La Bohème di Parigi: la città nell`opera di François Villon

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La Bohème di Parigi: la città nell`opera di François Villon
La Bohème di Parigi: la città nell’opera di François Villon
di Serena Pompili
Di una bellezza mortuaria, la Parigi di Villon ci sorprende per la sua straordinaria modernità, e
per il suo racchiudere in sé quelle suggestioni che, molti secoli più tardi, l’avrebbero resa
protagonista dell’opera di Baudelaire. Villon non è il primo poeta cittadino (lo avevano già
preceduto Jean de Meung e Rutebeuf), ma Parigi non era mai stata così accuratamente descritta, nei
suoi luoghi come nei suoi personaggi, in un testo poetico1.
Villon ci fa incamminare nei sobborghi della Parigi del Quattrocento, scenario tragico di una
pietosa comédie humaine animata da avidi borghesi, preti corrotti, donne di strada e miserabili
malfattori, tutti accomunati da un destino drammatico e da un attaccamento disperato alla vita, o a
quello che della vita rimane. Distinguiamo già in questo periodo la tipica fisionomia della città che
rimarrà immutata fino ai nostri giorni: la Rive Droite, tradizionalmente la parte economica della
città, il cuore della finanza e del commercio, residenza della vita di corte, e la celebre Rive Gauche,
centro della vita letteraria, universitaria ed artistica di Parigi, il mondo che Villon ha amato e
descritto nei suoi versi.
I temi eterni della tradizione letteraria vengono calati nella realtà transitoria e contingente della
città. Parigi diviene la materia poetica adatta a rinnovare i motivi più abusati della poesia: la morte,
il tempo, l’amore, la fortuna, la figura femminile. «La modernità, è il transitorio, il fuggevole, il
contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile» 2, scriveva Baudelaire ne
Il pittore della vita moderna.
L’eterno cantiere di Parigi offre scene di vita e incontri che quasi casualmente si offrono al
nostro sguardo: vecchie cortigiane che riunite dinanzi un misero fuoco rimpiangono la giovinezza
perduta, giovani clercs che corrono per le strade inseguiti dai sergenti dello Châtelet, la solitudine
degli impiccati alle forche di Montfaucon.
Da un lato, quindi, una materia soggetta allo scorrere del tempo, una città che cambia, vite che
appassiscono velocemente, legami umani effimeri, di cui non rimane altro che qualche breve notizia
negli atti ufficiali. Dall’altro, dei sentimenti immortali che eternamente si ripropongono, tipi
universali, istinti inestinguibili.
Il motivo per cui Villon amò tanto la città è perché questa rappresenta una possibilità di salvezza,
il riscatto fornito da incontri epifanici portatori di verità profonde che solo «nelle pieghe sinuose
1
Mariantonia Liborio, prefazione a Lascito, Testamento e poesie diverse, Bergamo, 1997, Fabbri Editori, p.26.
2
Ch. Baudelaire, Il pittore della vita moderna.
delle vecchie capitali»3 sembrano accadere, dove «tutto, anche l’orrore, si tramuta in incanto».
Nell’universo di Villon, come per Baudelaire, «tutto diviene allegoria» 4. I personaggi che animano
i l Testamento, riflessi inconsapevoli dell’io del poeta, hanno come sole identità i dolori e dalle
ossessioni di chi scrive.
Ma che ne è dell’elemento naturale nella poesia di Villon? Nel Testamento, la natura è
interamente abolita. Non il minimo accenno ad un albero o al più fuggevole riflesso di cielo, non un
ruscello, non un filo d’erba o un fiore. Non solo Villon resta del tutto indifferente allo spettacolo
della natura, ma tratta con cinismo e disprezzo il mito dei piaceri campestri, l’ingenua artificiosità
dei componimenti pastorali. Nessuno spettacolo naturale potrà mai per Villon eguagliare quello così
vario della città e i suoi abitanti. Al suono degli usignoli, Villon preferisce quello ben più imponente
della campana della Sorbona.
Se Baudelaire arriverà a odiare la natura perché conseguenza «di questa contingenza amorfa e
ostinata che è la vita»5, i motivi che animano il disprezzo di Villon sono molto più semplici. La
natura, agli occhi di Villon, è la povertà, la mancanza, l’isolamento: è, infine, (e forse in questo è
più vicino a Baudelaire) la morte. La città è al contrario la vita. È la redenzione, un’occasione di
riscatto.
