M. Blondel, L`azione. Saggio di una critica della vita e di

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M. Blondel, L`azione. Saggio di una critica della vita e di
M. Blondel, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi. a cura di Anna Rita Pedace Per Blondel la volontà è il principio essenziale dell’uomo e di ogni altra realtà: questa affermazione è assunta da Blondel in modo così radicale da costringere la ragione ad assumere un ruolo secondario. Il mondo esterno, il corpo dell’uomo, infatti, si manifestano e si realizzano grazie alla loro volontà che riceve, sotto forma di costrizioni e di limiti, i prodotti stessi del suo atto. Tema centrale del lavoro di Blondel é proprio l’azione intesa come manifestazione della volontà. L’azione e la volontà sono sviluppate nella sua opera principale del 1893: L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique. Quest’opera, la più nota ed importante, fu composta per il pubblico degli studiosi dell’Ecole Normale di Parigi, frequentata da una élite di intellettuali in grado sia di afferrare il linguaggio scolastico adoperato sia di capire le fonti del discorso blondeliano. L’Azione si articola in cinque parti che presentano un andamento ascensionale1. L’introduzione analizza il problema del senso della vita, la conclusione, invece, quello religioso cioè della salvezza. La parte introduttiva si apre con un interrogativo che contiene al suo interno tutto il pensiero blondeliano: “La vita 1
L’opera parte da una posizione del problema che rimanda a quello morale e culmina in quello della
volontà, temi trattati nelle prime due parti dell’opera costituite da due capitoli. Viene analizzato il
fenomeno dell’azione dalle origini fino al suo sviluppo. Questa indagine si estrinseca attraverso il
meccanismo della vita, per questo Blondel esaminerà le cinque tappe che troveremo nella terza parte
dell’opera: “Il fenomeno dell’azione. Si cerca di definire l’azione con la sola scienza e di circoscriverla
nell’ordine naturale”. Nell’azione, si rivela la volontà come conflitto tra volontà volente e volontà
voluta, tra ciò che la volontà vuole e ciò che riesce a realizzare. I risultati sono sempre inadeguati, vi è
un divario nell’uomo tra ciò a cui aspira e il carattere precario e incompleto delle realizzazioni. Tale
argomentazione è oggetto di analisi della quarta parte dell’Azione: “L’essere necessario dell’azione. I
termini del problema del destino umano sono posti per forza di cose e volontariamente”. Constatato che
nell’uomo sussiste una inadeguatezza e questa, a sua volta, lo spinge ad un piano di
autoperfezionamento, egli passa da una tappa all’altra (dalla famiglia, alla patria e all’umanità),
assumendo la testimonianza della sua libertà, ma anche della sua incapacità a giungere con le proprie
forze interiori a una autorealizzazione. Questo divario apre la via all’esperienza morale e religiosa.
Infatti l’uomo, per Blondel, ha bisogno dell’azione di Dio per raggiungere l’adeguazione tra la volontà e
la sua realizzazione. Perciò l’azione passa dall’ordine naturale all’ordine soprannaturale. Questa
argomentazione avrà il suo punto d’arrivo nella parte quinta della tesi blondeliana: “Il compimento
dell’azione. Il termine del destino umano”.
1
umana ha o non ha un senso? E l’uomo ha un destino?”2. La domanda pone la necessità di una scelta radicale, da stabilire fin dall’origine, tra l’affermare o il negare che la vita dell’uomo abbia un senso ed un destino. Dall’introduzione si evince che Blondel considera l’azione come un fatto e non un semplice dato empirico: “Stando all’evidenza immediata, l’azione nella mia vita è un fatto, il più generale e il più costante di tutti, l’espressione in me del determinismo universale; essa si produce anche senza di me. Più che un fatto, è una necessità, che nessuna dottrina nega, perché questa negazione esigerebbe uno sforzo supremo, che nessun uomo evita”3. Considerare l’azione un fatto e non un dato significa mettere in evidenza la genesi attiva dell’azione, quindi cogliere l’azione nel momento del suo fare, della sua genesi, e non come un qualcosa di già costituito, già dato. Inoltre l’azione è un tentativo di ricostruire la realtà intera in tutti i suoi stadi, basandosi su un unico motivo dialettico, ma Blondel, diversamente da Hegel, valuta la dialettica come questione della volontà e non della ragione. Ciò che consente lo sviluppo è il contrasto tra volontà volente e volontà voluta, tra ciò che la volontà vuole e ciò che riesce a realizzare. Quest’opposizione esprime l’infinita insoddisfazione della volontà e la componente costante dell’azione. “I termini del problema dunque sono nettamente opposti. Da una parte tutto quello che domina e opprime la volontà; dall’altra la volontà di dominare tutto, o di poter ratificare tutto: perché non c’è essere dove non c’è che costrizione. Come risolvere allora il conflitto? […] La prima strada si impone, e può essere praticata da tutti. È la via pratica. […] L’oggetto del presente lavoro deve essere precisamente questa scienza della prassi”4. A tal proposito Blondel sostiene che “Prima di discutere le esigenze della vita, […] è necessario essere sottomessi a esse. […] Io sono e agisco, anche mio malgrado; e mi vedo obbligato, sembra, a rispondere di tutto ciò che sono e che faccio”5. Il 2
M. Blondel, L’action. Essai d’une critique de la vie e d’une science de la pratique, Paris, Alcan, 1893,
trad.it. L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Milano, San Paolo, 1993,
p.65. L’edizione italiana da me usata è stata curata da Sergio Sorrentino.
3
Ivi, p.66.
4
Ivi, pp.67-68.
5
Ivi, p.68.
