Vermeer il secolo d`oro dell`arte olandese

Transcript

Vermeer il secolo d`oro dell`arte olandese
Vermeer il secolo d’oro dell’arte olandese Stile e osservazione nell’arte di Vermeer Testo in catalogo di Walter Liedtke1 Oltre quattro secoli dopo il caustico giudizio di Michelangelo sulla pittura dei Paesi Bassi, è possibile che gli ammiratori dell’arte olandese e fiamminga soffrano ancora il sarcasmo delle sue affermazioni, pur essendo consapevoli della visione inevitabilmente limitata che il fiorentino aveva della materia. Secondo Francisco de Holanda (1517‐1585), umanista e pittore portoghese che lo aveva conosciuto tramite la poetessa petrarchista Vittoria Colonna (1490?‐
1547), il grande maestro italiano sosteneva che la pittura fiamminga “piacerà molto alle donne, specialmente a quelle molto vecchie o molto giovani, a frati e suore, e qualche nobile non conoscitore della vera armonia. Nelle Fiandre si dipinge per ingannare la vista esteriormente, si tratta o di soggetti che rallegrano o di quelli dei quali non si possa dire male, come santi e profeti. Dipingono cenci, casupole, verdi campi, ombre di alberi, fiumi e ponti, chiamando tutto questo paesaggio, e aggiungono inoltre molte figure qua e là. Il tutto, anche se sembra bello ad alcuni, di fatto è dipinto senza ragione né arte, senza simmetria né proporzione, senza discernimento né scelta, senza nessuna personalità né carattere”. Del resto, l’adagio secondo il quale “ogni pittore dipinge se stesso” risale proprio all’epoca di Michelangelo e non c’è bisogno di osservare con attenzione la volta della Sistina per rendersi conto che con quelle parole l’artista si riferiva tanto a se stesso quanto a pittori del nord Europa come Rogier van der Weyden e Hugo van der Goes. Nondimeno, è probabile che oggi gli amanti dell’arte, in Italia come in molti altri paesi, condividano l’opinione di Michelangelo rispetto a ciò che gli antichi pittori nederlandesi sapevano far bene e a quanto non facevano affatto, e applichino giudizi simili agli artisti olandesi del Seicento, se non ai loro celebri contemporanei fiamminghi, Rubens e Van Dyck (i quali conobbero un periodo di rigoglioso sviluppo artistico negli anni trascorsi in Italia). Nei grandi musei europei e americani siamo abituati a sentire parole di ammirazione per la resa straordinaria dei particolari in una natura morta olandese o in un interno di genere di Gerard Dou, mentre Gerard ter Borch continua a sorprendere per la sua abilità nel descrivere le superfici della seta, del raso, del velluto. Non stupisce dunque che l’ipotesi alquanto semplicistica formulata nel libro Secret Knowledge (2001) dal pittore contemporaneo David Hockney (la cui arte è più stilizzata che descrittiva), secondo il quale ogni progresso nell’arte del realismo europeo – da Jan van Eyck a Caravaggio e oltre – è stato compiuto grazie all’ausilio di strumenti ottici abbia suscitato ampi consensi nel pubblico. Deve essere incoraggiante sapere che la differenza tra sé e un grande artista del passato non è dovuta al genio, al talento o al duro lavoro, ma all’innovazione tecnologica, all’equivalente rinascimentale di una fotocamera digitale (priva di memoria però, si potrebbe obiettare). Hockney stesso è un artista molto dotato che unisce il talento del disegnatore inglese (anziché fiorentino) ai colori di Los Angeles (anziché di Venezia) e a un’abilità nell’autopromozione paragonabile a quella di Benvenuto Cellini. La sua conoscenza del disegno è tale che anche togliendosi gli occhiali e facendo a meno di qualsiasi ausilio ottico per esaminare la Giovane 1
Curator of European Paintings, Metropolitan Museum of Art di New York donna con una brocca d’acqua di Johannes Vermeer, se anche non riuscisse a distinguere il sesso della figura per l’incapacità di metterla a fuoco, pure si renderebbe conto che la composizione è formata da una sorta di cono collocato fra tre sagome rettangolari; che le forme sono accuratamente collegate, quasi fossero ritagliate in silhouette o scolpite a rilievo; che il dipinto è giocato sulla contrapposizione tra tonalità scure e luce brillante e che la tavolozza è limitata ai colori primari – rosso, blu e giallo – con una zona di bianco puro al centro. Una volta riacquistata la chiarezza della visione, l’artista potrà osservare come i panni di lino che ricoprono la testa e le spalle della donna siano utilizzati (come il nimbo che circonda il capo della Vergine negli affreschi medievali) per incorniciare un volto sereno e idealizzato in maniera sorprendente, caratterizzato dalla fronte alta e da un trattamento quasi geometrico del naso e degli occhi, quasi fosse stato eseguito da un pittore della cerchia di Piero della Francesca, invece che da un artista attivo nell’epoca in cui Frans Hals e Rembrandt dipingevano le loro ultime opere. Queste qualità dell’ideazione pittorica di Vermeer hanno una finalità assai diversa da quella “esattezza esteriore” che Michelangelo ravvisava nell’arte fiamminga. Di fatto, la simmetria, la proporzione, il “discernimento e la scelta” che egli prediligeva nelle opere d’arte sono tutti presenti in questo dipinto e trasmettono un “senso d’armonia” che il maestro fiorentino avrebbe potuto apprezzare se solo fosse stato in grado di vedere al di là del soggetto apparentemente secolare: una giovane donna intenta alla toletta mattutina, con un catino e una brocca d’argento dorato, un portagioie spagnoleggiante e un filo di perle con un nastro azzurro usato per allacciarlo al collo (il gesto che vediamo compiere posatamente, quasi fosse un rituale, dalla Donna con collana di perle, di poco successivo). In realtà, il soggetto essenziale o il tema di questa Giovane donna con una brocca d’acqua non è un gesto quotidiano, ma un certo tipo di armonia: quella tranquillità domestica che i cittadini della Repubblica Olandese, di recente divenuta indipendente (disegnata sulla cartina appesa alla parete), potevano assaporare negli anni cinquanta e sessanta del Seicento, il primo periodo di pace e prosperità negli ultimi trenta (o persino ottanta) anni e più. Il rapporto tra forma e contenuto, o tra stile e significato, è cruciale per il successo di un’opera d’arte in quanto tale. Se qualcuno avesse chiesto a Rembrandt, Rubens, Caravaggio o allo stesso Michelangelo di dipingere, ciascuno alla sua maniera, un soggetto analogo (Vittoria Colonna nei suoi appartamenti, ad esempio) o identico a questo, è probabile che nessuno di loro lo avrebbe reso con la stessa efficacia di Vermeer. Il pittore di Delft infatti elaborò uno stile personale che si confaceva in modo ideale alla rappresentazione di un tema consueto nella sua produzione: il mondo privato di giovani donne, talvolta accompagnate da pretendenti, guardate da un (presunto) osservatore maschile che pur attratto dalla figura, ne viene mantenuto a distanza, come se la scena si svolgesse al tempo stesso davanti ai suoi occhi eppure solo nella sua mente. Gli autori del presente catalogo condividono con David Hockney un vivo interesse per gli strumenti ottici d’epoca rinascimentale e barocca, con la differenza che il nostro entusiasmo per le lenti, la camera oscura e quant’altro, si è sviluppato nel corso di quarant’anni di studi ed è basato su testimonianza storiche. Per molti osservatori, gli effetti ottici della pittura di Vermeer sembreranno più degni di nota delle sue convenzioni stilistiche (sotto questo aspetto l’artista di Delft sembra essere il rovescio di Poussin, autore di composizioni disciplinate che spesso contengono passaggi di meravigliosa osservazione). Il trattamento vermeeriano della luce, dello spazio, del fuoco (nella fig. 1 il braccio e la mano che regge la brocca sembrano accennare un leggero movimento) e altre caratteristiche apparentemente ottiche evocano un profondo interesse per la natura stessa della visione. Il braccio nudo della giovane donna teso verso la finestra (composta da sezioni di vetro chiaro, diseguali e legate a piombo) non è altro che una piatta zona d’ombra illuminata, nella parte inferiore, da una stria di luce naturale. Gli studi di anatomia non sono necessari, qui si tratta di pura visione, come se l’osservatore avesse appena recuperato la vista dopo una vita trascorsa nel buio della cecità e ora vedesse solo luci e ombre, forme e superfici, toni e colori. E tuttavia, malgrado l’intenso studio vermeeriano delle sembianze del reale, al di là della finestra non vediamo altro che le dita della donna nella luce solare. Il vetro azzurrino è come una metafora del cielo, del sole e dell’aria fresca, che è piacevole far entrare in casa all’inizio del giorno. Sulla superficie della brocca, accanto al manico, le bande verticali rosse e blu sono il riverbero del drappo gettato sulla spalliera della sedia e della parte interna del coperchio del portagioie; sotto al bordo del catino vediamo i riflessi, simili a confetti, dei disegni del tappeto poggiato sulla tavola. Questo passaggio, pur visivamente convincente, risulta poco accurato sotto il profilo ottico, come pure i riflessi di luce all’interno del catino. I contorni della testa della donna, delicatamente ombreggiati, si intravedono attraverso il lino sottile del copricapo, mentre i teli di raso giallo e le bordure della manica della giacchetta emergono sotto la stoffa increspata della mantellina che le copre le spalle (il costume lascia intuire che la donna sta per uscire, come usavano fare le olandesi, senza dama di compagnia). Lungo il bordo della gonna di un blu intenso, il colore sfuma leggermente nello sfondo brillante. Non si tratta di un effetto imprevisto dovuto all’invecchiamento chimico, ma è frutto di una precisa scelta del pittore che sfuma accuratamente i contorni sovrapponendo strati di colore: dalle sue osservazioni il pittore di Delft doveva aver concluso che le forme nello spazio non sono delimitate da linee nette, con buona pace di Michelangelo. A sinistra della gonna, sotto il gomito sollevato vediamo una sagoma indistinta, verticale e bluastra: la spalliera di una sedia (come quella disegnata sulla destra) vista di profilo che Vermeer aveva disegnato in primo piano per poi eliminarla successivamente. Le radiografie e altri “strumenti ottici” rivelano le numerose modifiche che l’artista apportava alle sue opere, la cui realizzazione richiedeva secondo i conservatori tre o quattro mesi di lavoro ciascuna. Vermeer non poteva certo chiedere alla modella di rimanere immobile per un’intera stagione, né ordinare alla luce di restare la stessa per un’ora intera e neppure poteva mantenere l’identica sistemazione dei mobili e degli altri oggetti che vediamo nel quadro (anche se certamente studiava motivi isolati, come la brocca e il