Estratti del catalogo della mostra

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Estratti del catalogo della mostra
ARCHIVIO DI STATO DI GROSSETO
PAESAGGIO E RISORSE ALIMENTARI
IN MAREMMA NELL’EPOCA MODERNA
TRA EVO MEDIO E MODERNO
In generale si può dire che prima della grande peste del 1348, questa terra doveva essere ben coltivata, se i
raccolti di grano nella pianura grossetana erano così abbondanti, da attirare le mire espansionistiche della
Repubblica senese. Il tragico evento, che decimò almeno un terzo della popolazione europea e, a quanto
pare, non risparmiò neppure la Maremma, costituisce un vero cataclisma, non solo demografico, ma sociale ed economico per tutto il continente, con ripercussioni anche sulla storia agraria di queste zone.
La riduzione delle forze lavorative, accentuata negli anni successivi da una serie di disastrosi eventi bellici,
contribuì ad allargare i terreni paludosi della pianura e le macchie delle colline. Già nel 1370 il Consiglio
generale di Siena constatava che la Maremma era molto decaduta e la fiscalità iniqua costringeva tanti ad
emigrare. Il territorio in queste condizioni diventava sempre più insicuro, preda di sbandati, spesso forestieri, spinti a loro volta dalla fame e dalla guerra, primi fra tutti i còrsi - in fuga dalla loro isola tormentata citati di continuo nei bandi senesi.
L’unica soluzione che si trovò per far rendere queste terre – prevalentemente in mano ad enti pubblici
(Stato, comunità) o religiosi - fu l’allevamento brado, divenuto nel Quattrocento la principale fonte di reddito per grandi e piccoli proprietari e allevatori, e rimasto tale, con poche eccezioni, sino agli inizi
dell’epoca contemporanea. Lo Stato senese, con il sistema delle Dogane dei Paschi, che regolamentava e
tassava la transumanza del bestiame in discesa dall’Appennino verso i tiepidi pascoli maremmani, trovò il
modo di lucrare anche su questa pratica, che sanciva il definitivo abbandono del territorio.
Le colline più lontane dalle paludi, come quelle metallifere e amiatine, resistevano al degrado grazie all’aria
e acqua più buone, che consentivano, oltre all’allevamento, coltivazioni modeste ma sufficienti alla sussistenza: piccoli campi seminativi, oliveti, vigneti - in certe zone di buona qualità- e soprattutto castagneti, i
cui frutti erano oggetto di scambio con la pianura..
1427—Statuti di Montepescali. “ Della pena di chi non fa l’orto”
ALLEVAMENTO
E’ noto che per i Romani la carne non era un alimento fondamentale e che furono le invasioni barbariche a
portare in primo piano questo alimento. Nel nostro paese bisogna attendere la fine del Medioevo per veder
aumentare ovunque il consumo di carne e l’allevamento di bestiame, senza sapere quale fattore ha determinato l’altro. Se sino ad allora la maggior parte dei contadini e i cittadini più poveri si era cibata per lo più di
legumi, frutta e vegetali, dall’inizio dell’Epoca moderna l’abbondante disponibilità di carne e degli altri
prodotti dell’allevamento (latte e latticini, cuoio, lana) diventa indice fondamentale della prosperità di uno
Stato.
Per la Maremma, d’altronde, l’allevamento era già divenuto da tempo la principale attività, legata al dilagare della palude e della malaria in pianura e della macchia in collina. La transumanza, poi, era favorita dallo
Stato, a scapito delle coltivazioni. Non vi si dedicavano solo i mercanti di bestiame del Grossetano, ma
anche i piccoli agricoltori della collina come il metodo più semplice per sopravvivere. Ogni tipo di animale
aveva bisogno, secondo le stagioni, di un pascolo specifico, gli ovini e bovini di macchia e prato, i maiali
della macchia ghiandifera, mentre la pianura paludosa era il regno dei bufali, animali molto rustici e robusti, buoni per carne e latticini, ma anche per la trazione. La Maremma disabitata divenne in inverno
l’habitat ideale per le mandrie che dovevano nutrire la Toscana.
L’interesse dello Stato per questo settore è indicato dalla numerosa normativa, che parte dagli esordi del
governo mediceo con incentivi all’allevamento di bestiame, addirittura in un caso l’obbligo di tenere almeno due ovini castrati per podere. Ogni anno, poi si faceva un vero e proprio censimento del bestiame, detto
“ portate”. Grande attenzione era riservata ai macellai, che dovevano seguire regole minuziosissime. Nei
paesi i macelli erano però molto rari.
Chi non poteva permettersi le carni più tenere e saporite (agnelli, capretti, castrati e vitelli), si accontentava
di bestie più mature, degli scarti e soprattutto della carne di maiale, la più diffusa in assoluto, adatta anche
alla conservazione sotto sale. Il medico Giovanni Targioni Tozzetti trova questo ingrediente onnipresente
nella dieta dei maremmani nella prima metà del Settecento, sottolineandone i danni per la salute. Solo alla
fine del secolo si incrementa l’uso ed il commercio di carne bovina.