2
nostro filosofo, quindi, accetta senza ribellione questa costrizione perché è l’unico metodo diretto che gli consenta di verificare quanto accade. Per questo afferma: “L’azione è una necessità; agirò. Spesso l’azione mi appare come un obbligo; obbedirò. […] Ho bisogno di una verifica personale, e lo farò a ogni costo. Nessun altro può fare al mio posto questo controllo; ne va di me e del mio tutto; è la mia persona e tutto me stesso che metto in gioco nell’esperimento”6. Il paragone sta piuttosto ad indicare la necessità di agire per verificare le ipotesi della vita. Allora il nostro autore perviene ad una delle affermazioni più importanti della sua tesi: “Questo organismo di carne, di appetiti, di desideri, di pensieri, di cui sento perennemente l’oscuro lavorio è un laboratorio vivente: ecco dove deve formarsi la mia scienza della vita”7. Per giungere alla constatazione che l’azione è come una prova di laboratorio, dove vanno verificati diversi elementi e dove si riceve la risposta certa, Blondel inserisce l’esempio dello scienziato sostenendo che “anche lo scienziato […] non sa in anticipo quello che cerca, e tuttavia lo cerca; proprio precorrendo i fatti, egli li raggiunge e li scopre; non sempre aveva previsto quello che trova; […] Nella vita vi sono continuamente esperimenti belli e pronti, ipotesi, tradizioni, precetti, doveri che dobbiamo prova di laboratorio in cui, senza mai comprendere nei particolari le operazioni, ricevo la risposta certa che nessun artificio dialettico può surrogare”8. L’affermazione blondeliana relativa allo scienziato che ignora in anticipo quello che cerca nel laboratorio, deve essere considerata prudentemente perché lo scienziato ha una sua ipotesi da sperimentare, verificare, per cui non è vero che non sa quello che cerca. Quindi Blondel si riallaccia alla trattazione della sperimentazione morale offrendocene una delucidazione: “La sperimentazione morale, come ogni altra sperimentazione, deve essere un metodo di analisi e di sintesi: il sacrificio consiste in quest’analisi reale la quale, mortificando gli appetiti troppo imperiosi e troppo noti a tutti, mette in evidenza una volontà superiore, che sussiste solo nell’opporre loro resistenza”9. 6
Ivi, p.69.
Ibidem.
8
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p.70.
9
Ibidem.
7
3
Così Blondel, affrontando il problema della sperimentazione morale, stabilisce la necessità di porre il problema speculativo della prassi. “Risulta dunque evidente perché è legittimo, e diviene addirittura necessario, porre il problema speculativo della prassi. Si tratta adesso di esaminare come si pone”10. Il presupposto dell’Azione blondeliana è rivolto alla considerazione che solo l’azione può fornire la chiave di ciò che l’uomo è e deve essere: “Bisogna trasferire nell’azione il centro della filosofia, perché là si trova anche il centro della vita”11. Per Blondel, infatti, è molto importante studiare l’azione “perché essa manifesta in uno la duplice volontà dell’uomo”12, ossia la volontà voluta e la volontà volente. Inoltre l’azione “costruisce nell’uomo una sorta di mondo che è sua opera originale, e che deve contenere lo svolgimento completo della sua storia, il suo intero destino”13. La domanda iniziale, e cioè se la vita ha un senso oppure no e se l’uomo ha un destino o no, da cui scaturisce tutta l’Azione blondeliana, esige un’argomentazione chiara per una risposta positiva, dato che sia il dilettante esteta sia il nichilista hanno la pretesa di rispondere ad entrambe le domande negativamente. Nella prima parte dell’Azione Blondel prova a porsi anche a monte della domanda stessa e, in qualche modo, potremmo dire che problematizza il problema stesso: “Esiste un problema dell’Azione?”14. Tale domanda richiede, per poter procedere ad una risposta, come percorso, di passare dall’ipotesi che l’azione non si ponga proprio e interrogarsi, come dice Blondel, “In che modo si pretende che il problema morale non esista”15. Blondel, infatti, sostiene che “Il problema del nostro destino è enorme, persino doloroso quando si ha l’ingenuità di credervi, e di cercarvi una risposta qualsiasi, epicurea, buddista o cristiana: è necessario non porlo affatto”16. Il nostro filosofo sostiene che il dilettante sia l’esteta, perché il dilettante è colui che si dedica a qualsiasi attività per diletto o per pura passione quindi sperimenta per il solo piacere di dilettarsi; infatti, come afferma Blondel nell’Azione, l’esteta è colui che cerca una nuova formula mediante nuove esperienze. Per questo Blondel, nella sua opera, considera che il dilettante sia l’esteta. Egli comunque 10
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p.73.
Ivi, p.77.
12
Ivi, p.78.
13
Ibidem.
14
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p.81.
15
Ivi, p.83.
16
Ibidem.
11
4
delinea la pretesa da parte del dilettante esteta di negare che si ponga un problema dell’azione. Si nota come questa negazione non è così semplice come si crede: essa rappresenta in ogni caso una soluzione, “è vero che la cosa non è così semplice come s’immagina a prima vista; perché anche l’astensione o la negazione costituisce una soluzione”17. Pertanto l’esteta cerca di non scegliere né a favore, né contro, ma di esitare in modo continuo e indefinito tra le componenti della soluzione, «oui ou non», dando l’impressione di comprendere nello stesso momento ambedue e nessuno dei due. “Dunque non c’è verità che nella contraddizione, e le opinioni sono sicure solo se uno le cambia; purché non si faccia della stessa contraddizione e dell’indifferenza un nuovo idolo”18. La contraddizione non rimane solo legata al pensiero, ma stringe anche la sensazione e l’azione. Il contrasto stimola la sensazione ma contemporaneamente la consuma, affrettando la disgregazione della persona morale: “non vi sono più sentimenti semplici e sinceri, non vi è niente di reale e quindi niente di bene o di male”19. All’esteta non resta, per sfuggire alla verità sconfortante della sensazione, che moltiplicare le sensazioni sfuggendo la stessa semplicità. “Come dunque variare e moltiplicare a sufficienza le nostre sensazioni per sfuggire alla verità fallace delle impressioni semplici e all’ingannevole lucidità della vita?”20. Questa volontà dell’esteta di negare se stesso non è semplice, ma duplice, come chiarisce Blondel nel secondo capitolo della prima parte dell’Azione. In questo capitolo mette a tema la volontà: “Come e perché si fallisce quando si pretende di rimuovere il problema morale”21. “Nella sua stessa nolontà egli discernerà una duplicità volontaria. Non volere nulla tout court sarebbe bello, se fosse uno stato semplice; senza essere disturbato da nessuna riflessione, lo slancio spontaneo della vita e della curiosità procederebbe perfettamente in linea retta, non si sa dove, senza ritorno né ripiegamento della coscienza. Ma questa semplicità e questo candore, questa nescienza e questa abnegazione di sé non sono affatto virtù consuete degli spiriti raffinati; e non potrebbero esserlo dal momento che essi si compiacciono della loro sottigliezza: perché ogni conoscenza distinta di una disposizione interiore suppone la coscienza di 17
Ibidem.
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p.85.
19
Ivi, p.89.
20
Ibidem.
21
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p. 95.
