'unico che è morto in questa famiglia –, dovevo agire in una qualche maniera,
togliermi da impicci quali pianti e urla isteriche.
«Mario...» dico cercando di fare una voce mortificata.
«Sei ancora al telefono?»
«Sì...»
«Senti, potresti dirlo alla mia famiglia, che io...»
Ecco, arriva una grossa bugia: «Che io non ce la faccio...»
In effetti, pensandoci bene, non era poi una così grossa menzogna: dopotutto non ce l'avrei fatta
ad
assistere alle conseguenze.
«Luigi, sei sicuro? Non sarebbe meglio se lo facessi tu?...»
«Dai, fammi questo favore...»
«Va bene...»
Afferro una giacca, un pacchetto di fazzoletti – non avete idea di quanto io sia raffreddato in
questo periodo – e mi soffio il naso con tale forza da dare quel tocco di rosso alle pupille, quello che
fa pensare alla gente: avrà pianto? Ma no, sicuramente s'è fatto una canna, suvvia, siamo
ragionevoli...
Nel salone trovo tutta la famiglia al completo, come se l'istinto li avesse avvisati. Io ci credo alla
faccenda dell'istinto, sapete? Non avete idea di quante volte ho fatto l'idiota al volante senza farmi un
solo graffio. Curve troppo larghe, sorpassi illeciti, accelerate che porterebbero alla sospensione
della patente e macchina lisciate per uno sputo. Uno sputo, se non l'avete capito, è un termine con il
quale si indica una distanza nelle borgate romane. Ovviamente, uno sputo di distanza è una distanza
molto ravvicinata, e c'è persino chi si sputa addosso...
Allora, eravamo rimasti alla famiglia al completo.
Li vedo, loro vedono me, il cellulare che ho in mano e notano i miei occhi.
Bene, le cose vanno come previsto.
«Io esco di casa» dico. «Al telefono c'è Mario... de-deve parlarvi...»
Sbatto la porta, faccio i gradini a due a due e sono in strada.
Mi accorgo che ho dimenticato in casa le chiavi della macchina... porca miseria, la morte di mio
fratello deve aver sortito qualche effetto anche su di me!
Chissà se faccio in tempo a risalire...
«Noooooooooooooooooooooooooooooo!» un urlo capitombola giù dalle scale. Immagino vetri
spezzarsi, facce gonfiarsi di dolore e oceani di lacrime.
Non voglio affogare. Non salgo.
Sento l'autobus arrivare, un rumore ben diverso da quello della metro. Questo sembra quasi lo
sbuffo di una locomotiva ai tempi del Far West, e lo produce la Mercedes, fantastico!
Vado in fermata, che è proprio davanti casa, e attendo la puzza di bruciato sull'asfalto: avevo
riconosciuto l'autista, lo conoscono tutti qui a Trigoria. Le sue frenate sono memorabili, neanche le
montagne russe a King's Dominion si permettono tanto, e quello è un parco giochi costituito quasi
esclusivamente da montagne russe...
Le porte si aprono e non scende nessuno, non scende mai nessuno quando l'autobus è diretto
all'EUR. Trovo posto dietro a un tizio che si scaccola, così posso osservare la traiettoria delle sue
bombe verde pisello e allo stesso tempo pregare che non le lanci all'indietro, e davanti a un paio di
romeni puliti e vestiti come se dovessero andare a un matrimonio.
Mi rendo conto che non ho portato un libro con me, praticamente la più grande cazzata della
giornata. No, forse la seconda più grande cazzata: la prima è stata rispondere a quella telefonata. Un
libro, e sull'autobus va bene anche un romanzo scelto a caso, serve a passare il tempo. Serve a questo
e nient'altro. Beh, pensandoci serve pure a coprire gli sbadigli. Comunque, per farvi un esempio, una
volta ho preso lo 077 sotto casa e sono arrivato sino al capolinea, poi la metro fino a Termini e in
seguito il numero 86 per arrivare sulla Salaria. Tutto questo tragitto perché i prof avevano deciso di
fare l'esame in una sede diversa da quella delle lezioni... Durante il tragitto ho potuto ascoltarmi due
interi cd di Rihanna, Rated R e Loud, questo è il tempo che ci ho messo!
Tornando a dove eravamo, non avevo con me un libro, né qualcosa per ascoltare la musica.
Peggio di così non potevo stare. Ho iniziato ad osservare i pendolari e alla fine ho sentito un tizio
dire qualcosa d'interessante: «Tre euro, solo tre euro, ti rendi conto?... No, non ti preoccupare, a te le
aveva messe a tre virgola cinquanta perché non ti conosceva, ma di me si fida... è il cinese di Colle
Oppio... sì, tranquillo, sigaretta a tre euro, a Roma, ti rendi contro?!... Ok, dieci pacchetti, va bene, a
presto.»
Decido di pedinarlo.
Sapete perché ho staccato per un paio di righe? Perché ho deciso di concedervi una pausa, ma ora
potete andare avanti nella lettura. Anzi no, devo andare un attimo al bagno. Facciamo che contate sino
a sessanta, okay? Però non deve essere un conteggio veloce, deve essere un minuto pieno, e per fare
un minuto come si deve c'è un metodo, si conta:
Mille e uno.
Mille e due.
Mille e tre.
Mille e così via... Capito? Questo è l'unico metodo efficace per un conteggio sicuro, lo usano sia
i killer che gli arbitri di basket, però non vi dico quale delle due attività ho sperimentato...
Devo proprio andare. Iniziate a contare.
Bravi, ci siete ancora, lo so che in fondo mi volete bene.
Per chi non conosce Roma, faccio una panoramica al volo di Colle Oppio, invece tutti gli altri
possono pure saltare il prossimo paragrafo.
Colle Oppio, tralasciando il nome, so che avete subito pensato a quelle battute scadenti a
proposito di droghe, fa parte dell'Esquilino, uno dei sette colli dove Romolo e Remo, a forza di
poppate e con un branco di lupi dalla loro parte, abbaiando avevano scacciato gli altri esseri della
zona. Questo colle è noto anche perché viene definito – a torto, credo – come uno dei polmoni di
Roma poiché ha un parco dove la gente si può rilassare, passeggiare e giocare con i bambini, ma
nulla in confronto al parchetto di Manhattan.
Insomma, seguo questo tizio e mi ritrovo in mezzo ad alberi spogliati da piogge acide o da
bambini che hanno gareggiato a chi staccava più corteccia e foglie. Sono a circa quindici metri di
distanza quando lo vedo approcciare un cinese dall'aria simpatica, guance rosee come quelle dei
pupazzi a incastro russi e tondeggiante alla Bud Spencer; uno di quelli che stanno simpatici a pelle,
ve l'ho detto, no? Purtroppo il tizio che seguivo mi sono dimenticato di descriverlo, un errore di chi è
alle prese per la prima volta con un romanzo, pardon. Rimedio adesso: ha dei capelli corti rasati a
zero, come a voler nascondere il fatto che al centro della capa è come una gallina spennata, pancetta
da bevitore e barba leggera, del tipo che non se la taglia da almeno una settimana.
Mi appoggio a un albero e li guardo cercando di passare inosservato.
«Fevmo. lol voltavti» mi avvisa una voce da dietro, l'accento cantonese gli si sente come lo
squalo avverte il sangue a chilometri di distanza.
E ti pareva che non mi infilavo nei guai!
«E che palle» dice un'altra voce, questo invece deve essere un italiano. «Sempre 'sta gente che
non si fa i cazzi suoi!»
«La selti questa» dice appoggiandomi qualcosa di freddo sul collo.
«Questa cosa?» vorrei dirgli. «Questa lama? Questa pistola?» Ma taccio.
«La selti?» ripete.
«Sì.»
«Bene» dice gelido. «Fai esattamelte quello che ti dico io e fovse lol ti succederà lulla.»
Non mi resta che ubbidire. Proprio in una bella situazione mi sono cacciato.
«Fai ul passo latevale vevso sinistva» dice. «Hai pvesente come si muovno i giocatovi di basket
quado
difeldolo?»
«Okay, Yao Ming, ubbidisco.»
«Idiota» dice mentre mi colpisce in testa.
È un pistola, cazzo, l'ho sentita!
«Fai ul passo. Ok, bvavo. Ul altvo. Pevfetto. Altri due e siamo apposto. Oh, decisamelte meglio.»
Un giro di centottanta gradi, questo mi hanno fatto fare.
«Ova due passi i avalti e lol ti muoveve. Sì, bee.»
Uno dei due mi afferra e mi perquisisce. Parte dalle ascelle, poi il petto, le braccia e scende sino
al sesso.
Non mi piace per niente. Passa alle gambe e alle tasche dei pantaloni, dove tira fuori tutto quello
che ho: una tessera dell'autobus sulla quale non ho scritto il nome e un paio di banconote da dieci.
«Sembra pulito» dice l'italiano al collega. «Allora, coglione, si può sapere che ti guardavi?»
«Niente...»
«Senti, nessuno sta appoggiato a un albero mentre due uomini trattano.»
«Ho sentito che si potevano comprare sigarette a poco...»
«Ah, e così vieni qui con la tua faccia tosta e...»
Il cinese lo scansa e dice: «Lo hai l'avia di ulo che fuma», poi, con un movimento repentino, mi
infila due dita in bocca. «lemmelo i delti gialli... Ahi!» Un ceffone mi colpisce in fronte. «Se mi
mozzichi u'altva volta giuvo che...»
Un fruscio di scarpe su foglie e poi silenzio.
«Sparategli» dice una voce che non riconosco. Deve essere quello che trattava.
«Va bene.»
Sento un click, sicuramente la sicura della pistola che viene sbloccata poi...
«NO. Rincoglionito d'un italiano, che vuoi fare, sparargli e lasciarlo boccante ai bambini che
verranno a giocare a nascondino?» dice con voce autoritaria e decisa il tizio nuovo. «Voltatelo, ma
continuate a non far vedere i vostri volti.»
Vengo accecato da una sciarpa e voltato nuovamente di centottanta gradi. Un tizio mi afferra il
collo
bloccandomelo con l'incavo del gomito e dice: «Ti telgo fevmo, così non ti puoi givave.»
L'alito pesante mi corrode le vie respiratorie, ma non replico, dato che ho a malapena lo spazio
per prendere una boccata d'aria.
«Lavorerai per me» dice l'uomo che prima stava trattando. «Lavorerai negli orari che decido io,
e non si tratterà soltanto di contrabbando di sigarette; quelle servono solo come favori a dei vecchi
amici, o ai figli di vecchi amici... Ah, se quel decerebrato non ti avesse spiattellato questa storia ora
non saresti qui.»
Poi, rivolgendosi ai suoi uomini, dice: «Datemi il suo portafogli.»
«Non ce l'ha, signore.»
«Un documento?»
«Nemmeno quello, signore.»
«Qualcosa che lo possa identificare?»
«Ha una tessera dell'autobus, ma non c'è segnato alcun nome.»
«Sembra che tu sia venuto preparato, ragazzo.»
Non so cosa dire, non mi pare ci sia qualcosa di giusto da dire... be', se gli dicessi che sono qui
per colpa del fato non mi crederebbe... Che situazione di merda.
Il tizio che aveva fatto la transizione – ma chiamiamolo capo, boss, quello che vi pare – si guarda
intorno. «Mi rimane un'ultima ipotesi, e spero per te che non sia vera. Sei uno della polizia e stai
cercando d'infiltrarti...»
«Ma...» Le parole mi si bloccano in gola, neanche uno sturalavandini potrebbe tirarle via. Sono
bloccate, come essiccate su una terra dove non piove da anni. Vorrei solo dirgli che non sono un
accidenti di poliziotto, ma non ci riesco.
«Sì, sei un poliziotto sotto copertura. Ti lascio andare, non voglio grane. Però sparisci, evapora.»
«Sono libero?!» chiedo sorpreso.
«Lasciatelo andare» dice il boss ai suoi tirapiedi.
Poi, rivolgendosi a me: «Non osare voltarti.»
Figuratevi se ne avevo l'intenzione. Volevo solo filarmela via. «Gr-grazie» ho balbettato.
Me la sono fatta a piedi sino a Termini immaginando che qualcuno mi seguisse, ma entrato in
stazione dai binari più lontani, quelli da dove partono alcuni treni per il Lazio, avevo constatato che
non avevo nessuno alle calcagna.
Uff, temevo di essere invecchiato di dieci anni in altrettanti minuti. Mi immaginavo la fronte
solcata da tante piccolo onde sfruttate dagli atomi come se fossero enormi cavalloni per farci surf
sopra. Lo stress, davvero una brutta cosa.
Ora che la fronte è tornata liscia come il fondo di una pentola mi accingo a scendere al piano
interrato, dove delle scale mobili orizzontali accelerano il passo umano medio – cinque chilometri
all'ora, se lo volete sapere – e permettono di raggiungere il cuore della stazione senza doversi
affaticare più di tanto.
Tutto bene – finalmente –, quando, all'improvviso, mi accorgo della presenza di un uomo alla mia
destra. Lo scruto dalle scarpe al cappello e mi sembra di riconoscere qualcuno...
Capite bene, gente, l'avevo appena scampata a dei criminali e ora avevo accanto una faccia
familiare ma, visto che non mi ricordavo chi fosse, di certo non era gradita. Poteva essere uno di
loro!
Incrociamo gli sguardi alcune volte prima di ricordarmi qualcosa a proposito di qualcuno, forse
un ex carcerato... il tizio che era stato accusato di omicidio, quello! Come diavolo si chiama? Era
scappato in Francia, poi in Messico e alla fine l'avevano espatriato in Italia per poterlo processare.
Mi volto e lo trovo qualche passo più indietro, ha lo sguardo preoccupato: forse si è reso conto
che l'ho riconosciuto e magari pensa che io sia uno di quelli che vuole insultarlo, picchiarlo,
eccetera, eccetera, invece voglio soltanto stringerli la mano... Sì, canaglie, avete capito bene, voglio
stringergli la mano, e ve lo ripeto un'altra volta, lettera per lettera: v o g l i o s t r i g e r g l i l a m a n
o. Il problema è: non è che posso approcciarlo a dicendo: «Tu sei quello che ha ammazzato... cioè,
quello che è stato accusato di omicidio?...»
O forse lui ha davvero il compito di seguirmi...
Mi volto a cercarlo e vedo che è ancora dietro di me, e che si sta lasciando distanziare. Forse gli
sto davvero mettendo paura o preoccupazione.
Però ha scritto un libro, lui. L'ho letto tempo fa, lo leggevo per passare il tempo sulla Laurentina
incolonnata, un libro perfetto per essere letto in macchina: un tascabile dai caratteri grossi come
vespe, che tenevi con una mano quando dovevi cambiare marcia o dovevi fare una manovra che ti
portava non più di mezzo metro avanti.
Il fuggiasco! Che storia, non ne avete idea. Però non ve la racconto, qui dovete seguire me, eh!
Adesso mi immaginavo porgli una domanda del tipo: «Sei l'autore de Il fuggiasco? Sai, la tua
storia mi piace... cioè, il libro mi piace. Sei stato un po' sfigato, ehm, un bel po'. Ma adesso sei un
autore famoso, anche se non mi ricordo come ti chiami... un autografo me lo faresti?»
Se foste stati lì presenti, voi, mi avreste guardato dall'alto in basso, come quando vedete un
contadino togliere le budella dalla carcassa di un coniglio e avreste in faccia quell'espressione da
moralisti convinti – e idioti, aggiungerei.
Mi volto, e vedo che mi sta dietro sempre alla stessa distanza. Incrociamo gli sguardi per
l'ennesima volta e penso che no, che magari non è lui, perché diavolo dovrebbe continuare a
seguirmi?
Il piano sottoterra della stazione Termini è talmente pieno di specchi e vetri riflettenti che
farebbe impallidire quella donna-mostro che al posto dei capelli ha una cucciolata di serpenti ben
cresciuti che, come minimo, le fanno pesare la testa cinquanta chilogrammi.
Decido di sfruttarli a mio favore e di muovermi in diagonale, in base alle colonne vetrate.
Lui ce l'ho ancora dietro. Gli specchi non mentono.
D'un tratto, lungo la vetrina curva d'un negozio, mi accorgo di una vecchietta fuori di testa nel
vero senso della frase. Parla con un signore invisibile e ondeggia a mo' di danza zombie, mani in
avanti, occhi che guardano chissà dove e una certa convinzione – errata – su ciò che sta facendo.
Un'opportunità così ghiotta non me la lascio sfuggire!
«Ehi, nonna, come stai?» le dico sorridente.
Le afferro le mani e inizio a ballare. «Tutto bene? Che ci fai qui?»
Intanto danziamo, come impossessati dalla disperazione di un bambino a cui hanno tolto la pappa
prima di andare a dormire. Non è un bello spettacolo, ma almeno stiamo fornendo ai passanti un
argomento di conversazione per quando torneranno a casa.
Per favore, smettetela. Non pensate male. Vorrei vedere voi nella mia condizione.
Massimo Carlotto ci passa accanto e scuote la testa. Oddio, è così che si chiama! Wow, ho
incontrato Massimo Carlotto, cazzo!
«Alessio, quanto tempo, ti sei sciupato?» mi dice la nonna.
«Sì, nonna. Balli davvero bene...»
Massimo, Dio, è incredibile! Pensate che una volta sono andato alla presentazione di un suo
libro, era sull'Isola Tiberina, quel brufolo di terra in mezzo al fiume Tevere. Lui era lì e, dopo
numerosi bla, bla, bla, che vi assicuro avevo seguito con interesse, me ne sono dovuto andare prima
della fine: avevo un appuntamento dall'altra parte di Roma. Naturalmente sono arrivato in ritardo
all'appuntamento, le donne lo sanno che sono fatto così. Comunque, alla presentazione avevo una
maglietta dai colori della bandiera della pace mischiata a un bianco che andava a creare i contorni di
quella che poteva essere pelle di biscia, e mi si notava parecchio. Mi sono alzato, ho chiesto
permesso, e c'era lui che mi guardava con un'aria interrogativa del tipo: «Avrò appena perso un
lettore?»
No, gli rispondo ora, se mai leggerà questo libro. Ma vedete che lo leggerà se vi date da fare con
il passaparola. In ogni caso, non aveva perso alcun lettore, l'aveva appena guadagnato.
La scenata con la nonna sta durando decisamente troppo, e le guardie di sicurezza, che di sicuro
avete chiamato voi, si stanno avvicinando.
«Ciao, nonna, grazie dell'aiuto!»
Veloce e distinto come un uomo in uno smoking da duemila euro che sta andando a lavoro svolto
l'angolo e vado a cercare Massimo. Controllo in ogni negozio, dietro ogni colonna, davanti ogni a
fastfood, ma non c'è. Deluso, scendo la scalinata che mi porta alla metro mentre penso a come
risollevarmi il morale.
Questa accidenti di sfortuna me l'ha portata mio fratello e per un attimo, un attimo soltanto,
rimpiango il fatto che sia defunto.
Devo risollevarmi il morale, devo risollevarmi il morale, devo risollevarmi il morale... Ci sono.
Faccio una rapina.
…
…
…
Sento il bisogno di giustificarmi, per queste righe vuote, s'intende. Mah... non mi andava di
parlare di altre pietanze, ho saltato il pranzo e quindi trasferiamoci subito fuori dalla stazione EUR
Palasport.
Il laghetto è alle mie spalle. Davanti ho una serie d'uffici e una strada a doppia doppia corsia
(quattro) che va ad incrociarsi con viale Europa, che attraversa l'EUR da parte a parte. Oltre
l'incrocio, superati negozietti e palazzi, sulla sinistra c'è uno dei pochi uffici postali aperti di
pomeriggio e, più avanti, sempre sulla sinistra, dietro degli alberi e un bar, c'è il liceo classico
Vivona, scuola nota per l'abbondanza di fi... Be', a parte quel particolare, si dice che venga
frequentata da gente con i soldi, infatti fuori ci sono parcheggiate tante di quelle macchinette biposto
che sembrano quasi delle tende pronte all'uso dopo un mega concerto. In tutta sincerità non me ne
importa nulla se hanno i soldi o no, cioè, se da lì uscisse fuori la donna della mia vita non mi
dispiacerebbe, e magari sarebbe anche in grado di scrivere questo libro usando un italiano decente,
però, pensandoci davvero bene, se la tipa avesse i soldi non avrei bisogno di scrivere questa infinità
di pagine.
Okay, vado un attimo a vedere se riesco a rimorchiarne un paio. Se torno vorrà dire che vi
mancheranno ancora un bel po' di paragrafi al super finale(?!), se non torno state bene così. Potete
chiudere questo insieme di parole ammucchiate senza ordine come i pesci in mezzo all'oceano o
come i libri nella mia stanza, e gettare il tutto nel camino, prima di ricordarvi che ci avete speso
soldi e che forse conveniva riciclarlo come regalo di compleanno per un amico.
Datemi quindici minuti. Contate sino a novecento.
Mille e uno.
Mille e du...
Uff, le soluzioni veloci non funzionano mai. Le classi quinte erano tutte in gita, tutte oggi, tutte
insieme, boh. Avevo fatto un pensierino anche sulle ragazze del quarto anno, ma non si sa mai se sono
maggiorenni, e non mi va di incappare in casini vari.
Vi avevo promesso una rapina, e io mantengo le promesse.
Vado all'ufficio postale rimuginando qualcosa che non vi dico. È un palazzo squadrato, grigio,
senza vita. Un praticello spoglio, impossibilitato dall'essere calpestato poiché si trova a un'altezza
rilevante, più o meno quella dei miei capezzoli, gli fa da contorno. Sembra quasi una bocca aperta in
affanno per respirare un'ultima volta prima di morire.
La morte è proprio un argomento ricorrente oggi, eh!
Salgo i gradoni con passo deciso e arrivo davanti all'alta vetrata che sembra dirmi: «Giovane, o
entri da destra o da sinistra, a me non interessa, basta che ti muovi!»