I contadini della Toscana
Il buttero
Questa pittoresca figura di guardiano a cavallo della mandrie nasce in funzione dell’allevamento
brado, praticato per secoli nella Maremma toscana e laziale. Per riunire gli animali, guidarli e catturarli era necessario un faticoso inseguimento e spesso, oltre al lungo bastone, occorreva un fucile, utile anche per la difesa dai numerosi briganti. Paragonati ai cow boys americani, ancora oggi
ne resiste una esigua schiera ad Alberese e dintorni.
CEREALI
Il frumento, insieme all’olivo ed alla vite da millenni pianta tipica dell’agricoltura mediterranea, formava la
base della dieta degli Etruschi e dei Romani, ma in varietà diverse rispetto alle odierne,. Si usavano inoltre i
cereali minori come farro e orzo. Nel tempo si è aggiunta anche la coltivazione dell’avena, fra le biade con
cui si preparava il pane meno pregiato. La pianura della Maremma, Grosseto in particolare, diventa terra
d’elezione per la grande cerealicoltura, assai redditizia nel Medioevo, quando i Senesi se ne impadronirono.
Col progredire dell’impaludamento, però, le cose peggiorarono anche nelle zone non propriamente costiere,
come Magliano. I lavori, che si effettuavano sui campi per preparare il seminativo, erano rimasti invariati
da secoli e si riducevano a “rompere, recidere, rinterrare, rinfrescare e far il solco di sementa” con aratri
primordiali, spesso ancora di legno. La produttività media si abbassò drasticamente.
In un sistema agrario, fondato sull’impiego esclusivo di manodopera avventizia, discendente dai rilievi amiatini e appenninici toscani, eccessivamente costosa nei momenti di punta dei lavori agricoli (semina e
raccolta), anche per i forti rischi di infezione malarica, e talora pure indisciplinata, l’imprenditore agricolo
precapitalista maremmano (“faccendiere”) per riuscire a sopravvivere anche nelle annate difficili doveva
possedere capitali liquidi iniziali, necessari ad avviare le colture e far fronte agli anticipi elargiti ai caporali,
incaricati di reclutare la manodopera salariata. Un certo impulso alla cerealicoltura estensiva fu dato da Pietro Leopoldo con le prime bonifiche e la liberalizzazione del commercio dei cereali, sino ad allora rigidamente controllato dal governo per timore di carestie.
Nelle zone collinari, in mezzo alla macchia, ci si limitava a seminare piccolissimi appezzamenti, faticosamente ricavati qua e là, appena sufficienti per la sopravvivenza. Non sono mancati in Maremma tentativi di
coltura del riso, come testimonia il cabreo di Montemassi, dove si parla di una risaia abbandonata presso il
fiume Bruna, mentre Giorgio Santi alla fine del 700 rammenta campi di segale sui monti fra Castel del Piano e Santa Fiora.
Bando e proibizione di non poter vendere grani e biade oltre i prezzi tassati,
da CANTINI, t. XIX, p. 40
VITE
La vite fruttifica anche allo stato selvatico ed era parte dell’alimentazione già fra le popolazioni primitive.
La sua coltivazione è antichissima e se ne trova testimonianza nelle raffigurazioni sumere, assire ed egiziane. Il vino era considerato dai Greci un dono degli dei, ed esisteva un dio del vino, Dioniso per i Greci e
Bacco per i Romani, collegato anche alla fertilità. Sono antichissime anche le tecniche di coltivazione, e di
lavorazione del vino, arrivate quasi sino ai giorni nostri. L’Italia si è presto distinta come terra adattissima
alla vite e produttrice di una gran quantità di vini di tutti i tipi, fra i più apprezzati nel mondo. Gli Etruschi
producevano e commercializzavano il vino e probabilmente ad essi ne è dovuta la grande diffusione in Toscana.
Allo stesso modo dell’olivicoltura, sul finire del Medioevo in Maremma anche la viticoltura appare in crisi
e molti vigneti inselvatichiti. Il vino era sempre inserito nel vitto ma il medico Giovanni Targioni Tozzetti
nella prima metà del Settecento osserva che “i vini delle Maremme sono quasi tutti salmastri, ed agri, perché vendemmiano l’uva non finita di maturare, al fine di salvarla dai ladri: alcune persone più comode fanno venire il vino sano per loro consumo dalle colline e dai poggi fuori di Maremma”. Pietro Leopoldo cercò
di incoraggiare la viticoltura imponendo dei forti dazi sulle importazioni di vino nella zona (vedi Motuproprio in basso).
