Il Grande Gioco dell`Asia Centrale. Geopolitica dell`Hearthland e del

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Il Grande Gioco dell`Asia Centrale. Geopolitica dell`Hearthland e del
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
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INCONTRO DI CIVILTÀ
GIULIANA MARTIRANI
Il Grande Gioco dell’Asia Centrale.
Geopolitica dell’Hearthland e del Rimland
Chi governa l’Europa orientale comanda la zona
centrale; chi governa la zona centrale comanda la
massa euroasiatica; chi governa la massa euroasiatica comanda il mondo.
Harold Mackinder
Il Grande Gioco, The Great Game
Il termine Great Game venne coniato dal colonnello Arthur Conolly (1807-1842), il quale paragonò le manovre diplomatiche e
spionistiche in Asia a quelle di una partita a scacchi. La vulnerabilità delle regioni lungo i confini nord-occidentali dell’India, Punjab,
Sind e Afghanistan, allarmava gli inglesi, preoccupati di una possibile minaccia zarista nei confronti dell’India e allo sviluppo della
North West Frontier Policy. Da parte sua la Russia nutriva esigenze
di sicurezza dei confini dell’impero, tormentato da incursioni uzbeke, dalle difficoltà nei commerci, dalle continue catture di russi
addotti in schiavitù, e da una marcata fragilità politica. Tutto ciò
contribuì alla spinta espansionistica dei territori centroasiatici.
Nella seconda metà del XIX secolo, l’armata russa iniziò la conquista sistematica dell’Asia Centrale. Nel 1884 la Russia arrivò a
conquistare la città di Merv, la quale costituiva un importante crocevia per Herat, che a sua volta rappresentava un luogo di facile
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passaggio per l’Afghanistan, da cui si poteva avere accesso all’India
inglese. L’occupazione di Merv, vista la sua importante posizione
strategica, nonché l’ulteriore avanzata verso il confine con l’Afghanistan, mise ulteriormente in allarme la Gran Bretagna e ne provocò
le reazioni. Già nel 1938-42, e prima ancora nel 1878, gli inglesi
avevano cercato in modo fallimentare di controllare l’Afghanistan.
Dopo aver sconfitto i Sikh e conquistato la valle di Peshawar e il
Punjab, gli inglesi guardavano alla catena del Pamir in concorrenza
con la Russia. Fu così che intorno a Kashgar si scatenò un gioco
politico-diplomatico tra Russia e Cina da una parte e tra Inghilterra
e Turchia dall’altra. Ebbe così inizio il Grande Gioco, come venne
chiamato dagli inglesi o come lo chiamarono i russi Il Torneo delle
ombre.
L’arrivo di coloni russi, che si installarono nelle steppe kazake e
nei centri urbani, contribuì a cambiare la composizione etnica della
regione e a russificare le élite locali. Nel 1911 i russi stanziati in Asia
Centrale ammontavano a due milioni su una popolazione totale di
dieci milioni di abitanti. Al cambiamento della composizione etnica
si accompagnò anche la trasformazione dell’economia regionale. La
costruzione di nuove reti ferroviarie come la Transcaspiana (18801899) e la Transuraliana (1901-1906), aprirono l’Asia Centrale all’economia russa e ai suoi prodotti che trovarono nuovi sbocchi.
L’Asia Centrale
La definizione ufficiale di Asia Centrale data dall’Unione Sovietica limitava la regione ai soli Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan
e Kirghizistan, senza includere il Kazakistan. La nuova definizione
data dalla Federazione Russa include ora anche il Kazakistan, mentre l’Unesco definisce, invece, i confini della regione in base a criteri climatici includendo così anche altri Stati: la Mongolia, la Cina
occidentale (incluso il Tibet), il nord-est dell’Iran, l’Afghanistan, il
Pakistan occidentale, parte della Russia e le parti settentrionali di
India e Pakistan.
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L’Asia Centrale o Turkestan Occidentale comprende i seguenti
5 Stati, ora indipendenti, già facenti parte dell’Unione Sovietica,
tutti di cultura e lingua turca, a eccezione delle popolazioni iraniche
presenti nel Tagikistan:
Tabella 1: Gli Stati dell’Asia centrale
Stato
Superficie
(km2)
Popolazione
(abitanti)
Kazakistan
2.724.900
15.143.704
Kirghizistan
198.500
4.753.003
Tagikistan
143.100
6.863.752
Turkmenistan
488.100
4.603.244
Uzbekistan
447.400
27.727.435
4.002.000
59.091.138
Turkestan Occidentale
Capitale
(abitanti)
Astana
(538.000 ab.)
Biškek
(700.000 ab.)
Dušanbe
(679.400 ab.)
Aşgabat
(600.000 ab.)
Tashkent
(2.148.000 ab.)
Tashkent
(2.148.000 ab.)
Carta n. 1 - L’Asia Centrale
██ definizione
dell’Unione
Sovietica
██ definizione
della
Federazione
Russa
██ definizione
dell’Unesco
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Geopolitica del III Millennio tra Hearthland e Rimland
La teoria geopolitica del Rimland, o Anello marittimo, è quella
che gli Usa hanno adottato durante tutto il secolo e ancor più oggi
che l’altro blocco, quello sovietico, prima Hearthland, Cardine
del mondo, è stato sconfitto.
Il geografo tedesco Friedrich Ratzel, autore di Politishe Geographie (1897), aveva elaborato quelli che sarebbero stati i concetti fondamentali cui si sarebbero ispirati i geopolitici dopo di lui.
Le concezioni geopolitiche, sistematizzate dallo svedese Rudolf
Kjellen, venivano riprese soprattutto dai geopolitici tedeschi e in
particolare da Karl Haushofer (1896-1946). La geopolitica tedesca
si sviluppava secondo tre linee:
- il concetto di spazio (Raum), sviluppato da Ratzel, in cui si
ribadiva la necessità per una grande potenza di avere spazio;
- il concetto di Isola Mondiale enunciato da Mackinder, che implica la potenza marittima;
- l’asse Nord/Sud dei continenti sostenuto da Haushofer1.
Fu il britannico H. Mackinder ad esprimere l’idea (1904) che il
Cardine del mondo o Hearthland, in ragione della sua massa terrestre, fosse costituito dalla parte continentale dell’Eurasia. Secondo
il geografo britannico, che vi ritornava a varie riprese (1919, 1943),
la potenza che controllava questa massa terrestre – prima la Germania, in seguito l’ex Unione Sovietica – minacciava le potenze marittime – ieri la Gran Bretagna, dopo gli Usa. E controlla così l’Isola
Mondiale (World Island) ovvero il pianeta. I fattori che egli inseriva
nella sua tesi sono:
- le comunicazioni (allora compresa l’aviazione, ma ignorava naturalmente la comunicazione digitale e le autostrade elettroniche
di oggi);
- la demografia (ma era lungi dalle cifre iperboliche della fine del
secolo XX);
1
Quest’ultima teoria è adottata oggi nella politica euro-africana dell’Europa.
G. Chaliand, J.P. Rageau, Atlante Strategico, Sei, Torino 1986, p. 19.
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- l’industrializzazione (di cui ignorava il passaggio attuale dall’economia produttiva alla finanziarizzazione dell’economia).