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5
uno stato contrastante, grazie a questa legge scientifica che essi ricavano dagli associazionismi e che chiamano della discriminazione”22. Si coglie da questa affermazione che per Blondel è proprio l’atteggiamento di indifferenza, cioè di non volontà, che non mette a tema la volontà in generale in quanto sostiene che nella nolontà si conoscerà una duplicità volontaria. Nel procedimento filosofico Blondel accoglierà l’istanza della psicologia fisiologica del suo tempo stabilendo la legge di discriminazione che affonda le sue radici nella teoria psicologica dell’associazionismo. L’associazionismo, teoria particolarmente diffusa verso la fine dell’Ottocento che trae le proprie origini dalla filosofia empirista del XVII e XVIII secolo23 e che sostiene che qualsiasi evento psichico complesso scaturisce da associazioni di idee semplici, atomiche. Pertanto la legge della discriminazione ipotizza che un soggetto apprende a rispondere in modo diverso a stimoli simili. L’importanza di questa legge è notevolissima, in quanto permette al soggetto di isolare stimoli specifici (discriminazione propriamente detta; infatti, grazie a questa legge, si impara a leggere in maniera diversa la “A” dalla “O”). La legge della discriminazione è un’aggiunta a quella psicologica di generalizzazione, secondo la quale una risposta, che segue il rinforzo dopo aver ricevuto uno stimolo, viene ricordata non solo da questo stimolo ma dall’insieme degli stimoli vicini. Blondel conferisce notevole importanza alle leggi della discriminazione (anche se fino ai giorni nostri la rilevanza della legge di discriminazione è stata messa in secondo piano) e dell’associazionismo, allorquando affronta il tema della coscienza. La psicologia sperimentale, infatti, con la legge di discriminazione, stabilisce l’impossibilità dell’omogeneità e dell’assolutezza degli stati di coscienza. Alla luce di quanto affermato, Blondel critica la pretesa di negazione dell’esteta dilettante fondandola sulla base delle leggi psicofisiologiche raggruppate dall’associazionismo e utilizzate dal dilettante. Egli vuole spiegare in modo implicito il suo errare perenne senza avvedutezza tra situazioni scelte, opinioni e momenti di coscienza contrastanti. Pertanto, sviluppando il tema della coscienza psicologica e 22
Ibidem.
D. Hume servendosi della teoria dell’associazione delle idee di Hobbes (Leviathan, cap. III) e Locke
apre la via all’associazionismo in filosofia che già Platone aveva intuito. Questa teoria sostiene che tutto
ciò che c’è di spirituale nell’uomo si risolve nell’associazione (continuità, contrasto, etc.) di idee
atomiche.
23
6
aprendolo alla meditazione filosofica, il nostro filosofo si introduce negli elementi della contraddizione senza però eliminarli. Quando l’esteta afferma «io non voglio volere», questa frase si può comprendere solo con un’altra più esclusiva che è implicata nella prima, nonostante le sia contraria, «io voglio non volere», comunque è necessario affermare che vi siano contemporaneamente due diversi piani “uno voluto, l’atto che esprime esternamente la volontà, quod voluntatis objectum fit; e uno volontario, l’atto che esprime originariamente la volontà, quod procedit ex voluntate”24. L’atto voluto è quello che decide dell’accordo o disaccordo, visto che l’atto volontario si origina in esso. L’azione è quindi la sintesi della volontà voluta e della volontà volente, ma questa connessione avviene in modo implicativo: “l’azione deriva il suo carattere dalla volontà voluta che realizza, senza per questo cessare di fondarsi sul volere primitivo che perverte”25. Ossia l’azione realizza la volontà voluta, sia che essa accordi, sia che discordi con la volontà volente. Al termine della nostra trattazione, relativa alla prima parte, rinveniamo il termine haplos riferito alla spiegazione conclusiva della volontà voluta dell’esteta: “Per svelare questo gioco di prestigio è bene richiamare alla mente che, a seconda che appartengano al linguaggio del soggetto o a quello dell’oggetto tutte le parole hanno un duplice senso opposto che apre al pensiero innumerevoli scappatoie: così nessuna delle negazioni del dilettante potrebbe avere un significato semplice, haplos, perché ognuna di esse contiene sempre il contrario; ciò che allo sguardo dei sensi non è nulla, allo sguardo dello spirito sembrerà tutto, e viceversa”26. Infatti nelle negazioni del dilettante esteta sussiste il contrario delle negazioni stesse, quindi per Blondel esiste una contraddizione alla base che fa in modo che queste negazioni non siano semplici. Come nella prima parte abbiamo assistito ad una pretesa di negazione così avviene nella seconda parte intitolata: “La soluzione del problema dell’azione è forse negativa?”27. Il nichilista cioè vuole avere la pretesa di affermare che la meta ultima 24
S. D’Agostino, Dall’Atto all’Azione. Blondel e Aristotele nel progetto de “L’Action” (1893), Roma,
Editrice Pontificia Università Gregoriana, 1999, p. 263; inoltre confronta M. Blondel, L’Azione. Saggio
di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p. 261.
25
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p.102.
26
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p.103.
27
Ivi, p.107.
7
dell’uomo sia il nulla: “Come si pretende di fare del nulla la conclusione dell’esperienza, il termine della scienza e il fine dell’ambizione umana”28. Nell’affermazione: “Se dunque c’è antinomia tra il determinismo dei movimenti e la libertà delle intenzioni; se il formalismo morale è senza relazione con le leggi della sensibilità e dell’intelletto; se è interrotta qualsiasi unione tra pensiero, sensi e attività volontaria; se il corpo degli atti è separato dallo spirito che li ispira, e se in questo mondo che qualcuno presenta come il teatro della moralità l’uomo, deprivato di qualsiasi potenza metafisica, escluso dall’essere e come lacerato, si sente circondato da realtà impenetrabili in cui può regnare l’illogicità più assurda, allora la forza si vivere viene infranta insieme all’audacia di pensare”29, il nostro filosofo critica l’opposizione kantiana della teoria e della pratica, del mondo intelligibile e del mondo sensibile, della morale, della scienza, della metafisica. Pertanto “L’azione è questa sintesi del volere, del conoscere e dell’essere, questo legame del composto umano che non si può spezzare senza distruggere tutto ciò che si è separato. Essa è il punto preciso in cui convergono il mondo del pensiero, quello morale e il mondo della scienza; e se questi non si uniscono tutto è perduto”30. L’errore sta proprio nel separare la sintesi dell’azione; infatti Blondel afferma che: “qualsiasi dottrina per la quale la metafisica, la scienza e la morale rimangono estranee o diventano ostili, rende l’essere cattivo, lo rende inintelligibile, incerto. Se esse non sono solidali, non c’è nulla”31, cioè se la metafisica, la scienza e la morale non sono solidali si disperde tutto, quindi la loro unione rappresenta l’elemento caratterizzante le tre discipline. Proprio la dissociazione tra mondo del pensiero, mondo morale e mondo della scienza, vale a dire il formalismo morale kantiano, ha dato luogo al pessimismo di Schopenhauer, pessimismo che si trova esplicitato nell’Azione: “Il male non è l’essere, ma la coscienza di essere, la volontà di essere, l’illusione di essere. E siccome «la nozione del nulla è sempre relativa, in quanto si riferisce a un soggetto determinato che si tratta di negare (secondo quanto dichiara lo stesso Schopenhauer); siccome il mondo attuale non esclude la possibilità di un’altra esistenza, e siccome rimane ampio margine per quello che noi designiamo soltanto 28
Ivi, p.109.