A destra c'è qualcuno che esce, quindi prendo l'altra direzione ed entro. Invece di soffermarmi a
guardare le facce spente delle persone con un'infinità di bollette in mano prendo un bigliettino dalla
macchinetta, poi passo dietro la vetrata mandandola a quel paese e mi ritrovo dietro la porta di
destra.
In questa zona dell'ufficio postale hanno piazzato quei negozietti che vanno tanto di moda ora:
qualche libro – ma si parla quasi solo di bestseller –, alcuni cd e tante, tante, idiozie.
Tra le idiozie afferro una bustina di cartone e la porto alla cassa. Meno di un euro e me la cavo.
Vado al reparto libri ed evito accuratamente quelli primi in classifica: le guide culinarie mi fanno
venire fame, a quest'ora poi!
Ne trovo uno decente, dalla copertina arancione abbastanza anonima. Settanta acrilico trenta lana,
scritto da Viola di Grado, una ventitreenne, quindi mia coetanea, che vive in Inghilterra.
Vabbè, che volete? Le faccio un po' di pubblicità, così come voi farete lo stesso con questo
malloppetto che avete in mano.
Il libro, casualmente, mi scivola nella bustina di cartone.
Credetemi sulla fiducia...
Prendo in prestito una penna dallo scaffale e ci scrivo l'indirizzo di casa intestato ai romeni che
abitano al piano di sopra, tanto gliela porto io la posta.
Il mio numeretto viene chiamato e spedisco. Uno virgola ventotto euro, questo è il costo della
spedizione con tariffa Piego libri.
Esco dall'ufficio postale soddisfatto: l'ho rapinato per l'ennesima volta!
Mi sono preso un paio di righe di pausa per una riflessione che ad alta voce suonerebbe più o
meno così: «Cacchio, in questa maniera ho rapinato pure Viola!... Mmm, se un giorno la incontro le
offro un caffè... ma, ma a me non piace il caffè... le nascondo un euro dentro la borsetta... e se la
borsetta non ce l'ha, che faccio?»
Un tempo facevo riflessioni simili anche quando rubavo libri di autori internazionali, poi mi sono
reso conto che loro dovrebbero già sentirsi onorati che li abbia presi in considerazione, e che magari
sono l'unico che legge romanzi quando tutti leggono la guida al sesso tantrico o i cento modi per
spazzolarsi i capelli. (O forse quello era un unico libro?)
Questi paragrafi che finiscono con i punti interrogativi sanno di yogurt che ti scivola nello
stomaco, più ne mangi e più ne vuoi. Perciò mi appresto a pensare che lo yogurt non mi piaccia, no?
NO!
Oh, almeno adesso il paragrafo è finito con con una mazza da baseball posizionata troppo in alto
per colpire la pallina.
La verità è che vi sto raccontando tutte queste minchiate per illudervi che ci sarà un seguito, come
un armadio nascosto che vi porti dentro il mondo di Narnia, ma non c'è, siamo sulla Terra qui. Però
c'è Internet che non è proprio sulla terra, direi che è più intorno.
Un ragazzino, abbigliato con cappellino e scarpe della Nike, tuta della Roma (è difficile trovare
qualcosa di diverso qui in giro), sta navigando grazie al suo cellulare. Mi avvicino. «Ciao, se ti do
un paio d'euro mi fai collegare un attimino?»
Solleva lo sguardo e mi osserva come se stesse cercando di darmi un valore. Vuole
vedere/capire quanto può riuscire a scucirmi. «Dammene tre» dice.
«Facciamo due e mezzo.»
«Solo se non ti colleghi per vedere i porno, che papà mi sgama.»
«Ah» sorrido. «Ti ha già beccato?»
«Sì...»
Gli scompiglio i capelli e gli dico: «Se me lo fai usare gratis ti spiego come cancellare dalla
memoria i siti che hai visitato.»
Il suo sguardo s'intinge di speranza come se il suo volto fosse appena stato dipinto da un'artista
particolarmente felice, con un sorriso che avrebbe spiazzato anche la mente malata della nonnina a
Termini, dice: «Davvero?»
«Te lo prometto.» E poi, sollevando l'indice e il medio vicino alla tempia, dico: «Parola di
lupetto.»
«Hai fatto gli scout?»
«Sì.»
«Sì vede» dice. «Tutta la gente che ripete parola di lupetto non sa che le due dita simboleggiano
l'orecchio di un lupo.»
«Mmm, un piccolo scout che si guarda porno, non va bene! Ora però, potresti passarmi il tuo
cellulare?»
«Tieni.»
Mi disconnetto da MSN e su Google digito: «Voli low cost». Uno dei primi della lista è il sito
della Ryanair, che pubblicizza mete a soli cinque euro, quello che fa per me.
Prego Dio affinché ci sia la destinazione che desidero a quel prezzo e, per fortuna, la trovo!
«Wow», «fantastico», «eccezionale», sono queste le parole che spiffero suscitando la curiosità
del ragazzino che si avvicina allo schermo.
«Allontanati un secondo» gli dico. «Devo inserire i dati della mia carta di credito.»
«Okay» e si volta. «Ma te la ricordi a memoria?»
«Sì, ché compro quasi tutto su Internet: la roba costa di meno e con alcuni siti ho pure le
spedizioni gratuite!»
«Fico, poi mi spieghi come si fa?»
«Un attimo di silenzio, per favore.»
Inserisco i dati, nome, cognome e numero del documento – anche quello lo so a memoria – e poi
effettuo il pagamento online.
Un messaggio appare sullo schermo.
BIGLIETTO ACQUISTATO
Prima della partenza è pregato di fare il check-in
Gli occhi mi brillano di gioia come quando osservo quei bagliori dorati e stupendi creati dal sole
sulle acque mai mosse di un lago. «Grazie» dico al ragazzino. «Vieni qui che ti spiego come si
tolgono dalla memoria le pagine viste, così tolgo di mezzo pure i miei dati.»
Lui si avvicina e apprende. Lo fa con una velocità tale che mi sorprende, tanto che gli dico: «La
prossima volta mettiti a smanettare un po' con il cellulare che a queste cose ci arrivi tranquillamente
da solo.»
Ci salutiamo e io vado a passeggiare intorno al laghetto, dove ci sono coppie felici di giorno e
prostitute con gente allupata di notte. Ambo sono lì per lo stesso motivo, anche se in orari diversi:
accoppiarsi.
Forse vi ci ho beccato, lì! Ditemelo, eravate voi la scorsa sera?
Il sole sta calando, non mi va d'incontrarvi, che poi litighiamo. Torno a casa.
Non ci sono voci, né altri rumori. L'unico particolare rilevante, oltre al mio cellulare che rinfilo
subito nel luogo che gli spetta (la tasca dei miei pantaloni), è un post-it giallo anatra con una scritta
che mi annuncia dove si trovano.
OBITORIO
Andateci voi, io non sono interessato. Sul serio, andate, lasciatemi in pace.
Arrivato in camera premo il pulsante d'accensione del computer, mi sdraio sul mio letto gigante
(è quasi a due piazze) e osservo l'assegno.
Quei soldi mi servirebbero ora.
Mentre il computer si carica inizio a spulciare il cellulare. Ottanta chiamate perse, altrettanti
messaggi, sembra quasi il giorno del mio compleanno! Scorro
la lista dei nomi di chi mi ha chiamato e mi viene quasi da ridere: c'è gente che pensa di meritarsi
una risposta nonostante non ci si senta da una vita, e di certo la colpa non è solo mia, capitemi.
«L'amicizia è più dura dell'amore» dice Oscar Wilde, «dura più tempo.»
Però le amicizie che durano sono poche, tutte le altre sono di passaggio, gente del posto di
lavoro, compagni di scuola, di basket. Non basterebbe un intero profilo di Facebook ad ospitarli tutti,
e il limite è di cinquemila amici! Proprio adesso mi sto collegando al social network più in voga del
momento. Devo controllare la mia bacheca, devo vedere se qualcuno ha scritto qualcosa pure lì.
È vuota, per fortuna.
Vado su Impostazioni e la blocco. Ora nessuno può più scrivermi, neanche voi.
Riporto l'attenzione al telefonino e inizio a cancellare gli sms dopo aver letto i nomi di chi li ha
mandati. Il testo non mi interessa, di sicuro è una ripetizione continua di «condoglianze» e «mi
dispiace.»
Stufo del cellulare torno al computer. Controllo le e-mail, una routine quotidiana che va avanti da
quando siamo passati dalla 56k all'adsl. Non oso immaginare cosa accadrebbe se avessi la fibra
ottica.
Tra lo spam che pubblicizza viagra e aggiornamenti da parte del New York Times riguardo agli
italiani nella NBA, trovo un e-mail interessante.
Ciao Luigi, come va?
La scorsa settimana era il tuo compleanno e mi dispiace di non essere potuto venire alla tua
festa, ma ti andrebbe comunque di festeggiare stasera? Ho sentito pure Daniele, ed è
disponibilissimo, soprattutto dopo che gli ho detto cosa ho intenzione di fare! Ahahah. Hai
presente quando gli viene quell'espressione da beota, quando gli si arricciano le labbra e sembra
un pesce lesso con gli occhi fissi e lucidi? Be', scommetto che a questo punto hai già capito che si
tratta di donne!
Andiamo in un nightclub e, cosa ancora migliore, come ospite della serata c'è Sofia Gucci!
Daniele quasi mi sveniva davanti alla webcam quando glielo ho detto. Te lo immagini?!
Sono sicuro che non sai chi è Sofia... invece di leggerti quegli stupidi romanzi dovresti farti
una cultura... lei è una delle migliori porno star del momento! Ha venticinque anni, solo due più di
te!
Allora ti passo a prendere verso le dieci.
A dopo,
Il Manlio che Ammanlia
PS: Conoscendoti, so bene che l'andresti a cercare su Wikipedia, ma lì non troverai niente di
utile, quindi beccati 'sti link molto Manlii: www.*******.com,
www.*******.net.
La mail di Manlio mi rincuora: lui è un tizio che ho conosciuto su Internet, quindi non sa niente di
ciò che mi circonda nel mondo reale – morte, e voi che non vi fate gli affaracci vostri –, però è una
bravissima persona, disponibile e sempre pronta a dare una mano.
Manca un'oretta alle dieci. Vado in bagno e mi faccio la barba. Pulito e candido torno in camera
dove scelgo una maglia a righe diagonali sfumate con colori tendenti al blu alternati a strisce bianche.
So che non va di moda, tranquilli, ma mi dà un'aria da pappone e se non la indossassi questa sera
ammuffirebbe in fondo all'armadio. Un paio di jeans alquanto anonimi, scarpe in pelle la cui punta è
stata fustigata dalle piante della riserva naturale che circonda Trigoria (non chiedetemi come mai
frequentassi quel luogo con quelle scarpe) e, per finire, un maglione dallo stile piratesco: tre grossi
bottoni al collo che, lasciati aperti, lasciano due mezze lune di lana sulle spalle, e cuciture oblique
che si incrociano quasi a formare delle trecce; insomma, una cosa che indosserebbe Johnny Depp.
Chissà se lui frequenta i nightclub, chissà...?
Il mio telefonino vibra – accidenti, avevo dimenticato di spegnerlo! – e, nello stesso momento,
sento musica house tuoneggiare fuori dalla finestra. I vetri traballano, scossi da bassi potenti come il
ruggito di un leone ferito.
Manlio e Daniele sono arrivati.
Infilo il cellulare in tasca, chiudo la porta e imbocco le scale di casa saltando i gradini a tre a tre
– operazione che, vi assicuro, è più complicata di quanto sembri, almeno in discesa.
Una Ford grigia come la carta di giornale mi attende davanti al cancelletto, che apro e richiudo
prima di imboccare in macchina esultando per quelle amicizie nate per caso sul web.
Gentili lettori vi ricordo che aggiungermi su un qualsiasi social network non equivale a essere
mie amici, significa soltanto che vi sto concedendo il lusso di osservare e commentare quanto di più
assurdo mi venga in mente. Detto ciò, ritorniamo a dove eravamo, in macchina e diretti al Blue Night,
così si chiama il posto.
Vi ho descritto un pochino Manlio, anche se solo dal punto di vista del carattere. Sul fisico ci
sarebbe da dire parecchio, ma prima vi racconto un po' di Daniele: ragazzo intelligente che da
adolescente ha sperimentato ogni genere musicale, andando a torturare i capelli con tagli strani e
tinture; ma chi non l'ha fatto? Lo stato gli ha fornito la pensione d'invalidità sino a qualche anno fa, e
non perché gli manca una mano, ma perché il fatto d'esser nato senza mano gli ha causato dei danni
psicologici, o almeno è questo che hanno dovuto dire per riuscire a ottenere qualche spicciolo.
Perciò ha avuto una cifra così così (dividete per tre il numero che vi è venuto in mente e forse ci
azzeccate), e poi, appena ha trovato un lavoro, la pensione ha smesso d'arrivare, come stabilito dalla
legge. In seguito è stato licenziato, ma la pensione rimane un ricordo che gli porta tanta pietà per sé
stesso.
Arriviamo all'entrata del Blue Night dopo mille impedimenti di natura urbanistica, dato che il
locale si trova dietro una via, dietro un palazzo, sopra delle scale – so benissimo che così la frase
non ha molto senso, ma, furbacchioni, non voglio darvi il link di Google Maps per andare a tradire
vostra moglie o vostro marito.
Un romeno che fuma con le spalle rivolte alla parete ci fa capire che siamo nel posto giusto
(d'altronde i poster appesi lungo il muro non possono che confermarlo) e ci fa segno d'entrare. Poi ci
segue e si posiziona dietro la cassa.
«Insieme all'entrata avrete una consumazione. Oggi sono quindici euro...» dice.
«Perché c'è Sofia Gucci» conclude Manlio.
«Sì, lo sappiamo» dice Daniele sorridente come se avesse appena vinto un milione di euro al
Superenalotto.
Io rimango in silenzio a osservare le foto e i poster delle varie star passate per il locale
chiedendomi quanto saranno vecchie ora, e quante volte si saranno rifatte prima di arrendersi a tette
cadenti, cellulite, zampe di gallina, e tutte quelle cose che le donne non sopportano. Solo le donne,
eh... Intanto Manlio paga, che, ricordiamolo, alcuni giorni fa era il mio compleanno!
Il signore ci invita ad attraversare la porta interna e l'eccitazione e il disagio ci colpisce a tutti e
tre: sapete com'è, non è che siamo degli sceicchi con il nostro harem personale ogni volta che
torniamo a casa, e vedere oltre venti ragazze in mutandine e reggiseno, tutte insieme, è un po', solo
poco poco poco, forte.
Non cambio espressione: sono bravo a nascondere le emozioni, i miei amici, invece, li potete
osservare con gli occhi che escono fuori dalle orbite, come nei cartoni animati.
Con il passo più convincente possibile mi dirigo al piano bar, che ho bisogno di ambientarmi nel
locale, e l'alcol di solito aiuta, o almeno così dicono. A dirla tutta cercavo solo di mostrarmi
indifferente al fascino femminile, cosa alquanto difficile in quel momento.
Daniele e Manlio mi seguono e uno dei due balbetta qualcosa che non capisco. Sono ancora
agitati, e questo lo capisco.
«Me lo potresti fare un mojito?» chiedo alla signorina dietro al bancone.
«No» risponde. «Non facciamo queste cose qui...»
«Cosa puoi farmi?» le chiedo mentre mi sistemo con un gomito sul bancone, cosa comune a noi
borgatari, ma che spesso viene giudicata sfrontata dalla gente che ci guarda dall'alto in basso.
Sapessero come li guardiamo noi!
«Un gin tonic.»
«Vada per il gin tonic, mi accontento!» Poi, rivolgendomi a Daniele, dico: «Tanto l'ha pagato
Manlio!»
Allora, gente, è arrivato il momento di spiegarvi il perché dell'agitazione iniziale: dietro quelle
donne seminude c'era un palco con tre pali. Sul palco c'era una donna. Era nuda! Mettetevi nei nostri
panni, uno è abituato ad andare al cinema e a vedere le spogliarelliste in una marea di film, ma tutte
hanno sempre qualcosa addosso, invece arriviamo lì e ne vediamo una senza niente, che ondeggia
come una fata intorno al palo di una zattera in mezzo all'oceano. Movimenti delicati e precisi si
mischiano con mosse estreme come afferrare un palo per girare su se stessa a un metro da terra con i
capelli che sfiorano il pavimento.
Manlio che dice: «Vorrei essere quel palo!»
Daniele che non riesce a dire nulla.
Io che mi soffermo sugli occhi di lei. Accecanti, blu cobalto, e per un attimo mi ricordano un'ex
ragazza, poi, per via del viso e del fisico, la collego a Megan Fox... ma no, mi sbaglio: sono molto
simili, ma niente, Megan non basta, lei è troppo, troppo bella, e si chiama Simon.
Donne, volete sapere che cambia per un uomo quando vede prostituirsi una splendida ragazza
rispetto a una un po' sciatta, con qualche chilogrammo in più? La compassione; e fa schifo che la
pensiamo così, mi fa davvero schifo. Una bella ci fa molto più pena di una brutta, perché quella bella
ha altre possibilità, sembra assurdo, ma la immaginiamo in tv, e quindi, grazie a questo ragionamento
arguto, la vogliamo salvare, strapparla dalla strada, donarle il nostro cuore, un cuore corroso e
ammuffito a forza di ragionare per stereotipi... Così sto divagando, ripeto solo: mi fa schifo questo
tipo di ragionamento, e aggiungo: non credete agli uomini che vi dicono il contrario. Mmm, ho messo
due volte due punti nella stessa
frase, chissà cosa ne penserà l'editor o la futura ragazza di quel liceo classico, lei queste cose le
dovrebbe sapere: le ha studiate! Smetto che con questi due punti ci sto prendendo gusto.
Spogliarsi davanti a un pubblico non è prostituirsi, almeno se lo si intende nel senso comune, e
Simon è brava a farlo. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso e ho una spogliarellista al mio fianco
che cerca di farsi offrire da bere (oltre al drink guadagnano pure una percentuale di quello che
spendi), spogliarellista che caccio – per poi pentirmi siccome ero stato troppo rude – facendole
capire che non ho un soldo.
Simon scende dal palco e io mi lascio cadere sui divanetti bianchi in seconda fila, seguito dai
miei compagni d'avventura e da altre tre spogliarelliste convinte che riusciranno a farci metter mano
al portafogli.
Le cacciamo – sì, la parola è brutta come suona – e altre tre compaiano al loro posto sfoderando
sorrisi suadenti e carezze recitate. Improvvisamente il mio scopo diventa quello di farle sentire a
loro agio con me senza che io le debba pagare. Provo ad essere carino ed educato, e sfodero subito
la carta «non ho soldi » e poi inizio a scherzare con loro su quale dei clienti che sta entrando possa
aver voglia di buttar via il suo stipendio – o pensione, che di vecchietti è pieno.
Cerco di non farmi toccare; mi immagino qualche pappone dietro l'angolo pronto a lasciarmi in
mutande, e allo stesso tempo indago sul loro passato. Tutte romene. Tra l'altro, una mi sembra
un'amica di mia nonna e la cosa mi mette parecchio a disagio. Mia nonna non è romena, ma di un
paese un po' più a nord, ma ancora non vi dico se a nord-est o a nordovest, non ce n'è bisogno.
Ragazze, a turno, si spogliano sul palco per tutta la notte, poi inizia un gioco, l'American Tour.
Chi vuole, può andare alla cassa e scambiare un euro con un dollaro
sul quale è disegnata la faccia del padrone del locale. Genio.
Il Manlio va e cambia una banconota da cinque.
Torna soddisfatto e ce le distribuisce. Io la rifiuto, e gli dico: «Non mi va, fate voi.»
«Frocio» risponde.
E Daniele ride.
L'American Tour comincia e assistiamo all'esibizione di tutte le ragazze del locale insieme sul
palco.
Ballano, eccitano la folla. Per non usare commenti troppo pornografici – che comunque dopo non
saprò come evitare –, tiro fuori una descrizione banale: sembra di essere a un mercato della frutta,
meloni, lamponi, cocchi, scegliete quello che volete; mancano solo i cetrioli e le banane, che, per
fortuna, sono sigillate dietro i denti voraci delle chiusure lampo.
Poi scendono, tutte insieme, e iniziano a saltare come galline in un pollaio su tutti quelli che
hanno il mangime-dollaro.
Una tipa si scaraventa su Daniele e lo manda in un paradiso islamico, un'altra si schianta su
Manlio e gli inizia a dire robe tipo: «Ti faccio godere?» E...
Cazzo, mia madre mi ha fatto prendere un infarto!
No, non è nel locale, niente fantasie del genere, state fuori pista. È entrata in questa stanza mentre
scrivo ascoltando musica con le cuffiette e non me ne sono accorto. Mi ha detto qualcosa e sono
sobbalzato sulla sedia. Nessuno si aspetta che un genitore venga a farti visita in cucina alle cinque e
trenta di domenica mattina, quando potrei starmene ancora in discoteca.
Torno a scrivervi di quella serata.
La ragazza sta facendo sclerare Manlio, dopo ve la presento che è l'unica italiana nel locale, si
chiama Alexandra. Se qualcuno se lo sta chiedendo, sì, è un nome d'arte. E poi, oltretutto, vi pare che
vi andavo a dire il nome vero?!
Le signorine risalgano sul palco, di nuovo tutte insieme, e adesso, al suono di una canzone che
potrebbe andare bene anche per l'inizio di un rave party, si tolgono il guscio delle noci di cocco. La
gente freme, e io rido. Cazzo, forse sono omosessuale? No, mi viene da ridere per il fatto che non
riescono a controllarsi.
Daniele e Manlio sventolano i loro biglietti da un dollaro come un tempo si faceva in qualche
asta pubblica.
Altre donne sono in arrivo. Alexandra vede Manlio cercarla con gli occhi, e coi soldi, non
dimentichiamolo, ma lei è impegnata a fare il giro dall'altra parte.