catino o il tappeto, soprattutto in relazione al loro aspetto nelle diverse condizioni di luce). Gli interni di Vermeer, spesso differenti nelle dimensioni, rimaneggiati nelle decorazioni (non solo per quel che riguarda la mobilia, ma anche i pavimenti, i soffitti e le finestre) e pieni di oggetti non citati nell’inventario completo dei beni presenti nella casa in cui viveva (non vi è traccia di arazzi o brocche con catini, né di carte geografiche o di strumenti musicali) sono tutti frutto d’invenzione, o presi in prestito da altri, e dipinti sulla tela in uno spoglio sottotetto da un artista raffinatissimo, dotato di una straordinaria memoria visiva e ben informato sulla produzione dei contemporanei olandesi (e in parte fiamminghi) – non solo di quelli rappresentati in questa mostra, ma anche di molti altri. VERMEER AUTODIDATTA I pittori che risiedevano nelle Province Unite dei Paesi Bassi, o “Repubblica olandese”, appartenevano per lo più a famiglie della classe media ed erano di condizione modesta o agiata. Il padre di Vermeer gestiva con grandi difficoltà una locanda e apparteneva come suo padre (un sarto), alla classe medio‐bassa. Per contro, Rembrandt (1606‐1669), più vecchio di lui di una generazione, era figlio di un mugnaio che disponeva di risorse sufficienti per mandare il futuro pittore a scuola di latino, all’università di Leida, nella bottega di un artista locale di una certa importanza e persino ad Amsterdam, come apprendista (per sei mesi) presso il celebre maestro Pieter Lastman. Quest’ultimo, figlio di un orafo, aveva trascorso molti anni a Roma. Del resto, grazie alle loro famiglie, molti artisti olandesi potevano permettersi di affrontare le spese del viaggio e della residenza in un paese straniero, facendo temporaneamente a meno di introiti regolari derivanti dalla vendita dei quadri e dalle lezioni private. Tuttavia, nel caso del padre di Rembrandt simili opportunità erano superiori ai suoi mezzi (tanto è vero che l’altro figlio ricevette una scarsa istruzione) e in quello di Reynier Jansz (il padre di Vermeer, 1591 ca.‐1652) semplicemente impensabili. Nondimeno, sembra che Reynier Jansz apprezzasse la pittura e le cose raffinate. Prima di diventare locandiere, il figlio del sarto era stato apprendista tessitore di “caffa”, un tipo di seta operata simile al damasco. Nel 1623 lui e la moglie Digna Baltens (erano stati uniti in matrimonio da un predicatore calvinista nel 1615) possedevano un discreto numero di abiti di buona qualità e capi di biancheria oltre ad alcune porcellane (forse cinesi), oggetti di latta e diversi quadri, tra cui i ritratti dei principi olandesi Maurits e Frederick Hendrick, alcune scene dell’Antico Testamento e il dipinto di un “suonatore italiano di flauto con cornice dorata”, probabilmente opera di un caravaggista di Utrecht. Reynier Jansz intratteneva buoni rapporti con Willem de Langue, pubblico notaio, poeta e calligrafo di Delft che dagli anni venti dei Seicento in poi collezionò numerosi dipinti e disegni. Tra il 1629 e il 1631, Reynier fece spesso da testimone durante la stesura di atti notarili presso De Langue, in cui viene citato come locandiere anziché come tessitore. Il 13 ottobre 1631, Reynier si iscrisse alla gilda dei pittori di Delft in qualità di mercante d’arte. Nei Paesi Bassi i locandieri erano spesso dediti al commercio di quadri, in un’epoca in cui gli artisti olandesi non trovavano molti spazi pubblici in cui offrire le proprie opere, la maggior parte delle quali veniva venduta direttamente negli atelier. Proprio come De Langue, il padre di Vermeer era in contatto con un certo numero di artisti attivi a Delft e nella vicina città dell’Aia, sede della corte. Nel 1641, Reynier Jansz, che aveva recentemente adottato il cognome più comune di Vermeer (come il fratello prima di lui) si trasferì in una casa con locanda situata nella piazza del mercato di Delft, nelle immediate vicinanze del campanile della Nieuwe Kerk (Chiesa Nuova, 1383‐1510). La casa, chiamata “Mechelen” (il nome olandese di Malines, nei pressi di Bruxelles), era stata acquistata per 200 fiorini in contanti e 2.500 a rate: un investimento che andava ben al di là di quanto Reynier potesse permettersi, visto che nel 1652 aveva un debito di 250 fiorini con un commerciante di vini (una somma che un falegname, ad esempio, guadagnava in cinque o sei mesi), e nel 1669 la sua vedova stava ancora pagando le rate della casa che nel frattempo cercava di vendere all’asta. Nell’ottobre 1652 Reynier morì. Il fatto che la locale Casa della Carità non ricevette per l’occasione neppure una piccola donazione, come si usava fare, è un chiaro sintomo di problemi economici. Queste circostanze spiegano probabilmente il motivo per cui il maestro di Vermeer non è mai stato identificato. Al momento della sua iscrizione alla Gilda di San Luca, il 29 dicembre 1653, gli venne chiesta una quota di 6 fiorini (ne versò subito uno e mezzo e saldò il debito nel luglio 1656). Ai figli dei membri della gilda (e Reynier Jansz lo era) venivano solitamente richiesti solo tre fiorini, a condizione che avessero trascorso un apprendistato di almeno due anni presso un maestro iscritto alla corporazione. Da questo e dalle prime opere note di Vermeer (specialmente la Mezzana), alcuni studiosi hanno dedotto che il pittore di Delft avesse studiato presso un maestro di Utrecht o di un’altra città olandese. Secondo questa logica, Reynier Jansz, che riusciva a stento a saldare i debiti coi fornitori, avrebbe pagato al figlio vitto, alloggio e l’onorario di un maestro, per mantenere Johannes (che all’epoca doveva avere diciotto o vent’anni) fuori città, invece di tenerlo con lui alla Mechelen, dove per di più avrebbe potuto dare una mano a lui e alla moglie (che alla morte del marito aveva circa cinquantasette anni). Anche l’unica sorella di Vermeer, Gertruy, avrebbe potuto lavorare nella locanda, ma nel 1652 aveva trentadue anni ed era stata sposata per cinque anni con un fabbricante di cornici. Appare dunque più verosimile che Vermeer abbia appreso i fondamenti dell’arte da un pittore minore della sua città, pagandolo probabilmente in cibo e bevande e offrendo in vendita i suoi quadri alla Mechelen. Analogamente, nel 1641‐42, quando era ancora uno sconosciuto pittore di Delft, Emanuel de Witte dava lezioni al nipote adolescente del caposquadra di un birrificio in cambio dell’uso di una camera e della soffitta di casa sua. È curioso pensare che il pittore di interni accoglienti e talvolta, almeno per gli standard olandesi, sontuosi (quelli coi pavimenti in marmo, ad esempio), in cui figurano oggetti rari e preziosi quali strumenti musicali, tappeti turchi o persiani, brocche d’argento dorato e personaggi distinti ed elegantemente vestiti era un giovane uomo (morì all’età di quarantatré anni) che non ebbe mai una casa tutta sua e molto probabilmente non possedeva nulla di più costoso che un dipinto minore di un altro artista. Prima del suo matrimonio con una ragazza cattolica, Catharina Bolnes (1631 ca. ‐ 1688), il 20 aprile 1653, e per qualche tempo dopo, Vermeer abitò alla Melchelen per poi risiedere dalla metà degli anni cinquanta alla fine della vita, in casa di sua suocera, sulla Oude Langendijk, a poca distanza dall’ingresso principale della Nieuwe Kerk. L’artista condivideva questa casa, più spaziosa della prima, con la moglie e la suocera Maria Thins (che nel 1653 aveva circa sessant’anni), una o due domestiche e, dopo il 1654 (probabile data di nascita della prima figlia Maria), un numero sempre crescente di figli, soprattutto femmine. In cima all’abitazione, in una stanza nel sottotetto disposta a nord (verso il campanile della Nieuwe Kerk), Vermeer dipingeva scene di corteggiamento elegante, donne che leggono o rispondono a lettere d’amore, suonatori di vari strumenti, un gentiluomo intento a riflettere sul vasto mondo e giovani donne con indosso costumi esotici o orecchini di perla di grandezza inusitata (che probabilmente, ammesso siano davvero esistiti, erano fatti di vetro). Nel frattempo, al piano di sotto, Maria Thins, vera responsabile della casa (come la madre di Vermeer lo era della propria) faceva fronte insieme alla figlia perennemente incinta ai bisogni del quotidiano, occupandosi della cucina, della pulizia, della cura dei bambini (alcuni dei quali morirono in tenera età) e così via. Il contrasto con le scene che Vermeer andava creando nello studio piccolo e disadorno – un pavimento di assi di legno privo di tappeti, due “sedie spagnole”, una scrivania, qualche rara tela, alcune tavole e stampe e (secondo l’inventario stilato il 29 febbraio 1676) “cianfrusaglie che non val la pena elencare separatamente” – non potrebbe essere più stridente. L’invenzione più fantastica che Vermeer abbia mai dipinto non si trova tuttavia tra le rappresentazioni di interni eleganti occupati da giovani donne, ma nel magnifico studio raffigurato nell’Atelier del pittore, testimonianza straordinaria dell’immaginazione di un artista noto soprattutto per la sua abilità nel descrivere ciò che vede, come la luce che pervade questa immagine della vita sognata dal pittore di Delft. Come ogni esperienza visiva, gli effetti di luce sono effimeri, mutano rapidamente e vengono notati solo quando riescono a catturare per un attimo l’attenzione dell’osservatore. Capire questo significa rendersi conto della notevole memoria visiva di cui Vermeer era dotato. L’artista era capace di descrivere il modo in cui la luce cadeva su un muro imbiancato, un pezzo di stoffa scintillante o opaca, la superficie irregolare di una grande carta geografica o altri passaggi che avrebbero richiesto più di un pomeriggio – e persino più di qualche giorno – per essere portati a termine. Allo stesso modo era capace di ricordare gli effetti di luce che aveva notato nei dipinti di altri artisti e di portare queste immagini nel proprio studio per poi ripeterle, o meglio per farle rivivere grazie al confronto con l’osservazione diretta, quello stesso giorno o l’indomani. Analogamente, Vermeer aveva anche l’eccezionale abilità di vedere e ricordare le idee creative di un altro artista: lo schema compositivo di base, una certa combinazione cromatica o l’uso di particolari linee e forme. In un dipinto come il Flautista di Hendrick ter Brugghen, un maestro che Vermeer certamente ammirava, egli non avrebbe mancato di notare – conservandolo nella memoria – come i drappeggi intorno alla parte finale dello strumento evochino il delicato fluire delle note musicali (i flauti diritti simili a questo erano usati per suonare melodie pastorali). Il ritmo visivo si alza e si abbassa seguendo le pieghe del drappeggio, più accentuate nel primo piano. Tra