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Roberto Benassi
Mi chiamo Roberto Benassi, sono nato il 28 novembre 1915 a Genova ed abito a Genova.
Sono stato arrestato dall’OVRA nel 1939, portato al Regina Coeli e condannato per reato
contro lo stato fascista, per spionaggio politico militare. Non volevamo la guerra e invece
stavamo andando verso l’imperialismo. A Roma sono stato interrogato dal Tribunale
Speciale.
Poi mi hanno portato nel penitenziario di Porto Longone dove sono stato oltre tre anni e
mezzo. Nel 1944 quando ormai si avvicinava lo sbarco in bassa Italia, la Guardia
Repubblicana e le Brigate Nere ci hanno fatto sgombrare e ci hanno portato a Parma. Il
fascismo era caduto e allora alcuni prigionieri politici sono riusciti a farsi liberare facendosi
mandare un telegramma, altri no perché quei telegrammi erano molto lenti ad arrivare. Io
ho poi saputo che un ufficiale dei servizi era venuto a cercarmi a Porto Longone per
liberarmi, per farmi combattere, ma era venuto con un mese di ritardo e io ero già a
Parma. Lì eravamo in mano alle SS, ai Tedeschi. Poi abbiamo avuto il bombardamento a
Parma e ci siamo salvati per miracolo. Nel cortile avevamo scavato dei camminamenti alti
quasi due metri coperti dalle griglie e da pezzi di legno per poter respirare. Le bombe sono
cadute tanto vicine che la terra ballava. Finito il bombardamento era l’una del pomeriggio e
nonostante il sole non si vedeva niente dai tanti calcinacci. Ci hanno portato alla Certosa
di Parma, sempre in mano alle Brigate Nere e SS.
Dopo Parma ci hanno portati a Fossoli, eravamo in mano alle SS insieme con quelli di
Milano, di Torino e della Breda, fino mi pare al 18 giugno 1944. Il capo blocco era un
maestro di Genova, si chiamava Armando Vecelli. Gli abbiamo poi dedicato un’aula in una
scuola. Un giorno ci hanno tutti portati coi camion a Carpi e lì ci hanno caricati su quei
famosi vagoni bestiame. Erano ventidue vagoni. Ci hanno distribuito un pane a testa e la
popolazione ha portato due o tre cestini di ciliegie, amarene. Quello era il nostro cibo per
tutto il viaggio. Tre giorni e due notti.
Siamo arrivati alla stazione del paesetto di Mauthausen, vicino al Danubio, di notte.
C’erano i cani, noi tutti in fila su in salita. Il campo di sterminio è su una collina. Pensi che
mio padre, buon’anima, è stato in paese a Mauthausen nell’altra guerra, quella del 15-18.
E’ partito per la guerra nel 1915, che ero appena nato, ed è tornato che avevo già tre anni.
A Mauthausen ha fatto più di un anno. Stava vicino alla stazione, io invece lassù. Ci
davano colpi nella schiena, shnell, shnell, dopo tre giorni di vagone e col poco mangiare
che avevamo ricevuto. A piedi è lunga, sono tre quattro chilometri buoni. Siamo entrati
dalle porte grosse, non da quella principale, e là ci hanno spogliato tutti nudi. Tutta la notte
nudi all’addiaccio. Per fortuna era giugno, il 23 o il 24 mi pare. Alla mattina giù a rasare i
capelli e tutto, dove c’erano peli. Una disinfettata e la doccia. Poi un paio di mutande e una
camicia, scalzi, in quarantena. Il mio numero di matricola era 76.237. Se non lo si sapeva
in tedesco, si prendeva degli sganascioni. Le baracche di quarantena erano cinque, dalla
16 alla 20. Noi siamo andati alla numero 17. La sera dovevamo sistemare i materassini in
terra e poi dovevamo metterci a dormire. Testa e piedi, sennò non ci si stava. Ci dicevano
”Se non vi mettete a posto passo con il Gummi e picchio”, allora si trovava il posto perché
cominciava a colpirci.
Sono stato lì tre quattro giorni, poi mi hanno mandato al Baukommando, che sarebbe il
comando costruzioni del campo stesso. Dovevamo costruire le fogne. Io ero stato un
pugile una volta, dicevano che ero bravo, ero in prima serie in Italia. Nel campo c’era
l’organizzazione pugilistica: cinque o sei pugili francesi, diversi spagnoli e tedeschi. Italiani
non ce n’era. Io parlavo il francese abbastanza bene e allora ho parlato coi Polacchi e i
Francesi. Mi hanno provato, mi hanno fatto fare i guanti con uno spagnolo. In mutande e
camicia, scalzo, mi hanno messo i guanti. Sotto il crematorio c’era una saletta. Boxavo
bene. Così dal Baukommando mi hanno portato in officina elettrica. In officina elettrica
stavo bene perché non avevo quasi niente da fare. Il capo era un austriaco, un socialista.
