un grande capocuoco

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un grande capocuoco
Prefazione
Un altro grande valsesiano: un'altra storia affascinante di una vita dedicata ad una
nobile professione, coronata dal meritato successo.
Costantino Burla, uno dei più meritevoli cantori della «valsesianità» e dei suoi valori,
con amore e curiosità è andato a ripescare la storia di una dinastia ed in particolare
dell'ultimo rampollo, Giovanni Giacobino.
Una vita movimentata, alla ricerca di sempre nuove affermazioni e di sempre nuovi
successi.
Penso che Burla, nel ricostruire la vita di questo valsesiano illustre, abbia voluto
sottolineare, ancora una volta, come la vita di tutti i nostri più meritevoli convalligiani
risponda ad alcuni denominatori comuni.
L'amore per il proprio lavoro e per la propria professione, per seguire il quale non
esistono vincoli o frontiere, non ci sono limiti agli sforzi ed all'impegno.
La capacità di affrontare, sin dai primi anni, le difficoltà di una vita grama e difficile,
dovuta alla natura delle nostre zone ed alla povertà della nostra economia.
L'amore per la propria terra, cui si rimane sempre legati ed a cui si torna sempre con
profondo amore da qualsiasi parte del mondo ed in qualsiasi momento.
Onestà, serietà d'impegno, limpidezza di comportamento, sono, accanto alle
caratteristiche elencate, altrettante componenti della «ricetta» del valsesiano di
successo.
Dobbiamo, ancora una volta, dire grazie a Burla per aver rimarcato, attraverso la
biografia di Giacobino, che a tratti ha la leggerezza e la profondità di un apologo, tutto
questo e di aver implicitamente ricordato ad ogni valsesiano, qualunque sia la sua
posizione, cosa voglia dire essere valsesiani.
Varallo, dicembre 1981.
Gianluigi Testa
Una valle dimenticata
La Valsesia, da tutti esaltata per le sue bellezze, rinchiusa come in uno scrigno di pe rle
incastonato fra le montagne dominate dalle eccelse guglie del Monte Rosa, è sempre stata,
nei secoli, troppo dimenticata.
Causa la povertà del suolo, che non consente, anche per le avversità atmosferiche, un
adeguato sviluppo dell'agricoltura, i suoi abitanti furono costretti, per vivere, non essendo
sufficienti le magre risorse della pastorizia, dei boschi e dell'artigianato locale, ad
emigrare.
Annullati, dai francesi, al principio del 1800, i privilegi sempre concessi ai valligiani, la
Sesia segnò i confini tra Italia e Francia. Dogane, tasse e dazi sui consumi, gravosi quasi
quanto quelli applicati alle ubertose terre del piano, resero impossibile la vita «in loco». Le
condizioni dei montanari, divenute più misere che mai, accentuarono il loro esodo.
Tornavano, nei mesi invernali, coi loro sudati risparmi che permettevano alle famiglie
di sbarcare il lunario. Poi, in primavera, ripartivano soprattutto verso la Francia, Svizzera,
Germania e Spagna, quasi sempre soli perchè le giovani valligiane, affezionate al suolo
natio, raramente accettavano le loro proposte di matrimonio. E, quando le accoglievano,
preferivano non seguirli e continuare a lavorare nei loro paesi.
Perciò, purtroppo, la pastorizia, affidata quasi esclusivamente alle donne ed agli
anziani, rimase, in Valsesia, allo stato primitivo. La costruzione di nuove strade favori il
disboscamento ed anche le attività agricole, la bachicoltura, l'apicoltura, le coltivazioni
della canapa e della frutta, subirono un brusco arresto.
L'individualismo, l'isolamento e l'assoluta mancanza di spirito associativo, aggravarono
inoltre la depressa situazione economica locale.
Quando poi, verso la seconda metà del secolo XIX, si sviluppò, soprattutto nei centri
della Bassa Valsesia, l'industria, i giovani, attratti da più sicure e redditizie possibilità
d'impiego, affluirono nelle fabbriche delle borgate e città dove la vita era più facile,
comoda e ricca di attrattive.
Non c'era più bisogno di recarsi all'estero e di sprecare tempo e danaro per rivedere i
familiari. Si trasferirono al piano con mogli e figli ritornando soltanto saltuariamente alle
loro povere abitazioni. Così, a poco a poco, la Valle si spopolò.
Impressionati dal precipitare degli eventi, alcuni benemeriti valsesiani cercarono allora
di arginare il preoccupante franamento delle popolazioni alpine.
Compresero che, per frenarlo, dovevano realizzare qualcosa di nuovo qualche opera dì
eccezionale importanza, tale da far affluire nella zona folle di forestieri e di offrire ai
valligiani altre possibilità di lavoro e di guadagno.
Coraggiose iniziative
Sfatata, con la conquista delle più eccelse vette del Monte Rosa, realizzata da animosi
scalatori valsesiani, la leggenda della sua inviola bilità, bisognava renderlo più accessibile
con la costruzione di Capanne e Rifugi indispensabili per incrementare, l'alpinismo.
Bisognava inoltre, per far conoscere e valorizzare le sue splendide vallate e diffondere
il turismo che in quegli anni andava svilup pandosi, con soddisfacenti risultati, in varie
regioni d'Italia creando una nuova fonte di benessere, concretare altre . adeguate
strutture ricettive.
Benemerito pioniere fu, in questo campo, un umile ma valoroso e tenace artigiano di
Mollia, Giuseppe Guglielmina (Juppi) che, trasferitosi ad Alagna Sesia, si distinse anche
come albergatore e guida alpina meritandosi, per il suo ardimento, due medaglie d'oro.
Egli realizzò l'ambizioso sogno di costruire, nel 1876, sul crestone roccioso che divide il
ghiacciaio del Garstelet da quello del Lys, a quota 3647, la «Baracca al Monte Rosa», il
«Ricovero d'Olen» inaugurato nel 1878 nonché, ad Alagna, a Riva Valdobbia, al Mottarone
ed a Santa Margherita, addirittura una catena di lussuosi alberghi.
La sua «Baracca», poi denominata «Capanna Gnifetti», venne acquistata, al prezzo di
L. 738,40, dalla Sezione di Varallo del C.A.I., e diventò il primo Rifugio del Monte Rosa.
Altre iniziative, tra cui la costruzione della ferrovia NovaraVarallo, inaugurata nel 1886
e della Capanna Regina Margherita, a m. 4559, inaugurata nel 1893, il più alto Rifugio
d'Europa, favorirono l'afflusso di forestieri.
Ma tutto ciò non bastava! In quegli anni scoppiò anche il «boom» dell'America, e
centinaia di valsesiani affrontarono perfino i rischi ed i disagi dei viaggi transoceanici, che
duravano circa 3 mesi, per recarsi nel Sud America col miraggio di far fortuna.
Che cosa si poteva fare per arginare l'impressionante spopola mento che continuava a
dissanguare i nostri paesi?
Alcuni eminenti valsesiani, preoccupati da quella drammatica situazione, individuarono
nel turismo la via della salvezza. I turisti, allora, non avevano la mania del mare e dei
viaggi all'estero, ma cercavano luoghi adatti per curarsi la salute e ricrearsi.
Quale zona poteva offrire, più della Valsesia, ricca d'aria pura, d'acqua salubre, di
verde, fiori, laghetti, nevi eterne e pace, simili tesori?
Bisognava però dotarla di moderne attrezzature ricettive e di più comode
comunicazioni.
