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Mario Gianardi Mi chiamo Gianardi Mario, sono nato ad Avezzano Ligure in provincia di La Spezia il 18 settembre del 1926. Sono stato arrestato il 15 ottobre del 1944 davanti alla chiesa di Migliarina, mentre accompagnavo un ragazzo handicappato, uscito dal carcere di Vilandrino preso in un rastrellamento a Cecirano. Non sapeva la strada e allora mi hanno incaricato di accompagnarlo sino a Migliarina dove c'è la biforcazione che va da una parte verso Termo e dall’altra verso Bonviaggio. Forse voi non sapete ma ve lo dico, una va verso Roma e l'altra verso Parma. Doveva prendere la strada che andava verso Parma, per questo partii da casa mia assieme a mio fratello Sergio, un certo Del Nero e questo ragazzo. Erano le due del pomeriggio. Quando arrivammo sul Ponte della Dolgia, che è un canale che attraversa, prima di arrivare alla chiesa, la via Aurelia, sentii il rumore di un camion che giungeva. Feci una corsa e arrivai proprio all'incrocio davanti alla chiesa di Migliarina, lasciando mio fratello e gli altri indietro, in maniera che se questo camion andava verso Parma l'avrei fermato chiedendo il permesso di poter far salire questo ragazzo. Gli avrei spiegato la situazione. Sennonché il camion proseguì per l'interno, quindi la mia corsa fu vana. Mentre attendevo che loro, i miei amici e questo ragazzo, mi raggiungessero, io mi sono rivolto verso di loro e vedevo che esitavano a venire e gli dicevo “Camminate!”. Ad un certo punto ho sentito dietro la schiena, con la canna del fucile "Alza le mani!", io ho alzato le mani. Erano due delle Brigate Nere che mi avevano preso. Io il giorno dopo, il lunedì, perché era di domenica, avrei dovuto andare ai Monti, non perché non avevo un'idea politica però avevo paura di essere preso anch'io in quanto c'erano già le voci che arrestavano... Mi sembrava più sicuro allontanarmi da casa. Ebbene il delatore, che mi ha fatto prendere, è un certo Guerra, che dalla finestra del suo appartamento era d'accordo. Era passato dai partigiani alle Brigate nere, quindi era consapevole che io dovevo andare ai Monti, pertanto presero soltanto me. Ma di questo me ne accorsi solo quando mi portarono in casa sua, prima non l'avrei neppure immaginato. Dalla finestra, anche un certo Capitani, che si trovava invece sulla via Aurelia, faceva come lui, a duecento metri da casa sua, lo stesso lavoro. Stetti in casa del Guerra fino alla sera verso le cinque o le sei, poi - eravamo una ventina circa - ci portano al XXI fanteria. Il XXI fanteria era la caserma dei soldati dei fanti del tempo di guerra, di cui le Brigate Nere si erano impossessate ed aveva adibito certi settori del carcere a celle per i detenuti. Io mi trovai in una cella vicino alla strada che andava verso Piegazzano, eravamo in dodici. C’ero io - in parte me li posso ancora ricordare - un certo Chiari, Ughetto, poi Gigli con cui sono stato ammanettato quando siamo partiti da Genova, poi c'era l'Ing. Iacchetti della Ceramica di Bolzano, il suo contabile signor Foce o dottor Foce, non so chi poteva essere, un impresario edile di cui adesso mi sfugge il nome. Siamo stati lì una quindicina di giorni. In questo frattempo la notte sentivamo le urla di coloro che venivano interrogati ed eravamo un poco preoccupati perché quando venivano e chiamavano qualcheduno e lo portavano a questi interrogatori, di solito non tornava più perché lo facevano cambiare di cella. Chiamarono anche me e me la cavai con poco. Mi fecero alcune domande: se ero partigiano, se conoscevo tizio o caio... Io risposi di no, perché effettivamente partigiano non lo ero ancora. Mi diedero solo qualche ceffone. E io tutto contento rientrai in cella, convinto che avessi superato la fase più critica. Invece il bello doveva proprio venire, perché dopo alcuni giorni ci portarono su un camion a San Bartolomeo. San Bartolomeo è una zona vicino al mare di La Spezia. E qui c'erano alla fonda alcuni zatteroni. Gli zatteroni erano da sbarco, cioè avevano il pontile che si abbassava per far scaricare la merce. Eravamo in questo zatterone circa un centinaio, adesso non ricordo. Lì ci hanno dato un pezzo di pane che abbiamo dovuto dividere, gliel'ho dato a sette persone. Siamo stati lì un giorno fermi perché c'era mare con burrasca. Il secondo giorno di sera si partì verso Genova, via mare verso Genova. Quando siamo arrivati al largo di Monte Rosso - Monte Rosso è una zona vicino a La Spezia – con Chiari, con una tavola dove eravamo seduti, abbiamo sollevato leggermente la mira e lui voleva a tutti i costi fuggire. Ma se si buttava andava a finire sotto, non poteva avere uno slancio per... E effettivamente l'ha capito e ha desistito. Comunque abbiamo cercato di togliere questa tavola e bene o male si vedeva che non era stato forzato il portale dello zatterone. Siamo arrivati verso la mattina alle cinque a Genova. A Genova ci hanno portato al carcere di Marassi. Qui sono stato portato con tutti gli altri al pianterreno della IV sezione. Eravamo anche lì una decina per cella. qui avevamo la possibilità di andare a prendere l'ora di aria - così si dice nel carcere - e quindi quando io insieme agli altri della mia cella potevamo uscire, scrivevamo il nostro nome sui muri in maniera che qualcuno potesse trovare una testimonianza del nostro percorso. Non potendo scrivere a casa e non potendo avere notizie, almeno se ci fosse stato qualcheduno un domani che avesse letto queste scritte sui muri avrebbe capito che io ero transitato lì il giorno tale... Lì subii il primo interrogatorio effettivamente severo. Io sono stato seviziato e torturato per sei ore. Sono stato seviziato e torturato da Battisti, Morelli, Guerra, Capitani e da due marescialli della SS. Per lo più mi hanno interrogato Battisti, Morelli e i due marescialli della SS, per ultimi Guerra e Capitani. Mi hanno legato a cavalcioni su uno sgabello a torso nudo, e hanno cominciato