i caravaggisti di Utrecht, compreso il notissimo Gerrit van Honthorst, oltre a Dirck van Baburen e Jan van Bijlert, Vermeer (a giudicare dai suoi dipinti, soprattutto Cristo nella casa di Marta e Maria) preferiva proprio Ter Brugghen, autore di opere estremamente raffinate sotto il profilo artistico, ma anche ricche di splendidi e convincenti effetti di luce naturale. Benedict Nicolson ha paragonato Ter Brugghen al giovane Velázquez e a Orazio Gentileschi, maestri che avevano dimostrato come “il colore e la luce, fino a quel momento considerati fattori accidentali, categorie adatte solo ad accompagnare e fare da cavalier serventi a solenni tematiche morali, potevano diventare il soggetto di un dipinto di pari dignità morale e grandiosità. È questa la tradizione che Vermeer ha condotto a un vertice silenzioso e sublime”. Nel rendere questo omaggio al pittore di Delft, Nicolson pensava soprattutto alle opere della maturità, in cui la fede nell’osservazione sembra superare qualsiasi forma di erudizione. Per contro, è proprio la cultura artistica (che Vermeer apprende da autodidatta) che troviamo nelle prime tele, eseguite tra il 1654 al 1657 o 1658. In Diana e le compagne, probabilmente la prima opera nota di Vermeer, il trattamento della luce è semplice, largamente coerente ed efficace nel creare una quieta, persino solenne, atmosfera bucolica. I drappeggi sono modellati abilmente, a differenza delle schiene e delle braccia nude, piuttosto elementari, e della roccia color lavanda dietro alla figura del cane, resa in maniera del tutto insufficiente (forse noncurante?), tanto da far pensare che Diana e la ninfa con la toga arancione siano sedute su una pila di panni da bucato. La donna dalle ampie spalle raffigurata nella parte sinistra dello sfondo – la figura più svestita nell’opera di Vermeer – rivela la carenza di studi anatomici da parte dell’artista e il fatto che, almeno nel caso di quest’opera giovanile, egli non usasse ritrarre i modelli dal vero (come la donna intenta a lavarsi il piede, anche la schiena della figura in arancione sono forse basate su un calco dell’antico Spinario romano). Vermeer era interessato al comportamento della luce sulle forme, non all’uso del chiaroscuro per rivelare una sostanza o una struttura. Passando dalla roccia di Diana ai pavimenti di marmo, alla porcellana, al legno di quercia e altri materiali duri che compaiono nelle opere successive ci si rende conto di come Vermeer non cerchi mai di evocare la loro reale composizione, ma solo il modo in cui le rispettive superfici reagiscono alla luce. C’è stato un tempo in cui Diana e le compagne sembrava agli studiosi talmente divergente dalle opere mature di Vermeer, che la tela (firmata JVMeer) venne esclusa da quelle a lui attribuite. In realtà, sia per il soggetto sia per lo stile il dipinto è proprio quello che ci si aspetterebbe da un giovane artista attivo a Delft alla fine degli anni quaranta o all’inizio degli anni cinquanta del Seicento. Il centro della cittadina dista circa cinque chilometri da quello dell’Aia e per almeno due generazioni prima di quella di Vermeer, gli artisti e gli artigiani di Delft (pittori, orafi, tessitori di arazzi e altri) avevano fornito opere d’arte e oggetti di lusso alla corte olandese e ai ricchi clienti dell’Aia (che registrava il reddito pro capite più alto della Repubblica olandese). La vicinanza delle due città dell’“Olanda meridionale” e la facilità degli spostamenti interni (in battello o carrozza pubblica) consentivano non solo a Michiel van Miereveld, ritrattista di corte degli stadhouder, ma anche ai medici personali di questi ultimi di abitare nel quartiere migliore di Delft anziché al centro dell’Aia, che era straordinariamente costoso. Tra Delft e L’Aia si trovava il villaggio di Rijswijk, nei pressi del quale il principe Frederick Hendrick fece costruire una grande residenza di campagna nel nuovo stile francese, Huis ter Nieuburch, la cui decorazione fu affidata ad artisti come Honthorst e Christiaen van Couwenbergh (1604‐1667), il più importante esponente del barocco classicista a Delft. Dipinti di Diana (la dea della caccia, il passatempo più in voga a corte durante i soggiorni in campagna) furono realizzati da Van Couwenbergh e Jacob van Campen per Honselaarsdijk, la residenza di Frederick Hendrick a sud dell’Aia, nella cui sala dei banchetti troneggiava sopra al caminetto l’Incoronazione di Diana (1625 circa) eseguita da Rubens e aiuti insieme a Frans Snyders. Nel 1644, Van Couwenbergh ricevette la sostanziosa cifra di 600 fiorini (all’incirca l’ammontare della somma che negli anni sessanta del secolo Gerrit Dou e lo stesso Vermeer avrebbero ricevuto per le loro opere più pregevoli) per un quadro con “Diana con varie altre figure e selvaggina” destinato a Huis ter Nieuburch. Tra i dipinti di questo genere che Vermeer avrebbe potuto vedere, i più recenti erano le scene idilliache ispirate ai rilievi classici come Diana e le ninfe di Hontorst del 1650 (Castello di Fredensborg, Danimarca) e le varie versioni dello stesso soggetto che Jacob van Loo realizzò tra il 1648 (Staatliche Museen, Berlino) e l’inizio degli anni cinquanta. Van Loo era uno degli artisti preferiti della corte, pur vivendo ad Amsterdam, dove era noto come pittore di figure mitologiche, molte delle quali senza veli (come del resto ci si aspetta in una scena con Diana e le ninfe al bagno). La somiglianza, più volte sottolineata, tra la Diana di Vermeer e le versioni di Van Loo e, più sorprendentemente, con la grande Betsabea di Rembrandt del 1654 (Louvre, Parigi) in cui un’ancella lava i piedi dell’eroina, induce a ipotizzare che nel 1654 il pittore di Delft si fosse recato ad Amsterdam. Le ombre profonde della sua Diana hanno una qualche somiglianza con il dipinto di Rembrandt, ma la composizione vermeeriana rivela un senso dello spazio assai diverso: simili a sculture su un piedistallo, le figure in primo piano formano un triangolo che si staglia su scenario di scarsa profondità, mentre le due donne sullo sfondo incorniciano il gruppo principale, simili ai comignoli posti sulla facciata dei palazzi classicisti (come il Mauritshuis, di recente costruzione). Diversamente da Rembrandt inoltre, Vermeer predilige i colori primari, rosso, blu e giallo, accompagnati da semplici miscele tra essi (come l’arancio e il porpora). La stessa combinazione ricorre anche in Cristo nella casa di Marta e Maria, nella Lattaia e, come illustrato in precedenza, in un certo numero di opere mature. L’aspetto più originale, veramente personale, della Diana di Vermeer non è lo stile del dipinto, ma la sua interpretazione del soggetto, all’epoca molto diffuso. Nel dipinto di Van Loo del 1648, le bagnanti sono inaspettatamente vestite perché, almeno per ciò che riguarda la figura principale, doveva essere un portrait historié. Per contro, le donne di Vermeer sono tipi convenzionali con indosso vesti pseudo‐classiche o, più semplicemente, abiti vecchio stile. Quando, nel corso del restauro conservativo del 1999‐2000, il cielo azzurro sulla parte destra dello sfondo, ricoperto da pigmenti posteriori, venne riportato alla luce, la figura sullo sfondo acquisì maggiore prominenza e venne per la prima volta identificata con Callisto, la ninfa sedotta da Giove (nelle sembianze di Diana, secondo la narrazione di Ovidio). Al termine della giornata di caccia, Diana ha chiesto alle sue virginali ancelle di togliersi le vesti per bagnarsi nelle acque di un torrente. Callisto, qui con lo sguardo rivolto in basso e le mani strette a proteggersi il ventre, rifiuta l’invito perché è incinta. Le altre compagne assistono la dea quasi stessero partecipando a un solenne rituale cattolico (evocato dal catino e dal panno). Il cane da caccia simboleggia la fedeltà, la quercia la fermezza, mentre il cardo rappresenta la via, irta di spine, della virtù. Questo dipinto, eseguito poco dopo il matrimonio di Vermeer, celebra dunque le virtù femminili, un tema che sarebbe diventato una costante della sua produzione. Lo stesso soggetto ricorre, in maniera più tradizionale, nell’unica sua tela di argomento biblico giunta fino a noi. Dinanzi al dipinto di Edimburgo si rimane colpiti dal suo carattere monumentale e dal colorito vivace (messo in risalto dallo sfondo monocromo) che ricorda quello delle pale d’altare realizzate ad Anversa e Utrecht negli anni venti del Seicento. Anche qui troviamo la disposizione triangolare delle figure che qui diviene una piramide al cui vertice si trova Marta, l’esigente sorella di Maria, descritta in Luca 10, 38‐42. Lo sguardo rivolto in basso e l’espressione imbronciata delle labbra (in questo simile a Callisto) esprimono la sua reazione alle parole di Cristo, quando afferma che “Maria ha scelto la parte migliore” dell’ospitalità (e della vita) prestando ascolto al messaggio spirituale dell’ospite inatteso. La tipologia fisica di Maria, la sua sorprendente (per Vermeer) solidità e la vivace luce del giorno che illumina la sua figura e quella della sorella richiamano le grandi opere di Ter Brugghen, come il San Sebastiano curato da sant’Irene del 1625 (Allen Memorial Art Museum, Oberlin College, Oberlin, Ohio). Tuttavia, le linee fluide della composizione, che esaltano la figura del Cristo ed evocano la sua voce, ricordano la grazia estatica dei dipinti religiosi di Van Dyck che negli anni trenta del secolo lavorava per la corte olandese, dove il suo seguace Thomas Willeboirts Bosschaert (1613/14‐1654) sarebbe diventato l’artista di maggior successo dopo la morte del maestro, nel 1641. Il fatto che in questo dipinto, che Vermeer eseguì agli esordi della carriera, si trovino contemporaneamente echi di Van Dyck e Ter Brugghen aiuta a fare luce su tutta la sua produzione iniziale. Le considerevoli differenze tematiche e stilistiche tra le opere mitologiche, religiose, caravaggesche e le scene contemporanee dipinte intorno al 1654‐57 rivelano come il pittore, ampiamente autodidatta, esaminasse le varie alternative artistiche in modo intuitivo – e forse anche programmatico, ma questo dipende dal fatto che le sue prime opere venissero eseguite su commissione o, al contrario, concepite in modo autonomo. Tuttavia, alcune linee di percorso degli anni di formazione ci appaiono abbastanza chiare. Come molti altri, Vermeer poteva sperare di diventare un pittore di storia, ma poi si dedicò a soggetti più popolari, come quello della Mezzana, che rientra in un genere ancora praticato con successo da Van Couwenbergh e da alcuni artisti di Utrecht. Dopo quel grande dipinto, per cui utilizzò figure stereotipate (ma anche modelli ritratti dal vero), Vermeer dipinse moderni soggetti di genere alla maniera (a grandi