Ci volevano dei miracoli, degli eccezionali richiami, delle opere di risonanza
internazionale che richiedevano ingenti spese. Chi avrebbe messo a disposizione i mezzi
finanziari indispensabili per fronteg giarle? I nostri padri s'impegnarono a fondo, con
slancio ammirevole, mai più uguagliato per risolvere l'arduo problema.
Benemerito promotore del risveglio fu il dott. Enrico Musso, presidente della Sezione
del C.A.I. di Varallo, che nel 1885 riuscì a costituire una Società che gettò le basi per
edificare un grande Stabilimento Idroterapico a Varallo, luogo ideale per il suo impianto.
L'opera ciclopica, progettata dall'ing. Holzeland di Vienna, un esperto del settore, ebbe
inizio nel 1891 e terminò nel 1893. Sorse così, in località Rondotto, come per incanto, un
vasto parco adorno di pini e castagni, dotato d'un enorme serbatoio d'acqua alimentato
da varie freschissime sorgenti scavate nel cuore della roccia, da una fitta rete
d'irrigazione, da eleganti rotabili, bellissime aiuole, ombrosi viali e campi da gioco, il
magnifico Stabilimento.
Il maestoso palazzo, innalzato al centro del parco, conteneva due saloni per docce,
reparti ben attrezzati per cure mediche specializzate e bagni, due saloni per pranzi e
danze nonchè signorili salotti per conversazioni, letture e divertimenti. Ampie ed
accoglienti anche le camere da letto. Lo Stabilimento, tenacemente propugnato dal dott.
Musso, che già fin dal 1892 aveva lottato per realizzare anche un alberghetto ricovero
venuto a costare L. 2.800 sulla vetta della Res, a quota 1631, dominante la conca di
Varallo ed inaugurato nel 1894, richiamò in Valsesia, da ogni parte, un folto pubblico
cosmopolita e mondano, una clientela formata anche da illustri personalità che resero
celebre la Valle diffondendo ovunque la conoscenza delle sue incantevoli attrattive.
Finalmente la Valsesia, pur essendo sempre imprigio nata tra i monti, era riuscita a
liberarsi dal suo pernicioso isolamento. Nel giro di pochi anni, grandi esponenti della
politica, della scienza e dell'alta società, vennero a visitarla.
In seguito, numerose famiglie scelsero i suoi pittoreschi paesi per trascorrervi la loro
villeggiatura.
Un'epoca d'oro, che purtroppo non rifiorì più nei decenni che seguirono il primo
conflitto mondiale, contrassegnò quegli anni felici.
I saloni del sontuoso Stabilimento, riccamente decorati ed addob bati, erano affollati
da dame e da nobili cavalieri ed i landò percorrenti le strade suscitavano lo stupore dei
valligiani incantati dal fascino di quel mondo dorato.
E qui sbocciò, come annota l'Avv. Enzo Barbano nella sua pregevole «Storia della
Valsesia», l'idillio tra l'a rciduchessa Luisa di Sassonia ed il M°. Enrico Toselli, che durò
una sola estate ma lasciò tracce imperiture nella celebre serenata «Rimpianto», che
l'insigne musicista dedicò alla bellissima principessa di sangue teutonico e di sembianze
nibelungiche.
Incoraggiati e spronati dall'affluenza turistica e dai benefici economici
conseguenti, i valsesiani, che anche nel campo alberghiero si distinsero sempre per
capacità ed intraprendenza, all'inizio del 1900, s'impegnarono a fondo per costruire
alberghi, trattorie e pensioni che sorsero un po' dovunque nelle nostre vallate.
Anche in Val Mastallone, gl'imprenditori andarono a gara nell'edificare alberghi
eleganti ed accoglienti dotati perfino di biblioteche, sale da ballo e biliardi in grado di
soddisfare le esigenze della clientela.
In breve tempo, come per miracolo, ne sorsero 4 a Rimella ed altri 4, senza
contare le osterie, a Fobello: l'«Hotel della Posta Reale» di Giovanni Colla; l'«Albergo
Ristorante Stella», di Natale Montrasio (un milanese colà trasferitosi); l'«Albergo
d'Italia» di Vincenzo Pataccia, e l'«Albergo Alpino» di Raimondo Narchialli, sul Colle
Baranca.
A Cervatto, fiabesco paesino situato a quota 1022, sopra un poggio fiorito e
verdeggiante, a cavaliere della Val del Cervo e di quella più ampia ed estesa del
Mastallone, che lo allietano col dolce mormorio delle loro acque, sorse l'«Albergo Club
Alpino» diretto dal famoso «Capitano», il Nestore dei cuochi valsesiani.
Richiamati non soltanto dall'arcadico incanto dei luoghi, dalla purezza dell'aria
ossigenata dalle folte selve di pini ed abeti, dalla freschezza dell'acqua, dalla serena
pace, dalla tradizionale cordialità degli abitanti e, soprattutto, dall'incomparabile
bontà della cucina valsesiana, che in quegli anni portentosi assunse notevole
rinomanza, i turisti divennero sempre più numerosi con grande soddisfazione di tutti.
Molti abilissimi cuochi, camerieri e baristi della zona si fecero onore richiamando
anche dall'estero una scelta clientela.
Ma purtroppo, a causa delle guerre e del mancato sostegno governativo a favore
delle disagiate popolazioni montane, che pure avevano dato, per salvare la Patria, il
sangue dei loro figli migliori, la «bella epoque», come il sogno d'oro immortalato nella
citata canzone, rapidamente si dileguò, e di quel favoloso periodo di splendore non
rimase che il ricordo.
Allora, per guadagnarsi il pane, i valsesiani, benchè a malincuore, in numero
sempre maggiore, seguendo l'esempio dei loro avi, continuarono a lasciare l'avara
terra natia.
Tra gli emigrati merita di essere ricordato, per le sue eccezionali doti di
perseveranza, intelligenza e laboriosità, il cervattese Giovanni Giacobino che, a
prezzo di durissimi sacrifici, seppe farsi da solo, magnifico autodidatta, un'invidiata
posizione ed un nome prestigioso che resterà nel Libro d'oro della storia valsesiana.
Rievochiamo in queste pagine, perchè i - giovani volonterosi pos sano tentare
d'imitarlo, le vicende più salienti della sua vita, dal travagliato inizio della sua difficile
carriera al luminoso finale coro nato da lusinghiero successo.
Giovanni Giacobino
Giovanni Giacobino, il protagonista della nostra
storia, nacque a Cervatto, uno dei più piccoli Comuni
d'Italia, il 25 marzo 1903. Suo nonno, Giuseppe, era un
montanaro di vecchio stampo che, coadiuvato dalla
moglie Teresa Pataccia, nata a Roy di Fobello, si
dedicava con slancio ai lavori dei campi ed
all'allevamento dei bovini.
Padre esemplare di 5 figli, era stimato e benvoluto da tutti.
Un giorno ebbe la ventura di conoscere il grande
«chef» di cucina della Casa Reale d'Inghilterra, Giovanni
Uccetta di Cavallirio (Novara) che, terminata la sua
carriera, venne a stabilirsi, richiamato dalle bellezze
locali, proprio a Cervatto dove comprò vari appezzamenti di terreno ed anche l'«Albergo d'Italia» a Fobello.