Lui abbassa lo sguardo, ma un attimo dopo viene consolato da un'altra ragazza. Fosse così facile
la vita...
Dio, questa caffeina che sto assumendo mi sta veramente deturpando il cervello, o forse è mia
madre che è entrata mentre scrivevo. Andava tutto così bene, scrivevo da ieri... se ne andasse a
pregare per suo figlio...
Il palco torna occupato da un sola ragazza che, con studiata lentezza – perché ci vuole tanto
esercizio per fare questo lavoro, ve l'assicuro – inizia a spogliarsi.
Le altre, invece, girano per il locale in cerca di uomini pronti ad offrir loro da bere. Alexandra
viene da noi, si mette tra me e Manlio. Scambiano qualche parola e poi lui le dice che sto scrivendo
un libro.
Se ora state per gettare questo libro nel camino vi dico che il meglio deve ancora venire. È un po'
come quando conquisti una donna, il bello non sta solo nell'esserci riusciti, ma in tutto il processo e
la fatica che c'è stata prima.
Alexandra si interessa alla storia del libro, questo libro, e mi dice: «Volevo scrivere un blog per
spiegare che spogliarsi non è prostituzione», eccetera, eccetera.
«Perché non l'hai fatto?»
«Non lo so, non sono brava a scrivere. Sono brava in questo...»
«Sì, ti ho vista prima, intorno al palo, volteggiavi per almeno due minuti!»
«Tre mesi di allenamento... Mi sono venuti pure i muscoli, senti!»
Le tasto il braccio. La fanciulla non mente.
«Be'» le dico pensando che se infilo qualcosa d'interessante in questo libro magari continuate a
leggerlo, «ne potremmo scrivere uno insieme!»
«Sarebbe fantastico!» Poi si guarda intorno e dice: «Segnati il mio numero.»
Qui non lo scrivo, altrimenti la torturereste di lavoro, povera ragazza, guadagna solo trecentotrecentocinquanta euro a serata...
Si guarda di nuovo intorno in cerca del capo che potrebbe pensare: «Si sta portando il lavoro a
casa? Nel mio locale non ci possono essere prostitute!»
Convinto lui...
Ci diamo appuntamento per il giorno successivo a piazza Esedra, per quelli che non sono di
Roma si chiama piazza Repubblica, è quella tra Termini e via Nazionale.
Manlio paga e lei si rivolge a me, non va bene. Le dico: «Ok, ne parliamo domani.»
Alexandra, di tutta risposta, si scusa di non poter parlare di più e va da altri clienti.
L'American Tour sta per ricominciare, Manlio compra altri dollari e questa volta li accetto
pregando Dio – lo so che è assurdo fargli queste richieste – che Simon, o la studentessa, o quell'altra
che non mi ricordo come si chiama (nel frattempo avevamo soprannominato tutte le ballerine)...
Simon, su, ti voglio solo vicino, non devi fare niente, non oserei neanche stringerti la mano; ti
inviterei a una cena al lume di candela, quello sì.
Lei non arriva, ma si presenta una giovane dal perizoma giallo canarino. Ce la passiamo tutti e tre
e allora inizio a chiedermi se farei la stessa cosa nella vita reale, fuori da questa porta...
Le ragazze risalgono sul palco e sembra di assistere a una sfilata di Victoria Secret – non so se lo
sapete, ma il tizio che ha inventato il marchio si è suicidato. La morte mi perseguita.
Le ragazze finiscono il tour e il palco viene preparato per Sofia Gucci.
Mi dispiace, maschietti, anzi no, non mi dispiace affatto, ma questa non ve la racconto che il libro
poi mi diventa pornografico. Andatela a vedere, vi assicuro che è bravissima. È entrata in scena
come Lady Gaga ed è uscita come Cleopatra, nell'intermezzo ha violentato un diciottenne dalla faccia
butterata.
Il giorno dopo mi sono svegliato alquanto stordito. Collegare il cervello alla realtà equivale a
farsi tentare dalla droga una volta per tutte, ma qualcuno mi ha insegnato che sarebbe come
arrendersi, e questa è l'ultima cosa che voglio. Arrendermi, mah.
La processione di gente dentro casa pronta a consolare i miei genitori la posso sentire attraverso
la porta. Parlano di sogni infranti, sogni insperati, sogni futuri. Il paradiso, ahahah, io e il fratello che
è appena morto scherzavamo che noi due non ci saremmo finiti mai in paradiso, l'unico fratello che ci
sarebbe finito già c'era. Complimenti per avercela fatta, Paolo. Mi ricordo ancora di te, ora lo scrivo
su carta, così lo sanno anche questi tizi che leggono. Ricordo due cose, due soltanto: uno, quando sei
scivolato in avanti e hai sbattuto la testa, ma, per fortuna, non sei morto in quell'occasione, ti eri solo
fatto un male cane e io avevo temuto tantissimo per te, troppo; due, be' la numero due riguarda te, ma
già non c'eri più... la gente nel piazzale dietro casa che piange, sono in tanti, sono lì, dovunque. Le
panchine, il muretto, sul rilievo della cantina. Piangevano, non la smettevano. Era strano.
Forse non sono nemmeno stato al tuo funerale, non ho mai osato chiederlo.
Forse dovrei piangere mentre scrivo, non lo so. Mi trattengo. Ti lascio questo, un ricordo del
cazzo stampato
nero su bianco. Potrai dirlo lassù, potrai dire: «Sto in un libro! Wow! Certo, non è come stare ne
Il vangelo secondo Biff, ma mi accontento lo stesso.»
Ti accontenti, vero?
Porca miseria, che diavolo mi fai combinare? Commuovere
subito dopo aver parlato di spogliarelliste?
Ahahah.
Torno in me, gentaccia.
Squilla il cellulare, un messaggio di Bumbo:
C'è una mostra a via Nazionale, stasera, io e Appo ci andiamo, vieni che ti distrai? So quello
che è successo, condoglianze...
Be', una chance a Bumbo gliela do, visto che mi ha fatto la cortesia di mettere l'ultima parola per
chiudere la frase e non per aprirla, altrimenti il messaggio avrebbe fatto la fine degli ottanta e passa
di ieri. Sarebbe entrato a far parte di Tron, e avrebbe dovuto fare strane corse motociclistiche per
sopravvivere.
Apro una parentesi e la richiudo subito: l'ultimo film di Tron mi ha fatto schifo, ma già sento
parlare del seguito.
A quanto pare, non appena riuscirò ad uscire di casa, sarà una giornata perfetta: appuntamento
con una spogliarellista e poi con due ragazze, Appo e Bumbo. C'è un universo di differenze tra le
due, ma il nome reale, non i soprannomi, è lo stesso. Le differenze casomai ve le elenco dopo,
vediamo.
Per ingannare l'attesa inizio a leggere il libro della Di Grado che è arrivato in questa palazzina
con una velocità incredibile. Le Poste sanno essere davvero efficienti quando le derubi.
Il romanzo lo divoro, tra gli altri in camera ho pure Il divoratore, che prima o poi leggerò.
Il pranzo arriva e mi viene lasciato fuori dalla porta che non apro. Le pagine continuano a
scorrere tra le mie dita come la Terra che non smette mai di girare. A un certo punto, un punto che ho
odiato, leggo che anche lei ha usato il trucchetto dell'emoticon due punti P, ma che l'ha usata in
maniera sbaglia, perché la P la doveva fare maiuscola non minuscola. Però lei è stata pubblicata, io
ancora no. Ci devo stare.
Evitando di scendere a patti con il mio cervello, perché non voglio farvi assistere alla scena, mi
vesto e vado all'appuntamento con la spogliarellista, Alexandra.
Non prendo la macchina – sta diventando una cavolo d'abitudine – ed entro a far parte del mondo
dei pendolari che usano i mezzi pubblici, mondo dal quale tutti vorrebbero uscire.
707, metro B sino a Termini, e tratto di strada sino a piazza Repubblica – visto, l'ho chiamata
esattamente come la conoscete voi, poi non dite che non sono buono –, che a prendere la metro A per
una sola fermata si perde solo tempo.
Le colonne e il portico mastodontico che, vi assicuro, non c'entrano niente con quelli di Bologna,
città utile solo perché ci svolgono un sacco di concerti. Ora i bolognesi daranno fuoco a questo libro,
lo so, ma tanto arrivati a questo punto l'avete già comprato! Beccatevi un due punti P!
Ahahah, NO, dai, Bologna è una città piena di librerie, e poi c'è quella Mel Book dove si compra
tutto al cinquanta per cento di sconto, ed è fantastica! Inoltre quel posto è una fucina di scrittori,
anche se ora mi vengono in mente solo la Baraldi («Qualcuno glielo ricordi, mi aveva promesso
un'intervista! Ho la mail che prova tutto!» Scusate, si è intromesso il tizio il cui nome è scritto sulla
copertina, adesso lo caccio dal mio libro. Stanne fuori, stronzo!) e Morozzi.
Un sms di Alexandra, con le sue onde elettromagnetiche, buca il cielo e appare nel mio
telefonino.
Scusa Luigi.... ho da fa un lavoretto a mediaset... non ce la faccio a veni... famo domani?
Digito una controrisposta.
Eh no, bella! Domani devo prendere un volo. Peggio per te. Addio!
Sono stato un bastardo, lo so. Posso usare la scusa che mi è morto da poco un altro fratello? No,
eh? Però non è che uno può avvertirmi due minuti prima dell'appuntamento, questa è maleducazione!
I turisti si fanno le foto davanti alla fontana al centro della piazza con la basilica sullo sfondo; i
ricchi si godono i loro caffè sui tavolini del bar del mega hotel accanto al cinema; gente di varie
categorie sociali inzuppa nelle salse le loro patatine targate McDonald's – ci avete mai fatto caso che
le patitine sono polvere di patate e non patate più piccole?
Passare tutto il tempo con me stesso non è che mi faccia bene alla salute, me ne rendo conto.
Mani in tasca, faccia che esprime disappunto, mi appresto a scendere su via Nazionale. Sono sul
lato destro della strada e, in sequenza, potete trovare: negozio per giapponesi (hanno i prezzi in tre
lingue, c'è il giapponese, e va be', quello si intuiva, c'è l'inglese, ma quello tanto non lo sapete, e c'è
l'italiano... solo che i prezzi non sono proprio italiani, sono piuttosto alti), incrocio, banca, libreria,
negozio sportivo, ristorante, altro McDonald's, incrocio, e sono stufo di continuare... Dopo un po' c'è
il negozio dove lavora un mio amico, Daniele Del Grosso, un fumettista che prima o poi avrà il
successo che merita.
Mi affaccio come un bambino che gioca a nascondino e lo vedo, c'è. Esco allo scoperto.
Entro e iniziamo a parlare, sono progetti che non vi riguardano.
Uno scrittore che non so se posso nominarvi... su, dai, non fate quelle facce, vi faccio
l'anagramma: Pacha Nassini. Allora, una volta, il risultato dell'anagramma mi disse: «Devi tenerli
tutti con il cazzo dritto!» Al femminile dovete tradurla voi, se proprio insistete, io vi traduco il
significato, ma per chi ci è arrivato, che salti pure la fine del paragrafo: «Devi fare in modo che
siano sempre concentrati, che vogliano sapere cosa succede nelle righe successive, nella pagina
successiva, sino ad arrivare al finale!»
Detto ciò, e lo dico solo per farvi un favore, Daniele non c'entra niente con questa storia, quindi,
non preoccupatevi, non è un personaggio che incontrerete dopo. I progetti, miei e suoi, non vi
riguardano davvero. Erano messi lì solo per creare aspettativa.
Certo che potrei avervi detto così solo per confondervi...
Dopo aver parlato con Daniele e fatto battute su quello che vendeva come, ad esempio, magliette
dei personaggi dei cartoni animati, roba decisamente nerd – voi non lo siete mai stati? Io un tempo ho
confuso la mia vita con quella su Dark age of Camelot, che gioco! –, avendo ancora un'oretta prima
dell'appuntamento con Appo e Bumbo, visto che non ho nulla da fare, vi parlo di loro.
Appo e Bumbo, ve le ho pure messe in ordine alfabetico, che volete di più?
Seguiamo l'ordine? Ok. Appo... mmm, ma volete sapere com'è di fisico o di carattere? Per voi, le
ragazze con i capelli ricci hanno un carattere associato ai capelli? Ogni tanto ci penso a queste cose.
Prendo delle figurine, come quelle della Panini, le metto per bene in fila nella mia testa e le incollo
nell'album, ricce, bionde e così via. Ultimamente ho scoperto che non tutte le bionde sono stupide,
l'album è stato davvero utile... So che è difficile crederlo, vi capisco. Solo per voi, e dico che lo
faccio solo per voi, la prossima volta che incontro quelle bionde chiedo loro se hanno i capelli tinti.
Appo ha i capelli ricci – a me quelle con i capelli ricci non hanno mai convinto, è come se mi
nascondessero qualcosa, e per capirle dovrei inerpicarmi tra quella foresta superando la forza
distruttiva di shampi e balsami –, occhi scuri, media altezza, magra e, per quanto riguarda il
carattere, credo sia una persona responsabile. Inoltre credo sappia quello che vuole e ciò a cui tiene.
Ah, mi sta simpatica la sua risata mascolina! Ora il suo ragazzo mi uccide....
Bumbo, invece, è alta, sì, decisamente alta. Sempre con quelle scarpette basse che un giorno le
faranno venire un mal di schiena tremendo e quella somiglianza a Katy Perry alla quale la gente
accenna per farle un complimento. Sarà così o è solo il trucco? Dovrò chiedere alla sorella com'è di
prima mattina, appena alzata. Fatto sta che Katy... mio Dio, la gente pagherebbe solo per starle
accanto. Io, però, vorrei conoscere il marito, un attore geniale e sconosciuto ai più!
Guarda un po', se mo' questo libro lo faccio diventare una rubrica cinematografica.
Tornando a Bumbo, è simpatica e altezzosa, quindi potete immaginarvi le risposte che dà.
Oh, se poi dopo, quando le incontro, hanno tutto un altro carattere, chiudete un occhio.
Sto attraversando una specie di crisi di scrittura. Mi immagino un editor tagliuzzare questo pezzo
come fosse un pesce e lasciare solo le spine, non la parte mangiabile/leggibile! Forse dovrei
tagliarlo direttamente io, lasciarvi senza le due ragazze sopra descritte, ma sarebbe un po' come
avervi fatto assaggiare la Nutella per poi servirvi la merda.
Appo e Bumbo arrivano. Sorridono dandomi un abbraccio abbastanza lungo che le parole
sembrano muorir loro in gola.
Digeritele per bene e non vomitatele, mi raccomando!
Ci accodiamo – c'è sempre un sacco di gente quando ci sono eventi gratuiti. Avete notato anche
voi che non pago mai nulla? –, la fila scende dai gradini del Palazzo delle Esposizioni e si incurva
come una grossa lingua che sta gustando un cono gelato.
Nonostante Appo sia al braccio destro e Bumbo al sinistro non appaio come il pappone di turno,
cosa difficile per me che ho sempre quell'aria sfrontata da essere superiore . Sono un gran coglione,
eh?
Parliamo del più e del meno, più qualche battuta che faccio io per far sparire la tensione dai loro
occhi. Ad esempio, c'è una barzelletta squallidissima, che in pratica è l'unica che conosco: «Una
donna scarta i regali di nozze. Su un pacco trova il biglietto: Se vuoi essere bella per tuo marito
vestiti così. La donna apre il pacco. È vuoto.»
Non ride mai nessuno, probabilmente la racconto male. Ah, se avete riso siete degli idioti, e ora
sorrido io!
«Insomma, domani parti» dice Appo.
«Dove vai?» chiede Bumbo.
«In Polonia. Amata Ryanair, soli cinque euro!»
«E il biglietto di ritorno?» chiede Bumbo.
«Non l'ho fatto...»
«Cosa?!» dice Appo. «Tu stai veramente fuori!» dice sorridendo.
«Ma sei sicuro? Hai già preparato tutto? Sei convinto?» dice Bumbo.
«Sì, non parliamone più. Entriamo.»
Le colonne all'entrata sono talmente alte che sembra di passare sotto la gonna di una donna
formato gigante. Però, guardando in su, si vede penzolare un lampadario, e viene da pensare... Con le
ragazze al fianco salgo gli ultimi scalini e siamo dentro, è la prima volta che ci vengo (non sotto una
gonna, s'intende). Pareti bianco latte vengono macchiate dai colori opachi dei quadri di De Chirico.
Mi avvicino a un quadro e, cercando di assumere una posa adatta alla situazione (una mano sul
fianco, l'altra sul mento, con l'aggiunta di uno sguardo riflessivo), commento: «A questo gli toglierei
tutta la parte inferiore.»
«Ahah, ma che dici?» mi prende in giro Appo.
«Sì, e a questo gli farei un bel taglio dritto in diagonale, da angolo ad angolo. Dopo getterei la
parte superiore!»
«Ma no!»
«Quest'altro, mmm, un bel buco in mezzo alla tela?»
Ed ecco che arriva la reazione di Bumbo, urla il mio nome allungando l'ultimo carattere per
un'infinità di volte e ne esce fuori qualcosa del genere: «Luigiiiiiiiiiiiiiii!» Subito dopo inizia a
colpirmi ripetutamente con l'immancabile bottiglietta d'acqua presente nella sua borsetta. Potrebbe
uscire senza gli assorbenti in quel periodo lì, ma la bottiglietta non la dimentica mai.
Continuiamo il giro mentre sforno autorevoli commenti riguardo opere che valgono più
dell'appartamento di mia nonna. Le distruggo, nota per nota, sino ad andare a comporre una musica
più orecchiabile al mio essere.
Saliamo al piano di sopra e di De Chirico non c'è più traccia. Esulto!
Delle splendide foto in diverse tonalità di grigio addobbano le pareti, ma voi le vedereste
soltanto in bianco e nero perché vi hanno insegnato così. C'è una forza, una ricchezza in quelle
immagini di persone e luoghi di oltre trent'anni fa che meritano un silenzioso rispetto misto ad una
totale ammirazione. Le guardo talmente a lungo che mi dimentico di leggere il nome del fotografo
sulla targhetta.
Usciamo e uno dei miei sensi avverte un'aria salata e bagnata tipica di luoghi lungo la costa. Che
diavolo mi sta succedendo? Sto diventando sentimentale?
Mi riaccompagnano a casa e, dopo un nuovo abbraccio comune, mi ritrovo davanti al portone,
solo come un cane.
Decido di non entrare. Percorro un centinaio di metri lungo la via, svolto a sinistra e poi a destra.
Arrivato davanti al citofono di Simone e premo delicatamente il pulsante come se fosse di
porcellana.
«Sì?»
«Simo', sono io, Luigi.»
«Oh, sali!»
«No, una cosa al volo, domani me lo daresti un passaggio?»
«Va bene, dove ti porto?»
«All'aeroporto di Ciampino.»
«...»
«Ci sei?»
«Sì, va bene. A che ora?»
«Passa da me verso sette, è un problema?»
«No, figurati.»
«Okay, allora a domani.»
«Certo.»
«Ciao, e grazie.»
Simone fa parte della lista degli amici su cui posso fare affidamento. Fa parte della lista amici
amici, quelli veri.
Amici amici, Dio, questa cosa è patetica, suona molto da mocciosetta del quarto ginnasio, a voi
no?
Ci sentiamo domani, purtroppo. Buonanotte, lettori.
Simone è sotto casa che mi attende, io, come al solito sono in ritardo. Ho infilato un po' di cose
nel borsone ma non ve le elenco. Ed è bene che non sappiate di preciso cosa ci sia dentro, così posso
sorprendervi!
Non parlo con la mia famiglia da un paio di giorni; li ho evitati, come sapete. Quando rientravo a
casa ci passavo davanti, non una parola, e filavo in camera.
Entro in salone con il borsone in spalla. Sgranano gli occhi, non sanno cosa pensare, non sanno
cosa dire, le parole si strozzano loro in gola.
Rughe e capelli bianchi dovuti allo stress mostrano i loro volti invecchiati grazie a una telefonata.
Io non sono come loro, io non mi voglio far influenzare.
«Me ne vado» dico. Se volete rimaneteci voi con i miei genitori. Fermatevi qui, parlateci, io
volto pagina, vado avanti.
Sotto le scale c'è Simone che mi aspetta. Braccia conserte, sorriso sincero da «la so più lunga
io!». «Sei in ritardo» dice.
«Che ci vuoi fare...»
Salgo in macchina e ve lo descrivo, va', ché ieri non l'ho fatto. E vi descrivo pure l'automobile,
che merita.
Avete presente quel programma di MTV dove ritoccano le macchine? Be', qui uno stilista per gli
interni si è dato da fare: questa Renault Magane Scenic, nome che si addice al proprietario dell'auto,
Simone, ha i tappetini, i sedili, i cuscini, le cinture di sicurezza e ogni parte che mi sono dimenticato
di nominare completamente zebrata. E vi assicuro che non è juventino, anzi, non gliene frega nulla del
calcio.
Ora passiamo al personaggio che guida questa vettura. Anfibi neri con lacci verdi; jeans blu
svarecchinati; maglietta nera con un disegno che mostra l'evoluzione dell'uomo, e dopo l'uomo
sapiens sapiens c'è l'uomo davanti al computer, dopo l'uomo davanti al pc c'è una cagata gigante,
sotto la merda c'è il nome di un gruppo che non riesco a leggere perché coperto dalle pieghe della
maglietta, dagli straccali rossi e dal chiodo (se non sapete cos'è, in breve: giubbotto di pelle pieno di
spuntoni); capelli sistemati a mo' di cresta, tinti di un biondo accecante.
Vi ho detto tutto, credo. Ovviamente viaggiando in questa maniera i poliziotti e i carabinieri sono
ben felici di fermarti ogni volta che gli passi davanti. Davvero simpatico da parte loro. Se ci fermano
anche oggi, per l'aereo è andata.