linee) di Nicolaes Maes nella Serva addormentata e di Ter Borch nella Donna che legge una lettera. Questi dipinti sono entrambi molto più grandi di quelli da cui Vermeer trasse presumibilmente l’ispirazione per questo soggetto, ma nel Soldato con ragazza sorridente e nella Lattaia, che ricordano rispettivamente il maestro di Leida Frans van Mieris e altri pittori contemporanei di genere, Vermeer sceglie un formato molto più ridotto e una più raffinata esecuzione (benché questa raffinatezza sia certamente anticipata in alcuni passaggi delle prime scene di genere). In questi primi anni della carriera, Vermeer acquisisce rapidamente non soltanto una maggiore conoscenza in materia di stile, ma anche grande abilità tecnica, basti dire che all’epoca dell’esecuzione della Lattaia, nel 1657‐58 circa, l’artista dimostra un grado di raffinatezza cui la maggior parte degli artisti suoi contemporanei non arriverà mai. Per finire, c’è un altro elemento della sua opera che merita di essere nuovamente menzionato: ogni quadro di Vermeer in cui è presente la figura femminile rivela l’interesse per le virtù e la personalità della donna, spesso espresso in maniera insolita e (per l’epoca) empatica e sottile. Questo non è ovviamente il caso della Mezzana: dipinti caravaggeschi di questo tipo rientravano nel genere della farsa teatrale e non erano intesi come commenti sulla vita reale (nel 1641, John Evelyn annota nel suo diario di aver comprato “un’eccellente buffoneria” di Van Couwenbergh, probabilmente con un soggetto simile). E tuttavia è proprio la vita reale, in forma di osservazione visiva, a spiegare il motivo per cui il dipinto di Dresda, malgrado la convenzionalità della composizione, ci appare così diverso dalle precedenti opere olandesi o fiamminghe dello stesso genere. Questa differenza è particolarmente evidente nella figura a sinistra, dove la luce e persino lo spazio sembrano divergere dal resto della tela, quasi che l’artista – come Carel Fabritius prima di lui – stia studiando lo sfavillio della luce del giorno e le ombre trasparenti usando uno specchio (forse effettivamente retto dalla mano sollevata). In altri punti del dipinto, il trattamento della luce e delle superfici è altrettanto degno di nota benché in maniera diversa (si vedano ad esempio la brocca e il bicchiere di vino, l’orlo del copricapo della giovane donna, il nastro sul cappello del cliente e la bordura dorata sulla manica della sua giacca). Elementi tipici del primo Vermeer sono: la creazione arbitraria di una barriera in primo piano – in questo caso un tappeto da tavolo e un mantello, forse poggiato su una balaustra – il piano medio come porzione di spazio compresso e lo sfondo – qui con l’accenno a un focolare distante – che è poco più di una parete piatta con un’apertura rettangolare da un lato. Nelle sue prime opere il futuro maestro dello spazio illusionistico aveva qualche difficoltà nel dirigere lo sguardo dell’osservatore attraverso il primo piano, perché la prospettiva lineare e altri sistemi atti a creare lo spazio pittorico (come la variazione di scala delle figure e la resa dei contorni) sono tecniche che si apprendono in studio, non tramite l’esperienza reale della luce e dello spazio. I PRIMI DIPINTI DELLA VITA MODERNA La scelta di quello che diverrà il tema essenziale della pittura di Vermeer – giovani donne ritratte nel mondo privato della loro casa o in scene di corteggiamento cavalleresco – può essere spiegata in molti modi diversi, chiamando in causa motivi personali, locali, regionali, nazionali e persino europei. Forse l’elemento meno familiare al pubblico di altri paesi era il carattere tradizionale delle arti a Delft che, a causa dello stretto legame della cittadina con la corte, tendevano a uno stile sofisticato e controllato. Delft non conobbe mai un periodo barocco, benché nei secoli precedenti gli artisti di questa città avessero guardato soprattutto agli esempi di Anversa e Utrecht, cosa che per certi versi continuavano a fare anche quando Vermeer era in vita. Ma Le scene ricche di pathos realizzate da Rubens ad Anversa, da Honthorst e Baburen a Utrecht (dopo le opere più potenti del periodo romano) e da Rembrandt ad Amsterdam non avevano equivalenti a Delft, se si escludono gli sforzi – d’impatto molto più blando – di Van Couwenbergh. Accanto ai ritratti principeschi, la corte acquistava gradevoli scene mitologiche, grandi “compagnie musicali” destinate alla decorazione dei palazzi, paesaggi stranieri immersi in atmosfere idilliache (spesso italianeggianti) e quadri di storia con l’illustrazione o i simboli della Casa d’Orange. Lo stadhouder Frederick Hendrick (consigliato dal coltissimo segretario Constantijn Huygens) era il patrono più importante della Repubblica olandese e la sua morte nel 1647 fu una grande perdita per gli artisti da lui favoriti. L’ultimo progetto importante, un ciclo di dipinti murali (il più imponente dei quali opera di Jacob Jordaens) per commemorare la vita del principe, fu commissionato dalla vedova Amalia van Solms. Questa “Sala d’Orange” nello Huis ten Bosch (letteralmente “casa del bosco”) venne terminata all’incirca nel periodo in cui Vermeer iniziava la carriera. L’improvvisa morte del figlio del principe, Willem II (1626‐
1650), fu un altro colpo per i pittori di Delft e dell’Aia. Durante il periodo di “vacanza dello stadhouder” (1653‐72), il potere politico venne trasferito ad Amsterdam, con Johan de Witt, “Gran Pensionario” d’Olanda (la provincia dominante), che di fatto svolgeva la funzione di primo ministro del governo nazionale. In tutto il corso del Seicento, Amsterdam si ingrandì costantemente, ma conobbe un’autentica fioritura soprattutto negli anni cinquanta e sessanta del secolo. Circa sessant’anni prima (nel 1585) gli olandesi avevano chiuso la Schelda (il fiume che arrivava ad Anversa) alla navigazione, e Amsterdam divenne così uno dei centri commerciali e mercantili più importanti d’Europa (la popolazione, che nel 1560 era di 30.000 unità, ne contava 219.000 nel 1670). La situazione rimase immutata nel 1648, quando l’Olanda firmò il Trattato di Münster, con il quale la Spagna e altri paesi riconoscevano alle Province Unite lo status di nazione indipendente. La carriera artistica di Vermeer coincise con una nuova era di pace e prosperità e, come in altri periodi post‐bellici, l’attenzione generale si spostò sulla vita privata: la famiglia, i corteggiamenti amorosi, la moda, i viaggi, le attività intellettuali e via dicendo. È importante tener presente che il territorio assai limitato della Repubblica olandese era di gran lunga il più urbanizzato d’Europa, con una ricchezza che non era collegata all’agricoltura, ma al commercio con l’estero, alle industrie (produzione di tessuti, birra ecc.), alle banche, al mercato immobiliare e ai beni di lusso. Intorno al 1650, ad Amsterdam, alcuni avevano in casa un quadro o due, altri cento o duecento, ma la media era di una decina di quadri ciascuno. Di solito il soggetto di queste opere corrispondeva agli interessi immediati dei possessori: ritratti di membri della famiglia e di personalità pubbliche, temi di vita sociale, la campagna, il mare, la flotta olandese e la marina mercantile, nature morte con cibi, fiori, curiosità del mondo naturale e oggetti d’arte, temi d’interesse locale o nazionale (a seconda del luogo) quali scorci di città, vedute di importanti edifici pubblici, come il nuovo municipio di Amsterdam e di chiese locali. (Gli interni di chiese, come il n. dW, possono essere definiti una nuova forma di arte religiosa ad uso dei protestanti, che disapprovavano le immagini devozionali). I collezionisti appartenevano per lo più alla classe media e, differenza dei loro omologhi a Roma o in qualsiasi altra città italiana, quasi mai provenivano da famiglie che avevano alle spalle una lunga storia di mecenatismo. La ricchezza di Amsterdam attraeva numerosi artisti da altre città, come Pieter de Hooch da Delft e Gabriël Metsu da Leida. Il fatto che Vermeer rimanesse a Delft era probabilmente dovuto in larga parte a circostanze familiari, ma anche all’importanza di un committente in particolare, il ricco Pieter van Ruijven (1624‐1674). Il ruolo di quest’ultimo nella vita di Vermeer è controverso, ma tutti concordano sul fatto che dal 1657 circa alla fine degli anni sessanta, Van Ruijven acquistò circa la metà delle opere di Vermeer che ci sono note (tutte quelle ereditate dal genero, il rilegatore di libri Jacob Dissius, e incluse nella vendita dei suoi beni nel 1696). A quanto pare, Van Ruijven, forse sull’esempio del principale mecenate di Gerrit Dou, non commissionava a Vermeer opere specifiche (eccetto, forse, la celebre Veduta di Delft), ma si riservava un “diritto di opzione”. Nel novembre 1657, Van Ruijven prestò a Vermeer 200 fiorini, forse come anticipo per l’acquisto di alcuni dipinti (la Ragazza addormentata, il Soldato con ragazza sorridente e la Lattaia, eseguiti nel 1657‐58 sono elencati nella vendita Dissius), anche perché non risulta che il debito sia stato ripagato in altro modo. È piuttosto inusuale il fatto che in un testamento datato 1665, Van Ruijven e sua moglie destinassero al pittore la somma di 500 fiorini che risultava così il loro unico beneficiario, accanto ai membri della famiglia e agli istituti di carità. Altri documenti attestano l’importanza di Van Ruijven per Vermeer, ma questo testamento, con il quale un mecenate non appartenente alla famiglia reale provvede all’immediato futuro di un artista non ha, a quanto risulta, paralleli nella storia dell’arte olandese. Sembra che la principale fonte di ispirazione per Vermeer nel suo interesse per il tema delle donne “ideali” – nel senso di giovani, belle, alla moda e apparentemente nubili – fossero i dipinti più recenti di Gerard ter Borch (fig. MMA), di quindici anni più anziano di lui. Ter Borch proveniva dalla provincia dell’Overijssel, nella parte orientale dell’Olanda, ma all’inizio degli anni quaranta aveva lavorato ad Amsterdam, dove poi aveva soggiornato in prevalenza tra il 1648 e il 1654. Tra il 1645 e il 1648 era stato spesso a Münster, dipingendo ritratti di dignitari olandesi e spagnoli. All’inizio degli anni cinquanta è probabile che si recasse spesso all’Aia, città in cui le sue opere erano piuttosto note. Il 22 aprile 1653, Ter Borch e Vermeer apposero la loro firma di testimoni su un atto per il notaio e collezionista di Delft Willem de Langue. Vermeer dovette rimanere colpito da Ter Borch, artista cosmopolita che si era recato in Inghilterra, Italia e probabilmente anche in Spagna, e che tra i suoi clienti annoverava membri del governo olandese. Come il Vermeer di qualche anno dopo, ad esempio nella Donna