Quivi, aiutato da alcuni bravi garzoni, si dilettava ancora nell'arte culinaria per
soddisfare, con piatti raffinati, la clientela molto selezio nata, tra cui spiccavano
numerose personalità ed amici inglesi che lo elogiavano per la sua valentia.
Era anche un appassionato cacciatore di camosci, allora assai numerosi sui monti
della zona.
Ma, se il buon Giovanni, era una mago della cucina, altrettanto non si poteva dire
delle sue qualità di cacciatore. Anzi, per la verità dobbiamo ammettere che, in questo
campo, faceva sempre pessima figura!
Infatti, mentre i suoi compagni, al termine delle battute rientra vano
immancabilmente in paese con un magnifico camoscio sulle spalle, egli doveva
accontentarsi d'accompagnarli... a mani vuote!
Naturalmente, parenti ed amici lo beffavano dicendogli che non sapeva usare il
fucile e che non sarebbe stato neanche capace di colpire un bue!
Umiliato ed offeso dai loro continui, anche se giustificati richiami, studiò il modo di
prendersi una clamorosa rivincita e di farli restare di stucco.
Ben conoscendo la bravura dell'alpigiano Giuseppe Giacobino, tiratore infallibile
capace di centrare, ad un'adeguata distanza, anche una monetina da 10 centesimi (2
soldi d'allora), gli si fece amico e, lasciati perdere i compagni, volle sempre, in tutte le
battute, farsi accompagnare da lui.
Fu così che, anche se il merito non era suo, potè tornare sempre trionfante dalle
imprese venatorie portando sul dorso, come i suoi denigratori, una stupenda preda!
Inutile descrivere lo scorno dei cugini che, nel vederli riapparire con simili trofei
sulle spalle, restavano con un palmo di naso!
Giuseppe, taciturno ma devoto e cordiale, non solo si vantava della loro abilità ma,
e questo accresceva lo scorno dei calunniatori, attribuiva il felice esito delle catture ai
prodigi del compagno che, a suo parere, era riuscito addirittura a superare il maestro!
Col passare del tempo, Giuseppe diventò l'uomo di fiducia del famoso capocuoco che,
quando venne a morte, per dimostrargli la sua riconoscenza, gli lasciò tutte le vaste
proprietà che aveva acquistato nel territorio comunale di Cervatto, salvo quella della
casa ch'egli abitava, situata dove sorge oggi, in una splendida posizione, elegante,
moderno ed accogliente, il rinomato albergo «Montanina».
Così, grazie alla generosità del suo grande benefattore, Giuseppe divenne uno dei
maggiori proprietari del paese, e potè dedicarsi, con più intenso zelo e profitto, alla
pastorizia ed all'allevamento della prole.
Perciò quando, l'ultimo dei suoi rampolli, Giac omo, gli manifestò la sua ferma
intenzione di apprendere, seguendo l'esempio di altri convalligiani, l'arte culinaria, non
esitò ad accompagnarlo a Torino dove, presso l'«Albergo Persico», gestito da fobellesi,
imparò i primi rudimenti del mestiere.
Negli anni seguenti andò a lavorare a Cuneo e, sempre distinguendosi per le sue
particolari attitudini e l'instancabile attività, lavorò per varie stagioni nei migliori alberghi
della Valle d'Aosta.
Purtroppo, quando già gli sorrideva un brillante avvenire, fu costretto, a causa d'una
insidiosa pleurite, ad abbandonare la carriera ed a tornare a Cervatto per lavorare la
terra ed allevare bovini.
Nel 1900 sposò la compaesana Teresa Zanone, che gli regalò 4 figli: un maschio, il
nostro Giovanni, e 3 femmine.
Giacomo, che dimostrava molta competenza nei problemi locali, anche per le sue
encomiabili doti di onestà ed intelligenza, era assai stimato e perciò, nel 1912, fu eletto
Sindaco del paese, carica che mantenne ininterrottamente fino al 1922, anno in cui, in
seguito all'avvento al potere del regime fascista, venne invitato ad iscriversi a quel
partito, requisito indispensabile per poter essere nominato podestà.
Rispose fermamente che avrebbe riaccettato l'incarico, ma senza la tessera, perchè
voleva mantenere la sua indipendenza, e poichè ciò non era possibile, rassegnò le
dimissioni.
Era intimo amico dei Montaldo di Torino, proprietari del castello che torreggia
sull'orrido del «gulotto» ed insigni benefattori del paese al quale, anche da semplice
cittadino, dedicò sempre appassionata attività.
Anni difficili
La famiglia Giacobino abitava in frazione Giavina, un villaggio situato a circa due
chilometri dal capoluogo, e perciò quando giunse l'ora d'andare a scuola, anche il nostro
Giovanni, come tutti i ragazzi residenti nei centri alpestri, fu costretto a recarsi al centro
a piedi percorrendo una mulattiera ghiacciata durante l'interminabile inverno.
Non c'era la refezione scolastica, e perciò, terminate le lezioni antimeridiane, doveva
accontentarsi di pranzare con una pagnotta, un pezzo di formaggio ed una mela o una
pera del suo orto. Anche se l'aula era abbastanza tiepida perchè ogni famiglia portava,
per ciascun alunno, un carico di legna, si riscaldava, come i compagni, segandola a pezzi
adatti alla piccola stufa.
Al pomeriggio, noncurante del rigido freddo, della pioggia e della neve, camminando
per oltre mezz'ora, rientrava a casa. A Cervatto c'erano però soltanto le tre prime classi
elementari. Per poter frequentare la quarta fu costretto a prolungare il viaggio lungo una
ripida mulattiera (non era ancora stata tracciata la rotabile), gelata e coperta da slavine
d'inverno, che collega Cervatto con Fobello.
Durante le vacanze aiutava i familiari nei lavori campestri e nella stagione estiva si
recava con loro all'Alpe Vandaia a fare il pastorello.
E mentre pascolava le bovine, insoddisfatto di quella povera vita che non
compensava stenti, privazioni e fatiche, sognava di conqui stare, per la sua famiglia e per
sé, un migliore avvenire.
In autunno scendeva con i suoi per alpeggiare nelle baite di Oro Negro, a ottobre si
trasferiva in quelle del Torno e, quando ricominciava a cadere la neve, rientrava a casa.
Stava sempre a fianco della nonna, una simpatica vecchietta cui confidava le sue
speranze ch'ella, con sua grande letizia, alimentava incoraggiandolo ad affrontare
serenamente, seguendo l'esempio della tenace e laboriosa gente valsesiana, senza mai
lasciarsi abbattere dalle immancabili delusioni, la dura battaglia della vita.
Rinfrancato dal suo incitamento manifestò ai genitori la sua ferma intenzione di
dedicarsi, come aveva fatto suo padre, all'arte culinaria.
Suo papà ne fu entusiasta perchè vedeva in lui il continuatore dell'attività ch'egli era
stato, per ragioni di salute, non senza amarezze e rimpianti, costretto ad abbandonare.
I tempi, inoltre, in seguito allo scoppio del primo spaventoso conflitto mondiale, che
causò milioni di morti ed immense miserie e rovine, erano divenuti assai difficili, ed
anche una bocca in meno da sfamare era già un sollievo per le povere famiglie che, col
raziona mento dei viveri, stentavano a sbarcare il lunario.
Perciò, il 20 ottobre 1916, l'alpigiano fu lieto di poter accompa gnare ad Ivrea il figlio
che iniziò, all'«Albergo Scudo di Francia», gestito da suoi conoscenti, come apprendista di
cucina, il suo tirocinio.