La tesi di Mackinder era che la Russia, l’Europa orientale e
l’Asia centrale formassero un unico Heartland fossero, cioè, il
perno attorno a cui ruotava il destino del predominio mondiale. Attorno alla Heartland ci sono quattro regioni marginali del
continente eurasiatico che corrispondono alle quattro grandi religioni:
1) l’area marginale a est, una terra monsonica lungo le coste dell’Oceano Pacifico, patria del buddismo (Cina, Giappone, Corea…);
2) l’area marginale a sud, una terra monsonica lungo le coste dell’Oceano Indiano, patria dell’induismo (l’India);
3) il Medio Oriente, la più fragile delle quattro aree, povera d’acqua
e patria dell’islam;
4) l’Europa, lungo le coste dell’Oceano Atlantico, patria del cristianesimo.
Secondo Mackinder, la storia stessa dell’Europa era subordinata
a quella dell’Asia, era il risultato della lotta contro l’invasione asiatica.
Carta n. 2 - L’Hearthland e Mackinder
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Spykman e il Rimland
L’americano Mahan, precursore delle geopolitica nel 1900 (The Problem of Asia and its effects upon International Politics), preannunciando
il concetto di World Island di Mackinder, proponeva l’idea che l’egemonia mondiale delle potenze marittime potesse essere mantenuta attraverso il controllo di una serie di punti di appoggio attorno al continente
euroasiatico. Arrivava, pertanto, a conclusioni opposte: le potenze marittime dominano, imprigionandole, quelle terrestri. La Teoria del Contenimento, nata dalla Guerra Fredda, trova qui il suo nucleo di base2.
La Teoria del Contenimento era basata su due ipotesi:
1) l’accettazione delle ambizioni espansionistiche dell’Unione Sovietica a livello mondiale sarebbe stata disastrosa per gli interessi
vitali dell’America;
2) un confronto diretto contro l’Urss non era necessario e sarebbe
stato controproducente.
Mahan risulta ancora un importante autore, in quanto le sue teorie sono utilizzate per comprendere gli scenari attuali, tanto che tuttora da alcune parti si afferma che: “Chiunque controlli l’Oceano
Indiano domina l’Asia. Questo oceano è la chiave dei Sette Mari.
Nel XXI secolo il destino del mondo sarà deciso nelle sue acque”3.
Mahan, che aveva previsto l’odierna importanza dell’Oceano
Indiano, definiva una triade di elementi necessari per una dottrina
navale efficace:
1) la costruzione di una marina con capacità di proiezione oceanica;
2) la creazione di un sistema logistico di basi navali;
3) il controllo delle comunicazioni marittime4.
2
3
4
Nel Long Telegram del febbraio 1946 da Mosca, il diplomatico americano
George Kennan, in seguito direttore del Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato con il presidente Truman, gettava le basi di quella che sarà
poi conosciuta come la Teoria del Contenimento per prevenire l’espansione
dell’Unione Sovietica emergente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questa
teoria è stata il fulcro di tutta l’architettura di politica estera degli Stati Uniti
verso l’Unione Sovietica nel periodo della Guerra Fredda.
Citazione apparsa su «Limes», n. 6, del 2009.
La Dottrina marittima indiana attualmente si rifà a queste regole, avendo
modificato la propria strategia da semplice difesa delle frontiere marittime
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Nicholas John Spykman, ispirandosi a Mackinder, ne aveva adattato
le teorie agli anni Trenta. Secondo lui gli Stati Uniti dovevano tendere
a mantenere divisa la fascia peninsulare che circondava il continente
eurasiatico in modo che non cadesse sotto l’egemonia della Germania
e del Giappone. A suo parere inoltre, gli Usa dovevano allearsi con la
Russia poiché avevano gli stessi interessi e in seguito dovevano mantenere una presenza permanente all’interno del continente, così da non
permettere alle potenze dominanti di instaurare egemonie che avrebbero obbligato in seguito gli Stati Uniti a un intervento massiccio.
Carta n. 3 - L’Isola Mondo
Carta n. 4 - Il Rimland
nazionali alla creazione di una flotta d’alto mare con capacità di proiezione
oceanica.
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La tesi di Spykman veniva ripresa al termine della Guerra Fredda,
evento che causò il riavvicinamento tra Mosca e Pechino grazie al
crollo dell’Urss e all’incremento della potenza cinese. Gli interessi
congiunti russo-cinesi si rivolgevano soprattutto alla zona dell’Asia
Centrale (giacimenti petroliferi del Kazakistan e del Sinkiang)5. Dal
1989, con la caduta del blocco sovietico, gli Usa hanno intrapreso
la definitiva chiusura dell’Anello marittimo e quindi del controllo
dei mari, approfittando del momento loro favorevole per attestarsi
su posizioni di maggiore forza, soprattutto laddove lo richiedevano
gli interessi vitali, e cioè lungo i percorsi dei rifornimenti di materie
prime e dove si potevano sostituire alle basi sovietiche (come la
missione umanitaria in Somalia, Restore Hope). Dal Rimland sono
nate le guerre fino al 2001 che hanno garantito agli Usa di essere i
“guardiani del mare” e dell’Isola Mondo.
Restore Hope: restaurare la speranza o le basi militari fino al
Capo di Buona Speranza?
L’esempio dell’intervento militare in Somalia e della missione
umanitaria Restore Hope, all’indomani della caduta dell’impero sovietico e della guerra del Golfo, nel 1990, è significativo e può far capire
le geopolitiche per un’altra zona petrolifera, quella del Mar Caspio. I
flussi di petrolio in partenza dal Golfo Persico e dallo Stretto di Hormuz, infatti, approvvigionano il Giappone attraverso la rotta dell’est,
l’Oceano Indiano e l’Indonesia. Approvvigionano, invece, i Paesi occidentali attraversando il mare Arabico, le coste dell’Africa orientale,
in primo luogo quelle somale, per poi scendere verso lo stretto di Mozambico e il Capo di Buona Speranza (Cap of Good Hope).
Lungo tale percorso vi erano, prima dell’intervento militare in
Somalia le seguenti basi militari:
1. Francia: Gibuti, Riunione, Tromelin, Iles Glorieuses, Antsiranana, Comore, Juan de Nova, Europa.
5
H. Mackinder, The Geographical Pivot of History, in «The Geographical
Journal», vol. 23, n. 4 (apr. 1904), pp. 421-437.
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2. Csi: Dahalak, Aden, Socotra, Maurizio, Beira, Maputo.
3. Usa: Mogadiscio, Mombasa, Berbera.
Sia la Francia che la Comunità di Stati Indipendenti, quindi, controllavano in quasi monopolio lo stretto di Mozambico, altamente
strategico per il passaggio delle superpetroliere che dal Golfo Persico, facendo il periplo dell’Africa orientale, si dirigono nell’Occidente industrializzato e famelico di petrolio.
Poche le basi o scali di appoggio americani in quel tratto di mare,
dal Golfo Persico al Capo di Buona Speranza: Mogadiscio, Mombasa, Berbera.
Si capisce, pertanto, come questa debolezza strategica americana e di altri paesi Nato, nello spazio tra Golfo Persico e Capo di
Buona Speranza, andasse, dopo la caduta dell’impero sovietico e
il mutamento degli assetti geopolitici, e dopo la guerra del Golfo,
compensata “restaurando le basi americane e quelle Nato” dalla
Somalia fino al Capo di Buona Speranza. Restore Hope, appunto,
come veniva giustamente chiamata la missione militare, solo che
per “Hope” deve intendersi Capo di Buona Speranza, Cap of Good
Hope, in inglese! E non un presunto “restaurare la speranza” per le
popolazioni somale!