che legge una lettera, Ter Borch era un osservatore insolitamente empatico di giovani donne, i cui tratti erano spesso modellati su quelli della sorellastra Gesina e di altre donne della sua famiglia. Ter Borch aveva il dono di modellare l’invenzione artistica sull’osservazione diretta, studiando atteggiamenti ed espressioni come se li vedesse attraverso il buco della serratura o come se avesse una tale familiarità con i modelli (Gesina, ad esempio) che questi non si preoccupavano di essere osservati da lui. Le sue composizioni erano vivacizzate dall’uso di una luce morbida e di ombre vellutate e rivelano notevole maestria nella descrizione delle diverse superfici, come il raso, la seta, il velluto, l’argento, il legno, la carta e il vetro. Alcuni passaggi della Ragazza addormentata, ma soprattutto di Donna che legge una lettera sembrano emulare Ter Borch, sebbene la frontalità e lo spazio rettilineo del primo dipinto, oltre alla tavolozza, ricordino decisamente Nicolaes Maes, mentre l’angolo della camera e la finestra che incornicia la figura à la Ter Borch conservata a Dresda facevano parte delle convenzioni spaziali basate sui dipinti di De Hooch, del suo collega di Rotterdam Ludolf de Jongh e di altri pittori di genere attivi nella regione dell’Olanda meridionale (compresa Leida a nord e Rotterdam e Dordrecht a sud). Naturalmente Vermeer – come del resto Ter Borch benché in una maniera tipica della sua generazione e anche della sua personalità – sottoponeva ogni prestito al vaglio del suo sguardo in modo tale che anche se il suo lavoro si sviluppa in parallelo con quello di Ter Borch, Maes, De Hooch, Van Mieris, Metsu e altri pittori di genere suoi contemporanei, difficilmente si ha l’impressione che vada nella stessa direzione. Il sostegno di Van Rujiven – o di un committente del suo rango – è evidente soprattutto in due aspetti dei primi dipinti di genere di Vermeer, e nella maggior parte di quelli successivi. Anzitutto, un quadro come Donna che legge una lettera ci rivela come il suo autore stesse già lavorando ai vertici del mercato di tele di questo tipo: l’esecuzione dell’opera era costosa in termini di tempo e materiali e doveva dunque produrre un reddito sostanzioso. Una cosa è realizzare un grande dipinto destinato a un palazzo principesco o a una chiesa, con un contratto in cui è stabilito un determinato compenso, e ben altra cosa è lavorare per circa tre mesi su un quadro per un collezionista privato, senza la certezza della vendita. (Forse prestando quella somma a Vermeer nel 1657, Van Ruijven intendeva evitare a entrambi un simile rischio). In secondo luogo, il fatto che molti dipinti di genere di Vermeer sembrano essere stati acquistati da persone che l’artista frequentava, o che probabilmente conosceva, può spiegare in qualche modo il loro significato e forse persino alcune rifiniture descrittive o artistiche. De Hooch e lo stesso Ter Borch realizzavano i loro quadri di genere senza avere in mente un cliente specifico. Molto diverso è pensare a un mecenate che conosceva bene lʹartista e che, col passare degli anni, poté contemplare in casa propria prima solo alcuni, poi una dozzina e infine circa venti Vermeer. Le analisi tecniche dimostrano che Vermeer modificò varie sue composizioni in corso d’opera e generalmente questi pentimenti rendevano il loro significato meno esplicito e più suggestivo, sottile, persino elusivo (specialmente agli occhi dei critici posteriori). Sullo sfondo di Ragazza addormentata, ad esempio, c’era un uomo a figura intera – in piedi o nell’atto di camminare – e un cane sulla soglia poco distante con lo sguardo rivolto a lui. L’artista ha rimpiazzato il vistoso compagno della ragazza con la sedia e il cuscino in primo piano a destra e con il tavolo e lo specchio sullo sfondo, in modo tale che quella che prima si presentava come una situazione sentimentale (una ragazza che intrattiene un visitatore nel pomeriggio) diviene nel dipinto finale nient’altro che un ricordo, un sogno a occhi aperti. Il piatto con la frutta, un grosso bicchiere (poi eliminato) collocato al suo fianco, davanti alla brocca bianca, e il bicchiere di vino di fronte alla giovane donna assopita (con il fazzoletto slegato al collo) sono le prove dell’incontro che è appena avvenuto. Ma qualcosa di molto meno evidente, il quadro avvolto nell’ombra in alto a sinistra, si riferisce ai sentimenti della ragazza. Una maschera poggiata accanto alla gambetta nuda di un bambino: “Cupido smascherato” o “amore rivelato”, a questo tema rimanda anche il sorriso dolce sulle labbra della giovane. La figura si presenta ai nostri occhi quasi fossimo appena entrati nella stanza e stessimo osservando da vicino il tavolo col tappeto tirato su e gli oggetti che vi sono sparsi disordinatamente sopra. Nella Donna che legge una lettera, il tavolo ci conduce verso la graziosa ragazza al di là di esso, ostruendo però la via in modo tale che l’osservatore diviene un sognatore a occhi aperti intento a guardare una donna che (a giudicare dalla sua espressione) legge la lettera di un altro. La donna sembra vicinissima e al tempo stesso irraggiungibile. Inizialmente sulla parete era raffigurato un quadro con Cupido, mentre nell’angolo in basso a destra del primo piano c’era un grande bicchiere, successivamente sostituiti dalla tenda (simile a quelle che coprivano i quadri nelle case olandesi dell’epoca). Proprio come il volto riflesso nella finestra, l’intera scena è solo un sogno, l’illusione di cose che sembra possibile toccare con mano (la tenda, il tappeto da tavolo, la manica e i riccioli della donna) ma che in fondo non fanno altro che toccare il nostro cuore. Lo schema compositivo incentrato sull’“angolo sinistro”, utilizzato da De Hooch e Vermeer a partire dal 1657 e 1658 ha diversi antecedenti nella regione dell’Olanda meridionale, la cui origine ultima può essere rintracciata nell’Anversa cinquecentesca e nel suo debito col Rinascimento italiano. Alla fine degli anni quaranta e durante gli anni cinquanta del Seicento emerge tuttavia una nuova intensità dell’esperienza spaziale in dipinti che danno all’osservatore l’illusione di trovarsi vicinissimo a un angolo o a una piccola sezione di una stanza, e dunque all’interno di essa. Lo schema utilizzato nella Donna che legge una lettera, nella Lattaia e in altri quadri eseguiti da Vermeer negli anni immediatamente successivi comprende una parete su cui si apre una finestra fortemente scorciata sulla sinistra, a destra uno spazio vuoto (che conduce dietro le quinte) e, spesso, un tavolo, una sedia, una figura seduta o un’altra forma molto vicina all’osservatore, vista leggermente dall’alto. In termini prospettici, questo schema corrisponde a una visione da distanza ravvicinata (con ampi e alti angoli visivi), e non all’ampiezza (o lunghezza) prospettica che troviamo nei trattati rinascimentali sulla prospettiva e nelle vedute di architetture eseguite da artisti quali Hans Vredeman de Vries, Bartholomeus van Bassen e Dirck van Delen. In quei dipinti, e negli interni di chiese fiamminghi (come quelli di Pieter Neeffs) l’osservatore si trova chiaramente al di fuori dello spazio del quadro: è come se qualcuno avesse rimosso una parete per permettergli di guardare all’interno (una sorta di casa delle bambole). Nella maggior parte delle opere di Vermeer, invece, lo schema prospettico si percepisce appena – gli interni appaiono del tutto naturalistici e lo spazio sembra la conseguenza dei mutevoli effetti di luce. Evidentemente Vermeer apprese i principi della prospettiva lineare intorno al 1657, e presto padroneggiò questa tecnica. Ciò che colpisce di più non è tanto la resa meticolosa delle piastrelle del pavimento, né le finestre e i tavoli resi in prospettiva o forme ancora più complesse come le viole da gamba, ma la collocazione del tutto soggettiva del punto di fuga – che, ad esempio, è basso e spostato verso sinistra (sopra la mano sollevata) nella Lattaia; alto e spostato verso destra nella Donna che legge una lettera – la qual cosa ha ovviamente un effetto sia psicologico sia spaziale. (Una volta di più l’artista passa le convenzioni artistiche al vaglio dell’esperienza diretta). Le analisi tecniche hanno rivelato tracce di fori di spillo nella metà delle tele dipinte da Vermeer. Forare la tela con uno spillo in corrispondenza del punto di fuga non era solo una tecnica convenzionale usato in studio per tracciare le linee ortogonali (usando uno spago talvolta impregnato di gesso), ma anche un metodo molto flessibile che permetteva all’artista di valutare diversi schemi prospettici (un po’ come cambiare l’obiettivo della macchina fotografica, con la differenza che Vermeer non riprendeva degli interni, li inventava). Prima delle versioni di De Hooch e Vermeer, gli interni domestici erano stati il soggetto di un buon numero di pittori di genere, anch’essi attivi in Olanda: Isaack Koedijck e Quirijn van Brekelenkam a Leida, Hendrick Sorgh e Ludolf de Jongh a Rotterdam, Nicolaes Maes a Dordrecht, e altri ancora. Come Vermeer (e prima di lui) gli artisti di Amsterdam Gerbrand van den Eeckhout e Jacob van Loo avevano dipinto scene d’angolo, caratterizzate però da ombre più profonde (in qualche misura alla Ter Borch); anche De Hooch fece lo stesso, con la differenza che i suoi interni sono illuminati da fiotti di luce chiara (come in n. Zur). Per accrescere il realismo delle loro composizioni pittoriche, De Hooch e soprattutto Vermeer beneficiarono verosimilmente dell’esempio di Carel Fabritius, che a Delft aveva realizzato opere con straordinari effetti sperimentali e naturalistici, attinenti allo spazio e alla luce (come in Veduta di Delft del 1652, Il cardellino e La sentinella del 1654), e delle vedute, più o meno fedeli, degli interni di chiese di Delft realizzate a partire dal 1650 da Gerard Houckgeest, Emanuel de Witte e Hendrick van Vliet. Queste composizioni richiedevano l’uso della prospettiva lineare in condizioni di visione a distanza ravvicinata, una tecnica che lo stesso Van Vliet potrebbe aver spiegato a Vermeer (nel 1653 Houckgeest e De Witte avevano già lasciato Delft). Tuttavia, Vermeer avrebbe potuto imparare ancora di più semplicemente osservando queste vedute architettoniche di grande originalità, le prime del genere a dare davvero all’osservatore la sensazione di trovarsi all’interno dello spazio del quadro. Se paragoniamo ad esempio la Donna che legge una lettera con una delle prime vedute dell’interno della Oude Kerk di Delft, eseguita da De Witte e conservata a Ottawa e immaginiamo la giovane donna al posto della colonna più vicina, è evidente come Vermeer abbia potuto trovare in un dipinto simile ben più di una tenda