Quivi, distinguendosi per diligenza e disciplina, il ragazzino apprese le prime nozioni di
quell'arte che, a prezzo di tanti sacrifici, superando con incrollabile fiducia le avversità,
esplicò poi, con grandi soddisfazioni, per tutta la vita.
Dopo 11 mesi, per poter meglio imparare il mestiere, si trasferì a Milano dove lavorò
nell'«Hotel de la Ville», ch'era allora uno dei più quotati di quella metropoli, fino alla fine del
maggio 1918.
Poi, dopo 19 mesi di lontananza, vinto dalla nostalgia sempre viva nel cuore dei
valsesiani, ritornò a Cervatto per rivedere i familiari che lo accolsero con immensa gioia.
Sapeva benissimo che non conosceva perfettamente i segreti del mestiere, e che
avrebbe dovuto ancora studiare molto e fare una lunga esperienza per apprenderli, ma si
sentiva già in grado di far bella figura lavorando anche da solo.
Perciò, quando il proprietario dell'«Albergo della Posta» di Fobello, preoccupato perchè
non riusciva a trovare un cuoco per la stagione estiva, lo pregò di assumere quell'incarico,
accettò la sua proposta e seppe disimpegnare lodevolmente tale mansione, meritandosi il
compiacimento della clientela.
Avrebbe potuto, per esaudire il desiderio del padrone, continuare a lavorare nel
medesimo albergo per tutto l'anno ma, ben sapendo che per emergere doveva
assolutamente prestar servizio in alberghi ben più rinomati, rinunciò al gentile invito e
cercò di sistemarsi altrove.
Primi traguardi
Grazie alle conoscenze ch'ebbe la ventura di procurarsi a Milano, riuscì a trovare un
posto all'«Hotel Excelsior» di Roma, uno dei più famosi d'Italia, che vantava una brigata
di 30 cuochi, in gran parte veri artisti della professione, diretti dal celebre «chef» di
cucina francese Henry Boyard.
Era proprio questo il sogno ch'egli accarezzava, e poichè era riuscito a realizzarlo si
adoperò con tutte le forze per distinguersi fra i colleghi e farsi apprezzare.
Aveva raggiunto l'ambita meta e confidava di poter restare per qualche anno a Roma
ma, quando venne la primavera, il sig. Boyard lo chiamò nel suo ufficio, lo elogiò per
l'impegno e la bravura che aveva dimostrati in cucina ed anche all'esterno del suo
reparto, ma gli disse anche, a malincuore, che per il suo bene avrebbe dovuto lasciarlo
perché, in base alle non comuni doti evidenziate, poteva conquistarsi una posizione di
maggior prestigio.
A questo scopo, certo di fargli piacere, l'aveva raccomandato al suo collega che
cercava cuochi provetti per il più grande e rinomato albergo d'Italia, il famoso «Excelsior
Hotel del Lido di Venezia», chiuso durante il conflitto mondiale 1915- 18, che stava per
riaprirsi per la stagione estiva.
Il nostro Giovanni ringraziò il benemerito «chef» per il prezioso consiglio e le
affettuose premure e, non senza rimpia nto, lasciò Roma alla fine di maggio ed il 10
giugno 1919 entrò a far parte, come «primo commis» della brigata di cucina
dell'«Excelsior» formata da 58 cuochi e diretta dal valente «chef» Cav. Robert Salin.
Grazie all'esperienza acquistata a Roma ed all'impegno che dimostrò brillantemente
fra i nuovi colleghi nell'applicarla, seppe farsi ammirare.
Anche al Lido strinse numerose amicizie con influenti personalità del campo
alberghiero che, per dimostrargli il loro apprezzamento, s'interessarono per fargli avere
un posto all'«Hotel Paris» di Montecarlo.
Avrebbe potuto tornare a lavorare a Roma ma, vinto dall'ambizione di espatriare per
acquisire nuove esperienze ed apprendere l'idioma francese, accettò.
A fine settembre lasciò Venezia, e poichè l'ingaggio a Montecarlo era fissato per il 1'
dicembre, ne approfittò per rivedere, a Cervatto, i suoi cari.
Purtroppo però, in seguito alla smobilitazione del dopoguerra, le autorità francesi,
accogliendo i giustificati reclami avanzati dai reduci disoccupati che chiedevano d'essere
assunti con precedenza sugli stranieri, non gli permisero di raggiungere quella sede.
Si concesse allora un meritato periodo di riposo per rinvigorire il fisico e godersi un pò
di pace nella serena quiete della Valle natia.
Anche in Italia, sempre a causa della smobilitazione, c'era un'enorme massa di
disoccupati, e non era facile trovare impieghi. Poteva cercare di sistemarsi in Valsesia,
anche se l'afflusso turistico locale s'era notevolmente ridotto, ma preferì tentare altre vie
perché nella sua zona, come ben sapeva, non avrebbe mai avuto la possibilità di far
carriera.
Si rivolse allora al collega sig. Giuseppe Carnaghi di Cameri, «chef» di cucina
all'«Hotel Villa d'Este» di Cernobbio, sul Lago di Como, che aveva conosciuto durante il
servizio prestato a Roma ed ottenne subito, in considerazione dei suoi meriti, risposta
affermativa.
Fu così che, il 1' aprile 1920, dopo un lungo inverno di forzata inattività, venne
assunto, come «primo commis», nella brigata dei cuochi dello splendido albergo di
Cernobbio.
In ottobre, al termine della stagione, ingaggiato dal sig. Boyard, già suo «chef» a
Roma, si recò all'«Hotel Excelsior» di Napoli dove trascorse un incantevole inverno.
In primavera tornò ancora a Cernobbio e, nel 1921, al termine dell'estate, riprese
nuovamente servizio a Napoli, dove, nella prima vera del 1922, sarebbe stato riaperto,
completamente ammodernato, il «Grand Hotel».
Il sig. Carnaghi, cui era stata affidata la responsabilità culinaria dell'inaugurazione e
dei servizi relativi, lo interpellò per sapere se voleva tornare ancora a lavorare con lui. Gli
avrebbe offerto, in caso affermativo, il posto annuo con la qualifica di «Chef
Entremetier».
Il nostro Giovanni, nel ricevere la lieta notizia, gongolò di gioia ma, modesto
com'era, esitò alquanto prima di rispondergli perchè temeva di non essere all'altezza
della situazione. Poi, nel rileggere la lettera, nella quale il sig. Carnaghi, che lo conosceva
bene, gli esprimeva la certezza ch'egli avrebbe saputo disimpegnare bene il nuovo
incarico offertogli, si convinse che doveva accettarlo.
Così, a soli 19 anni, col cuore trepidante ma pieno di speranze, Giovanni Giacobino,
fiducioso di poter vincere la dura battaglia, si accollò la responsabilità di «Chef di partita»
in uno dei maggiori alberghi italiani.
Non tralasciò di prodigarsi al massimo, per farsi onore e meritare la fiducia dei suoi
superiori, e superò brillantemente la difficile prova acquistando un'esperienza che gli
risultò preziosa per l'avvenire.
Ma il suo sogno era sempre quello di espatriare, di vedere nuovi orizzonti, di
approfondire le sue conoscenze professionali.
Un anno dopo, perché chiamato alle armi e destinato al 4' Regg. Alpini, lasciò il
«Grand Hotel» per prestare servizio militare ad Ivrea, nel glorioso Corpo della Penne
nere.