Mi trattava bene. Mi diceva in spagnolo “vogliono che lavori come un cavallo e ti danno da
mangiare come una gallina”.
In tutto ho fatto quattro o cinque incontri. Nel primo mi è toccato un tedesco, Peltzer,
quello che portava i detenuti giù a prendere le pietre squadrate alla cava e portarle su. Lui
era settantaquattro chili, un armadio sembrava e io un bambino. Tante botte non le avevo
prese neanche in tutti gli incontri che avevo fatto. Però non ho piegato le gambe. Quando
sono andato all’angolo alla terza ripresa parlavo da solo “Bacicin, - il mio soprannome –
sei un cannone”. Nel secondo incontro dopo quindici giorni c’era un polacco che parlava
francese e a cui insegnavo a parlare italiano. Senza dirmi niente, questo polacco, Ascek si
chiamava, aveva combinato l’incontro convinto di darmele perché mi aveva visto buscare
con il tedesco. I Francesi che erano miei amici mi hanno avvertito “fait attention qu’il est
lui qui l’a voulu”. Allora prima di andare sul ring gli ho detto “Sur le ring je ne connais pas
des amis, je fais du sport”. “Moi aussi” mi ha risposto. Arrivavo in velocità da tutte le
posizioni e lui non poteva fare niente. Alla seconda ripresa lo invito, destro d’incontro,
fulminato, KO. L’arbitro contava lentamente, non un secondo, uno e mezzo, anche due,
ma dopo il dieci ha dovuto prenderlo di peso e farlo rinvenire all’angolo con i sali. Ho fatto
ancora un altro incontro con un tedesco, il barbiere che la mattina dopo che eravamo
arrivati ci aveva rasati. Io non sapevo che era un pugile e questo, con una sganassata,
m’aveva rubato quello che avevo in mano, saponetta e dentifricio. Non avevo potuto
reagire. Quando seppe dell’incontro venne a cercarmi e mi offrì da mangiare, disse “io
sono tedesco, ricevo i pacchi da casa, ti do i dolci”. Non ho accettato niente dicendo “tu
picchi ma guarda che anch’io so picchiare”. Era forte questo qui, era veloce ed aveva un
bel pugno, però aveva avuto paura quando aveva visto il mio destro. Mi sono detto “se
non sto attento me le dà” però poi ho visto che aveva paura del destro allora ho pensato
“sei fregato perché il mio sinistro è quasi ugua le”. Sono ambidestro e infatti di sinistro è
andato KO. Gli Spagnoli mi hanno portato in trionfo “hai anche il sinistro!”. Erano i
deportati polacchi e francesi che gestivano questi incontri, o al blocco 16 di quarantena
oppure nella piazza, la Appellplatz che era grande. Si montava il ring ed era uno
spettacolo che si godevano anche le SS. Giocavamo la domenica sera. Come premio per i
miei combattimenti, mi regalarono cento cinquanta marchi, che io distribuii tra i compagni
più fidati perché comprassero sigarette. Con le sigarette si poteva comprare qualsiasi cosa
da mangiare. Però una volta, ci tennero non so quante ore nella piazza dell’appello e
perquisirono dappertutto. Requisirono ventinovemila marchi.
All’officina elettrica ero trattato bene. C’era un compagno italiano, un certo Salerno che è
mancato qualche anno fa’, che era a Mauthausen da tre mesi prima di me. Nella sua
baracca riusciva a rubare del pane con la margarina e me lo dava, poi io dividevo con i
cinque Italiani della mia baracca. Due giorni me l’ha dato, il terzo mi ha fatto sedere e ha
detto “questo pane lo mangi tu, perché tu devi andare sul ring. Per gli altri c’è la zuppa”. Io
all’officina, ufficialmente ero muratore, limavo degli oggetti, ma in pratica era una copertura
per aiutarmi visto che ero pugile. C’erano dei bravissimi tecnici cecoslovacchi, che
avevano una radio. Con la scusa di ripararla, ascoltavano le notizie. L’officina elettrica era
sotto alla costruzione dove attualmente c’è il Museo.
Tutti i giorni, nella strada che dal campo va giù alla scala della morte, a qualcuno
toglievano il berretto, lo buttavano verso il reticolato e lo mandavano a prenderlo. C’erano
le garitte a trenta quaranta metri l’una dall’altra e a terra c’era il Posten. Come lo vedeva
gli sparava. Uno l’ho visto fare cinque salti, cinque volte gli ha sparato e all’ultimo è
rimasto là.
