Vermeer il secolo d`oro dell`arte olandese

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Vermeer il secolo d`oro dell`arte olandese
Vermeer il secolo d’oro dell’arte olandese tratto da Pietro Citati, La civiltà letteraria europea, c.2005 Arnoldo Mondadori Editore Spa Milano per gentile concessione dell’autore e dell’editore Ho cercato spesso di immaginare quale sia stata la vita di Johannes Vermeer, nato nel 1632 e morto nel 1675, quest’uomo tranquillo, che trascorse tutta l’esistenza a Delft, sotto la protezione della Chiesa cattolica. Di Leonardo e di Michelangelo, di Tiziano e di Rubens, conosciamo quasi tutto: mentre, di Vermeer, non abbiamo una sola lettera, né una pagina di appunti, né un disegno, né un ritratto. Conserviamo qualche documento, scoperto negli ultimi anni. Sappiamo che discendeva da gente modesta: fornai, macellai, tessitori, scalpellini, locandieri, falsari; un capitano e un ebanista‐
corniciaio furono testimoni al suo battesimo. A vent’anni sposò una ricca ragazza cattolica: si convertì al cattolicesimo; e, dopo di allora, abitò insieme alla moglie, agli undici figli e alla tremenda e potentissima suocera sulla piazza del Groote Markt, in quello che veniva chiamato l’«angolo dei Papisti». Accanto alla casa, c’era una chiesa e una scuola della Compagnia di Gesù, che ispirò qualcuno dei suoi quadri. Visse lì tutta la vita, commerciando in pitture, e dipingendo due o tre piccoli quadri ogni anno. Al primo piano aveva uno studio, dove c’erano due cavalletti, tre tavolozze, sei tavole, dieci tele, tre rotoli di stampe, un bastone con il pomo d’avorio, due sedie ricoperte di pelle, uno scrittoio, e un tavolo di quercia, e un soprabito turco. Fu una esistenza relativamente agiata, che poco o nulla dovette adombrare, con modeste soddisfazioni professionali. Ma dopo il 1672, in seguito alla guerra con la Francia, la sventura colpì la famiglia. Vermeer non vendette più i propri quadri né commerciò: non incassò le rendite dei terreni della moglie: per tre anni non pagò il pane al fornaio. Forse quest’uomo mite, abituato a una vita serena, non ebbe la forza per fronteggiare la sventura. Si sentì morire: come racconta la moglie, cadde in «tale angoscia e prostrazione da passare in un solo giorno, o in un giorno e mezzo, dalla piena salute alla morte». Non sappiamo altro. Non sappiamo quale coscienza Vermeer avesse di sé: se si considerasse, con orgoglio tranquillo, uno dei grandi artisti della sua epoca; o pensasse di essere soltanto uno dei molti artigiani iscritti alla Gilda di San Luca, come i mercanti di vetro, i tappezzieri, i fabbricanti di ceramica, i ricamatori, gli incisori, i fabbricanti di foderi di spada, gli stampatori d’arte, o i librai. Dipingeva pochissimo: dieci volte meno di qualsiasi artista del suo tempo. Forse era pigro, forse dedicava il suo tempo ai figli o al commercio, forse non aveva acquirenti, o, invece, aveva bisogno di molto tempo perché i motivi si formassero e, a poco a poco, lentamente, cristallizzassero, come perle prodotte da una misteriosa conchiglia. Se poi ci rivolgiamo ai suoi quadri, la nostra delusione è ancora più completa: perché Vermeer sembra due volte sul punto di rivelarsi, e ogni volta si ritrae con la discrezione più ironica. Nella Lezione di musica raffigura in uno specchio una ragazza alla spinetta, una tavola col tappeto e il cavalletto del pittore che sta dipingendo la scena: ma lui, Vermeer, che dovrebbe apparire subito dietro il cavalletto, è stato abolito dall’orlo del quadro. Nell’Allegoria della pittura, un pittore dipinge: ma questo pittore, che ci volge le spalle, non ha niente a che fare con lui, né con la sua idea della pittura. Chiuso nella sua discrezione, Vermeer ha voluto per tutta la vita negarsi, scomparire nei suoi quadri, diventare un vaso o un vestito o un raggio di sole. Non ci resta che spiarlo attraverso i colori e le luci. Quando era ancora giovane, Vermeer abbandonò le composizioni religiose e mitologiche, con le quali aveva cominciato la sua carriera. Non ne fece più: tranne due quadri, dove è possibile avvertire, sebbene in modo cifrato, una traccia concettuale. Inutile cercare cause esterne: con una decisione estrema, che apparteneva al suo carattere come la calma, abbandonò la musa Clio, la musa della storia e della pittura storica, di cui si prese gioco nell’Allegoria. A lui, dei grandi soggetti religiosi, mitologici, storici, allegorici, che facevano la beatitudine di Raffaello e di Dürer, di Michelangelo, di Rubens, di Rembrandt e di Poussin, non importava nulla o pochissimo. La sua musa era una goffa ragazzetta dal muso di capra, che portava in mano una trombettina e un libro, indossando