Il primo motivo che ci viene incontro nell’opera villoniana è quello della morte, tema medievale
per eccellenza. La morte è un’idea che torna ripetutamente all’interno del Testamento. È
un’ossessione, un’idea angosciante dalla quale il poeta non riesce a liberarsi nemmeno nei momenti
apparentemente più spensierati.
La capitale doveva essere un vero e proprio incubo per chi ci viveva: le forche da cui pendevano
i cadaveri degli impiccati erano sparse per le strade come lugubre ammonimento, le esecuzioni dei
condannati avvenivano quotidianamente nelle piazze dove la folla accorreva eccitata, l’odore delle
carcasse, unito alle grida dei giustiziati bolliti vivi negli enormi calderoni, accompagnavano la vita
quotidiana della popolazione.
All’epoca di Villon, sorge nel quartiere di Les Halles il Cimetière des Innocents. Questo
cimitero, chiuso nel XVIII secolo per motivi di igiene, è comunemente chiamato Charnier des
Innocents a causa delle sepolture male effettuate e le enormi fosse comuni in cui i corpi vengono
sommariamente accatastati l'uno sull'altro. Villon si ritrova a passeggiare spesso nel cimitero, come
la maggior parte dei parigini, e si arresta a contemplare quel poco che rimane della materia umana,
3
Ch. Baudelaire, Le piccole vecchie.
4
Ch. Baudelaire, Il Cigno.
5
Jean-Paul Sartre, Baudelaire, 1996, Saint-Amand, Gallimard, p.98.
della sua eventuale passata grandezza. Quel che prova è una malinconia confusa, un sentimento di
pietas di fronte al tragico destino degli uomini. I volti, le personalità, le posizioni sociali, sono
amalgamate in questo immenso polverone di ossa e polveri in cui il ricco e il povero, il saggio e il
folle, divengono un’unica materia. Uno spaventoso anonimato ci attende nell’aldilà.
L’idea della morte come livellatrice non è di certo nuova nel panorama letterario dell’epoca, ma
innovativo è il modo di esprimere questi concetti della tradizione inserendoli in un contesto urbano.
In questo modo il motivo della morte, da astratta allegoria, si carica di una drammaticità tutta
nuova.
Ma sono forse forche di Montfaucon a rappresentare lo spettacolo più agghiacciante in questa
macabra Parigi. Questa particolare forca comprende tre piani, in ognuno dei quali è una fila di
corpi. Ad ogni fila, i corpi penzolanti dei giustiziati si muovono simultaneamente, mossi dal vento e
dalle intemperie.
Gli impiccati sono le figure più disprezzate e derise dalla popolazione. I loro cadaveri vengono
continuamente maltrattati dai passanti, sfigurati con singolare accanimento. Villon, che si trova
spesso ad osservare lo spettacolo delle forche, studia attentamente le figure scarne degli impiccati,
si rivolge loro come a dei fratelli, sicuro che quel tragico destino sarebbe un giorno toccato anche a
lui. L’immagine dell’impiccato è in Villon molto più di una realtà che si sottopone casualmente al
suo sguardo. È un simbolo radicato nella sua coscienza verso il quale prova il più grande terrore ma
allo stesso tempo anche un’inspiegabile attrazione. Quella forca tanto temuta sembra chiamarlo a
sé, inesorabilmente.
Se nel cimitero la meditazione di Villon è ancora spesso convenzionale, risvegliata da uno
stimolo esteriore, ora, nella Ballata degli impiccati, l’idea è talmente radicata nella sua mente, la
visione talmente nitida ed indelebile nei suoi ricordi, che Villon la vede destarsi spontaneamente
dinanzi a sé, forse, come vuole la tradizione, persino nel buio della prigione. Si ritiene che questa
ballata, originariamente chiamata L'épitaffio Villon e conosciuta anche come Fratelli umani, sia
infatti stata scritta da Villon mentre era in carcere, in attesa di quella esecuzione allo Châtelet che
poi sarebbe stata tramutata nell’esilio. Villon dà vita al momento poetico più alto della sua carriera,
profondamente innovativo nel suo contenuto e nella sua ispirazione.