a bastonarmi. Mi hanno mosso diciotto accuse: la morte di Bergamini, l'assalto alla Flage, l’assalto alla batteria di Monte Pertico, ero partigiano, avevo nascosto le armi... Insomma tutte invenzioni perché fino a quel momento le cose che mi dicevano non corrispondevano al vero, perché io certe azioni non le avevo mai fatte... E loro, a ogni interrogatorio, mi dicevano di firmare. Il primo interrogatorio è stato forte... Alla fine mi ruppero uno sgabello sulla schiena. Il giorno dopo mi richiamarono nel pomeriggio e ricominciarono. Cominciarono a mettermi il tubo dell'acqua del rubinetto in bocca, mi è venuta una pancia così grossa che scoppiavo e poi mi storcevano le dita, il dito pollice. In più se vedete le mie unghie, queste dei piedi, hanno ancora i segni adesso, perché prendevano i fiammiferi di legno corti, tagliati e mi conficcavano dentro la punta e davano fuoco: qui, sul pollice destro e sul pollice sinistro della gamba e sulle mani. Poi quando perdevo i sensi mi buttavano con la testa nel lavandino, pieno d'acqua, che era rosso del mio sangue. Pertanto i peggiori momenti della prigionia in cui ho patito per il dolore credo siano stati quelli. Insomma io non firmavo. Il terzo giorno, dopo essere stato di nuovo percosso ed ero in uno stato di semi-incoscienza perché quando ti vedevano così, ti davano proprio il colpo sulla testa per farti svenire, poi ti mettevano con la testa nel lavandino, invece di tirarmi l'acqua in viso mi ci buttarono dentro. Mi sentivo soffocare, avevo l'acqua nella pancia, che mi si era gonfiata... Insomma stavo male, malissimo. Dopo tre giorni mi hanno preso la mano, mi hanno fatto una scarabocchio e mi hanno riportato in cella. Però non mi hanno portato più alla IV sezione, mi hanno mandoto alla III sezione e lì sono stato qualche giorno. Facevo fatica a entrare nella cella perché queste celle - che erano più di segregazione che altro – erano molto strette. E lì ho potuto incontrare gli altri che avevano preso in un secondo tempo nella mia zona. E c'era un altro Gianardi come me, allora ho pensato che fosse mio padre o mio fratello, invece era mio zio. C'era un certo Trippini che aveva una segheria vicino a casa mia, non mi riconosceva neppure da come ero gonfio, da quanto ero ridotto male. Avevo la faccia, gli occhi tutti tumefatti. Mi hanno rotto il setto nasale, i denti. Uno con il calcio della rivoltella, mi ha spaccato i denti davanti. Io avevo soltanto perché era ottobre - la canottiera e la camicia, ero vestito estivo ancora. In carcere si diceva che si andava a lavorare in Germania. Insieme a me in cella c'è sempre stato un ragazzo che faceva il capo stazione a Migliarina. A lui era arrivata da casa una valigia con degli indumenti mentre a me non era arrivato niente e mio zio invece era addirittura in canottiera. Sapendo che si doveva andare in Germania, questo ragazzo mi ha dato un pullover blu, ma vedendo mio zio che credevo partisse anche lui con noi in canottiera, glielo cedetti e lui si ripromise di darmi qualche cosa. Sennonché quando partimmo dal carcere di Marassi e arrivammo a Bolzano nel blocco E, gli presero la valigia e quindi lui rimase con i vestiti che aveva addosso e io con la mia camicia. Non avevamo più il ricambio per nessuno. Quando siamo partiti da Genova sui camion abbiamo fatto una sosta al carcere di San Vittore a Milano. I secondini che erano nell'infermeria, mi hanno medicato un po' la schiena e il viso con degli impacchi, non so con che cosa, non mi sembrava acqua... Sarà stato borato o qualcosa del genere. Sul camion che mi portava a Bolzano eravamo ammanettati, io ero con un certo Gigli che aveva la mia età e facevamo la scuola insieme. Io non ce la facevo a stare in piedi a causa degli scossoni e tantomeno seduto perché battevo contro la spalliera e la schiena mi doleva. Le ferite cominciavano a rimarginarsi però erano dolori quando toccavo la schiena. Mi ricordo che questo povero ragazzo, Gigli, si mise di fianco a me perché non andassi a sbattere contro la spalliera. E così siamo arrivati a San Vittore, dove mi hanno fatto questo impacco, questo medicamento e poi ho proseguito per Bolzano. A Bolzano ero nel blocco E. Il blocco E è un blocco in armatura, con dei mattoni rossi: è un campo recintato dentro il campo. Il muro ad una certa altezza confinava con il capanno in cui c'erano le donne, erano le mogli dei partigiani, erano le mogli di quelli che facevano parte dei movimenti di liberazione... E’ stato lì che per la prima volta ho capito il movimento di liberazione, insomma queste cose, perché io di politica non mi sono mai interessato... A dire il vero io ho vissuto sotto il fascismo e ignoravo completamente cosa voleva dire comunismo, socialismo, ecc. Queste donne quando mi hanno visto entrare - dato che c’era un reticolato che ci divideva dalle donne – hanno visto che ero ridotto così male e qualcuna che usciva a lavorare a Bolzano negli ospedali mi ha medicato un pò. I primi giorni era molto doloroso, poi col tempo il dolore leniva lentamente. Non è che stessi bene però ero migliorato di molto. Mi sembra che siamo stati una decina di giorni a Bolzano, ora io i giorni non li ricordo con esattezza. Mi avevano dato un numero, mi pare fosse il 9712. Un giorno ci presero tutti e ci portarono alla stazione, ci imbarcano su dei vagoni merci e ci chiusero dentro. Eravamo anche lì un centinaio circa, non avevamo né da mangiare né da bere. Io sono partito da Bolzano e c'era con me Nicolai, quello che impresario edile. Le donne ci avevano dato una zampa di porco, perché c'erano anche i loro mariti che partivano con noi. Le donne invece rimanevano lì, per scappare. Difatti nel tratto tra Bolzano e Innsbruck sono fuggiti in cinque: Chiari, Nicolai, Ughetto, uno di piazza Brin, un altro che non so chi era... Toccò a me buttarmi giù, però non avevo il coraggio di farlo, sono sincero, dico la verità. La SS si è accorta dell'ombra, ha fatto