uno di quei vestiti azzurri che incantavano Van Gogh. Tutto ciò che, nella pittura, era invenzione filosofica o letteraria o iconografica, o disposizione delle figure o macchine o congegni, lo lasciava agli altri, perché disturbava la sua fantasia. Non gli interessava inventare, ma vedere; e con la massima buona grazia, con quella profonda passività a cui dovette molto, imitava le invenzioni dei suoi vicini – Metsu o Ter Borch o de Hooch. Il campo in cui regnò sovrano era quello della forma: come il colore e la luce e gli oggetti e le persone si atteggiassero, in modo sempre nuovo, nello splendore quieto della sua mente. Tutto accadeva nella sua mente, che era il suo occhio, la sua mano, la sua luce, la sua camera oscura. Non crediamo che i suoi quadri appartengano alla realtà dove abitiamo: le appartengono meno dei sogni di Bosch e di Füssli. E non crediamo nemmeno che a Vermeer importasse di raffigurare la luce come è: la sua luce è spesso arbitraria, illogica, irrazionale, e obbedisce alla volontà formale del quadro. Dovunque guardiamo, abitiamo nel modo più intimo nella mente di Vermeer – questo luogo unico. Questa mente non pensava, non calcolava, non disegnava linee né inseguiva geometrie: era l’opposto di quella dei grandi italiani e di Poussin. Guardava il mondo, e lo rispecchiava e lo rifletteva in sé stessa: tutto, persino la brocca, la collana di perle, la bilancia, la carta della lettera, la bocca semiaperta, il turbante orientale, la ceralacca. Lo lasciava imbevere e impregnare di sé così profondamente, che nessun colore e nessuna luce esterni sussistevano più. Quando la metamorfosi era completa, Vermeer estraeva il mondo dal suo spirito, e lo depositava – con calma, senza che il passaggio si avvertisse nemmeno per un attimo – in pochi centimetri quadrati di tela. Quali fossero le qualità di questa mente, molti lo hanno detto, cercando di avvicinarsi al suo segreto. Era pura, ordinata, serena, intangibile. Vermeer aveva un dono che pochi pittori in Occidente possedettero: il dono soave della quiete. Qualcuno ha aggiunto che la sua pittura era fredda o sterile. Ma la pittura di Vermeer conosceva le passioni: i sentimenti venivano portati nella «fine punta dell’anima»; e lì erano concentrati, raffrenati, avvolti di discrezione e di segretezza. La sua arte diventò fredda solo nell’ultimo periodo della vita, in quadri come la Signora in piedi alla spinetta della National Gallery di Londra. Come si dovette divertire intonando questa musica frigida, chiara, allegra, cristallina, quasi astratta, con cui la spinetta, liberandoci dai sentimenti, ci ricorda che la rarefazione può essere il più squisito fuoco dell’intelligenza. In nessun pittore e forse in nessuno scrittore tranne Emily Dickinson, una sensibilità così delicata, diffusa e sontuosa si combinò in meraviglioso equilibrio con una forza di concentrazione così intensa e quasi drammatica. Aveva un’immaginazione immensa e illimitata, come Tiziano o Rembrandt, alla quale non sfuggiva il fulgore di una luce, il peso di un’ombra, il riflesso di una perla o di uno specchio. Ma la vasta mente di Vermeer si chiudeva su sé stessa: dava il succo di ogni sensazione: raccoglieva la ricchezza dell’immaginazione in un piccolo spazio, in qualche tocco di colore e in pochi sprazzi di luce. Scelse l’arte del limite: rifiutò, omise: ripeté poche scene, variò poche figure femminili; e, in ognuno dei suoi quadri, continuò a cancellare particolari che gli sembravano inutili – un cagnolino o un ritratto o un grappolo d’uva o un bicchiere o una carta geografica. Il miracolo è che mai, mai questo processo di concentrazione suscita in noi l’impressione di ristrettezza o di rinuncia o di ossessione: tutto è vivo, aperto, luminoso. Guardiamo i tocchi minuziosi del pennello, e il nostro petto si allarga di felicità e di gioia. Il mondo è presente: i sentimenti sono presenti; e noi li sentiamo moltiplicati, con un’intensità che ci rapisce e quasi ci sconvolge. 