Ivi, p.114.
30
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p.114.
31
Ibidem.
29
8
negativamente con la stessa negazione del voler vivere», il pessimismo totalmente conseguente è un ottimismo radicale”32. Mentre secondo Schopenhauer nella volontà risiede il cattivo principio, Blondel vuole invece mostrare che la volontà non è una potenza cattiva. Tenendo presente, in questa nostra disamina, sempre il concetto di volontà o coscienza, poniamo entrambi i concetti in quanto, come abbiamo evidenziato precedentemente, Blondel riflette sugli stati complessi di coscienza e inoltre evidenzia come essi manifestino una duplicità della volontà. La volontà e la coscienza sono due concetti diversi ma, pur mantenendo la loro diversità, essi si compensano, cioè grazie alla coscienza e quindi alla psicologia sperimentale che stabilisce la legge dei contrasti interni alla coscienza, Blondel ci può far vedere la duplicità della volontà che è manifestata dai contrasti interni alla coscienza. Pertanto, pur essendoci la diversità tra la coscienza e la volontà esse sono legate profondamente tra di loro, la volontà con la sua duplicità non può esimersi dalla coscienza e la volontà così si spiega grazie alla coscienza. Il concetto di volontà o coscienza, che come abbiamo rilevato si trovava implicato nella negazione del dilettante esteta, è colta dal nichilista: «Io voglio il nulla». Anche in questo secondo capitolo della seconda parte, intitolato “Non si dà soluzione negativa del problema dell’azione. Che cosa cela la coscienza o la volontà del nulla”33, ravvisiamo, come detto, due contrari che si rimandano all’interno della coscienza del nichilista. Blondel pone, infatti, la coscienza, ma prosegue ponendo il nulla, ossia la volontà del nulla poiché, come abbiamo ricordato sopra, coscienza e volontà sono legate tra di loro. Quindi l’argomentazione blondeliana si apre sostenendo che non si tratta di uno stato di coscienza semplice ma complesso. “A chiunque è persuaso di concepire e di volere il nulla come termine della propria azione personale occorre rispondere: non lo si concepisce, non lo si vuole. E l’impossibilità di averne un’idea semplice e distinta non è che la traduzione, a livello intellettuale, di una decisione sincera e perentoria della volontà […] L’idea del nulla non è uno stato semplice, non più che qualsiasi altro stato della coscienza riflessa. L’analisi logica, come pure le leggi sperimentali e il ritmo organico della vita mentale rivelano in essa una necessaria complessità”34. 32
Ivi, p.115.
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p.118.
34
Ibidem.
33
9
In questo passo è esplicitato in sintesi il metodo di implicazione che rivela uno stato primigenio, che è contemporaneamente semplice e sincero, haplos, e a sua volta coinvolto nella complessità dell’idea del nulla. Questa idea deve necessariamente implicare in sé l’idea contraria a essa immanente, che non l’elimina ma la nasconde: “Vi è un sufficiente numero di altre persone che si convincono francamente di scoprire nell’esperienza della vita o nelle certezze della scienza la prova del loro annientamento. Essi sono sinceri; ma c’è la sincerità delle teorie e dei pensieri, e c’è la sincerità dei sentimenti, dei desideri, delle decisioni pratiche; questa spesso può essere dissimulata, senza essere liquidata, da un velo superficiale per l’intervento della riflessione dotta e della logica verbale; occorre sollevare questo velo”35. Pertanto lo studio della coscienza o della volontà del nulla giungerà a questo risultato: “Non vi è né concezione semplice e distinta né volontà autentica e omogenea del nulla. Nell’azione che sembra ridursi a esso o tendervi sussiste sempre una contraddizione intrinseca e implacabile”36. Blondel ha, quindi, dedicato le prime due parti dell’opera non solo all’analisi del fallimento delle pretese di negazioni dell’esteta e del nichilista, ma anche alla dualità fondamentale della coscienza, tema senza il quale lo sviluppo dell’Azione non potrebbe essere possibile. L’uomo, sperimentando la perenne precarietà tra le sue aspirazioni e l’incompiutezza delle sue realizzazioni, è mosso, dall’inadeguatezza che lo costituisce, ad un piano di auotoperfezionamento. Quest’ultimo viene realizzato sattraverso un percorso caratterizzato da tappe, che altro non sono che le cinque tappe ampiamente trattate da Blondel nella terza parte dell’Azione. Proprio da questa parte dell’Azione, il nostro filosofo delinea la fenomenologia dell’azione, ossia il passaggio nodale dal fatto all’atto e dall’atto all’azione, quindi il passaggio dall’intenzione all’estensione ossia l’uscita da sé, l’esodo. Blondel evidenzia che quando si pone il problema dell’azione possediamo già una soluzione positiva del problema stesso. Infatti la terza parte dell’Azione intitolata: “Il fenomeno dell’azione. Si cerca di definire l’azione con la sola scienza e di circoscriverla nell’ordine naturale”37 parte da ciò che nemmeno il nichilista può negare: “C’è 35
36
37
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p.120.
Ivi, p.120.
Ivi, p.133.