Il viaggio scorre liscio come la l'olio che avete in testa. A un chilometro dal posto di blocco
dell'aeroporto iniziamo a pregare che non ci fermino, non questa volta. E siamo sinceri, lo
imploriamo davvero il Signore.
I carabinieri sono lì. Centocinquanta metri. Cento metri. Ottanta. Sessanta. Quaranta. I carabinieri
sollevano la paletta e... fermano l'automobile che si apprestava a superarci!
Scendo.
Simone, mani sul volante mi guarda senza espressione e poi dice: «Vado al funerale, oggi.»
Cazzo...
«Che faccio, scatto qualche foto?» mi prende in giro.
«Io non ci vado mai ai funerali.»
«Togliti quest'aria da conquistatore, abbassa la cresta!»
«Ahahah. Grazie di tutto, Simo'.»
Provate a seguirmi al nord
(Non per forza, eh)
Allora, ragazzi, per cercare di capire come accidenti si scrive un romanzo, in aeroporto ho dato una
letta al Writers Digest e c'era stampato in caratteri cubitali:
SHOW, DON'T TELL
Questa frase mi ha messo in profonda crisi: io avevo intenzione di saltarvi una piccola fetta di
questo dolce e squisito testo, ma loro dicono che ve la devo mostrare... uffa.
Aspettate un attimo.
Volto la testa a destra e sinistra con aria circospetta. Nessuno che mi guarda, perlomeno nessuno
nei paraggi.
Strappp , ops, la pagina non esiste più, si è strappata! Oh, no, mi è scivolata per terra! Quanto mi
dispiace. Quindi, come dicevo pocanzi – che parola, da quando ho iniziato a scrivere ne ho imparate
certe davvero poco usate –, vi racconto la noiosità dell'attesa di un aereo all'aeroporto.
C'è gente, tanta gente, come sempre. C'è pure qualcuno di voi, quello con la barbetta a mo' di
capretta e la ragazza con i capelli viola. Ti ho visto, tipa, era facile notarti. Voi due fate finta di
niente e non mi salutate, che bastardi. Questa cosa me la lego al dito.
Aspetto l'aereo.
Guardo l'orario sul telefonino.
Sbadiglio.
Aspetto l'aereo.
Guardo l'orario sul telefonino.
Sbadiglio.
Aspetto l'aereo.
Guardo l'orario sul telefonino.
Sbadiglio.
Se questo è lo SHOW che intendevano loro facciamo prima a saltare le prossime dieci pagine:
tanto saranno tutte uguali.
L'unica cosa divertente dello starsene lì, annoiati a morte, è guardare la gente in astinenza da
fumo. Tra questi vi era una vecchia pomposa, con un pellicciotto addosso che avrebbe svolto la
funzione di una coperta matrimoniale se non avesse avuto le maniche. La signora, in tutta la sua
magnificenza, fumava una sigaretta elettrica. Oltre alla sigaretta aveva anche quel tubicino di ferro
per allungarla, così da non essere costretta a toccarla con le sue labbra rifatte, mostrava in questo
modo quanto era sofisticata. Lo mostrava così tanto che avrebbe dovuto scrivere lei questa parte.
La punta della sigaretta si accendeva di una lucetta color papavero ogni volta che aspirava, poi,
quando espirava, sembrava che stesse sbuffando vapore.
Insomma, tolto ciò non ho nulla da raccontarvi.
Salgo sull'aereo.
Mi sistemo sui sedili dell'uscita di sicurezza, che hanno più spazio per le gambe, e prendo sonno.
Tutto qui.
Righe di pausa prese perché sono andato a dormire.
Righe di pausa prese perché ero andato a darmi una lavata.
Atterriamo a Cracovia e a malapena me ne accorgo. Inoltre, ho evitato di guardare fuori
dall'oblò, in questo modo non ho dovuto mostrarvi quello che si vede. Che genio.
Le hostess, dal sorriso dolce e splendido come per gli americani è l'odore del tacchino il giorno
della festa del Ringraziamento, ci indicano la strada da seguire per raggiungere la via d'uscita.
Anche qui c'è gente in attesa su panche, sedie e...
Un flashback tremendo mi attraversa da parte a parte come un fulmine. Tutta colpa di quella
panca monoposto. Quella che vi dà la possibilità di sdraiarvi, che ha pure lo spazio per distendere le
gambe. Questa sdraio tecnologica dovrebbe stare al mare non in un aeroporto!
Lei che mi fissa, rossa in viso. Sono l'unico che riesce a farla arrossire. Mi fissa e io sono su
quella sdraio che la guardo. Cerco di capire, ci sarà un futuro per noi?
Si avvicina, allunga la sua mano e afferra la mia. «Vieni» dice in polacco.
Non ve l'avevo detto, ma un po' lo so parlare, il polacco.
Una mossa imprevista, la sua. Ci speravo, però non credevo che sarebbe mai successo. Nella mia
testa tutto è al rallentatore, come un film in slow motion, o come quando gli arbitri di basket chiedono
un timeout per vedere il replay dell'azione.
Tutto va piano.
Vedo il replay di me stesso che si alza, la segue.
Stevan è alla mia sinistra, sorride e abbassa lo sguardo. Una ragazza alla mia destra, che non vi
nomino perché mi sta antipatica, ci fissa.
Non mi interessa, non me ne frega nulla. Questo momento non verrà macchiato.
Stevan e la ragazza spariscono dal replay. Ci siamo solo io e lei, e la telecamera invisibile che ci
ruota intorno.
Sembra un ultimo bacio, uno di quelli destinati a essere ricordati, poi io rido e sbatto contro i
suoi denti. Rido, sono troppo felice, non riesco a smettere, e anche lei si trova nella stessa situazione.
Il solito detto, «vai con lo zoppo e impari a zoppicare» è vero come il fatto che prima o poi si muore.
Denti contro denti. Labbra contro labbra. Lingua contro lingua. E in mezzo una gomma da
masticare, che gira e gira, rotola, ci prende in giro, ci fa le facce e si copre gli occhi, proprio come
un figlio davanti ai genitori, e ride, ma noi siamo lì, uniti. Ridiamo di più.
Stringo la mano a Stevan e all'altra ragazza, con lei un bacetto sulla guancia non lo spreco.
Se ne vanno, tutti e tre. Ma non riesco a vederla andare via. Questa volta sono io che le afferro la
mano, da dietro, e con delicatezza la riporto tra le mie braccia.
La gomma, schifata, scappa, si rifugia in un angolo della bocca. La mia lingua vuole solo la sua
lingua.
Niente intromissioni.
Da dietro, sento Stevan urlare all'altra ragazza: «Maleducata, non guardare!»
E io riprendo a ridere. Dio, che cosa strana.
Ci stacchiamo che ho ancora la bocca aperta, e non per respirare, è che la sento, lei, sulla punta
della mia lingua, il sapore che non voglio lasciar andare via, che non voglio mischiare con la mia
saliva. E così rimango. Lei rossa in viso che se ne va. Io con la bocca ora socchiusa, che non voglio
chiudere.
Mmm, mmm, mmmmmm, ho aggiunto pure un po' di mielosità a questo libro, le signorine sono
soddisfatte?
Una sofferenza immane starmene fermo, davanti a quel dannato posto a sedere, con tutti questi
ricordi che pesano, con la lingua che cerca di capire se sulla punta si senta ancora qualcosa. Eh sì,
purtroppo quel qualcosa si avverte: il cervello, a forza di scosse elettriche, ritrasmette tutto pure
mentre scrivo, lo riavverto, proprio qui sulla punta della lingua.
Oh, tu, allontana quelle manacce, ti pare che ti faccio toccare la lingua?! Ditegli qualcosa,
voialtri. Che razza d'amici, avete.
Superare la sofferenza con la sofferenza...
Proprio come quella volta, uscito dall'aeroporto prendo il moderno trenino bivagone che mi porta
in città. All'interno, davanti alla macchina che stampa i biglietti infilo delle monete polacche, gli
zloty (in realtà la L di zloty non si scrive così, ma con un trattino diagonale in mezzo che la taglia da
destra verso sinistra, ma questa accidenti di tastiera non sa farle certe lettere).
Non ho abbastanza soldi. All'aeroporto non li ho cambiati, per un singolo euro io ne voglio
almeno quattro, di zloty, mentre loro me ne volevano rifilare tre e mezzo, ladri! Allora sono salito sul
trenino e ho comprato un biglietto che era una via di mezzo tra quello che dovevo prendere e quello
che avevo intenzione di pagare: ciò che mi potevo permettere.
A Roma i controllori non li vedo mai, come faccio a incontrarli in Polonia?
Mi siedo, schiena dritta e una mano davanti alla bocca a coprire il fatto che è aperta, sempre per
lasciar libera la punta della lingua. L'educazione non l'ho dimenticata a casa.
Uno di voi, gente, entra in scena. Io non ce lo volevo, avrei preferito che fosse rimasto a guardare
in silenzio così come aveva fatto sino a questo punto, e invece, lui, col suo sorriso da scoiattolino
furbo alla Cip e Ciop si presenta. Mi stringe la mano e dice: «Ticket, please.»
Chiudo il giornale inglese che sfogliavo, e lo riconosco, il vostro amico. Non cambio
espressione, so che è un bastardo, lo conosco di fama. Gli porgo il biglietto e lui sorride maligno.
«Ticket is not good.»
Maledetto, proprio me dovevi venire a controllare!
Gli dico che non avevo capito come funzionava la macchinetta.
Lui dice di non preoccuparsi e che gli dispiace per la morte di mio fratello.
Lo guardo peggio di prima.
Lui mi mette una mano sulla spalla e dice: «Come to ticket machine.»
Andiamo alla macchinetta dei biglietti e mi dice quale biglietto dovevo scegliere.
Gli faccio cenno di sì con la testa.
Lui inizia a premere pulsanti e io in tasca non ho soldi, gli zingari al semaforo davanti al
Vaticano di sicuro ce li hanno i soldi polacchi, io no. Forse gli devo dire che è meglio farmi una
multa, ma rifiuto di condannarmi da solo, sarebbe come farsi incarcerare per una rapina di cui non si
è accorto nessuno.
Lui è in difficoltà, non riesce a farla funzionare.
Io sorrido nervoso. Il vostro amico non conosce il suo lavoro, e in un certo senso godo!
Dopo un po' ci rinuncia. Alza le spalle e mi fa segno d'andarmi a sedere.
Obbedisco: non è che posso tentare la fuga da un treno in corsa e, soprattutto, in questo momento
mi sento svogliato.
Arriviamo a Cracovia. Il vostro amico e controllore ha smesso di osservarmi. Lo vedo
gironzolare con una tazza di tè in mano e mi chiedo se hanno il bollitore su uno dei due vagoni o se si
portano un thermos da casa...
Esco, e respiro l'aria della capitale artistica della Polonia, la meravigliosa Cracovia, che forse vi
presenterò come si deve.
Vedo il cielo nuvoloso e ho la strana sensazione d'indossare dei grossi occhiali da sole, ma non li
ho mai comprati per due motivi precisi: uno, costano troppo; due, quelli dei marocchini rovinano la
vista. Vedo delle T gialle con le barrette laterali piegate a formare tante frecce. Vedo che mi portano
verso delle scale. Vedo un corridoio pieno di libri usati, cibo zuccherato, commessi sorridenti. Vedo
altre scale e sono fuori dalla stazione.
Un serpente di piastrelle attraversa un praticello inglese e mi conduce in piazza Stanislawa
Worcella dove c'è un enorme centro commerciale che ha più negozi dell'Euroma2 di Roma, e che
viene descritto come il centro commerciale più grosso d'Europa. Davanti all'entrata c'è uno stand al
quale posso chiedere informazioni.
È ora di praticare un po' di polacco, che ne dite? Anche perché bisogna capire come sistemare i
dialoghi su questo testo. Facciamo qualche prova.
«Ciao» dico mentre leggo il nome sulla targhetta, Anastasia Angelini. «Ma sei italiana?»
«Parlo poco italiano» dice nella lingua nostrana.
«Poco poco.»
«Ah, allora hai un genitore di origini italiane?»
«Nonno italiano.»
«Ok...» Su, vediamo come posso mettervi il discorso in polacco, tentiamo così: «Moshesh mi
dach ieden mapa?» Puoi dare me una mappa?
Rendetevi conto che questa lingua la parlo così così, e che la leggo al livello di un bambino che
ha appena iniziato le elementari. Un tempo ero più bravo. Venivamo in vacanza in Polonia e i miei
genitori mi mollavano in un campetto fuori città, dove c'erano cavalli e tanti altri animali. Passavo le
giornate galoppando o andando al trotto, poi raggiungevo un lago e facevo gare di tuffi con gli altri
ragazzini del posto. Sempre insieme ad altri bambini alla fine lo si impara, il polacco. Poi, i giochi
finiscono, si disimpara.
La ragazza del punto informazioni, vestita con converse rovinate, jeans aderenti neri e una
maglietta a righe orizzontali coperta a tratti dai folti capelli biondi mi spiegava: «Sobach» dice
indicando un punto sulla mappa. «Jest tutai.» Guarda, aveva detto, è qui.
Avevo ricevuto le indicazioni che necessitavo di sapere.
«Okay, genkuje barzo.» Okay, grazie mille.
C'è una cosa che non vi ho detto: un polacco storcerebbe il naso di fronte alla mia scrittura. Ho
messo le frasi così come si pronunciano e non come si scrivono, quindi bravi, siete stati in grado di
leggere in Polacco! Un attimo che vengo lì e vi stringo la mano.
Riprendo a camminare infilando la mappa in tasca, non ne ho bisogno. Collegato alla piazza c'è
un ampio sottopassaggio con più uscite, e ricordo ancora la prima volta, quando ne ho imboccata una
a caso con la speranza che mi allontanasse dalla pioggia volta ad aumentare il peso dei vestiti che
indossavo. Ovviamente, usciti da lì, o ti bagni o ti bagni; l'alternativa è quella di rimanere sotto
aspettando che passi il maltempo. Speranza vana, a mio giudizio.
La piccola salita che affronto mi porta al centro del parchetto a nord della città vecchia (si dice
stare miasto, in polacco, e, solo per questa volta, si pronuncia così come si scrive), quella murata e
splendente che si vede sulle foto delle compagnie aeree che pubblicizzano i voli destinati a
Cracovia.
È inutile che provi a diminuirne il valore e la bellezza, sarei un grosso idiota se lo facessi, perciò
immaginate di essere al cinema e di aver appena indossato gli occhialetti per la visione di un film in
3D. Lasciatevi guidare, rilassate la vostra mente e ammirate le mura mattonate di un marroncino
chiaro e morbido come una spugna, mattonelle grigio cenere ampie e senza dislivelli alcuni, case
basse dallo stile medievale, un'infinità di negozietti per il cambio euro-sloty, librerie che vendono di
tutto fuorché romanzi (perché quelle che li vendono sono sempre un po' appartate: i turisti vogliono
solo delle noiose guide piene di immagini, quando dovrebbero invece lasciarsi guidare dall'istinto e
visitare solo quella cosa che fa brillare l'anima, abbronzarti al buio e riscaldarti d'inverno. Non lo
capiranno mai).
Tutte le stradine portano al centro preciso della città, una piazza che i polacchi dicono sia la più
grande d'Europa, piazza Rynek. Io nutro i miei dubbi sull'effettiva grandezza della piazza poiché al
centro è divisa da un mercatino cementato sino all'osso. Ma forse questi pensieri sono solo frutto
della mia mente perversa, ché alla fine, se andate a contare, ci sono almeno duecento metri per lato,
davvero tanti!
Ora buttate gli occhialetti 3D che qui ci sarebbe davvero troppo da descrivere. Infilate i
paraocchi e seguite solo me in uno dei bar al lato est della piazza. I tavolini color panna formano dei
piccoli cerchi intorno alle stufette a mo' d'ombrello. Gente rilassata, come la potete trovare solo in
questa città, imita il ricordo di uno stile tutto italiano di agiatezza e pacatezza di in un luogo pubblico
in cui far colazione e rimanere seduti tutta la giornata.
«Marek!» esclamo vedendo un trentacinquenne dal fisico asciutto e un paio d'occhiali da sole
giganti a coprire il viso come fossero un'armatura proveniente dal futuro. «Speravo di trovarti qui!»
dico in polacco.
Gente, mi sono stufato di quella sottospecie di scrittura che vi fornisco: è quasi peggio di questa!
Ora si va avanti solo con traduzioni istantanee.
Marek ci mette un po' a riconoscermi, gli anni passano anche per lui. Poi mi sorride. «Luigi,
come stai? Ma che ci fai qui?»
«Mah, così, passavo per due chiacchiere...»
«Senti, non provare a prendermi in giro. Eri lo studente che conosceva peggio il polacco e ora ti
ritrovo qui, da solo, a metà anno. Ahahah, da non crederci!»
«Sediamoci» dico. «Ti posso offrire qualcosa?»
«Mi risiedo volentieri, però, no, grazie, non offrirmi nulla: mia moglie dice che sto
ingrassando...»
«Hai smesso di andare in bici?»
«Ci sono caduto, da quella dannata bicicletta...»
«Cacchio, che ti sei fatto?»
«Ti dico solo che il ginocchio, da allora, cinque mesi fa, non è ancora tornato come prima, ma sto
facendo fisioterapia.»
«Oh, allora finalmente ti posso battere!»
«Ah giovane, pure con una gamba sola ti tengo ad almeno cento metri.»
Benvenuti, signore e signori, in uno di quei dialoghi che nei libri non si vedono mai: le
chiacchiere sul più e meno. Ma avevo bisogno di riprenderci confidenza, quindi lasciatemi fare e
andate avanti sulla fiducia.
Marek alza le spalle, allarga le braccia, apre le mani e dice: «Guarda, per me va bene, ma devo
chiedere conferma a mia moglie.»
«Mi faresti un favore gigante!»
Marek sfila con nonchalance un fazzoletto dal contenitore al centro del tavolino e ci scrive sopra
un numero di telefono.
Qui mi soffermo un attimo. L'idea di scrivere non ricordo quando mi sia venuta, ma mi ritengo
comunque uno sfaticato, perciò è giusto che capiate: non inserisco parole in più a meno che non siano
strettamente necessarie. Ad esempio, «nonchalance», in questo caso mi sembrava giusto inserirla
poiché non c'è niente di più difficile che riuscire a sfilare un singolo tovagliolo da questi contenitori
che sembrano due ventagli posizionati a breve distanza e collegati da una base di ceramica. Tutti i
turisti, la gente di passaggio, me compreso, arrivati in un qualsiasi ristorantino polacco si trovano
davanti questo aggeggio infernale e scomodissimo, e nessuno ne viene a capo. Adesso che sapete
com'è l'andazzo, prima di partire per la Polonia esercitatevi un po', sempre se non volete fare figure
di merda, altrimenti buttate i vostri soldi in ristoranti di lusso con i tovaglioli morbidi e caldi come
la pelliccia di vostra moglie.
Ringrazio Marek, afferro il tovagliolo, e ci salutiamo con una forte stretta di mano a far sentire i
calli; veramente si sentivano solo i suoi, di calli – Mio nonno si vergognerebbe di me dato che alle
volte gli do una mano a zappare la terra, ma tanto non saprà mai che ho scritto io questo libro!
Marek mi sfila davanti sulla sua mountain bike dalle gomme spessissime e io inizio a percorrere
tutto il lato occidentale di piazza Rynek volgendo lo sguardo verso i bar e i ristoranti alla ricerca di
qualche personaggio famoso – sì, sono affetto anche io da questa stupida malattia –, ma non ne trovo
o non ne riconosco, la televisione non la guardo mai, tantomeno quella polacca.
Mi incupisco un poco: in questa città si riuniscono tutti gli artisti, e di ogni genere: pittori,
scrittori, cantanti, attori, registi vi abitano in lungo e in largo, e frequentano la piazza ogni giorno per
discutere animatamente su tutte quelle faccende che, come ci ha insegnato l'arguto dizionario nelle
prime pagine, potrebbero correlarsi alla psicopatia.
Non ne riconosco davvero nessuno, accidenti! Sarebbero utili alla mia causa – causa che ancora
non ho in mente – e potrebbero presentarmi tanta gente interessante.
Arrivato all'angolo in fondo a sinistra della piazza proseguo verso sud, su via Wislna (se vi può
interessare, in polacco esistono solo le V doppie, niente V singole).
Superato un minuscolo incrocio trovo un ragazzo seduto su uno sgabello con in mano una freccia
di cartone a pubblicizzare un negozio.
INTERNET CAFE
1 zloty = 20 minuty
Non credo ci sia bisogno della traduzione.
Seguendo la freccia mi inoltro nell'Internet caffè. Chiedo un computer e mi fanno cenno di andare
al numero tre. Mi siedo e infilo lo zaino tra le mie gambe, sotto la sedia.
Inizio un'articolata ricerca, stampo dei fogli e, dopo aver pagato, esco avvertendo un paio di
goccioline cadermi sulla testa. Sollevo lo sguardo nella speranza che si tratti di un vaso che perde
acqua, ma incontro un cielo grigio e maestoso con un mare in tempesta.
Ripercorro i miei stessi passi, e al mini incrocio, invece di andare verso la piazza, svolto a
destra, ché mi ricordo di un emporio da visitare.
Intanto le gocce aumentano e da un momento all'altro potrebbero essere grosse come bolle di
sapone. Riguardo alle bolle, in piazza c'è sempre un tizio che le fa minimo di quaranta centimetri di
diametro, attirando bambini di egual grandezza.
In fondo alla breve via svolto a sinistra. Un centinaio di metri più avanti si vede la solita piazza
che prima o poi dovrà attraversare (e sarà quindi costretto a descrivervela in tutta la sua immensità),
ma sulla destra ci sono una serie di tavolini divisi da un paio di separé e quella che sembra l'entrata
di un pub. In realtà non è che sembra, è l'entra di un pub, solo che non è l'unica cosa che c'è dietro il
muro; all'interno vi sono almeno un paio di pub, di cui uno dai sedili particolarmente adatti a
momenti romantici – avrei voluto portarci la signorina dell'aeroporto – e un Internet caffè (un altro),
ma non è finita qui.