Alla fine dello stesso secolo lo scienziato Giorgio Santi, dopo una ricognizione approfondita, segnala almeno tre zone di produzione di buon vino nella Provincia: Castel del Piano, Sorano e soprattutto Porto Ercole,
il cui vino bianco “riminese” - da vigneti già in corso di abbandono all’epoca per mancanza di manodopera
– è dichiarato squisito e pari per bontà ai vini spagnoli. Al contrario delle prime due zone, oggi al centro di
due Strade del vino, di questa coltivazione si sono perse le tracce. Le ultime viti di “riminese” sono state
riscoperte solo di recente, nel corso di un progetto di ricerca da parte dell’Università di Pisa. Ovviamente la
viticoltura che oggi si pratica largamente, e con successo, in Maremma non ha più niente a che fare con
quella del passato, ma poiché i vini autoctoni sono attualmente considerati uno dei prodotti più interessanti
della produzione agricola italiana, una ricerca su più vasta scala in tal senso non potrebbe che favorire lo
sviluppo dell’intero settore.
Nella seconda metà dell’Ottocento l’inchiesta Jacini rilevava queste varietà di viti: “… il cananiolo e
l’aleatico… comunissimi poi nella provincia grossetana ove si incontrano spesso uniti ad altri vitigni
toscani quali il sangioveto, il gorgottesco, il mammolo, ecc. L’uva di Spagna è in comune in molte
parti del grossetano… ed il vaiano (uva assai stimata per la quantità) entra pure in molti dei vini
rossi che si producono nei comuni del circondario… di Grosseto…”:
Da Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle
condizioni della classe agricola, vol .XI, t. I, Sala
Bolognese, Forni, 1986 (d’ora in poi JACINI), p.
231
CANTINI, t. XXIX, p. 218
OLIVO
L’albero d’olivo domestico, oggi elemento essenziale del paesaggio maremmano sino alla pianura, deriva
dall’olivo selvatico o oleastro, che cresce in tutta l’area mediterranea anche in forma boschiva. Proveniente
dall’area mediorientale, i primi a coltivarlo sembra siano stati i Fenici e la diffusione aumentò sempre più
tra gli Egiziani, Greci e Romani. Questi ultimi misero a punto il sistema di frangitura delle olive e di conservazione dell’olio, rimasto invariato sino all’età moderna. Tutti ne facevano un uso non solo alimentare
ma anche terapeutico, per non parlare del riscaldamento e illuminazione.
Gli Etruschi hanno coltivato l’olivo almeno dal VII secolo avanti Cristo e probabilmente da allora in poi in
Toscana tale coltivazione si è così allargata da fare dell’olio uno dei prodotti alimentari più importanti
dell’economia della regione sino al giorno d’oggi. In Maremma le testimonianze antiche parlano degli oliveti come di una parte fondamentale delle coltivazioni locali. I comuni nei loro statuti danno ampio spazio
alla coltivazione dell’olivo e spesso avevano un oliveto ed un frantoio comunale, chiamato “oliviera”.
Nell’età moderna, però, i viaggiatori che si avventurano in queste zone trovano la maggior parte degli oliveti inselvatichiti. Quasi ovunque le cure dedicate a questa preziosa pianta erano venute meno, le vecchie colture erano divenute vere e proprie boscaglie e si coglieva quel poco che veniva spontaneamente. Le uniche
zone in cui ancora spiccavano dei begli oliveti erano Campagnatico e soprattutto Seggiano, dove Giorgio
Santi alla fine del Settecento decanta la grandezza e robustezza della qualità locale nota ancor oggi con il
nome di olivastra.
Il governo toscano ha sempre dedicato grande attenzione alla coltivazione dell’olivo e all’olio, considerato
componente base dell’alimentazione popolare, tanto da far parte del paniere di prodotti da tenere sotto controllo – insieme a granaglie, biade, castagne e carne -, quindi venivano imposti censimenti annuali, le cosiddette portate, ed inoltre esportazioni limitate non solo dell’olio (anche se nella regione in genere la produzione era molto abbondante), ma anche dei polloni degli olivi, per impiantare nuove coltivazioni, e della
pollina e colombina, concimi naturali considerati i migliori per la pianta.
1775
Pianta del Romitorio denominato S. Croce esistente in Gavorrano
Il luogo di eremitaggio, interamente circondato da un muro, si trovava in un punto controverso del confine tra lo Stato
toscano e quello di Piombino. La mappa così dettagliata da riportare anche un piccolo oliveto di 7 piante, disegnate
una per una, fra campi coltivati che circondavano il singolare eremo.
ASGr
CASTAGNO
Il castagno è un maestoso albero secolare della famiglia delle Fagàcee che può arrivare ai 25-30 metri
d’altezza ed il tronco può raggiungerne 20 di diametro. Originario dell’area mediterranea è diffuso da migliaia di anni in tutto il territorio nazionale, a partire dai 200 metri sino ai 900 di altitudine ed insieme
all’olivo ed alla quercia, costituisce una componente essenziale del nostro paesaggio collinare e montano ed
un protagonista assoluto dell’economia rurale italiana. Le regioni in cui la coltura del castagno da frutto ha
assunto da tempo immemorabile maggiore importanza sono: la Campania, la Sicilia, il Lazio, il Piemonte e
la Toscana, dove “l’italico albero del pane”, secondo la definizione di Giovanni Pascoli, veniva coltivato e
potato con cura, in quanto il suo frutto, la castagna, era posto alla base dell’alimentazione di gran parte della popolazione contadina del nostro paese. Anche in Toscana le castagne costituivano una tradizionale risorsa alimentare ed economica per la sopravvivenza delle comunità. Nella Provincia di Grosseto ed in particolare nell’area Amiatina, ricca di castagneti, si sostituivano quasi totalmente ai cereali e alle leguminose.