Kosovo, Cecenia e il petrolio del Caspio: i corridoi energetici
Le guerre si continuano a fare per motivi strategici legati alle
risorse, anche se la propaganda le copre con considerazioni ora etniche, ora religiose, ora per i diritti umani.
Le guerre in Kosovo e Albania, terminale dell’oleodotto del petrolio del Caspio, e in Cecenia, origine dell’oleodotto, ne sono un
ulteriore esempio, e la scelta del Corridoio n. 8 per il transito dell’oleodotto, che condurrà, nell’Europa assetata di petrolio, le riserve
ancora tutte da scoprire del petrolio del Caspio, prima, e di quello
siberiano, poi, ne sono un esempio. Questi territori sono strategicamente instabili, e in aggiunta giocano i forti interessi consolidati
delle mafie russe che contano tre milioni di affiliati, oltre che gli
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interessi delle mafie locali, le molte etnie, la lontananza dai grandi
circuiti dell’informazione e l’estrema povertà delle popolazioni, in
prevalenza musulmane.
Nell’ex Unione Sovietica ci sono i giacimenti petroliferi della
Siberia orientale, ancora in via di sviluppo, quelli della Siberia occidentale, con oleodotti in progettazione verso Mosca e Kiev, i giacimenti del Volga e degli Urali con oleodotti verso l’Europa occidentale e quelli dell’Asia centrale con oleodotti in progettazione verso
Mosca. Ma sono i giacimenti del Mar Caspio, del Caucaso e del Mar
Nero quelli più interessanti per l’Europa occidentale e meridionale.
La Comunità di Stati Indipendenti esporta, infatti, in Europa
molto del suo petrolio:
- il primo 25% delle esportazioni è diretto in Italia e Finlandia;
- il secondo 25% in Norvegia e Germania;
- il terzo 25% in Svezia, Francia e Svizzera (12), Belgio (2), e Austria (1);
- il quarto 25% in Inghilterra (14), Irlanda (11), Spagna (10),
Grecia (4) e Danimarca (5), ma anche in India (8), Sri Lanka
(9), Ghana (7), Egitto (1), Marocco (6), Giappone (3) e Turchia
(13) – i numeri tra parentesi indicano la loro posizione in quanto importatori.
Il passaggio di un oleodotto su un territorio è un’occasione economica molto importante. Significa costruzione di aeroporti, strade,
intere città vedono aumentare la circolazione di danaro: è un affare
di miliardi di dollari! Da ciò si comprende che non è indifferente la
scelta di un corridoio energetico invece di un altro. Il petrolio del
Caspio in piena espansione può approvvigionare l’Europa mediante
oleodotti con diverso transito:
- il Corridoio n. 8, caldeggiato da Italia, Francia e Usa, passando
per Bulgaria, Macedonia, Kosovo e Albania (Durazzo) per poi
arrivare a Brindisi.
- il Corridoio n. 10, caldeggiato dalla Germania, congiungendosi
con il Corridoio n. 4 che passa per la Romania e arriva in Serbia
a Belgrado, a Sisak in Croazia e poi a Fiume.
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Si comprende anche la mediazione della Russia, nel conflitto con
il Kosovo, anomala se si pensa alle motivazioni etniche, ma più che
giustificata se si pensa al percorso dell’oleodotto del petrolio del
Caspio, che nasce in Cecenia e finisce in Kosovo/Albania.
Per il petrolio del Mar Caspio, nonostante la cessione di una
partecipazione del 10% alla compagnia di Stato Lukoil, Mosca ha
espresso la sua ostilità nei confronti di un consorzio internazionale
incaricato del suo sfruttamento, e ha preso in considerazione, nel
novembre del 1994, l’idea di adottare sanzioni economiche nei
confronti dell’Azerbaigian, cui nel maggio del 1995 rispondevano
gli Usa, esprimendo l’auspicio che l’Azerbaigian “stabilisse fondamenti legali inattaccabili, al fine di condurre in porto i suoi progetti
sul Mar Caspio”.
Mosca, però, continua a guardare con diffidenza progetti di oleodotti che esporterebbero il petrolio del Caspio verso i mercati occidentali.
La Turchia e le grandi compagnie occidentali sembrano privilegiare la linea turca: un oleodotto che passerebbe per la Georgia o
l’Armenia per sfociare nel Mediterraneo, sulla costa turca.
La Russia ha prima proposto la sua rete di oleodotti: BakuGrozny-Tikhretsk-Novorossisky/Tuapse, ma l’intervento in Cecenia (inverno 1994) ha suscitato forti obiezioni da parte delle altre
nazioni sulla sicurezza della regione. Successivamente, di fronte
al rifiuto di Ankara di far passare le petroliere per il Bosforo, si
è orientata verso una soluzione bulgara che porterebbe il petrolio
da Astrakhan a Novorossisky e Tuapse, poi attraverserebbe il Mar
Nero fino a Burgas in Bulgaria e, attraverso il porto di Brindisi, verso i mercati occidentali.
Vale la pena ricordare che le zone petrolifere del Caspio coinvolgono aree a maggioranza musulmana, passate da forme di governo
del tipo “clan” all’impero ottomano e a quello sovietico senza un
processo di formazione di Stati moderni, e spesso ritornate, dopo la
caduta dell’impero sovietico, alla formula “clan”. Le loro economie,
occorre tenerlo presente, sono fortemente inquinate dall’economia
di predazione, di guerra, e soprattutto dalle economie claniche e ma-
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fiose, con i conseguenti collegamenti: economia illegale-corruzione
politica-economia legale.
Da parte dei consorzi petroliferi e dei Paesi occidentali si fa appello ai diritti umani e al timore degli integralismi islamici, e da
parte musulmana si fa appello alle lotte antioccidentali. Di fatto,
non sono motivi né umanitari né religiosi (anche se i conflitti sociali
e religiosi sono una componente realmente esistente e utilizzata all’uopo) a decidere gli interventi armati, le guerre sante e le missioni
umanitarie, ma motivi economici e la gestione delle risorse naturali,
soprattutto quelle strategiche.
Carta n. 5 - Il bipolarismo mondiale
Fonte: Nuovissimo Atlante del Touring Club Italiano, 2001;
carta ridisegnata da Nicolino Castiello.
The american Great Game
Nei primi anni Duemila vengono utilizzate due basi aeree in
Asia Centrale: una in Uzbekistan (Karshi-Khanabad, o K2) e una in
Kirghizistan (Manas Air Base), entrambe con la capacità d’ospitare
poco più di mille uomini. La storia di queste due basi riflette lo status dei rapporti degli Stati Uniti con i Paesi dell’Asia Centrale.
“Per quanto riguarda gli equilibri strategici globali – affermava
Massimo Armellini all’inizio della guerra in Afghanistan – lascia per-
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plessi la disponibilità di Mosca a convincere alcune repubbliche ex
sovietiche quali il Tagikistan, ma soprattutto il non del tutto affidabile
(per i russi) Uzbekistan, a mettere a disposizione delle truppe americane non solo gli spazi aerei ma anche aeroporti e basi militari in
cambio, in apparenza, solo di una distrazione occidentale sulla Cecenia. Se, come pare, la X divisione di montagna americana, col pretesto afgano, ha preso posizione in basi uzbeke, non si può non notare
come consistenti truppe Usa si trovino, in prospettiva, a meno di 1500
km da quei giacimenti petroliferi delle Repubbliche ex sovietiche del
Caspio dai quali gli Stati Uniti negli ultimi anni, secondo un’impostazione propria del Dipartimento di Stato (e di Zbigniew Brzezinski6)
hanno cercato, senza molto successo, di tenere lontana la Russia.