fermare il treno, e con le lampade è venuta a vedere da dove erano scappati perché avevano scassato la porta del nostro vagone. Le SS lo hanno visto, hanno aperto, sono venute su, hanno cominciato a tirare calci col fucile, mandandoci indietro e a uno vicino a me hanno staccato addirittura l'orecchio con un calcio, però non era uno spezzino, era non so se era di Bergamo o di Milano, poveretto anche lui. Lì non eravamo tutti spezzini, c’erano dei milanesi, dei torinesi, dei bergamaschi... Insomma eravamo di tutte le città. Solo che qualcuno di loro aveva le valigie piene, sia di indumenti che di cibo. Noi ci siamo salvati un pò perché hanno messo a bordo due della Wermacht di guardia e quando portavano loro da mangiare, per paura che ci ribellassimo - questi poveretti erano due anzianotti della Wermacht - ci lasciavano qualche briciola di pane. Non abbiamo neanche patito la sete perché con la neve ci siamo potuti dissetare. Noi proseguimmo per Mauthausen. Arrivammo a Mauthausen alle tre del mattino, erano le tre del mattino e c'era una temperatura inferiore a tredici gradi sotto zero. C'erano i candelotti alle baracche che dal tetto arrivavano per terra, era tutto una lastra di ghiaccio, era tutto ricoperto di neve, e noi abbiamo percorso la strada dalla stazione a Mauthausen, che è in salita, tutto a piedi. Siamo arrivati là alle tre del mattino, il campo era tutto illuminato e, quando siamo arrivati, siamo entrati dalla porta principale, pertanto noi credevamo di andare in un campo di lavoro perché effettivamente non si prestava ad essere così drastica la faccenda. C'erano le garitte con le mitragliatrici, che abbiamo potuto vedere di giorno, ma di notte non si potevano distinguere. Ci hanno fatto depositare le valigie, ce le hanno fatte aprire - è lì che mi sono sentito mortificato - siamo stati mi sembra quattro giorni in viaggio, tutti affamati, e loro avevano ogni ben di Dio. Io ero in camicia e loro avevano il vestiario, nessuno si è degnato di dare una maglia, un maglione, qualche cosa per coprirmi. Non è servito a nessuno perché poi quando siamo arrivati là hanno lasciato valigie e vestiario e lo hanno preso i tedeschi. Poi ci hanno messi tutti in fila, sulla destra, dove ci sono le scale per andare giù agli spogliatoi e alle docce. Lì ad attenderci c'erano le SS con i cani e una donna delle SS con dei cani alani. Erano degli alani bianchi con le macchie nere, ma erano più alti però. L'interprete ha cominciato a dire “Qui siete in un campo di lavoro, noi non vogliamo che voi facciate atti di sabotaggio, di ribellione... Perché se un domani qualcuno di voi si permettesse... ”. Insomma ci hanno fatto una predica. Questa donna ha fatto segno al cane e il cane, che era più alto della persona a cui è saltato addosso, l'ha preso per il collo ma non l'ha ammazzato. Non gli aveva dato l'ordine di ammazzarlo, poi gli ha detto di lasciarlo. Poi ha continuato “Vi succede questo, vi mandiamo i cani dietro a riprendervi!”. Non ci ha detto del crematorio, non ce lo diceva mica, io non lo sapevo che c'era il crematorio. Sono arrivato a Mauthausen i primi di dicembre penso... Faceva freddo... Nella prima decade di dicembre, perché ricordo che a Natale ero lassù. E’ stata la prima volta che ho sentito parlare di comunisti, tutto avvenne la vigilia di Natale perché arrivò Paietta al blocco ventotto, dov'ero io. Ci hanno fatto spogliare e, per andare alle docce, bisognava scendere una decina di scalini. Quindi, nudi come eravamo, c'era chi ti dava delle nerbate. Siamo andati dentro, hanno cominciato a rasarci i capelli, sotto le braccia, sotto le nudità, e poi ci hanno mandato a fare la doccia. Se ci penso... L'acqua era tutta ad un tratto bollente, quindi dovevi scappare da lì sotto, ma non ti potevi nemmeno scansare perché prendevi l’acqua da dietro e poi, tutto ad un tratto, arrivava acqua fredda. Insomma non vedevi l'ora di uscire. E mentre uscivi, bagnato com'eri, c'era uno col pennello che ti dava delle pennellate di roba rossa sotto le braccia, sarà stato un disinfettante. Ci portarono fuori, ma lì non eravamo vestiti per niente, i vestiti li abbiamo presi al blocco di quarantena, ci hanno dato una camicia e un paio di mutande. Ebbene, siamo usciti e siamo stati lì un'ora, un'ora e mezza, anche due ore fermi in quel gelo. Per scaldarci cercavamo di stare vicini il più possibile. Quando hanno dato il via, tre o quattro persone davanti a me hanno dato una spinta a uno che non si muoveva, questo è stato il primo spezzino che ho visto cadere a Mauthausen. Mi sembrava che fosse Rossi il farmacista, era anziano. Quando è caduto per terra ha dato un colpo come se fosse stato una tavoletta, era gelato in piedi poveretto. Il primo che ho visto morire è stato lui. Ci portarono al campo di quarantena. Il campo di quarantena era fuori dal perimetro di armatura del campo centrale, è stato aggiunto dopo. Lì si trovavano i blocchi ventisei, ventisette, ventotto, ventinove e trenta. Io ero nel blocco ventotto. Poi ci hanno dato la camicia e un paio di mutande, zoccoli niente perché gli zoccoli servivano solo per quando dovevi uscire, erano tutti sulla porta. Noi siamo stati i primi a entrare in questa baracca perché era nuova. C'erano ancora i giacigli per terra, non c'erano gli scaffali, né i castelli. Stendevamo per terra questi sacchi e poi ci mettevamo testa e piedi, testa e piedi, e lasciavamo il corridoio libero per il controllo.Al centro della baracca c’era una catasta di pane. Quando ci alzavamo le coperte le mettevamo piegate in un angolo. Alla mattina c'erano gli Stubedienst che dovevano fare le pulizie. Gli Stubedienst erano persone come noi che a turno dovevano pulire. La prima settimana che sono stato a Mauthausen, fino a Natale o giù di lì, non si stava tanto scomodi perché ognuno si poteva stendere comodamente per terra e pidocchi non ce n’erano. Poi sono venuti. I capi del blocco erano divisi da noi, avevano un