Ho visto anche - e nessuno l’ha scritto - dei deportati partigiani belgi o
olandesi, ragazzi giovani e in gamba. Li hanno tenuti quaranta ore con la faccia contro il
muro, dentro a Mauthausen. Ogni tanto ne prelevavano due, li portavano fuori, all’Ufficio
Politico e li interrogavano, li torturavano. Nessuno parlava. Gli Spagnoli, i giovani che
facevano i servizi, erano entusiasti, dicevano “non ce n’è uno che habla, che corazon che
tiene!” Il pomeriggio, io ero fuori da una baracca e ho visto che prima gli hanno fatto fare
due viaggi con le pietre, il terzo viaggio c’era un reticolato che faceva angolo e che adesso
non c’è più. Con uno sulla garitta, venti o trenta metri più indietro, li hanno fatti uscire e
quello là sparava. Io ero rimasto paralizzato alla finestra. Mi hanno trascinato via ché se si
accorgevano che avevamo visto ci ammazzavano anche a noi. Ero rimasto bloccato, non
ero capace di muovermi. Una cosa spaventosa. Poi passa un fotografo che fotografa, il
Posten passa con il piede e li toccava, se si muovevano gli dava il colpo di grazia col
fucile. La metà li hanno caricati sui carrelli, con una gran scia di sangue, l’altra metà hanno
fatto lo stesso l’indomani, ma noi non eravamo lì , quelli non li ho visti e non credo che ci
sia nessuno che li ha visti.
A Mauthausen ho visto diversi religiosi. Mi ricordo di Don campi di san Martino e di Don
Gaggero. Quando ero in quarantena ho visto anche trasporti di bambini. Di donne, ho
visto quelle del bordello.
Il mio lavoro all’officina elettrica è durato fino a quando ho fatto l’ultimo incontro con
Peltzer. Questa volta gli ho fatto piegare le gambe e l’ho rimesso in piedi, poi è finita pari.
Due giorni dopo mi hanno chiamato “Italiano!”. Ho sentito freddo alla schiena perché
poteva significare crematorio. “Hei tu! Transport!” Meno male, non ancora, ho pensato.
Siamo andati a piedi a Gusen, abbiamo dormito una notte, poi sempre a piedi a Lungitz,
altri dodici chilometri. Eravamo trecento circa. Dovevamo costruire un Bäckerei, un forno
per il pane. Questo trasporto è avvenuto tra la fine di novembre e i primi di dicembre. Ho
compiuto gli anni per strada, il 28 novembre. Poco dopo, con la prima neve, è avvenuta la
prima e l’unica fuga della storia di Mauthausen. Ce l’hanno raccontata dopo la liberazione.
Era un gruppo di settecento Russi, nei blocchi di quarantena 19 e 20, vicini ai recinti con
l’alta tensione. Quei blocchi avevano i tetti piuttosto piani e con la prima neve rischiavano
di sfondarsi. Allora un volontario per baracca è salito sul tetto a spalare la neve. Hanno
guardato bene intorno, erano nell’angolo del campo, sui pali c’era una garitta grande con
le SS tutte armate. Sono rientrati in baracca e di notte sono usciti con le coperte addosso.
Hanno buttato una spranga di ferro sui reticolati ed è stato cortocircuito. Tutto il campo al
buio. In un attimo avevano disarmato e buttato giù le SS dalle garitte e sono fuggiti. Subito
dopo sono partiti a cercarli con i carri armati, tanti ne hanno rintracciati e hanno fatto una
strage, ma in sette si sono salvati! A noi ce l’ha raccontato proprio uno di questi, un eroe
dell’Unione Sovietica, che dopo la liberazione mangiò una volta con noi. Ci ha detto che
era capitato in una fattoria dove lavoravano delle donne russe. L’hanno spogliato sulla
neve, hanno bruciato i suoi vestiti e gli hanno dato degli abiti sporchi di sterco. Poi l’hanno
nascosto nel fienile e quando potevano gli portavano da mangiare. Lì è rimasto fino alla
liberazione.
A Lungitz eravamo in trecento in due baracche, poi c’era la cucina e le abitazioni delle SS.
