Dante Sono sei mesi che, notte dopo notte, vengo a dormire qui, nel

Transcript

Dante Sono sei mesi che, notte dopo notte, vengo a dormire qui, nel
Dante
Sono sei mesi che, notte dopo notte, vengo a dormire
qui, nel sottopassaggio pedonale della stazione del Lingotto. Mi metto in un angolo, sempre lo stesso. Stendo un materasso di quattro cartoni e ci butto sopra una vecchia, logora trapunta che ho rimediato in un bidone della spazzatura. Eh già, bisogna saper camminare con gli occhi aperti
per le strade. Bisogna saper cogliere il momento. Quando
vedi uno di quei grossi camion con la scritta traslochi devi
seguirlo. Ti piazzi vicino ai bidoni per la spazzatura più vicini e aspetti. Il trasloco è uno dei momenti migliori per recuperare cose preziose di cui la gente si sbarazza. La mia
preziosa trapunta l’ho trovata così, in via Paolo Sarpi.
Sopra la trapunta utilizzo carta di giornale. È un ottimo isolante termico e la materia prima di certo non manca. Metro,
Leggo e City vengono propinati a profusione tutti i giorni
alle migliaia di pendolari che affollano la stazione. Sono
proprio i pendolari che danno il ritmo alle mie mattinate.
Con i treni delle sei arrivano i più sfigati. Operai, qualche
impiegato o militare turnista e le giovani prostitute nere
che vengono dal Ghana, dal Camerun, dalla Costa d’Avorio e, soprattutto, dalla Nigeria. I primi sono stanchi e assonnati perché da poco hanno lasciato il letto, le altre sono
stanche e assonnate e il letto devono ancora vederlo. Mi
auguro per loro, tutte giovanissime, che sia un letto vero e
non un surrogato come il mio. Mi fanno una gran pena queste fanciulle. Fanno pena pure a me che a volte mi faccio
pena da solo. Quando lavorano si conciano in modo vistoso... da puttane, appunto. Stivaloni quasi sempre bianchi
con tacchi stratosferici e minigonne super mini che metto-
5
Nicola Pettorino
no in bella mostra prorompenti deretani spesso dalla piacevole forma detta a mandolino. Rimangono a mandolino
anche quando le proporzioni del fondoschiena assumono,
per qualcuna, caratteristiche di... provincia. Extra large.
Terminato il lavoro, smontate dal turno, usando il treno
come spogliatoio rinchiudono le loro vestimenta in buste e
sacchi di plastica e i loro giovani corpi in abiti normali. Me
le vedo sfilare davanti, stordite e stravolte dalla stanchezza, strusciando i piedi e strascinandosi dietro le loro buste.
Le accompagno con lo sguardo, non so quanto consapevoli di essere schiave di questo secolo.
Dalle 7 alle 8 il flusso dei pendolari raggiunge il suo
apice. Treni che arrivano da Alessandria, Cuneo, Asti e Savona e che, strada facendo, raccolgono tutti coloro che si
recano a Torino per lavoro, studio e altro. Sono tanti, tantissimi. Li osservo. Sepolto nel mio cantuccio me li vedo
sfilare davanti agli occhi. Corrono tutti. Riconosco gli studenti. Capelli dalle fogge più improbabili, pantaloni con la
vita bassa e per le ragazze l’ombelico di fuori, a bella vista.
In estate e in inverno. Zainetto firmato in spalla, d’ordinanza, come nell’esercito. Gli altri, impiegati, commessi,
militari, insegnanti li vedo scendere dal treno, dare un’occhiata all’ora e via di corsa a prendere l’autobus. Visti dalla
mia del tutto speciale posizione di spettatore non pagante
mi sembrano tanti automi impazziti. Alle 17 o poco prima
o poco dopo, rifaranno l’intero tragitto al contrario. Uno
sguardo veloce all’orologio e via di corsa sul treno. Verso
casa, finalmente. Domani è un altro giorno.
Una volta esaurito il grosso dell’afflusso dei pendolari,
verso le 8.30, metto via il mio equipaggiamento notturno e
lo ripongo in uno di quei vecchi carrelli che usavano le
massaie per andare a fare la spesa al mercato. Un tempo furono assai di moda adesso, che la spesa si fa soprattutto nei
grandi supermercati dove ti forniscono pure il carrello, lo
sono un po’ meno. Il mio l’ho recuperato in via Buenos
Aires, non troppo lontano dalla stazione del Lingotto. Se
6
Il quarto d’ora granata
ne stava malinconicamente appoggiato a un cassonetto per
l’immondizia, accanto ai resti di quella che doveva essere
una camera da letto: un vecchio letto smontato completo di
materasso, due comodini, un comò e un guardaroba. Tutto
rigorosamente in stile anni ’50 che mi è venuto una specie
di magone immaginandomi una giovane coppia di quegli
anni, emigrati meridionali o magari veneti con il miraggio
di una vita migliore. Ma non divaghiamo in inutili sentimentalismi. Adesso il carrello è mio e mi serve da armadioripostiglio portatile.