settore della baracca per conto loro. Il capo blocco, il vice capo blocco, ci rasava i capelli, perché a noi un giorno sì e un giorno no, una settimana sì e una settimana no, a seconda di come gli girava, ci passavano col rasoio una striscia al centro della testa. Cominciava a farsi sentire anche la fame e c’era questo pane rettangolare tedesco di patate, che faceva la muffa, lì nella baracca. Quando noi eravamo in questa baracca, le scene che si vedevano... Io ho visto padre e figlio morire per via del cibo... Il padre non mangiava la zuppa di acqua e rape che ci davano per darla al figlio, il figlio non la mangiava e sono morti tutti e due a Gusen. Con me c'era anche il dottor Negri, nella baracca. Io ero giovane e tiravo a campare, tiravo a vivere, mentre gli altri, chi aveva famiglia, chi aveva il figlio, gli anziani, si rendevano forse più conto di quello che poteva succedere, i pensieri che avevano loro a me non mi toccavano. Così giunse la settimana in cui anch'io dovevo fare lo Stubedienst. E' stato nel periodo sotto Natale. A un certo punto gli americani e i russi avanzavano. Al Lager hanno cominciato a venire quelli che ritornavano al campo principale e che erano stati evacuati per via delle avanzate degli americani e dei russi. Così cominciarono lì i primi pidocchi. Facevo lo Stubedienst con un russo, un giorno siamo andati a prendere le marmitte... Andavamo tutti i giorni ma quel giorno lì il pendio che c'era era più scivoloso del solito e con gli zoccoli olandesi che avevamo ai piedi - io tenevo la marmitta con la destra, lui con la sinistra e in più aveva una scatola di legno con della ricotta scremata, era per i kapò, era mezzogiorno – il mio compagno scivolò e mi trascinò. Sabotaggio. Qua ndo si usciva dalla quarantena per andare fuori nel campo veniva sempre uno delle SS ad accompagnarci, non erano più i kapò, eravamo seguiti da loro. Ebbene devo dire la verità, quella volta con me non è stato molto severo, anzi di fronte al kapò gli ha detto come sono andate effettivamente le cose, che io sono caduto perché il russo mi ha trascinato. Ma la punizione la dovevo subire anch'io. Così al russo hanno dato quaranta nerbate e poi doveva stare fuori dalla baracca nudo da quel momento fino alla mattina dopo, così pure io. Io con qualche nerbata me la sono cavata. Il kapò, che si chiamava Hanz, aveva la moglie, che non era una donna, era uno del triangolo rosa, ebbene in parte devo proprio la vita a lui. Sì perché quando mi hanno dato le prime frustate si è avventato contro il marito dicendo "Nein, nein, nein!" perché io ero uno dei più giovani del blocco, e si vede che mi aveva preso in simpatia, perché era proprio... A vederla sembrava proprio il viso di una donna... La sera, non so che ora era, faceva un freddo, per combattere il freddo trattenevo il respiro, mi gonfiavo più che potevo, muovevo i piedi perché ero nudo coi piedi scalzi e alle nove ormai sentivo proprio che non ce la facevo più, combinazione vuole che aprono la porta e questo qui, quest'uomo con due spezzini è venuto fuori, mi ha preso e mi ha portato dentro. Il dottor Negri mi ha subito preso dalla neve, mi ha massaggiato, mi ha fatto rimuovere, mi hanno coperto, però la schiena, che era già rovinata, mi faceva male. Non potevo stare con la schiena sdraiata. Mi cospargeva, non so se con sapone o margarina, perché non c'erano mica medicinali, e io non volevo andare al Revier, perché le voci cominciavano a girare... Il dottor Neri quando c’era l'appello mi accompagnava fuori, mi teneva… Forse era destino che io dovevo sopravvivere, perché di solito era un'ora, un'ora e mezzo che dovevi star fermo all'aperto, invece quelle mattine lì chissà come, forse era giunto all'orecchio che avanzavano i russi, più di mezz'ora non facevano. Lui cominciava dalla baracca ventisei e fino a che non aveva finito tutto dovevi stare sull'attenti fuori e non ti potevi muovere, perché se ti muovevi erano bacchettate. Insomma mi portarono dentro, mi misero le coperte. Cominciava a venire molta gente. Le razioni cominciavano ad essere molto più scadenti, perché mentre inizialmente quando siamo andati noi - io non so che ordine avessero loro perché il pane c'era, c'era una catasta di pane proprio in mezzo al blocco - i primi giorni ci davano un quarto di pane, del pane rettangolare, poi via via che la gente aumentava la razione era sempre la stessa e loro avevano una taglierina per tagliare le fette di pane. Quindi se c'erano cento persone calcolavano che il solito pane doveva bastare per tutti, dovevano venire cento pezzi. Se ce n'erano duecento, dovevano venire duecento pezzi. Adesso esagero, però grossomodo la mentalità e i pani che dovevano adoperare erano sempre gli stessi. La quantità di pane era sempre la stessa indipendentemente dal numero delle persone, non è che ci dessero sempre la stessa razione, mentre la zuppa effettivamente era sempre un litro di acqua. Così anche tra di noi c’erano delle ripicche. Poi ci siamo organizzati, anche lì abbiamo capito come si doveva fare. Il primo giorno, quando è arrivata la zuppa, ci siamo buttati subito tutti, ma dopo abbiamo capito che all’inizio ci sarebbe toccato solo un litraccio d’acqua perché le rape erano sul fondo. Allora il giorno dopo nessuno più voleva essere il primo e quindi anche tra di noi c’era una conflittualità. Allora il dottor Neri ha detto “State a sentire: noi italiani dobbiamo comportarci in maniera… Facciamo così, quanti siamo oggi? Ottanta? Va bene, i primi quaranta vanno per primi, gli altri quaranta dopo. Domani vanno loro per primi e voi dopo. Inoltre l'ultimo dei quaranta passa per primo”. E così ci si metteva in fila, non andavamo più là perché ormai sapevamo a che gruppo appartenevo. Insomma ci siamo salvati. Ci siamo salvati fino a che sono ritornati i russi e i polacchi e quegli altri… Lì è ritornato il caos, però noi avevamo trovato la maniera di risolvere questo problema. Per