Nel maggio del 1923, collocato in congedo perchè figlio unico di padre inabile al lavoro,
entrò a far parte, come «Chef Entremetier », del personale di cucina dell'«Hotel Majestic»
di Roma dove rimase fino al 31 maggio 1926.
Ormai, anche se avrebbe dovuto impegnarsi ancora seriamente per raggiungere il
vertice dell'ardua carriera, si sentiva già d'essere qualcuno ed era convinto che, anche
senza appoggi, confidando nelle sue sole forze, sarebbe riuscito a primeggiare.,
Intanto, mentre durante il primo conflitto mondiale, lo Stabilimento Idroterapico di
Varallo decadeva passando, nel 1923, a nuovi proprietari ed il turismo, in Valsesia,
registrava una sempre minore affluenza stroncando le coraggiose iniziative dei pionieri
valligiani, nelle più celebrate regioni d'Italia sorgevano grandiosi alberghi che, dotati di
modernissime strutture ricettive e sportive richiamavano schiere sempre più vaste di clienti
in gran parte stranieri.
Nella sua Valle invece, dopo i felici anni del «boom» d'anteguerra, il turismo era in
declino e soltanto realizzando nuove iniziative di grande richiamo avrebbe potuto
riacquistare l'antico splendore.
Mai come allora, il nostro Giovanni, s'accorse d'aver imboccato la giusta strada. Se si
fosse accontentato di lavorare in Valsesia non avrebbe potuto nè affermarsi come voleva
nè ampliare la sfera delle sue esperienze che, ora gli facilitavano l'ascesa verso più
luminosi traguardi.
Non aveva più bisogno di chiedere lavoro, Ormai tutti, conoscendo ed apprezzando le
sue c apacità, andavano a gara dell'offrirglielo. Doveva soltanto scegliere quello che più gli
conveniva e lo interessava. Ma, soprattutto, non doveva riposare sugli allori! La strada da
percorrere era ancora lunga e, certamente, non cosparsa di rose.
Bisognava continuare ancora, senza soste e senza adagiarsi sulle posizioni raggiunte,
l'arduo cammino per raggiungere la meta. Con rinnovata lena si rimise perciò all'opera e, ai
primi di giugno del 1926 lavorò, con molte soddisfazioni, come «Chef Gardemanger », pe r
tutta la stagione estiva, al «Palace Hotel» di Portorose (Istria), coadiuvato da 4 «commis»,
in partita.
Avrebbe dovuto ritornare, per l'inverno, al «Majestic» di Roma, e questa certezza
d'impiego era, in quei difficili momenti, un privilegio che ben pochi potevano vantare.
Brillanti affermazioni all'estero
Neanche a farlo apposta, proprio allora, e più forte che mai, l'idea fissa di recarsi
all'estero per approfondire le sue cognizioni tecniche e conoscere famosi capocuochi,
l'ossessionò.
Conscio delle sue possibilità, convinto che i tempi erano maturi per fare un altro
balzo in avanti e persuaso che, se non si fosse deciso di tentare la sorte non avrebbe
mai potuto affermarsi come agognava, scrisse alle direzioni degli alberghi «Hotel
Principe d'Asturia» a Malaga e del «Reid's Palace Hotel Funchal» a Madera per ottenere
un posto.
Con sua grande soddisfazione ricevette due risposte positive. Senza neanche
conoscerlo, basandosi esclusiamente sui certificati riguardanti i suoi brillanti servizi, i
dirigenti di quei rinomati complessi gli comunicarono che sarebbero stati ben lieti di
assumerlo.
Finalmente, il grande sogno, da tempo invano vagheggiato, era divenuto una
splendida realtà!
Scelse Madera, e non appena potè ottenere il passaporto, con l'animo gonfio di
speranze, dopo un bel viaggio in treno attraverso la Francia, la Spagna ed il Portogallo
giunse, verso la fine d'ottobre, a Lisbona dove rimase per tre giorni in attesa
d'imbarcarsi.
Poi, solcando per la prima volta le azzurre onde dell'immenso Atlantico, dopo due
incantevoli giornate di navigazione, arrivò a Funchal, splendida perla dell'isola di
Madera.
Quivi, cordialmente accolto, lavorò con una brigata di bravi cuochi italiani, francesi,
svizzeri e portoghesi, in qualità di «Chef Tournant» e di «Chef Gardemanger», facendosi
stimare ed elogiare, dal 1 ° novembre 1926 al 15 maggio 1928.
Nell'estate del 1927, poichè il suo «chef» ritornò in Italia per trascorrervi tre mesi di
ferie, fu incaricato, dalla direzione dell'albergo, di sostituirlo. Seppe farsi onore e perciò
quando il suo superiore ritornò nell'isola per riprendere il servizio, ebbe la soddisfazione
d'essere elevato al rango di «Sotto chef» di cucina che disimpegnò lodevolmente.
Si recò poi a Parigi dove, al «Ristorante Monteverdi» ed all'«Hotel Normandy»,
gestiti della medesima direzione, si distinse ancora svolgendo le mansioni di «Chef
Saucier». Ma nella capitale francese si trattenne soltanto poche settimane perchè
preferì accettare il posto di «Chef Rotisseur» offertogli dai dirigenti del «Grand Hotel St.
Moritz Grison» in Svizzera.
Lasciò la Francia a fine giugno ed_ il 1' luglio, dopo una breve scappatina fatta a
Cervatto per riabbracciare i parenti, era già a St. Moritz.
Qui, unico italiano in una brigata di
45
cuochi
elevetici,
disimpegnò
egregiamente i suoi compiti direttivi
fino
ai
primi
di
settembre,
preoccupandosi anche di apprendere la
lingua francese.
Avrebbe dovuto concedersi un po'
di riposo, ma volle restare sulla breccia
e, pochi giorni dopo, quale «Chef
Tournant»,
era
già
nuovamente
all'«Hotel Villa d'Este» di Cernobbio, a
fianco del suo vecchio ed affezionato
«chef» Carnaghi per la stagione estiva.
Richiamato a St. Moritz accettò con entusiasmo, per 5 stagioni (estate 1928- 1929 ed
inverno 1928- '29 e '30) di svolgere gli impegna tivi compiti di «Chef Rotisseur», «Chef
Restaurateur» e «Sous chef».
Nel frattempo, sempre per meglio perfezionarsi, lavorò anche, come «Chef
Gardemanger », al «Grand Hotel Villa Serbelloni» a Bellagio, al «Palace Hotel» di Merano e,
non ancora soddisfatto d'una simile intensa e feconda attività, si recò pure, dal 1° maggio
al 15 settembre 1930, nella Svezia dove, nel famoso «Hovud Restaurant Stockholm», quale
«Chef Rotisseur », potè esplicare in pieno le sue doti di vero artista nell'arte culinaria.
La sua brigata era composta da ben 180 cuochi, e la sua partita da 18 «commis».
L'albergo serviva da 6 a 8 mila coperti al giorno. L'impegno era perciò sfibrante. Si
lavorava febbrilmente per 8 ore con brigate alternate: una al mattino e l'altra alla sera.
Dal P ° maggio al 15 settembre 1931 fu nuovamente a Stoccolma, «Chef Gardemanger
» del «Restaurant Hasselbaken» con una brigata di 80 cuochi e 6 «commis».
Furono proprio quelle prove del fuoco, brillantemente superate, che collaudarono la sua
abilità ed accrebbero la notorietà del suo nome. Da allora, la sua fama non ebbe più
frontiere.