La grande scacchiera
Secondo Zbigniew Brzezinski, infatti, l’odierno scenario internazionale ha una connotazione inedita, mai verificatasi prima nel corso
della storia dell’umanità: fin dai tempi della scoperta dell’America,
scoperta che segnò la nascita del rapporto dialogico tra i continenti,
erano stati i popoli e, successivamente, le nazioni eurasiatiche a dominare il mondo7.
6
7
Tra le principali iniziative da lui intraprese, si ricorda il finanziamento dei
mujahiddin in Pakistan e Afghanistan durante la Guerra Fredda, e precisamente
nel 1979. I maggiori sostenitori di tali combattenti furono la Cia, l’Isi (servizi
segreti pakistani) e l’MI6 (servizi segreti inglesi). Tale provvedimento aveva
lo scopo di liberare l’Afghanistan dai russi che lo avevano invaso, evitando
che la minaccia sovietica si espandesse in Asia Centrale. È stato anche il creatore insieme a David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, e
altri dirigenti del gruppo Bilderberg e del Council on Foreign Relations, tra
cui Henry Kissinger, della Trilateral Commission (Commissione Trilaterale),
un’organizzazione fondata il 1973. Si tratta di un’organizzazione dall’ideologia
mondialista nel cui atto costitutivo si legge: “Basata sull’analisi delle più rilevanti
questioni con cui si confrontano l’America e il Giappone, la Commissione si
sforza di sviluppare proposte pratiche per un’azione congiunta. I membri della
Commissione comprendono più di 200 insigni cittadini, impegnati in settori
diversi e provenienti dalle tre regioni”.
Z. Brzezinski, La Grande Scacchiera, Longanesi Editore, Milano 1997.
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Con il collasso dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda, invece, sono gli Stati Uniti, una nazione non eurasiatica, ad aver
assunto il ruolo di potenza dominante nel sistema globale.
L’Eurasia, tuttavia, racchiude ancora, secondo Brzezinski, buona
parte del potere economico e politico mondiale: ecco, perché, nonostante tutto, essa continua a rappresentare la scacchiera sulla quale
si gioca la partita geo-strategica per la supremazia tra le potenze
globali.
La scacchiera eurasiatica rappresentata da Brzezinski non è di
tipo classico: i giocatori seduti al tavolo non sono soltanto due, ma
molti di più. Secondo lo studioso di origini polacche, per far sì che
il blocco occidentale a guida americana conservi il potere è necessario:
1) attrarre lo spazio intermedio nell’orbita europea occidentale;
2) evitare che lo spazio intermedio divenga una sola entità (tradotto
in termini pratici significa evitare la formazione di un blocco russo-sinico);
3) evitare il prevalere di qualsivoglia giocatore sullo spazio meridionale della scacchiera8.
Gli Stati Uniti, peraltro, secondo Brzezinski, rappresentano la
prima vera potenza globalmente dominante della storia, in quanto
i precedenti “Imperi”, da quello romano a quello cinese a quello mongolo, erano di carattere regionale. Per Brzezinski l’Europa
è un alleato naturale dell’America, con la quale condivide valori
culturali ed eredità religiosa (cristiana): proprio la comune radice
religiosa può fungere, secondo Brzezinski, da elemento collante
8
L’incomunicabilità continentale permise addirittura la coesistenza degli Imperi, ognuno dei quali governava il suo mondo, ritenuto l’unico possibile ed
esistente; in particolare, nel 221 a.C., all’epoca delle Guerre Puniche, mentre
Roma si gettava alla conquista del Mediterraneo gli Han unificavano un territorio vasto che consentiva loro di governare su oltre 57 milioni di persone;
quanto all’impero Mongolo, enorme per vastità, esso, grazie a straordinarie
capacità di adattamento alle culture dei popoli conquistati (caratteristica che,
successivamente, ne determinò lo smembramento), dominò per due secoli (dal
1280 al 1405) su un territorio che i moderni studiosi di geopolitica definiscono
il perno geopolitico del potere globale.
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di un ampio sistema eurasiatico di sicurezza e cooperazione “protetto” dagli Stati Uniti. Il problema principale è che l’Europa è
ancora oggi un progetto politico incerto, che tende a illanguidirsi per mancanza di passioni e di un senso di missione, e fatica
a emanciparsi da forme meramente intergovernative, soprattutto
in politica estera. I progetti geopolitici di Francia e Germania rimangono divergenti, provocando incoerenze e fatali titubanze nel
perseguimento delle politiche europee di dialogo con il resto del
mondo. Proprio la condizione di eterna rivalità tra le potenze della
Mitteleuropa crea, secondo l’autore, i presupposti per un’azione
degli Stati Uniti per confermare il suo protettorato nei confronti
dell’Europa, garantendosi in tal modo una testa di ponte per allargare la zona democratica dell’Eurasia, facilitando il controllo
americano sulle zone nevralgiche della scacchiera9.
Nell’attuale momento storico, alla luce delle espansioni a Est
della Nato e dell’Unione Europea, la Germania è nelle condizioni
di riproporsi come potenza leader “di fatto” dell’Europa Occidentale, senza però la forza e il consenso (in primis quello americano)
necessari per assoggettare l’irriducibile vicino francese: una riaccesa rivalità franco-tedesca farebbe implodere l’Unione Europea,
riaccendendo paure e pulsioni anti-tedesche, e metterebbe a serio
rischio gli interessi americani, in quanto una Germania “liberata”
dal sogno europeo tornerebbe ad ambizioni di potenza globale, con
interessi autonomi particolari nello spazio intermedio della grande
scacchiera.
Sulla grande scacchiera è possibile individuare, secondo Brzezinski:
1) cinque giocatori geostrategici principali: Francia, Germania,
Russia, Cina, India;
2) cinque aree geopolitiche centrali (Ucraina, Azerbaigian, Corea
del Sud, Turchia, Iran).
Francia e Germania sono giocatori geostrategici dinamici, che
vogliono aumentare il loro potere con metodi e strategie diverse,
9
Per un approfondimento: G.J. Ikenberry, V.E. Parsi, Manuale di Relazioni
Internazionali, Editori Laterza, Roma 2007.
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ma condividono il progetto comune di un’Unione Europea forte e
capace d’imprimere alla relazione euro-atlantica una prospettiva
maggiormente equilibrata in termini di potere e responsabilità internazionali.
Carta n. 6 - La grande scacchiera
La teoria dello Scontro delle Civiltà di S. Huntington
Nel 1993, Samuel Huntington diede il via a un dibattito tra i teorici delle relazioni internazionali con la pubblicazione in «Foreign
Affairs» di un articolo estremamente influente e citato, intitolato
The Clash of Civilizations? (Lo scontro di civiltà). L’articolo si opponeva a un’altra tesi, relativa alle dinamiche principali della geopolitica post-Guerra Fredda, elaborata da Fukuyama10 in cui veniva
10
Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992
(titolo or. The End of History and the Last Man, 1992).