Tornando a quanto dicevo, dopo aver riposto i miei
quattro stracci nel suddetto ripostiglio ambulante, passo
alle abluzioni mattutine. Qui va fatto un discorso di temperatura. D’estate, con il caldo, mi lavo di più. Faccia,
collo, braccia e ascelle. Con il diminuire della temperatura
diminuisce anche la zona esposta all’acqua e la sciacquata
non di rado si limita alla sola faccia. Ogni tanto, roba di
una volta al mese, vado al diurno di Porta Nuova e mi regalo una doccia. Per la toletta mattutina approfitto dei bagni della stazione. Aspetto che li abbiano puliti. Una volta,
ai primi tempi, sono andato a fare dell’acqua, come dicono
le persone educate quando vanno a pisciare e sono stato
letteralmente aggredito da un’addetta alle pulizie. Non riesco a chiamarla signora, non ci riesco proprio, scusate. Ero
appena uscito dal bagno e mentre ero lì che armamentavo
con la zip dei pantaloni, mi è volata addosso.
“Brutto bastardo schifoso di merda che cazzo stai facendo?”
L’ho guardata. Dice a me? mi sono chiesto. Era bassa,
più larga che alta, rassomigliante all’omino della Michelin.
Le braccia e le gambe talmente tornite che deambulava per
vie laterali. Una gran massa di capelli corvini le ricadevano sulle spalle in tanti boccoli, così curati, che sembrava
appena uscita dal parrucchiere. Quelle specie di salsicciotti che costituivano le braccia erano ricoperte di bracciali e
7
Nicola Pettorino
braccialetti. In più era truccata pesantemente come chi
deve uscire tra cinque minuti col moroso. La guardavo
mentre si dimenava e mi sommergeva di insulti in quella
specie di nuova lingua che è il “terronese”. Miscela mal riuscita tra torinese e dialetti meridionali. Inudibile.
“Pezzo di merda. Figghie’puttana” urlava agitandomi
sotto il naso lo spazzolone per lavare per terra. Sopporto e
sopporto e mi viene in mente mio padre – buon’anima –
che diceva sempre che con i prepotenti bisogna essere prepotenti due volte.
Allora sono sbottato e avanzandole contro in maniera
minacciosa le ho gridato “Bruttatroiasmettiladirompermilepalleotispaccolafaccia” tutto di filato e, dopo un attimo di
pausa, necessario per respirare, ho aggiunto “Vaffanculostronza”.
Capita la situazione la cafona se l’è battuta in ritirata
chiamando a tutta voce la polizia e scappando via – rotolando – con tutta quell’abbondanza di molli carni appresso.
Aveva ragione mio padre, allora? O forse no. Una volta
venne condannato a sei mesi con la condizionale per avere
insultato un poliziotto che, secondo lui, era stato arrogante
nel chiedergli i documenti... dopo che era passato con il
rosso, senza fermarsi, a tre semafori consecutivi. Comunque, tornando a noi, quella volta la polizia non arrivò ma
io, da allora, ho preso l’abitudine di servirmi del bagno
dopo che hanno fatto le pulizie.
Stamattina il cielo è sereno. È davvero un magnifico
ottobre questo. Ho voglia di camminare. Prendo il mio
carrello e me lo trascino appresso. Taglio per via Passo di
Buole, attraverso via Nizza, via Ventimiglia e arrivo su
corso Unità d’Italia. C’è traffico in città. Auto che vanno
e auto che vengono. Tutti hanno fretta. Corrono verso
qualcosa o qualcuno. Io no. Non ho una meta, né impegni, né appuntamenti. Nessuno più m’aspetta e io ho
smesso di aspettare da tempo. Tanto tempo. Quanto? Non
lo ricordo nemmeno. Sono stato qualcun altro ma me lo
8
Il quarto d’ora granata
ricordo appena. L’ho sepolto, dimenticato. Non mi interessa più. Ma questa è una storia lunga, un’altra storia.
Attraverso il caotico corso Unità d’Italia e raggiungo l’argine del Po. Lì, lungo il fiume c’è la Torino che preferisco. Così bello che non mi sembra neanche di essere a Torino. Il verde della collina si specchia nell’acqua che
scorre lenta, placida. Qualche gabbiano compie le sue
acrobazie a filo d’acqua. Una famigliola di germani
nuota, in fila indiana. Il sole comincia a scaldare. È bello
goderselo sulla pelle. Scalda. Cammino un bel po’, lentamente, trascinandomi il carrello. Un tempo mi piaceva
fare sport. Correvo, giocavo a tennis, nuotavo e il lunedì
l’imperdibile partita di calcetto con gli amici. Un tempo.