prendere poi cosa? Qualche rapa, qualche pezzo di rapa, qualche pezzo di patata, mentre alla sera ci davano il pane, questa fetta di pane con un po' di margarina, con un po' di würstel, con quelle fette di quel salame che hanno loro… Insomma diciamo che la razione era misera, misera, misera, perché avevi sempre fame, ma se uno stava fermo magari poteva campare forse un mese in più. A Mauthausen io avevo il numero 113986. E qui… Anche qui un problema. Come facevo io a dire in tedesco “hundertdreizehntausend…” perché loro l'ultima cifra l'anticipano alla penultima. Per me è stato un supplizio, per fortuna il dottor Negri, a forza di ripetermelo è riuscito a farmelo imparare, ma io non lo capivo quando veniva chiamato, perché io lo dicevo così volgarmente, invece loro lo dicono con un accento... Anche se era il mio numero io non riuscivo. Allora lì erano botte. Però invece se prima ne prendevo spesso, lì ne prendevo di meno. Oltre al numero mi hanno dato il triangolo rosso con scritto “IT”, italiano voleva dire, perché gli jugoslavi avevano pure il triangolo rosso, però avevano solo la “i” fatta differente dalla nostra. Avevo al polso il numero con la targhetta e un fil di ferro, non avevo il numero tatuato. E’ arrivato Natale, credevamo che ci dessero il pranzo, almeno qualche cosa in più, invece c’è stata più fame delle altre volte, ci hanno dato tre patate e basta e neanche la sera ci hanno dato la razione. Così abbiamo passato tutte le feste di Natale. Il dottor Neri dopo Natale è andato al Revier, anche gli altri spezzini sono andati via… Insomma del mio blocco, solo io ero rimasto ancora lì. Ero in mezzo a russi, polacchi, cecoslovacchi… C'erano anche degli altri: italiani, milanesi, torinesi, però di spezzini non c'era più nessuno, erano partiti tutti.? Alle tre del pomeriggio, sarà stato il 4 o il 5 di gennaio, entra dentro un graduato della SS con l'interprete, il Lager Führer, insomma c'era il capo blocco però sopra di lui c'è quello che comanda tutto il campo, almeno credo che fosse stato lui. Ci dicono "Transport Melk!", perché ogni volta che venivano per un trasporto dicevano "Transport Gusen!". Un po' preso alla sprovvista, più che altro quando entravano loro, cominciavo ad avere fifa, perché pensavo “Qui succede qualcosa, perché tutte le volte che venivano spariva la gente… Invece quella volta lì c'era un graduato della SS… Anche gli altri sentivo che bisbigliavano un po'. Poi sento chiamare “Ghianardi Mario” perché in tedesco la “g” si pronuncia “ghi”. E allora io non rispondevo. L'interprete disse “Gianardi Mario, 113986!”, “Sono presente!”, “E perché non hai risposto?”, “Scusi, io... vede io ho l’orecchio che mi fa un po’ male, non ho capito bene, mi deve scusare”. Cominciai a tremare come una foglia, tremavo... Insomma ho trovato la scusa più appropriata che mi è venuta al momento. Io avevo detto che facevo il saldatore elettrico, però il saldatore anche di leghe da farsi al banco. E lui allora mi ha chiesto “Cosa vuol dire saldatore di leghe da farsi al banco?”. Io lavoravo in un'officina di artigiani e pertanto saldavo i carter delle automobili di ghisa, di alluminio, di ottone, bronzo e alluminio, quando ho detto “alluminio” mi hanno detto “Good!”. Allora sono andato via con loro, mi hanno fatto scendere le scale, sono uscito dalla porta, dal Lager e sono andato sotto dove ci sono i vestiari. Nella piazza dell'appello c'erano tutti i magazzini. Mi diedero la giacca, un paio di pantaloni militari con le strisce. Io non avevo la giacca con le strisce, avevo una giacca, non ne avevano più di giacchette a strisce, io avevo della roba militare, però avevo il triangolo rosso sia nei pantaloni che dietro la schiena. Mi danno il cappello, gli scarponi, gli zoccoli e una gamella, poi mentre sono lì vengono altri quattro. Mi sembra che fossero due cecoslovacchi, un francese e un belga… Insomma italiani non ce n'erano, ero solo io ed ero il più giovane, loro erano persone più mature. Ci portano giù a Mauthausen, ci aspettava un vagone, un treno. E’ passata una tradotta con un treno con dei cavalli dentro, le SS ci mette dentro questi vagoni con la Wermacht, i soldati che c'erano, lui invece è salito al caldo. Di giorno stavamo quasi fermi, di notte invece si camminava. Sono arrivato all'indomani sera con questo treno così, mi sono venuti a prendere alla stazione con un camion. C’era una fabbrica, ricordo che per entrare nella fabbrica dovevo fare un ponte di ferro che aveva le arcate curve, c'era la neve, non sapevo il tedesco, non potevo leggere, era anche sera… Non sapevo dove potevo essere, se era un lago, se era un fiume... E lì al mattino subito mi hanno portato nella fabbrica. Era una fabbrica in cui i blocchi degli operai come noi che lavoravano erano nel recinto stesso della fabbrica. Pertanto ho pensato che il cibo lì non era tanto male, quindi che fosse una fabbrica belga o altro, non aveva importanza. Mi hanno subito messo a saldare delle lastre di alluminio, che erano un metro di lunghezza per due di larghezza. Cosa ne facessero non lo so perché dove c’era la saldatura, c’erano dei teloni per non danneggiare, non potevo vedere dove andavano queste parti che saldavo perché arrivavano sul carrello e io dovevo saldare, dovevo stare attento alla saldatura e basta. Il terzo giorno, senza nessun preavviso, c’è stato un bombardamento. Hanno centrato la fabbrica e io e il Meister ci siamo messi sotto la lastra del banco. E’ caduta la fabbrica per l’esplosione della bomba. Io ho battuto la testa, mi usciva il sangue dalle orecchie, ‘avevo le api’, insomma... non capivo più niente. La bomba mi è esplosa vicino. Hanno fatto un tendaggio, cioè un ospedale da campo e lì mi hanno portato insieme a questo Meister e altri. Non so quanti giorni ci possa essere stato perché non avevo la cognizione del tempo. Anche quando sono stato dimesso non ero in grado ancora di connettere come si doveva. Mi sembrava di