Entro e supero il negozietto che permette di collegarsi al web, sulla sinistra ci sono i due pub e le
poltroncine a cui accennavo qualche frase fa. Alcuni passi avanti e sento di nuovo le gocce bagnarmi
i capelli. In questo posto, esattamente al centro, il tetto non l'hanno costruito e sembra che l'architetto
si sia divertito a lasciare a un buco a forma di vagina... Nonostante le porcherie che dico, vi assicuro
che è un luogo romantico. Fidatevi.
Superata la vagina c'è una porta di vetro. La tiro verso di me e sono arrivato all'emporio al quale
puntavo. All'interno vi sono magliette nere con ogni tipo di scritta, o gruppo musicale. Ci sono anche
spillette, collanine e braccialetti. Tra i mille altri accessori trovo un ombrello blu, con delle righe
bianche che scendono giù come fossero parte di una giostra dalla quale ci si tuffava giù con dei
tappeti facendo delle strane gare dove vinceva sempre il più obeso... Parlo di quella giostra che era
al Luna Park che hanno chiuso, quello all'EUR. Dio punisca il tizio che se l'è comprato: l'ha fatto
fallire.
Compro l'ombrello e girovago per il negozio sino a che non vedo una maglietta con una scritta
satirica e una tomba disegnata sopra.
Non riesco a ridere, vaffanculo! Mi viene solo voglia di bestemmiare, ma non lo faccio. Ho un
autocontrollo pazzesco, io.
Esco e sono in un angolo di piazza Rynek, nel punto in cui si incrocia con via Grodzka. Quella
appena percorsa è una scorciatoia sconosciuta ai turisti e anche a molti abitanti di Cracovia. Vedete
di sfruttarla se dovrete sfuggire, che ne so, dalla polizia?
Volgo le spalle alla piazza e m'incammino sulla Grodzka. Alla prima edicola compro una scheda
per il telefonino che sostituisco subito a quella italiana.
Salvo il numero di Marek e imposto l'orario chiedendolo a un passante. Quindici e trenta, mi è
venuto un certo languorino. È da questa mattina a Roma che non mangio.
Stufo di tenere l'ombrello in mano lo poggio al lato di una saracinesca alzata, quella di una
libreria di remainders tutti scontati del cinquanta per cento. Salto automaticamente la prima stanza,
dove ci sono cose di cui sono in grado di leggere una parola ogni dieci, tipo i libri di Eco che un mio
amico ceco ama tanto, do un'occhiata veloce anche alla narrativa per ragazzi attirato dal nome in
copertina di qualche autore italiano e passo alla terza stanza, ove c'è il reparto bambini e quello
fumetti.
Metto alla prova il mio polacco su un libro dedicato ai mocciosi nati cinque anni fa e supero il
test. Mi accingo a leggere un fumetto e, dopo essermi reso conto che capisco più di quello che
credevo, sono tentato dal comprarlo. Alla fine mi dico che non posso: non ho abbastanza spazio nello
zaino, è la scusa.
Tornato in strada lo stomaco mi insulta e voi non mi offrite nulla, che stronzi.
L'insegna di un fast food mi tenta, ma poi mi ricordo che in Montenegro, nazione che – purtroppo,
e forse un giorno vi spiegherò – amo, non ce ne sono.
Niente contaminazione, niente globalizzazione sul cibo, solo roba loro, tradizionale. Un'altra
delle mille qualità che hanno è: il taxi dalla periferia al centro di Podgorica costa poco più di un
biglietto dell'autobus!
In uno dei mille carretti che si trovano in giro per la città compro un waffle, semplice e gustoso.
Perfetto a chiudere lo stomaco.
Sono le cinque di pomeriggio. Chiamo Marek.
«Ehi, sono Luigi, questo è il mio numero polacco!»
«Ah, bene!»
«Allora..»
«Ho parlato con Agata, ha detto che non ci sono problemi se stai da noi qualche giorno, a patto
che ogni tanto fai il baby sitter, ahahah!»
«Eheheh, non c'è problema, accetto!»
«Perfetto, ti ricordi dov'è la scuola, no?»
«Certo prof!»
«Lì tra una mezzoretta?»
«Affare fatto!» dico entusiasta. «Ciao.»
«Ciao» risponde in italiano.
Gente, anzi no, vi chiamo popolo, dato che siete aumentati, direi che è arrivato il momento di
chiarirvi una cosa: non è che se venite a sapere di alcuni miei fatti personali significa che siamo
amici, proprio no, anche perché ce ne sono molti di cui non siete a conoscenza, come, ad esempio,
quella volta che i carabinieri hanno bussato alla porta di casa alle sei e cinquanta di mattina e, dopo
averla perquisita sin nello scheletro, si sono portati via tutti i computer.
Affitto una bicicletta avvertendo il commesso che me la terrò per qualche giorno e lui risponde
con un'alzata di spalle. È un evento normalissimo, qui.
Pedalo felice, con alla mente le gare che facevo lungo la pista ciclabile che passa sul fiume
Vistola il quale divide Cracovia da Podgorze. Purtroppo, una volta, Stevan, il ragazzo che era
all'aeroporto insieme a Lei, si è ribaltato su una discesa distruggendo la bicicletta presa in affitto e il
suo corpo... L'ambulanza è arrivata in tempo e alla fine si è trattato di un leggero trauma cranico, un
polso fratturato e varie escoriazioni, per fortuna...
Popolo, le strade sono sicure, siamo noi i coglioni. Ammettetelo insieme a me, in romanesco dite:
«Semo 'na massa de cojoni.»
Arrivato su ponte (si dice «most» in polacco») Debnicki, altri ricordi pervadono le ultime cellule
rimaste nel mio cervello: sotto di esso ho passato due ore della mia vita con Lei, abbracciati tutto il
tempo. E vi assicuro che di giorno quello è uno dei posti più squallidi del mondo, c'è una mega
pozzanghera alla spalle e un fiume tra il verde e il marroncino davanti.
Di notte, invece, dopo aver superato una rete, eravamo in bilico tra queste acque, uniti,
parlavamo sottovoce, un abbraccio infinito e un ragazzo che da sopra il ponte ci urla: «Kokaicece»,
amatevi!
Ops, l'ho scritto in questo pseudo polacco invece di tradurlo da subito, guardate che me ne sono
reso conto, è che il ricordo è stato impresso sul mio corpo con un tatuaggio che non perde colore, che
dura in eterno.
Superato il ponte svolto a destra. Un paio di curve e sono davanti scuola.
Marek mi attende sul sellino della sua bici fiammante. «Prova a seguirmi» dice.
Accetto la sfida sapendo bene che potrebbe depistarmi da un momento all'altro, e non solo perché
le mie due ruote non hanno marce.
Pedalo, accidenti se pedalo, ma, arrivato al ponte che avevo attraversato pocanzi, Marek già lo
trovo una decina di metri avanti. Lo vedo superare persone, famiglie con passeggini e nonnette con il
carrello della spesa, il tutto con quel genere di fluidità che ci si aspetta da un ninja. Poi fa una U e
scende sulla pista ciclabile lungo il fiume.
Spingo sui pedali più che posso arrivando al limite di velocità della monomarcia senza riuscire a
diminuire il distacco. Qualche metro dopo lo vedo affrontare la salita che porta al drago
lanciafiamme – dove tutti i turisti cercano di farsi una foto in quell'esatto attimo, ovviamente, senza
riuscirci –, girare intorno al castello e fermarsi dall'altra parte della strada.
Lo raggiungo cercando di portare il respiro a un livello normale, ma Marek subito mi incalza:
«Cos'è, sei già stanco? E questo sudore?»
Sorrido. «Ma no, zaino dà me peso e calore...»
«Sì, sì, certo.»
«Andiamo...»
«Siamo arrivati.»
«Davvero? Vivi in centro!»
«Quasi... sai, oltre al professore faccio la guida turistica.»
Non me la racconta giusta. «Non penso che tu potere comprare casa qui con questi lavori.»
«Già, è vero...» dice guardandosi intorno. «Me l'ha lasciata mio padre, faceva l'attore ed era
piuttosto famoso.»
Marek tira fuori un mazzo di chiavi e apre un portone. Io do un'ultima occhiata alle automobili
elettriche disposte a spina di pesce e penso a tutti i soldi che i proprietari riescono a scucire ai
turisti, poi lo seguo all'interno.
Facciamo due rampe di scale con le biciclette sottobraccio e, arrivati davanti a una porta
dall'inquietante color ebano – scusate, ma io di porte così scure non ne ho mai viste –, Marek
schiaccia il pulsante di un citofono grosso e tondo quanto una pallina da tennis.
«Non hai chiavi di casa?»
«Certo che ce le ho, volevo solo avvertirli che siamo arrivati!»
«Papà!» urla una bambina dopo aver spalancato quella porta. «Bentornato!» dice aggrappandosi
alla gamba di Marek.
«Suvvia, Barbara, staccati che ti presento un amico.»
«Ma no, io sto bene così!»
«Va be', Barbara, questo è Luigi; Luigi, questa è Barbara.»
«Ciao.» Mi piego sulle ginocchia e allungo la mano per salutarla, ma la bambina fa la sfrontata e
mi dà uno schiaffo sulle dita.
«Ehi, è questo il modo di comportarsi con un ospite?»
«Non mi sta simpatico.»
Osa rispondere al padre? E io dovrei fare da babysitter a questa mocciosetta?!
«Barbara» dice una voce femminile «comportati bene, altrimenti non ti faccio guardare la
televisione per una settimana.»
La moglie di Marek si affaccia in corridoio, che splendore! Occhi verdi, capelli biondi legati a
coda, un viso che ricorda Christina Aguilera, ma con i lineamenti più morbidi e delicati.
Si avvicina e mi stringe la mano che la figlia si era rifiutata di prendere. «Ciao, piacere, Estera.»
«Ciao, Luigi. Hai davvero un bel nome» dico lasciandole
la mano. «Sai cosa significa in italiano?»
«No...»
«Significa estero... ti piace viaggiare? Uscire dalla Polonia? Penso di sì, no?»
«Ohi» dice Estera rivolgendosi al marito. «Mi sta simpatico il tuo amico!»
Mi mostrano la casa, stanza dopo stanza, e in quasi tutte c'è un ritratto del nonno di Barbara, il
padre di Marek. La cosa non mi piace per niente.
«E questa invece» dice Estera, «è la stanza degli ospiti.»
«Perfetto, grazie» dico appoggiando lo zaino a terra.
«Sul letto trovi un paio d'asciugamani, qualsiasi cosa ti dovesse servire non esitare a chiedere.»
Fa per uscire, ma si ferma sulla soglia della porta. «Ah» dice.
«Ti andrebbe di iniziare a fare il babysitter da questa sera?»
«Certo, non c'è problema.»
In realtà sì. Che palle, ma non posso mica rifiutarmi... Uff.
Allora gentaglia, come va? Come mi vedete in questa situazione? Già mi sta passando la voglia
di rimanermene a Cracovia, troppi ricordi, delusioni, e questo lavoro... Va be', speriamo che questa
mocciosa si addormenti. Vado di là a vedere che sta combinando. Voi non rompetemi le scatole, mi
raccomando.
No, ora non c'è neanche bisogno che mi muova, lei è qui che mi fissa. Inquietante quasi quanto la
porta.
«Ti va di giocare?»
«Mmm, sono un po' troppo vecchio per i giochi...»
«Con il papà e le mamma gioco sempre!»
«Be', allora mi sa che devo giocare pure io... Che vuoi fare?»
«Nascondino!»
«Okay, okay» dico guardandomi intorno. Quadri del vecchio, vasi di porcellana, oggetti inutili
ma altamente fragili. «Il posto sembra perfetto.»
«Lo è, lo è!»
«Sei sicura?»
«Certo, guarda che spettacolo questo armadio»
dice aprendo un'anta. «Ha il doppiofondo!»
Accidenti, questa mocciosa conosce il polacco meglio di me. Io le parole le capisco tutte, ma
dirle è un po' più difficile perché bisogna memorizzare il significato, come si leggono e quando
usarle, oltre che ricordarle.
«Doppiofondo» non mi sarebbe passato per la capa neanche dopo un funghetto allucinogeno.
«Perché non mi insegni un po' di polacco?»
«No, giochiamo!»
«Va bene, bimba. Chi inizia a contare?»
«Tu.»
Occhi alla parete inizio a contare. Voi fatemi compagnia, contante insieme a me.
Mille e uno.
Mille e due...
Arrivato a mille e dieci mi rendo conto che non saprei proseguire: i numeri tra il dieci e il venti
mi sono sempre suonati strani, e lo stesso mi succedeva con l'inglese. La pronuncia e l'associazione
“uno più un'altra cifra” mi è sempre suonata strana, diversa. Pensandoci bene anche in italiano si
incappa nello stesso problema: uno più due si dice «dodici» e non «diecidue » come «ventidue»,
«trentadue», «quarantadue» e così via.
Bah... dopo questa riflessione assurda la bambina ha avuto un sacco di tempo per nascondersi.
Comincio a girare per casa ficcanasando in tutti gli armadi, ma non la trovo. Non c'è neanche
sotto i letti e nemmeno sotto i tavoli. Forse dovrei guardare nel secchio dei panni sporchi, una
mocciosa irritante come lei non potrebbe scegliere posto più adatto per nascondersi...
I due bagni sono uno accanto all'altro. Da quello più lontano riconosco il rumore dell'acqua che
fuoriesce, probabilmente dalla doccia. La tipetta potrebbe averla aperta per distrarmi, ma brava! Si
starà nascondendo nel bagno di fianco, bene...
Spalanco la porta ma non sento alcun rumore. Complimenti. Una luce a intermittenza attira la mia
attenzione. Proviene da fuori la finestra, dalla casa di fronte. Sembra quasi un lungo breve lungo, un
SOS.
Mi avvicino alla finestra e nella palazzina di fronte riconosco uno di voi, che palle.
Un fruscio alle mie spalle, una tendina che si muove e vedo Barbara sgattaiolare fuori a tutta
velocità. Mi appresto a inseguirla, ma non ce n'è bisogno perché lei rovina a terra dopo esser
scivolata su un tappeto.
Stump!
Non si muove. Dio!
Una macchiolina rosso pomodoro sporca il pavimento.
«Oh porca puttana!» Le parolacce sono la prima cosa che si impara quando si va all'estero.
«Oddio! Barbara? Barbara? Dio, stare viva?»
La scuoto. Niente, non risponde. Urlo: «Stare bene?»
Nulla. Cazzooo, sono nei guai! Dio, per favore, un'altra persona morta no, per favore...
«Bu!» fa la mocciosa.
«Eh?... e che cazzo!»
«Ahahah, no, ti dovevi vedereeee!»
«Ma vai a quel paese!»
«Piegato in due, disperato, ci mancavo poco che piangevi. Piagnone, piagnone, piagnone!»
Mocciosi...
«Oh, e comunque» dice Barbara. «Glielo dico a mia madre che dici un sacco di parolacce.»
«Cosa?»
«Vuoi un po' di ketchup? Mmm, è buono» dice leccandosi le dita.
«Da te non volere proprio niente.»
Che lavoro di merda... questo è il primo ed ultimo giorno da babysitter della mia vita. Domani
prendo il treno e me ne vado un po' più al nord, un po' più al sicuro da questa mocciosa che finirà per
farmi morire d'infarto. Domani sarà un giorno migliore.
Ore dopo riesco a metterla a letto. Vado nella camera degli ospiti, infilo una tuta che uso come
pigiama e scosto le tende per dare un'occhiata al panorama.
Un cimitero mi mozza il respiro. Ho saltato il funerale di mio fratello.
Mattina. Alba, sarebbe meglio dire. Vedo il sole bucare la tendina coi suoi raggi, raggiungere i
miei occhi e trovarli stanchi, appesantiti da una notte insonne. Proprio non ce l'ho fatta ad
addormentarmi. Troppi pensieri e poche vie di fuga.
Preparo la borsa, le mie poche cose, ci metto un attimo. Un salto in bagno e uno in cucina dove
voglio lasciare una lettera di ringraziamento.
Entrato in cucina sobbalzo vedendo Estera in piedi
con una tazza fumante in mano. Mi vede con lo zaino, pronto ad andarmene. «Vuoi una tazza di
tè?» dice.
«No, grazie...»
«Bene, perché ti ho fatto un cappuccino!»
Sorrido, è davvero gentile, altro che la figlia.
«Ieri Barbara ci ha lasciato un bigliettino sul letto...»
«...»
«Ha detto che si è divertita molto con te!»
'Sta mocciosa malefica ha un cuore... quasi mi emoziono.
«Be', non essere stato difficile...»
«Non dire cavolate, so bene che è una peste. Grazie
davvero.» Allunga una mano e sorridendo dice: «Buon viaggio.»
Gliela stringo forte e la ringrazio dicendole di salutare Marek e la bimba da parte mia.
Esco da quella casa felice. L'unica persona che non mi ha fatto domande sul perché me ne partissi
o perché viaggiassi è stata la moglie di Marek, che donna! Deve essere tutto collegato al suo nome,
Estera!
In un secchio dell'immondizia butto tutti fogli che avevo stampato all'Internet caffè. Offerte di
lavoro, appartamenti e stanze da affittare, insomma tutta roba che non mi serve più.
Sono di buon umore, vi faccio un regalo, attraverso la piazza!
La prima mattina è il momento migliore per osservare piazza Rynek in tutta la sua immensità. La
scarsità di turisti e di venditori ambulanti a quest'ora poco fruttuosa (le sei meno venti) permette di
vedere la distanza da un angolo all'altro tranne che in diagonale, dato che, come vi ho detto, in mezzo
c'è quella costruzione che ospita un mercatino. Al centro del mercatino, sul lato destro c'è appeso un
pugnale, se volete capire come mai è lì fatemi fare qualche metro avanti sul lato est della piazza.
Eccomi, sono qui, sotto questa grossa chiesa dalle torri diverse. C'è un motivo se una torre è più
alta e stretta dell'altra, c'è tutta una storia dietro, una storia che non mi ricordo bene... Va be', io ve la
racconto così come la so, però, per avere la versione esatta venite a visitare Cracovia (ora avete un
motivo per farlo). Più gente verrà e meno costeranno i voli. Comunque, 'erano una volta due fratelli
(l'inizio di ogni fiaba è palloso allo stesso modo, lo so) che volevano dimostrare di essere uno più
bravo dell'altro. Così, per stabilire chi fosse il migliore, decisero di fare una gara: chi sarebbe
riuscito a portare la chiesa più in alto possibile grazie a una torre avrebbe vinto. Allora si misero
all'opera e un fratello decise di puntare su delle fondamenta larghe e solide, l'altro subito sull'altezza.
Quello che puntò sull'altezza finì la torre per primo e uccise il fratello che, grazie a quelle larghe
fondamenta e alla solidità della torre in costruzione sarebbe potuto arrivare molto più in alto della
sua.
O il fratello dalle solide fondamenta uccise l'altro perché invidioso che avesse finito la torre?
Boh, chi se lo ricorda... Ripeto: venite qui, visitate la città e in un paio di giorni ne saprete più di me,
ve l'assicuro.
Arrivato alla stazione dei treni compro un biglietto per Szczecin. Se volete capire dove diavolo
sto andando sulla mappa italiana dovete cercare Stettino, sulla mappa inglese Stettin, su quella degli
altri paesi in cui spero questo libro verrà tradotto non lo so. Magari il traduttore poi scambia qualche
parolina e dice «sulla mappa x». Allora, traduttore, che ne dici? Sono sicuro che stai facendo un
lavoro splendido e per questo ti ringrazio, ma avvisami se gli stronzetti guardoni – voi – ti venissero
a disturbare. Avvisami e ci vendicheremo insieme!
Salito sul treno mi vengono in mente i racconti di mio padre risalenti a un quarto di secolo fa,
quando questo stato era tra i più poveri d'Europa e l'unico mezzo di trasporto sicuro era questo
scivolatore su rotaie che andava a vapore, trascinando con sé un puzzo e un fumo tale che non
permetteva d'aprire i finestrini e questo era un problema enorme, soprattutto d'estate, quando si
moriva, letteralmente di caldo e tutti stavano ammassati, uno sopra l'altro, per un giorno intero (il
tempo che ci voleva per attraversare il paese).
Un posto ce l'ho e decido di ritenermi fortunato.
Un bambino fa scivolare la porta di lato ed entra insieme alla mamma e alla sorella. Insieme
occupiamo quattro dei sei posti a disposizione. Gli altri due rimangono liberi ancora per poco, il
tempo di permettere al treno di partire che un vecchietto e una vecchietta li occupano; il tempo di
arrivare alla stazione successiva e stanno già dormendo, bene. I figli della signorina sbadigliano
portandosi la mano davanti alla bocca, nonostante il sonno l'educazione rimane e potrei azzardarmi a
dormire a mia volta, ma il timore di subire un furto – pure se c'è davvero poco da rubarmi – supera la
straziante voglia d'addormentarmi. Ovviamente non temo la famigliola, ma chiunque altro possa
avventarsi nella cabina nel momento in cui fossimo tutti addormentati. Brutte storie circolano da
queste parti.
Ho bisogno di sapere il numero di mia zia di Stettino e non faccio in tempo a inserire la scheda
italiana per cercarlo che subito mi arrivano una decina di sms. Scarto quelli che, a mio giudizio,
ritengo meno interessanti e vado a leggere quello di Marco, un non amico.
Il concetto di non amico sarebbe da spiegare, ma mettiamolo un attimo da parte per colmare
momenti vuoti e vediamo che ha da dire.
Mi hanno detto che stai all'estero, come la vedi se ti raggiungo?
Rispondo.
Sai benissimo che per me non c'è alcun problema, dammi solo il tempo di chiedere a mia zia se
ti può ospitare, ma, al massimo, l'ostello di Stettino costa cinque euro a notte...