Ora mi guardo attorno senza vedere nulla. Immagini su
immagini. Fotogramma su fotogramma. Vedo una panchina e mi fermo. Mi ci accoccolo sopra. Chiudo gli
occhi. È un gioco che faccio spesso. Lontani i clacson
delle automobili, i rumori della città mi giungono soffusi,
ovattati. Sento l’allegro parlare, un po’ affaticato, di due
vogatori. Mi piace il rumore delle pagaie che entrano nell’acqua. Il loro mulinare ritmato. Sono così rilassato che
mi assopisco un po’. Apro gli occhi. Un’immagine sfocata. Guardo meglio, ah la vista non è più quella di una
volta. Una donna cammina sull’argine. Ha un’andatura
caracollante, indecisa. Socchiudo gli occhi per mettere
meglio a fuoco. Adesso vedo più chiaro. La donna guarda verso l’acqua, verso il fiume. Sembra che voglia specchiarsi. Come volesse buttarsi giù. Ma, cavolo, è quello
che sta per fare. Mi alzo dalla panchina. Le corro incontro. Le arrivo da dietro. L’afferro per le braccia.
“Ma che vuoi fare, sei impazzita?” le grido ansimando
per lo sforzo. Proprio non sono in forma.
“Ma che vuoi tu? Fatti i fatti tuoi, cretino.”
La voce è piena di astio, di risentimento. Verso tutto e
verso tutti. È un grido di dolore il suo. Un dolore che so riconoscere.
9
Nicola Pettorino
“Ma dai che non ne vale la pena. L’acqua sarà pure
fredda. Non si può poi morire in una giornata così bella”.
Dico così per dire. Fregnacce. Per prendere tempo.
“Chissenefrega e non mi toccare” mi dice, dandomi uno
strattone e liberandosi delle mie mani che la tenevano
ferma.
“Ma dai. Vienitene via. Sediamoci sulla panchina. Guarda che bel sole che c’è” e le indico la panchina dove stavo
seduto.
“Ma te ne vuoi andare? Cosa vuoi da me? Vuoi fare il
buon samaritano? Piuttosto pensa per te che fai proprio
schifo, sembri uno spaventapasseri. Ti dovresti fare una doccia. Puzzi. Hai capito? Puzzi che fai schifo.”
Ha ragione. Perfettamente ragione. Accuso il colpo.
“Scusa, ti ho visto un po’ in difficoltà e mi sono intromesso. Ho sbagliato, scusami. Suicidati pure. Ciao.”
Mi volto e me ne torno sulla mia panchina. Al sole.
“Ehi, che fai? Prima mi fai perdere il momento giusto e
poi te ne vai così? Aspetta, aspettami” mi urla con un tono
di voce diverso, diventato di colpo più gentile.
Si siede accanto a me. Ha una quarantina di anni. Forse
di più, forse di meno. Non sono mai stato bravo nel dare gli
anni alla gente. Con le donne poi, sbaglio sempre e non
solo con gli anni.
È seduta. Non parla. Ha lo sguardo fisso davanti a sé.
Guarda il fiume, il Po. Tiene le braccia conserte. I capelli
sono lunghi. Neri. Colorati di nero perché si vede la ricrescita grigia. La osservo cercando di non farmi scorgere. I
lineamenti non sono brutti. Un po’ appesantiti come di chi
ha bevuto o pianto molto. Due occhiaie profonde le segnano gli occhi. Occhi neri, intensi. Sfuggenti. È infagottata in
una giacca a vento con cappuccio. Roba di poco prezzo.
Rimaniamo seduti uno accanto all’altra per un bel po’.
In silenzio.
“Mi chiamo Marisa e tu?” mi dice con un sorriso triste
che le disegna il viso in tante piccole rughe. Alcune, come
10
Il quarto d’ora granata
incise, le corrono accanto alla bocca. Mi volto verso di lei.
I nostri occhi si incontrano. Da quanto tempo nessuno mi
chiede il mio nome.
“Mi chiamo Dante” rispondo e poi le chiedo “Va un po’
meglio ora?”
“Sì, grazie. Scusami per prima, non volevo essere scortese. Volevo farla finita. Non ce la faccio più ad andare
avanti così. Non ha più nessun senso.”
“Capisco” le dico ma in realtà non capisco niente. Non
ho mai capito niente in vita mia. Richiudo gli occhi. Vorrei
essere di nuovo solo. Non sopporto più la compagnia di
nessuno. Mi basta la mia tristezza. Mi bastano le mie sconfitte e non ho bisogno di accollarmi anche quelle di una
sconosciuta aspirante suicida.
Chiudo gli occhi. La sento parlare. Sento la sua voce
ma non la seguo. Non la voglio sentire. Non voglio sentire
nessuno. Non voglio più saperne di nessuno. Lasciatemi in
pace. Dopo un po’ smette di parlare. Che bello. Silenzio.
Mi godo il sole caldo sulla pelle della faccia. In silenzio.
11