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tratteggiata la fine della storia con l’avvento della globalizzazione
guidata dalle liberal-democrazie occidentali. Secondo Huntington,
al contrario, la fine della Guerra Fredda non avrebbe portato a un
modello unico, ma anzi avrebbe liberato le diverse civiltà dal giogo
del bipolarismo politico e ideologico Usa-Urss, lasciandole libere
di svilupparsi autonomamente. L’osservazione di Huntington è che
gli equilibri di potere tra le diverse civiltà stanno mutando mentre
l’influenza relativa dell’Occidente è in calo11. Secondo l’articolo e
il libro, i conflitti successivi alla Guerra Fredda si sarebbero verificati con maggiore frequenza e violenza lungo le linee di divisione
culturale e non più politico-ideologiche, come accadeva nel XX
secolo. Huntington crede che la divisione del mondo in Stati sia
riduttiva, e che vada invece suddiviso a seconda delle civiltà e ne
enumera nove:
1. Occidentale;
2. Latinoamericana;
3. Africana;
4. Islamica;
5. Cinese;
6. Indù;
7. Ortodossa;
8. Buddista;
9. Giapponese.
Suppone che, per capire i conflitti presenti e futuri, siano da comprendere innanzitutto le divergenze culturali, e che la cultura (piuttosto che lo Stato) debba essere accettata come luogo di scontro.
Per questo motivo sottolinea che le nazioni occidentali potrebbero
perdere il loro predominio sul mondo se non saranno in grado di
riconoscere la natura inconciliabile di questa tensione.
11
Huntington, in seguito, ampliò l’articolo, facendolo diventare un libro, pubblicato nel 1996 da Simon and Schuster, intitolato The Clash of Civilizations and
the Remaking of World Order (Lo scontro delle civiltà e la nuova costruzione
dell’ordine mondiale).
166
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La critica alla teoria di Huntington e la teoria dell’Incontro delle
Civiltà e delle Identità Plurali di Amartya Sen
Amartya Sen definisce “riduzionista” questo approccio. “Ritenere che la religione costituisca l’unica o la primaria identità di un
individuo è fuorviante. Un individuo appartiene a una molteplicità
di mondi [...]. Questa prospettiva riduzionista si combina con una
percezione confusa della storia, che trascura anche la portata delle
interazioni tra le diverse civiltà”. A questo punto i risvolti pratici
– sostiene – diventano preoccupanti: si rischia di alimentare l’odio
e la violenza che Huntington voleva scongiurare. Nel suo saggio,
Sen spiega come la violenza sia anche un problema intellettuale. Per
disinnescarla occorre insistere sulle identità plurime, identità che
un individuo ha contemporaneamente. È importantissimo capire che
non c’è solo la pluralità, ma una plural plurality, una pluralità nelle
differenze che impedisce le grandi classificazioni. Sen parla anche
di crisi del multiculturalismo, ma in direzione opposta: “Il multiculturalismo nasce come affermazione dei diritti umani, sull’assunto
che non ci devono essere discriminazioni basate su religione, cultura o appartenenza razziale. Poi però è diventato qualcos’altro: oggi,
a volte, diventa un pluralismo delle monoculture. Come navi che
s’incrociano nella notte senza condividere nulla. E questo è molto
pericoloso. Noi dobbiamo conoscere le altre culture. I ragazzi italiani, anche se frequentano una scuola tradizionale, devono sapere
che la parola algoritmo deriva da al-Khowarizmi, il nome del matematico arabo che nel IX secolo ha prodotto un concetto che noi tutti
usiamo nella cultura occidentale”.
Tra i critici di Huntington c’è anche l’Accademia delle Scienze
americana, che ha bocciato per due volte la sua candidatura accusandolo di usare “metodi antiscientifici” nelle sue ricerche.
Dalla geopolitica alla geoeconomia: Edward Luttwak
Luttwak crea un neologismo, la geoeconomia, che, nella struttura teorica iniziale, avrebbe dovuto sostituire la geopolitica o
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
167
quantomeno diventarne la componente predominante. Spiega
che la logica della competizione geoeconomica è quella della
guerra mentre la grammatica (la tattica) è quella dell’economia.
Si tratta in sostanza di un approccio di tipo strategico-militare
all’economia, pur con i dovuti distinguo poiché la competizione
economica presenta comunque caratteristiche diverse da quella
militare. La geoeconomia è, infatti, caratterizzata dai seguenti
elementi:
1. non è mai un gioco a somma zero, dove il beneficio di una parte
corrisponde a una perdita per l’altra. Non è mai un gioco a eliminazione. I conflitti non tendono mai alla distruzione completa
dell’avversario né si concludono generalmente con essa;
2. l’uso solo potenziale della forza a fini dissuasivi svolge un ruolo
minore rispetto al significato che riveste nella geostrategia;
3. il dilemma della sicurezza del pensiero strategico, molto simile
al dilemma del prigioniero, è sostituito dal paradosso della cooperazione, secondo cui si ha tanto maggiore interesse a violare
gli accordi e regole quanto più gli altri le rispettano;
4. in geostrategia di solito vi è un solo avversario, in geoeconomia
sono avversari tutti gli Stati o i soggetti geoeconomici su cui si
tende a conseguire vantaggi economici indebiti;
5. in geopolitica lo Stato ha il controllo completo dei suoi strumenti
e ne conosce la vulnerabilità e la capacità, in geoeconomia tale
controllo è solo parziale. Il sistema economico è a responsabilità
decisionale diffusa ed è percorso da forze che sfuggono alla volontà e al controllo degli Stati. Gli Stati possono solo attivare un
comportamento favorevole ai propri fini mettendosi nella loro
logica e predisponendo opportuni incentivi.
In questo nuovo modo d’iterazione conflittuale tra Stati, le cosiddette armi di distruzione di massa, che caratterizzano i moderni armamenti strategici e che rendono drammatico e difficilmente
attuabile un conflitto armato tra grandi potenze, sono sostituite da
quelle che Luttwak chiama “armi di distruzione commerciale” che
consistono:
168
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nelle restrizioni delle importazioni più o meno simulate;
nelle sovvenzioni alle esportazioni più o meno occultate;
nel finanziamento pubblico di progetti a valenza competitiva;
nell’educazione e preparazione professionale;
nella fornitura di infrastrutture che rendano un differenziale economico in termini concorrenziali;
− in embarghi ecc.
Lo studioso americano tiene a precisare che la nuova era, caratterizzata dal conflitto geoeconomico, non è una regressione
verso una nuova forma di mercantilismo. L’obiettivo del mercantilismo era quello di massimizzare le riserve auree. In questo contesto le dispute commerciali tra Stati spesso diventavano
scontri militari che culminavano in vere e proprie guerre. Un
moderno Stato “geoeconomico”, invece, ha come obiettivo la
prosperità economica della propria popolazione (piena occupazione, benessere e alto reddito) e la guerra è considerata poco
conveniente per i suoi costi sociali ed economici troppo alti. Pertanto mentre nel mercantilismo l’economia era la causa di molte
guerre, nella moderna epoca geoeconomica, invece, l’economia
non è solo causa di conflitto ma anche arma e strumento. Queste
teorie nascono da un intenso dibattito che era in corso negli Stati
Uniti dopo la caduta del Muro di Berlino. Da un lato c’era la
convinzione che la fine della Guerra Fredda stesse provocando
una vera e propria discontinuità nella politica mondiale. Era presente il ricco settore di studio del Japan bashing, che attribuiva
i successi economici nipponici e le difficoltà statunitensi, soprattutto negli anni Ottanta, alle pratiche sleali messe in atto dal
governo giapponese. Con la sostituzione della geopolitica con
la geoeconomia si auspicava un profondo rinnovamento etico e
politico americano, che avrebbe ricostruito le basi economiche
e sociali della nazione. La rivalità geoeconomica avrebbe costituito la nuova minaccia unificante delle energie del popolo degli
Stati Uniti. In quest’ottica, la globalizzazione, il soft power e
l’ideological dominance, avrebbero garantito la superiorità del-
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l’Occidente nel mondo e quella degli Stati Uniti nell’Occidente,
a patto che si lasciassero agire liberamente le forze naturali del
mercato. L’approccio “militarista” della geoeconomia è stato ripreso da diverse scuole di pensiero molto differenti tra di loro:
dai propugnatori della teoria della fine dello Stato della guerra
e del territorio, fino ad arrivare ai critici della globalizzazione
liberista. Vi sono aspetti delle teorie di Luttwak su cui tutti gli
esperti sono concordi come l’esigenza che vengano perfezionati
i sistemi di educazione e formazione professionale e l’adeguamento della forza lavoro alle esigenze della nuova economia, anche in termini di flessibilità e mobilità. L’impostazione geoeconomica luttwakiana è stata oggetto anche di critiche provenienti
da diversi studiosi.