esserci stato uno o due giorni, invece devo esserci stato senz’altro più di una settimana perché non c'erano più gli incendi, c'era molta tranquillità. Mi liberarono da questo ospedale, mi consegnarono ad una camionetta delle SS. La fabbrica doveva essere oltre Vienna, però mi hanno detto alcune volte che da lì ci portavano a Mauthausen e quindi è difficile stabilire se ero in Austria… E’ un problema che non ho mai risolto… Comunque in questa fabbrica c'erano dei civili che lavoravano con noi. Erano austriaci o tedeschi perché parlavano in tedesco, non potevano essere slavi o russi… Inoltre, lavorando all’interno della recinzione in cui c’erano le nostre baracche – non come a Vienna che dovevamo uscire fuori - non c'era un'insegna per vedere il nome della fabbrica in cui eravamo… Stavano avanzando i russi o gli americani, i campi venivano evacuati… Le SS che mi hanno preso, non mi hanno portato via, mi hanno consegnato ai primi militari a cui hanno detto di lasciarmi nel primo campo di triangoli rossi. In questo pellegrinaggio, ci fermavamo un giorno, due, tre, quattro, poi i russi o gli americani avanzavano e dovevamo evacuare. Insomma sono stato registrato dalla Croce Rossa Internazionale il 29 di aprile a Vienna. Per venti giorni ho girato ma non so dove mi trovavo. A Vienna essendoci stato due mesi, ho potuto rendermi conto un po' di più, anche della fabbrica cos'era e cosa non era. Quando sono arrivato a Vienna non c'era più da andare a saldare l'alluminio. Lì mi hanno messo a fare il saldatore elettrico in una fabbrica di autocingolati. Saldavo le ruote dei cingoli insieme ad un russo, lavoravamo dodici ore di giorno e dodici ore di notte. Nel campo dove mi trovavo per andare a dormire non c'era neppure un italiano. Erano tutti jugoslavi, polacchi, russi e io, devo dire la verità, da loro, sia dagli jugoslavi che dai polacchi non sono stato trattato per niente bene. Io stavo meglio in fabbrica che nella baracca. Sapete perché? Perché io quando ero con i miei compagni, non mi hanno mai chiamato italiano, mi hanno sempre chiamato “Badoglio”, “Mussolini”, “spaghetti”, “maccheroni”, “mandolino”… E quando c'era da prendere la zuppa dovevo essere sempre il primo. Quindi mi hanno trattato proprio male, non so per quale ragione, ero uno di loro, eppure è stato così. Stavo meglio in fabbrica anche se si mangiava poche volte, perché su Vienna un giorno sì e un giorno no c’erano dei bombardamenti. Alle 11 immancabilmente saltavamo il pasto per quella ragione lì, perché c'erano i bombardamenti. Sono stato in questo Lager dal 29 gennaio al 2 aprile, che era il giorno dell'Angelo, il secondo giorno di Pasqua. Questo lo sapevo perché il Vorarbeiter, che era un austriaco tra austriaci e italiani c'è un po' più di affinità che con i tedeschi, poi era una persona anziana e mi lasciava sempre un po' di roba dal tegamino - è stato lui a dirmi che era Pasqua. L'ho ricostruito dopo, perché non capivo il tedesco. Difatti io il 2 di aprile del 1945 sono partito da Vienna per tornare a Mauthausen, a piedi. Per partire ci hanno dato una razione, eravamo quattro per fila e io ero capofila perché mi trovavo sulla sinistra: il peso del pane e del pacco di margari na che ci avevano dato, lo dovevo tenere io, ma non avevo zaino, non avevo niente, lo dovevo portare sotto il braccio in mano. Mi costava fatica. Poi avevo anche paura che mi aggredissero… Il russo che era vicino a me, in fabbrica aveva schiacciato da una parte un cucchiaio con una lamiera in modo da fare una lama di coltello, quindi aveva la possibilità di tagliare il pane o altre cose e in più aveva la possibilità di mangiare col cucchiaio. Me lo diede e io divisi subito il pane e la margarina, così ognuno ne poteva fare quello che voleva. Il primo giorno anch'io lo mangiai convinto che il giorno dopo ce ne fosse altro. Partiamo da Vienna e sentiamo i primi colpi. Appena usciti da Vienna non abbiamo preso più la strada principale ma si passò per le campagne, in maniera da non essere di disturbo forse alle truppe che passavano, che venivano o andavano al fronte. I colpi di pistola si facevano sempre più frequenti. “Domani ci daranno da mangiare, oggi non ce ne hanno dato…” pensavo... Invece camminavamo ma niente cibo, per fortuna che da bere ne potevamo avere perché c'erano canali, c'era la neve, insomma ci potevamo dissetare. Sennonché dopo quattro, cinque giorni si cominciavano a far sentire i morsi della fame perché eravamo completamente tutti a digiuno. Allora cominciavamo a mangiare quello che ci capitava. Sapete... quelle radici, quella cicoria selvatica che fa i fiori gialli. Ci fermavamo vicino ai ruscelli per dissetarci, c'era la terra argillosa, gialla... è dolce sì... è buona la terra gialla... E c’erano i salici. I salici... Vedevo che i russi staccavano la corteccia, la masticavano, poi la rigettavano, però il succo lo inghiottivano, io ho provato, era amara, però mi sforzavo anch'io, ho pensato “Se la mangiano loro, la posso mangiare anch’io!”. Insomma poi si piantava uno stecco in terra e venivano fuori i lombrichi e mangiavamo i lombrichi. Brucavamo l'erba come le capre, come le pecore, dove si passava noi non c'era niente che poteva essere mangiato. Verso la fine mi ricordo che ho trovato un osso spugnoso in questo campo… Ah, com'era buono! L'ho tenuto per un giorno intero per mangiarlo poco per volta. Avevamo trovato una volta in una cascina il cibo che mangiavano i maiali. Ci siamo buttati tutti a capofitto, mangiavamo la roba dei porci! Man mano che ci avvicinavamo a Mauthausen, alcuni dei nostri morivano, però prigionieri evacuati da altri campi si aggregavano a noi. Un bel giorno finalmente sento "Ciao italiani!". Oh Signore, ho sentito per la prima volta dopo tre mesi parlare italiano. Era un certo Panardo di Torino. Anche lui era in solitudine, si vede che veniva da un campo disgraziato come il mio per gli italiani… Ci abbracciammo, mi sembrava già