La coltivazione dei castagni, la loro tutela e la loro produzione sono regolamentate negli antichi Statuti
comunali come quello di Castel del Piano del 1571 che ne riconosce il primato nell’economia della zona e
stabilisce i divieti e le sanzioni per le infrazioni commesse dagli abitanti. Anche sotto il Governo lorenese
la comunità di Castel del Piano, ampliata territorialmente a partire dal 1783, con le località di Seggiano,
Montegiovi, Montenero e Potentino Venturi, mantenne la stessa vocazione in materia agro-alimentare insieme al vino e all’olio.
Dal punto di vista nutrizionale, le castagne sono alimenti ad alto valore energetico, ricche di proteine, carboidrati, sali minerali e fibre. Gli usi in cucina di questo frutto sono molteplici e di lunga tradizione: possono essere lessate (ballotte), cucinate alla brace (caldarroste), essiccate; da queste ultime si ricava la farina di
castagne utilizzata per la preparazione di pane, dolci come il castagnaccio e la polenta dolce. La farina di
castagne era esportata in tutta la Maremma grossetana, dove costituiva uno degli alimenti primari dei pastori che venivano a svernare con le greggi dalle montagne appenniniche. Nel Medioevo si utilizzavano cotte o
sotto forma di infusi, per combattere emicrania e gotta; l’acqua di lessatura di foglie e bucce veniva somministrata per dolori cardiaci, mentre la farina di castagne si credeva avesse effetti antispasmodici.
BOSCO
Manna
La manna è un prodotto zuccherino che si estrae con una incisione trasversale della corteccia di frassino e
di ornello durante la stagione estiva, il succo fuoriesce e, consolidandosi, si presenta come una massa bianco-giallastra dal sapore dolce e acidulo. E’ conosciuta come quella sostanza che secondo la Bibbia fu miracolosamente inviata da Dio per nutrire gli Ebrei nel deserto. In questo ambiente naturale, infatti, la manna,
prodotta da licheni che crescono sul terreno, si presenta sotto forma di piccole masse rotondeggianti, leggere che possono essere trasportate dal vento a grande distanza, dando luogo al fenomeno detto “pioggia di
manna”.
Il Padre gesuita Leonardo Ximenes, nel 1769, collocava la manna al terzo posto nell’elenco dei prodotti più
importanti della Maremma, dal punto di vista commerciale, subito dopo il grano e il bestiame. Era molto
richiesta per le sue proprietà medicinali e veniva esportata via mare dal porto di Castiglione della Pescaia,
ma costituiva anche una delle ultime risorse per le popolazioni più povere nei periodi di miseria. Le maggiori aree boscose per questa produzione erano indicate dai vari visitatori come quelle di: Tirli, Ravi, Montepescali, Giuncarico, Sticciano. Con Motu Proprio del 18 giugno 1748, la raccolta della manna veniva
regolamentata dal governo, stabilendone i tempi ed i metodi di incisione in vari lati del tronco. Il liquido
che fuoriusciva, coagulandosi a contatto con l’aria, si fermava sotto forma di stalattite. Tale manna veniva
chiamata “Manna in lacrima”o “in cannelli” ed era più bianca e più pura rispetto a quella parte che colava
a terra e che, mischiandosi alle foglie, era considerata di minor pregio (“Manna grassa”). Per quanto riguarda la prima, rasandola con un coltello, e raccoolta in cestelli, veniva messa in commercio con il nome di
Manna di Calabria. Tale prodotto aveva un impiego molto diffuso nella farmacopea e di conseguenza era
utilizzata negli ospedali ed inserita negli elenchi dei medicinali della Regia Spezieria di Grosseto e di quella
di Orbetello. Agli inizi del XIX secolo veniva descritta come sostanza che “…purga dolcemente gli umori
biliosi e seriosi, e si prende per le malattie della testa…”. Un Editto granducale del 4 maggio 1842 emanato
per regolamentare il tema della salute pubblica nella provincia di Grosseto, annoverava nel “Catalogo delle
droghe e dei medicamenti per le farmacie di prim’ordine” anche la “Manna calabrese detta in Cannelli.” .