La Cina è vicina?
Appare quindi importante capire in quale misura, da quando
l’impero sovietico è crollato, gli Usa non solo ambiscano all’Anello del mondo, il Rimland, che pure già controllano da tempo, ma
anche all’Hearthland, al Cardine del pianeta. Il petrolio del Caspio
da una parte e l’apertura della Cina dall’altra, con il suo alto tasso
di crescita e per il fatto di essere un mercato molto interessante,
sono due fattori troppo importanti per non mettere stabile dimora
nell’Hearthland da parte degli Usa e della Nato e quindi anche da
parte dell’Europa.
Per la prima volta nella storia, le truppe di un impero prevalentemente marittimo, come quello angloamericano, si troverebbero molto prossime al cuore stesso delle Hearthland, o nucleo centrale euroasiatico, il cui controllo geopolitico dovrebbe
bilanciare il dominio degli oceani e che invece in questo caso
rischia di associarsi a esse, determinando un’egemonia assoluta
statunitense12.
12
M. Armellini, La posta in gioco è il controllo dello hearthland, in «Limes»,
supplemento al n. 4, 2001.
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La Cina, inoltre, entrata nel Wto (Omc, Organizzazione Mondiale del Commercio) conterà nei prossimi 25 anni almeno 600 milioni
di contadini in movimento dalla campagna alle città. Il fenomeno, in
atto da tempo in semiclandestinítà, è diventato evidente dal 1°ottobre, quando le regole per l’inurbazione imposte dalle autorità cinesi
si sono fatte meno rigide, consentendo ai contadini di ottenere il
permesso di trasferirsi permanentemente nei centri urbani. Lo spostamento regolamentato riguarda soprattutto centri fino a 5 milioni
di abitanti, che per gli standard cinesi sono da considerarsi mediopiccoli13.
Ma è necessario anche riposizionarsi dal punto di vista geografico cinese, dove l’Occidente diventa Oriente e l’Oriente Occidente,
cosicché: “Prospettive feconde possono rivelarsi a chi osservi da un
nuovo punto di vista luoghi comuni” (L.L. Whith).
Carta n. 7 - Il mondo visto dalla Cina
13
«Famiglia Cristiana», n. 39/2001.
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171
Carta n. 8 - Dal Golfo alla Cina
Fonti: «Le Monde diplomatique»; Energy Map of the Middle-East and Caspian Sea; Petroleum Economist & Arthur Andersen, London 2000; Central
Intelligence Acency’s 2000 maps and publications (Cia); United States Energy
Information Administration (Eia).
L’Isola Mondo americana: dal Nafta all’Agoa... all’Asia
Nel 1994, la secolare dottrina di Monroe “L’America agli americani”, – in cui non ci fossero quindi intromissioni politiche da parte
dell’Europa ma una specie di protettorato economico degli Usa sull’America Latina, dottrina con la quale gli Usa hanno voluto giustificare la loro ingombrante presenza in tutto il continente americano
– trovò un’ulteriore affermazione attraverso la firma con Canada
e Messico del Trattato Nordamericano per il Libero Commercio
(North American Free Trade Agreement, Nafta).
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Carta n. 9 L’Asia vista dagli Usa
Fonte: The Us government’s Energy Information Administration.
Il Nafta aboliva i diritti doganali (del 4% quelli Usa e del 10%
quelli messicani) creando un mercato di 367 milioni di consumatori con
un Pnl di 6450 miliardi di dollari (reddito medio Canada/Usa=21.000
dollari, Messico=2.490 dollari).
La libera circolazione non solo di merci, e quindi a vantaggio del
Messico e dei suoi prodotti industriali, ma anche delle ben più lucrative
banche e assicurazioni americane e canadesi significava, infatti, libera
circolazione di denaro, che è la merce più redditizia, più mobile e
più facilmente riconvertibile.
Accanto a quello americano c’è pure il cosiddetto Nafta for Africa,
che include anche 25 Paesi caraibici, per un potenziale mercato di
700 milioni di consumatori.
Presentata al Congresso americano già nel 1998 una prima
volta, la proposta di legge African Growth And Opportunity Act
(Agoa), era stata promossa da una coalizione di multinazionali,
l’Agoa Coalition Inc., di cui fanno parte tra le altre: Texaco,
Mobil, Amoco, Caterpillar, Occidental Petroleum, Enron, General
Electric, Chevron, Kmart...
Il Nafta for Africa richiedeva alle nazioni africane che avessero
voluto ottenere i “benefici” derivanti dal commercio con gli Usa, di
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
173
sottomettersi alle regole del Fondo Monetario Internazionale e alla
certificazione del presidente degli Usa, ottenibile solo a determinate
condizioni:
- riduzione delle tasse per gli investitori nazionali e stranieri;
- privatizzazione dei patrimoni e dei servizi pubblici (trasporti, sanità, comunicazioni);
- accesso illimitato alle risorse naturali;
- adozione di politiche agricole per colture estensive destinate all’esportazione;
- ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Accanto al Nafta e all’Agoa, il progetto di Isola Mondo e globalizzazione economica a guida americana e a leadership militare
angloamericana si andava compiendo anche intorno ai Trattati con
i Paesi asiatici dell’Apec, contemporanei alla firma del Nafta,
garantendo così anche sul Pacifico i vantaggi consolidati sull’Atlantico.
I partner asiatici dell’Apec si presentavano infatti come un partner privilegiato degli Usa, con un volume di scambi commerciali
del 50% superiore rispetto a quello dell’America con l’Europa. E si
presentavano per di più come un mercato fortemente appetibile per
le future esportazioni americane, favorite sia da una produzione procapite che raddoppia ogni dieci anni facendo aumentare la capacità
d’acquisto dei consumatori asiatici, sia dalla propensione di queste
popolazioni al risparmio (oltre il 30% del prodotto interno lordo) e
che rappresentava quindi un mercato di grande interesse per banche
e assicurazioni, le più interessate a entrare nei mercati asiatici.
Una maggiore integrazione Usa-Asia raggiungeva anche un altro
obiettivo strategico importante, facendo saltare la teoria dei tre poli
Usa-Giappone-Europa, che si era sostituita al mondo bipolare UsaUrss dopo la caduta dell’impero sovietico, mettendo in una difficile situazione l’Unione europea a ovest e il Giappone a est (che
esportava verso il resto dell’Asia molto più di quanto importasse).