Qui Villon fa qualcosa di assolutamente inedito e sconvolgente. Fa parlare i morti. Non i morti
celebri e «teneramente nutriti»6, ma quelli più infelici, i più tragici, i più soli, i più abbandonati, i
più disprezzati e derisi, coloro che non riescono a trovare alcun riposo, ancora sconvolti dal loro
martirio. Villon cede la parola agli impiccati. Nel medioevo nessuno aveva mai osato tanto.
6
Testamento, v.1763.
«I morti, i poveri morti, hanno dei grandi dolori» 7, scrive più tardi Baudelaire. Al tempo di
Villon, nessuno si era mai domandato se i morti, o meglio, i «poveri morti», potessero soffrire, soli,
nella loro fredda casa, o sulle forche, abbandonati al vento e alla pioggia; nessuno tranne Villon.
Questi poveri morti, indifesi e innocui, non fanno che domandare qualche preghiera da parte dei
passanti. Un appello alla pietà e alla carità cristiana, ma più realisticamente, un atto di umana
compassione, un richiamo al sentire comune di tutti gli uomini. Sia in Baudelaire che in Villon,
questi morti sentono, pensano, avvertono la loro solitudine e il verme che li corrode. Ma quello che
forse più li tormenta è l’ingratitudine di chi è ancora in vita: «dovremmo tuttavia portarle dei fiori»8.
Villon si circonda del silenzio. Il tono si fa grave, religioso, solenne. Si tratta di una preghiera
sommessa per tutti gli oppressi di questo secolo spietato e insensibile:
Frères humains qui apres nous vivez
N'ayez les cuers contre nous endurciz9.
Fratelli umani che dopo noi vivete,
non abbiate contro di noi i cuori induriti.
Sul fondo livido delle forche, si levano le silhouettes livide dei cadaveri appesi. Un alto silenzio
risiede attorno a loro, in netto contrasto con il clamore della folla. Il cielo è quasi del tutto oscurato
dai corvi, che instancabili circondano le povere prede. La loro carne, o quel poco che ne è rimasto, è
stata divorata o è già da tempo decomposta. Tutto si accanisce contro questi miserabili: la perfidia
umana, gli animali, e infine la natura stessa, con i suoi fenomeni atmosferici. L’accumulo dei
supplizi ricevuti dà al componimento un’intensa forza suggestiva, e in questo crescendo, il processo
di disumanizzazione arriva al suo limite massimo: i corpi degli impiccati, che una volta furono
uomini, perdono ogni connotazione umana e divengono una cosa indistinta, senza forma e senza
identità, mummie danzanti al vento, cullate senza sosta dalle intemperie, impossibilitate a fermarsi o
a riposarsi, sospese in un eterno movimento.
Ma a questa toccante preghiera nessuno risponde. Né Dio né gli uomini proferiscono parola.
L’appello si tramuta in un monologo, una richiesta rimasta inascoltata. Il contrasto tra questi uomini
colpevoli, che in vita furono criminali ma che ci vengono presentati come vittime innocenti, e le
«genti oneste», che sotto la loro fredda impassibilità nascondono l’anima di spietati carnefici, è
7
Ch. Baudelaire, La serva dal grande cuore di cui foste gelosa.
8
Ibidem.
9
La ballata degli impiccati, vv.1-2.
anche visivamente evidente, nella descrizione che ne fa Villon: da una parte, gli impiccati che si
esprimono sottovoce, che umilmente si lasciano trascinare dal vento, dall’altra i viventi immobili e
muti, imperturbabili.
Dopo aver trattato il grande tema del tardo medioevo, la morte, tratteremo l’altra grande
ossessione dell’epoca, strettamente legata alla prima, fonte della stessa miseria e dello stesso
frustrato interesse, la donna, «la vera vittima del Medioevo» 10. Spogliata di ogni accento idealistico
o demoniaco, questa figura viene finalmente celebrata in tutta la sua concretezza e la sua forza
espressiva. La donna medievale dovrà attendere Villon, un povero écolier con il rimpianto della
bellezza e della gioventù perduta, per trovare uno sguardo pietoso, intensamente fraterno.