10
qualcosa […] ho voluto che ci fosse qualcosa ”38.Proprio a partire da questo presupposto, Blondel delinea la prima tappa che traccia il passaggio dal fatto all’atto: il problema dell’azione, infatti, rinvia dall’oggetto esterno, all’interiorità della coscienza. “In effetti è vera scienza quella in cui nulla è comunicata dal di fuori, tutto cresce dal di dentro, quella in cui conosciamo ciò che facciamo essere, le conseguenze sono dedotte con sicurezza infallibile dalle premesse affidate al lavoro della vita, e la necessità rigorosa delle conclusioni non fa altro che partorire il frutto della pristina iniziativa. Perché si tratta di determinare non ciò che è al di fuori della volontà come un oggetto più o meno fittizio, ma ciò che è in essa ”39. Una volta effettuato il passaggio dal fatto all’atto, Blondel vuole intraprendere un percorso che prevede il passaggio dall’atto all’azione: tutto questo avviene a partire dalla seconda tappa. In questa tappa il filosofo francese traccia questo passaggio, per adesso solo terminologico, in quanto la nascita dell’azione vera e propria si compirà, per la prima volta, nella terza tappa della terza parte. In quest’ultima l’azione esce fuori per imbattersi nell’organismo nel quale crescerà e tramite esso prenderà in modo definitivo corpo. “Non basta dunque decretarla, e neppure produrla; bisogna studiarne la produzione attraverso gli ostacoli o le resistenze, e il prodotto stesso con tutti i risultati dell’operazione, prattein, praxin, pragma”40. Sintetizzano la seconda, terza e quarta tappa questi tre termini: l’agire (prattein), l’intenzione tesa all’esecuzione, l’azione (ten praxin), attuazione dell’agire; l’agito (to pragma), l’opera eseguita dall’agire. Come era stato indispensabile per le prime due parti la complessità e la conflittualità interna dell’uomo, così lo è pure in questa terza tappa della terza parte. “L’ostacolo organico non è altro che il simbolo e l’espressione di opposizioni già psicologiche”41, la complessità che si trova nella coscienza intenzionale tendente all’attuazione esterna, quando si imbatte con la resistenza organica sviluppa pure un 38
Ivi, p.135. La volontà non fa essere ciò che è, contrariamente, essa, poiché vuole, sottintende qualcosa
che non fa, vuole essere quello che non è ancora. Non bisogna dunque ritenere questo qualcosa come
esterno o interno ossia ridotto alla rappresentazione che noi abbiamo. Dobbiamo esaminare il contenuto
dell’azione voluta così possiamo notare come in essa si trovi incorporata la varietà degli oggetti che
sono considerati solo mezzi per arricchire la distanza tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere.
39
Ivi, p.195.
40
Ivi ,p.239.
11
conflitto di tendenze. La risposta del corpo che è stata provocata torna alla coscienza con un qualcosa intriso di novità. Quando finisce l’incontro voluto dalla volontà con la resistenza corporea: “La volontà è diversa da come era in precedenza. La conoscenza è cambiata”42. La volontà è diretta a trovare all’infuori di sé che cosa completi se stessa, quando agisce cerca il suo stesso continuo mutamento. Per Blondel tale procedimento è un circolo continuo, perpetuo, che non è chiuso tutto in se stesso, ma in relazione con il determinismo dal quale ricava motivi nuovi: “Quindi questo cerchio non gira su se stesso senza andare avanti”43. L’azione ci pare che accresca e non diminuisca la complessità e i contrasti delle opposizioni che troviamo a partire dall’atto, e che con l’azione si voleva vincere: “C’è in noi una discontinuità di volontà, una pluralità di desideri che rendono ogni atto una lacerazione interiore. Si tratta di un antagonismo segreto che costituisce il principio delle lotte nella vita pratica, e spesso fa abortire le nostre decisioni più ferme. Perché volere e fare sono due cose diverse. Se per noi è già molto conoscere ciò che vogliamo veramente, nosse; se è ancora assai più difficile volere questo stesso volere, velle, è infinitamente più difficile eseguirlo, perficere. Già tra il concepimento e la determinazione c’era un intervallo; ma tra la decisione e l’esecuzione c’è da superare un abisso. Ecco dove sta il passaggio critico e il punto decisivo nell’azione. E mentre nelle lotte dell’ascetismo le persone a esso dedito lo hanno sentito vivamente, le persone dedite alla speculazione non vi hanno prestato attenzione”44. Per Blondel l’azione ha la grande capacità unificante, ha il compito di mediare per la progressiva aperta realizzazione dell’intenzione. Proprio per questo Blondel può affermare che la sostanza dell’uomo è l’azione: “Si è molto discusso sull’idea di sostanza: ricondotta ciò che in questa sede ne evidenzia l’analisi, la sostanza dell’uomo è l’azione, ciò che egli fa. En to ergo to on. Noi non siamo, non conosciamo, non viviamo che sub specie actionis. Non soltanto l’azione manifesta ciò che eravamo già, ma essa ci fa anche crescere e ci fa per così dire, uscire da noi stessi. Di modo che, dopo aver studiato il progresso dell’azione nell’essere, e il progresso dell’essere per mezzo dell’azione, conviene ormai trasferire 41
Ivi, p. 253.
Ibidem.
43
Ivi, p. 254.
44
Ivi, p. 257.
42
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fuori dalla vita individuale il centro di gravità della volontà coerente con la legge del suo progresso”45. Il filosofo a questo punto prosegue la propria riflessione nel cammino della quarta tappa con lo scopo di seguire lo sviluppo di realizzazione dell’unità del fenomeno dell’azione fuori da sé e grazie ad altro da sé: dalla sinergia (interiorità) passiamo all’exergia (uscita) all’allergia (azione degli altri). Ossia dall’interiorità in cui l’azione si trovava nella terza tappa, adesso, nella quarta tappa per essere sempre più una si pone fuori da sé, quindi si tratta di un’uscita, energia. Il processo di superamento dell’uomo, che come abbiamo visto cominciò con l’estensione dell’intenzione, adesso vede il passaggio dall’individuo alla partecipazione dell’opera. “Percorrere il cammino che va da una coscienza ad un’altra coscienza, seguire il progresso dell’azione dal perimetro dell’individuo fino al punto in cui la volontà, che anima sempre questo movimento di espansione, attende e reclama il concorso intrinseco degli altri , trasferire il baricentro dell’attività umana al di là della sinergia individuale, in una comunità reale di vita e di azione”46. Con l’opera viene raggiunto il compimento estremo dell’esodo ossia l’uscita da sé dell’intenzione nella ricerca di sé. E così che si giunge all’esecuzione della parabola dall’atto all’azione. Nell’Azione, il passaggio dall’atto all’azione non avviene per una sorta di risveglio dell’agire dal sonno della materia, ma, all’opposto, per l’incarnazione dell’azione nello sforzo, nella fatica dell’opera: dalla prassi (praxis) nella produzione (poiesis) alla teoria. Possiamo ben comprendere che per Blondel non esiste un pensiero puro, svincolato dalla materialità, ma vi è sempre un’immagine, un segno, un corpo. C’è un intenso rapporto che unisce soma (corpo) e sema (segno), rapporto che costituisce il presupposto del passaggio dalla terza alla quarta tappa: vale a dire l’azione del corpo si esprime in corpi che hanno significato e cioè si esprime in segni. “Ogni atto 45
46
Ivi, p. 293.
Ivi, p. 295.