Pinoli
I pinoli sono semi commestibili di molte specie di pini, alberi sempreverdi che sono presenti in vari continenti dell’emisfero boreale, in aree di montagna e litorali, dove, sin dai tempi più antichi, l’uomo li ha coltivati. In Europa il miglior produttore di questi frutti è il Pinus pinea nome scientifico per indicare il pino
domestico, conosciuto anche come “pino da pinoli”. Quest’ultimo è normalmente diffuso nelle pinete litoranee che si estendono lungo le coste italiane. La raccolta delle pigne, tra le cui scaglie sono inseriti i pinoli,
avviene nel periodo compreso da ottobre ad aprile; queste vengono poi ammucchiate e lasciate ad essiccare
al sole per far fuoriuscire i pinoli, che verranno raccolti e sgusciati. Per il loro contenuto calorico, vitaminico e antiossidante, i pinoli rappresentano da sempre un vero e proprio integratore alimentare dalle proprietà
benefiche e curative e nello stesso tempo una importante risorsa economica per le popolazioni. Per questo
sia sotto il Governo mediceo che quello lorenese la conservazione delle pinete, la produzione e la raccolta
dei pinoli erano regolamentate e tutelate in modo restrittivo ed il commercio del prodotto veniva sottoposto
ad una pratica di tipo protezionistico che non permetteva l’ingresso in Maremma di pinoli o “pinocchi forestieri”. Rigidi controlli erano effettuati alle dogane e presso gli “speziali” che vendevano il prodotto e lo
impiegavano per uso farmaceutico. In Maremma la pineta più estesa, quella del Tombolo, apparteneva
all’Ufficio dei Fossi di Grosseto, fin dal 1592 e sia il pascolo praticato nell’area adibita a bandita, che la
raccolta dei pinoli, costituivano un’entrata molto importante. La pineta di Pian di Rocca apparteneva, invece, alla Comunità di Grosseto ed ambedue venivano concesse in affitto a privati o società che avevano
l’obbligo di “… con ogni diligenza invigilare la conservazione et augumento della Pineta, acciò non sia
scortecciata tagliata et abbruciata, et in qualunque altro modo dannificata…” Tuttavia l’opera di taglio indiscriminato e gli incendi dei boschi maremmani, avviati verso la fine del XVIII secolo allo scopo di alimentare la produzione del carbone, della potassa e della corteccia di sughero per la concia del cuoiame, non risparmiò neppure le pinete. Il visitatore Giorgio Santi ci fornisce una descrizione amara di tali eventi distruttivi: ”Vedemmo là i laceri avanzi della bellissima Pineta, che dall’Ombrone fino a Castiglione per un tratto
di circa undici miglia coronava il curvo Lido, e formava quasi una ghirlanda al Mare... un disgraziato incendio incominciò la degradazione di essa… fù la mano rapace di pochi uomini, fù la loro sfrenata avidità, fù
la sete di un pronto guadagno, che portò il ferro e il fuoco in quella pineta…”.
Da Giorgio Santi, Viaggio terzo per le due Provincie senesi….., Pisa, 1806,
CACCIA
La caccia è, insieme alla raccolta di piante e frutta, l’attività più antica per l’approvvigionamento del vitto
umano. Nel mondo antico è sempre rimasta libera e la dea della caccia era una delle più importanti
nell’Olimpo greco, Artemide, chiamata Diana dai Romani. Si trattava in ogni caso di civiltà agro-pastorali,
che mettevano alla base dell’alimentazione prodotti vegetali e caseari, ricavati prevalentemente attraverso
l’agricoltura.
I popoli nordici, che dopo la caduta dell’Impero romano conquistarono l’Italia, avevano invece
un’economia di tipo silvo-pastorale, praticavano l’allevamento brado e la carne era al centro della loro alimentazione. Per essi la caccia era fondamentale, e, al contrario dei Romani, regolamentata ampiamente
anche nella loro legislazione. Il re longobardo Rotari, nel suo famoso Editto del 643, prevedeva una prima
restrizione alla libertà di caccia, individuando bandite o selve riservate alle cacce reali. Queste col passare
dei secoli, fra feudalesimo e signorie, andarono sempre più aumentando di numero e dimensioni a favore
non solo dei re ma di tutti i loro cortigiani.
Tutto ciò influì non poco sulla la decadenza della piccola proprietà contadina nel Medioevo, ma in Maremma non risulta dai documenti la presenza di bandite di caccia, tranne in qualche feudo, e dagli statuti comunali appare ancora in uso fra la popolazione e regolamentata attentamente.
Nella prima metà del Settecento Giovanni Targioni Tozzetti rileva che solo i ricchi portavano un po’ di selvaggina in tavola. La verità è che per la caccia occorrevano attrezzatura (fucili ecc.), cani, cavalli e autorizzazioni non alla portata di tutti. Altrimenti era bracconaggio. Oppure, approfittando delle leggi che lasciavano una certa libertà di portare le armi in Maremma, ci si improvvisava cacciatori di animali nocivi alle
colture (lupi, volpi ecc).
Col tempo la Maremma con le sue immense macchie e paludi, ricchissime di selvaggina, divenne un paradiso della caccia anche per forestieri e nell’800 i viaggiatori testimoniano la grande quantità di cacciagione
che si poteva trovare nelle locande della zona. Per questo Leopoldo II toglie alla Maremma gli antichi privilegi e vi estende la vasta disciplina statale su porto d’armi, licenze e divieti.