E così, quasi per caso, in un angolo della strada, Villon sorprende le «povere vecchie sciocche 11»,
vecchie cortigiane che sedute per terra si lamentano del loro aspetto ormai ripugnante. Ha inizio il
patetico componimento I rimpianti della bella Heaulmiere. Queste piccole vecchie, disprezzate ed
evitate dalla folla, guardano con immensa rabbia e tristezza le più giovani che hanno ormai preso il
loro posto, e ferocemente invocano Dio, chiedendogli il perché del mostruoso supplizio della
vecchiaia. Come abbiamo già visto nella Ballata degli Impiccati, Villon utilizza i personaggi della
sua opera per rivolgere degli appelli a Dio. Ma queste richieste d’aiuto rimangono sempre
inascoltate, e i personaggi del Testamento, come il loro autore, sono lasciati sempre più soli alla
loro miseria.
Tra queste indistinte vecchie, giganteggia l’immagine della Belle Heaulmière, che ne diviene la
portavoce. Heaulmiere ci narra la storia della sua giovinezza. In passato non vi era uomo che non
avrebbe rovinato tutta la sua fortuna per lei. Ora, al contrario, persino i vagabondi e i mendicanti la
rifiutano, disgustati dal suo aspetto. Eppure, Heaulmière non è riuscita a trarre pieno vantaggio dalla
sua celebre bellezza, a causa di uno spietato sfruttatore che fingeva di amarla solo per prendere
possesso del denaro guadagnato. Nonostante venisse continuamente brutalizzata, privata della sua
dignità, la povera Heaulmière non riusciva a non amarlo. Ora che lui è morto, Heaulmière si ritrova
sola, con i propri rimpianti. Tutto quello che le rimane della grandezza passata è un magro riflesso
in uno specchio, di fronte al quale ella diviene folle di rabbia.
La vera tragicità delle vecchie descritte da Villon, infatti, sta proprio nella loro lucida
disperazione, nella chiara consapevolezza della loro miseria. Non ci troviamo più di fronte a
vecchie deliranti o inebetite dalla loro età, ma di donne la cui vecchiaia non ha intaccato lo spirito,
imprigionate in un corpo decrepito. La crudeltà di quel Dio che viene invocato disperatamente, è di
aver lasciato loro il senno, la forza di ribellarsi al proprio destino. Queste vecchie sono ancora
10
Italo Siciliano, François Villon et les thèmes poétiques du Moyen Age, 1934, Parigi, Nizet, p.349.
11
Testamento, v.526.
bisognose di amore e considerazione, il che le rende ancora più patetiche nella loro ricerca di
tenerezza da parte dei passanti.
L’ultima strofa è una veloce istantanea che si offre a noi prima di sparire tra le vie affollate di
Parigi. Vediamo la protagonista della poesia e le sue vecchie compagne sedute in circolo, per terra,
dinanzi un misero focherello che riesce a malapena ad illuminare la scena e i loro volti rugosi. Esse
sono accovacciate, raggomitolate su loro stesse, e teneramente si tengono vicine, si stringono le une
alle altre per riscaldarsi. Heaulmière è la sola a parlare: le altre annuiscono sommessamente,
grugniscono frasi incomprensibili.
Ainsi le bon temps regretons
Entre nous, pauvres vieilles sottes,
Assises bas, à croppetons,
Tout en ung tas comme pelottes,
A petit feu de chenevottes,
Tost allumées, tost estainctes;
Et jadis fusmes si mignottes!12
Cosi rimpiangiamo i vecchi tempi
Tra di noi, povere vecchie sciocche,
Sedute in basso, accovacciate,
Raggomitolate in un mucchio,
Davanti un piccolo fuoco di canapa
Un po’ acceso, un po’ spento,
Noi che un tempo fummo così belle!
La condizione di queste vecchie è talmente denigrata che esse non occupano più uno spazio
vitale, sono costrette a sedere per terra, al freddo, in un piccolo angolo ristretto. Per loro, non c’è
più posto nella società. Sono dei fantasmi che vagano per la città, invisibili agli occhi dei più, al
margine del tempo e dello spazio, ma soprattutto della vita, simili a quegli esseri «singolari,
decrepiti e affascinanti»13 di cui parlerà più tardi Baudelaire, che tornano ad essere bambine, nelle
loro piccole bare. Esse sono lo scherno della natura che una volta risplendeva nei loro corpi, ora
ridotti alla stessa fragilità di quel flebile fuoco fatto di paglia con cui invano cercano di riscaldarsi.
La tragica e dignitosa figura di Heaulmière, il suo alto discorso ancora pieno di quel vigore
giovanile che tanto rimpiangeva, si riduce a quest’ultima immagine, un «tetro gruppo senile», un
12
Testamento, vv.525-531.