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scaturito dall’organismo umano, anche al di fuori di noi, è un organismo di segni e un simbolo espressivo della vita soggettiva”47. Nella quarta tappa Blondel ritorna sul concetto di opera dicendo che rappresenta un indeterminato per il suo autore. Questa indeterminatezza proviene dal fatto che sia nell’agente che nell’opera vi è un tode ti. All’inizio, infatti, l’intenzione dell’autore esprime l’individualità della sua soggettività nell’opera; più tardi, invece, l’autore, trovando nell’opera una complicità, la vorrà non per lasciarvi da fuori la sua individualità, ma per stimolare quella che si trova in essa (opera)48. “Il punto preciso su cui si deve polarizzare lo sforzo di questo nostro studio è ciò che vi è di unico e di incomparabile in ciascun segno. Oggetto della scienza dell’azione è sempre il singolare e il concreto, ovverosia ciò che ignorano le scienze positive, che necessariamente si limitano all’astratto e al generale”49. Solo nell’opera, si compie definitivamente il passaggio dall’atto all’azione. Se l’intenzione dell’autore nell’opera esprime l’individualità della sua soggettività, l’azione può esercitare, tuttavia, un’influenza su agenti molteplici e sollecitare la loro cooperazione. All’interno della dialettica dell’influenza e della cooperazione, Blondel passa dunque al livello della cooperazione sociale nel momento in cui l’azione interessa anche altri agenti possibili (solidarietà). “L’azione è una funzione sociale per eccellenza. Ma proprio perché è fatta per gli altri, riceve dagli altri un coefficiente inedito e, diciamo così, una riforma. Agire significa evocare altre forze, fare appello ad altri io”50. Perciò la cooperazione sociale ci introduce nella quinta ed ultima tappa. Per meglio introdurre questa tappa, decisiva per la comprensione globale del nostro discorso sull’azione, è utile citare: “la vita individuale è per forza di cose indotta ad aprirsi e a espandersi […] Siccome l’individuo non può chiudersi e non vuole rimanere solo e tutto isolato in sé, aspira a rivivere negli altri. Egli trasferisce, per così dire, il suo centro d’azione non più nella 47
Ivi, p. 300.
Blondel nell’Azione vedrà nel tode ti l’oggetto di indagine della quarta tappa.
49
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p. 303.
50
Ivi, p. 336.
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sua opera esteriore, e neppure in quella cooperazione che gli permette di estendere il suo potere e il suo influsso, ma nell’unione intima che contrae con un altro se stesso. Non è questo un modo per moltiplicare in un certo senso e per riempire la propria vita? Egli quindi si dona per ritrovare in ciò che riceve in contraccambio tutto quello che era già, – quello che era, ma senza poter tenere in serbo da solo l’abbondanza della sua vita” 51 . Ritorna anche in questa tappa la questione dell’esodo (uscita) da sé del soggetto agente che in tale contesto considera l’opera della volontà come un “fine in sé”52; andando alla ricerca del suo essere e della sua intimità in sé. Con l’individuo che collabora con gli altri individui, l’azione si espande nel mondo sociale. Perciò il movimento di espansione sociale della volontà si arresta a tre termini progressivi che sono la famiglia, la patria e l’umanità. Blondel anticipa l’analisi dei tre termini progressivi prima citati lumeggiando il vincolo dell’amicizia che ricerca una cooperazione profonda tra l’agente e l’agito e immettendo nel suo progresso non solo l’azione dell’agente amico, ma l’amico stesso. La cooperazione mira, così, all’unione reale amorosa. “In effetti due vite si sono unite non soltanto in ciò che conoscevano l’una dell’altra o di se stessa, ma fino al principio delle loro azioni comuni e dei loro sentimenti indivisi. Ed ecco perché, secondo la bella espressione di Aristotele, un’amicizia che è potuta finire non è mai stata autentica”53. Blondel passa così al vincolo dell’amore: “L’amore vero abbraccia l’intera persona, considerandola come un’unità vivente di parti che derivano la loro bellezza dal loro rapporto intimo col tutto”54. La vera unione amorosa fissa i successivi stadi della società: l’unione tra i coniugi forma la famiglia “Pertanto il fine dell’amore non è l’amore ma la famiglia, prima aggregazione naturale e necessaria nel cui seno la vita nasce e cresce come in un seno che riscalda al riparo dall’immensità dell’universo. È quindi nella generazione che l’uomo riesce a esprimersi, a dedicarsi, a sopravvivere interamente a se stesso, è nella generazione che trova la perfezione del suo atto e la prima risposta compiuta cui anela. La sua 51
Ivi , p. 343.
Ivi , p. 345.
53
Ivi , p.. 351.
54
Ivi, p.355.
52
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prima opera vivente è il bambino, sintesi mirabile: due e uno e tre, non hi tres unum, sed hoc unum tres sunt”55. Se l’unione tra i coniugi forma la famiglia quella tra i concittadini forma, invece, la patria. “Perché in effetti, in fondo ai nostri affetti la patria è altra cosa da una famiglia accresciuta, e il movimento da cui emana l’organismo morale della città è totalmente originale. Indubbiamente la nazione desume i suoi membri dalla famiglia. Ma come in una combinazione chimica, in cui gli elementi, sebbene presenti, sono trasfigurati nella nuova unità del composto, la vita individuale, la vita di famiglia, senza perdere il loro vigore naturale, sono trasformate nel cuore della nazione in cui si riparano”56. Dal sentimento della famiglia e della patria si sfocia in quello dell’umanità che si fonda sul principio di uguaglianza di ogni uomo con ogni altro, per il fatto che è uomo. È una concezione universale: “L’uomo aspira, per così dire, a sposare l’umanità stessa, e a formare con essa una sola volontà. La vita individuale tende dunque a identificarsi alla vita universale”57. Il mondo ideale della quinta tappa non basta ancora all’azione umana perciò per conformare l’azione alla volontà si approda alle superstizioni, a tal proposito Blondel afferma: “Si pone allora la necessità di scavare più in fondo, poiché nell’azione volontaria, così come è data di fatto, esiste un elemento di cui nessuna forma della vita personale, sociale o morale esaurisce la misteriosa fecondità; poiché dopo aver immesso in questo abisso della volontà umana tutte le dimensioni della scienza, della coscienza, degli affetti, delle idee, dei doveri, resta un vuoto; poiché, per quanto prolungate siano le linee curve, il cerchio non riesce ancora a chiudersi […]. Di fatto a tutto ciò che abbiamo detto dei fenomeni eterogenei, compatibili e solidali si aggiunge una credenza che introduce in loro una forma nuova di realtà e che sembra renderli incompatibili ed esclusivi, come se per esempio, il determinismo e la libertà, il disinteresse e l’amore di sé, la morale pura e la metafisica non potessero conciliarsi. Di fatto si annuncia inevitabilmente un bisogno ulteriore. E se anche non ricevesse che soddisfazioni illusorie, esso è tuttavia un bisogno reale. È indispensabile che la scienza dell’azione renda conto pure di questo fatto, di quest’illusione, di questa realtà”58. 55
Ivi, p. 357. L’espressione latina viene ripresa da una formulazione principale del De Trinitate di
Agostino, molto probabilmente in modo non diretto, ed echeggia alcune espressioni della liturgia
trinitaria; nella parte finale c’è 1 Gv 5, 7-9.