Fra i cacciatori a Grosseto (1864)
Esclusi gli ufficiali incontrati in piazza, gli unici
armati in cui ci imbattemmo furono i tanti cacciatori
venuti a Grosseto per la stagione venatoria, particolarmente ricca da queste parti. Continuammo ad
incontrarli con i loro cani per tutta la strada verso
Firenze. La nostra locanda di Grosseto traboccava
di selvaggina. Sul piantito della cucina c’erano
mucchi di allodole, fagiani, quaglie, beccafichi che
passavano per le mani di sguatteri intenti a pelarli,
per finire in quelle del grande e nobile cuoco dal
panuccione bianco che li friggeva, li faceva in gratella, in stufato e arrosto. Durante il nostro soggiorno vivevamo di questi generosi volatili e quando
cercammo di variare il menù, ci accorgemmo che il
cameriere aveva le idee alquanto confuse al di là
della cacciagione.
Da W.D. Howells, in Grosseto e la Maremma.Viaggi e viaggiatori 1790-1910, Città di Castello, 1995, pp. 56-57
PESCA
La Maremma ha rivestito sempre un ruolo di basilare importanza nella vita economica dell’entroterra toscano grazie alla naturale possibilità di sfruttare il suo potenziale agricolo, pastorale e ittico. La pesca, una delle più antiche risorse alimentari insieme alla caccia, fu esercitata fin da epoche remote lungo le coste
dell’Etruria. Ne sono testimonianza importanti reperti archeologici. Il mare nostrano era ricco di palamiti,
dentici, merluzzi, acciughe, saraghi, triglie, murene, orate, gronghi, aragoste, spigole, sogliole, cefali e molti altri pesci descritti dai vari visitatori in infinite varietà. Particolarmente proficua era la pesca delle acciughe e delle sardine: fresche venivano vendute ai paesi del litorale mentre salate e sistemate in botti e barilotti divenivano merce ricercata. Pesci e carni salate hanno costituito per anni rifornimento alimentare per la
popolazione e per le truppe militari stanziali e di transito.
Uno dei principali prodotti ittici destinato a durare a lungo era il tonno, che tagliato a pezzi, veniva poi conservato sotto’olio. La più antica ed importante tonnara del litorale maremmano era quella di Porto Santo
Stefano, soppressa nel 1884 perché ostacolava l’entrata nel porto delle navi militari. Le condizioni di pescosità del mare e la profondità dei suoi fondali anche a pochi metri dalla costa, hanno fatto sorgere numerose peschiere fin dall’antichità. Lo scopo dei vivai era di spostare la pesca dal mare aperto in luogo sicuro
e renderla così più cospicua ed abbondante.
Lo stagno di Orbetello ed il lago di Castiglione della Pescaia, denominato in epoca romana Lacus Prilis
sono stati importanti bacini ittici sin dall’epoca etrusco - romana in quanto avendo entrambi diretta comunicazione con il mare, il primo attraverso il fiume Albegna, il secondo attraverso il Bruna, permettevano, con
il ricambio naturale di acqua dolce e salata ed una maggiore ossigenazione, l’ accrescimento dei pesci
(tinche, lucci, anguille, capitoni, muggini, spigole).
Il lago di Castiglione della Pescaia particolarmente vocato alla pesca ed all’allevamento ittico fu nel corso
dei secoli una risorsa economica di grande valore per i governanti senesi, medicei e lorenesi, i quali unitamente a speculatori ed imprenditori commerciali, che scendevano da ogni parte della Toscana, si garantivano privative sul lago e sulla pesca, nonchè lauti guadagni. Il vero mercato ittico di pesce di lago e di mare,
era ubicato alla Badiola dove insisteva anche un edificio chiamato “friggitoria” nel quale le anguille pescate
venivano salate ed esportate in grandi quantità di barili.
SALE
Il sale comune, quello da cucina che consumiamo tutti i giorni, è un elemento che risulta indispensabile alla
sopravvivenza del nostro organismo se assorbito regolarmente e in dosi minime. L’uso eccessivo, infatti,
può essere dannoso quanto l’esserne carenti. Il suo impiego come condimento ed agente di conservazione e
la sua caratteristica di risorsa alimentare universale ha accompagnato gli uomini di qualsiasi continente fin
dall’età neolitica. A partire dal Medioevo trovò impiego in numerose attività economiche e originò intensi e
continui traffici dai luoghi di produzione a quelli di consumo, sviluppando, oltre al rilievo commerciale,
una capillare rete di interessi fiscali e politici a vantaggio dei governi e delle classi dirigenti.