Gli accordi chiusi dall’amministrazione Clinton con i Paesi dell’Apec rafforzavano nel Pacifico la posizione dell’America, ma an-
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cora nel senso del Rimland e quindi dell’Anello marittimo. L’Apec,
infatti, raccoglieva Usa, Canada, Giappone, Cina popolare con Hong
Kong e Taiwan, Australia, Nuova Zelanda, e i sei Paesi dell’Asean
(Asia del Sud est) Indonesia, Tailandia, Malaysia, Filippine, Singapore, Corea del Sud, tutti ad altissima crescita annua.
Ma non andava ancora al cuore del problema, e al cuore del continente, l’Hearthland. Ciò poteva avvenire solo se gli Usa avessero
realizzato sia una posizione forte tra Russia ed Europa, da una parte,
che indebolisse la possibilità di loro legami economici più stretti, sia
una vicinanza accattivante con la Cina, dall’altra parte, giocata sulla
terraferma e non sul mare e soprattutto senza l’interposizione, sul
Pacifico, del Giappone.
Questo problema veniva risolto con l’occupazione non più
mediata dal comandante Massud (o da regimi voluti dagli Usa e
poi rivelatisi, come i talebani, un losco affare) ma con l’occupazione diretta con basi militari del cuore dell’Asia, l’Hearthland,
appunto, rappresentata non solo dall’Afganistan ma anche da
quelle interessantissime Repubbliche Caucasiche ricche di risorse energetiche.
In tale geopolitica, tuttavia, bisognava che l’America facesse i
conti con tre problemi di marca fortemente asiatica:
1) il rapporto tra mercato e democrazia: come garantire cioè la continuazione dello sviluppo mantenendo le strutture di potere attuali, soprattutto delle Repubbliche Caucasiche a base fortemente
clanica, strutture che spesso sono per nulla democratiche e con
una dubbia possibilità di inserirsi nel sistema delle regole democratiche;
2) i rapporti politici tra i Paesi asiatici che rendono problematiche le
leadership regionali sia nel sud est, sia nel subcontinente indiano,
sia nelle repubbliche caucasiche, senza una forte interposizione
di Cina, Russia e Giappone;
3) i rapporti economici fortemente collusi con le mafie locali e con
quelle transnazionali, che rendono ancor più problematica che in
Occidente una separazione tra liberismo globalizzato e capitalismo mafioso.
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175
Carta n. 10 - I comandi regionali militari Usa
(Carta tratta dall’editoriale: Cresci, compra e scappa,
di «Limes», n. 2/2010, Afghanistan addio!)
La carta mostra la divisione del mondo tra comandi regionali militari americani. Indica inoltre gli alleati fidati dell’America,
l’avamposto latino americano, Israele e gli alleati Nato. Inoltre indica le basi Usa che ospitano più di 400 soldati e altri Paesi in cui
ci sono concentrazioni di truppe Usa.
Dal Caucaso al Mediterraneo: mafie, clan e nuove aristocrazie
del danaro
Attualmente nei Balcani, gli Usa possono contare su alcuni risultati sicuri: hanno costruito una grande base militare in Kosovo
(Camp Bondsteel); hanno neutralizzato il Corridoio strategico n.10
sul quale convergevano gli interessi di Russia, Serbia, Grecia e anche Germania; hanno dato il via al versante più occidentale del Corridoio strategico n. 8, sul quale convergono invece gli interessi americani e inglesi; possono contare sull’alleanza di tre Paesi funzionali
176
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al Corridoio: Albania/Kosovo, Bulgaria e una parte della riottosa
Macedonia14.
Dal Mar Ionio fino al Golfo di Batumi l’area presentava conflitti
latenti e tensioni antiche. La caduta dell’impero sovietico, il contatto di queste regioni con le pratiche occidentali di consumo e di immoralità economica, la creazione di nuove aristocrazie mafiose del
denaro, conseguenza della logica di mercato nella sua variante più
liberista e deregolamentata, non fanno che aumentare i conflitti.
Il Caucaso, la Turchia e i Balcani offrono una rotta al traffico
di eroina proveniente dalla prima zona di produzione oppiacea del
mondo: Afghanistan, Pakistan e Iran, collegate alle repubbliche ex
sovietiche dell’Asia Centrale e alla Russia asiatica, la quale sempre più si va trasformando in nodo di traffici di stupefacenti, meno
controllato delle consuete rotte utilizzate dai trafficanti del Sud-Est
asiatico.
Sia in Asia Centrale che in Caucaso la permeabilità delle frontiere è favorita dall’enorme numero di etnie che vivono a cavallo delle
frontiere stesse. Osseti, agiari, ceceni, azeri, armeni, megreli, ecc.,
per quanto riguarda l’area caucasica; kirghisi, kazakhi, turkmeni,
bachiri, tatari, tagichi, osseti, curdi, pachtuni, balutchi, uzbechi, ecc.
per la parte asiatica collegata al triangolo d’oro (Birmania, Laos
Tailandia).
Questi gruppi formano comunità organizzate transfrontaliere
dove vigono più i legami clanici e di solidarietà intragruppo che
le regole democratiche. Per di più questi gruppi hanno vissuto per
secoli in regioni a forti tradizioni imperiali, subendo trasferimenti
forzati di popolazioni in aree periferiche degli imperi (russo, ottomano, austroungarico prima, sovietico poi), sviluppando contemporaneamente sia una forte solidarietà intragruppo e legami clanici ed
etnici fortissimi, sia una forte avversione per l’etnia dominante e lo
Stato che rappresenta. Questi due fattori non fanno che agevolare
14
Intervista di Alberto Negri al generale Jackson, in «Il Sole 24 ore», aprile 1999,
in cui si affermava che i contingenti militari americano e inglese, erano nei
Balcani “per rimanerci a protezione degli oleodotti strategici che attraverseranno questa regione”.
Rivista di Studi Politici - S. Pio V
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un’economia parallela che, in situazione di disgregamento dell’impero sovietico e di forte deregolamentazione economica, non fa altro che favorire l’economia mafiosa.
Economia di produzione, di predazione e la mafizzazione dell’economia
L’economia che si sviluppa durante una guerra è fortemente caratterizzata da elementi che possono definirla come economia di
predazione piuttosto che di produzione, in quanto si basa su legami
di tipo criminale e determina una generalizzazione dell’economia
sommersa.
Tale predazione assume due forme sostanziali:
1) una forma diretta ed estremamente violenta, che comprende le
pratiche del saccheggio e dell’estorsione associate alla pulizia
etnica;
2) una forma più indiretta, che concerne le pratiche di tassazione e
di rendita commerciale collegate all’approvvigionamento delle
popolazioni isolate. Questa seconda forma può comprendere il
prelevamento arbitrario dagli aiuti umanitari (verrebbe sottratto
in tal modo il 30-50% degli aiuti) il controllo del mercato nero e
l’imposizione di vari dazi di transito sui principali assi viari.
D’altra parte, l’aiuto umanitario provoca numerosi dibattiti fra le
organizzazioni non governative (Ong), in quanto fungerebbe spesso
da placebo nelle crisi che non interessano alle classi politiche, ma
anche perché gran parte del denaro speso per quell’aiuto finisce rapidamente nelle mani dei gruppi armati attraverso il saccheggio dei
convogli umanitari (come in Bosnia), la confisca degli aiuti alimentari (in numerosissimi conflitti), il reclutamento da parte delle organizzazioni umanitarie di miliziani che sparano per motivi che hanno
poco a che vedere con la protezione dei medici e degli ospedali. Ma
le Ong sono semplici comprimarie in confronto alle agenzie delle
Nazioni Unite che hanno fondi, attrezzature, personale e risorse ben
maggiori.