Ho superato i centosessanta caratteri. Ora dovrò spendere gli stessi soldi per messaggiare anche
con mia zia, che rottura.
Fuori dal finestrino scorrono alberi, laghi e di nuovo alberi. Non so che immagine avete in testa,
ma è così la Polonia: una foresta continua, interrotta da specchi d'acqua ove vanno ad abbeverarsi i
bisonti. Eh no, qui i tipi del Far West non sono venuti a far fuori tutte le creature del posto, qui ci
sono ancora questi esseri che hanno i peli di un Mammuth e il corpo di una vacca da combattimento.
Il bambino e la ragazzina giocano con la mamma. Qualcosa di simile a Carta, sasso e forbici, ma
con una variante che si pronuncia «Cupa», «cacca», in italiano. Il bambino più piccolo ride ogni
volta che dice «Cupa, cupa, cupa!». Sembra quasi che lo faccia apposta a perdere. La ragazzina,
forse a causa della mia presenza (anche se non ve l'ho detto alcune qualità estetiche le ho, mentali no
di sicuro...), fa finta di essere troppo grande per questi giochi, però sotto i baffi – che non ha – ride
anche lei.
Il bar ambulante scivola sulle rotelle davanti alla nostra cabina. L'uomo che lo spinge si affaccia
fiducioso e viene subito tradito da un nostro vigoroso segno del capo. Esce comunque soddisfatto
siccome non guadagna a percentuale.
Cara zia , scrivo, so che è da tanto che non ci vediamo (né sentiamo, se è per questo...), ma
sarebbe un problema se venissi a trovarti?
Ora mi tocca solo aspettare, ma devo trovare il modo di ingannare il tempo.
Proviamo, sempre insieme, un nuovo tipo di conteggio.
Mille e uno alberi.
Mille e due alberi.
Mille e che palle...
Due ragazze salgono sul vagone, vedono due posti liberi e mi chiedono se effettivamente lo sono.
Faccio sì con la testa, poi scandisco: «Tac», sì.
«Proscie», prego.
Queste due si sono messe a parlare una lingua che non conosco. Forse sono bielorusse... Non
sarebbe male, sapete? Sono sempre andato d'accordo con le bielorusse. Una volta ero arrivato al
college completamente fradicio d'acqua, era il mio primo giorno a Cracovia. Entrato con un borsone
di oltre venti chilogrammi, che mi superava l'ombelico in altezza e un trolley scomodissimo poiché
rimasto senza un rotella, avevo buttato tutto per terra. Un palese segno di frustrazione. Davanti a me
c'erano cinque signorine che mi guardavano, e non capivo se erano sconvolte o preoccupate – forse
ambo le cose – e io le guardavo di rimando. Poi mi ero accorto d'avere una maglietta con la scritta
«¿Por què no te callas?» e mi sono subito dovuto giustificare, ho detto: «Guardate che non sono
spagnolo!» Non ho idea del perché l'ho fatto, comunque nell'attimo successivo si sono avvicinate e
mi hanno chiesto se avevo una camera. Ovviamente non l'avevo, non sapevo nemmeno come
funzionavano le cose in quel posto. Così queste tipe sono andate dalla segretaria, si sono fatte dare
una chiave, hanno preso le mie borse per ben tre piani di scale e mi hanno condotto alla mia stanza.
Ero rimasto senza parole, e me ne stavo per uscire con qualcosa del tipo «Donne forzute sempre
piaciute », ma queste avevano tratti delicati, un po' morbidi, sì, ma non erano di certo le signore che
portano cinque boccali di birra con una mano in una fiera tedesca. Le ho ringraziate e così mi hanno
mostrato dove era la loro stanza, la porta di fronte alla mia. Eheheh!
«Siete bielorusse?» chiedo in polacco.
«No» risponde quella che mi sta più vicino.
Il mio mappamondo mentale crolla, e allora lo ricompongo in un puzzle. La terra è tornata piatta.
Viva il medioevo.
«Ah, beh, avere un accento simile al loro...»
Sorridono. «Siamo lituane» dice quella che mi sta più lontano.
«Figo, non ho mai conoscere nessuno della Lituania! Se posso sapere, che ci fate qui?»
«In Polonia?» dice quella più vicina.
«Su questo treno?» dice quella più lontana.
«Boh, scegliere voi cosa rispondere.»
«Lavoriamo a Cracovia» dice la più vicina.
«Oggi siamo in vacanza» dice la più lontana. «Tu di dove sei?»
«Sono italiano. Mi chiamo Luigi, voi?»
«Io Anna, lei Anastasia. Bel nome, il tuo, Luigi suona davvero bene!»
«Sì, però si dice Luigi, la prima I deve essere forte. Accentata.»
«Ok, Luìgi, va bene così?»
«Sì, meglio.»
Il cellulare vibra. «Scusate un momento.»
Non c'è problema, sono felice se vieni. Quando arrivi?
Rispondo.
Ho appena passato la stazione di Stargard Szczecinski, quanto ci vuole?
Risponde subito.
Almeno tre ore. Non scendere a Stettino, ma alla stazione che la precede, Szczescin Dabie. È
più vicina a casa. Mi trovi lì, a presto!
«Bene» dico. «Ho un posto in cui dormire questa notte!»
«Cioè» dice Anastasia, «tu eri partito senza sapere dove avresti dormito questa notte?»
«Guarda che quando cala il sole è abbastanza fresco...»
«Non vi preoccupate. Ora avere un posto.»
«Ma tu sei tutto pazzo...»
I dialoghi sono scaduti nel banale quindi mi sembra giusto tralasciarli.
In compenso il tempo denso e noioso è passato ed eccomi alla stazione fresco come uno che non
ha dormito la notte. Mia zia, mio cugino, mio cugino, mio cugino, e mio cugino mi sorridono dall'altra
parte dei binari. Se non sapete contare, sono quattro cugini e una zia.
Per una questione di praticità vi fornisco i nomi dei miei parenti prima d'attraversare i binari e,
soprattutto, in lingua italiana. Iniziamo: Matteo, quattordici anni, alto e magro; Sebastiano, dodici
anni, magrissimo tanto che sembra più giovane; Davide, cinque anni, un piccolo toretto; Luca, due
anni... e che posso dirvi su un bambino di due anni? Che somiglia tanto al padre? Infine mia zia, di
età sconosciuta e di nome Barbara. Insegna inglese ed educazione fisica. Un anno che i miei mi hanno
mandato in punizione in Polonia mi ha fatto studiare tutti i giorni...
Mi accolgono raggianti e il fatto d'avere dei ragazzini intorno fa durare le condoglianze un
nanosecondo. Evvai!
La periferia di Stettino, se non fosse per il grosso fiume che la attraversa, è tutta alberi,
esattamente ciò che vedevo dal treno lungo tutta la Polonia. Gente in bici, campetti da basket, cartelli
che indicano la presenza di animali, qualche borgo e poi siamo a casa. La mia nuova casa, sperando
di resistere più di una notte, almeno questa volta...
Saltando i convenevoli, i dialoghi ai quali non vorrei partecipare, eccetera eccetera, mi metto a
giocare con Davide sullo scivolo in giardino. Lui scivola, io mi giro i pollici. Matteo e Sebastiano
tirano fuori un pallone e iniziamo un'assurda partitella a calcio dove la cosa più difficile non è fare
goal, né impedire che te lo facciano, ma stare attenti a non distruggere le piante.
Finite le attività sportive ci rifugiamo dentro casa dove veniamo accolti da un tè bollente come
solo l'acqua può essere e un grazioso profumo di marmellata, proveniente dalla cucina, dove zia sta
preparando dei particolari ravioli di cui non conosco il nome.
Per evitare certi discorsi mi basterebbe essere in compagnia dei miei cugini in ogni singolo
istante, ma devo parlare un attimo faccia a faccia con mia zia.
Entro in cucina e lei mi sorride premurosa. Sorrido a mia volta.
Lei non dice nulla, e per questo le voglio un po' più bene... Poi sta per dire: «***...», ma la
interrompo che non voglio volerle meno bene, e prendo parola: «Senti zia...» infilo le mani in tasca e
assumo un'aria vaga. «Non è che può passare a trovarmi un mio amico?» dico in italiano.
«Eh?» La immagino riflettere su tutte le questioni pratiche, roba del tipo «E mo' dove la mettiamo
un'altra persona in questa casa?», nessun pensiero riguardo l'italiano che, per fortuna, capisce ed è in
grado di parlare. «Va bene» dice, «tanto abbiamo due divani-letto in salone.»
«Posso accende un attimo il computer così dico al mio amico che può comprare i biglietti?»
«Sì, certo, fai come se fossi a casa tua.»
«Grazie...»
«Ah, ricordati di dirgli dove atterrare.»
Invio una e-mail.
Marco, per arrivare a Stettino ci sono vari modi, ma il più semplice per te è quello di prendere
un volo diretto Roma-Berlino e poi lì ti vengo ad acchiappare io. Altrimenti potresti prendere un
Roma-Gerona o un Roma-Dublino, da ambo questi aeroporti partono i voli per qui, ma è un gran
rottura di scatole, anche se, con questa scusa, potresti dire che sei stato in Irlanda... Senti, qui
finisce che divento prolisso...Punta sul Roma-Berlino e arriva domani, che se passiamo il sabato
sera lì è una gran cosa, te l'assicuro!
Invio un'altra e-mail. Vi avviso, il ricevente si chiama Marek proprio come il mio amico di
Cracovia, ma questo risiede da un'altra parte.
Marek, so che non siamo mai stati veramente amici, ma non è che potresti ospitare me e un
mio amico per una notte? Domani andrebbe bene?
Marco risponde.
Biglietti presi! Arrivo domani alle cinque di pomeriggio. Però prima di partire passo a casa
tua e ti prendo dei vestiti, barbone!
Casa mia... Mmm, bleah.
Marek risponde.
Va bene. Potete venire, domani ci sono e non c'è nemmeno il coinquilino.
Scrivo a Marco.
Bene, a Berlino ci ospita un tizio che da ragazzino era fissato con i treni. Aveva i binari,
vagoni e locomotive da collezione, videogiochi e simulatori di guida. Ora chissà che fissazioni
ha... Dall'aeroporto prendi l'autobus e scendi alla stazione centrale, ci vediamo lì.
Scrivo a Marek.
Ci vediamo domani verso le sei alla stazione centrale. Grazie!
Marco risponde.
Scroccare non fa mai male.
La sera arriva mio zio, Paolo, e mi saluta energico: «Ehi, Luigi, come va?! Lo sapevo che la
Polonia ti piaceva, pure se facevi finta di niente, lo sapevo! Ti dobbiamo solo trovare una ragazza e
sei apposto...»
«Potresti venire in chiesa» interviene zia, «che ci sono un bel po' di ragazze...»
«Mmm...» Andare a rimorchiare in chiesa?! Nah!
«Ce n'è una proprio carina, peccato che ora si è fidanzata...»
La serata scorre piacevole e rilassata. Arrivato il momento di andare a dormire quasi crollo sul
divano senza trasformarlo in letto.
Una notte senza sogni sarebbe stata l'ideale, invece, mentre dormivo, vi ho visto; pure nei sogni
mi venite a disturbare! Sembravate una setta satanica: cappucci in testa, torce in mano, uscivate fuori
dalla foresta e illuminavate la finestra. Tutto a intermittenza, un'altra volta, un altro SOS. Quante
volte ve lo devo dire: se non avete nulla da fare mettetevi a contare!
Apro gli occhi come se dovesse essere l'operazione più difficile sulla faccia della terra. Allungo
la mano verso il telefonino e vedo l'orario. Sono le tredici, cazzo!
Zia legge il mio disagio negli occhi e mi rassicura: «Non ti preoccupare, c'è ancora tempo per
andare a prendere il tuo amico.»
«Okay... ma mi dispiace di non averti dato una mano a sistemare o a lavare i piatti...»
«Figurati, con questi mostriciattoli c'è sempre lavoro da fare. Sono abituata!»
Pranziamo con carne e purè di patate. Poi zia mi dà un passaggio sino alla stazione, questa volta
si tratta di Stettino centrale, e mi ricorda quali tram e autobus prendere per tornare a casa...
Ah, gente, c'è un abuso della parola casa in questi giorni che proprio non vi immaginate.
Alla stazione prendo un treno bivagone dove ci sono io, qualche polacco, e una marea di tedeschi
venuti a fare shopping qui per risparmiare.
Superato il confine, e ci si accorge di averlo superato quando le foreste divengono più rade,
scendiamo in una stazione e prendiamo un treno che era in nostra attesa. Ci conduce a Berlino
Centrale, la nuova stazione tutta vetro e negozi costruita in occasione dei mondiali di calcio.
A Berlino scendo con un grosso sbadiglio, che nonostante la lunga dormita, non sono ancora
riuscito a recuperare le forze... o forse ho sbadigliato perché a Berlino ci sono stato un migliaio di
volte?
Indovinate un po', a mia madre i tedeschi non le sono proprio simpatici, ma lei è polacca, quindi
è un po' come discutere sul due più due. Neanche a un mio amico norvegese i tedeschi sono
simpatici: ai tempi della seconda guerra mondiale, con la benedizione di Hitler, i nazisti hanno
stuprato tutte le allora signorine norvegesi. Tra queste vi era la bisnonna – ora deceduta – del mio
amico.
Dopo questo corso accelerato di storia incontro Marek. Smilzo, biondo, un po' piegato in avanti,
se non lo conoscessi l'avrei scambiato per un perfetto tedesco.
«Ehi, come va?»
«Ben arrivato!»
Ci stringiamo la mano. Ormai siamo uomini, non bisticciamo più sul fatto che la sorella doveva
appoggiarsi sulla spalla dell'uno e non dell'altro. Né io né lui la volevamo.
«Tra quanto arriva il tuo amico?»
«Boh, quanto ci vuole da qui a Tegel?»
«Speriamo scenda alla fermata giusta...»
Lo «speriamo» è una forma verbale che non posso permettermi. Lo chiamo: «Marco, dove sei?»
«Ehm, mi sono sbagliato e ho saltato la fermata... Ora sto prendendo lo stesso autobus nella
direzione opposta.»
«Okay» dico e allo stesso tempo chiudo la conversazione.
«Marek, dice che non è sceso e che ora sta tornando indietro con un altro autobus...»
«Ma come ha fatto a non vedere la stazione?»
Oddio, forse è offeso per i suoi trenini. «Che ne so...» dico, «da fuori potrebbe essere un palazzo
qualunque...»
«Al ritorno, quell'autobus si ferma da un'altra parte. Seguimi.»
Attraversiamo questo mini centro commerciale che svolge anche la funzione di stazione, e non
l'opposto, e ci sistemiamo comodi in fermata.
Osservo il fiume che ho di fronte, la gente che mi passa accanto e mi rendo conto che il sabato
sera è bello in ogni città: non c'è quell'agitazione e quella fretta che il lavoro ti dà nel resto dei giorni
della settimana. Neanche la domenica ti dà simile soddisfazione.
La domenica si pensa: «Accidenti, devo stare attento a quello che faccio: domani è lunedì,
domani si torna al lavoro», frase seguita da due punti-aperta parentesi tonda.
Marco scende dall'autobus con l'aria estasiata, Berlino già gli piace, bene!
Li presento, dico: «Marek, questo è Marco, si chiama come te; Marco, questo è Marek, avete lo
stesso nome.»
Ma quanto sono simpatico, eh?!
Rientriamo nella stazione e Marek ci mostra le sue doti di trenista incallito spiegandoci cose di
cui non avrà mai bisogno, ma che fanno comunque parte delle cultura delle rotaie. Opere d'arte non
riconosciute come tali, ma comunque fondamentali per l'umana specie.
Ogni tanto mi spavento da solo quando racconto simili assurdità, ma potrei commentarvi
paragrafo per paragrafo, un po' come fanno i registi nel dvd dei contenuti speciali del loro film.
Un salto alla sua casa, dove poggiamo le nostre due borse, e poi Marek ci fa da guida turistica
per la città.
Monumenti e centri commerciali si mischiano nella capitale del Terzo Reich. Un orologio ad
acqua, che funziona tramite ampolle poste una sopra l'altra e una decina di tubi, attira l'attenzione di
presunti ingegneri pronti a spiegarne il meccanismo senza riuscirci realmente. Un palazzo che, come
ci spiega Marek, dall'alto sembra il motore di una vettura, ma che da qui giù, in mezzo al prato non
possiamo vedere; in compenso alle nostre spalle ci sono una serie di persone che hanno allestito un
mini rave, persone che io e Marco prendiamo subito in simpatia e che il Marco polacco guarda
scettico... Insomma, dopo una serie di giri turistici che tutti potete fare, come passare sotto
quell'enorme portone che porta allo stradone dove stanno le ambasciate più importanti – quella
italiana non si ricorda tra queste... –, ci ritroviamo a casa, dove Marek ci promette una cena, ma non
la libera uscita.
E così inizia lo strano incubo di ventitreenne vaccinato, e di un venticinquenne, Marco, anche lui
vaccinato – credo.
«Ora ceniamo e poi andiamo a dormire» dice Marek.
Io e Marco ci guardiamo preoccupati.
«Domani alle otto ci alziamo...» continua Marek.
Lo sguardo tra me e Marco si intensifica.
«... e andiamo a messa» conclude Marek.
Io e Marco ci guardiamo seriamente preoccupati.
Prima di continuare con questa parte di sicuro interesse – e se così non sarà vi assicuro che mi
rimangerò le parole, poi però le farò ingoiare pure a voi, anzi, prima le vomiterò e poi vi ingoierete
anche le mie –, mi sembra giusto chiarirvi una cosa: Marco non parla il polacco, né il tedesco. Come
diavolo faceva a capire le parole di Marek? In inglese, semplice.
Per quanto ai miei occhi risulti superfluo esplicitare tali informazioni, l'ho dovuto fare per
pararmi il deretano a pubblicazione avvenuta, o meglio, per pararlo al tizio in quarta di copertina.
«Marek» mi azzardo a dire, «tu il sabato sera non
esci?»
«No. Certo che no.»
«Ci sono sere in cui esci?»
«No.»
A seguire, dialogo immaginario tra me e Marco.
- Non ha amici?
- Boh, per te il compagno di stanza è inventato?
- L'avrà mai baciata una ragazza?
- Che cazzo ci fa in una città fantastica come Berlino se non esce?
- Quanti anni hai detto che ha?
- Ventitré...
«Marek» dico, «se devi dormire possiamo uscire e tornare domani mattina a prendere i bagagli.
Per noi non è un problema.»
«Io... non avevo capito che volevate uscire...»
«Guarda» interviene Marco, «se per te è un problema noi prendiamo le borse e ce andiamo.»
- Marco, porca miseria, non possiamo andare in giro con le borse, è sabato, cazzo!
- Marco alza le spalle. Io scuoto la testa.
«Marek» dico, «scegli tu: o torniamo domani mattina a prendere le borse o ce ne andiamo
adesso.»
«Aspettate!»
- Luigi, ora si inventerà che vuole venire con noi...
Marek accende il computer.
- Forse ci vuole far vedere una mappa...
Marek accede a Skype e fa una telefonata. Dall'altra parte della cornetta (si potrà ancora dire
così nei tempi dei computer?) risponde mia madre. Un attimo dopo compare il video. Vistose
occhiaie vanno a fare contrasto con dei capelli che si vanno schiarendo, non verso il biondo, ma
verso il bianco; volto sofferente, ma comunque deciso e risoluto. Quasi mi spaventa. Fortuna che
Marek non utilizza la webcam: fino a un attimo fa non avevo intenzione di parlarle – non che ora
abbia tutta questa voglia, eh –, starci faccia a faccia sarebbe troppo.
«Ciao Marek...» dice in polacco.
«Ciao... qui ci sono Luigi e Marco...»
«Ciao...»
«Mi hanno detto che vogliono uscire, possono farlo?»
- Ha chiesto il permesso a mia madre...
- Il tuo amico è pazzo!
- Già... viva i non amici!
«Beh» dice mia madre, «per te è un problema se escono?»
Mi sono rotto. Intervengo io, e lo faccio in italiano, così Marek non capisce: «Ma', senti, digli
che possiamo uscire, altrimenti se ce ne andiamo così ti faccio fare una figura di merda davanti alla
tua amica (la madre di Marek)»
Sono stato troppo aggressivo, gente?
Mia madre aspetta a rispondere, poi dice: «Marek, sono grandi e responsabili, per me non è un
problema se escono. Luigi, utilizzerete i mezzi pubblici?»
Che merda di domanda, classica da genitore. «Sì» rispondo acido. «Non andiamo in giro su una
macchina strafatti e ubriachi.»
Silenzio.
Tacete pure voi. Silenzio.
Fissate gli occhi in un punto. Espirate ed inspirate. Meditate. In qualche modo occupate il tempo.
«Marek, è un problema se lasciamo le borse qui e veniamo a prenderle domani mattina?»
«No...»
«Va bene, grazie di tutto, domani alle otto siamo qua.»
Gli stringo la mano, Marco fa lo stesso.
Usciamo da questo appartamento e, un attimo prima che la porta si chiuda alle nostre spalle, sento
Marek scambiare qualche parola con mia madre.
La rampa della gioia, la rampa della vita e del respiro.
Così andrebbero chiamate le scale di questa palazzina in questo momento. «Liberi!» urlo appena
siamo fuori!
«Mio Dio! Ma che gente conosci?!»
«Se lo avessi conosciuto, saremmo venuti qua?!»
«Per scroccare sì!»
«Vero!»
Arriviamo alla stazione del treno, o della metro (bisognerebbe chiedere a Marek qual è il nome
più appropriato in questo caso), e vediamo una mora e una bionda sorriderci e voltarsi. Hanno capito
che siamo stranieri, italiani o spagnoli. Come faccio a esserne così sicuro? Be', a parte il sesto senso
dovuto all'esperienza, dopo ci abbiamo parlato con le tipe. Davvero carine, educate e ci hanno
spiegato dove andare. Più o meno...