di essere a casa, poter parlare in italiano dopo tanti mesi... Insomma ci si confidava, ci si parlava. Abbiamo dormito in un granaio la sera, cioè in un fienile e ricordo che aveva preso dei granelli di non so che erba, di segala credo, si è riempito la tasca e ce li passavamo un po' per uno. Siamo stati cinque giorni insieme. Una notte scapparono quaranta russi, quaranta prigionieri. Ordine immediato: fucilazione di dieci! Uno per ogni nazionalità! Noi eravamo in due italiani, lui ritardò a venire all'appello perché era nel fieno… Era stanco, chissà poveretto quanto era più stanco di me, era un ragazzo biondo con i capelli tagliati come noi, era dei nostri, presero lui. Dopo averlo fucilato non moriva mai… Quando gli diedero il colpo di grazia persino quello delle SS è inorridito credo… Quando gli hanno dato il colpo di grazia le sue cervella sono arrivate quasi ai miei piedi… Io ero italiano, lui era un italiano, perfino la SS mi sembrava che fosse rimasta in quel momento... E così mi ritrovai solo, disperato perché il cammino da Vienna a Mauthausen è stato molto lungo, io non so i chilometri che ci potevano essere, mi ricordo soltanto che quando arrivavamo nei paesi o nelle città, non attraversavamo il paese ma andavamo per le campagne. Quindi se c'erano per dire cento chilometri ne abbiamo fatti il doppio. Arrivo a Mauthausen che ero sfinito, ma non c'era più posto. Ci portano indietro e ci fanno andare a Gusen, Gusen 1. Io quei quattro o cinque chilometri li ho fatti un po' in piedi e un po' carponi, porto ancora i segni nelle gambe, le abrasioni... La debolezza non ti coglie le gambe, prima ti prende la testa, cammini con gli occhi chiusi, sembri un sonnambulo, e poi ti prende le gambe, non avevo più forze. Allora dato che è intervenuta la Croce Rossa Internazionale erano sospese le esecuzioni, non sparavano più, non davano più il colpo di grazia, ma li caricavano sui carretti e li portavano a Gusen. Io sfinito com'ero non ci sono salito sul treno, sentivo che la liberazione doveva essere ormai vicina perché le voci bene o male arrivavano… Resistevo, resistevo, resistevo… Fino a che sono arrivato a Gusen. A Gusen era sera, pioveva quel giorno, ebbene a me sembrava di andare sotto l'acqua e di morire, pensate un po' ero fuori all'acqua e al freddo eppure mi sembrava di morire. Io sono stato uno degli ultimi a entrare nella baracca della doccia a Gusen, però di acqua io non ne ho vista, nella baracca ho visto delle ditate macchiate di sangue nelle pareti. Dopo circa un'ora che eravamo dentro ci hanno aperto, ci hanno abbracciati ma io non mi rendevo conto di che cosa era successo. Però io vi assicuro che di docce non ne ho fatte, e ancora nudo così sono andato ad un blocco di cemento di mattoni rossi. Ce n’erano due nel Lager di Mauthausen, uno era della Messerschmitt, e l'altro della Steyr, io sono andato nella Messerschmitt, nella Steyr c'era Natali e Pistelli. Questo l'ho saputo poi quando ho cominciato a riprendere conoscenza e sono stato nel campo. Lì ho conosciuto Pistelli e Natali. Io sono arrivato il 30 di aprile a Gusen, il 5 maggio siamo stati liberati, però io ero così sfinito che una volta entrato nel blocco mi sono adagiato sui castelli, il primo al pian terreno vicino alla stufa e non mi sono più mosso. Due, tre giorni prima la SS, il 2 di maggio credo, ha evacuato il campo e se ne è andata. Ci ha preso la Wermacht a Gusen, non era più la SS. Qualcuno ha cominciato a scappare. Per i russi la guerra era quasi finita, ma la liberazione proprio del campo è avvenuta il 5 maggio del 1945 perché a mezzogiorno ricordo che era passato un aeroplano a buttare i manifestini in cui c’era scritto "Siete liberi!”. Dalla parte di Linz sono arrivati i russi e dalla parte di Mauthausen sono arrivati gli americani, c'era un ponte che... E’ arrivata la liberazione! Una camionetta americana con due militari, una donna e un uomo mi sembra, io non lo so perché non li ho visti, sono entrati nel campo. Questa camionetta aveva cibo, sapone in polvere, a quei tempi io non l'avevo mai visto… Saputo che c'era da mangiare, ci siamo precipitati verso questa camionetta, come potevamo, finché siamo riusciti a prendere qualche cosa da mettere in bocca. Il giorno dopo la camionetta era coperta di cadaveri, infatti li hanno sepolti insieme a quelli che erano nel Lager. Io avevo preso la dissenteria gli ultimi giorni. Facendo un passo indietro, a Gusen, io avevo trovato Natali Pistelli, un certo Elefante e Rugia, un ragazzo di Migliarina figlio del macellaio della Pieve, lui è morto dentro i gabinetti negli ultimi giorni, il primo maggio o il due di maggio del 1945. E’ morto nei gabinetti, l'unica persona che ho visto del mio trasporto morire nei campi a Gusen. Gli americani fuori dal Lager dove c'erano le SS hanno allestito un ospedale da campo, io non mi reggevo in piedi... Mi hanno preso, mi hanno fatto delle flebo, pesavo trentadue o trentacinque chili, lo dico perché gli americani mi hanno fatto una fotografia. Mi hanno fatto delle flebo e il secondo giorno stavo ritto in piedi, insomma camminavo, poco ma camminavo, dopo sei o sette giorni camminavo abbastanza bene. Dato che avevo riconosciuto un americano figlio di napoleta ni emigrati in America, questo mi aveva detto che se gli facevo da attendente, gli pulivo le scarpe, tenevo a posto la sua roba, mi avrebbe portato in Italia quando sarebbe partito. Mi aveva regalato una fisarmonica. Un giorno mi dicono “Vai a prendere le patate!”. I tedeschi mettevano le patate nei campi coperte dalla paglia. Faceva già caldo, io non mi sentivo tanto bene, però tanto per evadere dal campo, ho detto “Vengo anch’io!”