Per la Repubblica senese di cui la Maremma faceva parte, la necessità di approvvigionare il mercato cittadino e conquistare il monopolio di vendita del sale divenne una componente rilevante nella strategia di espansione del proprio dominio militare ed economico verso la Maremma, territorio molto ambito per le sue risorse naturali e per i suoi approdi marittimi; ma anche i governi successivi, pur se in misura minore, cercarono di sfruttare questa attività di estrazione. Un esempio è costituito dalle Saline delle Marze realizzate in
vicinanza di Castiglione della Pescaia durante la Reggenza lorenese, alla metà del XVIII secolo, le quali
dopo circa un trentennio cessarono, però, la loro attività. In numerosi documenti medievali senesi sono citate frequentemente alcune località del litorale maremmano come centri di produzione del sale: Abbadia al
Fango, ubicata sul Lago Prile, l’attuale padule della Diaccia Botrona; le Saline di Grosseto presso la Torre
della Trappola; le saline di Talamone, ubicate nella baia in prossimità del porto e, dopo la conquista di Orbetello da parte della repubblica senese nel 1414, le saline della laguna orbetellana.
Pianta di una parte del Littorale Toscano dependente dalla Fortezza di Grosseto compreso trà lo Stato dei Regj Presidj, ed il Principato di Piombino, Pietro Conti, 1793
acquerello su carta ripiegato; 74x30 cm
OTTOCENTO
Questo è il secolo del Risorgimento della Maremma, quando bonifiche e miglioramenti colturali ne hanno
cambiato il paesaggio e l’economia, dando al suo popolo anche l’entusiasmo per partecipare alla nascita del
nuovo Stato italiano. Per prima l’area collinare maremmana - con la ripresa economica collegata alla politica leopoldina della seconda metà del Settecento - era stata interessata da notevoli cambiamenti sociali, economici e paesaggistici, che videro un ulteriore frazionamento del possesso e una maggiore diffusione della
piccola e media proprietà con un incremento delle stesse case coloniche.
In pianura invece la maggior parte dei possidenti - spesso di nuova immigrazione dall’Appennino -, sulle
terre acquisite non aveva pensato a fare coltivazioni dispendiose o grandi lavori di miglioria, ma continuava
per lo più a sfruttarle con la cerealicoltura estensiva e con l’allevamento brado o semibrado. Non è un caso,
ad esempio, se nel 1811, nel comune di Grosseto (esteso ad Alberese, Batignano, Grancia, Istia), erano censiti i solo 3 poderi (Vigna del Pepi, Mulinaccio e Pratini) e ben 123 tenute non appoderate (comprensive
persino di porzioni di pineta) e appartenenti ad una quindicina di famiglie, che possedevano i due terzi dei
beni dell’intera comunità; e, ancora al censimento del 1841 risultavano solo 5 famiglie di mezzadri (di cui 4
a Batignano e 1 ad Istia).
La mezzadria - unica forma di conduzione agraria che non obbligava a consistenti anticipi in contante, dato
che il colono veniva ricompensato del suo lavoro con la metà del raccolto -, per quanto da più parti invocata, non era mai attecchita nelle pianure malsane maremmane, dato che presupponeva un terreno già bonificato e un’agricoltura intensiva. I fratelli Bettino e Vincenzo Ricasoli, per primi la introdussero nelle loro
fattorie di Barbanella e Gorarella, dando impulso ad un cambiamento epocale. Nella zona costiera, dunque,
i segni di un progressivo miglioramento civile si cominciarono a percepire solo a metà Ottocento, dopo la
bonifica integrale di Leopoldo II e l’esempio di moderna imprenditoria agraria (secondo i canoni della
gran coltura meccanizzata) offerto anche da quest’ultimo sovrano con l’acquisizione delle due tenute modello dell’Alberese e della Badiola. La Maremma si avviava ad essere una terra d’avanguardia dal punto di
vista agrario ed il suo paesaggio inospitale iniziava ad essere domato dopo secoli di abbandono, avvicinandosi a quello che conosciamo oggi.
Gli operai avventizi che scendevano in Maremma da ottobre a luglio, si dividevano i lavori a seconda delle regioni di
appartenenza: gli abruzzesi eseguivano opere di terra e coltivazione; i marchigiani il trasporto ed il taglio dei foraggi; i
toscani il taglio delle macchie, i carboni e la potatura degli olivi. Questi operai venivano impiegati e pagati a giornata
ed i contratti non avvenivano mai tra proprietari e coltivatori ma attraverso intermediari denominati “caporali”. I lavoratori generalmente si raggruppavano in: scelte (composte da uomini abili e robusti); bastarde (altri uomini e donne);
monelli (bambini). I componenti di tali gruppi ricevevano un salario diverso che andava dai venticinque soldi per i
migliori lavoratori, a dieci per i fanciulli. La retribuzione aumentava con la stagione della falciatura.
CONDIZIONI DEGLI OPERAI STAGIONALI
… oltre il salario insufficiente, vivono anche in cattivissime condizioni di abitazione e non buone di nutrimento e senza nessuna cura e nessun conforto della vita..., isolati da ogni commercio umano, rosi dalle malattie, sono dei martiri
incoscienti del benessere dei cittadini. Questo abbandono, nel quale è lasciato il primo fattore dell’agricoltura, ossia
l’uomo là dove la sua rarità dovrebbe invece fargli una posizione privilegiata, è una delle tante cause, e non minore,
che cospirano a mantenerla in così deplorevole stato….