Alla Stazione Centrale ci siamo divisi da loro e Marco ha un pochetto rosicato: ero riuscito a
rimorchiarmi la bionda e lui niente. Il fascino dello scrittore colpisce ancora! E tante risate amare
per tutti.
Vaghiamo per il centro di Berlino finendo a mangiare al Burger King vicino all'alta torre dalla
quale è ancora possibile vedere la netta divisione che c'è stata tra la Germania dell'Est e quella
dell'Ovest. Dopo la torre seguiamo la fila di persone e prendiamo un tram a caso. Scendiamo dopo
alcune fermate e ci ritroviamo in un posto pieno di pub, discoteche (dove dentro camminano
pantegane grosse quanto zucchine che fanno uso di steroidi), è uno strano posto, a dir poco romantico,
dove mi sono ripromesso di portarci una ragazza.
Sapete, se un giorno qualcuno mi volesse pagare per scrivere, non farei un romanzo romantico, e
non perché non mi ci vedo, ma perché in tal modo sarei costretto a mettere tutte le mie carte in tavola
e non potrei usare quel po' di magia che mi rimane con la ragazza del momento, o con quella dei miei
sogni, se esistesse.
Tra una cosa e un'altra finiamo su una via dove una prostituta vestita da cartone animato
giapponese fantasy si avvicina e con voce calorosa ci dà un po' di suggerimenti su come divertirci.
La situazione è alquanto imbarazzante perché sto mangiando un kebab che è peggio del rubinetto
di mia nonna: perde ovunque.
Dopo aver declinato l'offerta, le abbiamo comunque chiesto il prezzo e lei ha risposto: «Sixty
euros.»
Noi: «Roma cheaper: forty-fifty euros.»
Lei ha risposto mettendo in mostra le sue forme. D'altronde il lavoro, è il lavoro.
In tutto ciò la nostra attenzione è stata attirata da un vicolo oscuro pieno di graffiti e gente
parecchio ubriaca. Il posto ideale per noi.
Gentaccia, ignorantoni vari, voi sapete chi è Joshua Ferris? No, eh? Be', pur avendo letto solo
una sessantina di pagine del suo secondo romanzo, ho l'autografo. Vantarsi di una firma su un libro è
come tirarsi un calcio sui denti, ma con voi mi posso permettere di fare il bricconcello, mi volete
così: sano e fuori di testa a un tempo. Il caro Joshua, con il suo primo romanzo, E poi siamo arrivati
alla fine, ha vinto un sacco di premi, ha fatto un sacco di soldi, ma non è che la cosa ci riguardi più
di tanto. Mi rendo conto che sto sprecando un intero paragrafo per dirvi una sola cosa, tranquilli.
Joshua il suo primo libro l'ha scritto tutto al plurale, e questo è ciò che vi volevo dire: sto
incappando nello Joshua Writing Courses e tutte le ultime frasi le ho scritte per sbaglio – anche se
sono fighe pure così –, una serie di «noi» e di paroline che finiscono con «amo», tipo «andiamo,
facciamo, camminiamo.»
Inoltrandoci nel vicolo vediamo gente sdraiata per terra, su delle panche, sbracati su delle sedie
e poi, in fondo, dei divanetti color panna. Dietro i divani c'è l'entrata del pub cui si accede da una
piccola scala. Da lì una cameriera passa tutto il tempo. Fa sopra e sotto, su e giù, e così via. Non
pensate cose zozze, una volta tanto.
Dall'esterno si capisce subito che quel pub ha un'aura particolare che trascina come un vortice al
suo interno. Non possiamo fare a meno di salire le scale e siamo dentro al Monsterkabinett.
Quello che vi interessa sapere di questo pub lo potete trovare sul sito ufficiale, così mi levo dai
coglioni cinquecento caratteri di descrizione. No, dai, vi dico qualcosa, e lo faccio al volo: luce
soffusa, mischiata a fumo di sigarette, confusa con bagliori di robot luccicanti, e ragni meccanici
alquanto opachi. Ragazze che ballano sul fondo musica tendente alla techno bevendo alcol.
Accontentatevi.
Passiamo un bel po' di tempo lì andando a trasformare lo sguardo da scopritore quello da
frequentatore abituale, sguardo che tengo ogni volta che cerco di mischiarmi con la gente del posto.
Verso le quattro di notte ci diamo all'arte di prendere strade a caso, e per fortuna nessuna di esse
porta a Roma.
«Ma che diavolo è questo posto?» Davanti a me ci sono una serie di pietre nere come infilzate
nel terreno che vanno a riempire una valletta artificiale. «Sembra un cimitero con le lapidi troppo
grosse e ravvicinate.»
«Credo sia un mausoleo.»
Ci inoltriamo tra le nere colonne squadrate e vediamo dei ragazzini giocare a nascondino (a
quell'ora, sì).
«Questo sarebbe il posto perfetto per uno stupratore » dico.
Io e Marco ci allarghiamo tenendoci a un paio di torrette di distanza. Camminiamo paralleli, in
linea verticale, e ogni volta che uno vede sbucare l'altro sembra di assistere a un inseguimento in un
film. Se un giorno dovessi diventare un regista lì ci girerei di sicuro qualcosa. Oppure, sempre a
Hollywood, ci sono i tizi pagati per trovare le location dei film, assumetemi e ve ne fornisco altre!
Prima che vi fornisca il mio curriculum vitae premo il pulsanti «Avanti a 16x» e vi dico tutto in
due parole, e al passato, così è più semplice e più veloce.
Abbiamo camminato per diversi chilometri. Siamo arrivati alla Stazione Centrale che era troppo
presto per prendere il treno, così ci siamo addormentati su delle panchine. Poi siamo tornati da
Marek, l'abbiamo ringraziato e siamo andati in Polonia, a Stettino. Appena Marco si è reso conto del
costo della vita qui... be', gli si sono illuminati gli occhi. Ora siamo dentro casa di mia zia, subito
dopo le presentazioni e i soliti convenevoli. Anzi, salto pure quest'altra parte piena di banalità e ci
trasferiamo a bordo di una Ford vecchia di oltre venti anni, su una strada che porta al nord.
Io sono alla guida, Marco è alla mia destra con la faccia rivolta verso l'infinita foresta e dietro ci
siete voi in un suv immenso che ci seguite. Quando Dio ha deciso di donare i talenti a voi è capitato
quello dei paparazzi, dei pagliacci, dei buffoni (un giorno potrei anche scusarmi per tutte queste
offese che vi porgo).
La nostra macchina è davvero vecchia e ogni tanto il motore borbotta come a ricordarci che è
ancora in vita. Lungo il ciglio della strada, di tanto in tanto, si vedono dei ragazzi vendere more o
altri frutti che si possono ricavare dalla vegetazione.
«Riccardo amerebbe questo posto» dice Marco.
«Sì, probabilmente lo vedremmo correre nudo a caccia nella foresta.»
«Se qualcuno muore qua dentro, o se qualcuno viene ucciso, il corpo non lo ritrovano di sicuro.»
«Boh... Riccardo è lo scout più simile a Bear Gryls, che oltre a fare il programma Man vs Wild è
anche capo scout della Regno Unito e dei territori d'oltre mare.»
«Le ex colonie?»
«Credo... Sei riuscito a capire come si pronuncia il nome del posto dove stiamo andando?»
«Io? Sei tu quello che dovrebbe sapere il polacco! L'unica cosa che mi ricordo è che pane si dice
clep e che acqua si dice voda.»
«In un carcere non avresti problemi. Acqua si dice allo stesso modo pure in Montenegro, se ti
può interessare.»
«La tua ex come sta?»
«Chi l'ha più sentita? Giusto a Cracovia ho avuto un flashback... Roba troppo sdolcinata, che
sono sicuro non vuoi sapere.»
«Hai visto che fila di macchine abbiamo di fronte?»
«Dici che dobbiamo iniziare a preoccuparci?»
Giro il volante di qualche grado a sinistra e, contromano, supero tutte le macchine. La strada
finisce e davanti c'è il nulla, giusto un fiume immenso che potrebbe sembrare un lago o un mare.
«Ma che accidenti?...»
Poi vediamo un traghetto attraccare, delle macchine scendere e quelle in fila salire, ordinate. C'è
un tizio che coordina il traffico e, avvicinandomi, dal finestrino gli chiedo: «Ci essere un ponte per
andare dall'altra parte?»
«Questo è il ponte» risponde indicando la nave.
«Un altro modo per andare di là?»
«Lì sulla destra, in un paesino lungo la strada, ci passa un altro traghetto, ma non ci puoi andare
con la macchina.»
«Ok, grazie.»
Imbocco la strada che mi hanno appena indicato e Marco subito mi chiede: «Tua zia non te
l'aveva detto che qui la situazione è così?»
«Mi sa che ne ho parlato con zio, e devo aver capito male qualche parolina in polacco, può
capitare... Ora che ci penso, mi aveva accennato qualcosa riguardo a un traghetto, ma mi era suonata
più come una possibilità e non come una cosa obbligatoria.»
Voi in quel suv qua dietro, cazzo vi ridete?
Dopo aver avvistato il paesino, parcheggiamo su un lato libero della strada e andiamo al molo. Il
traghetto arriva e ci saliamo insieme a tante altre persone con pattini, passeggini e biciclette al
seguito. Oltre a noi salgono pure delle macchine, in cui, come mi spiegano, ci sono i residenti di
Swinoujscie, la cittadina dove stiamo andando, quindi hanno un trattamento speciale.
La prima cosa bella che mi viene in mente è: il traghetto non si paga, è davvero considerato un
ponte a tutti gli effetti. La seconda è: questa parte della Polonia è isolata dal resto della nazione e per
arrivarci senza traghetto bisogna fare un giro infinito passando per la Germania.
Scendiamo e Swinoujscie subito ci piace: ha quello stile inconfondibile delle case del nord, che
a me ricorda qualcosa di inglese, ma la persona che ha compilato la pagina su Wikipedia dice «stile
olandese», vatti a fidare... C'è una spiaggia enorme come quelle californiane, un boschetto che divide
il mare dal centro abitato, prezzi bassi e un'alta densità di belle ragazze allucinante.
Swinoujscie – da adesso in poi, soprannominata Paradiso – è pura estasi per gli occhi. A
Paradiso le ragazze circolano leggiadre, protette e con uno sguardo che riappacificherebbe gli
israeliani e i palestinesi. Quello che sconvolge è che, oltre alla bellezza, danno pure un senso di,
come dire, castità? No, castità suona drastico, forse di brave ragazze senza virgolette. Quando si
dice che certe cose non si possono descrivere...
Entriamo in un negozietto che vende un po' di tutto e Marco si compra un coltellino a scatto
automatico, seghetto e torcia annessa. Nel negozio successivo, una libreria che vende remainders,
trovo una cartina di Cracovia e mi viene da ridere per il prezzo: uno virgola sessanta sloty, meno di
cinquanta centesimi di euro.
A un passo dal mare diamo una veloce occhiata alle bancarelle poi, attraversato il boschetto,
siamo sull'enorme e splendida spiaggia. Marco non ha mai nuotato nel Baltico e il suo sguardo è
determinato, così, quando decide di immergersi, lo seguo. Non posso giocare la carta del «fa troppo
freddo, mi ammalo», verrei scambiato per una femminuccia.
Subito dopo la gelata, seppur breve, nuotata, percorriamo un tratto di spiaggia sino a una sorta di
pallone gonfiabile alto oltre dieci metri, che la sera funge da discoteca e di giorno da bar. Poco più
avanti c'è un negozio che vende un cibo stranissimo, tutto bucherellato, su cui poi, a seconda di
quello che scegli, la commessa mette crema, panna, lamponi, fragole, cioccolata e tutto quello che
potete osservare sul bancone anche da quella distanza da dietro la siepe.
Seduti sui dei gradini a mangiare, ci innamoriamo all'istante al passaggio di due graziose ragazze
che armeggiano con due palloncini pronti a spiccare il volo. Le tipe hanno un portamento e un fisico
che, a quest'ora, in Italia, sarebbero già diventate veline dell'ennesimo programma televisivo.
Rientrati al centro di Paradiso ci stupiamo per la forma fisica delle ragazze che hanno partorito
uno o più figli: non hanno un emerito grammo di grasso extra.
«Marco, perché non mettiamo un attimo da parte queste splendide signorine e attraversiamo il
confine a piedi?»
La risposta è un'alzata di spalle. Si fa.
Per arrivare in Germania basta camminare verso ovest, ed è quello che facciamo. Mano a mano
che avanziamo, diminuiscono le persone lungo la via e aumentano gli alberi. Un mercato chiuso e
delle case sulla destra e una pista ciclabile sulla sinistra, sono gli ultimi segni di civiltà oltre alla
strada asfaltata. Un centinaio di metri e troviamo un taxi, fermo a un passo dal confine. Il confine è
segnato un cartello che indica la fine della Polonia e l'inizio della Germania, niente barriere né
recinzioni. Qualche persona sbadata potrebbe non notarlo per poi accorgersi di essere in Germania
quando iniziano a comparire scritte in tedesco, ma non importa.
Scattiamo qualche foto. Eccomi in Germania, eccomi in Polonia, eccomi di nuovo in Germania.
Simpatia viscerale a parte, si è fatto tardi. Rischiamo di non arrivare in tempo per prendere l'ultimo
traghetto.
L'anziano tassista ci sorride beffardo: siamo prede facili. Mi avvicino e gli chiedo: «Quanto
viene da qui al traghetto?»
«Quindici sloty.»
«Mmm...»
«Marco, dice quindici. A Roma quanto ci chiederebbero, cento?»
«Almeno centoventi. Saliamo.»
Il motore si avvia e, insieme, parte pure la voce dell'autista che inizia a raccontarmi un po' di
storielle sul posto. «Nella seconda guerra mondiale» traduco a Marco «i tedeschi sono venuti qui,
hanno ucciso molti dei maschi e hanno stuprato le femmine. A fine guerra avevano il controllo totale
della città ma, quando Paradiso è stata riassegnata alla Polonia, i polacchi sopravvissuti ai campi di
concentramento sono venuti qui e hanno fatto fuori oltre quaranta tedeschi. Il tribunale polacco,
costretto ad emettere una sentenza, li ha condannati per... furto!»
«Ahahah, grandissimi!»
Anche se il tragitto era alquanto breve, il tassista ha fatto in tempo a raccontarmi altre due storie,
ma chi vuole conoscerle si venga a fare un giro da queste parti. Vi consiglio di venire in luglio,
quando ci sono trenta gradi, così potete fare una vacanza al mare alternativa.
Dall'altra parte del fiume la macchina non ne vuole sapere di partire. Anche se l'asticella della
benzina non funziona sono sicuro che il serbatoio è pieno: ho messo un centinaio di zloty all'andata.
Dopo inutili imprecazioni finalmente parte e ricominciamo il viaggio di ritorno verso Stettino, con il
sole che cala e noi in mezzo alla foresta.
A una velocità non ben definita, ma comunque bassa, ci vogliono ben due ore per tornare a casa.
Le macchine ci superano con una certa facilità e poi ci ringraziano per averglielo lasciato fare
accendendo per qualche secondo le quattro frecce. Apprendete un po' di gestualità polacca, che vi
potrebbe tornare utile in futuro.
A metà tragitto adocchiamo un ristorante che sembra un castello in miniatura fatto in legno. È ora
di cena, ci fermiamo. L'ampio parcheggio non dà difficoltà di parcheggio, come suona? Oltre a una
famiglia, siamo gli unici clienti in questo posto curato e levigato all'estremo, e il colore del legno
trasmette un senso di calore quasi pari a quello del sole.
Una signorina dai capelli rossi, con il viso delicato, occhi sinceri e le curve tutte al punto giusto,
ci viene a servire e Marco si innamora. Ci sarebbe da precisare che nella Polonia del nord, dove le
ragazze non sono corrotte da influenze sudiste, ci si innamora ogni cinque minuti, ma questo sembra
un grosso colpo di fulmine, almeno per Marco.
Lei ci consegna i menù, e non fa in tempo ad andarsene che Marco accenna subito a quanto sia
fantastica, irresistibile, e così via.
«Dici che lo sa l'inglese?» chiede.
«Boh, qui al confine con la Germania sono più interessati a studiare il tedesco che l'inglese. Che
ti prendi?»
«Su questo menù non ci capisco nulla...»
«Non è che io sono messo meglio di te... Questa parola vuol dire maiale e questa carne.
Quest'altra zuppa, quella patate.»
«Vorrei qualcosa di tipica cucina Polacca. Glielo chiediamo a lei» dice mentre sorride alla
cameriera che si sta avvicinando. «Hello» dice Marco, «do you speak english?»
«Little...» risponde la cameriera facendo un gesto con le dita che dovrebbe significare poco.
«What may I order from the menu that is...», cosa posso ordinare dal menù che sia....
«I don't understand...», non capisco, dice imbarazzata.
«Okay, I'll try again: what...», okay, ci provo di nuovo: cosa...
«Sorry...» dice la ragazza abbassando gli occhi.
A Marco gli si spezza il cuore. Neanche le vostre amiche, che ho visto approcciarlo, potrebbero
consolarlo in questo momento.
Prendo in mano la situazione, in polacco dico: «Per lui ordinare cibo tipico polacco, per me
ordinare questo qui» e le mostro il menù.
«Per me, falle ordinare pure un dolce che piace a lei...» dice Marco.
«Prendere pure un dolce per lui, qualcosa che piacere a te.»
«Un dolce che mi piace?» dice sorridendo e ridando vita a Marco. Prende il menù e ce ne indica
uno dal nome incomprensibile.
Marco alza il pollice e dice: «Okay.»
Il sorriso della tipa deve averlo davvero rinvigorito.
«Voda?» chiede lei. Significa acqua, ve l'avevo detto prima, ricordate?
«Tac» risponde Marco. Significa sì, e anche questo mi pare d'avervelo detto. In ogni caso, non è
che ci vuole un genio per arrivare a capire il significato.
Dopo una decina di minuti i nostri piatti arrivano: su quello di Marco c'è una pagnotta di pane a
forma di pentola, c'è addirittura il coperchio, sempre di pane! (Vi assicuro che non sto scherzando)
Marco solleva il coperchio e all'interno scopre che la mollica è stata rimpiazzata da un minestrone.
«Benvenuto in Polonia» gli dico. Il mio piatto, invece, è banale: patate lesse e carne; ma anche questa
è cucina polacca.
Il vapore che esce dal minestrone di Marco si va a impregnare nel legno della parete lasciando
una scia di buon odore che si avverte solo in questo posto.
Marco mangia avido e felice. Donne e cibo a un tempo, trovate qualcosa di meglio.
Io mangio contento di potermi saziare, pur chiedendomi, con ironia, quanto possa essere salato il
conto.
Il dolce arriva, ma questo piatto lo apprezza un po' di meno. Comunque, quando traduco la
cameriera che chiede se gli è piaciuto, lui risponde in un attimo: «Tac, good!» Probabilmente a lei
direbbe di sì anche se mangiasse merda.
Il conto arriva ed è salatissimo: quarantotto sloty, dodici euro. Ahahah!
Paghiamo lasciando mancia e ristorante con il pensiero che non ci capiterà mai più di spendere
sei euro a testa per una cena. Fuori la macchina stenta a partire e il timore di rimanere bloccati in
mezzo alla foresta è pari a quello di fare una figuraccia al primo appuntamento, solo che in un
appuntamento non si rischia di venire sbattuti a terra da cinghiali per poi essere mangiati da orsi.
Beh, in realtà dipende dalle ragazze che frequentate...
I dubbi sulla benzina, collegati a quello sullo stato disastroso della macchina, vorticano facendo
scontrare i pochi neuroni che mi sono rimasti.
Al primo e unico benzinaio che incontriamo ci fermiamo per dare pace al motore e per infilare un
po' di carburante. Oltre al benzinaio c'è un negozietto che vende di tutto. Sembra di essere in quei
tipici posti isolati da film americani dove sta per entrare un ragazzino con una pistola in mano.
Fatta benzina infilo la chiave, giro, ma la macchina non parte.
Giro la chiave, gioco un po' di frizione e un po' di acceleratore, ma la macchina non parte.
Ci riprovo. Stesso risultato.
«Siamo bloccati qui.»
Un'automobile parcheggia poco distante. Da essa scendono due fighe da paura e due sfigati
tremendi, per quanto risulti incomprensibile usare la parola sfigato in questa occasione (Beati loro!).
Le ragazze vestite con jeans, camicetta e altra bella roba, loro in pantaloncini, cappello da cowboy,
sandali e calzini quasi tirati sino al ginocchio. Due pagliacci ambulanti.
«Per quanto mi riguarda» dice Marco, «finché ci sono quelle due io posso stare qui tutto il
tempo.»
«Non posso che essere d'accordo. Quindi sembra sia arrivato il momento di concimare la foresta
con un po' di carne umana!?»
«Si può fare...»
Ma la nostra macchina riparte e ci salva dal nostro primo omicidio in nome della passera. In
futuro faremo sempre in tempo a rimediare.
La sera, a casa, vado a letto mentre Marco scrive un'improbabile e-mail indirizzata al ristorante.
Non è riuscito a dimenticare la cameriera, né credo riuscirà a dimenticarla in futuro. Gli angeli fanno
questo effetto.
Ho davvero sonno, gente, un giorno ricordatemi di raccontarvi la faccenda dell'angelo-fantasma.
La mattina dopo, verso le undici, usciamo di casa. Un autobus ci porta al capolinea dei tram dove
incontriamo la prima e la seconda donna più bella del mondo. La seconda, nonostante sia con il
ragazzo, ci fissa. Ha capito che non siamo di Stettino, quindi, credo, siamo gente interessante. La
prima donna più bella del mondo è davvero oltre ogni aspettativa. Io non provo nemmeno a
descriverle queste due, rischierei d'offendere la vostra immaginazione, se sbagliassi qualcosa.