Eravamo cinque o sei Italiani, alcuni ragazzi partigiani di Udine, un triestino, un romano e
mi sembra due milanesi. Mi hanno messo a fare i ferri per il cemento armato. La sera per
avere un pezzetto di pane in più facevamo degli altri lavori dalle sei alle undici. Quando ci
hanno fatto sgombrare, alla fine, io sono caduto per terra e da solo non mi rialzavo più. Ho
detto a un greco e al triestino “Lasciatemi stare che sono finito”. Il triestino mi ha dato una
sberla “taci, mona”, e un braccio per uno mi hanno rimesso in piedi. Sennò rimanevo lì . Gli
ultimi giorni volevo farmi mandare al Revier, ma il maresciallo che comandava, uno che
aveva facoltà di vita o di morte su di noi, mi disse “Italiano, stattene a letto” Era una forma
di benevolenza, di simpatia nei miei riguardi, perché probabilmente mi aveva visto quando
facevo il pugile. Quando sono arrivati gli Americani le SS erano scappate tutte. C’erano gli
anziani, che a noi non volevano dare le armi però a loro le hanno date subito. Gli
Americani li hanno portati via. Hanno sparato nel cancello, nel lucchetto, hanno detto go
hey! e noi ai magazzini. Era una settimana che pane non ne vedevamo. Prima hanno
liberato Lungitz poi hanno liberato Gusen. Di lì ci hanno portato a Ventz. Noi avevamo già
allestito un’autoambulanza per rientrare a casa, una Citroen con delle taniche di benzina e
olio che credevamo per il motore e invece era di semi. Ma ci hanno bloccato e messi nella
caserma di Ventz. Lì gli Americani ci davano da mangiare, all’inizio anche troppo, infatti
tanti sono morti perché hanno mangiato troppo.
Avremmo dovuto mangiare solo un po’ di brodo e via via un po’ di più per riabituare
l’organismo, invece ci facevamo la pasta asciutta condita con marmellata e burro. Roba da
morire. Io la prima sera avevo preso della farina nel magazzino di un fornaio. Abbiamo
impastato lasagne e pane. Ma io non ho mangiato perché già avevo dei dolori alla pancia.
In quella fattoria c’era un vecchio con donne e bambini. Gli ho detto che avevo i crampi e
loro mi hanno portato una bella tazza di latte caldo con la grappa dentro. L’ho bevuta poi
mi sono allungato su una panca e ho dormito tutta la notte. Alla mattina già stavo bene. E
ho cominciato a mangiare. Invece quel ragazzo romano ha mangiato. Gli dicevo “Guarda
che stai crepando”, ma lui niente. Per fortuna ho trovato un pezzo di specchio, gliel’ho
portato davanti e lui si è visto e si è messo paura. “Bacicin, - mi ha detto - se non ti
ubbidisco picchiami”. Ha ridotto le dosi di cibo, prima solo un po’ di brodo, e dopo tre o
quattro giorni mangiava come mangiavo io. Purtroppo non riesco a ricordarmi il nome di
questo ragazzo romano.
Mi sono imbarcato nei treni, non ricordo le date precise, e in treno ci hanno portato fino a
Bolzano. A Bolzano volevo andare a casa, dove era un anno che non sapevano più niente
di me. Però non stavo in piedi e mi dicevano “tu non puoi andare a casa”. Di peso mi
hanno portato all’ospedale. Dovevano operarmi di appendicite dicevano, non so, non
potevo reggermi su questa gamba. Mi hanno piantato un ago per vedere i reni. Tutto bene,
dopo qualche giorno camminavo bene. Sono venuti dei preti e tra di loro ce n’era uno di
Genova. Gli ho chiesto di avvisare la mia famiglia, ma lui non è mai andato. Sono venuti
due di Sestri e mi hanno chiesto se conoscevo una certa persona. Credevano che uno
venendo di lì conoscesse tutti, invece conoscevi solo quelli che avevi intorno, tutti gli altri
non potevi. Quei due fratelli di Sestri sono andati ad avvisare a casa mia. Mio fratello,
buon’anima, che era partigiano in Toscana, a Siena, poi commissario politico, è venuto
lassù e mi ha preso. Siamo andati dal dottore, gli abbiamo parlato e l’operazione non l’ho
mai fatta, siamo tornato a casa. Fino a Milano con un camion grosso guidato da un autista
negro. Andava a più di cento all’ora, ma per fortuna siamo arrivati a Milano salvi. Lì ci
siamo fermati a casa di un ex-pilota compagno di mio fratello e l’indomani con il treno
siamo andati a Genova.
In questi anni sono stato intervistato una volta, dall’Ufficio Storico, ma non così nei
dettagli. In generale, non avevo voglia di raccontare le mie cose, perché nessuno ha fatto
un’esperienza come la mia. Sono ritornato a Mauthausen nel 1975, trent’anni dopo. Ero
bloccato, non riuscivo a parlare, rivedevo tutto come allora. Anche oggi, se chiudo gli
occhi, rivedo quelle cose.