56
Ivi, p. 360.
57
Ivi, p. 373.
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Le superstizioni altro non sono che le religioni inferiori (atti di stregoneria e di magia) finalizzate al bisogno di adeguare l’azione alla volontà umana. Tale bisogno è autentico, reale, e di esso l’uomo cerca e riceve soddisfazioni che si rivelano illusorie. Da tutti questi tentativi risulta dunque tale conclusione, con la quale termina il lungo cammino che abbiamo percorso sin dalla prima tappa per pervenire alla quinta e ultima tappa: “è impossibile non riconoscere l’insufficienza di tutto l’ordine naturale, e di non avvertire un bisogno ulteriore; è impossibile trovare in sé di che soddisfare questo bisogno religioso. Esso è necessario, ma è impraticabile.[…] Per quanto artificiale sia ogni religione naturale, altrettanto naturale è l’attesa di una religione”59. Terminata la fenomenologia dell’azione cogliamo a partire dalla quarta parte dell’Azione intitolata: “L’essere necessario dell’azione. I termini del problema del destino umano sono posti per forza di cose e volontariamente”60l’aspetto metafisico dell’azione, cioè quello dell’essere necessario dell’azione che costituisce la parte necessaria dell’azione. Ciò consente di sottolineare la necessità dell’apertura, l’espansione della volontà, non solo perché si compia l’azione, ma anche per la fecondità e l’unificazione dell’azione. La volontà umana, come abbiamo avuto modo di constatare in precedenza, voleva trovare nella natura la sua autosufficienza, la sua adeguazione tra volontà volente e volontà voluta, ma sappiamo bene che tutto ciò non riesce a realizzarlo. Perciò tale inadeguazione della volontà implica la nascita di un conflitto che sfocia inevitabilmente in una crisi: l’azione umana non riesce ad andare avanti, ma nemmeno può tornare indietro, poiché quello che ha potuto volere è stato il qualcosa, cioè l’intuizione sensibile da cui è iniziata la fenomenologia dell’azione. Da questo qualcosa, la volontà umana – insita nell’azione umana, quindi nell’uomo – scorge un motivo, che si origina dall’inadeguatezza tra volontà volente e volontà voluta, che la porta a volere qualcosa di più. La volontà da tutto ciò subisce uno scacco, cioè si rende conto della sua incapacità a pervenire con le proprie forze interiori a una compiuta autorealizzazione . 58
Ivi, pp. 405-406.
Ivi, p. 420-422.
60
Ivi, p. 423.
59
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Il conflitto e lo scacco dell’azione vengono messi a tema nel primo momento del conflitto della quarta parte61 dell’Azione: “Il conflitto. Primo momento. La volontà contraddetta e vinta. Scacco apparente dell’azione voluta”62. Troviamo riscontro di quanto affermato finora nella seguente affermazione blondeliana: “Lo sterminato ordine dei fenomeni in cui si espande la vita dell’uomo risulta esaurito, e il volere umano non lo è affatto. La pretesa di quest’ultimo di essere autosufficiente subisce uno scacco, ma non per penuria. Subisce uno scacco perché nel campo di ciò che si è voluto e fatto finora colui che vuole e che agisce rimane sempre superiore a ciò che è voluto e fatto. Ma da questa constatazione precisamente non vedrete nascere un singolare conflitto, anzi quasi una sorta di antibolia? L’uomo aveva la pretesa di arrangiarsi da solo, e di trovare nell’ordine naturale l’autosufficienza e il suo tutto. Ma non vi riesce. Non riesce né ad adattarsi né ad andare oltre. Ma neppure può tornare indietro, perché il minimo di ciò che ha potuto volere è quest’ordine naturale dei fenomeni, questo qualcosa in cui scopre puramente e semplicemente non una ragione di non volere, ma una ragione perentoria di volere di più”63. Nel secondo momento del conflitto: “La volontà affermata e confermata. Indistruttibilità dell’azione volontaria”64, l’azione giunge al suo ultimo contrasto. Essa non può rimanere soddisfatta di ciò che ha compiuto, l’uomo non può volere ciò che ha già voluto, se il suo voluto s’identifica con le sue realizzazioni nel mondo finito. “La cosa che si avverte di primo acchito, senza aver bisogno di poterla esprimere, è che la volontà non si accontenta di nessuno degli oggetti che ha voluto. C’è sempre di meno in quello che è fatto o desiderato che non nel referente che fa e desidera. Il risultato sembra quasi una caricatura o una contraffazione della sua vera causa. Quindi la difficoltà da cui partivamo rimane integra: è possibile volere se stesso? 61
La quarta parte dell’Azione inizia con il delineare il conflitto che nasce in ogni volontà umana quando
ci si rende conto della sua non avvenuta autosufficienza e quindi del famoso contrasto che è la molla
dell’azione, tra volontà volente e volontà voluta. Questo conflitto a sua volta consta di tre momenti,
superati i quali, all’uomo combattuto tra la volontà volente e volontà voluta, gli viene posta una
alternativa: scegliere tra la “Prima opzione. La morte dell’azione” cioè volere infinitamente il finito e
vivere nell’insoddisfazione e nell’inadeguazione, o “La seconda opzione. La vita dell’azione. I
surrogati e i preparativi dell’azione perfetta”, ossia volere l’infinito per adeguare la volontà volente e la
volontà voluta. Con questa seconda opzione termina la quarta parte.
62
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p.427.
63
Ivi, p.425. Il termine antibolia che significa «urto tra due cose», in tale contesto indica il movimento,
con un aspetto duplice e inconciliabile, della volontà umana. Si può rilevare un paragone da cui
scaturiscono alcune differenze fondamentali con il termine antinomia. Le antinomie altro non sono che
dei fenomeni eterogenei e solidali e i termini di queste antinomie, in apparenza, non compatibili dal
punto di vista dell’intelletto, effettivamente sono correlativi e simultanei. Nell’antibolia, invece, non si
verificherà la stessa cosa, in quanto i termini dell’alternativa, nonostante siano intelligibili
contemporaneamente, di fatto si escludono in quanto ormai siamo in presenza non di ciò che appare, ma
di ciò che è. Così, per forza di cose, dobbiamo affermare l’essere, porre un’alternativa di fronte
all’essere, optare tra due decisioni, di cui una esclude l’altra.