Pensate solo alla ragazza perfetta, ognuno si inoltri nella propria fantasia, e ponetela in un capolinea
dei tram in mezzo a una foresta polacca. Roba assurda! Comunque c'è bisogno che precisi: la prima
donna più bella è qualcosa di esagerato!
«Marco, cacchio, le devo fare una foto!»
«Togli quel cellulare. Mi sa che ha capito...»
«Marco, quando diavolo ci ricapita una così? Due così?»
«Mai Luigi, lo so...»
Con il tram arriviamo al centro di Stettino e, in maniera molto sommaria, mostro qualche
monumento a Marco. Verso le due-tre di pomeriggio entriamo in un centro commerciale e vediamo
sventole di ragazze ogni tre passi. C'è chi morirebbe d'infarto di fronte a questo spettacolo. Certe
signorine hanno i leggings, ma non indossano una maximaglietta a coprire il culo, si vede tutto!
Mangiamo da KFC, luogo sconsigliatissimo da tutti i dietologi, e poi prendiamo un tram che ci
porta davanti alla facoltà di economia, che superiamo a piedi. Dietro l'università ci sono delle piste
da skateboard e posti per giocare a un bel po' di sport; ancora più dietro c'è lo stadio del Pogon
Szczecin, squadra di calcio che milita nella serie B polacca e che, di recente, è arrivata in finale di
Coppa di Polonia.
Ai botteghini compriamo due biglietti e poi proseguiamo la camminata in direzione dei tornelli.
Là, piano piano, inizia ad arrivare un po' di gente, ma è ancora presto. Passeggiamo tra i chioschi del
cibo e quando vedo una splendida ragazza dai capelli rossi ad alta voce dico: «Ma quanto è bella!»
Lei, di risposta, mi sorride con lo sguardo di una che ha capito. Sarà mai possibile? Qui? A
Stettino? Devo indagare.
Con Marco faccio un giro largo e mi porto davanti al chiosco. «Ciao» le dico in italiano,
«capisci la mia lingua?»
«Sì... la studio all'università!»
Rimango stupito, Marco è stupito quasi quanto me!
«Wow! Ci sei mai stata in Italia?»
«No, ma ci dovrei andare tra qualche mese.»
Io e Marco rimaniamo quasi a bocca aperta: questa rischia di essere la terza più bella del mondo
– per Marco la quarta, la cameriera non si batte – e parla l'italiano! E sta per venire in Italia!
«Dove verresti?»
«Veneto, mi sembra...»
«Mmm, non va bene...» La tipa mi inizia a calare così. «Che ci vai a fare lì? Vieni a Roma!»
«Sono in un gruppo di, come si dice, neocatecumenali? Vado con loro...»
Marco quasi scoppia in una risata fragorosa.
Io quasi mi deprimo. «Neocatecumenali, mmm.»
Una fila si sta formando alle nostre spalle, la gente vuole mangiare e io li sto bloccando.
Con un movimento del capo gli indico le persone. «Ci vediamo dopo.»
Lei mi guarda perplessa, poi sfodera un sorriso disarmante. «Ciao.»
Io e Marco andiamo a cercare dei posti in tribuna, ma subito dopo ci ripensiamo e alla fine ci
piazziamo in curva, con gli ultras.
«Bella la suora che hai trovato!» mi prende in giro Marco.
«Non credo si comporti da suora, hai visto come era vestita?»
«Sì, un abbinamento piuttosto aggressivo, quasi punk.»
«Mi piace, Marco.»
«È scontato. Dai dimenticati questa signorina che va a far visita a quelli della Lega, e guarda
queste qui alla nostra sinistra.»
Prima, preso dai pensieri, non le avevo notate, ma ci sono quattro fotomodelle a meno di quattro
metri di distanza.
Gli ultras alzano il coro e noi partecipiamo, dato che siamo in curva. «Pogon! Szczecin!» ripeto
all'infinito. Tra le altre parole che si ripetono vi è sempre curva, ma è un discorso a parte. Il coro si
innalza e arriva anche alla punta del ferro di cavallo di cui è composto lo stadio. Noi urliamo,
cantiamo parole che non conosciamo. Ci sentiamo quasi parte del gruppo quando iniziamo a saltare
tutti abbracciati, una maremma di persone. Poi il capo, dal suo palchetto rialzato, blocca tutto. È
incazzato nero e ha lo sguardo rivolto verso le quattro ragazze. Il capo urla loro: «Brutte beep, che
beep ci state a fare qui, beep? Porco beep. Andatevene!»
Da non crederci, il capo ha appena cacciato quattro dee. Il mondo va davvero al contrario da
queste parti.
Il primo tempo finisce sullo zero a zero. La gente si accalca ai chioschi del cibo e io e Marco
andiamo a quello delle magliette della squadra.
Al fischio d'inizio la calca di gente si dirada e ho di nuovo occasione di scambiare due parole
con la ragazza dai capelli rossi.
Dopo diverse frasi per conoscerci meglio le chiedo se mi può fare da guida per la città – cosa di
cui, in realtà, non ho bisogno – e lei accetta. Così, sotto lo sguardo giudicatore della sua collega di
lavoro, ci scambiamo i numeri e la folla esulta! Sembra assurdo, ma è la seconda volta che mi
succede qualcosa di simile.
Ero al centro commerciale Euroma2 con l'intenzione di rimorchiare una qualche ragazza insieme
ai miei amici, ma in giro c'erano solo tipe o troppo giovani o troppo vecchie. Le uniche signorine
gradevoli ai miei occhi e con l'età adatta erano le commesse, anche chiamate bambole di carne (cito
La bibbia dell'artista del rimorchio, scritta da Style). Sono entrato in un negozio e c'era questa
ragazza dai capelli mori e gli occhi da pantera. Avvicinandomi le ho detto: «Ciao, dovrei fare un
regalo a mia cugina per il compleanno, mi suggerisci qualcosa?»
«Be', potresti tentare con questa borsa o con...»
I prezzi non mi piacevano, la roba non mi convinceva, ma non importava. «Senti, lei si veste più
o meno come te, mi potresti dire qualcosa che ti piace?»
«Certo!» ha esclamato felice. «Ci sono queste collane e questi braccialetti, li puoi abbinare!»
«Mmm, facciamo solo la collana: non vorrei farla sentire troppo importante» le avevo detto
sorridendo.
«Okay, ti faccio un pacchetto?»
«Sì, grazie. Ce l'avresti un pezzo di carta, così le scrivo un biglietto?»
«Tieni, omaggio del negozio» aveva detto porgendomi un foglio verde menta.
«Ecco, il pacchetto è pronto.»
Avevo infilato il foglietto nella busta del pacchetto per poi dire: «Il regalo è per te.»
La musica è partita e sono uscito. Lei senza parole e io che me ne andavo con quella splendide
note di sottofondo, che non si sa perché sono partite proprio in quel momento. Sembrava una scena da
film.
Poi, nella mia testa, mi sono rivisto il replay almeno cento volte.
A fine gara Marco dice: «Mi hai fatto perdere l'unico goal della partita.»
Io non riesco a rispondere, ho un sorriso idiota stampato in viso.
«Togliti quel sorriso dalla faccia, ti ricordo che non hanno esultato per il numero che hai
rimediato, ma per il goal che hanno fatto!»
Prendiamo il tram e scendiamo al centro di Stettino, vicino alla chiesa San Giovanni Evangelista.
«Ti va di visitarla?» chiedo.
Davanti all'alto portone iniziamo a fare gli idioti colpendolo e facendo foto che avrebbero senso
solo in una galleria d'arte moderna. In seguito, camminiamo intorno alla chiesa e scopriamo che
durante le funzioni meno importanti la gente entra da una porta laterale. Diamo un'occhiata all'interno
e ci rendiamo conto che abbiamo fatto confusione durante la celebrazione di una messa.... Per fortuna
veniamo subito rincuorati dal sorriso di alcune ragazze dalle panche centrali. Ragazze che
dovrebbero stare a un'audizione per aspiranti modelle, non qui.
Usciamo e subito dico: «Se in Italia le ragazze andassero a messa e fossero così ci andrei pure
io, e tutti i giorni!»
«Vuoi scherzare? Tutti i giorni e tutto il giorno!»
Mio zio arriva e parla in inglese: «Ah, ecco dove state! Venite, la festa sta per iniziare!»
Parla della festa cittadina. Non c'è occasione migliore per incontrare altre ragazze!
Lo seguiamo lungo una stradina che attraversa un parchetto, poi accanto alla statua di una nave, di
fianco al castello e infine sul cavalcavia prima del porto.
Una folla di persone in attesa volge lo sguardo al fiume. Tra di esse vi è mia zia e i miei cugini
che, appena ci vedono, vengono a chiederci come è andata la partita e come è stato il goal.
I fuochi d'artificio esplodono in mille colori, tagliano il cielo come comete, illuminano il buio
con lune colorate che vanno in frantumi spargendo benedizioni sulla folla. Lo spettacolo dura diversi
minuti e poi mio zio spiega: «Questo era quello tranquillo. Più tardi ce ne saranno altri due e l'ultimo
sarà pazzesco! Avete almeno un'ora e mezza prima dei fuochi di chiusura serata. Fatevi un giro.»
Dal cavalcavia il porto sembra una tovaglia apparecchiata e piena di prelibatezze. Scendiamo e
vediamo che da vicino la situazione non cambia: da mangiare a volontà a prezzi irrisori, almeno per
noi italiani, pinte di birra a quattro sloty l'una e tante, tante ragazze.
Paradiso si è trasferita qui.
Alla terza o alla quarta birra – e a me non piacciono, ma, visto il prezzo, non si potevano rifiutare
– siamo seduti a penzoloni sulla banchina.
«Guarda» dice Marco. «C'è la ragazza dello stadio...»
«Eh, dove?»
Mi volto e la vedo. Si sta baciando con uno spilungone biondo. «Uff, che palle!» dico lanciando
un sassolino in acqua.
Lo osserviamo formare circonferenze via via più grandi nel fiume e poi l'acqua torna piatta,
calma, come se non fosse mai successo.
«Lo sai che prima o poi dovrai tornare a casa?»
dice Marco. «Non è mica giusto che ti tieni Paradiso tutto per te!»
«Lo so...» rispondo. Sarà l'effetto della birra che mi fa parlare così?
«Luigi, ci andrò un po' duro su quello che sto per dire...»
«Spara.»
«I tuoi genitori hanno pianto come se avesse perso la vita tutta la famiglia e il mondo intero, sì,
ma loro sono riusciti ad accettare la sua morte...»
«...»
«Tu invece sei fuggito...»
«...»
«Forse è arrivato il momento di tornare, che ne dici?»
Appoggio la schiena per terra e osservo il cielo scuro. Non riesco a vedere le stelle, ci sono
troppo luci intorno. Cerco una risposta, divago, allontano i miei pensieri – come se ci potessi
veramente riuscire, direste voi – e cerco una soluzione, una scusa, ma non c'è. «Amo la Polonia, non
posso rimanere qui con questo stato d'animo. Ok, torno.»
I fuochi d'artificio scoppiano fragorosi.
È fatta, gente. Torno, vedo un po' com'è la situazione, poi decido sul da farsi. Mi è passata pure
la voglia d'offendervi, almeno per un po'. Ora sono io che vi lascio in pace.
Il giorno seguente, all'aeroporto di Tegel, Berlino, Marco tira fuori un biglietto con il mio nome
stampato sopra.
«Bastardo» dico. «Li avevi già fatti!»
«Io no, l'hanno fatto i tuoi genitori.»
«Loro ti hanno mandato qui?»
«Mi hanno detto qualcosa del tipo: ti va di farti una vacanza in Polonia a nostre spese? Non ho
potuto rifiutare.»
«Capisco.»
Dopo il check-in abbandono la mia borsa a Marco e corro come se avessi dei serpenti ai
calcagni. Corro perché non ce la faccio, non riuscirei a resistere oltre.
Marco è ancora lì, immobile, interdetto.
Continuo a correre, apro la porta del bagno e mi ci fiondo dentro. Un istante dopo sono piegato in
due, sto vomitando. Sputo fuori la rabbia, le parole, il nascondere i sentimenti, le emozioni. Qualcosa
di roco si mischia al bianco jogurt che scivola dalla mia bocca. Labbra zozze di un latte macchiato
dal gusto schifoso. Gola a pezzi, come se all'interno avessi fatto un frullato a base di vetro. Lingua
posta all'esterno, ché non mi voglio strozzare. Morire nel proprio vomito sarebbe squallido. Morire.
Ansimante torno a una postura corretta, quella che si vede nelle foto dei cataloghi di sedie. Tutto
composto, talmente composto che un movimento bucherebbe la pagina.
Ah, gente, devo ringraziare quello di voi che era qui in bagno: se n'è andato quando ha visto che
stavo nella merda. Sono sincero, lo ringrazio perché non vorrei che qualcuno mi vedesse in questo
stato.
Dopo essermi specchiato, pulito e aggiustato la camicia torno da Marco. Lui non dice nulla.
Io gli stringo la mano. Non so se questa faccenda dei non amici è ancora valida. Era nata, così,
facendo una battuta. Lui mi dava passaggi con la macchina per andare a vedere la Virtus Roma al
Palalottomatica e io gli garantivo viaggi all'estero, viaggi che nessuno avrebbe voluto fare. Abbiamo
viaggiato parecchio, insieme.
Ora viaggiamo insieme verso Roma per l'ennesima volta.
L'aereo si solleva e sotto di noi vedo vulcani di cemento e acciaio buttare nel cielo zucchero
filato color grigio fumo.
Vediamo cosa ci offre il sud
(Ci siete ancora, vero?)
Uscito dalla zona ritiro bagagli dell'aeroporto di Fiumicino, a Roma, prendo una grossa boccata
d'aria. Davanti ci siete voi, con i vostri cartelli che mi suggeriscono di tornarmene in Polonia, o di
andarmene a quel paese, che gentili. Almeno me lo pagate il biglietto? Scorrendo gli occhi sulle
vostre pubblicità-progresso (non so perché faccio questa affermazione) vedo anche scritte normali,
nomi e cognomi di persone che possono permettersi l'autista privato. Tra di esse ne leggo uno che mi
suona familiare, Julia Roberts.
Marco mi allunga una gomitata amichevole. «Per te è davvero lei, l'attrice?»
«Da quando ti interessi a queste cose?»
Poi penso, ma non alla Roberts, che proprio non ricordo né di faccia né di film, ma una qualsiasi
Julia Roberts, una robustella ragazza americana che potrebbe sbucare alle mie spalle con uno yogurt
in mano mentre sfoglia Vanity Fair. Ah, ovviamente non dimentichiamo gli shorts, quelli sono
fondamentali. Magari se arriva dalla Francia ce la ritroviamo con una camicia a quadretti, un rotolo
di carta igienica che parte dalle chiappe e scorre giù come diarrea bianca, compatta, leggera. I
fratelli Grimm le fanno una ceretta.
Tra me, Marco, e quelli radunatisi attorno al povero tizio che dovrebbe portare la ricca Julia,
scovo mio cugino Walter. Gli sorrido mentre con un cenno del braccio gli indico che devo
scavalcare i fan di passaggio nella periferia cinematografica mondiale, Roma, Cinecittà, chi più ne
ha più ne dica. Mi volto verso di voi, tiro fuori la lingua, alzo il dito medio e me vado con Marco
che, dietro di me, scuote la testa.
Saltiamo i convenevoli, saltiamo in macchina, saltiamo la Roma-Fiumicino, o la FiumicinoRoma, saltiamo il Raccordo. Teletrasportiamoci di fronte casa di Marco.
Gli stringo la mano. «Tornerai in Polonia, vero?»
«Certo. Tu verrai?»
Righe di spazio poiché non sono sicuro di volervi far sapere la risposta, proprio non lo sono. E
così tutto scorre lungo la strada, la nostra macchina (potete immaginarne una qualunque, tanto non vi
ho detto il modello), il sole, i cui raggi baciano il tettino sul quale ora potrei fare un uovo al
tegamino, i chilometri sul contatore. Questi ultimi scorrono di uno, di due, di tre e si fermano. Siamo
arrivati.
L'abitazione è sempre quella, così come il piazzale dove parcheggiano le macchine. Come al
solito, quando si ritorna da un viaggio si pensa che il mondo che avevamo lasciato sia cambiato,
invece niente. A Roma si tira avanti con le stesse cose da oltre duemila anni. Utilizziamo ancora le
fogne degli antichi romani. Ho una cultura, eh?
Intorno al recinto, come paparazzi di fronte a una villa di una diva di Hollywood, ci siete voi. Per
fortuna, almeno questa volta, non avete una fotocamera in mano.
Su per le scale, dove Walter mi lascia, il passato recente mi abbraccia. Trovo di nuovo voi, in
semicerchio davanti alla porta. Chi vi ha fatto entrare non lo so.
Uno di voi mi si piazza davanti. «Sai, se decidi di suicidarti con una corda può capitare che il
collo non ti si spezzi e...»
«Perché mi dici questo?»
«Se il collo non si spezza, allora si soffoca lentamente ed è questo che è capitato a tuo fratello.
Comunque negli ultimi attimi, quando era ormai troppo tardi, ha avuto un ripensamento e ci ha chiesto
di vegliare su di te affinché non facessi qualcosa di stupido e avventato come ha fatto lui...»
Cerco di ragionare, ci provo, davvero. Questi tizi, voi tutti, mi avete seguito per il mio bene. C'è
da dire che è una cosa parecchio inquietante, non vi pare? Avvertirmi no, eh?
«Luigi, ora che sei tornato a casa il nostro compito è finito. Adesso devi entrare dentro e vegliare
sui tuoi genitori... stanno davvero male, hanno bisogno di te. Ti amano, lo hanno sempre fatto, e
sempre lo faranno, ma in questo momento hanno bisogno di essere ricambiati, hanno bisogno che
qualcuno prenda il loro cuore in mano, gli dia una carezza, e spinga. Devono sentire il sangue
pulsare, scorre dentro le vene. Spingi sino a che il loro cuore non riprende a battere. Solo tu puoi
farlo.»
Entro in casa e li ritrovo sul divano, piegati, nelle stessa identica posizione dell'ultima volta che
li ho visti. Due lunghe lacrime si fanno strada sul mio volto, due cavalloni che scivolano verso la fine
del mondo.
Mi avvicino e do loro una carezza. Riguardo lo spingere non sono ancora pronto, forse più tardi.
IMPORTANTE
SE LEGGETE QUESTA PAGINA PRIMA DI AVER
TERMINATO IL ROMANZO VI ROVINATE IL FINALE
E TANTISSIMO ALTRO
Note da parte di Luigi.
Gentaccia, ricordate che se io non esisto non esistete neanche voi. Posso immaginare che per voi
tale frase non abbia senso, ma rifletteteci.
Inoltre volevo avvisarvi che ci avete goduto a farvi prendere per culo sino a qui. Fatevene una
ragione. Sono uno stronzo, fa pure schifo una pagina così alla fine del libro.
Comunque potrei aver sbagliato la traduzione della storiella che mi ha raccontato il tassista...
Diciamo che se aprite un libro di storia la situazione potrebbe essere stata trascritta in maniera
diversa.
Scusate, devo smettere di scrivere che i miei occhi sono come due olive ascolane lasciate a
friggere più del dovuto. Spengo il pc.
Ah, no, c'è un'altra faccenda importante da espletare: dobbiamo ringraziare il tizio il cui nome è
scritto in copertina per avermi fatto conoscere al mondo e, dato che vi ho insegnato a rubare, è giunto
il momento che vi diate da fare. Il suo indirizzo lo trovate da qualche parte su Internet.
Ringraziamenti
Di solito la gente in questa pagina viene per impicciarsi. C'è chi si aspetta di trovare il suo nome
o chi, come me, che certi nomi li va a cercare, e nello specifico spero di trovare un agente letterario
che un giorno voglia accogliermi a braccia aperte tra la sua schiera di scrittori.
L'unica verità, almeno dal mio punto di vista, è che quando una persona riesce a pubblicare non
solo dovrebbe ringraziare tutta la macchina editoriale, ma tutte le persone che ha incontrato durante il
corso della sua vita perché, anche se magari non lo vuole ammettere, di certo lo hanno influenzato.
Tutto questo preambolo è per dirvi che io ne ho incontrata di gente. Lo scorso inverno, ad
esempio, dopo aver scritto un terzo di questo libro, ho provato a raggiungere a piedi Messina
partendo da Roma. Lungo questo viaggio poi finito male, non ho avuto solo modo di incontrare i
camorristi e mafiosi vari che portano tanta fama negativa al sud Italia – che comunque sono stati così
gentili da ospitarmi – ma anche e soprattutto gente comune, senza troppe aspettative e nonostante
passavo le giornate con un vento che mi graffiava la pelle e sotto una pioggia che non voleva cessare,
provavo un gran pena per loro: non è facile vivere senza sogni. Comunque in molti mi hanno aiutato,
dalla signora del mercato che mi ha regalato la frutta, al signore che credeva fossi un agente della
CIA venuto ad arrestarlo... Quando sono tornato a casa ho ripreso a scrivere ed il libro è uscito fuori
così, il merito è vostro.
Qualcuno sta ancora aspettando una lista di persone e io sono pronto a fornirvela, però solo i
nomi, poiché non ho mai chiamato nessuno usando il cognome: Maria, Emanuele, Lavinia, Gordiano,
Sacha, Valerio, Alessia, Daniele, Alessia, Massimo, Viola, Simone, Alessandra, Giacomo, Jelena,
Lorenza, Stevan, Estera, Marco, Anastasia, Marek, Joshua. Ah, questa volta mi tocca anche essere
banale: ringrazio tutta la mia famiglia.
Grazie a te, lettore/lettrice. Mi hai donato felicità, pura, semplice e genuina felicità.
Odio gli italiani
romanzo
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L'autore
Michele Ponte è nato a Roma nel 1988.
Vive tra l'Italia, la Polonia e il primo volo low cost verso una qualsiasi destinazione.
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