Dal 1 ° dicembre 1931 e fino al 1936, prima come «Chef Rotisseur », e poi quale «Chef
de Cuisine», accettando l'offerta fattagli, si trasferì a Gerusalemme dove, nel «King David
Hotel» riscosse nuovi meritati successi. E proprio qui, nel 1933, dopo un pranzo ufficiale
reale offerto al Corpo diplomatico da S.A.R. Memen d'Etiopia, fu lieto di ricevere, coi suoi
elogi, anche i complimenti dell'Imperatrice, la quale dichiarò che, un banchetto così
perfetto per gusti e presentazione, non l'aveva mai visto nemmeno nei più celebrati
complessi d'Europa.
Nello stesso anno, a Gerusalemme, coronò il suo sogno d'amore sposando Jolanda
Longodorni, nata a Saxon, nel Canton Vallese (Svizzera), che divenne la diletta e fedele
compagna della sua vita.
Ella, cugina prima dell'allora Parroco di Borgosesia, Don Pietro Longodorni, che si
distinse collaborando coi patrioti durante la lotta per la Liberazione e divenne poi Vescovo
di Pistoia, gli regalò, nel 1934, una graziosa figliola.
Dopo un'altra stagione a Bellagio, nel già citato «Grand Hotel Villa Serbelloni», andò
Cortina d'Ampezzo e poi, nel 1937, richiamato a Gerusalemme per l'apertura del nuovo
«German Restaurant», quale «Chef di Cucina», rivalicò il Mediterraneo e conquistò altri
allori restando laggiù fino al 31 maggio 1938.
Desideroso di conoscere anche il Belgio, accettò l'incarico di dirigere le cucine, dal 1'
giugno al 15 settembre 1938, dell'«Hotel Bellevue Wastende Ardenne» affidate a 20 cuochi.
La nostalgia della terra nativa, sempre viva nel suo cuore, lo invogliò a rientrare in
Italia e, sempre come capocuoco, continuò a distinguersi lavorando, nella stagione estiva
del 1939, all'«Hotel Vittoria» di Rimini, ed in quella invernale del 1940, all'«Albergo
Principe» di Biella.
In seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale, che causò altri milioni di morti e
spaventose rovine, l'attività alberghiera restò paralizzata, ed il nostro Giovanni, accogliendo
i consigli del proprietario del «Ristorante Avandino» di Vigliano Biellese, rimase in questa
cittadina fino al termine delle ostilità. Nel 1943 ebbe la grande sventura di perdere il padre,
benemerito amministratore valsesiano, spentosi a 71 anni d'età.
Poi, passato l'uragano, nel 1948, quando gli alberghi si riaprirono, riprese a svolgere le
mansioni di capocuoco, dal 1950 al 1953, nell'«Hotel Schweizerhof», a Vulpera, in Engadina
e nell'«Hotel Alexandra Arosa» nel Canton Grigioni (Svizzera).
In quegli anni diresse pure, d'inverno, le cucine del «Grand Hotel Cervinia» e dell'«Hotel
Miramonti» a Cortina d'Ampezzo.
Nell'inverno del 1954 lavorò poi allo «Strand Casinò» di Basilea e, d'estate, allo «Strand
Hotel Engelberg Twann» sul lago di Bienne (Svizzera).
Nel 1955 fu inoltre capocuoco all'«Hotel Belvedere Spiez» sul lago elvetico di Thunn.
Il grande volo
Ormai l'aquilotto, che da solo, affidandosi esclusivamente alle proprie forze, era
riuscito, superando tutte le difficoltà a lasciare le native montagne per farsi strada nel
mondo, era divenuto un'aquila possente pronta a spiccare il volo verso le più alte
mete.
Il brillantissimo «curriculum vitae» del prestigioso capocuoco valsesiano era la
lampante prova della sua indiscussa competenza e genialità, e la sua fama aveva
varcato gli oceani.
Non dobbiamo perciò stupirci se, un bel giorno, fu chiamato a dirigere le cucine
del più grande albergo messicano.
Quando gli giunse la notizia, che gli dava la possibilità di coro nare splendidamente
l'ambizioso sogno accarezzato fin da fanciullo, di inorgoglire i vecchi amici e,
soprattutto, di far onore alla sua Valle, non esitò un attimo ed accettò l'incarico.
Era finalmente giunta la sua grande ora, da decenni attesa e sospirata e,
pienamente cosciente delle sue responsabilità che avrebbe dovuto assumersi, si
sentiva pronto ad affrontare la difficile prova.
In paese tutti ne parlavano con vivo compiacimento ed anche con giustificato
senso di orgoglio, perchè era la prima volta che un cuoco valsesiano veniva chiamato
`da oltreoceano per dirigere le cucine di uno dei più famosi alberghi americani.
Egli non poteva deluderli ed avrebbe perciò lottato con tutte le sue forze per
essere degno della stima che, a prezzo d'infiniti sacrifici, s'era conquistata.
Ma, l'11 novembre 1955, mentre stava preparandosi per partire, fu colpito da una
tremenda sventura: il cuore della sua adorata mamma cessò di battere per sempre!
Si spense serenamente, tra le sue braccia, dicendogli di non piangere perchè tutti,
quando giunge la nostra ora, dobbiamo lasciarci con la speranza di rivederci in cielo.
Gli disse anche che ringraziava Dio d'averle dato un figlio così buono e laborioso,
e lo incitò a continuare, senza esitazioni, il suo cammino.
Non sarebbe stato solo perchè la sua anima l'avrebbe sempre vegliato e protetto
per tutta la vita.
Un altro imprevisto evento attenuò, per un attimo, il suo immenso dolore.
Sua figlia Ida, che avrebbe dovuto maritarsi, come avevano stabilito, nella
prossima primavera, temendo che, per ragioni di lavoro, egli non potesse presenziare
alle nozze, decise di celebrare il matrimonio
prima della sua partenza.
Non volle contrariarla e perciò, verso la
fine di novembre, con una cerimonia
purtroppo ristretta, a causa del recente lutto,
all'intimità
familiare,
partecipò
al
suo
sposalizio.
Pochi giorni appresso, e precisamente il
15 dicembre 1955 lasciò, col cuore a pezzi,
l'aeroporto romano di Fiumicino e, dopo una
breve sosta a Parigi, giunse a Nuova York.
Durante la traversata atlantica ripensò con
rimpianto al paesello lontano, ai tempi beati
della fanciullezza sfiorita, ai vecchi genitori,
parenti ed amici. Si rivide ragazzino quando,
sfidando neve, pioggia e valanghe, coi libri e
la pagnotta nella cartella, si recava a
frequentare le disadorne scuole di Cervatto e
Fobello, e pastorello, accanto alla nonna ed
alle bovine intente a brucare, nei verdi
pascoli, le tenere erbette alpine.
E ricordando le vicende di quella misera
vita, i suoi sogni di gloria e le dure tappe della
sua ardua carriera, si commosse fino alle
lacrime.
Aveva cominciato dal nulla, per seguire l'esempio paterno, dedicandosi con
appassionato fervore, la sua attività, ed a poco a poco, facendo tesoro degli
insegnamenti ricevuti dai suoi esperti maestri, era riuscito ad affermarsi.
Poteva essere fiero del suo passato e guardare con fiducia all'avvenire.
Aveva saputo farsi apprezare in Europa e nell'Asia, ed il suo nome, fino a pochi
decenni prima sconosciuto, era ormai noto anche in America!