2 Forse contempliamo ancora Vermeer con gli occhi degli impressionisti e di Van Gogh, i quali scoprirono un padre o un fratello maggiore nel quasi sconosciuto pittore olandese, e si innamorarono di quei «giallo limone, azzurro chiaro e grigio perla». Quando guardiamo i suoi quadri, ci sembra che egli abbia scelto un momento della vita, nient’altro che un momento – una donna in giallo si guarda allo specchio, un’altra in azzurro legge una lettera, un’altra ancora tiene in mano una bilancia mentre una luce la colpisce in volto. Per questo, Vermeer amava tanto le apparenze: le cose effimere, che esistono e passano via e domani non ci saranno più, come la moda delle donne, uno chignon a forma di treccia, e i nastri legati a fiocco in forma di stella. Sapeva di doverle registrare, altrimenti i suoi quadri avrebbero perduto ogni forza. Ma quando, invisibile, si metteva al cavalletto, interrompeva il momento. Fra poco esso sarà scomparso, divorato dal tempo, ingoiato dall’oblio: la donna in giallo non contemplerà più la collana, quella in azzurro non leggerà più la lettera, e la ragazza col turbante cesserà di guardarci perdutamente. Avrebbe potuto rendere le apparenze nel loro scintillio passeggero: forse lo tentò una volta, nella meravigliosa Fanciulla col cappello rosso, che sbalordisce e divide gli esperti. O avrebbe potuto uccidere l’attimo, con l’arte crudele dell’entomologo che fissa gli animali della sua collezione. Con la sua anima intensa e la sua sensualità pittorica, Vermeer conservò invece il momento pieno, ricco, vivo: esso basta a sé stesso, non allude né al passato né al futuro, non sa di morte né di effimero. Con un tocco sottilissimo, egli lo rese assoluto. L’attimo è al culmine: la sua vita splende; nessuno potrà mai cancellarlo, e noi lo possederemo eternamente. Chi potrà dimenticare la luce che colpisce la donna mentre si aggiusta la collana di perle, o avvolge come un riflesso quella che legge la lettera? E chi potrà dimenticare la donna con la bilancia, che stabilisce il nostro destino? Mentre guardiamo, il tempo placato e addormentato ci guarda, e ci rivela la propria essenza. In questi istanti immobili appaiono quasi soltanto donne, come se l’istante appartenesse soprattutto alle donne, e solo attraverso di esse Vermeer accettasse di rivelare qualcosa di sé. Ci sono un astronomo, un geografo e un pittore: forse perché i loro mondi sono separati, chiusi e tranquilli come quello femminile. C’è un corteggiatore, che ha accompagnato col violoncello il suono della femminile spinetta. Non ci sono bambini: ma molte domestiche, che servono da eco o da contrasto alle padrone. Quasi nessuno agisce: il geografo, che guardava la carta e faceva calcoli col compasso, si accontenta di riflettere. Oppure l’azione è sospesa, a metà tra la quiete e il movimento. Una ragazza versa il latte, un’altra cuce un merletto, diverse scrivono lettere: azioni minime, che ci permettono di cogliere la pienezza assoluta dell’attimo. Spesso ci chiediamo cosa pensino, cosa sentano o sognino queste donne tranquille. La ragazza che versa il latte è attenta e concentrata in sé stessa, come quella vestita d’azzurro che legge la lettera. Quanto alla ragazza col turbante, non sappiamo se attenda, contempli, o richieda: così quella col cappello rosso. Altre sembrano assenti. Questi sono dunque i sentimenti del mondo di Vermeer: attenzione, concentrazione, attesa, contemplazione, assenza. Forse le donne non possono provare altro, perché sono completamente assorbite dal momento che passa, e lo condividono fino all’ultima goccia. Alla fine, con un gesto delicatissimo della mano, Vermeer ci respinge. La vita, che ha rappresentato, è nella sua essenza inaccessibile. L’io, serrato nel tempo, è inattingibile. Le donne esistono nell’istante, e noi non possiamo fare altro che guardarle. Ammiriamo le città di Vermeer. E ci perdiamo a contemplare la pienezza delle nuvole nel cielo così vasto, i riflessi e le ombre del fiume, il colore prezioso della sabbia, il barcone scintillante, le mura e le torri: oppure quei mattoni minuziosi, le imposte aperte o chiuse, la vite che si arrampica – e quegli anditi, che ci introducono nella vita segreta della casa. In questi esterni, c’è un’assenza singolare. Mentre un altro pittore avrebbe fatto risplendere in cielo la luce del sole, Vermeer la abolì quasi completamente. Ora la lascia apparire là in fondo, sulle tenere case e il campanile della chiesa, ma in primo piano la sostituisce con compatte, pesantissime ombre, che gravano sull’acqua del fiume: ora la fa intercettare da una foschia nuvolosa, che fa risaltare soltanto il bianco innaturale della casa dipinta. Nella pittura di Vermeer la luce si nasconde. Fugge il cielo e vuole il chiuso: le stanze interne degli appartamenti, dove soggiornano e scrivono le donne; preferisce i luoghi protetti, dove rifulgere come in una teca (…). Vermeer non aveva mai voluto dirci altro: anche quando dipingeva brocche e perle e lettere e ceralacche e bicchieri pieni di vino. Con tanto scrupolo aveva vissuto: con tanta attenzione e delicatezza aveva posato i colori sui quadri: con tanta esattezza aveva pesato i suoi pensieri sulla bilancia: con tanto equilibrio aveva lasciato che la tenebra invadesse il mondo e le aveva opposto la vittoria della luce; con tanta serenità aveva fatto ciò che qualcuno gli aveva imposto di fare. 3