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Per esempio, pare che i campi dei rifugiati svolgano una
parte notevole nella logistica dei movimenti armati, dai khmer
rossi ai combattenti del Sudan meridionale. Ma bisogna anche
considerare l’appoggio che l’aiuto umanitario può fornire ai
Paesi che non riescono a procurarsi divise estere. In certi conflitti possono assumere grande importanza le diaspore. Ci si appoggia all’azione dei militanti emigrati. Intervengono tuttavia
grandi differenze nel modo in cui le diaspore si strutturano (o
vengono strutturate) per la raccolta del denaro e per l’organizzazione delle relazioni con il gruppo armato. A questo stadio,
l’economia di tipo mafioso che si può sviluppare riflette non più
l’immagine di un corpo sociale unito dietro ai vincitori, ma di
vari gruppi tenuti assieme dalla forza degli interessi particolari.
L’economia mafiosa non stabilisce, quindi, solo uno specifico
legame transnazionale, ma impone nuove relazioni economiche
alla popolazione, forzandola entro un nuovo ordinamento economico15.
In Asia Centrale le popolazioni dei Paesi caucasici, afgane e
quelle albanesi di Albania, Kosovo e Macedonia sono unite dalle
reti di narcotraffico che hanno stabilito ponti e percorsi privilegiati proprio a partire dai legami familiari e di clan, che sono la
trama su cui si tessono le economie mafiose dell’area balcanica
e caucasica. Oltre ai traffici di droghe slave, che sembrano preferire sempre più Tirana al confine italo-sloveno, e quelli in provenienza dalla Macedonia, ci sono le droghe turche provenienti
dai Paesi caucasici ma trafficate da georgiani e armeni, cui ora
sembrano collegarsi direttamente gli albanesi senza più l’intermediazione turca.
15
Lo Stato del mondo, Il Saggiatore 1996.
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Tabella n. 2
Carta n. 11 - Le vie della droga
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Carta n. 12 - Le coltivazioni del papavero
I settori di specializzazione delle mafie dei Paesi in transizione
Il crimine organizzato e i clan mafiosi, inoltre, non sono solo
articolati etnicamente, ma anche secondo settori di specializzazione
nazionale delle mafie, secondo una sorta di “divisione internazionale del lavoro criminale”.
- Jugoslavia: contrabbando di eroina e armi pesanti;
- Albania: armi, droghe, mercurio bianco, prostituzione, immigrati;
- Armenia: traffico di armi leggere;
- Ebrei ex sovietici insieme a polacchi: auto rubate in Occidente,
soprattutto in Germania;
- Russia: racket della prostituzione, mercurio rosso e uranio e ...tutto;
- Ucraina: traffico sostanze radioattive in Europa occidentale ed
estorsioni agli uomini d’affari;
- Rumeni di origine sovietica (Moldavi): racket;
- Europa dell’Est, specialmente Russia, Bulgaria e Cecoslovacchia:
traffico di antiquariato, diretto specialmente in Italia, Austria, Fran-
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-
-
181
cia e Germania. Nell’ex Unione Sovietica l’80% del patrimonio di
icone (30 milioni di icone) è stato rubato e trafficato all’estero;
Russia, Stati Baltici e Ucraina: auto rubate provenienti prevalentemente dalla Germania;
Asia Centrale e Caucaso: auto rubate una seconda volta da Russia, Stati Baltici e Ucraina;
Mosca con agenzie a New York: oltre alle vendite legali, anche
vendite semilegali di armi e componenti di armi (con l’aiuto di finanzieri e militari) diretti in Transcaucasica, Moldavia e Balcani;
Turchia: forte differenziazione e inserimento in attività legali
(immobiliare, casinò, trasporti, turismo, agenzie di viaggio, pellegrinaggi e immigrazione).
Carta n. 13 Il nucleare indiano e pakistano
182
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Il terrorismo nucleare e quello biologico-chimico
La Teoria del Contenimento sarebbe stata tuttavia non credibile se non fosse stata accompagnata da un altro strumento, ovvero
la Teoria della Deterrenza. A sua volta la Teoria della Deterrenza
richiedeva una minaccia esistenziale di annichilimento globale tramite l’arma più potente che l’uomo fosse mai stato in grado di concepire, costruire e usare che è la bomba nucleare (usata proprio alla
fine della Seconda Guerra Mondiale contro le città giapponesi di
Hiroshima e Nagasaki). In popoli quali quelli dell’Asia Centrale,
senza una tradizione statale ma prevalentemente clanica e che riemergono dalle macerie di guerre e occupazioni a opera di occupanti
differenti, l’economia predatoria viene facilmente riorganizzata in
economia mafiosa.
La proliferazione nucleare accresce fortemente il rischio del terrorismo nucleare, che può assumere due forme: l’uso di armi nucleari e chimiche a fini terroristici e l’organizzazione di attentati contro
obiettivi nucleari e chimici. Nel periodo susseguente alla fine della
Guerra Fredda si sono moltiplicati gli attentati con esplosivi sul territorio statunitense (la prima volta contro il World Trade Center di
New York, il 26 febbraio 1993, la seconda volta a Oklahoma City, il
19 aprile 1995, la terza l’11 settembre 2001), con gas nervino nella
metropolitana di Tokyo, con lettere all’antrace in territorio Usa.
Essi hanno dimostrato la debolezza delle difese delle democrazie,
facendo dubitare della loro capacità di risposta in caso di attentato con
un ordigno nucleare. Gli obiettivi nucleari e chimici (centrali, trasporti di materiale radioattivo, ecc.) sembrano protetti in misura insufficiente. La loro vulnerabilità ha assunto rilievo strategico internazionale
quando, nell’agosto 1992, Radovan Karadžić, il capo dell’autoproclamata Repubblica serba di Bosnia, ha minacciato di bombardare
le centrali nucleari europee se l’Occidente fosse intervenuto nella
guerra in Bosnia. Lo stesso è accaduto anche quando l’ha fatto Bin
Laden.
Accanto a quella nucleare, la guerra chimico-biologica, in un
clima di globalizzazione mafiosa, terrorismi internazionali e caduta
del patto di solidarietà internazionale, sembra ancor più angoscian-
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183
te. Normali sostanze usate nell’industria per produrre detergenti o
ceramiche, se combinate tra loro si trasformano in gas letali, in armi
letali. L’unica possibilità che gli Stati oggi hanno di impedire che
circolino queste sostanze e che vadano a finire in mano a regimi
guerrafondai o a organizzazioni terroristiche e criminali, è controllare le industrie che le producono e di quei cinquanta componenti
con cui si fa il gas nervino e che fanno parte della warning list, la
lista nera di materie strategiche, permettere le esportazioni solo di
prodotti finiti.
Concludendo, occupare l’Herthland appare sempre più pericoloso, rispetto alle epoche precedenti, quasi come sedersi su una
polveriera di fuoco, il Paese dei Fuochi come lo chiamava Marco
Polo, un fuoco fatto di petrolio, guerra, mafie e nucleare: una miscela apocalittica16.
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1998.
16
Il Paese dei Fuochi è il titolo del mio articolo nel prossimo numero, in cui
si analizzerà la geoeconomia collegata al petrolio del Caspio e ai corridoi di
Creta.
184
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Anno XXIII - Gennaio/Marzo 2011