illusionistica. Il punto di vista basso della Lattaia dà all’osservatore (per la maggior parte delle opere di Vermeer si presuppone che sia un uomo) l’impressione di essere seduto nel primo piano e di sollevare lo sguardo verso la robusta fanciulla. Dal cestino del pane – con uno dei suoi primi utilizzi della tecnica pointillé per descrivere lo scintillio della luce – parte una composizione piramidale che sale fino alle braccia scoperte della ragazza (con le mani e i polsi abbronzati) per arrivare al volto, ancora una volta atteggiato a un lieve sorriso e con lo sguardo abbassato. Tuttavia, la sensazione che questa figura ci trasmette non ha nulla di delicato. Come molte altre lattaie precedenti nell’arte olandese (spesso viste come ragazze fisicamente disponibili), anche questa sembra piuttosto abile e sicura di sé, un’impressione trasmessa in parte dalla tattilità della figura, la più scultorea che Vermeer abbia mai dipinto. Di fatto, la lattaia ha un effetto talmente monumentale che spesso i visitatori del Rijksmuseum rimangono sorpresi dalle dimensioni piuttosto ridotte del quadro. Per il suo aspetto cristallino e il carattere illusionistico, l’opera è vicina alla maniera Frans van Mieris, con la differenza che i passaggi di luce e ombra sembrano più fini a se stessi che non mezzi per descrivere la realtà (la luce cangiante sul muro intonacato è davvero notevole). Il Soldato con ragazza sorridente , all’incirca dello stesso periodo (1657) è uno degli ultimi dipinti di Vermeer in cui le fonti pittoriche sono facilmente riconoscibili. In interni successivi dello stesso genere, come la Suonatrice di liuto simili elementi formali sono ormai diventati una “seconda natura” per l’artista, integrandosi talmente nel coerente trattamento della luce e dell’ombra da non essere più identificabili come espedienti compositivi. Nell’opera precedente invece, l’uomo ritratto in silhouette (probabilmente un ufficiale dell’esercito) e la sua compagna vivacemente illuminata ripetono una disposizione spesso usata da Honthorst e da altri artisti influenzati dalla sua pittura. Tale derivazione è palese, malgrado la scelta di un punto di vista così ravvicinato che causa un brusco arretramento nello spazio sia dell’uomo che della donna, ma anche della finestra (un accorgimento spaziale mai utilizzato dai caravaggeschi). Nella Suonatrice di liuto, il posto dell’uomo è occupato dalla sagoma più prominente di una sedia (con terminazioni a forma di testa di leone) su cui è poggiato un cumulo di tessuti scuri; la signora guarda impaziente fuori dalla finestra, come fosse in attesa di un visitatore, di sesso maschile ovviamente. Nel primo quadro lo schema prospettico è utilizzato per rendere più intensa la conversazione (il punto di fuga è sì collocato al livello degli occhi della donna, ma vicino al naso del compagno), mentre in quello successivo le linee ortogonali convergono impercettibilmente verso la testa della figura. Benché la donna sia in attesa di un altro corteggiatore, l’osservatore (o il voyeur) è ora l’uomo posizionato dall’altro lato del tavolo. Malgrado tutte le somiglianze, mentre la prima scena ci dava l’impressione di trovarci vicinissimi all’angolo in cui è seduto il soldato, guardando la seconda si ha la sensazione di trovarsi a una distanza maggiore, forse nel vano della porta, posizione dalla quale l’ambiente raffigurato, benché paragonabile al primo, ci appare pervaso di luce, ombra e atmosfera più che da oggetti solidi. Ciò che ci interessa qui è la sostanziale differenza tra lo stile del Vermeer degli esordi e quello della maturità, una differenza che fondamentalmente ha a che fare con la creazione dello spazio illusionistico. Nei dipinti eseguiti nel 1657‐60 lo spazio è costruito con vari mezzi: uso della prospettiva lineare, forti contrasti chiaroscurali, sovrapposizione e stratificazione di forme, uniti a una descrizione precisa, persino tattile. Il Soldato con ragazza sorridente e la Lattaia possono essere considerati le versioni vermeeriane dell’illusionismo di Leida (cfr. n. FvM). Nelle opere mature, le caratteristiche ottiche (che nei primi dipinti erano presenti soprattutto nelle parti più luminose) permeano completamente la composizione fino a divenire aspetti di un principio generale. Come nella Suonatrice di liuto, le forme sono spesso compresse o confinate nel piano medio, un “campo visivo” in cui il grado di fuoco è piuttosto uniforme. Il cromatismo delle singole parti è equilibrato o assorbito da un approccio tonale più generale. L’illusionismo del Soldato è più convenzionale: l’immagine allucinatoria appare più il prodotto di ingegnose strategie pittoriche (questo è il Vermeer che Dalvador Dalí cercava di emulare) che della percezione visiva in quanto tale. Per contro, la Suonatrice di liuto e la Donna in azzurro che legge una lettera (che sta con la precedente Donna che legge una lettera nello stesso rapporto illustrato pocʹanzi) sono entrambe opere della maturità in cui l’artista dimostra una completa padronanza dei mezzi artistici, che vengono assorbiti in una visione e immaginazione del tutto particolare (se volessimo fare un paragone con un pittore successivo, al massimo potremmo dire che Proust ammirava sia Vermeer che Fantin‐Latour). LO STILE DELLA MATURITA’ In una descrizione sommaria dell’opera vermeeriana, il superbo Bicchiere di vino (fig. SMB) di Berlino può essere definito tanto l’ultimo dipinto del periodo iniziale dell’artista quanto il primo della sua maturità. Si tratta di una delle tre opere almeno che potremmo anche chiamare di transizione, insieme al Concerto interrotto della Frick Collection e alla Fanciulla con bicchiere di vino di Braunschweig. Perlomeno in altre due opere, eseguite rispettivamente a pochi e molti anni di distanza, la Lezione di musica e il Concerto a tre (tuttora assente dal Gardner Museum di Boston), le figure sono collocate in interni accuratamente costruiti e di discreta profondità (come in fig. SMB). In queste tele, l’architettura e il mobilio creano una realtà in sé, sono parti dell’ambiente più che accessori di scena. Come già detto sopra, tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta del Seicento (il dipinto di Maes incluso in mostra, risale al 1655 circa) i diversi artisti di Leida, Rotterdam e Dordrecht avevano dipinto interni realistici e pervasi di una nuova intimità. Pieter de Hooch, nato a Rotterdam e trasferitosi a Delft nel 1654‐55 circa, adottò gradualmente l’uso della prospettiva e l’ambientazione nell’angolo sinistro in dipinti di genere realizzati intorno al 1654‐
57, come mostrano le opere esposte in questa occasione. Vermeer deve aver attinto all’esempio di De Hooch e fu molto più rapido nell’adottare quello schema compositivo, tanto che nel 1658/1659, gli anni a cui risalgono alcune delle loro opere più belle, i due pittori erano evidentemente fonte di ispirazione reciproca. Pur eseguito con la precisione di un orologio, il Bicchiere di vino possiede tuttavia una qualità poetica che gli deriva dalle straordinarie armonie cromatiche e dai sottili effetti di luce (le due finestre sono rese in modo magistrale, benché differente). Il mobilio – una panca a sinistra, un tavolo coperto e due sedie – e il pavimento a piastrelle si integrano a vicenda come in un intarsio sul quale lo sguardo scivola con l’aiuto di alcuni elementi di raccordo: il liuto poggiato sulla sedia, gli spartiti sul tavolo, le pieghe sovrapposte dei drappeggi e la variegata armonia dei contorni. La lezione sul comportamento umano appresa in parte da Ter Borch (l’esagerata vicinanza dell’uomo alla donna, atteggiata a una posa rigida) si combina qui a idee formali più tipicamente vermeeriane come la disposizione piramidale delle figure presso il tavolo (cfr. fig. CMM) e l’uso dei drappeggi per suggerire l’effetto dell’interazione delle figure (le ampie pieghe sul mantello dell’uomo sono rivelatrici del gesto con cui riempie regolarmente il bicchiere della ragazza). Lo spazio è scandito da vari rettangoli che fluttuano liberamente: la finestra aperta, l’azzurro sereno del velluto sulla spalliera della sedia, il tappeto sul tavolo e, esattamente al di sopra di esso, il dipinto di una foresta oscura (che suggerisce un pericolo) – e forse potremmo aggiungere anche gli angoli formati dalle braccia della donna. Il quadrilobo di vetro colorato sulla finestra reca l’immagine di una figura femminile, simile a una Virtù che sorregge un emblema familiare e sembra trovarsi lì per ricordare alla giovane donna il dovere di difendere la sua reputazione man mano che il corteggiamento va avanti e il visitatore passa dalle canzoni d’amore al vino. Lo spazio vuoto nella parte destra, probabilmente frutto di pura intuizione, lascia la donna senza niente dietro le spalle, sola ad affrontare passo dopo passo l’evoluzione delle cose mentre la luce, ovunque bellissima, diviene quasi cruda quando si posa su di lei. In un’ampia visione dell’opera vermeeriana, vale la pena di notare come l’uso cospicuo della prospettiva lineare sia presente soprattutto nei dipinti del 1658‐60 circa, per poi attenuarsi (con qualche eccezione, com’è ovvio) in quelli successivi. Nelle tele in cui compare uno schema prospettico à la De Hooch, come il Bicchiere di vino (confronta il superbo interno realizzato da quest’ultimo nel 1658 e conservato nella Royal Collection Londra), le figure e gli oggetti nello spazio non sono considerati alla stregua di blocchi per costruzioni collocati in primo piano, ma come forme poste a una certa distanza, divenendo così le componenti di un campo visivo maggiormente coeso. Questo processo era già iniziato nel quadro di Berlino: la vivace rete delle linee di fuga (specialmente in corrispondenza della sedia, della panca e delle file di mattonelle sulla destra), le forme nettamente delineate dei singoli oggetti e figure e i vari coni, piani e sottili schermi di luce, tutto emerge armoniosamente dall’ombra. Lo stesso approccio caratterizza anche il Concerto interrotto, all’incirca della stessa epoca (1658‐59) ed è frequentemente usato nelle opere della metà degli anni sessanta, quali Donna in azzurro che legge una lettera, Donna con collana di perle, Donna con una bilancia e Donna che scrive una lettera. Sembra che Vermeer si sia reso conto del fatto che una scena descritta prevalentemente in termini di luci, ombre ed effetti atmosferici appare più naturalistica di uno spazio pittorico costruito secondo i principi albertiani. Forse l’osservazione delle cose attraverso le lenti o l’aver visto occasionalmente una camera oscura (benché nessun oggetto simile sia documentato a Delft) lo aveva aiutato ad apprezzare (per citare le parole di Hoogstraten) “che cosa