. Sono andato, a mezzogiorno mi portano una zuppa di ceci e non l'ho potuta mangiare perché avevo già la febbre alta. Ritorno al campo e combinazione c'era la partenza per l'Italia. Dovevamo andare a Mauthausen, io ero febbricitante, ma pur di andare in Italia sono partito per Mauthausen e lì la febbre è salita, allora mi hanno dato qualche aspirina perché avevo i brividi di freddo... Ci portarono con i camion a Linz e ci fanno fare una scarpata... C'era della carbonella, sa della ferrovia, con i vagoni merci... Quando sono salito ho perso i sensi e sono rotolato giù. Mi hanno portato all'aeroporto su un trimotore della Croce Rossa Italiana, sennonché, portavano gli ammalati con l'aereo della CRI, quando io sono salito sull'aereo il medico si è accorto che la mia era una malattia infettiva e allora, per non far fare la quarantena agli altri, mi ha fatto sbarcare e sono andato a finire all'ospedale di Heide, non so come si pronuncia. Era un ospedale di donne, infettivo, solo donne, eravamo io e un certo Simonelli di Tortona che era un soldato della guerra del ‘15-18. Avevo preso il tifo, prima la dissenteria poi il tifo. A lui arrivavano i pacchi, perché era un militare e mi aiutava un po', perché mi era venuta una fame… Portavo via il cibo alle donne ammalate che erano chiuse nelle gabbie, non so perché erano chiuse nelle gabbie, adesso che ci penso forse era un manicomio. Lì feci la quarantena e fu la mia salvezza perché lì mi poterono curare e tutto. Ma dal mangiare e dai patimenti della prigionia sono passato, da magro che ero, a pesare settanta, ottanta chili… Ero un mostro! Avevo gli occhi… Non ho più fotografie perché quella che avevo l'ho stracciata per non farla vedere ai bambini e a mia moglie… Avevo le sacche nere, la pancia gonfia… E’ stata la reazione del cibo… Sono uscito dall'ospedale e di fronte a questo ospedale c'era un campo di lavoratori croati e dei greci. Quando mi sono presentato, perché c'era un centro di raccolta, si accorgono che ero italiano e una donna greca anziana che aveva dei figli ha detto "Italiano, italiano!". Poveretta la mattina mi dava sempre un uovo da bere. Quindi con quello che abbiamo fatto noi in Grecia, i greci nei miei confronti sono stati molto solidali. Passa una camionetta e ci dicono "Se ci sono degli italiani si preparino a partire, perché c'è...". I militari che rimpatriavano venivano dalla Russia nei camion. Allora io chiamo questo Simonelli che era ancora in giacenza all'ospedale, viene giù e ci imbarcammo subito su questi camion. Ci hanno portato alla stazione. Dalla stazione siamo arrivati a Bolzano, da Bolzano siamo andati a Pescantina. Siamo arrivati fino a Tortona, da Tortona a Genova sono andato in treno. Quando sono arrivato a Genova, la ferrovia di Genova non funzionava e allora abbiamo aspettato sulla strada una mezzo che ci portasse verso La Spezia. Difatti passò un camion targato Livorno, con rimorchio. C'era un ragazzo che conoscevo che abitava vicino a me che veniva dalla Russia e quindi ci ha fatto salire. Io penso che siano state le ore più lunghe della mia vita, non si arrivava mai a La Spezia… Quando finalmente sono arrivato alla foce che ho visto la città, mi è venuta l'ansia proprio, arrivo in via Chiodo, c'erano dei tram che funzionavano che andavano a Migliarina. Salgo su un tram e c'è un bigliettaio proprio di casa mia. Gli ho detto “Come stanno i miei?”, mi ha detto “Tutti bene!”. Lì mi sono rilassato. Non sono andato direttamente a casa, perché mio papà soffriva di cuore, mi sono fermato da uno zio. Però la voce è arrivata prima di me, e allora quando ero lì dopo un po' è arrivato il mio papà e sono andato a casa. E' stato lì che mi sono reso conto della tragedia di noi spezzini. C’era tutta la gente ad aspettarmi perché io ero l'ultimo che sono rientrato dalla Germania, io sono rientrato il primo di agosto, dopo di me non è rientrato più nessuno. Tutti a chiedere "Hai visto mio marito?”, “No, era con me fino a Mauthausen”, “Hai visto mio figlio?”, “No”. Ho visto soltanto il povero Lucio morto a Mauthausen, non l'ho detto a loro, l'ho detto a suo fratello che lo dicesse poi a sua madre. Poi gli altri... Io ero astemio, il primo bicchiere di vino della mia vita l'ho bevuto il primo d'agosto. Come ho già detto io ero gonfio e mio papà, un po' con la farina di granoturco, un po' con il borotalco in due o tre mesi sono riuscito a tornare quasi alla normalità. Sennonché do un colpo di tosse e sono andato in sanatorio, perché avevo la tubercolosi. Ho saltato alcuni episodi di quando sono tornato a casa. Vi racconto un po' la commedia di quando sono arrivato a casa che non avevo i capelli. Non c'era una cosa peggiori per noi giovani, almeno per me, che non avere i capelli. Prima che fossi arrestato vedevo una ragazza che lavorava in farmacia. Appena arrivato questa ragazza è rimasta perché effettivamente sembravo un mostriciattolo e mi ha detto “Va bene ti preparo io…” e io ho detto “Ma non ho i capelli”, mi preoccupavo più dei capelli che della persona. “Ti preparo io delle lozioni che vedrai ti rimetteranno in sesto”. E allora lei mi preparò queste lozioni e mi diceva “Sai, bevi il rosso dell'uovo, il bianco te lo freghi in testa” e effettivamente io facevo così. In casa mia c'era un odore... Dal primo di agosto alla fine di febbraio non mi erano ancora nati i capelli. Una mattina tolgo questo strato di cerone che avevo in testa con il cotone, questa lozione, e avevo la testa tutta nera “Oh, i capelli!”. Pensate che io da giovane ho sempre avuto i capelli dritti, non erano mossi. In due mesi mi è venuta una testa piena di capelli che se vi faccio vedere una fotografia, non mi riconoscete. Finalmente ho potuto riprendere la tranquillità, la serenità. Oltre alla tubercolosi ho avuto tutte e tre le epatiti, ho la cirrosi, sono stato operato allo stomaco, sono stato malato ai polmoni, sono diabetico… Sono pieno di acciacchi… Mi si sono bloccate le dita tanto che non le posso stringere, sono stato operato perché avevo un polipo, adesso ho avuto una trombosi all'occhio destro e non ci vedo, sono un ospedale ambulante. Perché io vado sempre in giro con i ragazzi? Sarà conseguenza della prigionia o destino… Chissà!