64
Ivi, p. 435.
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Come dunque rientrare in me stesso, e immettere nella mia azione ciò che senza dubbio vi si trova già, ma a mia insaputa e fuori della mia portata? Per volere pienamente me stesso occorre che io voglia più di quanto non abbia saputo trovare finora”65. Dal conflitto, che come abbiamo visto nasce in ogni coscienza umana, scaturisce inevitabilmente il riconoscimento dell’unico necessario. Blondel mette a tema proprio l’unico necessario nel terzo momento del conflitto66 e afferma: “Ciò che ho posto volontariamente non può né abolire né conservare se stesso. È questo conflitto che spiega la presenza obbligata nella coscienza di un’affermazione inedita. Ed è la realtà di questa presenza necessaria che rende possibile in noi la coscienza di questo conflitto. C’è un «unico necessario».”67 Ed è grazie a questo approdo che l’uomo supera il suo conflitto e l’azione si compie, in quanto la sola volontà, intesa da Blondel come causa efficiente dell’agire, ossia come l’elemento che spinge ad agire, non è in grado di pervenire ad una conoscenza esauriente dell’azione. Proprio la finalità con la sua capacità di attrazione attira a sé l’uomo, in quanto interpellato in prima persona. Perciò per Blondel bisogna interessarsi all’«unico necessario»68 non “nella misura in cui la conoscenza presume di penetrare nel suo spazio [quello dell’unico necessario], ma nella misura in cui la sua azione compenetra e promuove la nostra azione”69. Attraverso l’azione si incontrano il naturale e il soprannaturale, l’uomo e Dio. Prima di arrivare a quest’incontro si pone tale dilemma: “essere dio senza Dio e contro Dio, o essere dio per mezzo di Dio e con Dio”70. Essere dio senza Dio implica in Blondel la morte dell’azione; essere con Dio comporta la vita dell’azione. Resta da comprendere in cosa consista la mortificazione dell’azione. E’ Blondel che lo chiarisce inequivocabilmente nella quarta parte71 dell’opera: 65
Ivi, pp. 439-440.
È nella quarta parte dell’azione che viene analizzato il “terzo momento: l’unico necessario.
Inevitabile trascendenza dell’azione umana”. M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e
di una scienza della prassi, cit., pp. 425-426.
67
Ivi, p. 441.
68
Blondel nel terzo momento del conflitto utilizza questi termini per indicare «l’unico necessario»:
causa finale e Dio. Il nostro filosofo usa il termine Dio perché - non bisogna dimenticare - egli fu
educato in un ambiente familiare integralmente cattolico, per cui la sua formazione fu impregnata di
cattolicesimo.
69
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p. 440.
70
Ivi, p. 458.
71
Nella quarta parte dell’Azione dopo il terzo momento del conflitto, è presente L’alternativa,
caratterizzata dalla prima opzione La morte dell’azione.
66
19
“Vediamo adesso che cosa implica, per l’uomo, la pretesa di agire e di vivere con le sole sue forze? La pretesa di camminare, di salire e di rialzarsi da solo e senza aiuto? La pretesa di essere autosufficiente nella propria virtù, nel proprio pentimento, nella propria espiazione? Reputare di trovare in sé la verità necessaria alla coscienza, l’energia per la propria azione e il successo nel proprio destino, non significa soltanto privarsi di un dono gratuito e facoltativo che, una volta respinto o disprezzato, non comprometterebbe però la felicità di una vita normale, bensì significa in verità smentire la propria aspirazione, e col pretesto di amare soltanto sé stessi, odiare e perdere sé stessi. Perdere sé stessi! Comprendiamo la pregnanza di queste parole? Perdere sé stessi senza sfuggire a sé stessi. Infatti sopprimendo, per sempre, in sé stessa, l’ambizione per i beni imperituri, la volontà che si è limitata ai fini transitori rimane non di meno indistruttibile. E questa volontà immortale, che ha collocato il suo tutto nei beni effimeri, è come morta quando alla fine ne avverte la cruda inanità. Il suo desiderio deperisce; essa dunque avrà voluto per sempre ciò che non può mai essere. Quello che vuole le sfuggirà eternamente e quello che non vuole le sarà eternamente presente”72. Se essere senza Dio nel senso di ammettere la sua presenza necessaria, ma non per questo affidarsi alla sua volontà, costituisce la morte dell’azione; “essere dio per mezzo di Dio e con Dio”, invece, significa la vita dell’azione. Confessare la propria fondamentale passività è per l’uomo la perfezione dell’attività. In questo consiste la vita dell’azione che è la seconda opzione di fronte cui si trova l’uomo. Quest’ultima è così espressa da Blondel: “All’iniziativa assoluta dell’uomo è necessario sostituire liberamente, essendovi implicata necessariamente, l’iniziativa assoluta di Dio. Non è in nostro potere di conferirci questo potere, né di consegnarci a noi stessi. Il nostro compito è fare in modo che Dio sia tutto in noi, così come lo è da sé, e di trovare alla stessa scaturigine del nostro consenso alla sua azione sovrana la sua presenza efficace. La vera volontà dell’uomo è il volere divino. Riconoscere la propria passività radicale è per l’uomo la perfezione dell’attività”73. Perciò l’azione passa dall’ordine naturale all’ordine soprannaturale. Questa argomentazione ha il suo punto d’arrivo nella parte quinta dell’Azione: “Il compimento dell’azione. Il termine del destino umano”. Blondel ritiene, infatti, che: “L’azione non si completa nell’ordine naturale. Ma il solo termine del soprannaturale non costituisce lo scandalo della ragione? E il solo atteggiamento del filosofo di 72
73
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., pp. 475-476.
Ivi, p.490.
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fronte a una tale incognita non è quello di ignorarla o, in maniera più decisa e più schietta, di negarla? – No. Negarla o ignorarla è proprio il contrario dello spirito filosofico”74. L’uomo, dopo aver optato per la vita dell’azione, sceglie di affidarsi a Dio. Ciò costituisce la fede. L’uomo attraverso la prassi accresce e purifica la propria fede, così come la fede ispira e trasfigura la vita pratica dell’uomo. È necessario, tuttavia, un ulteriore passaggio affinché l’atto di fede sia non solo affidamento ma consapevolezza della ragione; per questo Blondel pone la pratica letterale per far cogliere letteralmente la rivelazione del soprannaturale. “Ciò che non possiamo conoscere, e che soprattutto non possiamo comprendere chiaramente lo possiamo fare e praticare: qui sta l’utilità, la ragione eminente della ragione”75. 74
75
M. Blondel, L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, cit., p. 495.
Ivi, p.516.
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