nell’insieme o in generale si confà a un dipinto autenticamente naturale”. Ma gli strumenti ottici non erano certamente l’unica o la principale fonte delle sue ideazioni pittoriche. Emanuel de Witte (vedi n. Ot), Willem van Aelst, un certo numero di paesaggisti coevi e persino De Hooch (come in n. MMA) utilizzano effetti simili, con la differenza che Vermeer si richiama in modo più coerente alla realtà che lo circonda, pur non trascurando le conquiste dei colleghi. A questo riguardo, gli interni di chiese di Emanuel de Witte sono di particolare interesse, perché il pittore trasforma un soggetto che fino a quel momento era prerogativa dei pittori di prospettive in un nuovo genere di veduta architettonica, in cui uno spazio interno viene descritto in termini di luci, ombre e atmosfera. Il risultato, che evoca magnificamente le grandi chiese gotiche, fu la creazione di interni che sembrano formare un continuum con la terra e il cielo all’esterno. È stato spesso notato come gli interni architettonici di De Witte siano dipinti alla maniera dei paesaggi, allo stesso modo delle sue rare vedute di esterni. È possibile che le vedute di Vermeer, la Stradina , la Veduta di Delft e forse altre opere attualmente sconosciute, abbiano contribuito alla sua abilità di “vedere” la luce e lo spazio naturali all’interno del suo studio, e negli interni degli anni sessanta. Il senso di continuità tra esterno e interno caratterizza in particolar modo L’astronomo e Il geografo, in cui le figure più che intente allo studio, sembrano meravigliarsi dell’infinita varietà del mondo naturale. La costante interazione tra arte e natura, o pittura e percezione, nei dipinti vermeeriani della maturità è una delle caratteristiche fondamentali che li distingue dalle opere di altri artisti coevi. Le sue vedute d’interno degli anni sessanta variano – a volersi concentrare su questo particolare aspetto – dalla profondità dello spazio prospettico della Lezione di musica del 1662 circa (quando Van Hoogstraten e altri dipinsero scene simili) al naturalismo apparentemente spontaneo della Donna in azzurro che legge una lettera, con la sua luce diffusa (resa in termini di valori tonali) che pare amalgamare le forme e lo spazio, fino alle rappresentazioni di figure illuminate in modo inesplicabile che emergono da sfondi scurissimi. Sembra che con queste ultime tele (compresa la Ragazza con l’orecchino di perla) Vermeer voglia tenersi al passo con le tendenze dell’epoca (cfr. nn. vM, MS) e al tempo stesso vada scoprendo un aspetto inedito della realtà. Una simile complessità, o confusione, tra ciò che è arte e ciò che è natura si verifica raramente nell’arte italiana. Naturalmente Leonardo avrebbe detto il contrario, ma avrebbe anche riconosciuto (ammettendo che avesse potuto prevedere il futuro anche a questo riguardo) nelle immagini di Vermeer la combinazione di un’intensa osservazione e di una conoscenza estremamente raffinata delle convenzioni artistiche, dello “stile”. Il concetto di “occhio neutro”, l’ipotesi di una stretta dipendenza da un qualche strumento ottico è confutata da tutto ciò che di meraviglioso, semplice e complesso, misurato, evocativo e poetico c’è nell’opera di Vermeer. Non si toglie nulla alla modernità di un artista del suo tempo – né al posto che occupa in un’epoca di osservazione empirica come la sua – mettendo lʹaccento sul suo interesse per l’arte in quanto tale. Vermeer ha creato un mondo suo, una realtà più perfetta rispetto a quella che lo circondava. Le beghe della vita quotidiana, la morte delle persone care, la povertà, la malattia, persino un celebre disastro avvenuto a Delft – di tutto questo non vi è traccia nelle sue figure, che sono invece alle prese con l’amore, la speranza, l’arte, la scienza e un piacere privo di eccessi. Riguardo all’osservazione, allo studio della realtà, anche questo aspetto era considerato dall’artista in modo soggettivo: non un semplice interesse, ma una passione e una fede. Vermeer condivideva con i suoi contemporanei la convinzione assoluta che qualsiasi aspetto visibile del mondo fisico avesse un significato in quanto creazione di Dio, oggetto delle scienze naturali o semplicemente come qualcosa di meraviglioso nella sua misteriosa bellezza. L’INFLUENZA DI VERMEER L’influenza di Vermeer sui suoi contemporanei è una tematica importante, ma relativamente ristretta per questa mostra, che si propone di fornire un’ampia panoramica dei pittori olandesi della “vita quotidiana” attivi dopo gli anni cinquanta del Seicento, un periodo di pace e prosperità per la Repubblica olandese, di recente divenuta indipendente. I temi della vita sociale e privata trattati da Vermeer erano condivisi da molti altri artisti, ciascuno dei quali sottolineava un diverso aspetto della cultura nazionale, a seconda del luogo in cui era nato, degli anni in cui visse, della sua formazione, esperienza e personalità. Come qualsiasi forma d’arte popolare, la pittura olandese di genere spesso raffigura personaggi tipici e situazioni familiari, il che rende tanto più notevole trovare così frequentemente un punto di vista e una sensibilità personali nelle opere di maestri quali Ter Borch, Maes, Van Mieris, De Hooch e Vermeer. Un argomento che ha più specificamente a che fare con la mostra è il rapporto tra lo stile di Vermeer – le sue convenzioni, l’approccio dell’osservazione ecc. – e l’arte dei suoi contemporanei. Soprattutto nel periodo di formazione, negli anni sessanta del secolo, vi sono evidenti influenze di pittori olandesi (e occasionalmente fiamminghi), quali Carel Fabritius, Gerard ter Borch, Pieter de Hooch, Frans van Mieris, e in misura minore Jacob van Loo, Ludolf de Jongh e altri, già citati nelle pagine precedenti. Vi sono anche artisti coi quali Vermeer potrebbe aver scambiato idee con reciproco vantaggio: De Hooch alla fine degli anni cinquanta è l’esempio più ovvio, un altro è Gabriël Metsu. Simili casi di influenza reciproca dovrebbero tuttavia essere accuratamente distinti dai molti altri esempi di sviluppo parallelo e interessi condivisi, senza evidenze di un rapporto diretto. In passato, gli studiosi che conoscevano in maniera approfondita cinque o sei pittori di genere olandesi attivi negli anni cinquanta erano pronti a individuare supposte “influenze” tra Vermeer e un altro pittore, ma negli ultimi decenni, dopo che trenta o quaranta tra questi maestri sono divenuti noti grazie a mostre e pubblicazioni, si è dimostrato più opportuno pensare in termini di tendenze locali o regionali e di una rapida circolazione delle idee (così che la domanda relativa a chi ha fatto cosa per primo è solitamente sbagliata). Una di queste tendenze o innovazioni era la predilezione dell’“angolo sinistro” per ambientare scene di interni domestici, spesso visti a una distanza piuttosto ravvicinata, uno schema questo che in Olanda si diffuse in diversi centri nel corso degli anni cinquanta (in particolare nelle città dell’Olanda meridionale: Leida, Delft, Rotterdam e Dordrecht). Un altro esempio del genere è l’utilizzo di uno sfondo molto scuro come tecnica illusionistica per mettere in risalto la figura vivacemente illuminata, come accade ne La padrona e la serva (Frick Collection, New York) e nella Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer (Mauritshuis, L’Aia), entrambi eseguiti nel 1666‐67. Si potrebbe essere tentati di far risalire questa convenzione – che ebbe vita relativamente breve nella pittura di genere olandese – a Ter Borch e ad alcuni artisti di Amsterdam e di attribuire a Van Mieris (vedi n. Mp), Sweerts e altri il merito di averla portata al suo compimento formale. Tuttavia, un trattamento simile si trova nelle opere di alcuni pittori di nature morte coevi (specialmente Willem Kalf), pittori di storia (Caesar van Everdingen, Karel Dujardin, ecc.) e anche in altri generi e paesi diversi (tra cui l’Italia e i Paesi Bassi spagnoli): ancora una volta abbiamo a che fare non con esempi dell’influenza su o di Vermeer, ma solo col vivo interesse del pittore per le tendenze della sua epoca. Le convenzioni artistiche raramente appaiono tali nell’artista di Delft, che grazie all’importanza attribuita all’osservazione diretta riesce a far sembrare completamente inediti gli schemi presi a prestito da altri. All’opposto, se prendiamo in considerazione le idee che gli altri hanno preso in prestito da Vermeer, il suo stile peculiare non fa che complicare le cose. Quando nei quadri del maestro di Delft troviamo un passaggio che “ha l’aspetto della vita stessa” (secondo un’espressione di elogio comunemente usata all’epoca), spesso scopriamo che si tratta di una revisione (o rivisualizzazione) del contributo di un altro pittore. Quando invece avviene il contrario, cioè quando una sua idea viene presa in prestito da un altro, il risultato è solitamente molto più artificiale. Prendiamo ad esempio La visita di De Hooch. La luce bianca sulle spalle della donna con la giacca rossa che sta versando del vino, il suo riflesso sulla finestra a sinistra, l’ampia zona illuminata di luce naturale sulla parete nello sfondo e anche altre parti del dipinto (il modo in cui la luce si irradia dal tavolo, la sedia posta dietro di esso e la donna seduta con la giacca gialla) sono verosimilmente ispirati a due o tre opere coeve di Vermeer, quali Soldato con ragazza sorridente e Donna che legge una lettera. Nel dipinto di De Hooch vi sono persino effetti di luce tremula e scintillante che ricordano molto Vermeer, realizzati con una tecnica simile alle sue lumeggiature pointillé (nella parte bassa della gonna indossata dalla donna in piedi, sui bordi bianchi della sua giacca e in altri punti). Paragonati alla versione di Vermeer, questi passaggi risultano più schematici, anche perché nella maniera caratteristica di De Hooch gli effetti di luce sono molto più legati agli oggetti, più asserviti al compito di descrivere le forme nello spazio. Ciò nondimeno, alla fine degli anni cinquanta l’opera di De Hooch rivela uno sviluppo sorprendente nel trattamento della luce naturale e questa tendenza, più che i singoli passaggi, rivela l’influenza di Vermeer. Nei Giocatori di carte della Royal Collection di Londra il soggetto non sembra tanto la tranquilla compagnia che vi è ritratta (quasi una natura morta di docile umanità), quanto i numerosi e bellissimi effetti di luce che malgrado la loro varietà si fondono armoniosamente nell’insieme. Magnifici i riflessi sulla porta – in altri interni dipinti da De Hooch nello stesso periodo compaiono dei quadri appesi alla parete immediatamente riconoscibili come oli su tavola, non su tela –, molto diversi dalla lucentezza delle mattonelle del pavimento e dal sottile strato