13
Ch. Baudelaire, Le piccole vecchie.
«informe groviglio»14 appena rischiarato, troppo stanco e troppo disilluso per rimproverare Dio
della sua assenza.
Villon fissò così attentamente questi miseri corpi ristretti, da scorgere al di sotto del loro aspetto
uno sguardo virgineo, un’antica innocenza, ben antecedente alla loro entrata nella mondanità. Nella
vecchiaia, esse tornano ad essere delle fanciulle, per le quali forse anche Villon avrà gustato,
osservandole, «dei piaceri clandestini»15.
In quest’opera di donne perdute, vecchie cortigiane, poveri impiccati, criminali e falsi devoti, in
un universo in cui la vita si consuma tutta nel basso, nella transitorietà della vita terrena, in
atmosfere torbide e animalesche, in un chiassoso carnevale nel quale perdere momentaneamente la
concezione della propria miseria, accade che ci venga incontro, in brevi momenti, la figura umile
ma solenne della madre, a rischiarare fugacemente l’oscenità dei versi precedenti. Quasi una figura
salvifica, una Beatrice tutta umana che viva del suo affetto materno viene a soccorrere il figlio nei
momenti di più profonda disperazione.
Di lei non sappiamo molto, se non quel poco che ci viene detto da Villon. Era una donna molto
umile, povera e illetterata, devota al culto della Vergine. Spesso si recava nella chiesa locale dove
pregava per la sorte di suo figlio. Di fronte a questa figura così pura e misericordiosa, Villon
esamina sé stesso e la sua vita turbolenta, i dolori e le vergogne che le ha causato, e umilmente
ammette le sue colpe.
Umiliato e disprezzato da tutti, Villon cerca ingenuamente la madre e si ripara, corpo e anima,
nella sua immagine, che diviene quella di un castello, una solida fortezza in grado di difenderlo dal
mondo intero. Alla povera madre Villon dedica una preghiera, il momento più alto della sua poesia:
l a Ballata per pregare la Nostra Signora. In questo componimento, come era avvenuto per la
vecchia Heaulmière o per gli impiccati, Villon offre la parola alla madre, che rivolge una toccante
preghiera alla Vergine.
La povera madre chiede alla Vergine di intercedere presso suo figlio così da far assolvere i suoi
peccati, ma è evidente che i peccati di cui si sta parlando sono in realtà quelli ben più gravi di
Villon. In questo flebile mormorio, sentiamo tremare la voce del figlio.
A votre Fils dites que je suis sienne;
De lui soient mes péchés abolus16.
14
Le Lais, le Testament et les Ballades a cura di Ferdinando Neri, 1944, Torino, Chiantore, p.85.
15
Ch. Baudelaire, Le piccole vecchie.
16
Testamento, vv.883-884.
A vostro figlio dite che sono sua
Che da lui vengano assolti i miei peccati.
Il tono dimesso ricorda il mormorio dell’orazione, e dà un senso di familiarità all’intera
preghiera. Tra donne, tra madri, non c’è bisogno di formule solenni. Ci si può capire sulla base
dell’amore che si prova per i propri figli e il naturale bisogno di proteggerli. Le parole sono appena
sussurrate, rotte dall’emozione, simili a quell’indistinto brusio di voci femminili che si poteva
ascoltare nelle antiche cattedrali.
Ma come sempre accade per tutti i personaggi che si incontrano nel Testamento, anche
l’immagine sacra della madre deve essere calata nella realtà contingente della città. E così, Villon la
sorprende in una vecchia parrocchia, china a pregare nella penombra appena rischiarata dalle vetrate
gotiche, talmente concentrata sul suo proposito da dimenticare tutto il resto. Il suo sguardo è però
rapito dagli affreschi della chiesa, raffiguranti l’inferno e il paradiso. L’immagine del paradiso è
chiara, luminosa, consolante: arpe e liuti vengono suonati da angeli sorridenti. Nell’inferno, i
dannati bruciano vivi tra le fiamme.
Femme je suis pauvrette et ancienne,
Qui riens ne sais ; oncques lettres ne lus.
Au moutier vois, dont suis paroissienne,
Paradis peint, où sont harpes et luths,
Et un enfer où damnés sont boullus:
L'un me fait peur, l'autre joie et liesse17.
Sono una donna poveretta e anziana
Che non sa niente, che non ha saputo mai leggere una lettera.