Conosceva tutti i segreti della sua professione, sapeva valutare gli uomini,
comprenderli, guidarli ed affrontare le più ardue situazioni ed era certo che sarebbe
riuscito a superarle nel modo migliore. Animato da questa incrollabile fede proseguì il
viaggio.
Ma quando, giunto alla meta, assunse, quale «Chef Generale», la dilezione delle
cucine del «Grand Hotel del Prado - Città del Messico», il più importante di quella
Repubblica, che contava la bellezza di 1000 impiegati e di 140 «berretti bianchi», provò
una comprensibile sensazione di smarrimento.
Si rinfrancò subito e non si meravigliò nell'apprendere che l'albergo, dotato anche di
bar, ufficio postale, farmacia, negozi, cinematografo, vigili del fuoco ecc., serviva
quotidianamente un minimo di 5000 clienti e, in occasione di particolari banchetti, anche
oltre 15.000 persone! Il suo grandioso salone poteva ospitarne, da solo, 2000. Città del
Messico, capitale della Repubblica, popolata da più di 4 milioni di abitanti e situata a
quota 2227 sul mare era, specie in primavera, per il suo ottimo clima e la suggestiva
varietà dei suoi incanti, un lembo di paradiso che richiamava turisti da ogni parte del
mondo.
La direzione dell'albergo gestiva inoltre il rinomato «Hotel Prado America» ad
Acapulco, splendida località sulle coste del Pacifico e, come se il lavoro che si svolgeva a
Città del Messico non fosse già esuberante per le possibilità di un uomo, affidò al nostro
Giacobino anche la responsabilità di controllare, quale supervisore della cucina e
dell'economato, il funzionamento di quest'ultimo albergo.
Così, ogni mese, egli doveva recarsi ad Acapulco, un bel porto situato in una
splendida baia dell'Oceano Pacifico, dal quale partiva, un tempo, una volta all'anno, il
famoso galeone carico d'oro che portava nella Spagna i tributi riscossi nelle colonie
americane, per ispezionare quei reparti e riferire alla Direzione.
Non si lasciò impressionare dall'enorme mole di lavoro che gli piombava addosso e,
senza perdere tempo, convocò la massa dei suoi collaboratori, dai capi reparto all'ultimo
sguattero, assegnò loro i compiti relativi e, con la bonaria semplicità mai disgiunta dalla
severa dolcezza che lo distingueva, li aiutò, coi consigli e l'esempio, nell'adempimento
del loro dovere.
Riuscì così a farsi amare e stimare da tutti con suo grande compiacimento. Più volte,
in occasione di banchetti diplomatici organizzati, sempre ai suoi ordini, con la massima
cura e con la partecipazione delle maggiori autorità governative, all'«Hotel Prado di
Mexico City», meritò gli elogi di alte personalità tra cui citiamo il gen Eisenhower,
Presidente degli Stati Uniti, la Duchessa di Kent, zia della Regina d'Inghilterra, con la
figlia Principessa Alexandra, il Presidente dell'Indonesia, Sukarno, che volle essere
fotografato a braccetto con lui, e molti altri.
Spesse volte i quotidiani messicani pubblicarono interessanti interviste e fotografie
per elogiare «el famoso Chef de Cocina de renombre mundial, senior Giovanni
Giacobino, maestro del arte culinaria, Chef Generai del Hotel Del Prado di Città del
Messico», che aveva ai suoi ordini 3 cucine, 5 Chefs ed una grande brigata di esperti
cuochi, 5 dei quali italiani.
Egli, definito un «cuoco principe» per la sua vastissima esperienza, fu anche
nominato, con altre due personalità, la signora Josefina Velasquez de Leon, celebre
autrice di 108 libri di cucina ed il «Chef espafol» signor Alfonso Martinez Botis, del
Ristorante «Ambassadeurs», giudice dei «Concurso de Recetas Presto Superchefi>
esple tato in quella Capitale.
Continuò a svolgere con crescente successo tale feconda ma massacrante attività
fino al 30 giugno 1960, data in cui, per cambiamento di gestione, lasciò il Messico per
rientrare in Patria.
Alcuni mesi dopo, spinto dal suo spirito avventuroso ed attratto dal fascino del mare,
volle seguire l'esempio del suo valentissimo collega convalligiano Domenico Stragiotti di
Sabbia, che fece 6 viaggi, quale capocuoco, sul piroscafo «Duilio» lungo la rotta GenovaNew York ed il 5 dicembre, di quello stesso anno, a bordo della motonave «Vittoria» della
Compagnia Incre- Line, di bandiera Liberiana, salpò da Genova.
Giunse a New York il 12 dicembre e partecipò, quale «chef» di cucina, alle crociere
che, ogni 15 giorni, con partenza e ritorno in quella metropoli, si svolgevano per visitare le
più celebrate Isole del Mare dei Caraibi.
Insoddisfatto della vita marinara (s'era dimenticato di essere un Alpino!), tornò in
Italia e, dai primi di aprile alla fine di settembre 1961, diresse la cucina del «Grand Hotel
Londra» di San Remo.
Ma, sentendo pulsare forte nel cuore il richiamo della terra e dell'affascinante vita
messicana, che ricordava con una punta di nostalgia, fu ben lieto di accettare, qualche
mese dopo, l'ottima offerta fattagli di dirigere, a Guadalayara Galisco, i servizi di cucina in
occasione dell'apertura del rinomato Hotel «La Copa de Lece» che, oltre ai suoi due
ristoranti capaci di 1000 coperti ciascuno, vantava anche un Dancing di lusso dotato di due
orchestre in servizio alternato, di spettacoli d'arte varia e di altre attrattive.
Il posto, frequentato da miliardari d'ogni Paese, gli piacque ma, siccome lo trovò un
po' equivoco e troppo gravoso per l'estenuante lavoro, rinunciò all'incarico e, nel marzo del
1962, rivalicò l'Atlantico.
Il 10 maggio successivo già prestava servizio a Kleine Scheideg, sopra Interlaken, ai
piedi della Junfrau, in Svizzera, in un palazzo splendido ma fin troppo tranquillo.
In quei mesi, avendo appreso che la Società Unione Helvetia cercava un capocuoco
molto esperto per il «Grand Hotel Europa» di Lucerna, inoltrò domanda di assunzione e
telefonò al suo fratern o amico Otto Thoni, il più prestigioso «chef» di cucina della Svizzera
perchè l'appoggiasse.
Quest'ultimo ben sapendo che, in quel periodo, l'albergo si trovava in una situazione
disastrosa, intervenne subito presso la Direzione facendole presente che soltanto il nostro
Giacobino sarebbe riuscito, grazie alle sue eccezionali capacità, a salvarlo ed a schiudergli
ancora la certezza di un sereno avvenire.
I proprietari dell'Hotel, anche se non erano molto entusiasti della proposta perchè, in
base alle leggi vigenti, non avrebbero potuto assumere un italiano, non vedendo altre
prospettive di rilancio, l'accettarono.
L'impresa era indubbiamente molto ardua, ma il nostro Giacobino non era un uomo
che si lasciava scoraggiare. dalle difficoltà.
Chiese ed ottenne assoluta libertà d'azione, si mise all'opera con incredibile - slancio
facendosi ammirare per onestà, bravura e diligenza e, sfoderando tutti i segreti del
mestiere, riuscì in breve tempo, fra il generale stupore, a risollevare le precarie sorti
dell'azienda.