luminoso (quasi una polvere) che compare sul muro intonacato a destra. All’esterno, le superfici rivestite di mattoni sono – per contrasto – così intensamente illuminate da perdere quasi la loro sostanza. Il disegno dell’interno e la disposizione delle figure sembrano essere stati scelti quasi esclusivamente a fini estetici come l’intensa illuminazione dello sfondo, le silhouette, le morbide ombre, le armonie di toni e colori. Questo nuovo orientamento di De Hooch tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta e la qualità indiscutibile dell’esecuzione sono senza dubbio mutuati dall’esempio di Vermeer. I traguardi raggiunti da De Hooch non sembrano semplicemente scaturire da una evoluzione artistica, ma dalla consapevolezza di voler lavorare a un livello più alto, per committenti di più larghe vedute (come quello di Vermeer) e con compensi più alti. Esempi più mondani dell’influenza vermeeriana si trovano nelle opere tarde di De Hooch, come Coppia con pappagallo degli anni settanta (Wallraf‐Richartz‐Museum, Colonia), che rivela come questo artista, pur vivendo ad Amsterdam (dal 1660/61) conoscesse la Lettera d’amore di Vermeer, eseguito nel 1669‐70 (Rijksmuseum, Amsterdam). In precedenza (forse alla metà degli anni sessanta), De Hooch aveva emulato Vermeer nel dipinto di una donna con una bilancia in cui la composizione e la squisita illuminazione della figura (specialmente del braccio scoperto e della giacca) richiamano il celebre dipinto di Vermeer conservato a Washington. L’interno, tuttavia, con la sua maggiore profondità e la finestra aperta, appare mutuato anche da Donna che legge una lettera dalla quale derivano forse anche i particolari delle striature dorate sulla giacchetta (e anche le sue pieghe sgualcite?). Nel tradurre l’interno di Delft nel fastoso idioma di Amsterdam, con le sue pareti rivestite di cuoio spagnolo, il dipinto dorato di De Hooch trasforma in moneta corrente un tesoro di inestimabile valore. Dalla metà degli anni sessanta in poi, l’eclettico pittore di Delft Cornelis de Man riprende alcune idee compositive di De Hooch, Vermeer e altri pittori coevi. De Man amava creare dipinti dai complicati effetti prospettici, dei quali i Giocatori di scacchi di Budapest è uno degli esempi più moderati. In altre scene di genere, la sua conoscenza degli interni delle chiese di Delft (che anche lui ritrasse) dipinti da Houckgeest e Van Vliet si rivela nelle costruzioni prospettiche oblique, con ampi angoli di visione, anche se il modello della tela di De Man a Budapest è più probabilmente la Lezione di musica di Vermeer. De Man prediligeva anche gli ambienti inondati di luce, la proiezione delle ombre (a volte complicate e spesso troppo distinte) e le lumeggiature, anche se, paragonato a quello di Vermeer, De Hooch e persino Van Vliet (negli anni cinquanta), il suo stile è nitido e precisamente descrittivo. È difficile distinguere in De Man gli effetti della poesia di Vermeer, in quanto il suo linguaggio è quello dell’abile prosatore. De Man (1621‐1706) aveva circa dieci anni più di Vermeer e come lui era nato a Delft. Al pari di De Witte e Van Vliet nei primi anni fu esclusivamente pittore di figure, poi convertitosi alla raffigurazione di architetture e scene di vita moderna sull’esempio di De Hooch, Vermeer e di artisti attivi in altre città (Hendrick Sorgh e Ludolf de Jongh a Rotterdam). Paragonato a De Man, Jan Verkolje (1650‐1693), autore di squisiti dipinti di genere eseguiti a Delft negli anni settanta e molto più giovane di lui, rivela l’importanza delle scuole locali, anche dopo il 1650, quando con la preminenza di Amsterdam le differenze regionali tendono a sfumare. Il capolavoro di Verkoljie, Il messaggero (Mauritshuis, L’Aia) e la romantica scena musicale presente in mostra (n. xx), entrambi del 1674, si concentrano su aggraziati gruppi di figure, con una raffinatezza nelle posture e nei contorni che ricorda il balletto o la pittura italiana: al suo confronto le figure di De Hooch appaiono simili a marionette mosse da fili. Non stupisce che l’artista si sia formato ad Amsterdam e avesse dunque in mente gli esempi di Ter Borch, Caspar Netscher ed Eglon van der Neer (Si trasferì a Delft nel 1672 in seguito al fidanzamento con una ragazza che sposò quello stesso anno). Ad Amsterdam, Verkoljie aveva avuto l’opportunità di vedere le opere di De Hooch e probabilmente anche di Metsu: quella “luce di Delft” che entra a fiotti dalla finestra nella scena del corteggiamento musicale non può dunque essere messa in relazione solo con l’influenza di Vermeer. Ma la profondità spaziale, l’intensità dell’illuminazione, il perfetto equilibrio tra le figure e l’ambiente e forse anche l’alto livello della sua pittura dipendono almeno in parte dal suo apprezzamento dei dipinti che Vermeer aveva realizzato qualche anno prima. Per quanto riguarda Van Mieris, non è certo che l’opera di Vermeer abbia suscitato in lui una qualche reazione – a differenza del maestro di Delft, che certamente aveva presente l’artista di Leida. Si tratta tuttavia di una questione di scarsa importanza, perché le convenzioni compositive condivise dai due artisti erano già diffuse a Leida prima di essere adottate a Delft, e per altri versi i due artisti hanno sensibilità assai differenti. Nella produzione di Quirijn van Brekelenkam, pittore di Leida, la tavola presente in mostra è forse quella che più si rifà alla scuola di Delft e riflette lo stretto collegamento tra i due centri (da cui si poteva facilmente andare e tornare nell’arco dello stesso giorno) e con altre città della regione. Delft era molto ben collegata anche con Rotterdam (imbarcazioni dirette al porto di Rotterdam partivano ogni ora), città dalla quale De Hooch era partito per trasferirsi a Delft all’epoca del suo matrimonio nel 1654. Le sue prime scene di genere sono molto simili a quelle dell’artista di Rotterdam Ludolf de Jongh (1616‐1679), che all’inizio degli anni sessanta riprese soggetti, motivi e schemi compositivi dai lavori che De Hooch aveva eseguito nel 1658‐60 circa. Se, come suggeriscono Gowing e Fleischer, Il bicchiere rifiutato della National Gallery di Londra è un dipinto di De Jongh, allora esso illustrerebbe gli elementi che il pittore apprezzava di più in composizioni vermeeriane quali la Fanciulla con bicchiere di vino e la Lezione di musica: virtuosismi prospettici, motivi più complicati del solito, vistosi riflessi e lumeggiature. La datazione del quadro londinese al 1650‐55 proposta da Fleischer è di almeno un decennio in anticipo per un’opera olandese di simile concezione, che (malgrado il suo commento sui costumi) può difficilmente risalire a prima del 1662. Un altro pittore di stilizzate scene di genere, Jacob Ochtervelt (1634‐
1682), sembra aver visto qualità molto diverse in alcune opere di Vermeer rispetto a quelle riprese da De Jongh. Ochtervelt conosceva De Hooch fin dai primi anni cinquanta, ma nelle opere della maturità, eseguite nel decennio successivo, l’influenza di Ter Borch e Van Mieris è di solito più evidente rispetto a quella della scuola di Delft. Tuttavia, il dipinto del Mauritshuis e altri quadri da “sala d’ingresso” del 1665‐70 mostrano chiari debiti con le recenti opere di De Hooch ad Amsterdam, e alcuni quadri di Ochtervelt risalenti alla fine degli anni sessanta e all’inizio dei settanta sono stati collegati in modo convincente con altre opere di Vermeer. Oltre ad alcune somiglianze nella composizione, l’ispirazione vermeeriana si coglie soprattutto nel gioco delle figure in ombra collocate davanti a pareti illuminate. Stabilire esattamente quali siano le caratteristiche vermeeriane presenti nell’opera di un altro pittore è una questione complessa a cui gli studiosi tendono a rispondere diversamente, a seconda del loro modo di vedere. Un autore recente, ad esempio, ha visto nella Lattaia di Vermeer il “punto di partenza” della straordinaria Merlettaia di Caspar Netscher del 1662 (Wallace Collection, Londra), laddove il principale studioso dell’opera di Netscher ha più urbanamente osservato che “possono essere avanzati innumerevoli paragoni formali con Vermeer”, come in effetti è stato fin dal Settecento. A prescindere dai prestiti palesi (come nella Pesatrice d’oro di De Hooch), le somiglianze nella composizione o nella disposizione dei gruppi di figure sono i segni meno probabili dell’influenza vermeeriana perché queste convenzioni avevano spesso fonti comuni ed erano ampiamente diffuse. Questo genere di somiglianze, a parte qualche eccezione, è anche l’aspetto meno caratteristico di Vermeer, diversamente dagli effetti chiaroscurali, spaziali, di fuoco, colore e tono, come pure la sua sommessa interpretazione di temi familiari. L’autore che vede nella composizione insolitamente misurata di Netscher l’influenza della Lattaia di Vermeer avanza la stessa ipotesi anche per il Bambino malato di Metsu (Rijksmuseum, Amsterdam), e anche nelle composizioni più notevoli di questʹultimo, le due tavole di Dublino eseguite in pendant, egli trova che “la collocazione di un quadro sulla parete di fondo per rafforzare la figura dinanzi ad esso, il disegno a scacchi del pavimento di marmo… l’idea di creare solidità dividendo la composizione in forme geometriche sono immediatamente riconducibili a Vermeer”. Metsu si formò probabilmente a Leida e nel 1657 si trasferì ad Amsterdam. Nel 1651 circa fu attivo a Utrecht dove venne chiaramente influenzato da Nicolaes Knupfer e da Jan Baptist Weenix, pittore di paesaggi italianeggianti e di genere (che era stato a Roma alla metà degli anni quaranta). Le opere di questi artisti incoraggiarono probabilmente lo stile fluido e il trattamento della luce tipici di Metsu, così come Ter Brugghen e gli altri maestri di Utrecht avevano un tempo ispirato Vermeer. Nei dipinti di Dublino è la luce a determinare le sostanze, il colore e l’attrattiva pittorica di ogni singolo motivo e la sua quieta presenza contribuisce all’atmosfera riflessiva e appagata che li caratterizza. Un simile orientamento è piuttosto inatteso trattandosi in un artista di Leida per certi versi influenzato da Vermeer. Come per Velázquez (sopra menzionato in relazione a Ter Brugghen, Vermeer e Gentileschi), la luce che ammiriamo in questi quadri di Metsu e in tutta l’opera di Vermeer proviene da molte fonti e giunge per diverse vie, alcune delle quali riconducono all’Italia. Eppure, con tutta la cultura pittorica di cui sono pervase, è probabile che le tele di Vermeer venissero ammirate dai contemporanei per gli stessi motivi per cui le ammiriamo oggi: la bellezza assoluta e la creazione di mondi che appaiono al tempo stesso reali eppure troppo sereni per esistere al di fuori dell’immaginazione.