Vado nella chiesa nella quale sono parrocchiana,
Qui vedo dipinto il paradiso, con arpe e liuti
Ma anche l’inferno in cui i dannati bruciano.
Questo mi fa paura, l’altro mi dà gioia e lietezza.
La visione del paradiso le dà conforto e speranza, quella dell’inferno la terrorizza, e il timore per
i peccati del figlio si fa più incombente di fronte a quelle immagini atroci. Questa ingenua
contemplazione, questi semplici fenomeni emotivi scaturiti da una realtà esteriore, sono
emblematici di una fede popolare, spontanea, ben lontana dall’erudizione del sapere teologico. La
passione della povera madre, come quella di un bambino, si accende alla vista di rappresentazioni
visive, che danno una dimensione concreta al sentimento astratto della fede.
17
Testamento, vv.895-897.
Théophile Gautier, che amò particolarmente questa ballata, la associa a «una di quelle vecchie
pitture su fondo d’oro, di Giotto o di Cimabue», il cui lineamento è «semplice e ingenuo, un po’
secco, come tutte le cose primitive»18. E attraverso questa primitività, questa caratteristica forza
visiva, Villon dimostra di essere in grado di rappresentare tutti gli ambienti e le atmosfere di quella
variegata umanità che popola la sua città e il suo tempo.
Ma dopo qualche verso, il tono cambia. Dalla celebrazione della vita, dalla luce della fede e della
speranza, dall’immagine di un’umile e degna vecchiaia, dall’amore puro e disinteressato tra madre e
figlio, arriviamo, poco dopo, alla negazione della vita, alla distruzione compiaciuta della bellezza,
all’amore mercenario, bestiale. Eros e Thanatos.
Il tono è preparato all’arrivo dell’atroce Ballata della Grossa Margot. Dopo varie delusioni
amorose, Villon trova conforto nelle filles de joie, donne di strada, che gli sono «più dolci19» delle
altre. Ma qui l’atmosfera è ben diversa dalla visione patetica delle vecchie cortigiane. Ogni
sentimento viene qui abolito. L’amore diviene un istinto da soddisfare in un turpe commercio.
L a fille de joie occupa la sensibilità di Villon in modo particolare. È una figura che ha avuto
accanto per tutta la vita. Il suo sguardo per lei è un misto di amore e commiserazione, di odio e
invettive, ma mai indifferente. Villon non riesce a rimanere calmo nel trattare questa materia: si
appassiona, la difende e la insulta, ma infine la assolve sempre, ci spiega perché è arrivata fin lì.
Villon ci trascina con sé nell’atmosfera torbida di un bordello nel quale si immagina socio e
sfruttatore di Margot. «Il mimo dell’abiezione 20» definisce il Neri questa ballata. La crudele figura
del ruffiano, Villon deve averla conosciuta molto da vicino. Ed è così che la mimesi nel ruolo può
avvenire con tutto il crudo realismo con il quale questa ballata riesce ancora a colpirci, dopo tanti
secoli. Quando vede la sua Margot arrivare senza abbastanza denaro, Villon fa quello che deve aver
visto fare tante volte dai ruffiani: la minaccia, la maltratta, la percuote senza pietà. Ma niente di
drammatico in questa scena: Margot risponde con altrettante oscenità, in un riso perverso.
Villon sprofonda con piacere nella sordidezza, e trascina con sé lo sguardo inerme del lettore,
che diviene un impotente voyeur, disgustato e allo stesso tempo attratto dal degrado che lo circonda.
Un senso di lucida disperazione permea l’intero componimento: una smorfia di dolore ed ebbrezza,
un guardarsi agire nello sporco, in modo feticistico, tra un senso di nausea ed esaltazione. L’amore
diviene un istinto, un commercio nel quale ognuno preserva i propri interessi; un mondo bestiale, la
sospensione di ogni sembianza umana.
18
T. Gautier, Les Grotesques, pp.37-38.
19
Testamento, v.669.