Perciò superata la durissima prova, venne riconfermato nell'incarico che disimpegnò
sempre brillantemente, riscuotendo l'unanime plauso, per ben 12 altre stagioni estive, a
Lucerna.
E proprio qui, nell'agosto 1970, mentre insieme alla consorte trascorreva giorni sereni
ricordando i sacrifici, le ansie e le sudate conquiste del passato, gli giunse, improvvisa e
spietata come la folgore, la dolorosa notizia della morte, avvenuta per emorragia cerebrale, dell'unica figlia, madre di tre piccole creature, deceduta sul colpo, ancora nel fiore
della vita, a soli 36 anni d'età.
Fu, per gl'infelici coniugi, una mazzata crudele che non dimenticarono più!
Soltanto i sorrisi e le affettuose tenerezze dei nipotini riuscirono, col tempo, ad
attenuare lo strazio dei loro cuori.
Pochi mesi dopo un altro lutto rattristò profondamente il protagonista della nostra
storia che, con la perdita del caro amico e collega Luigi Mora, uno dei più quotati pasticceri
alberghieri internazionali, sentì nell'anima un profondo, incolmabile vuoto.
Non si lasciò però abbattere dall'avversa sorte e, per alleviare le pene che lo
attanagliavano, dedicò le migliori energie alla professione accettando anche di dirigere le
cucine dei famosi alberghi svizzeri «Plaz Grigioni» a Davos e «Schtzal Hotel», i più
importanti della zona.
Dopo il 1974, i proprietari del «Grand Hotel Europa» di Lucerna, che piansero nel
vederlo partire per godersi la meritata pensione, lo richiamarono ancora offrendogli
sempre più allettanti condizioni economiche. Ma il nostro «chef», per vari motivi, non potè
accontentarli.
Promise che sarebbe tornato da loro soltanto nel deprecato caso di nuove difficoltà di
gestione, che fortunatamente non capitarono più.
Mandò però a Lucerna, ed in tanti altri rinomati alberghi italiani ed esteri, i migliori
suoi allievi dell'Istituto Prof. Alberghiero di Varallo, tra cui ricordiamo Piemontesi di
Agnona, Andreoli di Cravagliana, Franchino di Lozzolo, Milani di Grignasco, ecc. che,
ancora oggi, quando possono usufruire delle ferie, vanno a trovarlo per manifestargli la
loro perenne riconoscenza.
Amore per la Valsesia
Aveva compiuto, raggiungendo il vertice della carriera, oltre 50 anni di servizio nei
più rinomati alberghi del mondo senza mai dimenticare la sua povera Valle lontana, che
ricordava sempre con infinita nostalgia.
Purtroppo la Valsesia, così fiorente agli inizi del 1900, era decaduta durante e dopo i
tragici anni delle guerre e, nonostante le coraggiose iniziative realizzate da benemeriti
pionieri, non aveva più potuto riacquistare l'antico splendore.
Cosa poteva fare per contribuire alla sua rinascita? Questo pensiero lo assillava ma,
per quanti sforzi facesse, non riusciva ad intravedere nessuna via di salvezza.
Rimase perciò sorpreso quando, nella primavera del 1968, fu invitato ad accettare
l'incarico di insegnante nell'Istituto Professionale Alberghiero Statale «G. Pastore»,
recentemente fondato a Varallo.
Ben comprendendo che proprio questa era l'inaspettata e propizia occasione per
rendersi benemerito dei convalligiani e degli altri giovani frequentanti la Scuola, accolse
con entusiasmo la proposta e, per 7 anni consecutivi, insegnò con le parole, ma
soprattutto con l'esempio come, superando con perseveranza ed inesausta fede le
immancabili difficoltà, si può conquistare una invidiabile posizione nel mondo.
È superfluo aggiungere che seppe svolgere magistralmente, riscuotendo unanimi
consensi, anche il nuovo delicato compito affidatogli.
Facendo tesoro dei suoi preziosi consigli, gli alunni appresero infatti, praticamente, i
segreti dell'arte culinaria e quando si recarono a lavorare nei migliori alberghi nazionali
ed esteri, non mancarono di fargli onore.
Il solo fatto d'essere allievi del prof. Giacobino, era un titolo di merito che apriva loro
il varco verso più ambite mete.
L'anziano insegnante, che li seguiva - e li segue tuttora - con filiale affetto durante la
carriera, per incoraggiarli, sostenerli e spro narli a compiere sempre, col massimo
impegno, il loro dovere, come aveva già fatto per aiutare i colleg hi volonterosi quand'era
loro «chef», ne era orgoglioso e felice.
Era proprio quello il suo premio più ambito perché, donando ai giovani la parte
migliore di se stesso ed incitandoli a proseguire con tenacia l'arduo cammino, sapeva di
forgiare schiere di «chefs» valo rosi, che sarebbero stati degni continuatori della gloriosa
tradizione alberghiera valsesiana e, nel contempo, di contribuire al rilancio economico
della sua amatissima terra.
Non si. stancò mai d'invitarli a lavorare con passione e fiducia senza lasciarsi
abbattere dalle inevitabili delusioni, perchè la strada del successo è sempre lunga e
cosparsa di tante spine.
Ora, il nostro caro Giovanni, che si meritò il Diploma d'onore della Federazione
Italiana Cuochi, e quello di Chef di cucina rilascia togli dalla Società Albergatori svizzeri,
trascorre sereno, a Varallo, accanto alla diletta moglie ed agli affezionati nipoti, confortato
dalla stima e dalla cordiale simpatia dei convalligiani, gli ultimi anni della sua nobilissima
vita.
E, nella stagio ne estiva, fin quando lo smeraldo delle selve non si trasforma in una
tavolozza d'oro, ritorna a Cervatto per rivivere, con la premurosa consorte, nell'incanto
fiabesco del suo paesino, gli anni tribolati ma felici della sua fanciullezza lontana e
rievocare le tappe radiose del suo mirabile cammino.
È stato, per le sue doti eccezionali, un capocuoco principe, di fama internazionale, ed
un maestro di civiche virtù.
Ora, dopo aver avuto per orizzonte il mondo, è lieto d'essere rientrato nel suo piccolo
nido.
E tutti, memori del suo fulgido passato e della sua paterna bontà, si augurano di
poter rivederlo ancora, ilare e sereno, per tanti anni, lassù!
Il prof. Luciano Bosso, preside dell’istituto; i capocuochi Francop Matteis e
Giovanni Giacobino ed alunni
Il prof. Giacobino e gli alunni della 1° classe dell’Istituto Alberghiero
reparto cucina
Insegnanti ed alunni dell’Istituto Alberghiero di Varallo all’inizio dei lavori
Allievi cuochi dell’Istituto Alberghiero di Varallo, 1° classe
Istituto Prof. Statale Alberghiero “g. Pastore” varallo
Lavori in pastigliaggio e croccanti
Opere dello stesso autore:
LEGGENDE ALPINE - Ediz. S.E.I. - Torino - 1950 (Esaurito) VEGLIE SULL'ALPE Ediz. Corradini - Borgosesia - 1979 NOVELLE ALPINE - Ediz. Corradini Borgosesia - 1980
CANTI DELLA MONTAGNA - Ediz. Ghelma - Roccapietra - 1950 - (Esaurito)
VALSESIA - Guida breve di Burla e Lova - Ediz. Ghelma - Roccapietra - (Esaurito)