Da JACINI, p. 91
COSA SI MANGIAVA
Per quel che riguarda l’alimentazione, nella zona del monte predomina il granturco; deficienti i condimenti, rara la
carne, rarissimo il vino, se nonché il frumento viene maggiormente usato, e per la diffusa coltivazione del castagno,
la farina del frutto di questa pianta si associa agli altri alimenti. Di 6 comuni dei quali la zona consta, in 4 il vitto
ordinario è il granturco ridotto a pane e polenta; in 5 la polenta di farina di castagne, e il grano per i mesi estivi; in
3 i legumi; in 1 il vino; in 1 la carne ovina; in 1 la suina; in 1 i salumi; in 1 il formaggio; in 1 il vinello.
Nella zona del colle le analogie con la provincia di Roma continuano con qualche miglioramento. Il granturco vi è
meno usato. Degli 11 comuni dei quali è composta, solamente in 1 il vitto del coltivatore si basa sul granturco; in 2
sul grano; in 8 sul granturco d’inverno, e sul grano d’estate; in 8 vi si aggiungono i legumi; in 2 le patate; in 4 gli
erbaggi; in 1 io fichi freschi e secchi; in 4 la farina di castagne; in 6 si usa la carne ovina; in 2 la suina; in 1 poca
vaccina; in 3 i salumi; in 2 il pesce fresco; in 1 la caccia; in 1 pollami e uova; in 2 latticini diversi e formaggi; in 4 il
vino.
Nel piano le condizioni di nutrimento si mostrano anche in questa provincia meno buone che nel colle, per le stesse
ragioni per le quali questo fenomeno si manifesta nel Lazio, pur nullameno sono anche per questa zona un poco migliori che le corrispondenti della provincia vicina. Ed infatti di 3 comuni in 2 il coltivatore si alimenta esclusivamente
di grano; in 1 di grano e granturco; in 1 di legumi, carne ovina e poco vino.
Ibidem, p. 795
GENOMA VEGETALE E ANIMALE
Aglio Rosso Maremmano
Albicocco canino
Avena marzolina scura
Biancospino
Castagna bastarda rossa
Castagna cece
Castagna marrone
Castagna marron buono
Castagna marron picciolo
Castagno bastardo nero
Castagno bellone
Castagno codino
Castagno domestico
Castagno Federico
Castagno Gregorio
Castagno luccichente
Castagno marron pazzo
Castagno pastinese
Castagno rossolino
Castagno San Matteo
Cece rugoso
Cetriolo bianco
Ciliegio acquaiolo
Ciliegio avorio
Ciliegio maggiolo
Ciliegio marchiale
Ciliegio nero
Ciliegio papale
Corniolo
Erba cavallona o Saffraga
Fagiolo Ciavattone di Sorano
Fagiolo diavolo
Fico biancuccio
Fico bifero
Fico dottato
Fico fiorona
Fico pisano o castagnolo
Fico rosso
Fico verdone
Fungo Lingua di bue
Fungo Ordinale
Fungo Rossella
Fungo Russula cyanosantha
Giunco
Grano verna
Granturco rosso dell’Amiata
Insalata tradizionale
Lattuga Cappuccio locale
Melo Briaco
Melo campagna
Melo canario
Melo gerbona
Melo giallo e rosa
Melo invernale
Melo limone
Melo Panaria
Melo regato
Melo roggia
Melo rossello
Melo tardito rosso
Melo verdognolo
Menta piperita spontanea
Noce locale
Nocciolo
Olivo varietà Olivastra seggianese
Olivo olivone di Semproniano
Olivo Giogliaio
Pero biancuccia
Pero brutto ma buono
Pero caravello
Pero coscia
Per del buon cristiano
Pero del Curato
Pero de Santa Lucia
Pero locale
Pero stivo
Pero fiaschetto
Pero montiglione
Pero moscatello
Pero nobile
Pero roggia
Pero rossello
Pero selvatico
Pero sementino
Pero spino
Pero vernereccio
Pero vernino
Pero volpino
Pesco biancuccio
Pesco di vigna
Pomodoro da inverno
Prugnolo
Ribes rosso
Rosa rugosa
Sambuco
Sanguinello
Segale locale
Sorbo
Sorbo selvatico
Spinacio selvatico
Susino a frutti piccoli
Susino coscia di monaca
Susino goccia d’oro
Susino melaiolo
Tiglio di Angiolino
Trifoglio alessandrino
Uva spina
Vite Trebbiano rossetto
Vite Abrusco
Vite Aleatico
Vite Barbera
Vite Brunellone
Vite Malvasia Bianca
Vite Mammolo
Vite Moscatella Bianca
Vite Moscato nero
Vite Ravanese
Vite Riminese
Vite Sangiovese montanito
Vite Vaianone
Vite Verdea
Zafferano
.
Asino dell’Amiata
Bovino maremmano
Capra de Montecristi
Cavallino di Selvena e Monteruffoli
Cavallo maremmano tradizionale
Cavallo Maremmano linea Ussaro
Coniglio nostrano dell’Amiata
Pecora dell’Amiata
Suino macchiaiola nera