20
F. Neri, op.cit., p.187.
La critica ha per lungo tempo sottovalutato la Ballata della Grossa Margot collocandola al
livello dei numerosi esempi di poesia goliardica medievale che recavano lo stesso tono e le stesse
ambientazioni. La critica moderna però, e in particolare il poeta Francis Carco, hanno
profondamente rivalutato l’intero senso della ballata. Scrive Carco come questa mostruosa ballata
sia alla base stessa dell’opera di Villon, e addirittura corrisponda, nell’architettura del Testamento,
alla Ballata per pregare la Nostra Signora. Questi due momenti tanto diversi tra loro, collocati
simmetricamente l’uno al primo terzo, l’altro al secondo terzo dell’opera, sono per Carco due
pilastri indispensabili a quel confuso e vario edificio che è il Testamento. Senza di essi, l’intera
costruzione crollerebbe. Allo stesso tempo, i due componimenti costituiscono le due speculari
tendenze che ogni uomo porta in sé: l’angelo e la bestia, sacro e profano.
La condizione umana descritta da Villon è quanto mai misera. Il mondo come prigione e esilio,
la gioventù come un’ebbrezza passeggera, la vecchiaia, che dovrebbe garantire riposo e tranquillità,
si tramuta in un’eterna insonnia nella quale diveniamo spettatori della nostra decadenza. Nonostante
tutto, la vita continua a serbare un suo fascino e una sua bellezza. Cosciente della morte e della sua
ombra che ci sovrasta, preso atto di cosa ne sarà del nostro corpo e della nostra identità una volta
deceduti, è ancora possibile, per Villon, apprezzare i piaceri che la vita ci offre, quei piccoli
frammenti di bellezza sparsi nella città.
Al termine di un’opera oscura, a tratti vera, a tratti frutto di compiacimenti e inganni, ma senza
dubbio profondamente sofferta, assistiamo turbati a quella che sta per divenire un’orrenda
mascherata. Distribuiti tutti gli equivoci doni ai legatari, a Villon non resta che mettere per iscritto
le disposizioni per la sua sepoltura. Lo vediamo allora dettare ghignando un grottesco epitaffio: alla
morte come amara e temuta compagna succede, man mano che questa si avvicina, una caotica
buffonata che travolge tutto e dove ogni logica è deformata.
Dinanzi a sé sfilano confusi i fantasmi della sua vita, tutti quei personaggi che hanno popolato la
sua opera, alcuni autentici, altri fittizi. Una folla variopinta e vociante, ora grave, ora scanzonata,
forma il gran carnevale della sua esistenza. Filles de joie, preti e ordini mendicanti, flâneurs,
giudici, usurai, ladri, lenoni, borghesi, tutti gli attori inconsapevoli della farsa organizzata da Villon
si accalcano attorno al loro autore «quasi a chiedergli il senso di quello spettacolo, i motivi di
quell’insolito consesso di vivi, di morti e di mai esistiti» 21. Villon non dimentica nessuno. E in
questa folla di volti goyeschi, dove risuonano risa isteriche, dove i corpi sono ammassati
bestialmente e dove le interazioni rispondono ai soli istinti, Villon scorge se stesso, personaggio tra
i personaggi, poeta e attore, grottesco saltimbanco.
Il congedo di Villon, nella sua grossolana esaltazione, ci appare come un ultimo disperato
tentativo di esorcizzare quella morte che nel proemio perseguitava ogni suo verso. Tutto il
21
Luigi de Nardis, prefazione a François Villon, poesie, 2009, Milano, Feltrinelli, p.xxix.
Testamento si regge e dipende da questo finale, vera e propria struttura portante del testo. Se
l’introduzione al Testamento ci proponeva l’immagine dell’incontro tra Dio e l’uomo peccatore, tra
la figura sacra della madre e quella del figlio colpevole, a conclusione dell’opera, possiamo vedere
quale sia percorso umano intrapreso da Villon e come la storia di quest’inevitabile decadenza si
applichi a quella dell’uomo moderno: dalla morte tragica e reale alla morte burlesca e apparente,
dall’onnipresenza di Dio che, se pure non si manifestava direttamente, veniva sempre invocato nel
suo paradosso, alle ultime ballate che terminano nella sua assenza totale, dall’incontro con l’altro
causato da un sentimento di empatia, alla negazione di ogni relazione umana che non sia basata su
egoismo e sopraffazione.
La storia di una vita umana degenera in un volgare Mardi Gras, a compimento di un’opera che si
era aperta nel segno della più alta meditazione sulla morte e si conclude in un funerale farsesco. La
catarsi finale avviene, paradossalmente, nell’abiezione. Si tratta di una visione pessimista, che ci
mostra la crisi d’identità dell’individuo in questo Medioevo ormai morente.